Michel Foucault. Genealogie del presente

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Michel Foucault. Genealogie del presente
ESPLORAZIONI
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AA.VV.
Michel Foucault
Genealogie del presente
a cura di Paolo B. Vernaglione
Intervista a Michel Foucault di Michael Bess
Intervista a Daniel Defert di Daniele Lorenzini e Orazio Irrera
Laura Cremonesi
Daniele Lorenzini
Orazio Irrera
Martina Tazzioli
Paolo B. Vernaglione
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© 2015 La Talpa – manifestolibri srl
Via della Torricella 46 – Castel San Pietro Romano (RM)
ISBN 978-88-7285-782-3
www.manifestolibri.it
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Indice
Introduzione
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PRIMA PARTE
Cura di sè e askesis nell’ultimo Foucault:
sulle possibilità di un’etica attuale
Laura Cremonesi
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Etica e politica di noi stessi.
Riflessioni su un uso possibile dell’ultimo Foucault
Daniele Lorenzini
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Michel Foucault e la critica dell’ideologia
nei Corsi al Collège de France
Orazio Irrera
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Interruzioni di confine e soggettivazioni agiuridiche.
Michel Foucault negli spazi del presente
Martina Tazzioli
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La natura umana come dispositivo.
Foucault e l’epoca moderna
Paolo B. Vernaglione
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SECONDA PARTE
Il potere, i valori morali e l’intellettuale.
Un’intervista con Michel Foucault
Michael Bess
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Volontà di verità e pratica militante in Michel Foucault.
Intervista a Daniel Defert
Orazio Irrera e Daniele Lorenzini
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NOTA
EDITORIALE
L’intervista di Michael Bess, al tempo dottorando al Dipartimento
di Storia della University of California, Berkeley, a Michel Foucault
fu rilasciata il 3 novembre 1980. Foucault si trovava a Berkeley perchè, qualche giorno prima (il 20 e il 21 ottobre), aveva pronunciato
le “Howison Lectures”; un paio di settimane più tardi (il 17 e 24 novembre), pronunciò due conferenze molto simili anche al Dartmouth
College. Di queste conferenze è ora disponibile la traduzione italiana: M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sè. Due conferenze
al Dartmouth College, a cura di mf / materiali foucaultiani, Cronopio,
Napoli 2012.
L’intervista è stata condotta originariamente in francese e pubblicata,
in lingua inglese, su «History of the Present», n. 4 (1988), pp. 1-2,
11-13. Alcuni estratti erano già apparsi in un articolo scritto da Bess
e pubblicato il 10 novembre 1980 sul «Daily Californian», il giornale
degli studenti di Berkeley. La versione originale, in francese, è stata
recentemente pubblicata in M. Foucault, L’origine de l’hermèneutique
de soi. Confèrences prononcèes à Dartmouth College, 1980, a cura di
H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2013, pp. 143-155.
L’intervista a Daniel Defert, sociologo, presidente dell’associazione
AIDES, compagno di Foucault e curatore dei Dits et ecrits e dei Corsi
al Collège de France è stata realizzata il 9 novembre 2011 da Orazio
Irrera e Daniele Lorenzini.
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio la redazione della rivista “Materiali Foucaultiani” per la
pubblicazione dell’intervista a Foucault di Michael Bess e dell’intervista a Daniel Defert di Daniele Lorenzini e Orazio Irrera, oltre ad aver
animato il seminario da cui questo libro ha preso vita.
P.B.V.
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INTRODUZIONE
Paolo B. Vernaglione
L’occasione di questa pubblicazione è stato il trentennale della scomparsa di Michel Foucault. Nel 2014 in
tutto il mondo convegni e libri hanno reso testimonianza
dell’opera di chi, a ragione, può essere considerato tra i
grandi maestri del pensiero. Ma l’occasione non ha fatto
e non può fare di Foucault un “classico” della filosofia,
o dell’epistemologia; tantomeno la sua vasta produzione
può essere ascritta all’area accademica – benchè ormai
università e centri di formazione, luoghi di produzione
e condivisione del sapere e grandi editori abbiano fatto
dell’autore dei Corsi al College de France un “classico”
di successo. Segno della proliferazione di eventi intorno e
su Foucault è la ormai sterminata bibliografia, in cui ogni
questione dell’ “attualità” è interpretata alla luce del pensiero dell’autore di Nascita della clinica e dei corsi sulla
biopolitica e la governamentalità. Dalla congerie di studi,
incontri e pubblicazioni, si è distinta la meritoria pubblicazione in Francia lo scorso anno del corso del 1973 La
societè punitive, che, prima ancora di indicare la possibile
relazione con le cose del presente, segna la distanza di idee
e metodo da generiche e in molti casi fuorvianti attualizzazioni.
La figura di Foucault infatti, come accade a quei filosofi che da una posizione decentrata riscrivono categorie
e forme del sapere, vive in questi anni una paradossale
restituzione che somiglia alla vendetta postuma di un pensiero del fuori e di una cultura della marginalità: essere
indagato a partire dalle scansioni temporali che storici e
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filosofi della politica hanno assegnato ai grandi eventi e
ai passaggi d’epoca, dall’antichità, all’epoca classica, alla
modernità. Con Foucault infatti la pratica della storia ha
aperto il pensiero, infrangendo le barriere disciplinari e gli
specialismi, per catturare un’ontologia del presente di cui
oggi si tenta una sbrigativa valorizzazione.
Del resto il paradosso di un archeologo non può che
essere di questa portata e assumere questa immediatezza,
laddove un sapere non si dà tutto intero, incorniciato nelle
categorie che lo designano, ma si offre nelle discontinuità
di un’emergenza sintomatica. D’altra parte produrre discorso nell’orizzonte di una critica radicale del sapere, dei
rapporti di potere e delle forme di soggettivazione comporta comunque la forte reazione della stessa modernità
che è stata criticata e messa in scacco con gli strumenti
concettuali che le appartengono.
Da questa particolare postura, assunta nell’elaborazione di un metodo genealogico, a partire dagli scorsi anni
Sessanta, si stacca la problematizzazione dello strutturalismo e della fenomenologia, e deriva quello sguardo trasversale sul sapere e la storia che ha molto in comune con
il gesto sovversivo di Nietzsche nei confronti della metafisica. L’”uso” che è stato e continuerà ad essere fatto del
pensiero di Foucualt costituisce, non solo per questi motivi, il lascito più importante e produttivo per le generazioni a venire. Infatti movimenti di contestazione, comunità
gay, teorici politici radicali, nonchè quei rari filosofi che
assumono l’archeologia dei saperi e del linguaggio come
orizzonte complessivo di ricerca, e la genealogia come
metodo analitico, hanno continuato l’opera foucauldiana,
rendendo esplicito l’intreccio inestricabile di pensiero e
prassi e sgombrando in via definitiva il campo sia dall’ideologia dell’intellettuale come figura separata dalla società, ideologia resistente fino a Sartre, sia dall’idea che
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la militanza politica escluda la riflessione e sia l’orizzonte
esclusivo dei conflitti agìti.
D’altra parte la ricerca e il dibattito intorno alla follia, all’organizzazione discorsiva dei saperi, ai dispositivi
disciplinari e alle forme di soggettivazione, vive nella contraddizione che si è aperta tra ricezione del pensiero di
Foucault e rilettura più o meno filologica della sua opera. Ricerca e confronto che hanno impegnato almeno tre
generazioni di studiosi, militanti e ricercatori, prima di
acquisire il rango di tematiche del presente, con l’inevitabile genericità che comporta l’adattamento di questioni inscritte nella carne viva di esistenze compromesse, ad
un’attualità che le respinge. Così, mentre negli anni Sessanta dello scorso ‘900, il metodo inaugurato da Le parole
e le cose e L’Archeologia del sapere si scontrava con la tradizione storicista e lo strutturalismo, risultando di difficile
penetrazione anzitutto in Francia, negli anni Settanta la
stagione dei conflitti operai e studenteschi produceva un
controeffetto sul lavoro che Foucault sviluppava sulle istituzioni disciplinari e la microfisica del potere, annodando
riflessione e pratica politica, teoria e analisi delle contraddizioni del capitalismo nel confronto con il pensiero di
Marx, letto a sua volta per la prima volta fuori e contro i
“marxismi”.
Laddove poi la modernità assumeva l’abito e il ritmo
della “modernizzazione”, negli anni Ottanta, la grande riflessione di Foucault sulle pratiche di soggettivazione, la
parresia, la cura di sè e il governo dei viventi, rendevano
esplicito il rapporto essenziale tra l’ “inattualità” del metodo archivistico e la registrazione del presente, dotando
il pensiero di un formidabile strumento di penetrazione di
una realtà considerata debole perchè postideologica. Ciò
che è successo dopo, con la pubblicazione progressiva dei
Corsi, dell’impressionante mole dei Dits et Ecrits e con la
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progressiva pubblicazione delle conferenze e degli interventi degli anni Ottanta, di cui abbiamo anche parziale
testimonianaza on line con le registrazioni audio e video,
ha contribuito in larga misura a rendere popolare l’ascolto
di Foucault, aprendo quel piano concettuale e tematico
che va sotto il nome di “biopolitica”. Rimane questo dunque a tutt’oggi il luogo più discusso e rielaborato del suo
pensiero.
Sommersi dalla sterminata produzione di tematiche
foucauldiane, nell’acquisizione in molti casi poco rispettosa della lettera del testo, sentiamo l’esigenza di ricollocare
le parole di Foucault sul piano in cui sono state prodotte,
evitando sia le premure di una risoluzione immediatamente pratica del suo lavoro, sia la riduzione istituzionale che
un’acribìa filologica malriposta esercita sul suo pensiero.
Vale in tal caso la rivendicazione di radicalità del metodo
genealogico, soprattutto riguardo all’analisi delle forme
di potere e delle pratiche di soggettivazione, per sottrarre
il pensiero di Foucault alle infìde supposizioni sulle simpatie per il neoliberismo che egli avrebbe indirettamente affermato nell’indagine sulla governamentalità. E vale,
nell’altro caso, la sottrazione del concetto di biopolitica
all’uso generico che se ne è fatto per nominare il dominio
integrale sulla vita, a prescindere dai differenti regimi di
verità che il paradigma comporta.
Dislocare il pensiero e l’opera di Foucault nel campo di tensione circoscritto dai due limiti appena accennati non significa peraltro evitare il confronto con le interpretazioni che di essi si sono finora succedute; anzi, a
partire dall’acquis dell’interrogazione sulla sovranità, sulla
soggettività e sulla ricostruzione delle forme che il sapere
ha assunto nella modernità occidentale, questo bisogno di
ricollocazione esige una rielaborazione della molteplicità
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tematica dell’opera foucaldiana. E comporta genealogicamente un compito per le attuali generazioni, compito
che ha a che fare con la promessa che l’opera di Foucault
reca, di essere opera dell’avvenire, di dissolvere cioè i confini temporali che la fanno appartenere al XX secolo.
Qui, in questa piega della prassi teorica e del fare critico, ove la vita diviene forma e la volontà di sapere esperienza vissuta riconosciamo l’eccezionalità, l’unicità ma
anche il rigore che comporta il “dire il vero” sulla cultura,
sui modi di soggettivazione e sulle modalità dell’esser governati. È quanto ci consente in scarsa misura il presente
che, per contrasto, affida le proprie chances di innovazione all’annuncio omologante di un regime di valutazione,
all’obbligo di essere imprenditori di sè stessi e alla promessa di benessere insita nella verità dei mercati, di cui già
da tempo abbiamo sotto gli occhi gli effetti catastrofici.
Solo che, a differenza dei nostalgici della regolazione delle
istanze di redistribuzione, invece di strapparci i capelli e
ordinare il nuovo con la vecchia propoganda del “fare”,
ridiamo con Nietzsche e con Foucault tentando una gaia
scienza che porti a compimento la crisi che attraversiamo.
Perchè sappiamo che con essa viene scritto un episodio
rilevante della fine dell’Uomo.
Questa consapevolezza e questo stato d’animo di riflessiva eccitazione hanno dato luogo all’iniziativa di questo testo: tre giornate di studio al Dipartimento di Filosofia della “Sapienza”, Università di Roma, animate dalla
redazione della rivista “Materiali Foucaultiani”.
È grazie a loro infatti che il testo si è arricchito di
un’intervista a Foucault di Michael Bess, di cui rileviamo
la pregnanza rispetto alle argomentazioni dei diversi saggi,
e di una conversazione che Daniele Lorenzini e Orazio
Irrera hanno avuto con Daniel Defert, che contribuisce
a farci scoprire quanto sia estesa l’area di interesse della
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ricerca foucaultiana: dall’archeologia delle formazioni discorsive, che segnano il passaggio dall’epoca classica alla
modernità, ai dispositivi disciplinari e alle vicende degli
uomini infami; dalle pratiche di resistenza alla genealogia
delle forme di governo dei viventi; dalle grandi trasformazioni nella scrittura e del concetto di autore alla fenomenologia dell’arte; dalla funzione della filosofia in rapporto
a sè stessa, alla sua storia e alla storia delle scienze umane,
ai rapporti tra storia e genealogia.
L’orizzonte della ricerca foucaultiana, la cui condizione d’esistenza è data dalle relazioni segrete e persistenti
tra l’insieme delle conoscenze acquisite e il fondo di “non
sapere” in cui vive la superfice invisibile delle positività e
delle opere, risulta disponibile quanto più ci si libera delle
forme della rappresentazione del discorso, delle strutture
d’identificazione con una cultura, un profilo critico, una
biografia. La difficoltà nel risalire il multiforme pensiero
di Foucault, che apre contraddizioni invece di proporre
schemi sistematici, consiste infatti nel processo a cui si è
chiamati per liberarsi dall’individuale volontà di sapere,
per accedere a quella soglia di dispersione in cui le cose,
non solo le parole, ci chiamano ad una sperimentazione,
un uso non sistematico, un esercizio continuo di ridefizione e riarticolazione; e in quest’impresa misuriamo il limite
a cui possiamo condurre pratiche di desoggettivazione.
Infatti nel leggere il pensiero di Foucault che è alla
base del metodo genealogico, troviamo lo squilibrio permanente tra la volontà di sapere (in cui possono o meno
articolarsi delle controcondotte) e l’esteriorità dei suoi
oggetti, laddove il trascendentale si realizza e si dissolve.
Ove questo si forma nel pensiero implicito di un soggetto della conoscenza (come di una sovranità politica e di
una verità che coincide con l’umanesimo) e si disintegra
nell’illusione dell’imputazione, quando scopriamo che l’e12
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spressione si produce nel luogo vuoto dell’attività, dell’opera, della produzione. Non si tratta dunque di cambiare
punto di vista, rimanendo all’interno delle coordinate in
cui il linguaggio è esprimibile, la parola comuncabile e il
discorso accettato. Si tratta di rilanciare la forma anonima
del pensiero, di interpretare la permanenza inaccettabile
di Nietzsche come ciò che eccede una volta per tutte la
storia della filosofia, che fa esplodere la contraddizione
che già Marx aveva indicato tra il pensiero e la prassi; di
accendere la miccia nel luogo dell’”io” per far esplodere il
soggetto di ogni legge.
Questo movimento, che scarta un’interpretazione
dell’opera foucauldiana pronta a cogliere i nessi diretti
con la realtà del capitalismo, per percorrere il perimetro
delle implicazioni della forma neoliberale nelle formazioni
discorsive, nei rapporti di potere e nei modi di veridizione in cui è implicata la soggettività, cerca di restituire un
Foucault non schiacciato sulle necessità del presente, della sua contestazione e dell’ambito in cui può prodursi la
critica della quotidianità.
Vogliamo così marcare la distanza dell’archeologia
dalla teoria critica, non per contrapporvela ma per distinguere la prima, che occupa l’analisi della generalità delle
stratificazioni discorsive e dei rapporti di produzione e riproduzione dell’umano, dalla seconda, che ne è parte, e
che, in quanto tale, rileva l’economia politica e i rapporti
di produzione nella parzialità di una sineddoche. La teoria
critica costituisce per Foucault l’oggetto di analisi di cui
è necessario anzitutto fare la genealogia, cioè considerare
a quali condizioni e in quale costellazione storica essa si
produce, quale regime della critica mette in campo e quali
sono i suoi limiti.
Questo confronto si evince per esempio nelle argomentazioni esposte al convegno su Marx, Nietzsche e
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Freud del 1964, nelle considerazioni sulla scuola di Francorforte nel corso Nascita della biopolitica, e nel confronto con Althusser, nell’esposizione critica degli “apparati
ideologici di Stato” come qui rileva Orazio Irrera. In questi episodi Foucault chiarisce come, nel regime dell’interpretazione in cui Marx ha indagato il capitale, la totalizzazione del concetto di Stato che Adorno e Horkheimer
hanno elaborato, non permette quell’analitica del potere
capitalistico in cui il rapporto di sfruttamento si realizza
effettivamente. D’altra parte, nella dirompente lettura di
Marx fatta da Althusser, che provvedeva a relativizzare e a
rendere, almeno fino ad un certo punto inoperosi i “marxismi”, la centralità dell’ideologia nell’analisi dei processi
di accumulazione riduce all’unica componente del dominio l’insieme dei rapporti di produzione. Laddove invece
si tratta di riorientare la lettura del Capitale, Foucault intravede nel secondo libro, dedicato alla circolazione, un
nuovo punto di attacco, utile, a partire dagli scorsi anni
Settanta, a indagare la nuova forma del valore di scambio
assunta dal capitalismo industriale. Quanto questa pista
di lavoro, corroborata dalla rilettura dei “Grundrisse”,
sia oggi praticabile per leggere gli effetti catastrofici del
“post-fordismo”, è nell’evidenza del regime linguistico
dell’economia finanziaria, nei modi che la distinguono
dalla sua fase moderna.
Non si tratta tuttavia di opporre un capitalismo fondato su una base materiale di produzione di ricchezza ad un
altro che mette al centro i processi di finanziarizzazione;
bensì di rileggere Marx (hegelianamente, ma non dialetticamente?) non “come sostanza ma come soggetto”; cioè,
una volta dissolte le nebbie del riformismo economicista e
dei marxismi, di interpretarne l’opera come scardinamento dell’ideologia lavorista e come scoperta delle possibili
e mutevoli forme di soggettivazione che la classe “prole14
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taria” può assumere nelle varie epoche storiche. In questo
senso la genealogia del liberalismo consente un’apertura
di campo all’insieme di motivazioni teoriche, storiche e di
sapere di cui sono intrisi i rapporti di produzione, senza
che essi siano intesi come base strutturale del mondo della
vita. Ed è proprio l’intreccio di biopolitica e liberalismo,
rilevato nel corso Sicurezza, Territorio e popolazione e che
ritorna nelle lezioni “americane”di Foucault degli anni
Ottanta, alla luce di un’analitica della soggettività, che
notiamo il lascito più produttivo e più ricco per tentare
un’ontologia del presente. È quanto evidenzia Martina
Tazzioli, che considera in particolare il concetto di “interruzione” come sintomo ed evento di quelle forme di
soggettivazione, antiistituzionali, marginali e della mobilità globale, ieri delimitate dai confini dello stato-nazione e
su cui si esercitano istituzioni disciplinari (il manicomio,
la prigione, la scuola, la clinica), e oggi estese oltre i confini nazionali e divenute soggetto di “politica mondiale”
per dirla con Benjamin; cioè soggettivazioni che sono indicatori storici di una prassi di disidentificazione, di rotture e sovversioni, rivolte e insurrezioni che disegnano un
orizzonte affatto diverso rispetto a quello delle moderne
rivoluzioni.
In questo passaggio, puntualmente registrato da Foucault ne La societè punitive, sono in gioco il diritto e i rapporti tra diritto e non diritto, in cui scopriamo il vuoto
della sovranità sia come realtà che come concetto della
filosofia politica, laddove lo Stato non totalizza più le funzioni del potere, ma delocalizza il monopolio della violenza in rapporti di forza in cui si organizza e si disorganizza
continuamente il governo dei viventi. Se dunque la genealogia delle discontinuità storiche e delle rotture epistemologiche ci presenta un panorama dei rapporti sociali assai
distante da quello proposto dalla sociologia e dalla teoria
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politica “mainstream”, – ciò che troviamo al fondo delle
lacerazioni e delle aberrazioni di cui è fatta la modernità,
non è solo il frutto maledetto della produttività e dell’azione di apparati di cattura che operano la continua imposizione di modelli sociali su una popolazione soggetta; ma
una forza “passiva” di soggettivazione che accompagna,
insidia e limita il potere sovrano.
Tuttavia, a differenza del kathècon, evocato da Carl
Schmitt quale forza storica (il cristianesimo, ma anche le
masse, il popolo, la classe in una teoria politica sovranista)
che contiene una potere per definizione in stato d’eccezione, per Foucault interruzioni, discontinuità e rotture sono
da attribuire a quel divenire soggetto in cui si intrecciano
permanenza e variazione, volontà di sapere e disidentificazione, costituzione individuale e transindividuale, che
ripartiscono raggruppamenti collettivi e forze di costrizione, forme di resistenza e pratiche di omologazione, regimi
discorsivi e forme di organizzazione.
Come infatti ricorda qui Daniele Lorenzini essere
soggetti, nel pensiero di Foucault non significa essere assegnati una volta per tutte alla subordinazione, nè d’altra
parte significa rivendicare l’identità individuale in cui le
etiche normative riconoscono un’intenzionalità responsabile; bensì costituire, nell’instabile libertà di relazioni molteplici, piani di individuazione in cui la scelta della soggezione varia in base alla capacità di resistenza di volta in
volta disponibile. Essere soggetti significa essere legati in
un certo modo alla verità, accettare un certo limite all’essere governati, aderire ad un certo modo di essere pensati,
in cui la prassi realizza una volontà che non è possesso
dell’individuo singolo. È quanto Foucault richiama nella
grande narrazione dell’etica precristiana, sia in relazione
alle “tecnologie del sè” che ai successivi mutamenti della
pratica parresiastica, nella confessione e nella direzione
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spirituale. Come scrive Laura Cremonesi, il cambiamento
delle forme di veridizione in relazione all’affermarsi del
concetto moderno di “coscienza”, determina uno spostamento sostanziale dell’etica, dal luogo proprio che aveva
per gli stoici e i cinici, come esercizio “spirituale” di “rafforzamento del sè”, in ordine ad una askesis mondana, al
piano della prestazione metafisica, da cui deriveranno il
“cogito”, la tradizione del soggetto come individuo e l’espressione della morale come campo effetto di interiorizzazione di valori.
Ciò che dunque va recuperato, a fronte della genealogia della morale, è la nozione di etica come “politica di
sè stessi” e tèkne tou biou, in cui il fondo preindividuale
in cui si generano i processi di individuazione, realizza il
soggetto come variazione singolare, fascio di forze contingenti, esteriorità, di cui la profondità “interiore” è effetto
illusorio. Il passaggio alla modernità, che ha datto luogo
all’umano come “allotropo empirico-trascendentale”, autore della rappresentazione di sè e del mondo, laddove egli
si dissolve nell’emergenza della linguisticità, deve dunque
essere rubricata come epoca del soggetto; ma altrettanto
fortemente dev’esserne dichiarata la dissoluzione in ciò
che eccede, non da oggi, l’individuale.
In questa disposizione del pensiero constatiamo la distanza dalla cosiddetta attualità del presente, laddove la
soggettività pronuncia sè stessa nell’unica forma dell’individuale a cui è spinta da forze che si dichiarano impersonali tanto quanto private. Un presente attuale che non cessa
di vivere su stesso, senza storia, ma superstizioso e incolto,
nella misura in cui le tecnologie potrebbero liberarlo dal
mito dell’appartenenza e dell’identità, e per quanto le relazioni affettive potrebbero liberarlo dal lavoro per donare alle specie che verranno l’habitat dell’animale.
In questa soglia in cui poter narrare l’oltre-umano,
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purtroppo ancora quasi indicibile, rileggiamo il pensiero
di Foucault nell’articolazione progressiva delle tematizzazioni in cui la finitudine è illuminata dal rovescio dell’identificazione: Sade, Mallarmè, Kafka, Joyce, Bataille, Pound,
Roussell, Borges, Blanchot, nel pensiero del fuori svanisce
ogni comunità e, ancora con Nietzsche, si annuncia una
filosofia del comune come pensiero dell’avvenire.
Le implicazioni di questa pratica del pensiero si estendono al di qua e al di là dell’asserzione della fine della
storia, quando l’uomo viene superato nel Ritorno, come
Kojève aveva con lucidità ipotizzato. Al di qua, perchè l’animale, la fine del lavoro, l’arte e il gioco, trovano conferma nell’evoluzione; al di là, perchè la figura del divenire è
l’animale, che determina la soggettività non più nella separazione di ragione e sensibilità, intelletto e passioni, bensì
in un’estetica dell’esistenza in cui la non azione è ludica, il
rovescio dell’opera è arte, e l’umano trova soluzione: cioè
in cui consiste l’apertura alla molteplicità di genere che
constatiamo nel divenire donna, trans, altro...
Realizzare un’estetica dell’esistenza per Foucault significa infatti adottare la pratica zen dell’esercizio, per
cogliere il tutto di una forma di vita nel distacco che è
appartenenza profonda al mondo, infinitezza manifesta
collocata nella finitudine. Il gesto dell’artista, come quello
del filosofo, del genealogista, dell’archeologo del sapere,
si realizzano nell’unicità di tratto di una postura che sfonda le continuità spazio-temporali e si sottrae alla dialettica
lacerante di immanenza e trascendenza. È la postura delle
arti marziali, è il tiro con l’arco, è il gesto decisivo che
annulla freccia e bersaglio, compiuto nell’immediatezza in
cui la realtà offre per un istante l’occasione di libertà, l’interruzione dell’obbligo, la fuoriuscita dalla norma, l’accesso all’infinito, la coincidenza di vita e forma.
In questo senso è da cogliere la differenza su cui Fou18
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cault insiste, specie negli ultimi interventi, tra processi di
liberazione e spazi di libertà, ove la persistenza di ciò che
si conquista, si occupa, si mantiene, è più importante della via seguita per realizzarla. Perchè all’imprevedibilità di
una controcondotta deve essere inerente l’esecuzione continua di una pratica, in modo che lo spazio aperto dal gesto dell’artista, del poeta, del recluso, dell’infame o del rivoltoso non si chiudano a tempo debito, cioè in un tempo
del debito, della responsabilità, del lavoro e della subordinazione. In questa dinamica bisogna accettare il rischio di
divenire altro: il pericolo della scrittura, del fuorilegge, del
nomade, del trans, del fuori tempo di coloro che, dicendo
il vero, mettono a rischio la vita. Che rischiano contro il
presente, “contro il giorno”, come nelle imprese di scrittura di Thomas Pinchon; o nelle apoteosi del disagio di
David Foster Wallace; o nella contagiosa analitica dell’anomalo nei film di Steven Soderberg; o nella recente serie
tv Breaking Bad.
In questo pericolo consiste l’essere inattuale. Il presente indica nel creativo, nel tecnico, nel formatore di anime (terapeuta, docente o consulente) i profili dell’ortopedia del desiderio, laddove Foucault ha indicato nel piacere
e nella genealogia del suo uso le possibilità di liberazione,
cioè anzitutto di autonomia nei luoghi del controllo quotidiano. Ma in questa differenza di profili non bisogna notare la distanza tra il presente e l’ “epoca di Foucault”, per
assolutizzarla, se, come ha ricordato Giorgio Agamben,
nell’inattuale consiste il contemporaneo, cioè lo scarto tra
ciò che accade e un altro tempo in cui vive il presente. In
questa accezione è implicito un giudizio sul tempo attuale,
ed è operante una presa di distanza dai dispositivi dell’attualità (comunicativi, informativi, direttivi).
È lo spazio di una controcondotta, nella presenza,
nell’unico tempo di una vita, di temporalità non umane.
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Dunque non si tratta nè di abdicare al presente vivendo
“come se” esso non trascorresse, come se non sia già da
sempre passato; nè di memorizzare un passato in cui si
rimuove la storia singolare – ma di vivere nella naturale
contemporaneità del ritorno. È in questo senso che cogliamo una possibilità di libertà, cioè di trasformazione.
Nell’essere inattuali scorgiamo movimenti di sottrazione,
pratiche di “antiproduzione”, soglie di anonimato; laddove scegliamo lo sguardo dell’esteriorità, inaugurato da
Foucault ne L’archeologia del sapere. Viviamo dunque di
rotture, non di “progetti di vita”; di discontinuità non di
un’esistenza svolta su un unico piano d’azione. Abbiamo
relazioni e siamo affetti da una storia che opera salti e interruzioni, non progresso; vogliamo essere autori privi di
identità, soggetti senza “io”, ed essere pensati in un logos
che eccede il discorso. Perchè, in quanto moderni, siamo
partecipi di un presente in cui “già da sempre” e “proprio
ora” diveniamo ciò che siamo.
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C URA
DI SÈ E ASKESIS NELL ’ ULTIMO
FOUCAULT:
SULLE
POSSIBILITÀ DI UN ’ ETICA ATTUALE
Laura Cremonesi
Il presente lavoro si propone di discutere alcuni punti
dell’interpretazione foucaultiana della cura di sè antica,
sviluppata dal filosofo francese in particolar modo nei
primi anni Ottanta, per porli a confronto con quella che
Foucault stesso aveva definito, pochi anni prima, come
l’“ermeneutica del soggetto” cristiana. Lo scopo è quello
di mettere in luce le possibilità di riattualizzare alcuni
elementi della cura di sè antica e di verificare quanto
Foucault stesso avesse scorto in essa alcuni punti dotati
di un certo interesse per la definizione del compito attuale
del pensiero filosofico e critico. L’ipotesi è che il mondo
antico non svolga, all’interno dell’“ontologia storica di noi
stessi”, solo il ruolo di punto di partenza per una genealogia
della soggettività occidentale, ma che, grazie al concetto
di askesis, tratto da Foucault dal lavoro di Pierre Hadot,
esso possa offrire degli strumenti per porre in atto delle
pratiche di resistenza nei confronti delle attuali modalità
di soggettivazione e dei loro effetti assoggettanti.
Ne L’ermeneutica del soggetto,1 Foucault offre
una definizione molto chiara di ciò che, a suo avviso,
nell’antichità greca e romana, può essere definito come
epimeleia heautou, come cura di sè [souci de soi]. Il
termine può essere infatti riferito sia a un ambito specifico
di pratiche, sia ad un atteggiamento «verso di sè, verso gli
altri, verso il mondo», 2 strettamente correlato alla messa
in opera di queste pratiche. La composizione di questo
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ambito di pratiche è nota: si tratta di tutti quei consigli e di
tutti quegli esercizi veri e propri di cui è possibile trovare
tracce e testimonianze nei testi medici, filosofici e morali,
destinati a far operare una conversione verso una vita
filosofica. Nel loro insieme, esse compongono una askesis,
un esercizio permanente per raggiungere e mantenere
l’atteggiamento e la prospettiva consoni alla vita filosofica.
Secondo la lettura di Foucault, il pensiero antico (in
particolar modo lo stoicismo e l’epicureismo) sarebbe
giunto ad affermare la necessità di questa askesis a partire
dalla constatazione di una costitutiva fragilità3 dell’uomo
che, per sua originaria condizione, vivrebbe in uno stato
naturale di vulnerabilità nei confronti degli eventi e delle
rappresentazioni esterne. In questo stato di apertura
all’esterno, l’uomo si troverebbe in balia di ogni genere di
passioni, desideri e timori, che gli impedirebbero un libero
esercizio del suo volere.
La cura di sè si configura quindi come un percorso di
uscita da questo stato, reso possibile dalla pratica quotidiana
di esercizi volti a un riorientamento della volontà, che
perviene gradualmente a fissarsi su un nuovo obiettivo: la
fortificazione del sè e la padronanza nei confronti degli
eventi esteriori. La cura di sè antica si delinea quindi sullo
sfondo di queste immagini centrate sulla fragilità, sulla
dispersione, sulla metafora della nave in balia delle onde, e
sulla necessità della fortificazione, della concentrazione su
di sè, dell’approdo al porto sicuro.
La cura di sè porta quindi ad assumere la relazione di sè
a sè come obiettivo primario verso cui polarizzare il volere.
Appare quindi più chiaramente la ragione per cui la cura di
sè non consiste solo in una serie di esercizi, ma anche in un
atteggiamento: essa richiede infatti anche la disponibilità
a modificare se stessi, a ricreare e a rielaborare la propria
relazione a sè, agli altri e al mondo. È quindi possibile
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definire la cura di sè come la costruzione di uno specifico
rapporto del soggetto a se stesso, che avviene grazie a una
volontà e ad un atteggiamento preliminari di modificare il
proprio modo di essere, e ad una serie di esercizi e pratiche,
suggeriti e diffusi dal pensiero filosofico, medico e morale.
Lo scopo della cura di sè è dunque quello di conferire una
forma al modo di essere del soggetto. Da questo punto
di vista, essa è una determinata tecnologia del sè, che si
è sviluppata in un arco cronologico molto preciso, le cui
soglie sono situate da Foucault tra la Grecia classica ed i
primi secoli della nostra era.
Come è noto, questa interpretazione di Foucault è
fortemente debitrice ai lavori di Pierre Hadot che, alla fine
degli anni Settanta, ha per primo messo in luce l’esistenza di
queste pratiche, grazie al concetto di “esercizi spirituali”.4
Il punto di partenza di Pierre Hadot è costituito da una
preoccupazione di natura storica e filologica: la sua
esigenza è quella di giungere a una maggior comprensione
dei testi filosofici antichi, che riesca a rendere pienamente
conto della loro natura. Molti testi infatti, se letti come
esposizioni sistematiche di dottrine, ci appaiono come
incoerenti, contraddittori, o mal strutturati. I testi filosofici
antichi richiedono quindi una diversa lettura, che tenga
conto del ruolo e della funzione che essi effettivamente
possedevano nel mondo antico e nel contesto in cui sono
emersi. Hadot ipotizza quindi che essi non costituissero
dei trattati filosofici, ma che fossero invece testimoni di un
modo specifico di intendere la filosofia, come una pratica
per apprendere a percorre un determinato itinerario di vita
e di pensiero, come un esercizio per modificare il proprio
modo di essere, la propria visione del mondo ed il modo di
condurre la propria vita.
Per questo, secondo Hadot, nella sua vocazione
originaria, la filosofia non mirava in modo primario alla
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costruzione di sistemi, ma era innanzitutto un modo
di vita, un esercizio di modificazione di se stessi. I testi
filosofici sono dunque frammenti e testimonianze degli
“esercizi spirituali”, e a questa loro natura è dovuta quelli
che, al nostro sguardo anacronistico, che cerca in essi
un’esposizione sistematica di dottrine filosofiche, appaiono
come incoerenze strutturali e contraddittorietà.
Foucault accoglie quindi il lavoro di Hadot e la sua
sorprendente capacità di farci leggere altrimenti i testi
antichi, per ritrovare nel mondo antico tracce di un’askesis
modificatrice del sè. Nel leggerle, però, come “tecnologie
del sè”, Foucault assegna a queste pratiche un ruolo diverso
da quello attribuito loro da Hadot. Per quest’ultimo,
infatti, gli esercizi spirituali hanno lo scopo primario di
far raggiungere un livello più autentico e universale del sè,
che per gli Stoici, ad esempio, è costituito dalla ragione
universale. In gioco, vi è innanzitutto un innalzamento
del sè, che tenta di superare la propria quotidianità per
far assumere, in rari momenti, al proprio sguardo una
prospettiva cosmica. Più che una creazione di sè, Hadot
pensa a uno sforzo di superamento della «parzialità dell’io
individuale e passionale» verso «l’universalità dell’io
razionale».5
Questa lettura appare però chiaramente incompatibile
con la prospettiva foucaultiana, per cui un lavoro sul sè
volto al raggiungimento di una maggiore autenticità non
è praticabile, come Foucault stesso sottolinea in maniera
estremamente efficace, in riferimento a Sartre, dove ricerca
dell’autenticità e lavoro di creazione si trovano in evidente
contrapposizione:
Nelle sue analisi di Baudelaire, di Flaubert, ecc., è interessante
osservare come Sartre riconduca il lavoro di creazione a una
certa relazione che l’autore ha con se stesso e che può avere
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la forma dell’autenticità o dell’inautenticità. Io vorrei sostenere
esattamente il contrario: piuttosto che attribuire l’attività
creatrice al genere di relazione che un individuo ha con se
stesso, dovremmo ricondurre a un’attività creatrice il genere di
relazione che ha con se stesso.6
Se Foucault riconosce quindi, sulla scia di Hadot, alle
pratiche della cura di sè una capacità di agire sul modo
di essere del sè, quest’azione si configurerà come una
creazione di una forma inedita, come un vero e proprio
lavoro di soggettivazione. Proprio per indicare chiaramente
il loro campo di azione – la forma del rapporto del sè con
il sè – Foucault si riferisce a queste pratiche non come a
“esercizi spirituali”, ma come a “tecniche di sè”.
Le implicazioni storiche e filosofiche di questa visione
sono evidenti. Foucault dà infatti luogo qui a una vera e
propria genealogia del soggetto moderno, cioè ad una ricerca
storica sulle tecniche di costituzione della soggettività. In
questo modo, egli sembra dare una concretezza storica
alle sue teorie sulla natura del soggetto, cui aveva sempre
negato consistenza essenziale o trascendentale, leggendolo
come una funzione ogni volta diversamente assegnata dalle
diverse configurazioni epistemiche, come un effetto di
figure storiche di potere e di sapere. La sua analisi della
cura di sè è quindi parte di una storia effettiva dei modi
di costituzione della soggettività e dei suoi rapporti con
le relazioni di potere e di sapere, in cui la soggettività è
chiaramente letta come una forma, un rapporto di sè a sè,
sempre modificato dalle circostanze storiche.
Se la soggettività non consiste che in un rapporto
storicamente dato, qual è, secondo Foucault, la forma che
essa assume nell’antichità e quali rapporti intrattiene con
la verità e con le relazioni di potere? La risposta a questa
domanda può essere di qualche utilità per capire se questa
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configurazione, storicamente determinata, può essere di
qualche interesse per noi, oggi.
Uno degli aspetti che maggiormente differenziano la
soggettività antica dalle successive forme di soggettivazione
è infatti dato, per Foucault, dal modo in cui essa entra in
relazione con la verità – più esattamente, con le verità che,
nel mondo antico, erano ritenute pertinenti per il lavoro di
soggettivazione. L’ermeneutica del soggetto si apre proprio
con alcune considerazioni, rapide e dense, sulle differenze
tra antichità e modernità – una modernità qui inaugurata
da Cartesio – a proposito del modo di pensare le condizioni
di «accesso al vero» da parte del soggetto.7 Al mondo
antico apparterrebbe un modo di concettualizzare questo
legame che può essere definito come «spiritualità», per
cui è necessario «che il soggetto si modifichi, si trasformi,
cambi posizione, divenga in una certa misura altro da sè,
per avere diritto di accedere alla verità. La verità è concessa
al soggetto solo alla condizione che venga messo in gioco
l’essere stesso del soggetto, poichè, come egli è, non è
capace di verità».8
Il pensiero antico postula quindi un’incapacità del
soggetto in quanto tale di accedere al vero, senza una
previa modificazione di sè, che può essere realizzata grazie
a delle pratiche di sè. Nella loro opera di soggettivazione, le
tecniche della cura di sè coinvolgono quindi direttamente
la questione della verità: è grazie ad esse che il soggetto
può accedere al vero e legarsi ad esso.
Le immagini impiegate dal pensiero antico per
descrivere il rapporto tra soggettività e verità appartengono
quindi all’ambito della cura di sè, marcato dai temi della
fragilità e della fortificazione. La cura di sè – in particolare
quella stoica – è infatti imperniata su tutto un lessico
che rinvia all’idea di costruire il sè come una “cittadella”
fortificata9, inaccessibile agli eventi esterni ed alle passioni
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che questi possono suscitare, in cui gli individui possono
trovare una serenità inalterabile, perchè dipendente solo
dal loro volere. La verità è quindi pensata come parte
di questa “fortificazione”, come un’«equipaggiamento
(paraskeue)»10 che permette di mantenere la padronanza di
sè in ogni circostanza.
Questo equipaggiamento consiste in un insieme di
conoscenze filosofiche, condensate in alcune formule
semplici, che avrebbero aiutato gli individui a costituire
e a mantenere la relazione a se stessi caratterizzata
dall’indipendenza. Nel caso dello stoicismo, ad esempio,
l’intero sistema filosofico – logica, fisica ed etica – si
sarebbe condensato nel principio secondo cui occorre
saper distinguer tra quel che dipende dalla volontà e dalla
libertà dell’uomo e quello che invece ne è indipendente,
per dare valore solo al primo ambito, quello dell’azione
morale.
Gli esercizi della cura di sè, per Foucault, sono dunque
volti ad un assimilazione di questo principio, in modo
da poterlo applicare a tutte le circostanze dell’esistenza.
Il principio va dunque meditato, messo alla prova con
esercizi in cui si immaginano le situazioni più difficili,
e la sua assimilazione va verificata grazie all’esame di
coscienza. Questa askesis va però distinta dalle operazioni
di un semplice apprendimento: essa mira infatti a quella
che Foucault definisce come un’“assimilazione”. Essa non
consisterebbe infatti in una memorizzazione dei princìpi
filosofici di base, che permetterebbe di richiamarli alla
memoria nelle circostanze che più mettono alla prova la
padronanza di sè, ma opererebbe infatti sui logoi filosofici
nella loro esistenza materiale, effettivamente enunciati,
ascoltati e letti, per farli divenire una parte integrante del
soggetto.
La memoria può svolgere un ruolo preliminare, ma lo
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scopo dell’askesis è quello di realizzare una coincidenza tra
i logoi ed il soggetto etico:
In realtà, è necessario che ciascuno abbia tale dotazione
[di discorsi] a portata di mano, l’abbia sottomano, non
proprio nella forma di una memoria destinata a celebrare,
a far risuonare di nuovo la sentenza […]. Sostenere che
è necessario averla sottomano, significa che occorre che
sia penetrata, in un certo senso, fin dentro i muscoli.
Occorre averne un possesso tale, da poterla riattualizzare
immediatamente, e senza indugi, in modo automatico. […]
E proprio affinchè possa venire ad integrarsi all’individuo
e governare il suo agire, arrivando così a far parte, in un
certo senso, dei suoi muscoli e dei suoi nervi, sarà prima
necessario, a titolo di preparazione nell’askesis, fare tutti
gli esercizi di rammemorazione attraverso i quali verranno
effettivamente rammentate le sentenze e le proposizioni,
verranno riattualizzati i logoi. […] Ma allorchè l’evento
si verificherà, è necessario che, in quel momento, a esser
diventato il soggetto stesso dell’azione sia il logos, e che il
soggetto dell’azione sia diventato a sua volta logos, in modo
da far sì che, senza neppur dover di nuovo far riecheggiare
la frase, e senza neppure doverla pronunciare, agisca come
deve agire.11
Grazie agli esercizi della cura di sè, i logoi divengono
delle vere e proprie matrici d’azione e regolano in
modo diretto la condotta dell’individuo, come «i suoi
muscoli e i suoi nervi» regolano il suo movimento. Essi
strutturano quindi la relazione del soggetto a se stesso,
creandola e mantenendola sul modello della fortificazione,
dell’indipendenza, e al tempo stesso regolano in modo
automatico il modo di agire del soggetto. La verità con
cui opera la cura di sè consiste dunque in logoi, intesi
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nella loro materialità e impiegati in funzione etopoietica:
essi sono «delle frasi, degli elementi di discorso, dotati di
razionalità, di una razionalità che dice il vero e, insieme,
prescrive quello che si deve fare».12 Se i logoi pervengono
effettivamente a regolare il modo di condursi dell’individuo
che stia mettendo in opera il lavoro della cura di sè, la
sua condotta apparirà dunque come il luogo in cui sarà
possibile percepire l’azione di questi princìpi: il modo di
vivere, il bios, diverrà dunque lo spazio di visibilità dei
logoi e varrà a dimostrare l’esistenza di un efficace lavoro
di assimilazione del vero.
La cura di sè deve dunque essere intesa come una
modalità storica di una particolare tecnologia di sè, che
implica uno specifico rapporto tra soggettività e verità. Per
Foucault, questa modalità di soggettivazione si modifica
nei primi secoli dopo Cristo, quando si realizzerà una
nuova configurazione di rapporti tra soggetto, verità e
relazioni di potere. Per comprendere in che modo l’askesis
antica può ancora oggi svolgere un qualche ruolo attuale,
può essere utile soffermarsi brevemente su questa frattura
storica messa in luce da Foucault.
Nell’ambito della ricerca foucaultiana, l’analisi
delle forme di soggettivazione cristiana precede
cronologicamente lo studio del mondo antico, situandosi
in particolar modo tra il 1978 ed il 1981. In quegli anni,
Foucault si dedica infatti a una storia dettagliata della
confessione nel cristianesimo primitivo, che le recenti
pubblicazioni dei Corsi al Collège de France e di altri
cicli di lezioni di quegli anni hanno ora reso pienamente
disponibile.13
Anche il filo conduttore dell’analisi foucaultiana del
cristianesimo è costituito dalla questione delle tecniche
di sè. L’ipotesi di Foucault, ancora una volta fortemente
debitrice al lavoro di Pierre Hadot, 14 è quella secondo cui
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certe pratiche appartenenti alla cura di sè siano traslate
all’interno del mondo cristiano, inserendosi però in un
quadro profondamente mutato di rapporti tra soggettività,
verità e relazioni di potere; ad esse, se ne sarebbero poi
aggiunte altre specificamente cristiane, che avrebbero
contribuito a creare quella che Foucault definisce come
un’“ermeneutica del soggetto”.
L’ermeneutica cristiana si differenzia quindi dalla
cura di sè antica in primo luogo per il fatto di richiedere
– e di produrre – delle relazioni e degli effetti di potere
profondamente diversi da quelli correlati alla cura di sè. Se
è infatti vero che, secondo Foucault, la cura di sè non può
realizzarsi se non all’interno di un rapporto di direzione di
coscienza, occorre considerare che la relazione di potere
messa in opera dalla direzione antica non è particolarmente
stringente. Si tratta infatti di una direzione provvisoria,
finalizzata primariamente al conseguimento dell’autonomia
da parte del diretto e destinata a indebolirsi, se non a
cessare del tutto, nel momento in cui la costruzione del
rapporto a sè è sufficientemente progredita, quando cioè
il diretto inizia a conquistare una certa padronanza di sè.
L’autonomia del soggetto è dunque un punto centrale della
cura di sè antica: la costruzione del rapporto a sè si fa,
dopo un primo momento di direzione, in modo autonomo,
solo in riferimento ad una tradizione filosofica.
Secondo Foucault, questo aspetto si modifica
profondamente nel mondo cristiano. Seguendo infatti alcune
analisi di Peter Brown, 15 egli individua un cambiamento
importante intorno al V secolo, quando si assiste alla nascita
delle prime comunità cenobitiche, che mettono fine alle
esperienze di ascetismo individuale. In queste comunità
si sarebbe sperimentato un modo di vita, di cui abbiamo
testimonianza ad esempio nell’opera di Cassiano, la cui
importanza appare a Foucault capitale per quanto riguarda
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le modificazioni delle tecniche di sè. La vita monastica è
infatti dominata da una direzione intensificata al punto di
divenire fine a se stessa e da condurre il diretto verso uno
stato di obbedienza permanente. Direzione ed obbedienza
cessano di essere mezzi per condurre all’autonomia, per
divenire esse stesse tecniche di soggettivazione, che danno
però luogo ad una soggettivazione che Foucault descrive
come completamente assoggettata, e in cui la volontà
svolge un ruolo talmente ridotto da produrre una forma
di relazione a sè che è stata giustamente definita come una
«soggettivazione per distruzione».16
In correlazione con questa forma di direzione, emerge
una nuova relazione tra soggetto e verità, in cui la verità
pertinente su cui operare non è più costituita da princìpi
filosofici da assimilare, ma è – accanto a quella della fede
– la verità interiore degli individui. La direzione cristiana
si situa infatti in un rapporto di stretta circolarità con
la pratica della confessione dei peccati, al tempo stesso
effetto e condizione dell’obbedienza esaustiva richiesta
dalla confessione. Con il cristianesimo delle comunità
monastiche, negli individui inizia dunque a scavarsi uno
spazio interiore, abitato da forze oscure, che richiede
un’ermeneutica continua del sè, esperienza inedita e
profondamente differente rispetto alla cura di sè antica.
È quindi evidente come la frattura che divide le due
esperienze, quella antica e quella cristiana sia per Foucault
fortemente marcata. Il mondo antico aveva creato una
figura caratterizzata dalla ricerca dell’autonomia del
soggetto, capace di costruire la propria relazione a sè
grazie a una libera scelta di dare una certa forma al proprio
modo di vivere, e dove la conoscenza del sè e la ricerca di
movimenti involontari o nascosti all’interno del sè non era
in gioco. Il cristianesimo sostituisce a questa esperienza una
nuova figura, in cui l’ermeneutica del sè svolge un ruolo
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fondamentale nell’assicurare una costituzione assoggettata
del sè.
Se mondo antico e primo cristianesimo costituiscono,
agli occhi di Foucault, due esperienze profondamente
diverse e separate da una netta frattura, è nota invece la
continuità che egli istituisce tra l’ermeneutica del sè e la
nostra modernità. Come appare chiaramente, ad esempio,
in Sicurezza, territorio, popolazione, la configurazione
che emerge all’interno delle comunità cenobitiche è per
Foucault in evidente rapporto genealogico con la nostra
esperienza attuale. È in essa, infatti, che viene sperimentata
per la prima volta la confessione, tecnica dalla storia lunga
e complessa, ma che rappresenta ancora oggi un elemento
centrale del dispositivo di sessualità e delle pratiche
mediche, psichiatriche e giudiziarie.
Se quindi la continuità tra cristianesimo e modernità
appare ben evidente in tutta l’analisi foucaultiana, è lecito
chiedersi quale ruolo può svolgere, oggi, quell’esperienza
antica centrata intorno a un’askesis, a una creazione attenta
e faticosa di sè, così importante per la formazione della
soggettività antica.
Lo studio foucaultiano del mondo antico ha
indubbiamente una funzione genealogica e critica: esso
tenta di disegnare, con la maggior attenzione possibile,
la soglia che separa la cura di sè e l’ermeneutica, con
l’effetto di mostrare la storicità e la contingenza di queste
esperienze, e quindi anche della nostra attuale relazione
a noi stessi. Si tratta quindi di capitolo importante di
quell’«ontologia storica» che, per Foucault, rappresenta
il compito principale del suo lavoro storico e filosofico,
e che è volta a mettere in luce la “fragilità” del nostro
essere, le sue possibilità di essere altrimenti, di disfarsi
e di ricrearsi con un altro aspetto. La genealogia della
soggettività appartiene quindi a quell’insieme di ricerche,
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di atteggiamenti e di sguardi che Foucault definisce come
«critica»17, insieme che possiede una lunga tradizione –
filosofica e non – in cui Foucault stesso afferma di volersi
situare.
Ma non è solo in quanto oggetto di un lavoro
genealogico, in quanto primo capitolo di un’«ontologia
storica di noi stessi» che il mondo antico possiede rilievo
per un’impresa critica. Per molti aspetti, l’esperienza antica
sembra essere per Foucault qualcosa di più di una semplice
immagine di quel che non siamo più, di una semplice figura
storica che precede il nostro essere attuale, e che non più
quindi esserci di alcuna utilità, se non dal punto di vista
genealogico-critico.
In altri termini, il mondo antico può essere, per
noi, oggi, un serbatoio di tecniche, pratiche, prospettive
ed esercizi, da mettere in gioco contro contro il nostro
«noi» odierno? È possibile una riattualizzazione, una
rielaborazione – indubbiamente delicata e complessa – di
alcuni elementi della cura di sè?
Questa possibile riattualizzazione potrebbe seguire
due linee differenti. La prima riguarderebbe l’ambito stesso
delle tecniche di sè. Per Foucault, infatti, l’esperienza
antica costituisce senza dubbio un contesto privilegiato
per notare l’esistenza delle tecniche di sè e per analizzarle.
Come aveva già notato Hadot, nella pratica e nel pensiero
antichi gli esercizi di sè possedevano un ruolo estremamente
rilevante, tale da arrivare a caratterizzare l’intero ambito
della filosofia come modo di vivere e come pratica di sè.
Le pratiche antiche, però, costituiscono un fenomeno di
particolare interesse soprattutto perchè si sviluppano
come pratiche autonome, inserite in un rapporto di potere
limitato, e perchè sono capaci di dare luogo a un’etica non
normativa, basata su un’autonoma creazione di sè da parte
del soggetto, e da cui è assente ogni traccia di conoscenza
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di sè, di ermeneutica e di confessione.
È però difficile credere che Foucault potesse essere
interessato alla forma specifica della relazione a sè realizzata
dall’epimeleia heautou – una relazione a sè centrata sulla
fortificazione del sè, sul timore degli eventi, sull’idea
di un sè fragile, naturalmente aperto alle passioni e alle
rappresentazioni esterne, da rinforzare e costruire come
una cittadella fortificata. Allo stesso modo, difficilmente
avrebbe ritenuto utile per l’oggi la modalità di legame
tra verità e soggettività realizzata dalla cura di sè, e in
particolar modo da quella di matrice stoica ed epicurea – il
caso del cinismo meriterebbe infatti delle considerazioni
di diversa natura18.
È quindi su un’altra linea di sviluppo che si pone
la possibile riattualizzazione della cura di sè: è l’idea
stessa della creazione autonoma della relazione a sè che,
per Foucault, è possibile in qualche modo recuperare
e rielaborare. L’idea che sia possibile dare luogo a una
modificazione della relazione a se stessi, attraverso
pratiche ed esercizi realizzabili in modo autonomo, può
infatti costituire un’interessante pratica di resistenza, nei
confronti degli effetti di potere assoggettanti, che mirano,
cioè, a dare una forma “assoggettata” alla relazione a sè.
La dimensione delle tecniche di sè – quale è apparsa in
modo chiaro a Foucault nel suo studio del mondo antico
– può quindi in effetti offrire degli strumenti per tentare
di elaborare una risposta agli effetti di soggettivazione
degli attuali dispositivi di potere e verità, grazie alla loro
capacità di assumere la forma della relazione a sè come
ambito aperto ad un lavoro di rielaborazione e di creazione
autonoma.
Riattualizzare la cura di sè non significa, quindi, oggi,
riproporre un modello appartenuto al nostro passato, ma
considerare la realtà delle tecniche di sè, che nel mondo
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antico appaiono in un contesto fortemente caratterizzato
dall’autonomia, come ambito per una possibile desoggettivazione e ri-soggettivazione, intese come resistenza
agli effetti assoggettanti delle attuali forme di potere.
Note
M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de
France (1981-1982), a cura di D. Defert, F. Ewald F. Gros e M.
Bertani, Feltrinelli, Milano 2003 (d’ora in avanti HS).
2
HS, pp. 12-13; cfr. anche, ivi, pp. 75-76.
3
In Seneca, ad esempio, questa fragilità è espressa dal concetto
di stultitia, inteso come stato in cui ognuno si trova, ma da cui è
possibile uscire. Secondo Foucault, per lo stoicismo «la stultitia
rappresenta un tipo di volontà limitata, frammentaria e mutevole. Quel che invece caratterizza la condizione opposta alla stultitia è il fatto di volere liberamente, di volere assolutamente, di
volere sempre». HS, p. 116.
4
P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, a cura di A.I. Davidson, Einaudi, Torino 2005. Della centralità della riflessione
di Pierre Hadot per l’interpretazione foucaultiana dell antichità
si è occupato in modo approfondito Arnold I. Davidson, in numerosi saggi dedicati ai due autori. Tra i suoi lavori più recenti
su questo tema si segnalano: Foucault, le perfectionnisme et la
tradition des exercices spirituels in S. Laugier (a cura di), La voix
et la vertu. Variètès du perfectionnisme moral, Presses Universitaires de France, Paris 2010 e Imparare a leggere, imparare a
vivere, in A.I. Davidson, F. Worms (a cura di), Pierre Hadot,
l’insegnamento degli antichi, l’insegnamento dei moderni, ETS,
Pisa 2012, pp. 13-17. Si veda inoltre P. Hadot, La filosofia come
1
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modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I.
Davidson, Einaudi, Torino 2008, in particolare le pp. 163-193.
5
Ivi, p. 92.
6
M. Foucault, Sulla genealogia dell’etica. Compendio di un work
in progress, in H.L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel
Foucault, Analisi della verità e storia del presente, La casa Usher,
Firenze 2010, p. 310.
7
Cfr. HS, pp. 16-21. Lezione del 6 gennaio.
8
HS, p. 17.
9
Cfr. HS, p. 75 e p. 287. Su questo tema, si veda ad esempio P.
Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai «Pensieri» di Marco Aurelio, Vita e Pensiero, Milano 1996.
10
Cfr. HS, pp. 282-290.
11
Ivi, pp. 288-289.
12
Ivi, pp. 285-286.
13
Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al
Collège de France (1977-1978), a cura di M. Bertani e P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2007; Sull’origine dell’ermeneutica del sè.
Due conferenze al Dartmouth College, a cura di “mf/materiali
foucaultiani”, Cronopio, Napoli 2012; Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio (1981),
a cura di V. Zini, Einaudi, Torino 2013; Del governo dei viventi.
Corso al Collège de France (1979-1980), a cura di D. Borca e P.A.
Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014. Sull’interpretazione foucaultiana del cristianesimo si veda in particolar modo Ph. Chevallier,
Michel Foucault et le christianisme, ENS Èditions, Lyon 2011.
14
Cfr. ad esempio P. Hadot, Esercizi spirituali antichi e “filosofia”
cristiana, in Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., pp. 69-86.
15
P. Brown, Genesi della tarda antichità, Einaudi, Torino 1983.
16
Cfr. B. Karsenti, La politica del “fuori”. una lettura dei Corsi di
Foucault al Collège de France (1977-1979), in S. Chignola (a cura
di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault
al Collège de France (1977-1979), Ombre Corte, Verona, p. 87.
17
Cfr. M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo? in Archivio III,
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1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A.
Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 217-232.
18
Per i contributi più recenti sulla lettura foucaultiana del cinismo si veda, ad esempio: F. Gros, Foucault e la verità cinica, in
«Iride», XXV, n. 66, maggio-agosto 2012, pp. 289-298; J. Revel,
Vita altra, attitudine critica, sperimentazione, in «Iride», XXV, n.
66, maggio-agosto 2012, pp. 317-327; M.O. Goulet-Cazè, Michel
Foucault et sa vision du cynisme dans le Courage de la vèritè, in
D. Lorenzini, A. Revel e A. Sforzini (a cura di), Michel Foucault:
èthique et vèritè (1980-1984), Vrin, Paris 2013, pp. 105-124; J.
Revel, Passeggiate, excursus e regimi di storicità, in S. Chignola e
P. Cesaroni (a cura di), La forza del vero. Un seminario sui Corsi du Michel Foucault al Collège de France (1981-1984), Ombre
Corte, Verona 2013. Si veda infine anche il mio testo: Askêsis,
êthos, parrêsia: pour une gènèalogie de l’attitude critique, in Michel Foucault: èthique et vèritè (1980-1984), cit., pp. 127-138.
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RIFLESSIONI
ETICA
E POLITICA DI NOI STESSI .
SU UN USO POSSIBILE DELL ’ ULTIMO
FOUCAULT
Daniele Lorenzini
In questo articolo vorrei presentare alcune riflessioni
intorno a un problema che considero fondamentale sollevare nel quadro attuale non solo della filosofia, ma della
società contemporanea, e che le analisi dell’ultimo Foucault possono aiutarci a ripensare e a formulare in modo
innovativo. Il problema è classico, o in ogni caso ha radici
molto antiche. Che rapporto possiamo, o dovremmo, istituire tra etica e politica? È bene precisare immediatamente
che non intendo affrontare tale questione dal punto di vista
del governante: che tipo di qualità morali deve possedere
un individuo per essere legittimato a governare, e perchè
la sua azione di governo sia “buona” o “giusta”? Questa
domanda, infatti, ha ormai da diversi secoli perso di senso,
o in ogni caso le risposte possibili a questa domanda sono
ormai prive di interesse filosofico. Ciò non significa, tuttavia, che il problema stesso del rapporto tra etica e politica
sia privo di senso o di interesse: da questo punto di vista,
al contrario, la tradizione dominante della moderna filosofia occidentale che ha tentato di istituire una separazione
netta tra il campo della politica e quello dell’etica, o tra il
dominio del pubblico e quello del privato, dovrebbe a mio
avviso essere messa in discussione e, infine, rifiutata. Per
farlo, e per capire come impostare in modo filosoficamente
interessante la questione del rapporto tra etica e politica,
mi servirò di alcuni strumenti foucaultiani, sostenendo innanzitutto che una delle “eredità” più importanti che l’o41
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pera di Foucault ci consegna è la possibilità di ridefinire
radicalmente ciò che occorre intendere per “politica” e ciò
che occorre intendere per “etica” e, di conseguenza, cosa
significa fare filosofia politica o filosofia morale.
Ridefinire la politica, ridefinire l’etica
Primo punto, prima ridefinizione: cosa dobbiamo intendere per “politica”? Nei suoi studi degli anni Settanta
sul potere disciplinare e sul bio-potere, Foucault mette radicalmente in discussione l’impostazione stessa della filosofia politica tradizionale, ripensando il potere come un
campo o un reticolo di rapporti di forza, e la resistenza
come ciò che gli è correlativo, il suo necessario vis-à-vis, in
una perpetua dinamica di rilancio, contestazione, rafforzamento. Così facendo, Foucault denuncia sia il mito di un
potere unico con la “P” maiuscola, proprietà di un individuo o di un gruppo di individui, e la cui funzione sarebbe
solo repressiva; sia l’idea della resistenza nella forma della
rivoluzione, il sogno di un luogo unico del “Gran Rifiuto”.1
Ogni relazione tra due o più individui può e dovrebbe essere concepita come un rapporto di potere, e dunque come
il luogo di uno scontro possibile tra tecniche di dominio e
pratiche di libertà; in questo senso, il campo, o l’oggetto,
della filosofia politica si allarga considerevolmente: “politico” – in questo nuovo senso del termine – non è solo
il rapporto tra i cittadini e il loro governo, ma anche il
rapporto tra il medico e il paziente, tra lo psicanalista e il
folle, tra l’insegnante e l’allievo, tra i genitori e i figli, tra
due amanti. In tutti questi rapporti è in gioco, in modo
esplicito o implicito, una certa dinamica di forze, un tentativo di agire reciprocamente l’uno sulla condotta dell’altro,
e la possibilità di resistere a tale tentativo, di rovesciare la
relazione, in un equilibrio costantemente, perpetuamente,
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essenzialmente «versatile». 2 Foucault estende dunque il
campo della “politica” ad ogni relazione interpersonale:
la politica, in questo senso, è coessenziale alla dimensione
più ordinaria e quotidiana della nostra vita.
Quando, nel 1978, Foucault elabora i concetti di “governo” e di “governamentalità”, 3 non fa altro in realtà che
proseguire su questa stessa strada, precisando tuttavia –
all’inizio in modo ancora confuso, ma via via sempre più
consapevolmente – che “politico” non è solo ogni rapporto tra due o più individui; “politico” è anche il rapporto
dell’individuo con sè stesso, il rapporto di sè con sè. Una
prima elaborazione di questa idea si trova in Sicurezza, territorio, popolazione, dove la nozione di “condotta”, con il
suo intrinseco carattere polisemantico (condurre qualcuno, lasciarsi condurre, condursi in maniera relativamente
autonoma),4 apre a Foucault precisamente la possibilità di
individuare il punto di snodo, il fulcro essenziale di questa
nuova concezione della politica. Qual è l’obiettivo delle
strategie governamentali? Condurre la condotta degli individui, ovvero strutturare in questo o quel modo il rapporto che l’individuo ha con se stesso. Una delle grandi
intuizioni di Foucault – ma, naturalmente, non è il solo
ad averla esplorata – è che il potere più efficace non sia
quello che “domina” in modo dispotico, che reprime, che
utilizza la forza bruta per ottenere i propri scopi. Un potere di questo tipo è senz’altro spaventoso, orribile, ma si
rivela in fondo anche estremamente fragile, giacchè fonda
la propria capacità di condurre la condotta degli individui
su mezzi di coercizione esterni, estrinseci rispetto al modo
in cui gli individui stessi aspirano a condursi. Un potere di
questo tipo, dunque, susciterà necessariamente delle reazioni, delle rivolte, delle resistenze, e non appena abbasserà la guardia rischierà di essere rovesciato.
La maniera più efficace di esercitare un potere con43
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siste invece nel fare in modo che siano gli individui stessi
a volersi condurre in questo o quel modo; consiste cioè
nel tentativo di strutturare la volontà degli individui e il
loro rapporto con se stessi in modo tale che essi accettino
e anzi desiderino essere condotti in questo o quel modo.
È il principio basilare del potere pastorale che Foucault
analizza in Sicurezza, territorio, popolazione, e che prende
nuovamente in considerazione (pur se in una prospettiva
diversa) nel corso al Collège de France del 1980, Du gouvernement des vivants, nel quale, parlando della direzione
cristiana di coscienza, Foucault corregge in un punto, specifico ed estremamente significativo, le tesi sostenute nel
1978, e mostra chiaramente la centralità strategica della
volontà individuale. Nel 1978, il rapporto tra il direttore
di coscienza e il monaco era presentato, da Foucault, come
un rapporto di obbedienza assoluta alla volontà dell’altro,
un’obbedienza che richiedeva, da parte del diretto, la soppressione, l’elisione, della propria volontà.5 Una soggezione, una sottomissione pura e semplice, insomma. Nel 1980,
al contrario, Foucault spiega – più coerentemente – che,
nel rapporto di direzione, il diretto non deve rinunciare
alla propria volontà, non deve sopprimerla o annullarla: la
sua volontà resta intatta e completa. Egli, tuttavia, deve indirizzare perpetuamente e integralmente la propria volontà sulla volontà del direttore di coscienza, e quindi volere
tutto ciò che vuole il proprio direttore. Voler non avere una
volontà propria: volere non volere – ma volerlo. 6 In questa
sottile differenza di formulazioni risiede tutta la differenza
tra la pura soggezione o la semplice sottomissione, e ciò
che merita di essere chiamato, in senso stretto, “assoggettamento”.
L’assoggettamento è un processo che, allo stesso tempo, soggioga l’individuo e lo costituisce in quanto soggetto soggiogato – o meglio, soggetto assoggettato. È questo
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lo scopo principale del potere pastorale, e più in generale
di tutti i poteri governamentali, che non si accontentano
di obbligare gli individui a condursi in un certo modo,
ma tentano di strutturare la loro soggettività (cioè il loro
rapporto di sè con sè) in modo che essi vogliano condursi
come le istanze governamentali suggeriscono loro. Tuttavia, fedele alla concezione della resistenza che aveva elaborato intorno alla metà degli anni settanta, e in particolare
nel primo volume della Storia della sessualità, La volontà
di sapere, sin dal 1978 Foucault precisa che il governo non
si riduce a questo: gli individui hanno anche – o perlomeno, hanno il più delle volte – la possibilità di governarsi
e di condursi in maniera relativamente autonoma, cioè di
stabilire per se stessi regole e princìpi di comportamento
che collidono con il modo in cui le istanze governamentali
cercano di condurli. Così, accanto alla soggezione/sottomissione pura e semplice e all’assoggettamento, Foucault
apre il vasto campo di ricerche archeologico-genealogiche
sulla “soggettivazione”, che informeranno la maggior parte
dei suoi lavori degli anni ottanta.
Una simile operazione si accompagna al secondo
punto che ho evocato, ovvero la ridefinizione dell’etica.
Come noto, Foucault propone di ripensare l’etica come il
rapporto di sè con sè – in maniera dunque relativamente autonoma e separata dalla morale intesa come codice
di comportamento. L’etica ha a che fare, nella prospettiva
foucaultiana, non tanto con leggi morali e regole di comportamento, o meglio, ha a che fare anche con ciò, ma solo
nella misura in cui l’individuo utilizza tali leggi e regole
per strutturare un rapporto definito con se stesso, ovvero
per costituirsi come un soggetto morale. 7 In altri termini, l’etica ha a che fare con quelle che Foucault, a partire
dall’autunno del 1980, chiama le “tecniche di sè”: accanto
alla tecniche di produzione, alle tecniche di significazione
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e alle tecniche di dominio (o di potere), spiega Foucault
nelle conferenze pronunciate a Berkeley e al Dartmouth
College, e pubblicate in italiano con il titolo Sull’origine
dell’ermeneutica del sè, in tutte le società sono anche presenti tecniche «che permettono agli individui di effettuare, con i propri mezzi [o con l’aiuto degli altri], un certo
numero di operazioni sui propri corpi, sulle proprie anime, sui propri pensieri, sulla propria condotta; e questo
in modo da trasformare se stessi, modificare se stessi, e
raggiungere un certo stato di perfezione, di felicità, di purezza, di potere soprannaturale e così via».8 Si tratta, appunto, delle “tecniche di sè” – tecniche che, dunque, come
le tecniche di potere, mirano a strutturare il rapporto di sè
con sè degli individui, ma che, a differenza delle tecniche
di potere (che agiscono assoggettando), innescano invece
un processo di soggettivazione.9
Ridefinizione della politica, ridefinizione dell’etica.
Queste due operazioni teoriche sono compiute da Foucault pressochè contemporaneamente, o in ogni caso vi è tra
loro un legame strettissimo, essenziale. Perciò il “ritorno
agli Antichi” di Foucault e il suo interesse per l’etica del
sè non vanno interpretati alla luce di un presunto individualismo, narcisismo o dandismo, nè come una sostanziale retraite dall’impegno politico: essi non costituiscono
un tentativo di smarcarsi o di prendere le distanze dalle
proprie analisi degli anni settanta sul potere e sulla governamentalità, quanto al contrario un modo di prolungarle.
In altri termini, le analisi dell’ultimo Foucault hanno una
portata prettamente politica che occorre sempre tenere a
mente: se Foucault si interessa all’etica, cioè alle forme di
soggettivazione, al modo in cui gli individui hanno strutturato e possono strutturare il proprio rapporto con se stessi
attraverso una serie di esercizi o di tecniche, è perchè questo rapporto – il rapporto di sè con sè – costituisce una
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posta in gioco politica di fondamentale importanza. Non a
caso, in Sull’origine dell’ermeneutica del sè, Foucault propone una definizione di “governo” leggermente diversa, e più
esplicita di quelle fornite tra il 1978 e il 1979: il governo è «il
punto di contatto tra [il modo in cui] gli individui sono […]
guidati dagli altri e il modo in cui […] conducono se stessi».
Governare, dunque, non significa «forzare le persone a fare
ciò che vuole chi governa», ma si tratta al contrario di un
«equilibrio versatile, fatto di complementarità e conflitti»,
tra tecniche di potere e tecniche di sè,10 cioè tra processi di
assoggettamento e processi di soggettivazione.
Quest’ultima formulazione rende forse più chiaro in
che senso la relazione di sè con sè, la costituzione della soggettività, si configuri in Foucault come un luogo decisivo di
confronto (e di scontro) tra le tecnologie governamentali di
potere e le pratiche di resistenza o di libertà che la forgiano e rimodellano continuamente. Perciò le analisi “etiche”
dell’ultimo Foucault, che indagano il punto di contatto e
di articolazione tra il governo di sè e il governo degli altri,
possiedono in realtà una portata squisitamente politica; perciò esse sono in grado di fornirci strumenti essenziali per
formulare in modo innovativo il problema del rapporto tra
etica e politica – così ridefinite. In questo senso, vorrei ora
mostrare perchè l’idea di un’“etica del sè” e quella di una
“politica di noi stessi” giungano ad intersecarsi, in un contesto nel quale l’analisi delle diverse forme antiche di soggettivazione è da considerarsi come una riflessione engagèe sulle
pratiche di resistenza che è possibile opporre ai meccanismi
del potere governamentale.
Etica del sè e politica di noi stessi
In Sull’origine dell’ermeneutica del sè, Foucault inscrive la propria riflessione all’interno di un progetto che mira
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a ricostruire la genealogia del soggetto (occidentale) moderno; e in una ricerca che metta in luce le tecniche e le
pratiche che «costituiscono la concezione occidentale del
soggetto», egli scorge «la possibilità reale di costruire una
storia di ciò che abbiamo fatto e, al tempo stesso, una diagnosi di ciò che siamo». Una simile analisi teorica è dotata,
ai suoi occhi, di un’esplicita «dimensione politica»: ricollegandosi a quanto aveva già affermato, due anni prima, in
Qu’est-ce que la critique?, Foucault sostiene infatti di voler
praticare una «filosofia critica» che però, a differenza della
critica kantiana, non cerca di determinare le condizioni e
i limiti della nostra possibile conoscenza dell’oggetto, ma
che al contrario – sulla scorta dell’articolo di Kant sull’Illuminismo – ha come obiettivo quello di mettere in luce
«le condizioni e le indefinite possibilità per trasformare il
soggetto, per trasformare noi stessi».11 Lo scopo che Foucault attribuisce esplicitamente alle proprie analisi degli
anni Ottanta (ma lo stesso si potrebbe dire per i suoi lavori degli anni Settanta) è quello di spingerci a domandarci
cosa siamo disposti ad accettare nel nostro mondo, nella
nostra situazione, in noi stessi, e cosa invece vogliamo rifiutare, cambiare, trasformare. È questa domanda a definire il contenuto di ciò che Foucault, nel 1980 a Berkeley
e al Dartmouth College, chiama «politica di noi stessi».12
Espressione apparentemente curiosa, spiazzante, che tuttavia diviene intelligibile sulla base delle premesse poste in
precedenza: “noi stessi”, il nostro rapporto con noi stessi,
costituisce secondo Foucault un vero e proprio campo di
battaglia, e una posta in gioco politica.
Così, lo studio delle tecniche di sè (combinato con
quello delle tecniche di potere) si rivela cruciale, poichè
permette di mostrare che «il sè non è nient’altro che il
correlato storico [delle tecnologie] che abbiamo costruito
nella nostra storia»13 – tecnologie, beninteso, di assoggetta48
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mento così come di soggettivazione. Stando alle analisi di
Foucault, infatti, non esiste un “soggetto” o un “sè” originario, naturale, necessario, dato, che si tratterebbe allora
di scoprire e portare alla luce, al fine di rinunciarvi (come
vorrebbe il cristianesimo) o di identificarci ad esso senza
residui (come vorrebbero le recenti etiche dell’autenticità). Il soggetto, il sè, è storico e contingente, è il frutto di
una costruzione che, in quanto tale, Foucault ci invita a
mettere in discussione: se il sè non è un dato necessario,
chiediamoci se siamo disposti ad accettare il sè che ci è proposto dalle diverse tecnologie governamentali nelle quali la
nostra vita è presa, un sè che tali tecnologie costruiscono
precisamente al fine di condurre gli individui in questo o
quel modo, cioè di assoggettarli. Chiedersi se siamo disposti ad accettare il sè che ci è proposto significa dunque,
allo stesso tempo, chiedersi se siamo disposti ad accettare
di essere governati o condotti in questo modo, da queste
persone, in nome di questi princìpi, in vista di tali obiettivi
e attraverso tali procedimenti. 14 Tale interrogazione fonda,
per Foucault, la pratica della critica, e della resistenza, che,
in un certo senso, comincia sempre con un rifiuto, con un
“no”, con un “non posso accettarlo”, “non voglio più”,
“non così, non in questo modo, non da queste persone,
ecc.”.
Ma la pratica della resistenza non si ferma qui, non
si ferma allo stadio negativo del rifiuto, per quanto esso
sia fondamentale. Le “contro-condotte” al potere pastorale che Foucault studia nel 1978, in Sicurezza, territorio,
popolazione,15 non sono semplici reazioni di rifiuto alla governamentalità messa in atto dal pastorato cattolico: sono
anche forme alternative di condotta, rappresentano condotte altre – “vite altre”, come avrebbe forse detto Foucault qualche anno più tardi.16 È per questo che la “politica
di noi stessi” implica anche, contemporaneamente, un’“e49
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tica del sè”, ovvero il tentativo di cambiare, trasformare,
trasfigurare il nostro rapporto con noi stessi, il nostro sè, al
fine di inventare nuove relazioni con gli altri e nuovi modi
di vita, e di sfuggire – almeno parzialmente, o momentaneamente – alla presa dei meccanismi governamentali. Da
questo punto di vista, l’analisi foucaultiana di una serie di
tecniche di sè e di esercizi ascetici che si trovano formulati
nei testi filosofici antichi, pur non volendo suggerire alcuna anacronistica ri-attualizzazione del passato, va senza
dubbio interpretata, da un lato, come un tentativo di mostrare che la relazione di sè con sè ha assunto forme molto
diverse da quelle attuali e, dall’altro, come un “supporto”
per l’immaginazione etica, un “puntello” per il lavoro –
creativo – che siamo chiamati a compiere su noi stessi nel
caso decidessimo di dire “no”, di resistere. Di conseguenza, lo studio dell’Antichità greco-romana è strategicamente
fondamentale, dal punto di vista etico e politico, per noi,
oggi.
Foucault spiega il perchè in modo molto chiaro ed efficace nel corso di una discussione svoltasi al Dipartimento
di Storia dell’Università di California, Berkeley, nell’aprile
del 1983. In tale circostanza, Foucault sostiene che, nelle
nostre società occidentali moderne, l’etica sia sempre stata
legata a tre cose, a tre istanze: la religione, le leggi (l’organizzazione giuridica) e la scienza (la medicina, la psicologia, la sociologia, la psicanalisi, ecc.). Tuttavia, questi tre
grandi riferimenti della nostra etica alla religione, alla legge e alla scienza sono ormai vuoti, inefficaci, hanno perduto la loro ragione di essere; e così ci troviamo di fronte alla
necessità di avere un’etica – perchè abbiamo bisogno di
un’etica! – ma non sappiamo più a chi rivolgerci. Se guardiamo al nostro passato, al mondo greco-romano, però,
ecco che troviamo l’esempio di una società nella quale
un’etica, e un’etica molto importante e sviluppata, è esistita
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senza bisogno di quei riferimenti – religione, legge, scienza. Il
problema non è ritornare all’etica antica, ovviamente, ma studiare, conoscere tale etica può consentirci di renderci conto
che «è possibile fare una ricerca in etica, è possibile costruire
una nuova etica, è possibile far posto a ciò che chiamerei l’immaginazione etica, senza fare riferimento nè alla religione, nè
alla legge, nè alla scienza».17 Se, come Foucault afferma ne
L’ermeneutica del soggetto, la costruzione di un’etica del sè è
«un compito urgente, fondamentale, politicamente indispensabile, se è vero che, dopotutto, non esiste un altro punto,
originario e finale, di resistenza al potere politico, che non
stia nel rapporto di sè con sè»,18 tale compito non si limita
dunque nè al semplice rifiuto di un determinato sè che ci viene imposto, nè consiste in una anacronistica riutilizzazione
di tecniche e strumenti etici peculiari a una società e a una
cultura che non sono più le nostre. Tale compito è un compito prettamente sperimentale che, come afferma Foucault nel
suo articolo del 1984 su Kant e l’Aufklärung, dopo aver colto,
«nella contingenza che ci ha fatto essere quello che siamo, la
possibilità di non essere più, di non fare o di non pensare più
quello che siamo, facciamo o pensiamo», mira a concretizzare una simile possibilità, mettendoci alla prova della realtà
e dell’attualità «per afferrare i punti in cui il cambiamento
è possibile e auspicabile e, al tempo stesso, per determinare
la forma precisa da dare a questo cambiamento». Si tratta,
conclude Foucault, di «un lavoro di noi stessi su noi stessi in
quanto esseri liberi»19 – ed è forse questa la formulazione più
pregnante di ciò che dovremmo intendere per “etica del sè” e
per “politica di noi stessi”.
La trasfigurazione cinica della politica
In conclusione, vorrei cercare di mostrare come, in particolare grazie all’analisi del cinismo antico proposta nel
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suo ultimo corso al Collège de France, Il coraggio della
verità, Foucault giunga a concepire il rapporto tra etica
e politica nella forma di un’implicazione reciproca, nella
quale la dimensione etica acquisisce in se stessa una portata politica, configurandosi come il luogo privilegiato di
una trasfigurazione della nostra idea di ciò che è “politico”
e di ciò che non lo è. Mi sembra infatti che, tra il 1983 e il
1984, Foucault proponga una ridefinizione della politica
analoga a quella che aveva già avanzato negli anni Settanta, ma questa volta passando per l’etica, utilizzando cioè il
campo dell’etica del sè come un vero e proprio laboratorio
di sperimentazione politica.
Ne Il coraggio della verità, Foucault individua come
punto di passaggio, come “ponte” tra la parrhesia socratica e la parrhesia cinica, il dialogo platonico Lachete, nel
quale l’oggetto della cura di sè, la sostanza etica (ciò di cui
dobbiamo occuparci), non è più l’anima (come nel caso
dell’Alcibiade), ma la vita, il bios, la maniera che abbiamo
di condurre la nostra esistenza quotidiana. 20 La parrhesia
assume così un senso diverso e specifico: Socrate è considerato un parresiaste non tanto perchè è in grado di “vedere”
la verità eterna delle Idee e di dirla, di strutturare il proprio discorso sulla base di tale verità, ma perchè esibisce,
mostra, mette sotto gli occhi di tutti un’armonia perfetta –
una “sinfonia” – stabilita tra le proprie parole e le proprie
azioni, tra il proprio logos e il proprio bios. In questo caso,
quindi, per Socrate, «la traiettoria va dall’armonia tra vita
e discorso alla pratica di un discorso vero, di un discorso
libero, di un discorso franco»21: la parrhesia si articola in
modo essenziale sullo stile di vita. Tuttavia, la parrhesia
socratica rimane pur sempre una parrhesia discorsiva, nella
quale il logos riveste un ruolo di fondamentale importanza
e il bios, la maniera di vivere, non è che il basanos, la pietra
di paragone capace di autentificare il discorso, e non il
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vero e proprio luogo di emergenza della verità. Solo con il
cinismo, secondo Foucault, questo passaggio dal logos al
bios si realizza compiutamente: la parrhesia cinica, infatti,
abbandona quasi del tutto il campo verbale, e diventa essa
stessa modo di vita – dal dir-vero si passa al vivere-vero.
Il cinismo non si accontenta […] di abbinare o di far corrispondere, in un’armonia o in un’omofonia, un certo tipo di discorso
e una vita conforme ai princìpi enunciati nel discorso. Il cinismo
associa il modo di vita e la verità in una forma molto più serrata,
molto più precisa. Fa della forma dell’esistenza una condizione
essenziale del dire-il-vero. Fa della forma dell’esistenza la pratica di riduzione che lascerà spazio al dire-il-vero. Infine, fa della
forma dell’esistenza un modo di rendere visibile, nei gesti, nel
corpo, nella maniera di vestirsi, nella maniera di comportarsi
e di vivere, la verità stessa. Insomma, il cinismo fa della vita,
dell’esistenza, del bios, ciò che potremmo chiamare un’aleturgia, una manifestazione della verità.22
È grazie a una simile ridefinizione della parrhesia nel
cinismo che Foucault mette radicalmente in questione le
frontiere classiche, la tradizionale separazione tra etica e
politica. Divenendo co-essenziale alla vita del filosofo cinico, la parrhesia si trasforma nella sua caratteristica primaria: la vita del cinico non è messa alla prova dalla verità, ma
è essa stessa che mette alla prova la verità della vita degli
altri, grazie alla propria alterità fondamentale. La parrhesia
cinica è una parrhesia che si incarna nel comportamento,
nei gesti, nel corpo, e che – al limite – non ha più bisogno
di essere espressa attraverso il discorso. Ed è una parrhesia
essenzialmente critica, che manifesta una verità intesa non
come accordo o come tranquilla composizione di posizioni differenti, quanto al contrario come una rottura, uno
scandalo, una lotta. La vita del cinico, luogo di emergenza
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per eccellenza della sua parrhesia, per essere “vera” deve al
contempo essere una vita radicalmente e paradossalmente
altra – altra rispetto alla vita dei più, ma altra anche rispetto alla maniera di vivere degli altri filosofi, che affermano
nel proprio logos una serie di verità che non sono però in
grado di mettere in pratica, che non riescono (e che non
sono nemmeno disposti) ad incarnare. Nella sua analisi del
cinismo antico, insomma, Foucault ci mostra che, al di fuori dell’elemento del logos, facendosi vita, prendendo letteralmente corpo, la verità è un evento scandaloso. Perciò la
vita del filosofo cinico, il rapporto (etico) che egli instaura
con sè stesso, la forma concreta che assume la sua soggettività, devono essere considerati come il vettore di una
critica prettamente politica: il bios cinico mira essenzialmente all’«aggressione esplicita, volontaria e costante che
si rivolge all’umanità in generale, […] con la prospettiva o
l’obiettivo di cambiarla: cambiarla nel suo atteggiamento
morale (nel suo ethos), ma cambiarla, al tempo stesso e
perciò stesso, nelle sue abitudini, nelle sue convenzioni,
nei suoi modi di vivere».23
Il cuore dello studio foucaultiano del cinismo antico
è costituito, quindi, dall’analisi degli effetti socio-politici
di una parrhesia che si fa vita, esistenza. Foucault mostra
così in che modo il filosofo cinico faccia della costruzione
etica della propria vita, del proprio rapporto di sè con sè,
una posta in gioco che è direttamente ed esplicitamente
politica, e che assume la forma di una contestazione e di
una resistenza iperbolica a tutte le convezioni, abitudini e
“verità” comunemente accettate. Insomma, inserendo senza resti e senza “zone d’ombra” la propria vita nello spazio
pubblico, mettendola sotto gli occhi di tutti, il cinico la
utilizza come una vera e propria arma politica, come lo
strumento essenziale del proprio tentativo di trasformare,
di trasfigurare, l’idea stessa di ciò che è “politico”. Infat-
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ti, il cinico “politicizza” luoghi e spazi inediti, tradizionalmente non deputati alla politica in senso stretto: non
sono “politici” soltanto l’Assemblea o i tribunali, ma anche la strada, la piazza, il mercato, lo spettacolo teatrale,
e così via. Analogamente, egli “politicizza” gesti inediti: non si fa politica solo prendendo la parola all’Assemblea o votando, poichè tutto nella nostra vita quotidiana
può assumere un valore politico, ogni piccolo gesto, ogni
comportamento, ogni decisione, ogni opinione ricevuta,
ogni abitudine. 24 Così, facendosi vita, la parrhesia cinica
“politicizza” lo spazio sociale nel suo complesso e, attraverso la “pubblicità” radicale che la caratterizza, mostra
chiaramente in che senso l’etica stessa possa assumere un
valore politico, o meglio come possa essere considerata
un’espressione direttamente politica. 25
Inscrivendo senza residui il proprio lavoro etico di
sè su sè all’interno della vita sociale della città, nella forma di uno scandalo perpetuo, il filosofo cinico incarna
quindi alla perfezione, mette in pratica in ogni gesto e
modo di fare, quell’atteggiamento critico, quell’ethos filosofico che consiste, secondo Foucault, nell’individuare
e nel mostrare «la parte di ciò che è singolare, contingente e dovuto a costrizioni arbitrarie in quello che ci è dato
come universale, necessario e obbligato» 26. Etica e politica di noi stessi, dunque, dove il “noi stessi” non deve essere considerato il segno di una chiusura solipsistica nello
spazio individuale o “privato”, ma al contrario il cardine, il fulcro, il vettore essenziale di una trasfigurazione
dell’etica e della politica, trasfigurazione che assume la
forma della “politicizzazione” possibile, e senza dubbio
necessaria, di ogni aspetto della nostra esistenza sociale.
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Note
Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1
(1976), Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 81-86.
2
M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sè. Due conferenze al Dartmouth College (1980), a cura di mf / materiali foucaultiani, Napoli, Cronopio, 2012, p. 40.
3
Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al
Collège de France (1977-1978), a cura di M. Senellart, Milano,
Feltrinelli, 2005, pp. 88 ss.
4
Cfr. ivi, p. 143.
5
Cfr. ivi, pp. 135-136.
6
Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au
Collège de France. 1979-1980, a cura di M. Senellart, Paris,
EHESS-Gallimard-Seuil, 2012, pp. 225-227.
7
Cfr. M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2
(1984), Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 31-32.
8
M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sè, cit., p. 39.
9
È bene precisare che il modo in cui utilizzo i termini “assoggettamento” e “soggettivazione” non si trova, o almeno non
con questa chiarezza, in Foucault, il quale anzi usa questi due
concetti in maniera piuttosto fluida e, talvolta, entrambi per
indicare l’azione delle tecniche di potere (cfr. per esempio M.
Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 141). La distinzione netta che propongo di istituire tra assoggettamento e
soggettivazione, legando il primo termine alle tecniche di potere e il secondo alle tecniche di sè, è dunque una precisa scelta
filosofica, che compio seguendo il suggerimento di Arnold I.
Davidson (cfr. A.I. Davidson, Dall’assoggettamento alla soggettivazione: Michel Foucault e la storia della sessualità, in «aut aut»,
n. 331, 2006, pp. 3-10).
1
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M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sè, cit., p. 40.
Ivi, pp. 37-38.
12
Ivi, p. 92.
13
Ibidem.
14
Cfr. M. Foucault, Illuminismo e critica (1978), a cura di P.
Napoli, Roma, Donzelli, 1997, p. 37.
15
Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp.
151 ss. Sulla nozione di “contro-condotta”, si veda A.I. Davidson, In Praise of Counter-Conduct, in «History of the Human
Sciences», vol. 24, n. 4, 2011, pp. 25-41.
16
Cfr. M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sè e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), a cura di F. Gros,
Milano, Feltrinelli, 2011, p. 274.
17
M. Foucault, Dèbat au Dèpartement d’Histoire de l’Universitè
de Californie à Berkeley (1983), in Qu’est-ce que la critique ? suivi de La culture de soi, a cura di A.I. Davidson, H.-P. Fruchaud
e D. Lorenzini, Paris, Vrin, 2014 (in corso di pubblicazione).
18
M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de
France (1981-1982), a cura di F. Gros, Milano, Feltrinelli, 2003,
p. 222.
19
M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo? (1984), in Archivio Foucault 3. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 228-229.
20
Cfr. M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., pp. 145 ss.
21
Ivi, p. 149.
22
Ivi, pp. 169-170.
23
Ivi, p. 268.
24
«[N]iente è politico, tutto è politicizzabile, tutto può diventare politico»; manoscritto del corso al Collège de France del
1978, citato da Michel Senellart nella sua Nota del curatore, in
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 291.
25
Per uno sviluppo più ampio di questo tema, mi sia permesso
rimandare a D. Lorenzini, Èthique et politique de nous-mêmes :
à partir de Michel Foucault et Stanley Cavell, in D. Lorenzini, A.
10
11
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Revel e A. Sforzini (a cura di), Michel Foucault : èthique et vèritè
(1980-1984), Paris, Vrin, 2013, pp. 239-254.
26
M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, cit., p. 228.
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MICHEL FOUCAULT E LA CRITICA DELL ’IDEOLOGIA
NEI C ORSI AL C OLLÈGE DE F RANCE
Orazio Irrera
Nella lezione del 30 gennaio del suo Corso del 1980 al
Collège de France Del governo dei viventi, Foucault ribadisce il suo rifiuto di analizzare «il pensiero, il comportamento e il sapere degli uomini» nei termini di un’analisi ideologica, aggiungendo che, praticamente ogni anno, durante
ogni suo corso, egli è ritornato su questa esigenza di smarcarsi da una prospettiva segnata dall’ideologia, operando
ogni volta un piccolo spostamento per conferire così alla
sua critica nuove forme di intelligibilità. 1 Questa mobilità,
così caratteristica del modo di condurre il proprio lavoro teorico, non deve tuttavia farci perdere di vista il fatto
che se Foucault, nell’arco di circa un decennio, si è così
insistentemente soffermato sulla critica dell’ideologia, è
perchè, presumibilmente, tale nozione rappresenta per lui
– seppur negativamente – un nodo teorico e metodologico
di grande rilevanza. Infatti attraverso tutta questa serie di
considerazioni critiche sulla reale capacità esplicativa della
nozione di ideologia, risulta possibile far apparire, quasi in
filigrana al suo insegnamento, un percorso teorico che lo
attraversa sotterraneamente dalla fine dall’inizio degli anni
’70 fino ai primi anni degli anni ’80. Si tratta di un percorso la cui ricostruzione può mostrarci in che modo gli spostamenti concettuali che Foucault compie a proposito della critica dell’ideologia possano essere messi in relazione
alle poste in gioco epistemologiche ed etico-politiche che
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man mano appaiono nel suo mobile itinerario di ricerca e
di insegnamento al Collège de France. Nel presente contributo cercheremo di raggruppare questo insieme di critiche
in quattro grandi tipologie. Nel primo l’accento sarà posto
sulla critica dell’opposizione scienza/ideologia che prende le mosse da una problematizzazione interna alla storia
delle scienze e al progetto foucaultiano di un’archeologia
del sapere che non potrà essere compiutamente analizzata,
ma fornirà lo sfondo per comprendere come questo tipo di
critica dello schema binario scienza/ideologia verrà riproposta all’interno di un quadro tematico segnato dall’inizio
degli anni ’70 da preoccupazioni genealogiche. Nel secondo gruppo si prenderà in esame il dialogo sotterraneo con
le tesi di Althusser sugli apparati ideologici di Stato che
viene criticato alla luce delle ricerche foucaultiane sull’emergere della società punitiva e lo strutturarsi di un potere
psichiatrico. La terza tipologia di critiche raggrupperà i
Corsi della seconda metà degli anni ’70 in cui l’ideologia
come rappresentazione della realtà data dal posizionamento di classe è opposta alla produzione di un sapere che
risulta co-implicato genealogicamente in un contesto fatto
di lotte e di esigenze governamentali. Infine, la quarta tipologia si occuperà di sottolineare come un’analisi in termini ideologici possa essere criticata e sostituita da un’altra
questione, ovvero in che modo del governo degli uomini
si interseca con le modalità di manifestazione della verità
nella forma della soggettività.
1. La critica dello schema scienza/ideologia tra archeologia
e genealogia
Prima di inoltrarci in questa analisi bisogna tuttavia
innanzitutto soffermarsi una precisazione preliminare: le
occorrenze della nozione di ideologia negli scritti di Fou60
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cault mostrano come si abbia a che fare con un concetto
“scivoloso” nella misura in cui esso non è solo oggetto di
tematizzazione e di critica. Infatti, soprattutto in occasione
di interviste o di seminari, il riferimento all’ideologia appare in forme e modalità non problematizzate. Accade così
che Foucault per esporre le proprie posizioni faccia riferimento a un significato corrente del termine che si riveli di
immediata comprensione per un certo tipo di interlocutore
o un certo tipo di pubblico.2 Se questo uso ordinario del
termine ideologia non rientra nella nostra ricostruzione,
nondimeno esso non costituisce neppure l’unica limitazione di campo a cui è sottomessa la presente analisi. Infatti,
non potendo per evidenti ragioni di spazio condurre una
trattazione esaustiva della questione dell’ideologia nell’intera opera di Foucault, la decisione di soffermarsi suoi
Corsi al Collège de France implica di tralasciare, da una
parte, un esame sistematico degli interventi, degli scritti
d’occasione e delle interviste contenuti principalmente nei
Dits et ècrits. D’altra parte, questa scelta impone anche di
mettere da parte una fase comunque molto importante per
l’elaborazione critica di questo concetto che è comunque
presente in alcuni rilevanti passaggi dei suoi libri degli anni
’60 come Le parole e le cose e L’archeologia del sapere, ma
che richiederebbe un lavoro specifico che in questa sede
non è possibile svolgere.3 L’angolo di attacco alla questione dell’ideologia è costituito dalla questione della storia
delle scienze, e la sua critica presuppone come sfondo, da
un lato, la tradizione della cosiddetta epistemologia storica francese4 (soprattutto in relazione a Bachelard e Canguilhem5) e, dall’altro, le elaborazioni del rapporto scienza/ideologia sviluppate all’interno di un quadro di analisi
marxista da Althusser.6
La scelta di limitarsi ai Corsi ha però il merito di soffermarsi su materiali ancora poco analizzati rispetto ai libri
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degli anni ’60 e restituisce senza dubbio un respiro più
ampio alla problematizzazione complessiva che Foucault ha fornito della nozione di ideologia. In ogni caso, pur
mettendo da parte la dimensione archeologica entro cui
l’ideologia viene messa in questione dalle opere degli anni
’60, il riferimento ad Althusser resta nondimeno centrale
anche per comprendere come Foucault continui a elaborare tutta una molteplicità di prospettive critiche su questo
concetto all’interno delle sue lezioni al Collège de France.
Non sembra infatti casuale che l’unico riferimento bibliografico puntuale presente nell’introduzione de L’archeologia del sapere, quando Foucault passa in rassegna i vari fenomeni di rottura epistemologica prodottisi recentemente
in un gran numero di discipline (storia, filosofie, scienze),
sia proprio Per Marx di Althusser, menzionando il «lavoro
di trasformazione teorica quando esso “fonda una scienza
staccandola dall’ideologia del suo passato e rivelando questo passato come ideologico”.».7
La trasformazione teorica che per Althusser la
scienza assicura producendo delle conoscenze vere non
agisce solo retrospettivamente, verso il passato, configurando le teorie che precedono l’affermarsi di una scienza
come la propria «preistoria», ma opera anche nel presente, trasformando «in “conoscenze” (verità scientifiche) il
prodotto ideologico delle pratiche “empiriche” (l’attività
concreta degli uomini) esistenti».8 La scienza diventa quindi la condizione di possibilità di accesso alla conoscenza
intesa come verità scientifica, configurando uno schema
binario in cui da una parte sta la scienza/conoscenza/verità e, dall’altra, l’ideologia/errore/illusione. Questo schema
binario “scienza vs ideologia” non costituisce soltanto il
punto di partenza della critica foucaultiana dell’ideologia
all’interno del progetto archeologico degli anni ’60. A partire dall’inizio degli anni ’70 e, più in particolare, dal primo
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Corso tenuto da Foucault al Collège de France, pubblicato
col titolo di Lezioni sulla volontà di sapere, tale schema
viene messo in discussione anche secondo una prospettiva
genealogica.9
Nell’interpretazione della filosofia di Nietzsche che
Foucault fornisce in questo corso viene infatti proposto
un rovesciamento polemico, dagli esiti all’apparenza paradossali, di questo schema binario. Attraverso una rivisitazione in chiave anti-heideggeriana dei rapporti tra sapere,
verità e conoscenza, Foucault colloca Nietzsche non già
al culmine della tradizione filosofica occidentale secondo
un asse che congiungeva idealmente Aristotele, Cartesio
e Kant (come aveva fatto Heidegger), ma su una linea di
sviluppo alternativa in cui Nietzsche giungerebbe invece a
mostrare la disimplicazione fondamentale tra verità e conoscenza,10 sottolineando come, dietro questo legame che
appariva inscindibile, operi invece il desiderio, l’istinto e
la violenza. In questo senso, la verità cui giunge la conoscenza si mostra paradossalmente come il suo contrario,
come menzogna. Pertanto, questa conoscenza non è più
legata alla verità ma a un anonimo voler conoscere tramato
di violenza.
Questa disimplicazione di conoscenza e verità pone
così la questione del rapporto tra la verità e la volontà.
In effetti, seguendo Heidegger, Foucault ricorda che nella tradizione filosofica occidentale, la volontà non può
che consistere nel lasciar valere la verità. In altri termini,
perchè ci sia conoscenza la volontà deve annullarsi, fargli
posto, non predeterminando in quanto volontà nessun oggetto di conoscenza. La verità risulta quindi libera rispetto
alla volontà non ricevendo da essa alcuna determinazione,
così come, specularmente, anche la volontà deve essere libera per poter far posto alla verità e deve pertanto rinunciare al desiderio che le è implicito 11: la libertà sarebbe
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così al cuore della verità (sarebbe l’essere della verità 12) e
costituirebbe al tempo stesso il dovere della volontà. Secondo Foucault per Nietzsche questo rapporto tra volontà
e verità potrebbe invece articolarsi solo all’insegna della
costrizione e della dominazione, così al posto della libertà
si troverebbe piuttosto la violenza. La critica nietzschiana
renderebbe allora impossibile «tutta un’“ideologia” del sapere come effetto della libertà e ricompensa della virtù» 13.
Il rapporto tra volontà e verità garantito dalla libertà dovrebbe al contrario essere considerato come il regno della
menzogna, dell’illusione, dell’ideologia, in quanto l’effettiva l’articolazione della volontà e della verità è data dalla
violenza. Attraverso questa interpretazione di Nietzsche,
Foucault cerca pertanto di rovesciare le coppie verità/errore, verità/illusione e verità/menzogna, in modo che la
verità che si vuole come il prodotto, il fine e il compito
“naturale” della conoscenza, si rivela invece il suo contrario, ovvero l’ideologia. Inoltre, questo vuol dire che non
solamente la conoscenza non è ritenuta capace di liberare
la verità dall’errore, dall’illusione, ma che la sua co-implicazione con la volontà, fa sì che la produzione di verità
che essa rende possibile, in realtà, si avvolga sempre di più
nell’errore, nell’illusione, nell’ideologia.
2. La critica degli apparati ideologici di Stato
Nei successivi Corsi al Collège de France nella prima
metà degli anni ’70 , il dialogo con Althusser continua a
restare sotteso alla problematizzazione della nozione di
ideologia. Tuttavia, tale dialogo non si svolge più all’insegna della critica allo schema binario verità/ideologia, ma a
partire da una concezione del potere che fa ricorso all’ideologia all’interno di una prospettiva basata sulla centralità
dello Stato e dei suoi apparati, e in cui, peraltro, è possibile
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riconoscere alcune importanti argomentazioni del celebre
e influente saggio di Althusser pubblicato nel 1970 col titolo di Ideologia ed apparati ideologici di Stato14. In questo
contesto ritroviamo la critica della nozione di ideologia il
28 marzo 1973, nell’ultima lezione del Corso su La sociètè
punitive15. In questa sede Foucault, si interroga su come
l’istituzione della prigione e con essa la pratica della reclusione come forma prevalente di punizione si siano entrambe affermate all’inizio del XIX secolo. Non potendo
dedurle nè dalle teorie penali formulate nel secolo precedente, nè da una sociologia storica della delinquenza (dal
momento che i crimini con l’istituzione della prigione non
diminuiscono, anzi si innalza semmai il tasso di recidività),
Foucault si chiede in quale sistema di potere possa funzionare la prigione. Per rispondere a tale questione “per
esclusione”, vengono scartati ben quattro schemi teorici
per pensare il potere nella misura in cui essi si rivelano
inadeguati per spiegare la diffusione dell’istituzione carceraria.
È proprio in ognuno di questi schemi che si può ritrovare una critica a quella linea di continuità sviluppatasi
nella tradizione marxista che va da Lenin all’Althusser di
Ideologia ed apparati ideologici di Stato. In effetti, il primo
di questi schemi da rigettare è quello «teorico dell’appropriazione del potere», per cui il potere – inteso come qualcosa che si possiede e che può esser “preso” – sarebbe da
pensarsi o come appannaggio di una classe (la borghesia)
o come l’esito di un contratto sociale. Per Foucault questo
schema è da rigettare in quanto il potere non è localizzabile in un punto ma è invece diffuso in tutta la superficie
del campo sociale, passa attraverso delle reti e si esercita
su (e da) tutta una molteplicità di punti. È per tale ragione
che esso non può essere preso o posseduto. Nel secondo
schema preso in esame l’obiettivo polemico costituito dalle
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analisi althusseriane comincia a farsi sempre più evidente16, dal momento che il potere sarebbe concepito come
essenzialmente localizzato nello Stato e nei suoi apparati. Rispetto a questa prospettiva Foucault ricorda come lo
Stato è tutt’al più una forma concentrata, o una struttura
d’appoggio per il potere, ma che non esaurisce di certo il
campo entro cui questo viene concretamente a esercitarsi.
Il terzo schema a essere analizzato è quello della subordinazione, secondo cui il potere sarebbe subordinato a «una
certa maniera di mantenere o di riprodurre un modo di
produzione».17 Ma anche in questo caso, secondo Foucault, l’esercizio effettivo del potere va molto più in là di questa semplice funzione: «Il potere non può dunque più essere compreso soltanto come ciò che garantisce un modo di
produzione, come ciò che permette di costituire un modo
di produzione. Il potere in pratica è uno degli elementi
costitutivi del modo di produzione e funziona al cuore di
quest’ultimo».18 Nel quarto schema, troviamo finalmente
lo schema dell’ideologia per cui o il potere funzionerebbe in modo manifesto senza essere accompagnato da alcun
discorso nella sua forma violenta e repressiva, oppure si
eserciterebbe in maniera discorsiva, nascondendosi e, attraverso lo stesso gesto, facendosi accettare tramite la produzione di un’ideologia.19
A questo schema Foucault oppone il fatto che ovunque il potere si eserciti esso non produce un’ideologia che
lo dissimulerebbe, quanto piuttosto un sapere che con il
potere intrattiene dei rapporti positivi e complessi che permettono al potere di intensificare la sua forza strategica e
la sua pervasività mediante un aumento della sua razionalità calcolatrice.20
Foucault si mantiene nel solco di questo tipo di critica
dell’ideologia, nella cui filigrana si intravedono le pagine
di Ideologia ed apparati ideologici di Stato di Althusser, an66
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che nell’autunno dello stesso anno, durante la lezione del 7
novembre che inaugura il suo Corso successivo al Collège
de France su Il potere psichiatrico. Quello che cambia è
il quadro tematico, che è stavolta costituito dalla pratica
manicomiale e il potere psichiatrico. Anche se il termine
“ideologia” non è esplicitamente menzionato, Foucault
si sofferma sul rifiuto di impiegare tre nozioni, quella di
violenza, quella di istituzione e quella di famiglia intesa
tuttavia come apparato ideologico, nella misura in cui egli
afferma che sarebbe «falso sostenere, come spesso invece
accade, che la pratica manicomiale e il potere psichiatrico
altro non facciano se non riprodurre la famiglia nell’interesse, o in forza della richiesta, di un determinato controllo
pubblico, organizzato da un apparato di Stato. Non è l’apparato statale a poter servire da fondamento, nè la famiglia
a poter fungere da modello». In questa sede Foucault ribadisce che la nozione di apparato di Stato è eccessivamente
ampia ed astratta per designare «questi poteri immediati,
minuscoli, capillari, che si esercitano sul corpo, sul comportamento, sui gesti, sul tempo degli individui. L’apparato di Stato non può rendere conto di questa microfisica del
potere». Per tale ragione al posto della violenza Foucault
propone di sostituire una microfisica del potere, al posto
dell’istituzione le tattiche messe in opera dalle forze che si
affrontano, e al posto della famiglia o dell’apparato statale
ci sono invece le strategie dei rapporti di potere e gli scontri all’interno della pratica psichiatrica.21 In questo senso
è da leggere anche un breve richiamo presente nel manoscritto relativo alla lezione del 21 novembre 1973, in cui
Foucault sostiene che il potere disciplinare che agisce alla
stregua di un «contatto sinaptico corpi-potere», lasciando
da parte «il problema dello Stato, degli apparati di Stato,
e [facendo] a meno della nozione psicosociologica di autorità»22, in cui è ravvisabile un riferimento a una matrice
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freudo-lacaniana alla base della celebre concezione althusseriana dell’ideologia come “interpellazione” che trasforma l’individuo in soggetto.23
3. L’ideologia come rappresentazione falsata e il sapere/potere
Nei Corsi della seconda metà degli anni ’70, Foucault
sembra considerare la nozione di ideologia non più in riferimento agli apparati ideologici di Stato di Althusser, bensì
in un senso più neutro e meno caratterizzato, come visione del mondo, come rappresentazione o come idea più o
meno falsata e menzognera, prodotta da una posizione di
classe all’interno di un contesto dinamico segnato genealogicamente dal conflitto e dalle sue esigenze di tattica e
di strategia. Si tratta di una concezione dell’ideologia che,
in ultima analisi, Foucault critica opponendola al sapere
(e alla sua coimplicazione col potere). A partire da questa prospettiva leggermente diversa, ritroviamo la critica
dell’ideologia nel Corso “Bisogna difendere la società”, durante la lezione del 14 gennaio 1976. In questo frangente,
Foucault si pone il problema di approntare una griglia per
l’analisi del potere che eviti “la trappola” della teoria giuridico-politica della sovranità al fine di far apparire, nel
cuore della problematizzazione genealogica del diritto,
non già la sovranità, ma una particolare modalità di dominazione e di assoggettamento, ovvero il potere disciplinare. Ma una tale griglia analitica richiede un certo numero
di precauzioni, Foucault ne elenca cinque, di cui l’ultima si
riferisce ancora una volta alla questione dell’ideologia. Più
in particolare, Foucault si chiede se «i grandi macchinari
del potere siano stati accompagnati da produzioni ideologiche». Ovviamente anche in questo caso la risposta è
negativa: «non credo che quel che si forma alla base, nel
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punto terminale dei reticoli di potere, siano delle ideologie
[…] Sono degli strumenti effettivi di formazione e di accumulazione del sapere, sono dei metodi di osservazione,
delle tecniche di registrazione, delle procedure di indagine
e di ricerca, degli apparati di verifica. Tutto questo vuol
dire che il potere, quando si esercita nei suoi meccanismi
sottili, non può farlo senza formare, organizzare e mettere in circolazione un sapere o piuttosto degli apparati di
sapere che non sono semplici accompagnamenti o edifici
ideologici».24
Durante lo stesso Corso, all’inizio della lezione del
3 marzo del 1976, Foucault ricorda invece come l’emergere del discorso storico-politico proprio della reazione
nobiliare contro la monarchie a ridosso della Rivoluzione
«non deve essere considerato come l’ideologia o il prodotto ideologico della nobiltà e della sua posizione di classe.
Difatti, non si tratta qui tanto di ideologia, ma di qualcos’altro […] la tattica discorsiva, un dispositivo di sapere
e di potere che, proprio in quanto tattica, può risultare
trasferibile e quindi diventa la legge di formazione di un
sapere, e nello stesso tempo, la forma comune alla battaglia politica».25 Pertanto anzichè di ideologia per Foucault
si tratterebbe semmai di una generalizzazione tattica del
sapere storico, del discorso sulla storia. Infine, nell’ultima
celebre lezione, quella del 17 marzo 1976 in cui Foucault
affronta la questione del razzismo di Stato, viene sostenuto
che la specificità di questa forma di razzismo non è legata
nè alla mentalità, nè all’ideologia, nè alle menzogne del
potere, bensì a una specifica tecnologia di potere che è
la biopolitica che si interseca con la disciplina all’interno
delle società di normalizzazione.26
Queste analisi incentrate sulla biopolitica sono, del resto, ulteriormente sviluppate anche nel Corso successivo,
Sicurezza, territorio, popolazione, il cui tema generale è la
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storia della governamentalità, della razionalità e delle tecnologie di governo. Più in particolare, l’esigenza di smarcarsi da un’analisi in termini di ideologia appare quando
viene trattata l’apparizione dei dispositivi di sicurezza nella
seconda metà del XVIII secolo. Così, alla fine della lezione del 18 gennaio 1978 Foucault si interroga sullo statuto
che assume la libertà sia in quanto elemento fondamentale delle politiche liberali, sia come condizione storica di
possibilità della diffusione dei dispositivi di sicurezza. In
questo contesto viene rilevato come non si abbia più a che
fare con una disciplina che deve correggere una presunta
natura malvagia dell’uomo, rendendo quest’ultimo conforme a un modello prestabilito, che infine lo limiterebbe
nell’esercizio della propria libertà. Quello che invece viene
messo al centro è l’idea che da un punto di vista governamentale liberale risulterebbe troppo costoso costringere
tutta una serie di fenomeni d’insieme, siano essi naturali
o sociali, all’interno di un modello rigidamente disciplinare. Pertanto è meglio che tali fenomeni siano lasciati liberi di operare al fine di consentire un dispiegamento più
ottimale delle forze economiche del mercato. Per questa
concezione della governamentalità è quindi preferibile far
giocare ciascuna forza o ciascun fenomeno uno contro l’altro senza porsi l’obiettivo primario di modellare ognuno
di essi. La metafora del dar libero corso a delle forze che
agiscono come quelle della fisica si traduce, ad esempio sul
piano sociale, in una libertà di circolazione (degli uomini,
della forza-lavoro, delle merci, ecc.) che deve essere esente
da regolazioni se non quando essa dà luogo a qualcosa che
è ritenuto negativo, sbagliato, poichè supera certi valori
statistici che giocano il ruolo di norma: è qui che entrano
in gioco i dispositivi di sicurezza. Nelle politiche liberali
tutto questo processo si accompagna a una rivendicazione
generale della libertà con tutta una retorica i cui effetti
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sono ancora oggi chiaramente percepibili. Rispetto a questa invocazione di libertà Foucault si chiede se non sia il
caso di considerare quest’ultima alla stregua di un’ideologia, visto che il governo liberale degli uomini sarebbe
«incapace di operare senza trovare nella libertà di ognuno
il proprio sostegno».27
Ma proprio in virtù di queste analisi sul funzionamento delle tecnologie di potere del liberalismo e sulla loro
economia interna fatta di pratiche che Foucault dirà «consumatrici di libertà», si torna a ribadire: «Non si tratta essenzialmente di un’ideologia in senso proprio; direi che si
potrebbe leggere in primo luogo come una tecnologia di
potere».28 In altri termini, al massimo, si può parlare di
ideologia della libertà solo nella misura in cui essa risulta
correlata a delle tecnologie di governo e alle sue modalità
di funzionamento.
Proseguendo l’esame del liberalismo anche nel corso
dell’anno successivo, Nascita della biopolitica, nella lezione
del 17 gennaio 1979, Foucault propone di studiare il mercato come un regime di veridizione. Quest’ultimo, viene
rilevato, «non coincide con una certa legge della verità,
[ma] con l’insieme delle regole che consentono, a proposito di un discorso dato, di stabilire quali sono gli enunciati
che potranno esservi caratterizzati come veri o falsi». 29 Intendere il mercato come un regime di veridizione significa
inserirlo a sua volta in una genealogia di regimi veridizionali in cui si intrecciano verità e diritto e in cui appare storicamente un diritto alla verità che autorizza a «enunciare
quel che può essere vero o falso». Questa impresa genealogica viene distinta dall’ideologia, e dall’opposizione verità/ideologia, in quanto è «una storia della verità che non
va intesa, ovviamente, come ricostruzione della genesi del
vero attraverso la serie degli errori eliminati o rettificati,
nè come analisi della costituzione di un certo numero di
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razionalità storicamente successive, il cui ordine e la cui
coerenza sarebbero assicurate dalla rettifica o dall’eliminazione delle ideologie», quindi nessuna «storia dell’errore,
o la storia delle ideologie».30
Foucault si propone quindi di fare a meno di quella «critica della razionalità europea», ripresa dal romanticismo fino alla Scuola di Francoforte, che denuncerebbe
quel che di oppressivo si troverebbe sotto il dominio della
ragione, mettendo a nudo la presunzione di potere implicita in ogni verità riconosciuta. La prospettiva di Foucault,
al contrario, intende dare a questa genealogia della verità
una «portata politica», e «consiste, invece, nel determinare
a quali condizioni e con quali effetti si esercita una veridizione, vale a dire, ancora una volta, un tipo di formulazione che dipende da determinate regole di verificazione
e falsificazione».31 Dunque in questo passaggio la critica
dell’ideologia è ripresa all’interno del rifiuto delle opposizioni tra verità e ideologia, verità ed errore, verità ed illusione che si erano già incontrate nei Corsi precedenti, ma
in riferimento a un quadro problematico diverso, ovvero
l’emergere della razionalità governamentale del liberalismo.
4. L’ideologia e la manifestazione della verità nella forma
della soggettività
Nel Corso del 1980, Del governo dei viventi, il rifiuto
di un’analisi in termini di ideologia è articolato a partire da
un nuovo angolo di attacco, centrato sui rapporti tra verità
e soggettività. Si tratta qui di un passaggio fondamentale
per comprendere l’orizzonte tematico in cui il cosiddetto
“ultimo Foucault” affronta la questione della verità durante gli anni ’80. Innanzitutto bisogna premettere che in
questo Corso, con uno scarto che è tipico della sua maniera
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di procedere nelle sue ricerche, Foucault sostiene che per
studiare come il potere si esercita (all’interno del regime di
verità del cristianesimo) bisogna prendere in considerazione anche il modo in cui la verità si produce e si manifesta.
Più esattamente risulta fondamentale che questa verità sia
studiata per come si manifesta, dice Foucault, «nella forma
della soggettività» – in cui cioè la soggettività figura come
l’operatore, spettatore (o testimone) e l’oggetto di questa
manifestazione,32 mostrando così come il modo in cui la
verità si manifesta nella forma della soggettività – che Foucault chiama “aleturgia” – produce degli effetti che vanno
ben al di là della semplice conoscenza, essendo dell’ordine
della salvezza o, secondo un lessico concettuale più secolarizzato, della liberazione. Per tale ragione Foucault si chiede come si possano studiare le configurazioni storiche che
nella nostra civiltà occidentale hanno assunto i rapporti tra
il governo degli uomini, la manifestazione della verità nella
forma della soggettività e la questione della salvezza.33
Questi rapporti tra governo, verità, soggettività e salvezza, ricorda Foucault, sono stati già indagati attraverso la
nozione di ideologia, nel senso che il governo degli uomini
sarebbe possibile attraverso ciò che essi manifestano senza
alcuna costrizione nella forma immaginaria della salvezza, ovvero proprio nella misura in cui ritengono verità quello che
sarebbe soltanto opera della loro immaginazione e pertanto
vi si sottomettono spontaneamente, rendendosi così governabili in virtù di questa stessa sottomissione alla verità.34 Ma
questo modo di mettere le cose appare insufficiente agli occhi
di Foucault viste le discrepanze registrate da numerose ricerche storiche sui rapporti tra rivoluzione e religione. Inoltre,
questo modo di vedere le cose, inscrive tale analisi in termini
di ideologia entro una questione più ampia e generale che
Foucault chiama “filosofico-politica”, ovvero:
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Quando il soggetto si sottomette volontariamente al legame con
la verità, in un rapporto di conoscenza, quando cioè pretende,
dopo essersi dato i fondamenti, gli strumenti, le giustificazioni,
di fare un discorso di verità – a partire da qui, che cosa può dire
a proposito, a favore o contro il potere che lo assoggetta senza
che lui lo voglia? In altre parole, il legame volontario con la verità che cosa può dire sul legame involontario che ci fa aderire e
ci piega al potere?.35
Insoddisfatto dai termini in cui è posta tale questione
Foucault cerca quindi di capovolgerla: non si tratta di partire dalla garanzia di un diritto all’accesso alla verità, nè
di presupporre prima di ogni altra cosa la sussistenza di
un legame volontario e contrattuale con la verità, bensì di
chiedersi innanzitutto:
che cosa ha da dire la messa in questione sistematica, volontaria,
teorica e pratica del potere riguardo al soggetto di conoscenza
e al legame con la verità con cui egli si trova involontariamente annodato? Non si tratta più di dirsi: essendo dato il legame
che mi lega volontariamente alla verità, che cosa posso dire del
potere? Ma: essendo dati la mia volontà, decisione e sforzo di
sciogliere il legame che mi lega al potere, che ne è allora del
soggetto di conoscenza e della verità? Non è la critica delle rappresentazioni in termini di verità o di errore, in termini di verità
o di falsità, in termini di ideologia o di scienza, di razionalità o
di irrazionalità, che deve servire da indicatore per definire la
legittimità del potere o per denunciare la sua illegittimità. È il
movimento per liberarsi dal potere che deve fare da rivelatore
delle trasformazioni del soggetto e del rapporto che questi mantiene con la verità.36
Si tratta di un passaggio molto rilevante che meriterebbe di certo delle analisi più approfondite che non possiamo
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tuttavia svolgere in questa sede. Quello che ci limitiamo
a notare è che qui la soggettività viene messa in relazione a un atteggiamento critico che individua, nello stesso
processo di assoggettamento a una verità, uno spazio di
un intervento di sè su sè, una possibilità di trasformazione
della soggettività attraverso questa soggettività stessa. Si
tratta insomma di quel che, del resto, sarà al centro delle preoccupazioni etico-politiche delle ultime ricerche di
Foucault. Da questa nuova prospettiva, a un’analisi in termini di ideologia, Foucault oppone lo studio dei regimi di
trasformazione del rapporto che la soggettività intrattiene
con la verità, e che è operato dalla stessa soggettività. La
possibilità di questo governo di sè non è tuttavia ancorata
a una dimensione solitaria della soggettività, ma ha luogo
sempre in relazione a un universo sociale di riferimento in
cui prendono senso tutti gli sforzi di elaborazione del sè.
Dopo il passaggio appena riportato, Foucault adduce
degli esempi per mostrare come un’analisi ideologica parte
sempre da qualcosa che si dà come già costituito, originario, quasi naturale, ovvero che si dà come un universale (la
follia, l’uomo), per poi domandarsi «a quali motivazioni e
a quali condizioni obbedisce il sistema di rappresentazione
che ha condotto a una pratica», come ad esempio quella della reclusione da Foucault ampiamente investigata37.
Al contrario, un’analisi centrata sulla convinzione che il
potere non sia necessario – una prospettiva che Foucault
chiama «anarcheologia» – parte dalle pratiche e dal sapere messi storicamente in atto dal governo degli uomini e
le considera nella loro contingenza e nella loro costitutiva
fragilità, al di là di ogni universale che si potrebbe ideologicamente supporre alla base. Si tratta quindi di comprendere l’intelligibilità di questo potere a partire da ciò
che a questo potere sfugge, da quel che Foucault chiama i
suoi «punti di non-accettazione», per reperire infine delle
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tecnologie di potere piuttosto che un programma ideale e
ideologico di riforma38.
Al di là di questi esempi, l’attenzione alla trasformazione del rapporto con la verità che una soggettività può
divenire in grado di produrre su stessa attraverso se stessa,
costituisce il nuovo asse lungo il quale si assesta questa
nuova formulazione della critica dell’ideologia anche nel
Corso dell’anno successivo, intitolato non casualmente
Subjectivitè et vèritè.39 Qui l’interesse di Foucault verso una
storia della soggettività occidentale si sofferma su quello
che viene considerato un punto di svolta decisivo. Si tratta
dell’epoca dello stoicismo romano, quando si verifica una
diffusione della pratiche matrimoniali e una fissazione di
norme giuridiche molto rigorose relative alla vita di coppia
(le spose acquisivano dei nuovi diritti e l’adulterio veniva
pesantemente condannato). In questo quando Foucault si
interroga su quale rapporto sussista tra i discorsi filosofici
che prescrivevano l’osservanza di un determinato codice
di comportamento se la realtà delle pratiche matrimoniali
a cui queste prescrizioni si riferivano avevano già effettivamente luogo nella società. In altri termini, questo discorso prescrittivo non era forse «di troppo»?40 Alla luce di
questa coincidenza tra prescrizione ed effettivo andamento
della realtà, in che cosa consisterebbe il supplemento che il
discorso apporta al reale attraverso il puro fatto della sua
enunciazione?
Nella lezione del 18 marzo 1981 Foucault passa in
rassegna tre modalità di concepire questo rapporto tra i
discorsi e le pratiche reali: «il raddoppiamento della rappresentazione», «la denegazione ideologica» e infine «la
razionalizzazione universalizzante». Secondo la modalità della denegazione ideologica, il discorso filosofico sul
matrimonio costituisce «l’elemento attraverso cui il reale
non viene detto», 41 e la sua natura prescrittiva serve solo
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da giustificazione ideologica che occulta, che impedisce
di cogliere, che «schiva», una realtà materiale sottostante.
Quest’ultima sarebbe infine costituita dalla scomparsa delle strutture economico-politiche della polis e delle sue istituzioni familiari, per cui la perdita di potere e la mancanza
di sicurezza che ne derivavano in seguito all’affermazione
dell’Impero, avevano fatto sì che la vita coniugale si fosse
costituita come l’unico rifugio possibile. Questa processo
subirebbe nel discorso filosofico uno «spostamento verso
l’idealità»,42 trasformando una pratica reale già esistente e
causata da altri processi in un obbligo morale da prescrivere. Nondimeno, Foucault giunge a respingere questa prospettiva perchè in fondo il reale che verrebbe occultato,
taciuto, dal discorso non è il reale di cui il discorso filosofico intende effettivamente parlare, ma «la causa che l’analisi ideologica attribuisce, retrospettivamente e ipoteticamente al reale». In questo senso, si presuppone che «sotto
una forma capovolta, l’idea che l’esistenza di un discorso è
sempre funzione del rapporto del discorso alla verità […],
in rapporto a quel che sarebbe l’essenza, la funzione, la natura in qualche maniera originaria, autentica, del discorso
fedele al suo essere, che è il discorso che dice il vero».43
Al posto di questo rinvio ideologico a una dimensione
della realtà altra rispetto al discorso (per spiegarne a sua
volta il rapporto che esso intrattiene con la realtà) Foucault mantiene che «il reale non contiene in esso stesso la ragione d’essere del discorso»,44 ovvero il fatto che tale realtà
non ha per forza bisogno di un gioco di veridizione che si
articoli con essa, che la determini secondo il gioco del vero
e del falso. La verità si afferma come un evento, non sopraggiunge necessariamente per giustificare l’adeguamento di un discorso vero alla realtà. Da questo punto di vista
la verità è sempre oggetto di ciò che Foucault chiama «una
sorpresa epistemica».45 Per intraprendere quella che usan77
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do, un’altra espressione di Foucault, egli chiama «una storia politica della verità», ci si deve chiedere non se questo
gioco di veridizione, questo discorso vero sia adeguato al,
e necessitato dal, reale, bensì «quali effetti di obbligo, di
costrizione, di incitazione, di limitazione sono stati suscitati dalla connessione di pratiche determinate con un gioco
vero/falso, un regime di veridizione anch’esso specifico»?
Bisogna infine chiedersi «a quali obblighi si trova legato il
soggetto di questa pratica dal momento che la separazione
(partage) del vero e del falso vi svolge un ruolo? A quale
obbligo vero/falso si trova legato il soggetto di un discorso
vero dal momento che si tratta di una pratica definita?».46
In un quadro più ampio, relativo alle lezioni finali di
questo Corso, le tre modalità di concepire il rapporto tra
discorsi e pratiche (di cui fa parte la «denegazione ideologica») sono opposte da Foucault al particolare statuto
pratico-discorsivo che storicamente avevano assunto in
epoca imperiale i cosiddetti aphrodisia rispetto alla condotta matrimoniale e sessuale. Ovvero si tratta delle technai peri ton bion, delle arti di vivere, ovvero quelle “tecniche” che prendono ad oggetto la vita, l’esistenza. 47 Tali
tecniche sono pensate da Foucault come procedure regolate e riflesse volte a operare su un oggetto determinato
un certo numero di trasformazioni in funzione di alcuni
fini da raggiungere. Nella fattispecie esse si esercitano sul
bios, ovvero sulla vita in quanto soggettività, esistenza irriducibile tanto alle proprie determinazioni biologiche,
quanto a un qualsivoglia statuto sociale, a una professione
o a un mestiere. Rispetto a una prospettiva ideologica e al
modo di porre la questione “filosofico-politica” che abbiamo visto nel Corso del 1980, la prospettiva del modello
antico di soggettivazione è invece animato da una ricerca
continua e indefinita che mira alla padronanza di sè nelle
mutevoli circostanze dell’esistenza individuale e collettiva.
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Di conseguenza, la sfera delle attività sessuali, nell’Antichità greco-romana, è inserita da Foucault in un campo
di problematizzazione più ampio, nel quale la padronanza
e il governo di sè diventano condizione impre-scindibile
per l’esercizio del potere sugli altri, acquisendo dunque un
valore politico.48
D’altronde, prendendo le mosse da queste analisi è
possibile leggere in filigrana anche uno spostamento relativo alla nozione stessa di verità e ai suoi rapporti con la
soggettività rispetto a quello che era implicito in un’analisi
in termini ideologici. La verità legata alle tecniche di sè antiche non era infatti definita nè da una corrispondenza con
la realtà, nè da qualcosa che si troverebbe nelle profondità
della coscienza, in un’interiorità psicologica da decifrare
incessantemente. La verità in questione riguardava piuttosto la forza e la radicalità grazie alle quali certi discorsi
danno forma all’esistenza particolare di ciascuno.49 Il bios
greco si presentava così come la superficie su cui la verità si manifesta (ed è chiamata a manifestarsi) secondo un
rapporto tutto da costruire ed inventare, ma che costituiva
nondimeno la cifra essenziale della stilizzazione etica e politica dell’esistenza nell’Antichità greco-romana che costituirà l’oggetto di analisi privilegiato negli ultimi tre Corsi
di Foucault al Collège de France, in cui tuttavia la nozione
ideologia non verrà più menzionata.
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Note
M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au Collè-ge
de France. 1979-1980, a cura di M. Senellart, EHESS-Gallimard-Seuil, Paris 2012, pp. 74-75; trad. it. Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), a cura di D. Borca
e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014, p. 83-84.
2
Cfr. solo a titolo di esempi: M. Foucault, «Le grand enfermement» (1972) in Dits et ècrits, Gallimard, Paris (1994), 2001,
vol. I, pp. 1164-1174 (p. 1171); trad. it. «Il grande internamento», in M. Foucault, La società disciplinare, a cura di S. Vaccaro,
Mimesis, Milano 2010, pp. 27-38 (p. 34); Id. «Sur la justice populaire. Dèbat avec les maos» (1972), in Dits et ècrits, op. cit., vol.
I, pp. 1208-1237 (p. 1226 et passim) ; trad. it., «Sulla giustizia
popolare. Dibattito con i maoisti» in M. Foucault, Microfisica
del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana & P. Pasquino, pp. 71-106 (p. 93 et passim); Id. «Le jeu de Michel Foucault» (1977), in Dits et ècrits, op. cit., vol. I, pp. 298-329 (p. 324);
trad. it., «Il gioco di Michel Foucault», in M. Foucault, Follia
e psichiatria. Detti e scritti (1957-1984), a cura di D. Borca e V.
Zini, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006; Id. The Subject
and the Power, in H. Dreyfus & P. Rabinow, Michel Foucault:
Beyond Structuralism and Hermeneutics, University of Chicago
Press, Chicago 1982, ora in M. Foucault, Dits et ècrits, op. cit.,
vol. II, pp. 1041-1062 (p. 1046); trad. it. Il soggetto e il potere,
in H. Dreyfus & P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, a cura di D. Benati, M.
Bertani, I. Levrini, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 240.
3
Cfr. M. Foucault, Les mots et les choses. Une archèologie des
sciences humaines, Gallimard, Paris 1966; trad. it. a cura di E.
Panaitescu, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1967, p. 391 ; Id. L’archèologie du savoir,
Gallimard, Paris 1969, p. 12 e pp. 240-243; trad. it. di G. Bo1
80
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gliolo, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1980, p. 8 e pp.
240-243.
4
Cfr. D. Lecourt, Pour une critique de l’èpistèmologie: Bachelard, Canguilhem, Foucault, Maspero, Paris 1974; J.-F. Braunstein, «Bachelard, Canguilhem, Foucault. Le “style français”
en èpistèmologie», in P. Wagner (a cura di), Les philosophes et
la science, Gallimard, Paris 2002, pp. 920-963; P. Cassous-Noguès & P. Gillot (a cura di), Le concept, le sujet, la science. Cavaillès, Canguilhem, Foucault, Vrin, Paris 2009; L. Paltrinieri,
L’expèrience du concept. Michel Foucault entre èpistèmologie et
histoire, Publications de la Sorbonne, Paris 2012. Per una panoramica generale sull’epistemologia storica francese si consultino
i vari articoli che compongono il numero della rivista Discipline
Filosofiche (2006/2) a cura di A. Cavazzini & A. Gualandi dedicato a «L’epistemologia storica e il trascendentale storico».
5
A questo riguardo si consideri anche la ripresa che Georges
Canguilhem fece del concetto di ideologia, coniando il termine
“ideologia scientifica”. Cfr. G. Canguilhem, «Qu’est-ce qu’une
idèologie scientifique?» (1970) in Idèologie et rationalitè dans
l’histoire des sciences de la vie, (1977), Vrin 2009, pp. 39-55; P.
Macherey, «Canguilhem et le concept d’idèologie scientifique»,
Groupe d’ètude La philosophie au sens large (14/05/2008), consultabile online (http://stl.recherche.univ-lille3.fr/seminaires/
philosophie/macherey/macherey20072008/macherey14052008.
html).
6
Cfr. L. Althusser, «Sur la dialectique matèrialiste» , in Pour
Marx (1965), La Dècouverte , Paris 1996, pp. 161-205.
7
M. Foucault, L’archèologie du savoir, op. cit., p. 12 (trad. it.,
p. 8).
8
L. Althusser, Pour Marx, op. cit., p. 168 (trad. it., p. 146).
9
M. Foucault, Leçons sur la volontè de savoir. Cours au Collège
de France. 1970-1971, a cura di D. Defert, Seuil/Gallimard, Paris 2011. In questo volume facciamo riferimento soprattutto alla
«Leçon sur Nietzsche», tenuta alla McGill University di Mon-
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trèal nell’aprile del 1971. Vista la difficile ricostruzione del Corso del 1970-71, di cui non esistono registrazioni, ma solo manoscritti talvolta schematici e lacunosi, nella ricostruzione che dà
D. Defert si suppone che il materiale di questa lezione sia stato
utilizzato anche per il Corso al Collège de France.
10
Ibidem, pp. 206-207 e p. 213. Su tale questione si vedano
anche le celebri conferenze pronunciate a Rio de Janeiro nel
maggio del 1973: M. Foucault, «La vèritè et les formes juridiques», in Dits et ècrits, op. cit., vol. I, pp. 1406-1514 (in part.
pp. 1420-21); trad. it. «La verità e le forme giuridiche», in Archivio Foucault 2. Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal Lago,
Feltrinelli, Milano 1997, pp. 83-165.
11
Cfr. M. Foucault, Leçons sur la volontè de savoir, op. cit, p.
206. Foucault sostiene che si dovrebbe inoltre presupporre che
vi sia una soggetto puro, libero da ogni determinazione che sia
pronto ad accogliere, senza deformarla, la presenza dell’oggetto
– sarebbe questa la forma dell’attenzione, che ritroviamo da Platone a Cartesio come evidenza. Analogamente, nello sviluppo
che lega entrambi apparirebbe pure, sotto la forma della saggezza, l’esigenza pedagogica legata alla limitazione della volontà
per far posto alla verità.
12
Ivi. Questa libertà articolerebbe così volontà e verità: 1)
nell’hòmoiosis tò theò in Platone; 2) nel carattere intellegibile di
Kant; 3) nell’apertura dell’Essere in Heidegger (L’Essenza della
verità).
13
Ibidem, p. 207.
14
L. Althusser, «Idèologie et appareils idèologiques d’Ètat»
(1970), in Positions, Èd. Sociales, Paris 1976, pp. 67-125; trad.
it., «Ideologie e apparati ideologici di Stato», in Critica marxista, settembre-ottobre 1970, pp. 23-65.
15
M. Foucault, La sociètè punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, a cura di B.E. Harcourt, Seuil/Gallimard, Paris
2013, pp. 231-237.
16
Cfr. B. E. Harcourt, «Situation du cours», in M. Foucault, La
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sociètè punitive, op. cit., pp. 281-282 e pp. 300-302.
17
M. Foucault, La sociètè punitive, op. cit., p. 234.
18
Ivi. Su questo punto cfr. anche P. Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, Ombre Corte, Verona 2013.
19
Cfr. M. Foucault, La sociètè punitive, op. cit., pp. 236-237.
20
Rispetto a questo corso tralasciamo la discussione sull’apparizione del criminale in quanto nemico della società, che appare
nei celebri articoli che il giovane Marx pubblica nel 1842 sulla
Gazzetta renana sulla legge relativa al furto di legna nella Slesia e per cui questa legge sarebbe un prodotto «dell’ideologia
giuridica borghese», in quanto vedremo come questo aspetto fa
riferimento a una concezione di ideologa più simile a una “visione del mondo”, che Foucault criticherà più ampiamente nei suoi
Corsi successivi. Su questo punto si veda la nota 5 a p. 76 di La
sociètè punitive a opera di Bernard Harcourt, così come la correlazione dell’«effetto teorico-politico» di cui parla Foucault con
le analisi di Althusser di questi stessi scritti del giovane Marx
svolte in termini di «lotta ideologico-politica», correlazione che
Harcourt ricostruisce nella «Situation du cours», (pp. 296-298).
21
M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de
France. 1973-1974, a cura di J. Lagrange, Seuil/Gallimard, Paris
2003, pp. 17-18; trad. it. Il potere psichiatrico. Corso al Collège
de France (1973-1974), a cura di
M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004, p. 28.
22
Ibidem, p. 42 (trad. it. p. 48).
23
Cfr. L. Althusser, «Idèologie et appareils idèologiques d’Ètat»,
op. cit., p. 110 et sgg. (trad. it., p. 54 et sgg.). In questo senso,
negli stessi anni, Foucault fa riferimento anche al super-io freudiano. Cfr. M. Foucault, «Asiles. Sexualitè. Prisons» (1975), in
Dits et ècrits, op. cit., vol. I, pp. 1639-1650 (in part. p. 1640) ;
trad. it. «Asili. Sessualità. Prigioni», in Archivio Foucault 2, op.
cit., pp. 174-186 (p. 175).
24
M. Foucault, «Il faut dèfendre la sociètè». Cours au Collège
de France. 1976, a cura di M. Bertani & A. Fontana, Paris, Seuil/
83
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Gallimard, 1997, p. 30 ; trad. it., “Bisogna difendere la società”, a
cura di M. Bertani & A. Fontana, Feltrinelli, Milano 1998, p. 36.
25
Ibidem, p. 169 (trad. it. p. 164).
26
Ibidem, p. 230 (trad. it. p. 223).
27
M. Foucault, Sècuritè, territoire, population. Cours au Collège
de France. 1977-1978, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard,
Paris 2004, pp. 49-50; trad. it., Sicurezza, territorio, popolazione.
Corso al Collège de France (1977-1978), a cura di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005, p. 48.
28
Ivi.
29
M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège
de France. 1978-1979, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard,
Paris 2004, p. 37; trad. it., La nascita della biopolitica. Corso al
Collège de France (1978-1979), a cura di M. Bertani & V. Zini,
Feltrinelli, Milano 2005, p. 42.
30
Ibidem, p. 37 (trad. it. p. 43).
31
Ivi. Foucault fa quindi l’esempio della follia: «guardate come
è oppressiva la psichiatria, dato che è falsa; e neppure nel dire,
con una formulazione più sofisticata; guardate com’è oppressiva dato che è vera. Si tratterebbe, piuttosto, di riconoscere che
il problema e rendere visibili le condizioni che si sono dovute
osservare per poter tenere sulla follia – ma sarebbe lo stesso per
la delinquenza, per il sesso ecc. – dei discorsi la cui eventuale
verità o
32
M. Foucault, Du gouvernement des vivants, op. cit., p. 79
(trad. it. p. 89).
33
Cfr. Ibidem, pp. 73-74 (trad. it. p. 83).
34
Cfr. Ibidem, p. 74 (trad. it. p. 83).
35
Ibidem, p. 75 (trad. it. p. 84).
36
Ibidem, pp. 75-76(trad. it. pp. 85).
37
Cfr. Ibidem, p. 78 (trad. it. p. 87).
38
Cfr. Ivi
39
Cfr. M. Foucault, Subjectivitè et vèritè. Cours au Collège de
France. 1980-1981, a cura di F. Gros, EHESS/Seuil/Gallimard,
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Paris 2014.
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Su questo punto cfr. anche F. Gros, «Soggetto morale e sè etico in Foucault», in Foucault e la genealogia del dir-vero, a cura
di L. Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini, M. Tazzioli, Napoli,
Cronopio 2014, pp. 17-31.
41
M. Foucault, Subjectivitè et vèritè, op. cit., p. 242
42
Ibidem, p. 243.
43
Ibidem, p. 244.
44
Ibidem, p. 237.
45
Ibidem, p. 238.
46
Ibidem, p. 239.
47
Cfr. Ibidem, p. 253.
48
Cfr. Ibidem, pp. 280-293.
49
Su questo punto cfr. L. Cremonesi, A. I. Davidson, O. Irrera,
D. Lorenzini, M. Tazzioli «Da dove viene il sè? La forza del
dir-vero e l’origine dell’ermeneutica del sè», in aut aut, n. 362,
aprile-giugno 2014, pp. 116-133; O. Irrera, «La verità come forza. Dir-vero, potere e soggettività nell’ultimo Foucault», in Foucault e la genealogia del dir-vero, op. cit., pp. 33-57.
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INTERRUZIONI DI CONFINE
MICHEL FOUCAULT
E SOGGETTIVAZIONI AGIURIDICHE .
NEGLI SPAZI DEL PRESENTE
Martina Tazzioli
In Theatrum Philosophicum, prefazione scritta nel
1970 al libro di Gilles Deleuze, Differenza e Ripetizione,
Foucault si interroga su come possa costruirsi un pensiero acategoriale, che non riduca il gioco delle differenze al
medesimo. “La differenza”, infatti, glossa Foucault, “la
si analizza solitamente come differenza di qualcosa o in
qualcosa”, finendo in tal modo per “assegnarle un luogo,
delimitarla, e dunque dominarla” (Foucault, 1970: 955). E
in effetti il percorso filosofico di Foucault è dominato dal
tentativo di pensare, ma soprattutto reperire, le differenze
(sempre al plurale) non come uno scarto, una mancanza o
un evento che si produce rispetto all’unicità della narrazione storica ma, al contrario, come momenti costitutivi di
quell’unità di esperienze e tecnologie discorsive e non discorsive di potere che compongono a posteriori una trama
storica coerente e continua. La differenza, dunque, come
principio di funzionamento e di intelligiblità non solo delle
trasformazioni ma del procedere storico stesso. Da questo
punto di vista la categoria di ‘interruzionÈ permette in parte
di dislocare il problema, e di porre l’enjeu della differenza
dissovendo fino in fondo l’immagine-ombra della continuità
storica e situarla invece attorno al funzionamento del potere: l’interruzione ci rimanda immediatamente a un corto-circuito, all’immagine di un arresto/sospensione o di un eccesso rispetto ai meccanismi di cattura e di controllo.
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Ora, nonostante Foucault ricorra piú volte al termine
‘interruzione’, soprattutto per specificare la sua accezione
di evento, è altrettanto importante sottolineare che non si
tratta certamente di una nozione esplicitamente e accuratamente messa al lavoro da Foucault. Anche se restringiamo il campo alla sola filosofia politica, sono infatti altri i
filosofi le cui analisi immediatamente associamo a questa
categorie, tra cui Jacques Rancière e Judith Butler.1 E infatti sarà proprio nel confronto con questi due autori che qui
cercherò di far dialogare alcuni dei testi focaultiani. Tuttavia, l’interruzione, in realtà assunta qui piú come movimento (di inceppamento, di dislocazione) rispetto ai meccanismi di potere che non come categoria analitica, può
funzionare come ‘valore operativo per rileggere l’elaborazione foucaultiana sulla duplicità costitutiva del divenire
soggetto (processi di assoggettamento e processi di soggettivazione) e la politicità degli spazi, ovvero la produzione
di spazi politici. Detto altrimenti, se ‘interruzione’ non è la
parola tramite cui Foucault descrive la produzione di spazi
e soggetti, ciò non toglie che essa – presa nella complessità del suo campo semantico e nella molteplicità dei suoi
significati teorico-politici – possa essere mobilitata e fatta
giocare per rintracciare la specificità movimenti di scomposizione e produzione di soggettività che emergono da
determinate configurazioni di poteri e resistenze. Per questo, l’interruzione qui non sarà per lo piú riferita all’analisi
e all’uso della storia effettuato da Foucault, e brevemente sopra citato, bensì alle differenti forme di produzione
di soggettività, esplicitamente trattate da Foucault, e alle
immagini di spazi politici che implicitamente sostengono
l’analisi foucaultiana.
In piú, bisogna aggiungere, la peculiarità di rileggere
alcune scene di poteri-resistenze raccontate da Foucault
ricorrendo all’interruzione, sta soprattutto nella duplici88
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tà della qualificazione che segue: ‘di confine’. L’espressione ‘interruzioni di confinÈ segnala infatti la direzione e
lo spazio dell’insistere del movimento dell’interruzione.
I confini come meccanismi che in quanto tali funzionano
attraverso interruzioni (producendo interruzioni e differenziazioni nello spazio); ma i confini e gli spazi di confinamento vengono a loro volta interrotti, sospesi, fatti
girare a vuoto o aggirati da corpi, condotte e movimenti.
Tuttavia, la puntualità dell’interruzione (rintracciata anche
in molte descrizioni di Foucault sulle condotte resistenti) epistemologico-discorsiva o dei meccanismi di cattura
non si risolve, nel lavoro di Foucault, in insorgenze momentanee o nella temporalità dell’evento. Al contrario, è a
partire da alcuni movimenti di interruzione che si aprono
eventualmente nuovi spazi di soggettivazione: la rottura di
un meccanismo di potere trasforma lo spazio interno e ne
ridefinisce i confini mettendo dunque in atto forme relazionali (“nouvelles relationalitès”, Foucault, 1982) prima
non previste nè possibili all’interno di quel regime di verità. E l’interruzione puntuale può a sua volta demoltiplicarsi, disseminarsi in altri spazi o divenire immediatamente
una resistenza o una disidentificazione collettiva. In fondo,
l’interruzione come momento evenemenziale viene comunque declinata da Foucault in termini di “un rapporto di
forza che si inventa, un potere confiscato”; e dunque “l’emergenza”, afferma Foucault, “designa sempre un luogo di
affrontamento” (Foucault, 1978).
Condotte di non verità
Nei Corsi al Collège de France della prima metà degli
anni Settanta, e in particolare ne Il potere psichiatrico ci
troviamo di fronte a un potere che procede per interruzioni, ridefinendo e traducendo comportamenti eccedenti
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rispetto ai disciplinamenti che li hanno prodotti. Un’interruzione che avviene attraverso la produzione di nuovi
profili governabili o ingovernabili. Il confine, si potrebbe
dire, in questo caso insegue i soggetti. Epingler, brancher,
sono i verbi utilizzati che ricorrono nei Corsi ne Il potere
psichiatrico e Gli anormali per definire il tipo di “presa”
sui corpi e sulle condotte. È in effetti in termini di presa,
mi sembra, che si caratterizza il funzionamento del potere
descritto in questi due Corsi e anche, aggiungo, nel Corso
del 1973, La sociètè punitive.
La presa organizzata da questo potere consiste nella
ridefinizione del campo di condotte normali/anormali, illegalismi tollerabili/non tollerabili che squalificano o ricodificano determinati comportamenti e movimenti, trasformandoli in altre condotte e identità. Ma sono precisamente
i contro-effetti, o meglio gli effetti eccedenti di queste condotte che producono nuove interruzioni di confine, epistemologiche e nosologiche prima di tutto, e dunque immediatamente di governo e disciplina delle condotte. Di fatti,
come Foucault sottolinea nella Lezione del 12 dicembre
1973, le categorie nosologiche non vengono usate in psichiatria «in qualità di strumento di classificazione riferita
alla curabilità delle persone”, non sono legate a nessuna
prescrizione terapeutica bensì servono “unicamente a definire la possibile utilizzazione degli individui» (Foucault,
2013, p.123). I posseduti e le isteriche, di cui Foucault parla rispettivamente ne Gli anormali e ne Il potere psichiatrico mettono in scena precisamente il “limite e il punto di
inversione” piú visibili, come li definisce Foucault, di quel
regime di sapere/potere di cui sono al contempo l’oggetto
privilegiato di intervento e il punto ultimo, il confine che
sfugge a un partage definito. Da un lato, la moltiplicazione
di sintomi delle isteriche di fronte a un potere psichiatrico
ridefinito attorno al problema della simulazione; e dall’al90
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tro il corpo convulsivo dei posseduti con l’emergenza della sessualità come campo delle anormalità, fanno sì che le
tecniche di disciplinamento si trovino a dover “contre-carrer” i loro stessi contro-effetti: si tratta di «possedere la
direzione della carne senza che il corpo obietti questa direzione, questo fenomeno di resistenza, di contro-potere»
(Foucault, 1999, p. 203) e facendo apparire «al di sotto del
corpo neurologico in apparenza catturato [...] un nuovo
corpo, il corpo sessuale» (Foucault, 2004: 280). Un potere,
dunque, che opera essenzialmente producendo e introducendo divisioni, frammentando e poi ricomponendo entro
un determinato regime di saperi-poteri che rende quelle
condotte oggetto di sapere e dunque di possibile presa: «ci
si è messi a domandare alla psichiatria di fornire [...] un
discriminante psichiatrico-politico tra gli individui, tra i
gruppi» (Foucault, 1999, 141).
Ma tra i due esempi riportati qualcosa accade nel
mezzo, tra i due Corsi, che ridefinisce in parte anche il
significato dell’interruzione di confine: l’ingresso del governo come razionalità e tecnologia di potere che costituisce «l’altro lato delle strutture giuridiche e politiche della
rappresentazione ed è condizione del loro fuzionamento
e della loro efficacia» (Foucault, 1999: 49). Nel Corso del
1973-1974, nonostante con il tema della direzione e con la
definizione del potere psichiatrico come “agente normalizzatore” Foucault introduca il problema del disciplinamento delle condotte, questo non si trova esplicitamente
inscritto nella cornice del governo. In altre parole, è solo
nelle Lezioni dell’anno successivo che la psichiatria viene
definita come “scienza e tecnologia degli anormali” e che
la norma diventa il principio regolativo e di distribuzione delle condotte indocili. Le tecniche di normalizzazione
non funzionano qui semplicemente ripartendo e distribuendo corpi; piuttosto, esse definiscono l’emergenza di
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un soggetto che non è quello di diritto (il soggetto legalmente responsabile) ma che ha nella figura dell’individuo
pericoloso la sua figura soggettiva attorno a cui si struttura
il campo delle altre anormalità psicologiche e delle irregolarità di condotta. Per questo, l’interruzione di confine
si trova ora a fare i conti con quella partizione tra normale e anormale che non può essere aggirata semplicemente spostandosi su uno dei due poli – ovvero, mettendo in
atto una condotta ‘anormale’. Infatti, Foucault sottolinea
come la produzione di anormalità sia in realtà frutto della
medicalizzazione, e dunque della patologizzazione, delle
condotte. Non solo, dalla prospettiva di una tecnologia di
potere positiva, come quella descritta da Foucault ne Gli
anormali, le condotte ‘anormali’ sono lungi dal disturbare
il disciplinamento di corpi e movimenti, o dal restare fuori
dalla presa del potere: al contrario, esse fanno del tutto
parte di un meccanismo di potere teso a capitalizzare e
lavorare sulla distribuzione differenziale delle condotte e
delle anormalità. Non piú, peraltro, l’anormalità della monomania, del crimine senza giustificazione, ma la “malattia
del disordine”, tale per cui «l’incontro tra crimine e follia
non sarà piú per la psichiatria un caso limite ma il caso
regolare» (Foucault, 1999, p. 151).
L’interruzione dunque, potrà prodursi rispetto al concatenamento di categorie che definiscono un campo di
normalizzazione, in cui il continuum di (possibili) anormalità prevale sull’opposizione binaria normale/anormale. In
questo senso, di fronte all’ordinarietà e alla continuità del
lavoro della norma, il problema diventa precisamente quale disordine non patologico (o patologizzabile), e dunque
non immediatamente riconducibile all’interno della produzione e del governo di anormalità, può attivarsi. L’interruzione di confine, in fondo, viene a coincidere con la
non-decidibilità (e non intelligibilità) di alcune condotte e
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movimenti: per eccedenza rispetto al campo di anormalità
previsto – come nel caso dei posseduti o del fenomeno della
stregoneria riportati da Foucault – oppure quando si introduce uno scarto tra le due funzioni della norma, ovvero la
norma come regola di condotta e la norma come regolarità
funzionale. In altre parole, quando la regolarità/irregolarità funzionale non ha piú una corrispondenza effettiva con
comportamenti e condotte che agiscono negli spazi infraliminari della regolarità della norma: come Foucault indica
ne La sociètè punitive, le forme di mobilità non autorizzate
riescono a mettere sotto scacco i meccanismi disciplinari
e produttivi fino a che non si riproduce una cattura all’interno dei confini del tutto mobili della categoria di “individuo pericoloso” (Foucault, 2013). Cosa di preciso riesce
(in parte) a sfuggire al couplage del discorso medico e di
quello giuridico e a rimandarne la cattura? Da un lato, in
tutti e tre i Corsi qui citati – La societe punitive, Il potere
psichiatrico, Gli anormali – sono i contro-effetti e le eccedenze stesse che quel potere produce, ovvero gli illegalismi
che rinforza disciplinandone altri, che portano il potere a
dover come rincorrere, e produrre continuamente nuove
interruzioni – «quando si cerca di dominare uno di questi
illegalismi si è portati a rafforzare l’altro; di fatti, tutti i controlli attraverso cui si tenta di sorvegliare le popolazioni, di
frenare la depredazione, producono un’accelerazione del
processo di mobilità» (Foucault, 2013, p. 195). Dall’altro,
è la dimensione collettiva di molte di queste irregolarità di
condotta che Foucault rinviene come una costante e che
affiora, attraverso una sorta di imitazione contagiosa oltre
l’iniziale tete-à-tete tra gli apparati di disciplinamento e i
singoli corpi, le singole condotte – la lotta delle isteriche,
le forme collettive di rifiuto del lavoro, la stregoneria. La
ricodificazione di tali condotte come fenomeno patologico o opposizione alla verità medico-giuridica del potere
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disciplinare viene così evitata in favore di una lettura che
politicizza comportamenti e forme di mobilità, presentandole all’interno di un affrontement, di una battaglia, in cui
corpi, tecniche di disciplinamento, saperi di normalizzazione e soggettività devono costantemente riposizionarsi e
trovare nuove interruzioni per sottrarsi alla presa del potere o ridefinire le strategie di cattura. In tal modo, proprio
in quei Corsi dove alcune analisi critiche individuano una
concezione speculare di poteri e resistenze, in realtà Foucault ci spinge a una costante dislocazione dello sguardo e
della prospettiva di analisi sulle e delle relazioni di potere:
infatti, pur sottolineando l’essere necessariamente prodotti dal potere di soggetti e condotte – produzione sempre
tuttavia da assumere nella duplice accezione di produzione
di soggetti/soggetti produttivi – le pratiche di rifiuto e le
condotte indisciplinate sono certamente resistenze a determinati meccanismi di presa sulle vite ma al contempo,
interrompendo tali meccanismi, mettono in atto comportamenti, individuali e collettivi, che costringono il potere a
ridefinire nuovi principi e tecniche di esclusione, partage,
disciplinamento.
Interruzioni-resistenze dunque, da inseguire attentamente negli effettivi spazi che creano e nelle forme di
desoggettivazione collettiva e di risoggettivazione che agiscono, di fronte a cui il potere non può che rincorrere tracciando nuovi confini. Pratiche di libertà, insieme e oltre
che resistenze: l’analisi di Foucault permette precisamente questo spostamento, questa inversione dello sguardo –
condotte e movimenti che constringono il potere a una costante ricomposizione, e a trovare nuove interruzioni – che
in realtà non sono mai effettuate una volta per tutte, ma al
contrario riproposte a piú riprese nei tre Corsi; proprio a
sottolineare lo spazio di affrontement in cui si dispiegano,
e a indicarci che quelle pratiche di libertà devono costan94
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temente rinnovarsi di fronte a meccanismi di cattura che le
rincorrono tracciando nuovi partage epistemologici, medici e giuridici.
Tuttavia, come sopra accennato, ne Il potere psichiatrico dove la nozione di governo non ha ancora fatto il suo ingresso, questo affrontement tra le interruzioni dei soggetti
psichiatrizzati e quelle prodotte dal sapere psichiatrico si
dispiega come confronto binario tra quello che Foucault
definisce il surplus del potere del medico e il surplus del
potere del paziente. Innanzitutto merita sottolineare che
la produzione di anormalità è qui ancora descritta attraverso meccanismi di esclusione. O meglio, i meccanismi
disciplinari vengono presentati alla luce di un potere che
integra, sfrutta, organizza e trae profitto dalla produzione
di anormalità, ma al tempo stesso in quanto meccanismi
normalizzatori «producono necessariamente, i loro confini
e attraverso l’esclusione, anormalità e illegalità residuali»
(Foucault, 2004, p. 110). In questo contesto, il lavoro della
norma consiste essenzialmente nel fissare e fare aderire la
“funzione-soggetto” esattamente alla sua singolarità somatica: «il potere disciplinare è individualizzante perchè modula la funzione-soggetto alla singolarità somatica” e “stabilisce la norma come principio di ripartizione» (Foucault,
2004, p. 64). L’interruzione si produce e viene contesa al
livello del principio di realtà verso cui il medico direziona il gioco di verità: al fine che la realtà abbia una presa
totale sul paziente, il medico lo costringe in un ordine di
linguaggio che tuttavia non è il linguaggio come portatore di verità ma il linguaggio nel suo uso imperativo. La
psichiatria sposta la questione della verità dal partage tra
vero e falso all’esercizio di un supplemento di potere sulla
realtà, necessario a trasformare l’errore del delirio in principio di realtà effettivo a cui il malato deve aderire – «la
verità biografica su cui lo si interroga [...] non è la verità
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che egli potrebbe raccontare su di sè, non è quella della
sua esperienza vissuta, bensì quella che gli viene imposta
sotto una forma canonica [...] è tutto questo corpus dell’identità che il malato dovrà alla fine ammettere» (Foucault,
2004, p. 154). La verità, in questo caso, consiste dunque
nell’appropriarsi del potere di definire quella “realtà amministrativa e medica” a cui si chiede al folle di aderire,
destituendolo la follia dell’autorità di parlare in proprio
nome. L’interruzione del supplemento di realtà esercitato
nello spazio dell’asilo non può dunque prodursi al livello
del linguaggio o del discorso, dal momento che “il delirio
delle nominazioni” viene facilmente ricodificato e disciplinato dal sapere medico-giuridico.
In effetti, sembra precisamente nello scarto tra produzione categoriale e regime del discorso da un lato e spazio
dell’affrontement tra condotte indocili e potere disciplinare dall’altro che si aprono i margini per la presa del potere
e per la sua inversione, per le interruzioni di confine. È su
questo scarto che insiste Foucault sottolineando come «la
pratica psichiatrica non abbia mai messo in opera il sapere
o il quasi-sapere che si stava accumulando» (il discorso nosologico e quello anatomo-patologico) imponendosi essa
stessa come detentrice dei criteri di verità e dunque delle
capacità di presa sulla follia. È piuttosto il folle a porre
come ineludibile il problema della verità alla psichiatria. 2
Che tipo di verità? Non certo quella delle ‘vere’ categorie
nosologiche, nè la verità della follia in quanto tale ma quel
gioco stesso di verità e menzogna che coincide con una
manifestazione dei sintomi che di per sè sfugge all’imposizione del “potere di realtà” del sapere/potere psichiatrico
(Foucault, 2004). Infatti è attraverso la categorizzazione di
anormalità e tramite la ridefinzione del campo discorsivo
sulla follia che il potere psichiatrico ricodifica e neutralizza lotte come la “grande insurrezione simulatrice”. Le lotte
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anti-psichiatriche ma non solo: si potrebbe dire che tutte
le condotte eccedenti raccontate da Foucault nei tre Corsi
sfuggono (parzialmente) alla presa del potere costringendo
questo a reinventarsi precisamente corto-circuitando l’ordine del discorso e mettendo in atto comportamenti e movimenti discordanti rispetto a ogni partizione nosologica.
Soggettivazione agiuridiche
Il governo come tecnologia di potere, abbiamo detto,
emerge nella riflessione di Foucault nel Corso Gli anormali, dunque ben prima di Sicurezza, territorio, popolazione. E
tuttavia il Corso del 1978-1979 segnala un tournant importante nella produzione foucaultiana: il governo diventa la
matrice attraverso cui vengono ripensate le relazioni di potere, l’oggetto popolazione fa il suo ingresso come correlato delle tecnologie di governo, e l’analisi sul potere viene
ridefinita a partire dall’asse governo di sè-governo degli altri. Ma soffermarci sugli slittamenti prodotti dal campo semantico del governo ci porterebbe qui fuori strada; mentre
ciò che ci interessa per proseguire lungo il filo conduttore
delle interruzioni di confine è il definitivo superamento di
ogni binarismo (tra inclusione/esclusione, tra verità/non
verità) e la riformulazione dell’affrontement tra meccanismi di cattura e saperi normalizzatori da un lato, e condotte e corpi dall’altro alla luce di ciò che Foucault definisce
un “regime di verità”. La battaglia dei corpi indocili e le
“contro-manovre” dei soggetti psichiatrizzati fanno posto
a resistenze di condotta, o meglio contro-condotte, che
non agiscono in opposizione al “dettar legge alla follia” da
parte del sapere/potere medico, o fronteggiandolo a colpi
di (non)verità – la ‘verità’ dei sintomi delle isteriche o dei
posseduti, che eccedono il quadro diagnostico previsto –
o, infine, facendo leva sui contro-effetti di quelle stesse
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tecnologie di potere rendendo (temporaneamente) impossibile la loro decifrazione entro il campo delle anormalità.
Piuttosto, le insurrezioni di condotta descritte da Foucault
si giocano del tutto all’interno di un regime di veridizione
che viene da loro piegato e reinvestito, dopo averlo (e per
il fatto di averlo) assunto fino in fondo, secondo un’economia differente di (auto) conduzione.
Si potrebbe dire che di fatto non vi è propriamente interruzione di confine ma, eventualmente, si tratta di
pratiche ed “elementi di confine”, per il fatto «che sono
stati costantemente riutilizzati, re-impiantati e portati in
una o in un’altra direzione [...] nella misura in cui cadono all’interno, in modo marginale, dell’orizzonte del cristianesimo» (Foucault, 2005). Ma l’aspetto su cui vorrei a
questo punto spostare l’attenzione riguarda la dimensione
non-giuridica delle condotte, o meglio sul loro eccedere e
debordare rispetto al piano della legge e del diritto (Davidson, 2011). L’insistenza sulla “specificità non-autonoma”3 delle rivolte di condotta – in quanto rivolte contro le
pratiche di direzione – ci riconduce all’apparire di forme
di soggettività non riconducibili al modello del soggetto di
diritto, di cui Foucault già ci aveva parlato ne Gli anormali
e ne Il potere psichiatrico. Senza voler equiparare le forme
di soggettività descritte nei Corsi sopra citati con quelle
che emergono con l’introduzione alla fine degli anni Settanta dell’asse governo di sè-governo degli altri, tuttavia la
dimensione marcatamente agiuridica dei duplici processi
di soggettivazione/assoggettamento può essere individuata
come elemento costante all’interno dell’opera di Foucault
e, aggiungo, del modo di pensare e leggere le interruzioni
di confine. È proprio a partire da questo aspetto che un
confronto con i lavori Judith Butler e di Jacques Rancière
rispetto al momento dell’interruzione acquista una particolare rilevanza teorico-politica.
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Per cominciare e, in un certo senso, attualizzare le riflessioni foucaultiane sulle pratiche di soggettivazione e di
resistenza, si possono prendere in esame le analisi degli
anni Ottanta di Foucault, realizzate per lo piú nelle interviste, relative ai movimenti gay e femministi. Infatti, in quel
contesto la dimensione agiuridica delle resistenze che si
oppongono a un determinato regime di governo sulle vite
si coniuga in maniera molto visibile con la messa in atto e
l’invenzione di pratiche di esistenza immediatamente collettive e che non sono del tutto e subito patologizzabili o
catturabili entro il continuum delle anormalità. Interruzioni di confine, dunque, che nel sottrarsi e sganciarsi rispetto
a determinati meccanismi di soggettivazione e identificazione (desoggetivazione), sono al tempo stesso produttrici
e moltiplicatrici di altri spazi di soggettivazione. Non solo,
in questi scritti si ritrovano indicazioni importanti rispetto
al modo in cui le categorie – con cui veniamo detti dal potere –possono essere (strategicamente) interrotte. In un’intervista del 1982, per individuare i modi in cui i partages categoriali vengono aggirati e rigiocati dai soggetti, Foucault
ci invita infatti a dislocare lo sguardo dalle categorie stesse
e dalle rivendicazioni di diritti ai modi di vita che sono nati
da alcuni movimenti gay e femministi. Senza sottovalutare
l’uso strategico del diritto – e anzi proponendo l’idea di un
“diritto relazionale” da costruire oltre i confini del giuridico – Foucault sottolinea che gli spazi che si aprono per
pratiche di libertà rispetto all’assegnazione di identità da
parte del potere devono far leva sull’impossibilità di stabilizzarsi all’interno di una posizione soggettiva fissa, qualunque essa sia: si tratta infatti di far giocare le molteplici
identificazioni e categorie tramite cui contemporaneamente siamo detti e governati dai discorsi di verità (Foucault,
1982). «Non ci si può mai stabilizzare in una posizione [...]
bisogna definire secondo i momenti l’uso che se ne fa»,
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ricorda Foucault, segnando in tal modo una distanza abbastanza marcata rispetto a quelle analisi teoriche che fanno
del posizionamento del soggetto il punto di appoggio fondamentale per pratiche di agency. L’assunzione (strategica)
di categorie non può che restare ambivalente, ragion per
cui quanto provare a distaccarsene – con movimenti collettivi di disidentificazione - o invece a rigiocarle creando
nuove “sottoculture” non identitarie (Foucault, 1982) non
potrà che essere il frutto di una diagnostica del presente
che parte dalle “pieghe” del potere specifiche in cui ci troviamo presi.4 In questo senso, correggendo in parte quanto
affermato sopra sulla difficoltà a reperire l’interruzione di
confine nel momento in cui il paradigma diventa quello
di governo, con Foucault possiamo dire che l’interruzione non si produce tanto al livello del contenuto – di una
categoria o di un regime discorsivo – quanto rispetto al
regime di verità che regge insieme differenti affermazioni:
l’interruzione di confine sarà dunque in questo caso anche
sempre una ridefinizione e un’interruzione dei confini di
quel regime piú che della singola attribuzione identitaria o
principio normativo.
Ci cominciamo dunque ad avvicinare al del tema della trasformazione e di come produrla che è al centro dei
due scritti di Foucault sull’Aufklarung, ma prima di quello
segnalano un punto importante rispetto alla relazione tra
soggetto, norma e legge. Ovvero, le interruzioni del regime
di verità e dunque di presa sulle condotte non possono che
avvenire se la dimensione giuridica viene spodestata, affiancata e soprattutto ecceduta da pratiche di resistenza e
forme di vita che non interrompono quel concatenamento
del potere indirizzandosi a esso, rivendicando diritti; piuttosto, anche nel loro eventuale rivendicare e chiedere ciò
che si produce – gli spazi che si aprono dall’interruzione –
sono modalità differenti di costituirsi come soggetti rispet100
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to al modo con cui le categorie del potere solitamente operano, stabilendo per l’appunto ciò che Foucault definisce
il prezzo da pagare per divenir soggetto (Foucault, 1997).
Le interruzioni (di confine) praticate dai movimenti
gay e femministi ripresi da Foucault aprono a modalità di
soggettivazione che non emergono da una failure della norma nel suo processo di reiterazione, come invece emerge
nelle analisi di Butler sulla possibilità di sovversione delle
norme per la loro costitutiva fallibilità. Nè sono movimenti
che rispondono in maniera isomorfa alla categoria che definisce i confini dell’identità omosessuale o della sessualità
femminile: al contrario, questi movimenti hanno messo in
gioco una forza centrifuga rispetto alla sessualità, rifiutando di ridurre l’esistenza omosessuale o le rivendicazioni
femministe «a una pratica sessuale o a un’altra, ma rivendicavano la possibilità di rapporti interindividuali, sociali,
di forme di esistenza e di scelte di vita che debordavano
nettamente la sessualità» (Foucault, 1977). La sessualità,
da principio di verità in cui vengono confinate e codificate le pratiche di esistenza femministe e omosessuali diventa una “base tattica” per andare «ben piú lontano (di
quella), domandare molto di piú ed esplodere a un livello
piú generale» (Foucault, 1977). Foucault non parte mai
dall’esistenza della norma, non la pone come principio ontogenetico ma, come sopra ricordato, come principio di
regolazione e di partage. Al contrario, si potrebbe dire che
il sapere/potere di disciplinamento sui corpi è, in ottica
foucaultiana, sempre costretto a reinventare una norma,
a ridefinirne gli spazi di “presa” e i margini del proprio
fuori. Piú che partire dunque dall’orizzonte delle norme e
individuare le strategie per una loro sovversione, la norma
è il meccanismo di cattura e partage di fronte a comportamenti e pratiche (di mobilità) che rispondono all’intollerabilità di un potere – non il potere sovrano o il potere delle
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categorie di inscrivere identità nei corpi, ma il potere del
tutto tangibile della presa governamentale sulle vite. Se la
norma è principio di regolazione disciplinare e funzionale,
la sua correlazione con la legge non è prioritaria: al contrario, come Foucault sottolinea in L’estensione sociale della
norma, i meccanismi di normalizzazione operano un incessante raddoppiamento (doubling) delle soggettività producendo nuove categorie giuridiche o condotte medicalizzate
(Foucault, 1976). Del resto, il “lavoro della norma nell’anomia” e la produzione di un continuum di anormalità fa
sì che in Foucault le condotte patologiche o anormali non
siano il “fuori”, un margine di esclusione necessario, rispetto a cui il soggetto-cittadino si costituisce e diventa
possibile. L’interruzione – anzi, la sovversione della norma
– per Butler mira invece a mettere in discussione “il fuori
costitutivo del dominio del soggetto”: «la matrice esclusiva
attraverso cui i soggetti sono costituiti richiede la produzione simultanea di essere abietti.» (Butler, 1993, p. 3).
È da questi due sguardi differenti sulla norma che si
delineano anche due prospettive etico-politiche in parte
divergenti: per Butler, così come per Rancière, la contestazione e sovversione delle norme si collega immediatamente
a un movimento di risignificazione delle stesse, alla ridefinizione dei confini che producono “soggetti senza parte” o
“vite che non contano”. Ad esempio, la messa in questione dellla fissità della legge che divide i sessi secondo una
matrice eterosessuale, si produrrà «dalle regioni esterne di
quei confini [... e costituirà il ritorno perturbatore dell’escluso dall’interno della logica della simbolica eterosessuale» (Butler, 1993, p. 12). Movimento di risignificazione ed
ampliamento della norma che postula di fatto uno spazio
unico di affrontement che è anche al contempo uno spazio
di interlocuzione (space of address) verso cui i soggetti si
indirizzano forzandone i confini di ciò che resta “non-con102
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tato”. La lettura fatta da Foucault dei movimenti gay e
femministi, come esercizio della libertà a partire dalla forma attuale del reale che ci costituisce come soggetti nella
duplice accezione del termine, è tesa piuttosto a reperire
quella discrasia che in quei casi si verifica tra tecniche di
potere e produzione dei soggettività: una sfasatura che si
apre e si attualizza nell’apertura di spazi di soggettivazione
discordanti rispetto all’ordine della rappresentazione.
Provando a individuarne i tratti caratteristici, possiamo dire che Foucault ci parla di pratiche di interruzione del regime di verità effettuando un triplo spostamento
rispetto alle teorie della democrazia radicale così come a
quelle del performativo: a) soggetto: pratiche di assoggettamento/soggettivazione che fanno emergere un soggetto
che non è quello di diritto, nel senso che la rivendicazione
di diritti gioca eventualmente un ruolo tattico; b) norma e
rappresentazione: distaccando la norma dalla legge, le pratiche di interruzione su cui Foucault indirizza lo sguardo
non mirano a ridefinire i confini di esclusione e inclusione
ma a mettere in atto pratiche di esistenza collettiva non
(immediatamente) traducibili nell’ordine della norma o nel
continuum di anormalità; in questo senso gli affrontements
di condotta operano un dislocamento rispetto al duplice
ordine di rappresentanza/rappresentazione c) discorso: un
elemento comune delle lotte di condotta descritte da Foucault, dai primi anni Settanta agli anni Ottanta, è costituito dall’insufficienza del discorso e del linguaggio affinchè
un’interruzione di confine non immediamente ricatturabile si produca (Revel, 1997). Se a livello discorsivo l’interruzione non può prodursi che tramite un linguaggio della
trasgressione o del fuori – e d’altro canto la produzione di
categorie presto recupera le ‘anomalie discorsive’ – sul piano delle forme di esistenza e dei movimenti di condotta vi
è maggior possibilità, sembra suggerire Foucault, di sfug103
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gire alla cattura delle catene significanti (Lazzarato, 2013).
Soggetti che, precisamente giocando su continui movimenti di identificazione e disidentificazione – e sulla molteplicità di modi in cui siamo detti dal potere – mettono in
atto pratiche di esistenza non catturabili, non traducibili
in profili individuali nè in popolazioni governabili o categorie collettive. Pratiche che, di fronte alla “presa” delle
categorie di condotta (giuridiche, mediche, identitarie),
agiscono legami e relazioni trasversali che interrompono
quell’articolazione di omnes et singulatim cha caratterizza
il governo delle condotte moderno. Soggettivazioni agiuridiche e condotte che si sottraggono alla loro giuridicizzazione: le pratiche di esistenza e le rivolte di condotta di
cui Foucault ci parla non rispondono alle categorie che
le interpellano come soggetti (omossessuali, donne, folli,
isteriche) rivendicando un ‘luogo proprio’ nello spazio del
politico, ma al contrario continuamente interrompendo il
regime di verità e le altre determinazioni a cui quelle categorie-confine si collegano.
Spazi politici
L’interruzione di confine, come anticipato all’inizio, è
uno tra i movimenti attraverso cui vengono agite pratiche
di libertà e di resistenza che aprono a forme di soggettivazione; ma, contemporanemante, è anche movimento di
costituzione e ridefinizione di spazi politici. In fondo, in
Foucault (come del resto in autori come Butler e Rancière)
questi due movimenti non possono essere disgiunti e anzi
devono essere letti nel loro reciproco costituirsi. Riflessione, tuttavia, quella sugli spazi politici, che in Foucault non
è mai esplicitamente formulata o che comunque emerge
come per rifrazione rispetto alle analisi sui meccanismi di
disciplinamento e governo delle condotte. Questa del re104
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sto la mossa di Foucault: il politico, come presunto spazio
puro e sfera di agency a se stante, viene definitivamente
frammentato, contaminato e attraversato da relazioni di
potere e meccanismi di soggettivazione/assoggettamento
che lo spodestano dalla sua ‘zona propria’. Piuttosto, le interruzioni di condotta che Foucault racconta sono in qualche modo produttrici di spazi nella misura in cui introducendo una differenza nel presente – ovvero rifiutando un
certo potere intollerabile – rendono possibili altre forme
e modi di agencement soggettivo, politico e sociale. Non è
difficile a questo punto spingerci oltre Foucault stesso e,
lavorando negli spazi del presente, vedere come la stessa
presunta opposizione binaria tra movimenti costituenti e
destituenti in quest’ottica si trova radicalmente reinscritta
in uno spazio di interruzioni costituenti.5
La temporalità dell’interruzione non si risolve nel
momento puntuale in cui questa si produce, e dunque in
cui l’evento come rottura e non come semplice contigenza
ha luogo. Cosa si apre e cosa può costruirsi a partire da
quell’interruzione dei confini, non necessariamente (almeno in ottica foucaultiana) come movimento costituente ma
nei termini di spazi di soggettivazione e movimento non
corrispondenti a quelli della ‘mappa’ e dei suoi confini
o della scena del politico? La scena6 e lo spazio del politico e l’emergere in quello spazio di soggetti politici: è
attorno alla produzione e al rinnovamento di questi due
luoghi che si articolano le riflessioni di Jacque Rancière
e di Judith Butler intorno al tema della soggettivazione e
a quello dell’interruzione politica – come movimento che
interrompe la partizione tra vite che contano e che non
contano, o tra i cittadini e i senza parte. Non solo, è attraverso una serie di “messe in scena” 7 che i senza parte sono
raccontati nel loro irrompere (per l’appunto sulla scena),
riconfigurando i confini esclusivi dello spazio politico. In
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Foucault, come emerge chiaramente nella sua critica alla
democrazia come ‘forma’ del politico (Foucault, 2008), lo
spazio dell’azione non è mai già dato, ma sia esso stesso da
“reinventare nei suoi luoghi e forme della partecipazione”,
come evidenziato da Rancière (Rancière, 1998). Nè, tanto
meno, l’obiettivo in Foucault è di rinvigorire lo ‘scandalo
della democrazia’, come «potere proprio a coloro che non
hanno piú titolo per governare che non per esser governati»
(Rancière, 2005, p. 54). Infatti, nella prospettiva foucaultiana, e differentemente da Rancière, non è l’uguaglianza
tra gli individui il presupposto ineludibile dei rapporti di
potere e di dominazione, ma al contrario, è l’insieme stesso
dei rapporti di forza, necessariamente ineguali e dettati da
squilibri tuttavia continuamente trasformabili. «Al limite,
i rapporti di potere sono la lotta di classe; ossai, l’insieme
di rapporti fortemente diseguali ma ugualmente mutevoli»
(Foucault, 1977).
L’enjeu delle interruzioni di confine a cui Foucault guarda non sembra essere quello dell’emergenza di un
soggetto politico, proponendo invece una politicizzazione
delle forme di resistenza, e dei comportamenti di mobilità
in quanto tali (Foucault, 2013). L’eterogeneità delle interruzioni prodotte dai confini (meccanismi di disciplinamento e di cattura) e delle interruzioni dei confini (le rivolte
di condotta) che Foucault ben mette in evidenza, rende di
fatto impossibile figurarsi la costitutuzione di un soggetto
politico emergente – come figura paradigmatica di soggettività politica – espressione delle differenti soggettività. Le
interruzioni di confine agite su una temporalità differente
da quella dell’evento, e analizzate nella sfasatura che producono –tra ‘presa’ del potere e soggettivazioni – e negli
spazi che aprono, contribuiscono proprio a questa messa
in movimento dello spazio politico e della produzione di
soggetti che Foucault non cessa di effettuare. Non stupi106
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sce, dunque, la critica alla democrazia che percorre tutto il
Corso del 1983, Il governo di sè e degli altri in nome di una
differenza da produrre rispetto allo spazio (politico) dato
e, simultaneamente, rispetto alle forme di soggettivazione
politica che questo permette: «in un’epoca come la nostra
in cui si ama porre il problema della democrazia in termini
di distribuzione di potere, di autonomia di ciascuno nell’esercizio del potere, in termini di trasparenza e opacità, di
rapporto tra società civile e stato, credo sia buono ricordarsi di questa vecchia questione [...] della cesura necessaria e indispensabile e fragile che il discorso di verità non
può non introdursi in una democrazia; una democrazia
che al tempo stesso rende possibile questo discorso vero e
lo minaccia senza interruzione» (Foucault, 2008, p. 168).
Questa resistenza di fronte all’egemonia della ‘legge della
democrazia’ e ai tentativi per attualizzarla e radicalizzarla,
è indubbiamente l’attitudine fondamentale da tenere oggi
presente nel guardare ad esperimenti insurrezionali e costituenti ‘oltre la scena’. (Si pensi ad esempio al modo in
cui le rivoluzioni arabe sono state immediatamente dette,
dalla sponda nord, come sollevazioni per la democrazia e
in direzione di una transizione democatica ancora da compiere).
Non a caso, nelle avvincenti pagine del reportage
dall’Iran per Il Corriere della Sera, Foucault riesce a sottrarre la sollevazione iraniana alla rivoluzione e, aggiungo,
alla democrazia come ‘domatori’ della storia – «organizzando la nostra percezione del tempo e [...] avendo acclimatato il sollevamento all’interno di una storia razionale»,
conferendogli legittimità e «facendo il partage tra le sue
buone e cattive forme, ha definito la legge del suo sviluppo» (Foucault, 1979). L’interrogazione che Foucault solleva a proposito della rivoluzione riprendola da Horkheimer
– “è veramente desiderabile questa rivoluzione?” – potreb107
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be forse oggi essere riproposta rispetto alla democrazia: «è
davvero la democrazia oggi l’unico modello in base a cui
pensare e praticare interruzioni di confine negli spazi politici?».8 Tuttavia, vorrei concludere soffermandomi proprio
su ciò che Foucault sembra suggerire in opposizione alla
forma della democrazia e alla sua desiderabilità mai messa in discussione. Il tema, se volete, è anche questa volta
quello di un’interruzione intesa come “distinzione etica”:
il problema della parrhesia è in fondo, ci dice Foucault,
«il problema della differenza indispensabile [...] introdotta attraverso l’esercizio del discorso vero nella struttura
della democrazia» (Foucault, 2008, p. 167). Una differenza
e un’interruzione qualificate in senso etico, nei termini di
una capacità di dire il vero che si contraddistingue dalla
possibilità a tutti concessa di prender parola. Ma in un momento in cui il potere opera per frammentazione, restringendo la scelta rispetto a dove stare e dove muoversi da un
lato, e precarizzando le esistenze dividendo dall’altro – ovvero senza che si dia una condizione comune dei governati
su cui costruire un’unità – l’interruzione da produrre deve
davvero essere dell’ordine della distinzione? In che modo
agire un’interruzione che apra spazi di soggettivazione
senza dividere e che non tracci nuovi confini di soggettività ‘esclusive’?
Per questo lo “sforzo” che Foucault ci chiede di compiere rispetto agli spazi politici del presente per introdurre una differenza, per poter “essere diversamente da ciò
che siamo”, non può che essere pensato come una serie di
movimenti e di processi di interruzioni collettive fin dall’inizio. O meglio, dove il termine ‘collettivo’ non sta a indicare un entità di appartenza fissata in anticipo – ad esempio quella nazionale – o un ‘noi’ comunitario; al contrario,
esso designa l’effetto di pratiche di trasformazione nel loro
farsi, nel loro prodursi. Una trasformazione – questo in
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fondo l’enjeu politico dell’ultimo Foucault: come produrre la trasformazione e la differenza ? – in cui “l’esercizio
della libertà” nel suo gioco difficile “con la verità del reale” non può andar disgiunto dalla costituzione di un ‘noi’
rispetto a cui interrogare il nostro presente e, insieme, la
relazione con questo ‘noi’ a cui ci sentiamo di appartenere.
Un ‘noi’ che Foucault negli scritti sull’Aufklarung sembra
volutamente lasciare indefinito nei suoi confini e nelle sue
determinazioni proprio perchè emergente da “un lavoro
fatto ai limiti di noi stessi” e sempre in rapporto a un presente condiviso. Aufklarung – uscita dallo stato di minorità – e rivoluzione – come virtualità permamente e garanzia collettiva di non-oblio – vanno insieme, sembra dirci
Foucault, l’uno non può compiersi senza l’altro (Foucault,
2008). E la rivoluzione, per quanto nello scritto di Kant
commentato da Foucault sia lo spettacolo vissuto dagli
spettatori dell’evento rivoluzionario, come ‘virtualità permamente’ da riattivare nella storia (del presente) non può
che presupporre la partecipazione a un progetto di trasformazione di uno spazio comune: «un movimento verso una
situazione in cui gli uomini saranno in grado di darsi la
costituzione politica che vogliono» (Foucault 2008, p. 18).
In fondo, la scomparsa in Foucault del termine resistenza
dopo il 1978 non deve trarre in inganno: lo spostamento sul
momento della trasformazione, come attitudine e compito,
porta in primo piano, soprattutto nei testi sull’Aufklarung,
la volontà di s’engager nella produzione di un’interruzione,
una differenza, rispetto a ciò che noi siamo e rispetto al
presente in cui ci troviamo. In tal modo, l’instaurazione di
una differenza possibile passa sempre per una lotta, e non
può essere che l’esito di molteplici soggettività in gioco in
questo processo di trasformazione – il presente, in quanto
spazio e realtà condivisi, non può per definizione essere
trasfigurato, rivoluzionato o interrotto nei regimi di verità
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che lo definiscono se non insieme ad altri e altre.
Interrompere al centro o interrompere i margini? La
friabilità di quel presente che dovrebbe essere materia
dell’ontologia storica di noi stessi (Foucault, 1984), e la
costante reinvenzione di un ‘nous’ costantemente trasformato dai movimenti di resistenza e dalle pratiche di esistenza, si trasforma nell’interrogativo sui luoghi dell’interruzione. (dove, a che prezzo e in quale direzione produrre
le interruzioni di confine?). Richiamando la suggestione
di Rancière sui processi di soggettivazione come «azione
nell’intervallo o nella falla tra due identità di cui non possiamo assumerne alcuna» (Rancière, 1998) e provando a
metterla in movimento negli spazi del presente, si possono
rintracciare quei momenti e quegli spazi in cui i confini di
una norma o di una categoria diventano mobili, indefiniti e
del tutto instabili. Categorie e norme che entrano in ‘crisi’
nella loro capacità di dividere e avere presa sui soggetti; o
categorie e norme la cui mobilità o zona di indistinzione
funziona proprio per ‘flessibilizzare’ la capacità di ‘cattura’ di quelle soggettività. In ogni caso, è in questa sfasatura, tra i confini della norma/categoria e lo spazio effettivo
della sua ‘presa’, che un margine si apre. La categoria di
‘migrantÈ è sicuramente oggi una delle piú indistinte ed
eclettiche nel suo uso, nella sua definibilità. Chi è migrante oggi in Europa e tra gli europei? Quali tipi di mobilità
forzata, tra loro molto differenti, si producono e quanto
poco lo status giuridico di (ir)regolarità ci dice sulla condizione migrante? La presenza di molte e molti migranti
in lotte socialmente trasversali e in cui l’enjeu prescinde
dal proprio essere migranti – le lotte per l’abitare o per
la conquista di spazi urbani – e, viceversa, le pratiche di
mobilità di non-migranti per prendersi il diritto a stare o
spostarsi dove si vuole, fanno in parte esplodere il partage
migrante/non migrante. Talvolta assunto strategicamente,
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per sottolineare processi di ‘migrantizzazione’, talvolta diluito in movimenti che lo trascendono, quel principio di
partizione sempre piú globale può in parte staccarsi dalla
sua funzione discriminante e essere rigiocato in spazi di
soggettivazione e disidentificazione.
Note
Centrale ovviamente anche nella produzione di Alain Badiou,
ma trattandosi in quel caso di una prospettiva radicalmente differente da quella di Foucault nel modo di pensare l’evento mi
concentro invece qui su quelle a lui piú affini.
2
“La simulazione è stata la modalità insidiosa per mezzo della
quale i folli hanno posto di forza la questione della verità a un
potere psichiatrico che voleva imporre loro nient’altro che la
verità” (Foucault, 2004, p. 134).
3
Come Foucault sottolinea in Sicurezza, territorio, popolazione,
le rivolte di condotta sono specifiche rispetto ad altre pratiche
di resistenza (ad esempio contro il potere economico o contro
la disuguaglianza tra classi) in quanto forme di rifiuto contro un
certo modo di essere governati; e tuttavia sono sempre articolate
e connesse ad altre lotte.
4
‘Tra l’affermazione “sono omosessuale” e il rifiuto di dirlo vi è
tutta una dialettica molto ambigua: è un’affermazione necessaria perchè è l’affermazione di un diritto, ma è al tempo stesso la
gabbia, la piega’ (Foucault, 1982, p. 113).
5
Su questo si veda anche M. Lazzarato (2013) Il governo dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, Roma.
6
“Des lors que le lien avec la nature est tranchè […] il existe
1
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un sphère publique qui est une sphère de rencontre et de conflit
entre les deux logiques opposès de la police et de la politique
[…] Elargir la sphère publique veut dire lutter contre la rèpartition du public e du privè (Rancière, 2005, p. 57). Il politico è
la scena in cui la verifica dell’uguaglianza prende la forma del
trattamento di un torto.
7
“La dualita’ dell’uomo e del cittadino ha potuto servire alla
costruzione di soggetti politici mettendo in scena e in causa la
doppia logica della dominazione […] l’azione poltiica scompagina la distrubuzione dei termini e delle posizioni, giocando
l’uomo contro il cittadino e il cittadino contro l’uomo” (Ranciere, 2005, p. 67).
8
Su questo si veda anche A. Badiou, S. Zizek, La filosofia al presente, Il Melangolo, Genova, 2012.
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LA
NATURA UMANA COME DISPOSITIVO .
FOUCAULT
E L ’ EPOCA MODERNA
Paolo B. Vernaglione
Almeno all’inizio, una rappresentazione è indispensabile. Perchè ha a che fare con il tempo della modernità,
o con una scansione convenzionale dell’epoca moderna di
cui si registra la continuità. Si tratta dell’articolazione complessiva di un tema di quest’epoca, nel luogo e nel concetto
che forse più di ogni altro la definisce: la natura umana.
Ove l’accento batte sull’aggettivo, non per indicare la
rilevanza dell’essere umano in quella che è stata chiamata “post-modernità”; piuttosto per la presunta necessità
dell’umano nella fine, annunciata a partire dagli inizi, in
occidente, dell’umanesimo, cioè di quella cultura che ha
prodotto sfruttamento, devastazione, morte, quanto più
viene rilanciata come valore.
Ciò che dunque anzitutto il concetto di natura umana
denuncia, nella mobilitazione che di esso oggi si esercita, è
il disfacimento, di cui non ci si può che rallegrare: infatti la
morte dell’uomo, che per Nietzsche avviene all’acme della
modernità industriale, si realizza nel divenire molteplice
dei tempi e delle facoltà umane, in cui si delinea la curva
del tramonto.
Se questo termine interminabile del tempo attuale
corrisponde alla durata terrena che incrocia il regno messianico nella sua direzione contraria, come voleva Walter
Benjamin; oppure se rappresenta l’attimo in cui l’eterno
ritorno si manifesta in una pienezza inaccessibile, non pos115
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siamo dirlo, nè negarlo, ancora oggi, a più di un secolo dal
pensiero di Nietzsche. Ciò che è noto da tempo invece è
che i “valori umani” non bastano a nascondere, all’interno
del senso di quel concetto, il divenire animale dell’umano, cioè il divenire della sua “natura”. In questo processo
ha luogo la rappresentazione di una continuità, che, come
tutte le rappresentazioni, contiene una metafora, che ha
di mira la modernità stessa, nell’esprimere un pensiero, il
pensiero di un soggetto: il pensiero e il soggetto Michel
Foucault.
L’epoca moderna, che ha pensato e ha prodotto la fine
dell’umano come natura, come contenuto particolare di un
valore, di un essenza, di uno strato nascosto alla ragione
e di un’opposizione a merci e animali non umani, scandisce nell’opera di Michel Foucault tre tempi, che Gilles
Deleuze ha evidenziato nel corso a lui dedicato: il tempo
dei saperi, quello dei poteri e infine quello della soggettività1. A partire dall’enunciazione dei tre dispositivi in cui
riconosciamo la modernità, la crisi della “natura umana”,
dell’essere naturale dell’umano e del concetto che fino a
poco tempo fa continuava a tenere in pugno l’essenziale
della metafisica, appaiono e si realizzano nella scienza, nelle forme della sovranità statale e nell’identità del soggetto
singolare.
Ma allora la modernità, come scandita ne Le parole e le
2
cose , dalla fine del XVIII secolo, secondo questa metafora
sarebbe scolpita in un’epoca dei saperi, una dei poteri e
un’ultima epoca del soggetto – piuttosto che nella molteplicità di rapporti variabili tra i tre insiemi? Non diremmo.
Eppure colpisce la coincidenza cronologica tra gli orizzonti successivi studiati da Foucault e l’evoluzione del concetto di natura umana. Le fasi di questa evoluzione sembrano consegnarci una certa produzione di sapere (filosofico,
tecnico, scientifico, antropologico, all’incirca a partire dal
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secondo dopoguerra); le progressive disfunzioni delle società di welfare; e infine l’attenzione a tratti ossessiva alla
soggettività, nella caduta irreversibile delle istanze di cambiamento affidate ad un soggetto collettivo.
Al loro posto registriamo la negazione dell’identità
individuale, la produttività del transgenere che disdice la
centralità del soggetto, e indaghiamo l’essere flessibile in
cui si trovano connesse la forma di individuazione propria del neoliberalismo e le forme di aderenza al tramonto
dell’umano.
Ma questo quadro delle continuità cronologiche e la
meccanica sovrapprosizione ad esso dell’opera di Foucault, si rivela esercizio arbitrario oltre che convenzionale,
nella ricostruzione di un presente destianto a non passare.
Bisogna invece chiedersi, esercitando la critica di sè
stessi e di un pensiero che non è mai personale, cosa rimane del concetto di natura umana; cosa cioè è possibile
al pensiero, una volta demoliti lo spazio concettuale delle
continuità storiche, quello della figura retorica che sintetizza la gerarchica presenza dell’umano nel mondo (di cui
Gunther Anders a suo tempo ha tracciato il profilo) e quello dell’identificazione di un pensiero e un’opera con l’evento, cui hanno dato fondo la fenomenologia di Husserl,
il genio di Bataille 3 e l’esperienza integrale di Blanchot.
Una volta dissolta la totalità cui si riferiva, il pensiero rimane settoriale, non nel senso di un contenuto specifico
che traccia i propri limiti nello specialismo di una cultura
– confini che nel secolo appena trascorso è stato il linguaggio a stabilire; piuttosto nel senso di una riflessione su quei
saperi in cui la natura umana è tematizzata: l’antropologia
e le biotecniche; la psicoanalisi e la filosofia del linguaggio;
un’analitica della soggettività e una terapeutica da cui possiamo ricavare un’ontologia del presente.
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In quest’articolazione della modernità incontriamo un
metodo, applicato da Foucault a quella che si può chiamare un’epistemologia della soggettività. Questo metodo,
in cui si direziona l’archeologia del sapere, l’insieme dei
rapporti tra enunciazione, visibilità delle cose e soggettivazione, diviene un dispositivo in rapporto a certe configurazioni di potere, ad un’ideologia dell’individuo come
imprenditore di sè stesso e ad un regime di veridizione in
cui l’essenza dell’umano troverebbe conferma in una innata e costitutiva “mancanza”.4 Gran parte delle critiche
a Foucault, al modo della sua ricerca, risontanti come un
basso continuo lungo la sua vita, consistono nell’accusa di
aver dissolto nella variazione storica singolare, nella costellazione di enunciati che distinguono un’epoca, nell’insieme delle pratiche attraverso cui si afferma e circola una
morale, l’invarianza di stato e di valore in cui consisterebbe la vita generica. Di aver agito una parzialità teorica, di
aver distrutto il trascendentale come sostanza biologica,
culturale e sociale, in una storicità senza fine, in cui l’uomo conquista una natura artificiale e articola il linguaggio
come potenza contingente in un vissuto singolare.
Ma l’insistere di Foucault sulle condizioni in cui l’invarianza si dissolve nelle variazioni storiche e di specie,
chiama in causa l’orizzonte trascendentale in cui dovremmo riconoscere quelle permanenze che si chiamano Ragione, Politica, Morale, – avendo egli scritto in più occasioni
quanto sia indispensabile ricavare le regolarità e le persistenze, i punti di emanazione e le condizionalità dei poteri,
le inerenze concettuali e le modalità trascendentali dalle
variazioni che le formazioni storiche portano ad emergenza. Come ha scritto Deleuze «se è vero che le condizioni
non sono più generali o costanti del condizionato, Foucault è comunque interessato alle condizioni. È per questo che
afferma: ricerca storica e non lavoro di storico. La sua non
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è una storia delle mentalità ma delle condizioni, in cui si
manifesta tutto ciò che ha un’esistenza mentale, gli enunciati e i regimi di linguaggio»5 .
Pensare dunque non è nè innato nè acquisito; è genetico, proviene da un “fuori” più lontano di qualsiasi mondo
esterno e più prossimo a noi di una presunta interiorità.
Dobbiamo allora rinunciare a quella rappresentazione facile, in cui l’ultima modernità coincide con la scansione
temporale dell’opera foucaultiana, per testimoniare invece
l’inattualità di Foucault, nel senso in cui per Nietzsche si
qualifica un pensiero necessario. Ma questa rinuncia non è
per noi dolorosa, come poteva esserlo ancora alla fine degli scorsi anni Sessanta, perchè il presente approfondisce
la durata della morte dell’uomo – di cui non si cercherà
più, finalmente, la traccia mnestica, il portato memoriale
o la ragione storica, nascoste nella continuità dell’epoca
moderna. La rinuncia all’umano procura ancora sofferenza
per quel bagliore che nel tempo quotidiano riflette la figura di questa soglia della modernità: la forma assunta dal
valore impresso su merci e dispositivi, su affetti e abilità
in un simulacro di narrazione che esprime i saperi, i poteri
di governo sulla vita e l’attività permanente del soggetto
come la propria realtà funzionale, nascondendone l’esteriorità.
Nello stacco del pensiero dalla base materiale di un
sapere con cui dialogava in un ordine naturale, con e attraverso il linguaggio – ordine avvertito fino alla soglia umanistica della modernità – riconosciamo l’ a priori storico6,
base di un ordine differente. Ordine dell’architettura, del
sistema, dell’artificio della cultura. Nel luogo del linguaggio, la somiglianza, paradigma di quest’ordine, è sconvolta
dalla codifica scientifica dei saperi. Mentre infatti al centro
della rappresentazione si trovava, fino alla metà del XVI
secolo la segnatura7, quale indice sensibile di ciò che in na119
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tura era invisibile in quanto essenziale, cioè la possibilità di
infinite analogie, nel rovesciarsi del rapporto tra pensiero
e linguaggio, laddove la linguisticità si impadronisce e manipola il pensiero nella storicità, assumendo del pensiero il
comando, – in quel punto la modernità inizia a parlare, ad
argomentare, a tematizzare e a giustificare le proprie conquiste. Agli inizi del XVII secolo «il pensiero cessa di muoversi nell’elemento della somiglianza. la similitudine non è
più la forma del sapere, ma piuttosto l’occasione dell’errore, il pericolo cui ci si espone allorchè non si esamina il
luogo mal rischiarato delle confusioni...»8. Così, «la ragione occidentale entra nell’età del giudizio» 9. È il “momento
cartesiano” che segna lo spartiacque filosofico tra antico e
moderno, ma ne riproduce la continuità nell’epoca classica, perchè «il compito fondamentale del discorso classico è
di attribuire un nome alle cose, e in questo nome di nominarne l’essere (ontologia).».10 Il segno d’istituzione traccia
la differenza tra uomo e animale, trasforma la fantasia in
memoria volontaria, l’attenzione spontanea in riflessione,
l’istinto in conoscenza razionale.11
La rottura con l’ordine e le classificazioni risale invece, alla fine del XVIII secolo, a quella piega del pensiero che mettte di fronte il razionalismo con la facoltà delle
idee; ma anche in quel punto cruciale della modernità si
avverte il passaggio più che la frattura tra oggettivazione
del mondo e produzione di sapere da parte della coscienza.
Gli è che ciò che fino a Kant viveva della spinta “in alto”
dell’intelletto, nelle condizioni di possibilità dei concetti,
e nell’isolamento delle idee fino al limite delle antinomie,
ora, dal momento in cui un ordine linguistico si è impadronito del pensiero, sono le idee e i giudizi ad iscriversi nell’ordine della ragione, a storicizzarsi nella coscienza
singola, a radicarsi come condizionati nell’esperienza.
Il linguaggio infatti, esperito come texture del mon120
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do, continuità dei contesti, fondo vibrante del mondo, può
questa trasformazione. L’astrazione non stacca più il pensiero dal linguaggio in una distanza assoluta, bensì, pronunciata dal linguaggio, comprende sè stessa come opera
della coscienza singola, lavoro del concetto. E tuttavia gli
esiti raggiunti da Hegel nel pensare lo Spirito, cioè il vero
non come sostanza ma «...altrettanto decisamente come
soggetto»12 erano presupposti da Kant, che nell’Antropologia Pragmatica pensa il Geist come principio vivificante «
durch Ideen», per mezzo delle idee13. Possiamo riconoscere quanto sia degna di considerazione questa elaborazione
del soggetto delle Idee nella materia dell’empirico, nella
centralità che assume il Discorso agli inizi del XX secolo.
È ad opera di un pensiero linguistico che, come ha scritto
Agamben, esiste oggi un compito per la filosofia, a partire
dal quale rovesciare la marginalità in cui è costretta: vedere
ed esporre i limiti del linguaggio: «Un’antica tradizione di
pensiero enuncia questa possibilità come una teoria delle
idee...L’idea è interamente compresa nel gioco tra anonimia e omonimia del linguaggio...L’idea non è una parola
e nemmeno visione di un oggetto fuori del linguaggio ma
visione del linguaggio stesso.».14 Perchè il linguaggio in
quanto mediazione immediata è archè anypothetos, principio non presupposto che è il compimento e il fine del
logos.15
La visione del linguaggio è esperienza dei suoi limiti,
della sua fine. Come Foucault rileva, questi limiti sono sia
la lingua dei calcoli e dell’analisi combinatoria che la lingua di Sade, in cui si trova il mormorio priomordiale che
attraversa il desiderio.16 Ciò perchè «Il linguaggio esiste
in quanto al di sotto delle identità e delle differenze vi è il
fondo delle continuità, delle somiglianze, delle ripetizioni,
degli incroci naturali».17
Questo movimento di un pensiero possibile, la visione
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del linguaggio, e l’opera creata nel tramonto annunciato
da Nietzsche e ribadito da Walter Benjamin,18 sono il programma in cui deve spegnersi l’Umanesimo che compie
l’eterno ritorno della modernità, come testimonia l’archeologia delle scienze umane che Foucualt ha inaugurato.
Da Le parole e le cose all’ “Introduzione” all’Antropologia
di Kant, all’incontro televisivo nel 1971 ad Eindhoven tra
Foucault e Noam Chomsky, la parabola del tramonto della natura umana è tracciata nel pensiero e ripetuta nella
scrittura, per sancire nel successo, nella diffusione e nella
critica delle scienze umane, il destino del sapere sull’uomo
che è “invenzione recente”.19
La trasformazione radicale dell’epoca moderna è indicata da Foucault nel passaggio dalla storia naturale come
storia della natura, all’antropologia come scienza dell’uomo. Per questo all’uomo sono preclusi i divenire possibili dell’umano (animale, particella, donna, invisibile, nella
esemplare fenomenologia dell’alterità che sarà indicata da
Deleuze e Guattari20), mentre nella trasformazione dell’episteme del mondo antico, connotata dalla conoscenza integrale della natura, si avverte la separazione della matematica e della logica dalle scienze naturali. Questa partizione
attaraversa il campo del sapere assegnando all’empirico la
possibilità delle differenze, ma richiudendolo al contempo
nella necessità dell’induzione; e facendo del trascendentale
la condizione di possibilità sia del soggetto che degli oggetti, di cui tuttavia non può operarsi la sintesi. In questo
senso l’Antropologia Pragmatica è il tentativo dell’intelletto di ricostituire quella mathesis universalis che si era dispiegata da Cartesio a Leibniz, fino al limite del progetto
razionalista. Laddove infatti era sancita l’impossibilità per
il trascendentale di operare la sintesi dell’empirico in una
filosofia critica, Kant assume la pragmatica come ricerca
dell’intreccio di sintesi passive21 e sintesi oggettive; in que122
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sto senso l’Antropologia è il tessuto connettivo sia dell’opera precritica di Kant che delle Critiche, perchè nella domanda “ Che cos’è l’uomo?”, tesa fino al punto di rottura
del nuovo campo di sapere che essa inaugura, è impresso
il segno del movimento della ragione. Ma qui la ragione
non è, come nell’impresa critica, la facoltà che produce i
giudizi, una volta che l’intelletto ha operato la sintesi del
molteplice; bensì, al di sotto di esso, è quel modo dello
Spirito che anima con le idee le continuità di sensibile e
intelligibile, natura e conoscenza, realtà e possibilità. Inteso diversamente che in Leibniz, per il quale « nella profondità dello spirito si integra una rete di relazioni logiche
che in un certo senso costituisce l’inconscio razionale della
coscienza»,22 lo spazio possibile di un’antropologia è delimitato da un lato dal trascorrere del sensibile nella facoltà
che lo unifica; dall’altro dal regredire della ragione verso
la sua origine organica.
Ciò che allora si legge in controluce negli argomenti
dell’incontro di Eindhoven, è l’effetto archeologico delle
scienze nel passaggio dall’epoca classica alla modernità, effetto possibile perchè la sentenza nietzscheana della morte
di Dio «è la morte dell’uomo»23. Nell’archeologia filosofica
della natura umana scopriamo l’identità del concetto con
ciò che è innato. Nella genealogia del soggetto moderno
scopriamo «l’origine di uno spirito ripiegato nell’intimità di sè»24, di derivazione cristiana: “il filone agostiniano”
che inaugura l’intera tradizione della coscienza e dell’interiorità, il primato dell’organico sull’inorganico e quello della res cogitans, come essenza esclusivamente umana,
sulla corporeità animale.
La prima questione, la natura come fonte di rappresentazione e come sede di ciò che è innato, è trattata da
Foucault in Le parole e le cose, in cui è dispiegato uno spazio storico di coincidenza tra innato, invarianza e natura
123
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umana, quando, alla fine del XVIII secolo, si sviluppa un
sapere sull’uomo che è l’effetto della separazione di parole
e cose. Il dissolversi della rappresentazione classica segna
la fine della storia naturale, che situava la minuziosa classificazione delle caratteristiche degli organismi sul fondo
indistinto dell’organico e dell’inorganico; e lascia il posto
alla biologia che, stralciando l’uomo dall’ordine della natura, sovrappone nel concetto di vita ciò che è organico
con la permanenza di una forza oscura.
La seconda questione, propriamente metafisica, consiste niente di meno che nella definizione di ciò che è Spirito: questo concetto in cui si coglie l’essenza della filosofia
nella sua esistenza storica, assume nella classicità un significato diverso da quello teologico e dottrinario che aveva
fino alla Riforma protestante. Un significato metafisico che
deriva dalla rottura dell’identità con l’ idea di anima e dalla conseguente problematizzazione del concetto. Se infatti
lo Spirito è, da Platone a Hegel a Bergson, quel sapere
di cui l’anima individuale è partecipe in quanto sostanza non materiale che vivendo si oppone al corpo; se essa
confligge con il corpo mentre lo dirige “come il nocchiere
della nave”, l’anima non può che trovarsi nella profondità
di una coscienza consapevole di sè. Per Cartesio è la mente come res cogitans che, avendo qualità “spirituali”, per
natura è innata, inspiegabile, ma conosciuta quale prova
dell’esistenza di Dio. Gli schemi della mente sono conosciuti come essenza differente dalla res extensa, allo stesso
modo in cui il male è conosciuto come assenza di bene e
Dio come negazione delle qualità imperfette.
Ma c’è un’altra interpretazione dello Spirito che differisce da questa, pur correndo all’interno della tradizione
metafisica e che Foucault rileva nel Geist dell’Antropologia
Pragmatica. Il Geist è infatti principio vivificante di cui il
Gemut, l’animo, è il movimento tramite le idee, «movi124
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mento che non pretende di essere conoscenza della Seele
(anima)». 25
Quanto in Kant sia decisiva, nell’individuare la natura
umana, la differenza tra Seele e Gemut e quale sostanziale
spostamento questa differenza di senso produca nel modo
di considerare il movimento dello Spirito, Foucault evidenzia osservando che in questa differenza si apre il campo
antropologico. Nel momento in cui la tradizione metafisica procede all’identità della «rappresentazione semplice dell’io, priva di qualunque contenuto» con l’anima, ne
esclude la particolarità, di cui invece rende conto il Gemut, che è “oggetto particolare” all’incrocio di psichico e
fisico, delle sintesi passive e del “principio vivificatore”.
D’altra parte, questo nuovo campo del sapere è segnato fin
dall’inizio dalla quasi indistinzione di animo, “Io penso” e
senso interno, che avvicinerebbe il Gemut come esperienza
concretamente operante, e non come Spirito incarnato che
muove l’anima, alla sfera di sapere della psicologia razionale.26 Tuttavia recuperando la nozione di animo di cui il
Geist è principio, Kant assegna all’antropologia il luogo
dell’ a priori storico. L’ a priori infatti nelle tre Critiche
decide delle possibilità e dei limiti della conoscenza, che
una psicologia empirica non può pensare; la funzione dell’
a priori nell’antropologia consiste allora nel dare forma e
limite al trascendentale rispetto ai contenuti psicologici
del senso interno.
L’acquis dell’Antropologia rispetto alle Critiche consiste dunque nella nozione di animo che è spazio di costituzione dell’organico e che, precedendo l’operazione dello spirito nella corporeità, produce l’esperienza. Questo
movimento delimita il sapere antropologico come campo
della storicità, campo che origina dalla sensibilità, senza
confondersi con l’oggetto di una psicologia razionale.
L’antropologia proprio perchè pragmatica è quel sa125
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pere che si trova nella zona di indistinzione di ragione ed
esperienza in cui è situato il Gemut. Esso è il “quasi trascendentale”, poichè «è e non è Geist».27 Il Gemut infatti
è la misura del Geist. In questa interpretazione dell’animo
non c’è più separazione di psiche e corpo, ma osservazione
nell’organico di una tessitura della materia in cui si costituisce la dinamica del movimento, la forma della vita. Qui
lo Spirito non è legge nè regola, e il Gemut non è l’essenza
spirituale che dall’esterno del corpo ne regola il comportamento e l’apprendimento; ma non è neanche l’astrazione
che prescrive all’organico i limiti di potenza nella passività
della fisiologia. Esso è il principio immanente alla vita, in
cui l’intelletto e le sintesi passive compiono il trascendentale Il sapere antropologico assume la forma liminare di
una conoscenza di ciò che non si sa, con la finalità di giustificare il rapporto tra soggetto e oggetto senza ricorrere
alla facoltà di rappresentazione.
Nel Gemut il Geist, condizione del possibile infinito
dell’idea, si tramuta in vita empirica, sciogliendola dal dato
“per procedere oltre”. Un’antropologia è dunque possibile
a condizione che il Geist sia compreso nel permanere di
una libera autoproduzione. « È il Geist che apre al Gemut
la libertà del possibile, lo strappa alle sue determinazioni
e gli dona un avvenire che deve solo a sè stesso».28 Un’antropologia del Geist si configura dunque come possibile,
e forse per Kant come unica scienza possibile dell’uomo,
perchè è «alla radice della possibilità di sapere», – il Geist
essendo «...questo ritrarsi, questa invisibile e “visibile riserva” nell’inaccessibile distanza a partire dalla quale il
conoscere prende posto e positività. Il suo essere è di non
essere presente, delineando, con ciò stesso, il luogo della
verità».29 Lo Spirito si trova dunque al limite delle possibilità della natura umana che esso fonda, laddove iniziano
a dissolversi le differenze categoriali, ma non empiriche,
126
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di Ragione e Sensibilità; laddove il pensiero è espressione
dell’intelletto; e infine ove si perde l’ “illusione inevitabile” della rappresentazione semplice dell’ “io” come anima,
e quella di un’identità interiore in cui rimane confinata la
mondanità di Narciso. Al contrario «la tematica dell’Antropologia...fa sì che la ricerca nella dimensione del Gemut
non apra solamente a una conoscenza interiore di sè, ma
che essa, spontaneamente, ecceda sè stessa...in direzione
di una conoscenza dell’umano nelle forme esteriori che lo
manifestano».30
Il conflitto tra la tradizione metafisica dell’io, della
coscienza e dell’innata autocostituzione del soggetto, e la
prova di un’esteriorità eccedente la volontà individuale di
sapere, si rinviene nel confronto tra Foucault e Chomsky
ad Eindhoven. Laddove infatti per Chomsky siamo in presenza di «schemi altamente organizzati e molto restrittivi
di cui (il bambino) dispone...che gli consente di padroneggiare conoscenze altamente organizzate...», 31 per Foucault questa considerazione della mente come una struttura
chiusa in grado di implementarsi è effetto di un sapere,
cioè di un modo di conoscere in cui l’astrazione diviene
la procedura della ragione moderna. Per Chomsky questo
sistema di conoscenze si chiama “linguaggio innato” o “conoscenze istintive”, e la natura umana consisterebbe in una
conoscenza istintiva, segnata «da quell’insieme di schemi
innati che ci dà la possibilità di ricavare una conoscenza
complessa e intricata a partire da dati estremamente limitati ». 32 Per Foucault invece è da rilevare come «all’interno
della storia della conoscenza il concetto di natura umana
abbia svolto essenzialmente la funzione dell’indicatore
epistemologico, per definire alcuni tipi di discorso in relazione o in contrapposizione alla teologia, alla biologia o
alla storia» 33; così come il concetto di vita dagli inizi del
XIX secolo segna la nascita della biologia senza esserne
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l’origine. Siamo di fronte alla variante moderna del problema mente-corpo, la cui indecidibilità rappresenta per
Chomsky il limite della biologia. Limite che, a suo parere,
potrebbe essere superato dall’elaborazione di una teoria
matematica della mente, una “teoria astratta” 34 che abbia
un riscontro empirico. Nella concreta esperienza infatti
troviamo il nesso tra quel limitato numero di regole in cui
per Chomsky si produce l’innata facoltà di linguaggio, e gli
infiniti atti di parola.35 Quel nesso ha nome creatività, che
è sia il luogo di intersezione di fisico e psichico, sia la linea
di differenziazione, nell’organico, tra animale ed umano.
La creatività è per Chomsky questione di differenza tra
l’abilità linguistica (il saper parlare del bambino), che è
innata, e la struttura del mondo fisico, che, non essendo
interna alla mente,36 compare come mondo oggettivo nella
distanza che essa assegna alla realtà esterna. Una mente
individuale preesiste sia al soggetto che al mondo da essa
mediato, mondo che diviene conoscenza acquisita. Da cui
il progresso delle scienze, che anticipa e comprende rotture e regressioni, nella costituzione lineare della razionalità
e della civiltà.
In tal modo Chomsky reagisce alla linguistica strutturale e al comportamentismo, affermando l’immediatezza della
mente innata, e tuttavia per far ciò deve ipotizzare un’oggettività che, a differenza della psicologia comportamentista,
rimane inerte, a disposizione della creatività individuale. È
quanto Foucault contesta: «Il punto sul quale non sono assolutamente d’accordo con Chomsky è quando colloca l’origine di queste regolarità...all’interno della mente o della natura umana.»,37 perchè ciò presuppone una corrispondenza,
una quasi simmetria tra la realtà e la struttura della mente;
che insomma la natura sia confezionata per la natura umana;
che il mondo stia là per essere scoperto e che le scienze si
formino nell’accumulo di sapere.
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La vicenda dello Spirito, nella modernità dopo Hegel, è la Storia universale che nella versione postkantiana è
prodotta dall’ “animo” umano; mentre Kant non ha affatto
determinato lo Spirito come l’assoluto che muove il mondo. In realtà il concetto di natura umana come invarianza
nell’individuo singolo, autore di piccole e grandi scoperte,
deriva dal trascinamento all’interno della mente dell’insieme di regole di costruzione degli enunciati che sono invece
effetti di un’esteriorità collettiva in cui “già da sempre” e
“proprio ora” sono situati soggetti e saperi. 38
La diatriba, scaturita dalle polemiche sull’evoluzionismo, che ha tenuto banco nella psicologia e nella sociobiologia nella prima metà dello scorso secolo, conosce
qui gli effetti di un cambio di paradigma: il confronto con
Chomsky lascia infatti traccia di quella rivoluzione del sapere che secondo Kuhn ha informato, intorno alla metà
degli anni Sessanta, il metodo sperimentale.39 Nella successiva accelerazione delle scienze della mente, soprattutto
per la spinta impressa dal cognitivismo alla definizione di
strutture innate della psiche, la questione delle facoltà specifiche della specie umana ha portato ad elaborare la teoria
del rapporto tra vincoli interni ed esterni.40 Il punto è che
tali questioni rimangono ancora interne al campo antropologico. Il pensiero umanistico, ampliando i confini stenta
ad accettare una spiegazione non filosofica dei processi
cognitivi. Per questo devono essere esaminati in modalità
archeologica, – se, con Foucault, – ciò che è spiegabile e
conoscibile, almeno fino ad un certo punto, lo è «...al di
fuori della mente umana, nelle forze sociali, nei rapporti di
produzione, nello scontro di classe e così via».41
Dunque non si tratta di prendere posizione per l’innatismo della mente individuale o per il comportamentismo
dei rapporti storici e sociali; bensì di considerare in quali
modi e a quali condizioni la mente si serve di regole lingui129
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stiche e strutture conoscitive. Tanto è vero che Chomsky in
accordo con Foucault asserisce che «ogni atto di creatività
scientifica dipende da due fattori: uno è rappresentato da
un certo insieme di strutture costitutive della mente umana; l’altro è formato da alcune condizioni sociali e intellettuali.»42
Si tratta infatti di considerare, come dimostra L’Archeologia del sapere, che in luogo di scienze preformate in cui
la conoscenza è organizzata in strutture coerenti, formalizzate nell’accademia, abbiamo a che fare con piani di dispersione in cui l’èpisteme, cioè l’insieme delle conoscenze
diffuse, di elmenti di sapere ed elementi di senso comune,
nonchè di pratiche e di strumenti tecnici, si dislocano in
forme di veridizione e tecniche di governo. Inoltre, per
una improrogabile “spinta dal basso”, la storia non è mera
successione di grandi eventi, al culmine di movimenti sotterranei e invisibili; bensì l’azione dirompente di temporalità molteplici, di forze divergenti, uomini infami, reclusi,
rivoltosi, emarginati, di cui seguiamo i tentativi di liberazione e i conflitti con le forze di repressione. E i rapporti
tra saperi e soggetti, tra formazioni discorsive e formazioni
storiche, lungo la giuntura tra visibile e dicibile, al contrario di quanto supposto dal positivismo storicistico, non
determinano un accumulo di esperienza; nè lo sviluppo infinito delle civiltà, bensì rotture e disfunzioni, movimenti
retrogradi e devoluzioni, esodo e dismissione – laddove la
forza di costrizione si esercita all’interno dei piani di libertà. Dunque, la rottura del paradigma scientifico della conoscenza possibile, ha dato luogo a quella sovversione più
o meno silenziosa dei saperi e a quelle trasformazioni microfisiche dei poteri in cui si dissolve la rappresentazione
della natura umana come esteriorità inaccessibile, creativa
e produttiva. Con essa si dissolve l’opposizione precostituìta di innato e acquisito nell’urgenza del trascendentale.
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D’ora in avanti, e almeno fino alla soglia del nostro
presente, la questione delle condizioni di possibilità del sapere e della scienza, della storia e del soggetto, della verità
e del discorso, sono formulate sul piano dell’esperienza, in
cui coesistono invarianza e variazione, unicità della differenza e singolarità della replica. E lo sono nella misura in
cui riconosciamo la natura umana non come l’evento che
identifica la specie per caratteri essenziali; bensì come quel
dispositivo in cui sono dislocati contenuti di sapere, rapporti di potere e pratiche di soggettivazione, in cui si danno le condizioni di possibilità della verità e della storicità;
condizioni che presiedono ai processi di valorizzazione.
Ciò che allora emerge ad uno sguardo retrospettivo
dall’incontro di Eindhoven, non è tanto il contrasto tra
la determinazione empirica della natura umana e l’innato schematismo di una mente individuale che produce conoscenza a partire da un numero limitato di regole; ma,
come si evince dalle risposte di Foucault, il confronto ha
per tema la questione del trascendentale, delle condizioni
di esistenza di caratteri e facoltà di specie come effetti dei
rapporti tra ciò che è permanente nella biografia e ciò che
la modifica nell’esperienza del soggetto; e, sul piano delle
scienze, tra genetica e storia, produzione e riproduzione
dell’organico, bios e zoè.
La proposta “in negativo” di Foucault e quella “produttiva” e “generativa” di Chomsky non sono sullo stesso
piano. Foucault, interrogandosi sulle condizioni di possibilità dell’innato che si manifesta nell’esperienza, si colloca lungo la giuntura nella quale divergono razionalismo
ed empirismo; Chomsky invece, denunciando il comportamentismo, a favore di una «scienza dell’uomo, secondo
le modalità utilizzate per qualsiasi altra scienza», attende
all’eliminazione totale del «comportamentismo e dell’intera tradizione empirista che si trova alle sue spalle» 43, evi131
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tando però di interrogare i modi storici di costituzione di
quel campo, aperto dalla biologia agli inizi del XIX secolo.
Il piano su cui si colloca Foucault, al livello dell’archeologia della cultura, è asimmetrico rispetto a quello di
Chomsky, interno alla storia del razionalismo, nella variante generativa che, nella lotta contro l’empirismo ha dimenticato gli a priori e con ciò la giustificazione di ciò che è
innato.44
Nel considerare invece l’ a priori storico di una certa
formazione discorsiva, di una costellazione di enunciati, di
certe forme di veridizione, Foucault evidenzia, al di qua
della definizione di una libertà e di una creatività attribuite
ad una struttura innata o ad abitudine, come tali prese di
posizione derivino dalla storia dei rispettivi conflitti che
entrambe le teorie hanno sostenuto nelle diverse fasi della
modernità. Foucault inoltre indica come il metodo archeologico porti ad emergenza, nell’orizzonte del trascendentale, una critica alla natura nel luogo della sua estinzione. È
infatti la determinazione dell’ a priori storico che ci consente di disporci oltre il dualismo di innato e appreso, natura
e cultura; e di intraprendere una critica della modernità:
«credo che in una società come la nostra il vero compito
politico sia quello di criticare il funzionamento di istituzioni apparentemente neutre e indipendenti; di criticarle e attaccarle in modo tale che l’evidenza politica che, in modo
sotterraneo, in esse si esercita venga smascherata e si possa
combatterle.».45
Un’archeologia delle scienze ci consente la genealogia
del concetto di natura umana, in cui invariante e variazioni, permanenza e contingenza risultano effetti di una
determinata formazione storica. Ed è quanto cogliamo
dell’attuale costellazione neoliberale, studiata di recente
da Pierre Dardot e Christian Laval nell’intreccio di razionalità e tecniche di governo in cui vivono soggetti e istitu132
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zioni.46 Infatti, a differenza che nel recente passato, oggi il
piano nascosto della produzione di sapere e di ricchezza
e della riproduzione dell’umano emergono in superfice e
alimentano il regime di valorizzazione nella consistenza
della variabilità, con la richiesta incessante di una generica
flessibilità in cui l’essere “imprenditore di sè stesso” serve
a sfruttare un “capitale umano” sempre disponibile.
La critica come modo genealogico, oltre le condizioni e il condizionato, risale la soggettività nella produzione
di sapere, individuando i punti di attivazione e le forme
con le quali si esercita il potere. Perchè le attuali forme
di dominio sulla soggettività non sono semplicemente l’espressione politica dello sfruttamento economico, ma allo
stesso tempo sono mezzo e condizione di possibilità della
riproduzione della vita.47 Una critica genealogica, situata al
di là delle opposizioni in cui l’umano è stato conosciuto e
interpretato, deve in primo luogo esercitarsi contro l’umano come essenza o solo naturale o solo macchinica; cioè occupare il luogo della morte dell’uomo. Esercitandosi come
critica, la genealogia porta a compimento il ciclo dell’uomo e ritrova le condizioni di possibilità della sua esistenza
preindividuale e della sua sorte; cioè chiude l’impresa archeologica ristabilendone da capo la validità, nel dissolvere l’illusione del progresso, la superstizione del futuro, per
sperimentare, con Nietzsche, il pensiero dell’avvenire.
Ma questo movimento non lascia inalterato il “prima”
e il “dopo”, le permanenze e le rotture; sovverte invece i
valori, opera una trasvalutazione che revoca l’assoluto della morale: le idee di giustizia, pace, bene, che derivano dai
rapporti di potere a cui uomini e donne sono assoggettati e per cui sono soggetti. «In una società priva di classi,
non sono certo che si debba ancora ricorrere al concetto
di giustizia» 48 dice Foucault nel prosieguo del confronto
con Chomsky, che risponde: «Penso che esiste una base as133
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soluta in cui fondare una nozione “autentica” di giustizia,
che in fin dei conti corriponde ad alcune qualità umane
fondamentali», anche se «non sono in grado di parlarne
in modo più preciso».49 Ma ciò accade perchè Chomsky
presuppone dei valori a fondamento della natura umana,
invece che una natura che produce l’assoluto dei valori.
L’inversione è sintomo del processo di astrazione per cui
la forma delle scienze e le scienze sociali sussistono come
strumenti di potere; e la cui versione “critica” si è limitata
a capovolgere la natura in storia e l’assoluto in contingenza. Invece, con Nietzsche «...ho l’impressione che l’idea
di giustizia, in diversi tipi di società, sia stata inventata e
fatta funzionare come lo strumento di una certa forma di
potere politico ed economico, oppure come un’arma contro questo potere»50. Ed è risalendo la genealogia della separazione di valori e storia che, nel luogo di indistinzione
di natura e idea che “già da sempre” anima la variazione
storica, il “proprio ora” delle tecnologie di governo vive
nella destituzione della legge, nell’esodo dalla produzione
e dalla costituzione.
Assumendo la natura umana come dispositivo, come
esteriorità, ci disponiamo oltre l’antropologia. Ma, a partire dalla tematica kantiana, e in qualche modo riprendendone il progetto, riconosciamo l’uomo come tramonto, nella
posterità e nella ripresa « di quella struttura ternaria...che
caratterizza l’Inbegriff des Daseins: fonte, ambito, limite»51
in cui il trascendentale trova conferma nell’empirico.52
E in cui l’essere umano si conferma come “allotropo
empirico-trascendentale”.53 La sua misura non è più l’uomo in sè, nè il mondo in sè, bensì «quella struttura fondamentale del suo Inbegriff nell’esistenza come tutto, in cui
le tre nozioni dell’impresa critica raggiungono «il livello
del fondamentale».54 «Vediamo così che il mondo non è
134
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semplicemente fonte per una “facoltà” sensibile, ma è lo
sfondo di una correlazione trascendentale passività-spontaneità; che il mondo non è ambito semplicemente per un
intelletto sintetico, ma è lo sfondo di una correlazione
trascendentale necessità-libertà; che il mondo non è limite semplicemente per l’uso delle Idee, ma è lo sfondo di
una correlazione trascendentale ragione-spirito (Vernunft-Geist). E in questo modo, in questo sistema di correlazioni si fonda la trascendenza reciproca della verità e della
libertà».55
La mossa che sentiamo di dover proporre in un pensiero “dopo l’antropologia” consiste, a partire dalla considerazione ontologica del presente, nel dislocare la domanda sull’Uomo dal livello del fondamentale, in cui per Kant
sono racchiuse le domande sull’essere, al livello dell’apparenza, laddove l’essere umano si agita sulla scena del
mondo e dischiude un campo di desoggettivazione in cui
divenire altro; in cui dissolve l’ “io”; in cui fa deflagrare l’identità e rompe lo specchio di Narciso che riflette il
desiderio in una Legge. Perchè nel momento in cui riconosciamo la nostra felicità nel desiderio subordinato alla
legge, decidiamo per il contrario della legge: per l’oltre
umano. Tentiamo l’accesso a quella “notte salva” in cui
per Benjamin sarebbe consistito il tutto dell’esistenza.
Che quest’epoca del tramonto, non vissuto come soglia di un presente che differisce dal passato per il declino
delle essenze nelle discontinuità storiche, ma come progetto soggettivo, come volontà di potenza, in grado di far
appello alle sintesi passive elevandole al rango di condizioni di possibilità della prassi. Che il tramonto avvenga
non come un annuncio, nè come una rivoluzione, ma come
quell’evento proprio della finitudine, dipende dalla presa
di posizione per l’oltreuomo: «Se la scoperta del Ritorno
segna la fine della filosofia, la fine dell’uomo invece segna
135
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il ritorno dell’inizio della filosofia. Oggi possiamo pensare
soltanto entro il vuoto dell’uomo scomparso. Questo vuoto infatti non costituisce una mancanza; non prescrive una
lacuna da colmare. Non è ne più ne meno che l’apertura di
uno spazio in cui finalmente è di nuovo possibile pensare.
L’Antropologia costituisce la disposizione fodamentale che
ha governato e diretto il pensiero filosofico da Kant fino a
noi. Tale disposizione è essenziale...essa tuttavia sta dissociandosi sotto i nostri occhi dal momento che cominciamo
a...denunciarvi in forma critica, l’oblio dell’apertura che
la rese possibile e...l’ostacolo cieco che ostinatamente si
oppone a un pensiero futuro. A tutti coloro che vogliono
ancora parlare dell’uomo, del suo regno, della sua liberazione...a tutte queste forme maldestre e alterate, non possiamo che contrapporre un riso filosofico, cioè, in parte, silenzioso.»56 Da questa posizione, occupata da un soggetto
allo stesso tempo privilegiato e marginale, nella misura in
cui la soggettivazione del vero assume il senso della verità per l’animale dotato di linguaggio; nell’assumere questa
posizione, filosofica in quanto etica, il pensiero e l’opera di
Foucault ci riguardano in un senso più cogente di qualsiasi
altra presa di posizione. Perchè, più o meno consapevoli
che ne siamo, è il tramontare la prassi dell’esistenza, prassi
in cui l’organico non si separa dal sostrato materiale della
vita per formare il pensiero, ma rileva, nel presente del
fenomeno, la storicità della natura e la naturale animalità
dell’umano.
A partire da questa posizione, in cui risultano indistinguibili nichilismo passivo e attivo, in cui l’empirico diviene
storico nella permanenza di un sapere che eccede l’essere
umano, nel divenire infinito della finitudine, avvertiamo la
grande lezione di Foucault.
Certo, è il soggetto che assumerà il compito di tramontare. Il singolo individuo sarà investito dalla volontà di tra136
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montare; ma ciò dovrà accadere nella permanenza dell’anonimo, nelle possibilità di desoggettivazione, nel divenire
altro, in cui sono comprese le tecnai tou biou, la cura di
sè, la pratica del dire il vero.
Ed è dunque a partire da chi viene dopo Zarathustra,
dal meriggio della storia, che emerge l’archelogia del tempo presente in cui e per cui si compie la genealogia della
modernità. Da questo luogo e assumendo questo punto di
osservazione, bisogna prender parte all’emergere del fondo naturalmente storico, prediscorsivo e preindividuale
del divenire, in cui si costituiscono le temporalità e l’organico, le fome del sapere e le forme di vita. Il soggetto è
sia l’effetto di quelle formazioni discorsive in cui abita il
sapere disperso di culture e tradizioni, riti ed eredità; sia le
origini dei rapporti di potere e di quei “giochi di verità” in
cui riconosciamo il governo di sè e degli altri, le sucessioni
e le regressioni del dominio, ma anche l’appropriazione e
l’uso della libertà nella dimensione del comune. È nell’emergenza di quel fondo preindividuale, a partire da una
rottura dell’identità, che il pensiero è possibile. Poco importa definire questa permanenza come piano di intersezione di produzione di sapere e produzione di soggettività;
e definire l’identità del soggetto come naturale o storica;
o ancora, isolandone una regione, definire lo spazio del
non sapere come luogo dell’inconscio o della sensibilità;
ciò che importa è costatarne l’evento, coglierne il fenomeno, che non è da sempre intenzionale, ma che assume la
permanenza di una forma nell’abbandono al divenire.
Alla domanda dell’antropologia “Che cos’è l’uomo?”
rispondiamo con un’altra domanda che ne inverte il senso
nel movimento del presente: “Che ne è del soggetto?
Quanto più infatti l’individuo si affanna a valorizzare
la soggettività tanto più questa appare nella curva del tramonto. In questo movimento attribuiamo un senso al pun137
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to del tempo in cui ci troviamo ma ci accorgiamo subito
di quanto, come aveva asserito Spinoza, la “potenza della
natura” eccede le forze umane. È in questa congiuntura, in
cui la trascendenza diviene segnatura dell’immanenza, che
ci riconosciamo oltreumani, destinati all’anonimato quanto più ci affanniamo a divenire soggetti, a mettere in campo l’”io” per continuare ad assumere “il posto del re” nella
scacchiera in cui si gioca la competizione permanente per
la vita. Negando invece la nostra potenza e affermandone
la destituzione, che è la debole forza narrata da Benjamin,
disattiviamo la legge nell’epoca della sua produzione. Realizziamo un sapere nel tempo della dispersione. In questa
situazione Foucault è il profilo del presente che annuncia
la filosofia dell’avvenire.
Note
Cfr., Gilles Deleuze, Il sapere. Corso su Michel Foucault (19851986) / 1, trad.it., Ombre Corte, Verona, 2014.
2
Cfr., Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle
cienze umane, trad.it., BUR, Milano, 1998.
3
Una delle testimonianze più dirette di un pensiero che si fa vita
in Bataille è lo scritto su Nietzsche. Cfr., Su Nietzsche, trad.it.,
SE, Milano, 2006.
4
Tematizzata da Jacques Lacan, nel cui argomento troviamo
ripetuta la qualificazione della natura umana proposta dall’antropologia filosofica nella prima metà del ‘900, se è vero che la
psicoanalisi “avanza per scavalcare la rappresentazione, per su1
138
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perarla dal lato della finitudine...Il desiderio non è ciò che rimane perennemente impensato nell’intimo del pensiero? E quella
Legge-Linguaggio...che la psicoanalisi si sforza di far parlare,
non è forse ciò in cui ogni significato acquista un’origine più
remota di sè medesimo, ma anche ciò il cui ritorno è promesso
nell’atto stesso dell’analisi?”(Le parole le cose, cit. pp. 400-401).
Ma anche la distanza da quel paradigma dell’anthropos nell’intuizione della struttura linguistica della sua essenza: “...Attraverso un cammino assai più lungo e imprevisto siamo ricondotti
nel posto indicato da Nietzsche e da Mallarmè, allorchè il primo
aveva chiesto “Chi parla?” e l’altro aveva veduto scintillare la
risposta nella Parola stessa». (cit., p. 409).
5
G. Deleuze, cit., p. 154.
6
Cfr., Le parole e le cose, p. 13.
7
Id., cfr., p. 49 e sgg. Giorgio Agamben ha delucidato il concetto di segnatura come indice epistemologico in Segnatura Rerum,
Bollati Boringhieri, Torino, 2008.
8
Id., cit., p. 66
9
Id., p. 77.
10
Id., p., 139.
11
Id., cfr, p. 79.
12
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, trad.it., la Nuova
Italia, Firenze, 1996, cit., “Prefazione”, p.10.
13
Emmanuel Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico.
Introduzione e note di Michel Foucault, trad.it., PBE Einaudi,
Torino, 2010; cfr, “Introduzione”, p. 42. Una sintesi dell’Introduzione ad opera di Stefano Catucci è nel n1/2004 di “Forme di
vita”, La “natura” della natura umana in Michel Foucault, pp.7485.
14
G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri
Pozza Editore, Vicenza, 2010. Cit. “L’idea del linguaggio”, p.
35.
15
Id., cit. p. 35.
16
Le parole e le cose, cfr., p. 137.
139
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Id., p. 138.
Cfr., Jacob Taubes, “Walter Benjamin - Un marcionita moderno”, in Il prezzo del messianesimo, trad.it., Quodlibet, Macerata,
2000, p. 63.
19
A questo destino potrebbe sfuggire un’etnologia psicanalitica
delle collettività, indicata nel capitolo X de Le parole e le cose
come alternativa all’accentuata individualizzazione delle scienze
umane.
20
Cfr., G. Deleuze, F. Guattari, Come farsi un corpo senza organi.
Millepiani. Capitalismo e schizofrenìa. Sez II, trad.it., Castelvecchi Editore, Roma, 1996, p. 140 e sgg.
21
Ma che cosa sono le sintesi passive? In riferimento a Kant,
nell’interpretazione della filosofia critica fatta da Deleuze sono
le dimensioni della sensibilità che possono o meno raccogliersi
nell’immaginazione, e che permangono nell’appercezione. Deleuze mutua tale signficato dal senso analitico che Husserl aveva
attribuito agli effetti di percezione nel tentativo di fondare nelle
Lezioni sulla sintesi passiva, (trad.it, Guerini e Associati, Milano, 1993) una fenomenologia della percezione.
22
Le parole e le cose, cit. p. 21.
23
Id, cit. p. 21
24
Id, cit. p. 21
25
E. Kant, Antropologia, “Introduzione”, cit. pag. 40.
26
Id., cfr. p. 41.
27
Id., cit. p. 45.
28
Id., cit. p. 45.
29
Id., cit. p. 47.
30
Id., cit., p. 51.
31
Noam Chomsky, Michel Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, trad. it., DeriveApprodi Editore, Roma, 2005
32
Id., cit. p. 10.
33
Id., cit. p. 13.
34
Id., cfr. p. 20.
17
18
140
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Id., cit. p. 32: «...se il bambino non avesse nella propria mente
un concetto molto preciso di lingua, il salto induttivo dai dati
empirici alla conoscenza di una lingua sarebbe altrettanto impossibile».
36
Id., cfr. p. 31.
37
Id., cit. p. 37
38
Nei suoi lavori Paolo Virno ha messo in evidenza tale doppio
processo, nell’intreccio della dimensione preindividuale e dell’
individuazione, ove emerge la qualità della natura umana nella
soglia del presente: cioè ove filosofia del linguaggio e biologia,
analisi dello psichico e dell’organico si situano in una zona di
intersezione che è fonte di un nuovo pensiero e una nuova ontologia del soggetto e delle relazioni. La forma della temporalità
attuale, il “già da sempre” e il “proprio ora” in cui coesistono
invarianza “biologica” e variazione “storica”, è qualificata da
Virno come nesso significativo del capitalismo contemporaneo,
laddove la generica facoltà di linguaggio è valorizzata nei singoli
atti di parola in cui si esprime la prassi affettiva, lavorativa, di
relazione. Non si tratta quindi di definire una potenza soggettiva e costituente che determina l’insieme delle relazioni sociali
date e le possibili forme di contrasto al capitalismo; quanto di
individuare, nella naturale artificialità dell’intreccio di invarianza e variazione, i modi e i luoghi in cui la facoltà di linguaggio è
attivata, e quali procedure di disattivazione sono possibili.
39
Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad.
it., Einaudi Editore, Torino, 2009.
40
Cfr., Massimo Piattelli Palmarini, Jerry Fodor, Gli errori di
Darwin, trad. it., Feltrinelli Editore, Milano, 2012, p. 30 e sgg.
41
Della natura umana, cit. p. 37.
42
Id., cit. p. 40.
43
Id., cit. p. 45.
44
In quella storia della verità che Foucault ha insistito perchè
fosse realizzata.
45
Id., cit. p. 51.
35
141
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Cfr., C. Laval, P. Dardot, La nuova ragione del mondo. Critica
della razionalità neoliberista, trad.it., DeriveApprodi Editore,
Roma, 2013.
47
Della natura umana, cit. p. 51.
48
Id., cit. p. 67.
49
Id., cit. p. 67.
50
Id., cit. p. 67.
51
Antropologia, “Introduzione”, cit. p. 61.
52
Il “momento kantiano” dell’antropologia è stato disdetto
dall’antropologia filosofica che invece di interrogare, in accordo
con la storia naturale, il “principio vivificante” lo ha disdetto in
favore della “mancanza”, di cui da tempo cogliamo il limite nel
prescrivere una Legge al desiderio.
53
Le parole e le cose, cit. p. 343.
54
Antropologia, “Introduzione”, cit. p. 63.
55
Id., cit. p. 63.
56
Le parole e le cose, cit. p. 368.
46
Bibliografia
Giorgio Agamben, Segnatura Rerum, Bollati Boringhieri,
Torino, 2008
G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri
Pozza Editore, Vicenza, 2010
Georges Bataille, Su Nietzsche, trad.it., SE, Milano, 2006
Stefano Catucci, La “natura” della natura umana in Michel
Foucault, “Forme di vita”, 1/2004, DeriveApprodi editore,
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Noam Chomsky, Michel Foucault, Della natura umana.
Invariante biologico e potere politico, trad. it., DeriveApprodi
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Sul web:
Dibattito Chomsky-Foucault https://www.youtube.com/
watch?v=3wfNl2L0Gf8
Discorso e verità http://ubu.com/sound/foucault.html
Foucault News http://foucaultnews.com/
Foucault.info http://foucault.info/
Howison Lectures http://www.lib.berkeley.edu/MRC/foucault/
143
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howison.html
Le Corps Lieu d’ Utopies
watch?v=NSNkxvGlUNY
https://www.youtube.com/
Le
parole
e
le
watch?v=hem1er1VJUQ
https://www.youtube.com/
cose
Mal faire dir vrai Michel Foucault à l’Universitè Catholique de
Louvain en 1981 https://www.youtube.com/watch?v=132QZ_
C3ovs
Materiali Foucaultiani http://www.materialifoucaultiani.org/
Portal M.F. http://michel-foucault-archives.org/
Sorvegliare
e
punire
watch?v=9Bm3dd0D4KA
watch?v=JB49i2qazTY
https://www.youtube.com/
https://www.youtube.com/
The
lost
interview
watch?v=qzoOhhh4aJg
https://www.youtube.com/
Grandes Pensadores del siglo XX https://www.youtube.com/
watch?v=NYU0_LpvYtQ
Michel Foucault - Entrevista Alain Badiou (1-2-3) - Filosofía
y Psicología (Psicoanálisis) https://www.youtube.com/
watch?v=1e8Rynio0B8
Michel Foucault por sí mismo (2003) https://www.youtube.
com/watch?v=_wEsYlr5DQM
144
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SECONDA
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PARTE
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IL POTERE, I VALORI MORALI E L’INTELLETTUALE
UN’INTERVISTA CON MICHEL FOUCAULT
Michael Bess
Michael Bess: Un attimo fa stava dicendo di essere un
moralista…
Michel Foucault: In un certo senso, sono un moralista
nella misura in cui credo che uno dei compiti, uno dei significati dell’esistenza umana – l’origine della libertà umana
– sia di non accettare mai niente come definitivo, intoccabile, ovvio o immobile. Non dovremmo permettere a nessun
aspetto della realtà di divenire una legge definitiva e disumana.
Dobbiamo sollevarci contro tutte le forme di potere
– e non solo contro il potere nel senso stretto del termine,
che si riferisce al potere di un governo o di un particolare
gruppo sociale su un altro: queste sono solo alcune istanze
specifiche di potere.
Potere è tutto ciò che tende a rendere immobili e intoccabili quelle cose che ci sono presentate come reali, vere e
buone.
Michael Bess: Ciò nonostante, abbiamo bisogno di fissare le cose, anche se in modo provvisorio…
Michel Foucault: Certo, certo. Questo non significa che
si debba vivere in una discontinuità indefinita. Quello che
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voglio dire, è che dobbiamo considerare tutti i punti di fissità, d’immobilizzazione, come elementi in una tattica, in
una strategia – come parte di uno sforzo teso a riportare le
cose alla loro originaria mobilità, alla loro apertura al cambiamento.
Poco fa le stavo parlando dei tre elementi della mia morale, che sono: 1) il rifiuto di accettare come auto-evidenti le
cose che ci sono proposte; 2) la necessità di analizzare e conoscere, perchè non possiamo realizzare nulla senza riflessione e comprensione – dunque, il principio della curiosità;
e 3) il principio dell’innovazione: individuare nella nostra
riflessione quelle cose che non sono mai state concepite o
immaginate. Quindi: rifiuto, curiosità, innovazione.
Michael Bess: Mi sembra che il concetto filosofico moderno del soggetto implichi tutti e tre questi princìpi. Intendo dire che la differenza tra il soggetto e l’oggetto sta
precisamente nel fatto che il soggetto è capace di rifiuto e
d’innovazione. Il suo lavoro costituisce dunque un attacco
alla tendenza a congelare questa nozione di soggetto?
Michel Foucault: Ciò che intendevo chiarire è l’ambito di
valori in cui situo il mio lavoro. Lei mi ha chiesto, poco fa, se
non fossi un nichilista che ha rifiutato la moralità. A questo
rispondo: no! In realtà, mi stava anche domandando: “Perchè
fa il lavoro che fa?”
Questi sono i valori che propongo. Ritengo che la teoria
moderna del soggetto, la filosofia moderna del soggetto, possa ben accordare al soggetto una capacità d’innovazione, etc.,
ma che, di fatto, la filosofia moderna lo faccia solo a un livello
teorico. In realtà, non è in grado di tradurre nella pratica questi diversi valori che sto cercando di elaborare nel mio lavoro.
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Michael Bess: Il potere può essere qualcosa di aperto e
fluido, oppure è intrinsecamente repressivo?
Michel Foucault: Il potere non dovrebbe essere concepito come un sistema oppressivo che grava sugli individui
dall’alto, colpendoli con divieti di ogni genere. Il potere è
un insieme di relazioni. Che cosa significa esercitare potere? Non vuol dire prendere questo registratore e gettarlo a
terra. Ho la capacità di farlo – materialmente, fisicamente,
sportivamente. Ma se lo facessi, non starei esercitando potere. Tuttavia, se prendessi questo registratore e lo gettassi
a terra per irritarla, o per impedirle di ripetere quel che ho
detto, o per fare pressione su di lei e indurla a un certo
comportamento, o per intimidirla – beh, ciò che avrei fatto,
plasmando il suo comportamento tramite determinati mezzi, questo sarebbe potere.
Il che significa che il potere è una relazione tra due
persone, una relazione che non è dello stesso ordine della
comunicazione (anche se lei fosse obbligato a farmi da strumento di comunicazione). Non è come dirle: “Il tempo è
bello”, oppure “Sono nato questo o quest’altro giorno”.
Bene. Io esercito il potere su di lei: influenzo il suo comportamento, o tento di farlo. Provo a guidare il suo comportamento, a condurre il suo comportamento. Il mezzo più
semplice per farlo è, chiaramente, quello di prenderla per
mano e forzarla ad andare in un certo luogo. Questo è il
caso limite, il grado zero del potere; ed è proprio in questo
momento che il potere cessa di essere potere per divenire
mera forza fisica. D’altro canto, se sfrutto la mia età, la mia
posizione sociale, la conoscenza che posso avere di questa
o quell’altra cosa, per farla comportare in un modo particolare – quindi, senza forzarla affatto e lasciandola completamente libera – ecco che allora inizio ad esercitare potere. È
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chiaro che il potere non dovrebbe essere definito come un
atto costrittivo di violenza che reprime gli individui, forzandoli a fare qualcosa o impedendo loro di fare qualcos’altro.
C’è potere quando c’è una relazione tra due soggetti liberi e questa relazione è sbilanciata, così che uno può agire
sull’altro e l’altro ne è influenzato, o acconsente ad esserne
influenzato.
Il potere, quindi, non è sempre repressivo. Può assumere varie forme ed è possibile che ci siano relazioni aperte di
potere.
Michael Bess: Relazioni di uguaglianza?
Michel Foucault: Mai di uguaglianza, perchè la relazione
di potere è una disuguaglianza. Ma ci possono essere sistemi
di potere reversibili. Consideriamo, ad esempio, quel che
accade in una relazione erotica. Non parlo di una relazione
amorosa, ma di una semplice relazione erotica. Sappiamo
bene che si tratta di un gioco di potere, in cui la forza fisica
non è necessariamente l’elemento più importante. Ciascuno
agisce sul comportamento dell’altro in un certo modo, plasmandolo e determinandolo. Uno dei due può usare questa
situazione in un certo modo, e poi mettere in atto l’esatto
contrario vis-à-vis dell’altro. Ecco, questa non è altro che
una forma puramente locale di potere reversibile.
Le relazioni di potere non sono di per sè forme di repressione. Ma accade che, nella società, nella maggior parte delle
società, vengono create delle organizzazioni per congelare le
relazioni di potere, mantenerle in uno stato di asimmetria, così
che un certo numero di persone ne traggano vantaggio socialmente, economicamente, politicamente, istituzionalmente, etc.
Questo congela totalmente la situazione. È quel che chiamiamo potere nel senso stretto del termine: un tipo specifico di
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relazione di potere che è stato istituzionalizzato, congelato, immobilizzato a beneficio di alcuni e a discapito di altri.
Michael Bess: Ma entrambe le parti della relazione ne
sono vittime?
Michel Foucault: No, affatto! Affermare che coloro che
esercitano potere sono vittime, significherebbe spingersi un
po’ troppo oltre. In un certo senso, è vero che possono essere presi nella trappola del loro stesso esercizio del potere,
ma non sono vittime quanto gli altri. Provi lei stesso… e
vedrà. [Risate]
Michael Bess: Lei è quindi allineato alla posizione dei
marxisti?
Michel Foucault: Non saprei. Vede, non sono sicuro di
sapere cosa sia realmente il marxismo – e non credo che esista come qualcosa di astratto. La sfortuna, o la fortuna, di
Marx è che la sua dottrina è stata regolarmente adottata da
organizzazioni politiche, ed è dopotutto l’unica teoria la cui
esistenza sia sempre stata legata ad organizzazioni socio-politiche che sono state straordinariamente forti, straordinariamente mutevoli – fino al punto di divenire addirittura un
apparato di Stato.
Quindi, quando menziona il marxismo, le chiedo quale marxismo intenda – quello insegnato nella Repubblica
Democratica Tedesca (il marxismo-leninismo)? I concetti
vaghi, disordinati, spuri [bastard] usati da qualcuno come
Georges Marchais? O il corpo dottrinale che funge da punto di riferimento per certi storici inglesi? In altre parole,
non so cosa sia il marxismo. Provo a lottare con gli oggetti
della mia stessa analisi, e quando mi capita di far uso di
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un concetto impiegato anche da Marx, o dai marxisti – un
concetto utile, soddisfacente – bene, per me è lo stesso. Ho
sempre rifiutato di considerare una presunta conformità o
non conformità con il marxismo come un fattore decisivo
per accettare o ripudiare quel che dico. Non potrebbe importarmene di meno. […]
Michael Bess: Ha qualche idea di un sistema di potere
capace di mettere ordine nella massa di esseri umani presenti sul pianeta – un sistema di governo [governance] che non
divenga una forma repressiva di potere?
Michel Foucault: Un programma di potere può assumere tre forme. Da un lato: come esercitare il potere nel modo
più efficace possibile (essenzialmente, come rafforzarlo)?
O, dall’altro lato, la posizione inversa: come rovesciare il
potere, quali sono i punti di attacco in grado di minare una
data cristallizzazione di potere? Infine, la posizione intermedia: come giungere a limitare le relazioni di potere per come
sono incarnate e sviluppate in una particolare società?
Bene, la prima posizione non mi interessa: fare un programma di potere per esercitarlo ancora di più. La seconda
posizione è interessante, ma mi colpisce il fatto che dovrebbe essere considerata essenzialmente con uno sguardo ai
suoi obiettivi concreti, alle lotte che si vogliono intraprendere. E questo implica precisamente che non se ne debba
fare una teoria a priori.
Per quel che concerne la posizione intermedia – quali
sono le condizioni accettabili di potere – sostengo che queste
condizioni accettabili per l’esercizio del potere non possano
essere definite a priori. Non sono mai nient’altro che il risultato di relazioni di forza all’interno di una data società. In tale
situazione, succede che un certo disequilibrio nelle relazioni
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di potere sia in effetti tollerato dalle sue vittime, quelle che
sono nella posizione più sfavorevole in un determinato momento. Ma in nessun modo ciò significa che tale situazione
sia accettabile. Le vittime ne divengono subito consapevoli,
e così – dopo qualche giorno, qualche anno, qualche secolo
– la gente finisce sempre per opporre resistenza, e il vecchio
compromesso non funziona più. È tutto. Ma non si può approntare una formula definitiva per un esercizio ottimale del
potere.
Michael Bess: Intende dire che, nelle relazioni tra le persone, c’è qualcosa che congela o che coagula, qualcosa che
infine diventa, dopo un certo periodo di tempo, intollerabile?
Michel Foucault: Sì, sebbene talvolta ciò accada immediatamente. Le relazioni di potere, quali esistono in una
data società, non sono mai altro che la cristallizzazione di un
rapporto di forza. E non c’è alcuna ragione per cui queste
cristallizzazioni di relazioni di forza debbano essere formulate come una teoria ideale per le relazioni di potere.
Per carità, non sono uno strutturalista, nè un linguista, e nient’altro del genere, ma vede, è un po’ come se un
insegnante di grammatica dicesse: “Bene, questo è il modo
in cui la lingua dovrebbe essere parlata, questo è il modo
in cui l’inglese o il francese dovrebbero essere parlati”. Ma
no! Si può descrivere come una lingua sia parlata in un dato
momento, si può affermare cosa sia comprensibile e cosa
inaccettabile, incomprensibile. Questo è tutto ciò che si può
dire. Ma ciò non implica, d’altro canto, che questo tipo di
lavoro sulla lingua non consentirà delle innovazioni.
Michael Bess: È una posizione che rifiuta di parlare in
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termini positivi, fatta eccezione per il momento presente…
Michel Foucault: A partire dal momento in cui si concepisce il potere come un insieme di rapporti di forza, non
ci può essere alcuna definizione programmatica di uno stato
ottimale di forze – a meno che, naturalmente, non si prenda
posizione dicendo: “Voglio che il bianco, l’ariano, la razza
pura prenda il potere e lo eserciti”, oppure: “Voglio che il
proletariato eserciti il potere e che lo faccia in modo totalizzante”. E allora sì che risulta dato un programma per la
costruzione del potere.
Michael Bess: È intrinseco all’esistenza degli esseri umani che la loro organizzazione finirà per consistere in una forma repressiva di potere?
Michel Foucault: Oh sì, naturalmente. Non appena ci sono
persone che si trovano in una posizione (all’interno del sistema
delle relazioni di potere) tale da poter influenzare altre persone, e determinare la vita, il comportamento, di altre persone
– ebbene, la vita di quelle altre persone non sarà molto libera.
Di conseguenza, a seconda della soglia di tolleranza, a seconda
di tutta una serie di variabili, la situazione potrà essere più o
meno accettata, ma non sarà mai totalmente accettata. Ci sarà
sempre chi si ribella, chi resiste.
Michael Bess: Mi lasci fare un esempio diverso. Se un bambino volesse scarabocchiare i muri di una casa, sarebbe repressivo impedirglielo? A che punto si può dire: “Basta così!”?
Michel Foucault: […] Se io accettassi l’immagine del potere che è frequentemente adottata – ovvero che il potere è
qualcosa di orribile e repressivo per l’individuo – è chiaro che
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impedire a un bambino di scarabocchiare i muri sarebbe una
tirannia insopportabile. Ma non è questo: io dico che il potere
è una relazione. Una relazione in cui uno guida il comportamento di altri. E non c’è alcuna ragione per cui questa maniera di guidare il comportamento degli altri non debba alla fine
avere risultati positivi, preziosi, interessanti e così via. Se avessi
un figlio, le assicuro che non scriverebbe sui muri – o, nel caso
in cui lo facesse, lo farebbe contro la mia volontà. Ci mancherebbe altro!
Michael Bess: È problematico… qualcosa che si deve
continuamente mettere in discussione.
Michel Foucault: Sì, sì! È esattamente così! Un esercizio
di potere non dovrebbe mai essere qualcosa di per sè evidente. Non è perchè sei un padre che hai il diritto di dare
un ceffone a tuo
figlio. Spesso anche il non punirlo è un modo di modellare il suo comportamento. Si tratta di un ambito di relazioni molto complesse, che richiede una riflessione infinita.
Quando si pensa alla cura con cui i sistemi semiotici sono
stati analizzati nella nostra società, tanto da scoprire il loro
valore significante [valeur signifiante], [non si può non rilevare] che, invece, i sistemi che riguardano l’esercizio del
potere sono stati relativamente trascurati. Non si è prestata
abbastanza attenzione a questo complesso insieme di connessioni.
Michael Bess: La sua posizione sfugge continuamente
alla teorizzazione. È qualcosa che deve essere rifatto sempre
di nuovo.
Michel Foucault: Se vuole, si tratta di una pratica teori155
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ca. Non è una teoria, quanto piuttosto un modo di teorizzare
la pratica. […] Talvolta, poichè la mia posizione non è stata
resa in modo sufficientemente chiaro, la gente pensa che io
sia una specie di anarchico radicale che nutre un’avversione
assoluta per il potere. No! Quello che sto cercando di fare
è di affrontare questo fenomeno estremamente importante
e intricato presente nella nostra società, ovvero l’esercizio
del potere, con il più riflessivo, e direi pure il più prudente
degli atteggiamenti: essere prudente nella mia analisi, nei
postulati morali e teorici che uso; cerco di capire quali siano
le poste in gioco. Ma interrogare le relazioni di potere nel
modo più scrupoloso e attento possibile, badando a tutti gli
ambiti dell’esercizio del potere, non equivale a costruire una
mitologia del potere come la bestia dell’Apocalisse.
Michael Bess: Ci sono delle tematiche positive nella sua
concezione di ciò che è buono? In pratica, quali sono gli elementi morali sui quali lei basa le sue azioni nei confronti degli
altri?
Michel Foucault: Gliel’ho già detto: rifiuto, curiosità, innovazione.
Michael Bess: Ma non sono tutti piuttosto negativi nel
loro contenuto?
Michel Foucault: La sola etica che si può avere, riguardo
all’esercizio del potere, è la libertà degli altri. Io non dico agli
altri: “Fai l’amore in questo modo, fai dei figli, vai a lavorare”.
Michael Bess: Devo ammettere che sono un po’ smarrito,
non mi oriento più nel suo mondo – forse perchè è troppo
aperto.
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Michel Foucault: Senta, senta… quanto è difficile! Non
sono un profeta; non sono un organizzatore; non voglio dire
alla gente che cosa dovrebbe fare. Non dirò loro: “Questo per
te è un bene, questo per te è un male!”
Provo ad analizzare una situazione reale nelle sue varie
complessità, con lo scopo di permettere rifiuto, curiosità e
innovazione.
Michael Bess: E rispetto alla sua vita personale, è diverso…
Michel Foucault: Ma questo non riguarda nessun’altro
all’infuori di me!
Credo che, al cuore di tutto ciò, ci sia un fraintendimento della funzione della filosofia, dell’intellettuale, e del
sapere in generale: cioè che spetti a loro dirci cos’è bene.
Ebbene, no! No, no, no! Questo non è il loro ruolo.
In realtà hanno già fin troppo la tendenza a giocare questo
ruolo. Per duemila anni ci hanno detto cos’è bene, con tutte
le conseguenze catastrofiche che ciò ha implicato.
Siamo qui di fronte a un gioco terribile, un gioco che
nasconde una trappola, per cui gli intellettuali tendono a
dire cos’è bene, e la gente non chiede niente di meglio che
le si dica cos’è bene – e potrebbe essere ancora meglio se
cominciassero a strillare: “Quant’è male questo!”
Ebbene, cambiamo il gioco. Diciamo che gli intellettuali non avranno più il ruolo di dire cos’è bene. Così starà alla
gente stessa, che baserà il proprio giudizio sulle differenti
analisi della realtà che le verranno offerte, lavorare o agire
spontaneamente in modo tale da poter definire da sè che
cosa sia bene per sè.
Cos’è bene, è qualcosa che s’innova. Il bene non esiste
di per sè, in un cielo senza tempo, con persone che sarebbe157
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ro come gli Astrologi del Bene e il cui lavoro consisterebbe
nel determinare quale sia la natura favorevole delle stelle. Il
bene è definito da noi, è praticato, è inventato. E si tratta di
un’opera collettiva.
È più chiaro adesso?
Traduzione dall’inglese di Laura Cremonesi, Orazio Irrera,
Daniele Lorenzini e Martina Tazzioli, rivista da Michael Bess
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VOLONTÀ
DI VERITÀ E PRATICA MILITANTE
IN M ICHEL F OUCAULT
INTERVISTA A DANIEL D EFERT
Orazio Irrera e Daniele Lorenzini
Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: Durante il corso al Collège de France del 1979-80, che sarà presto pubblicato, Foucault inaugura uno studio “aleturgico” della soggettività, una
storia dei “regimi di verità” che proseguirà poi fino al termine
della propria vita. Ci sembra che parlare di “regimi di verità”
per sottolineare la necessità di smascherare la pretesa di ogni
“verità” di essere assoluta, e quindi di non dipendere da una
forza esteriore per far valere la propria legge, sia in fondo un
modo di riprendere e sviluppare un’intuizione che Foucault
aveva già espresso ne L’ordine del discorso: il discorso vero,
aveva detto, non può riconoscere la “volontà di verità” che lo
attraversa, poichè questa volontà è sempre “mascherata” dalla
verità stessa che vuole. Un’intuizione il cui valore non è soltanto epistemologico, ma anche etico e politico – come la riflessione foucaultiana degli anni Settanta e Ottanta rende evidente.
Signor Defert, potrebbe dirci se secondo lei è corretto stabilire
una sorta di “continuità” tra questa problematica della “volontà di verità” (che Foucault sviluppa anche nel suo primo
corso al Collège de France, di cui lei lo scorso anno ha curato
l’edizione), e la storia dei regimi di verità abbozzata da Foucault negli ultimi corsi al Collège de France? Più precisamente,
qual è, a suo avviso, l’importanza concettuale e strategica della
nozione di “volontà di verità”, in Foucault?
Daniel Defert: In realtà, mi pare abbiate sollevato tre problemi diversi che, in un certo senso, sono indipendenti l’uno
dall’altro. C’è il problema della verità, poi quello della volontà
di verità, e infine c’è il problema della continuità con i regimi
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di verità. Mi sembra si tratti di tre problematiche, o di tre temi,
differenti, che certamente sono collegati in Foucault, ma che si
presentano come degli approfondimenti di una posta in gioco
che, credo, è costante in tutta la sua opera. Nel senso che, sin
dall’inizio – nel suo primo grande libro – Foucault si pone il
problema della produzione di verità sulla follia. E questo è stato comunque un tema ricorrente, che Foucault ha ripreso più
volte nel corso del proprio lavoro. L’ospedale, il manicomio
divenuto ospedale psichiatrico, ha preteso di essere un luogo
di produzione di verità; ma alla fine non si è mai arrivati a una
verità sulla follia, ci sono sempre stati degli effetti di verità e
delle decisioni, e così, sin dall’inizio, Foucault sostiene che il
sapere sulla follia è una forma di potere, una normalizzazione,
la riduzione al silenzio… Dunque, in un certo senso, a partire da
simile posta in gioco, Foucault pone questo problema della verità,
e della verità vera e della verità menzogna – sin dall’inizio. Si può
dire che non sia del tutto esplicitato, ma naturalmente è già su uno
sfondo nietzscheano che Foucault pone il problema della verità,
immediatamente, e della verità vera e della verità menzogna: la
Storia della follia è proprio questo. Poi c’è il corso del 1970-71,
che è un corso di filosofia, e in un certo senso è l’instaurazione
di Foucault nel suo statuto di filosofo. In precedenza, Foucault aveva avuto una cattedra di psicologia e di filosofia, ma aveva
insegnato soprattutto la psicologia, mentre al Collège de France
ha una cattedra di filosofia. E quindi tiene un corso di filosofia,
che è un corso molto teorico, piuttosto complesso, nel quale non
oppone tra loro due epoche, com’era sua abitudine fare nei testi
precedenti (nei quali analizzava differenze di epoca, differenze di
periodo, di periodizzazione); qui, nel corso del 1970-71, Foucault
contrappone invece due paradigmi di conoscenza – il paradigma
aristotelico e il paradigma nietzscheano – e pone il problema della
volontà di verità, che è un concetto abbastanza difficile.
Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: E in che modo l’introduzione di questo concetto cambia, trasforma la posta in gioco
dell’analisi?
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Daniel Defert: Foucault aveva già utilizzato, come termine, l’espressione “volontà di verità”, credo nella Storia della
follia, o nella Nascita della clinica, insomma c’è un luogo in cui
la nozione era già apparsa. Foucault si era di nuovo immerso
nella lettura di Nietzsche – si era ricollegato molto alla lettura
di Nietzsche a partire dal 1967-68 – e la volontà di verità, dice,
ecco ciò che mi interessa: in effetti non è la volontà di potenza
che mi interessa, ma la volontà di sapere. In fondo, tra volontà
di verità e volontà di sapere c’è come uno slittamento continuo,
e Foucault è in difficoltà dinanzi a tale nozione, perchè in un
certo senso si chiede: com’è possibile fare una filosofia che voglia sbarazzarsi del soggetto e introdurre la nozione di volontà
di verità? Foucault evoca il problema, ma non lo sviluppa. La
sola cosa che dice, è che la volontà di verità è un sistema di
esclusione, cioè a questa nozione di volontà di verità attribuisce subito un contenuto che non è un contenuto di soggettività,
ma un contenuto di sistema e di anonimato. È molto curioso!
Personalmente, questa nozione di volontà di verità, o di volontà di sapere, mi ha messo in difficoltà… Anche Foucault lo
dice, anche lui è in difficoltà: quando si vuole fare un’analisi
del sapere e della verità senza il soggetto, cosa significa utilizzare questa nozione di volontà di verità? Allora, Foucault esce
dall’impasse dicendo: è un sistema di esclusione, un sistema di
interdetto, e così si ricolloca nel quadro delle analisi che aveva
già condotto a proposito della ragione. Lo dice rapidamente,
ma ci ritorna più volte; ed è vero che con la nozione di “regime di verità”, più tardiva, Foucault riprenderà una delle poste
in gioco del corso del 1970-71, ma eliminerà del tutto questa
sorta di “residuo” di soggettività che si trovava nella volontà,
ed entrerà completamente in qualcosa che non è stato colto da
alcuna recensione di questo corso, se non da quella di Frèdèric
Gros. In questo corso, Foucault ci propone una storia della
verità che può essere letta in due modi. In un certo senso, ci
mostra che la verità, praticamente a partire da Platone, possiede tutte le caratteristiche della verità come la definiamo noi
oggi: è oggettiva, è universale, è neutrale – e così, da un certo
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punto di vista, Foucault fa un’archeologia o una genealogia dei
valori di verità. E poi ci mostra che questa verità è menzogna:
c’è tutto un discorso sulla filosofia, sul saggio, questo saggio
la cui parola proviene da un luogo fuori dalla storia, e c’è una
completa messa in questione dell’oggettività, della neutralità
e dell’universalità. La cosa che mi sorprende è che le recensioni, le buone recensioni che abbiamo letto e che sono facili
e piacevoli da leggere, abbiano effettivamente evidenziato la
storia delle pratiche di istituzione della verità, ma non abbiano affatto dato conto di questa doppia lettura nietzscheana,
che è al contempo una genealogia della verità e una genealogia
della critica della verità. Perchè, in questo corso del 1970-71,
Foucault mostra bene come la verità, attraverso il nomos, attraverso la purezza, attraverso la legge scritta, vestirà queste
categorie di neutralità, di universalità, di purezza, di valore
morale; ma allo stesso tempo ci mostra che tutto ciò è menzogna. È complesso, ecco perchè questo corso è così difficile…
Nei corsi di cui abitualmente si realizza l’edizione a partire da
una registrazione, Foucault dice la stessa cosa tre volte, ma vi
sarete accorti che non dice mai esattamente la stessa cosa tre
volte: ogni volta aggiunge un accento, una precisazione… Ogni
volta che spiega qualcosa oralmente lo si comprende bene, ma
per iscritto (e per l’edizione del corso del 1970-71 era possibile
basarsi solo su documenti scritti) resta spesso in sospeso. Ora,
giustappunto, quasi sempre ci sono entrambe le vie: c’è la via
genealogica della nostra concezione abituale della verità, e poi
c’è la via genealogico-critica della verità come menzogna. Invece la nozione di “regime di verità” oggettiverà senza volontà,
senza questo residuo di soggettività e di metafisica; e questo
mostra anche che, nel percorso di Foucault, si assiste a un cammino costante più che a una svolta, a una problematizzazione
approfondita di un certo numero di punti nodali. Non si tratta
quindi nè di una vera continuità, nè di una vera discontinuità,
quanto piuttosto di un approfondimento costante delle medesime poste in gioco; direi perfino che tutti i suoi libri sono dei
“teatri di verità”. In Nascita della clinica, Foucault stesso dice
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che l’ospedale è un teatro di verità, ma questo vale per l’ospedale psichiatrico, per la prigione, per la medicalizzazione della
sessualità – tutti questi teatri di verità moltiplicano i regimi di
verità e desacralizzano totalmente l’epistemologia, che considera teatro di verità soltanto la ricerca scientifica e la verità
degli eruditi, mentre Foucault ha costantemente studiato delle
verità nella loro complessità e nella loro eterogeneità. Si capisce, dunque, perchè una posta in gioco importante per lui
fosse quella di non conservare la distinzione scienza/ideologia,
cara ad Althusser, ma non pertinente per Foucault, che già in
Philosophie et psychologie definiva la psicologia non come una
scienza, ma come una forma culturale.
Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: Ci è perfettamente
chiaro in che senso lei sostenga che questa nozione di “regimi
di verità” esclude la problematica del soggetto. Tuttavia, nei
corsi e nella riflessione del Foucault degli anni ottanta, si trova comunque un’attenzione straordinaria al rapporto che certi
regimi di verità intrattengono con certe pratiche di soggettivazione…
Daniel Defert: Sì, ma non si tratta affatto del soggetto fondatore, bensì del soggetto costituito dai regimi di verità. Il tema
del “ritorno del soggetto” in Foucault è una stupidaggine, non
si tratta per nulla del ritorno del soggetto! Si tratta dell’introduzione di una soggettività del tutto diversa dalla soggettività
trascendentale. È questa la svolta. Ciò non ha dunque niente a
che fare [con il soggetto fondatore], e solo dei lettori davvero
superficiali hanno potuto dire “ah, ritorna alla soggettività” –
ma questa soggettività non ha affatto lo stesso statuto. Foucault
non ritrova la soggettività trascendentale di Husserl! Introduce
una soggettività costruita, plurale, a partire da un certo numero
di pratiche, in particolare a partire dal cristianesimo.
Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: Ci consenta di ritornare
su un punto che ha evocato poco fa: lei ha detto che Foucau163
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lt, quando si trattò di tenere il suo primo corso al Collège de
France, volle in un certo senso instaurarsi nel suo ruolo di filosofo. Per farlo, decise di parlare di Aristotele, da una parte, e
di Nietzsche, dall’altra: era un modo di presentarsi in quanto
filosofo, dichiarando allo stesso tempo il proprio debito intellettuale nei confronti di Nietzsche. Ma nei due corsi seguenti, Thèories et institutions pènales e La sociètè punitive, le cose
cambiano, e non si può più dire che Foucault sia “filosofo” nel
senso “classico” del termine…
Daniel Defert: Dunque, a questo proposito ci sono diverse
cose da considerare – anche se non ne so niente, sono solo delle
ipotesi. Nel lavoro di edizione del primo corso, mi sono interessato alla “fabbricazione” del corso, questa nozione sulla quale
Philippe Artières e Jean-François Bert hanno insistito non poco,
per esempio nel loro ultimo libro Un succès philosophique. L’Histoire de la folie à l’âge classique de Michel Foucault. In questo
primo corso, a mio avviso, siccome ha una cattedra di filosofia,
Foucault è obbligato a porsi come filosofo; ma, al contempo, fa
comunque una critica molto visibile di una certa filosofia, e ha
di mira alcuni dibattiti contemporanei con Althusser e Derrida.
Non so esattamente quando, ma dovrebbe essere stato intorno
al 1968 che cominciarono a svilupparsi dei dibattiti sullo statuto
del filosofo e dell’insegnamento della filosofia, nel contesto del
Sessantotto, e mi sembra che Derrida vi sia intervenuto molto,
e che Foucault avesse di mira un po’ questi dibattiti, sia dal lato
di Althusser, sia dal lato di Derrida. E bisogna anche ricordare
che la candidatura di Foucault al Collège de France fu presentata da Jules Vuillemin, titolare della cattedra “Philosophie de
la connaissance” – una circostanza da tenere in considerazione,
dato che Vuillemin era un grande conoscitore di Nietzsche…
Bene, c’è questo da tenere presente. In secondo luogo, al Collège
de France i corsi sono tenuti di solito da specialisti di un argomento, davanti a un pubblico non molto numeroso di specialisti.
Foucault, al contrario, ha dovuto affrontare immediatamente un
pubblico vasto e differenziato. Lo aveva previsto?
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Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: Già nel 1970?
Daniel Defert: Sì, fin dall’inizio – era al completo! Dovete
sapere che l’“aura” di Foucault è stata riconosciuta molto presto: alla sua discussione di tesi, alla quale ho assistito nel 1961,
c’era una gran folla, l’anfiteatro Louis Liard era pieno. La reputazione intellettuale di Foucault era quindi già forte. E poi
anche a Vincennes c’era folla… Al Collège de France, Foucault
ha avuto immediatamente un pubblico che non era quello per
il quale si era preparato, e allora a partire dal secondo anno si
è adattato meglio a questo pubblico e a un progetto preciso:
il ruolo del diritto nella costruzione della verità. Si vede bene
che il suo primo corso è esitante, e insieme pieno di sottointesi:
Foucault suppone che tutti quanti conoscano gli argomenti di
cui parla, non sempre è preciso, c’è comunque molta complicità, molto “siamo tra noi”… In seguito, nei corsi successivi, sarà
più didattico. In secondo luogo, c’è una cosa davvero curiosa
da notare: nella “Situation”, affermo che a mio avviso il libro
di Deleuze Differenza e ripetizione ha giocato un ruolo considerevole – Differenza e ripetizione che è comunque un libro
difficile, uno dei grandi libri di Deleuze, e rappresenta un momento cruciale per lui (c’è un’inversione nel metodo di Deleuze, che fino a quel momento era stato uno storico della filosofia,
straordinario ed estremamente meticoloso, mentre in Differenza e ripetizione fa subire una sorta di torsione alla maniera di
fare storia della filosofia). Foucault, nel corso del 1970-71, e
Deleuze, in Differenza e ripetizione, discutono esattamente lo
stesso brano di Aristotele. Deleuze ne dà subito una lettura
nietzscheana, mostrando che questo testo di Aristotele è un
testo interamente morale, e non fornisce un commento “interno” ad Aristotele – è completamente nietzscheano. Foucault,
al contrario, fa un commento del tutto “interno” ad Aristotele,
assume la postura dello storico della filosofia e mostra come
da una prospettiva interna all’opera di Aristotele si comprenda
perfettamente tutto ciò che dice – in pratica, ricostruisce per
noi la metafisica di Aristotele a partire da queste quattro righe
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della Metafisica. Il “chiasmo” rispetto a Deleuze è davvero sorprendente. Quindi, da un lato, Deleuze fa una specie di collage
di storia della filosofia (è Foucault che utilizza il termine “collage”), mentre Foucault, al contrario, gioca allo storico della
filosofia, quasi “à la Guèroult”, ricostruendo un meticoloso
commento del testo, e tutto ciò per giungere alla conclusione
che il saggio è comunque il più grande mentitore, è colui – il
saggio e il filosofo – che si suppone parli da un luogo fuori dalla
storia. Ma com’è possibile parlare da un luogo fuori dalla storia
quando si vede il reale processo di costituzione di ogni discorso di verità, tutto lo sfondo di pratiche, di lotte sociali e di
dominazione che gli sta dietro? Foucault si costituisce dunque
come filosofo e, allo stesso tempo, distrugge la valorizzazione
accademica tradizionale del filosofo. E il corso successivo, che
avete citato, è molto curioso, perchè Foucault in pratica non vi
fa che della storia: maneggia un sacco di testi di storici del Medioevo, ma di storici spesso molto marginali, mentre nel corso
del 1970-71, il primo corso, utilizza soltanto gli storici up to
date – tutto ciò che costituisce il corpus legittimo, accademico,
il corpus rispettabile e affidabile degli storici che sono sempre
presi in considerazione, che costituiscono un punto di riferimento per gli studi ellenistici. Nel corso del 1971-72, invece, a
proposito del Medioevo, Foucault considera un campo molto
più vasto: ci sono comunque i grandi storici del Medioevo, c’è
Georges Duby – naturalmente si serve molto di Duby – ma ho
controllato tutte le fonti che utilizza e non hanno più nulla a
che vedere con le fonti recenti utilizzate nel corso del 1970-71.
Foucault si pone un problema del tutto nuovo: seguire la costituzione di un apparato repressivo di Stato durante il Medioevo. Tema althusseriano, è evidente. Foucault cerca, accanto
all’apparato di giustizia e all’apparato fiscale, il modo in cui si
è costituito un apparato la cui funzione era puramente la repressione. Non ho mai visto nessuno fare la storia della nascita
dell’istanza repressiva all’interno dell’apparato di Stato. È questo il secondo corso. Tutto ciò non ha dunque più nulla a che
fare con il corso del 1970-71, e qui davvero ci avviciniamo a
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Sorvegliare e punire – c’è una rottura totale, una rottura in rapporto alle fonti storiche di Foucault e, contemporaneamente,
una rottura in rapporto al progetto iniziale di istituirsi come filosofo. E quindi, per riassumere, in occasione di questo primo
corso al Collège de France, credo che Foucault non conoscesse
il proprio pubblico e che progressivamente lo abbia saggiato,
lo abbia messo alla prova; d’altronde, mi pare che alla fine si
sentisse molto più libero… Ma utilizza un materiale da storico!
È molto strano il suo corso, perchè è estremamente filosofico
ma al contempo si presenta come storia; è un corso nel quale ci
sono dei filosofi messi in primo piano, Aristotele e Nietzsche, e
ce ne sono anche altri: Deleuze, Heidegger, Althusser, Derrida,
la psicanalisi considerata come filosofia da Deleuze che è messa in questione. Ci sono un sacco di sottoconversazioni, come
direbbe Nathalie Sarraute, che non sono esplicitate. Ma ci sono
sempre delle sottoconversazioni, in tutti i libri di Foucault, che
è qualcuno che cancella la polemica e che tuttavia è sempre
immerso nella discussione, nella contestazione.
Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: Secondo lei, questa
“rottura” tra il primo e il secondo corso può essere spiegata
anche pensando alla costituzione, in quegli anni, del G.I.P.?
Daniel Defert: Nel corso del 1970-71 non lo si avverte…
C’è il tono, che è in tutto e per tutto sessantottino, però se
non si è vissuto tutto questo, non so se lo si riesca a percepire.
Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: C’è comunque un atteggiamento genealogico che è sempre presente in Foucault,
che parte sempre dall’attualità, dai problemi politici del presente…
Daniel Defert: Sì, ma questi problemi non sono così
esplicitati, bisognerebbe fare davvero una doppia lettura, o
un doppio ascolto, per capirlo: oggi tutto questo potrebbe
tranquillamente rimanere nascosto.
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Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: Potrebbe far emergere
per noi qualche traccia di questa esperienza?
Daniel Defert: Beh, potremmo dire che nel corso del
1970-71 Foucault è nietzscheo-marxista. Incredibilmente! È
quel che era da giovane: allora credeva che Nietzsche e Marx
fossero un po’ l’uomo nuovo… Ora, nel 1970-71, è vero che
analizza comunque tutti questi conflitti di dominazione come
rapporti di classe: vediamo i contadini, gli aristocratici, gli opliti, insomma l’infrastruttura – modi di produzione e rapporti di
produzione cari ad Althusser. Tutto questo è molto presente.
Nella “Situation” ho detto che, in fin dei conti, queste condizioni sociali sono molto vicine a quelle che evoca Marx, anche
se i concetti di classe e tutto il resto non si trovano in Nietzsche. Ma Frèdèric Gros usa chiaramente l’espressione “nietzscheo-marxismo” per questo corso, e credo che vada bene,
perchè c’è in effetti una presenza reale dei rapporti di produzione – non soltanto i modi di produzione, ma i rapporti di
produzione sono molto espliciti. E non si tratta solo di rapporti
di pura dominazione: ci sono analisi di tipo economico, e poi
analisi che non sono affatto economiste [èconomistes], come
in particolare quella della moneta. Questa analisi del simulacro
e non del segno, che non è proprio nuova (Foucault la trae
da Èdouard Will, che l’aveva ripresa a sua volta da Bernhard
Laum), è davvero interessante e mi sembra un elemento molto
importante di questo corso. Foucault dice: non c’è una storia
universale della moneta, questa è solo una delle origini della
moneta, ce ne possono essere state altre, forse ce ne sono altre
che sono avvenute effettivamente nel puro ambito dello scambio; ma qui si tratta di un partage politico, di un atto politico di
redistribuzione, e Foucault fa un’analisi politica [politicienne]
e non economista dell’origine della moneta. È comunque un
momento esemplare della posta in gioco del corso: fare un’analisi politica e non economista. Questo, appunto, fa molto
Sessantotto: ci si riconosceva in questo, si vibrava a un’analisi
come questa. Bene. Invece l’impurità [souillure] e la penalità
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erano temi molto distanti da quello che stavamo costituendo
intorno alle prigioni. Ad ogni modo, è Nietzsche che dice che
è possibile fare una storia della verità a partire dalla storia della
giustizia greca; gran parte dello sfondo storico della Grecia arcaica, Foucault lo prende in prestito da Nietzsche. Solo, come
sempre, Foucault non riprende la storia tale e quale Nietzsche
la afferma, ma la mette alla prova degli storici, non dei filologi,
e cerca di capire, grazie agli storici attuali, se quel che afferma Nietzsche è verificabile. D’altra parte, Foucault criticava la
Scuola di Francoforte per aver utilizzato spesso il lavoro degli
storici senza prima verificare negli archivi se quel che questi
storici dicevano fosse valido. Foucault fa invece un lavoro d’archivio: tutto è stato consultato, tutto è stato letto. Quindi, se
non possiamo dire che “si sente” il G.I.P., possiamo affermare
che “si sente” comunque il politico che ha la meglio sull’economico, e questo è molto sessantottino.
Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: Nel corso dell’anno successivo, invece, si comincia forse a sentire più esplicitamente
l’importanza dell’esperienza del G.I.P.…
Daniel Defert: No, nemmeno… Forse negli anni seguenti. Ma Foucault aveva comunque una preoccupazione, che era
quella di fare analisi il più possibile approfondite, e di non mettere in scena le proprie poste in gioco ideologiche. Si tratta di
problemi teorici: la teoria è politica.
Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: Quindi, a suo parere,
Foucault ha sempre tentato di tracciare una linea di separazione molto netta tra il proprio impegno militante nelle lotte
concrete e la propria pratica genealogico-critica nell’esercizio
del pensiero?
Daniel Defert: No, non come Weber. Foucault sviluppa un
approccio molto teorico, che domina i propri oggetti dall’alto,
e il coinvolgimento concreto lo conforta, lo distende. Nono169
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stante tutto, la questione della genealogia nietzscheana può
avere alcune consonanze con certi approcci marxisti, come
può anche non averne affatto – dipende dalla lettura. Foucault
l’aveva già capito quando era più giovane, quando ha lasciato
il PCF; ma credo soprattutto che Foucault inizi, con questo
corso del 1970-71, a studiare la produzione di verità al di fuori dell’ambito tradizionale dell’epistemologia. Non è l’attività
scientifica. In Sur les façons d’ècrire l’histoire, Foucault evoca
appunto questa epistemologia che si fa a partire da individui
che cercano la verità, essenzialmente gli esperti… In questo
corso, invece, Foucault svolge una ricerca della verità a partire
da un teatro di verità che è la giustizia, cioè lo scontro tra individui e potere di Stato che si sta costituendo, il puro scontro. È
Nietzsche che, dopo i Sofisti e Aristotele, è tornato su questo e
possiamo dire che, a partire dal 1970 fino a Sorvegliare e punire,
gli apparati giudiziari saranno, per Foucault, luoghi di produzione di sapere.
Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: Lei ha appena evocato l’esperienza di Foucault nel Partito Comunista Francese. Nell’intervista
del 1978 con Duccio Trombadori, Foucault parla proprio di questa
esperienza, tracciando un quadro della militanza nei termini di una
dissoluzione dell’io, di una conversione, dell’ascetismo e dell’autoflagellazione. Tuttavia, nell’ultimo corso al Collège de France,
quello del 1984, Foucault parla della militanza rivoluzionaria come
di una delle piste più interessanti da percorrere, nel caso in cui ci
si voglia impegnare a lavorare sul cinismo “trans-storico” – nei tre
aspetti della società segreta, dell’organizzazione istituita (come, ad
esempio, il partito o il sindacato) e della testimonianza attraverso la
vita. Nondimeno, Foucault sembra considerare anche la possibilità
di sovrapposizioni, se non di una iscrizione della testimonianza della
verità tramite la vita nelle forme di organizzazione di un movimento
o di un partito, ivi compresa quella del gauchismo. Come legge, lei,
i rapporti tra queste due modalità di riferirsi alla militanza? In che
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modo ritiene che l’esperienza personale di Foucault si situi rispetto
a queste due idee diverse di militanza?
Daniel Defert: Nell’ultimo corso ci sono in effetti alcune
cose che mi sembrano piuttosto interessanti a proposito della
“vita altra”, e appunto della rivoluzione, della vita rivoluzionaria… C’è una cosa che Foucault ha ben messo in luce: la
costituzione della militanza come un modello sociale concepito
nel XIX secolo. Il militante rivoluzionario è qualcosa che si è
costruito, che è esistito praticamente in tutti i paesi, che si trova
in Russia come negli Stati Uniti, ed è una delle forme dell’ascetismo, una delle forme del dire il vero e, per un certo verso,
uno dei problemi complicati, sui quali non saprei pronunciarmi, dei rapporti che Foucault stabilisce tra la storia e la verità.
Perchè c’è, allo stesso tempo, una storicizzazione completa dei
regimi di verità, e poi ci sono delle figure che attraversano il
tempo – qual è il loro statuto? Ero rimasto colpito dal fatto che
Foucault avesse detto: la storia della verità non è forse la storia
di un’esclusione, dell’esclusione della dèraison rispetto alla ragione? C’è questa storia di una follia precedente al partage, che
riaffiorerebbe in Artaud, in Van Gogh, e poi infine si avrebbe
una sorta di riaffiorare della sofistica in Brisset, in Roussel…
E poi, nel corso del 1984, di nuovo, questo personaggio del
rivoluzionario che è capace di dire il vero e di proporre una
vita altra, e che è anche un riaffiorare del cinico. Allora, si tratta solo di modelli di vita, di “idealtipi”, come direbbe Weber,
costruiti per comparare, o c’è una reale trans-storicità? Spesso
le cose sono un po’ ambigue. Forse per Foucault non lo erano, ma su questo punto non è sufficientemente esplicito e ci si
può chiedere se ci sono delle specie di figure trans-storiche che
riaffiorano, delle forme, delle stilizzazioni dell’esistenza al tempo stesso politiche ed etiche, e non semplicemente estetiche.
Un’analisi più attenta permetterebbe forse di capire se si tratta
di idealtipi, di puri modelli di una metodologia comparativa o
di tutt’altro, di una percezione trans-storica di percorsi etici e
politici il cui numero è finito.
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Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: L’esperienza personale
della militanza di Foucault, quel che racconta a Duccio Trombadori a proposito del PCF, ha potuto influenzare la sua maniera di considerare la militanza?
Daniel Defert: Non sono sicuro che sia nel PCF che Foucault ha avuto l’esperienza militante più intensa, nè la più
evocatrice del cinismo antico (il cinismo stalinista è davvero
tutt’altra cosa)…
Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: Di certo la più negativa!
Daniel Defert: Sì, perchè sapete come funziona l’appartenenza a un partito: si va alle riunioni, si distribuiscono volantini… Beh, Foucault scriveva anche articoli, che venivano spesso tagliati. Era certo un’esperienza militante, perchè era data
come tale e Foucault la prendeva come tale; era comunque una
rottura molto forte rispetto al suo ambiente di origine, provinciale e borghese. So che io, quasi vent’anni dopo, mi sono posto la domanda: entro nel Partito oppure no? Grazie a Dio, il
rapporto del PCF con la guerra d’Algeria, con l’indipendenza
dell’Algeria, mi ha evitato di entrarci! Nel 1960-61, entrare nel
Partito era ancora di per sè una rottura, anche se una volta dentro la pratica consisteva nel vendere l’Humanitè, nel distribuire
volantini, nell’andare alle riunioni… Sicuramente nella Gauche prolètarienne e nel G.I.P. abbiamo avuto una pratica molto
più militante, e proprio all’interno di questa pratica militante
che avevamo nel G.I.P. Foucault era estremamente attento a
non dare spazio alcuno all’autocritica. Non sopportava questa
abitudine religiosa e comunista dell’autocritica! Al contrario,
se qualcosa aveva successo bisognava festeggiare! Cioè: “Abbiamo fatto una buona manifestazione, ha avuto un buon impatto, si festeggia, ci si festeggia”. Foucault era favorevole alla
celebrazione tanto quanto vietava tutto quel che assomigliava
a un’autocritica – e quindi le sedute di confessione, di colpe172
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volizzazione, tutto questo lo trovava orribile! È vero, quindi,
che Foucault ha reinventato una militanza a partire dalla nostra
pratica: non si è ispirato a ciò che aveva imparato prima. E
so che, appunto, il G.I.P. ci ha permesso di avere una pratica politica molto diversa dalla pratica dei nostri compagni che
lavoravano con gli operai: i nostri compagni erano a volte di
origine borghese, ma vivevano in tutto e per tutto come operai,
come operai militanti, ovvero: “Come, hai figli? Guarda che
stasera vieni comunque alla riunione, anche se sei una madre di
famiglia e hai passato la giornata in fabbrica!” In altri termini,
i militanti che lavoravano con gli operai cancellavano i segni
della loro origine per somigliare alle persone con cui militavano. Invece, quando ci siamo occupati dei detenuti, avevamo
a che fare con persone che erano spesso anarchici, ma anche
semplicemente ladri che non avevano necessariamente un ideale ascetico, e sono certo che alcuni di loro avessero nascosto
refurtive che, anche quando sono usciti di prigione, la polizia
non ha trovato! Ecco, queste persone tenevano piuttosto a vivere in modo confortevole, e non volevano che ci si vestisse
male per andare da loro: preferivano venire a cena da noi o che
si andasse da loro e si portassero fiori, dolci, etc., insomma che
ci si ricevesse da borghesi. Ed erano molto contenti che non
simulassimo una falsa vita proletaria. Al contrario, dato che si
sentivano esclusi, erano felici di sentirsi accettati. Il G.I.P. a
quel tempo condivideva un locale, prestatoci da Guattari, con
l’MLF (Mouvement de libèration des femmes) e con il FHAR
(Front homosexuel d’action rèvolutionnaire), ma una sera non
abbiamo potuto usarlo. Avevamo una riunione con una banda
di “garçons” del quartiere della Bastiglia, che era ancora un
quartiere popolare; c’era quindi una “banda della Bastiglia”
che conoscevamo piuttosto bene, e non avevamo il locale per
accoglierli. Alla fine li abbiamo fatti venire a casa di Foucault.
E un ragazzo esclama: “Oh mio Dio, i borghesi ci aprono le
loro porte, senza costringerci a scassinarle!” Erano contenti.
Era un’altra militanza…
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Orazio Irrera e Daniele Lorenzini: Era un modo molto diverso di stabilire rapporti personali nella pratica militante…
Daniel Defert: Sì! Dovete sapere che c’erano già parecchi
giovani in prigione per droga, anche se non se ne parlava ancora, e molti di loro erano difesi da avvocati del PCF. Ora,
il problema non era mai stato posto politicamente, era visto
come una specie di disagio morale per le famiglie di questi
ragazzi. Quando abbiamo cominciato a proporre a queste
famiglie dei comportamenti di tipo politico (manifestare in
strada con striscioni davanti al Ministero della Giustizia e
cose così), le famiglie dette di “diritto comune” hanno iniziato a politicizzare il proprio comportamento in un ambito
che non aveva ancora uno statuto politico, e quando hanno
cominciato a prendere i nostri volantini e a distribuirli alle
porte delle prigioni, nei mercati, le cose hanno iniziato a
cambiare! In quel momento, il nostro obiettivo politico era
quello di reintrodurre le poste in gioco delle prigioni nelle
lotte operaie, che erano ancora le lotte politiche dominanti dell’epoca. Alla fine, tutto ciò non si è reinscritto nelle
lotte operaie, anche se, quando si andava ai cancelli delle
fabbriche con gli attori del Thèâtre du Soleil che mimavano
scene sulle prigioni, eravamo ben accolti dagli operai: molti di loro avevano fatto un po’ di galera, come immigrati,
o conoscevano qualcuno in prigione. Insomma, il mondo
della prigione non era loro estraneo, non era più il mondo
morale del “Lumpenproletariat”, che era scomparso… Ci
confrontavamo invece con problemi di “identità”, con lotte
nuove sui diritti identitari, perchè le persone con cui avevamo a che fare non erano solo detenuti, ma anche immigrati,
consumatori di droga, etc. Ci trovavamo con i travestiti e i
problemi affrontati in prigione dagli omosessuali, ci trovavamo con le donne in prigione, la cui storia non è la stessa
di quella degli uomini in prigione (diversi i reati, diversi i
maltrattamenti, diversa la solitudine), e quindi non ricomponevamo tutte queste poste in gioco all’interno delle gran174
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di lotte proletarie, ma incitavamo nuove lotte della società
intorno alle questioni di identità, di genere, di sessualità, ed
eravamo in tutt’altro registro di lotte… È quindi vero che ci
siamo trovati, Foucault ed io, in un momento di inventività
di comportamenti militanti, in un momento cardine delle
lotte, e che vi abbiamo contribuito!
Traduzione dal francese di Laura Cremonesi
e Daniele Lorenzini
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Finito di stampare nel mese di febbraio 2015
per conto di La talpa-manifestolibri - Roma
dalla tipografia LegoDigit, Lavis - Trento
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