lo strutturalismo

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lo strutturalismo
LO STRUTTURALISMO
Le origini del movimento
Lo Strutturalismo è un indirizzo di studi e di pensiero che negli anni Sessanta si è diffuso dalla Francia in altri
Paesi. Esso si configura dapprima come un modello metodologico adottato nelle scienze umane, dalla
teoria linguistica all'antropologia, dalla psicoanalisi alla critica letteraria e all'economia ma
successivamente, nel corso del dibattito che ha suscitato, vede emergere le sue implicazioni teoricofilosofiche.
La nozione di "struttura" non è nuova, poiché è stata largamente usata anche nell'Ottocento e ai primi del
Novecento. Marx, nella sua concezione materialistica della storia, aveva individuato nella struttura
economico-sociale la base reale del processo storico, in grado di condizionare la sovrastruttura politica e
ideologica e, in generale, la vita degli uomini.
Nello stesso periodo una molteplicità di esperienze e ricerche - in diversi campi, dall'antropologia alla
linguistica - si avvalevano del concetto di "struttura" sul piano metodologico, per indicare una sorta di
"architettura" (di segni, relazioni familiari, relazioni economiche, ecc.) nella quale i singoli fenomeni si
presentano come parti interdipendenti di un tutto.
Lo Strutturalismo ritiene che ogni entità debba essere considerata non in se stessa, isolatamente rispetto
alle altre, ma come elemento di una struttura, cioè di un sistema coerente, all'interno del quale quell'entità
svolge una o più funzioni. La struttura non costituisce tanto la somma degli elementi che la compongono,
quanto l'insieme delle relazioni esistenti fra gli elementi stessi. Essa è un sistema in sé concluso, che
consente di spiegare se stesso, e ogni fenomeno che vi si manifesta, senza ricorrere ad altri sistemi.
Lo svizzero Ferdinand de Saussure (1857-1913), introducendo questo approccio metodologico nella
linguistica, ha influito in modo determinante sullo Strutturalismo. La lingua, per de Saussure, è un sistema
di segni. Il segno è costituito sempre da un significante e da un significato, cioè da un'immagine acustica"
(un insieme di sillabe pronunziate) e da un "concetto" (ad esempio, quello di "cavallo"). Il nesso tra
significante e significato è arbitrario, stabilito in base a una convenzione condivisa da una comunità di
parlanti.
Centrale, in questo contesto, è la tesi secondo cui il valore di una parola è in funzione del sistema linguistico
cui appartiene. La lingua, infatti, è un sistema nel quale tutti i segni linguistici sono solidali e "il valore
dell'uno non risulta che dalla presenza simultanea degli altri". Ogni segno deve essere considerato solo
nell'insieme del sistema di cui è parte: "la parola dipende dal sistema; non ci sono segni isolati".
Per spiegare tale approccio allo studio della lingua, de Saussure usa la metafora del gioco degli scacchi, nel
quale il valore dei singoli pezzi dipende dalla loro posizione sulla scacchiera e la mossa di un pezzo, in
quanto modifica l'equilibrio dell'insieme, cambia anche l'andamento di una partita.
Fondamentale è inoltre la distinzione saussuriana tra sincronia e diacronia. L'analisi strutturale della lingua
ha un carattere "sincronico", in quanto rileva le relazioni che intercorrono tra i suoi elementi in un dato
momento storico. Al contrario, lo studio che ne mette in luce il mutamento, cogliendo le variazioni di
significato delle parole nel tempo attraverso l'etimologia, ha un carattere "diacronico". Ebbene, per de
Saussure lo studio morfologico di una lingua, rivolto alle sue regole in quanto sistema, è indipendente dallo
studio etimologico, che attiene invece alle modifiche dei suoi elementi nel tempo.
Anche nella nuova storiografia francese, che fa capo alla scuola delle Annales (dal nome dalla rivista
Annales d'histoire économique et sociale, fondata nel 1929 a Strasburgo), si fa strada l'idea di strutture
operanti nella storia. Fernand Braudel (1902-1985) propone l'idea di una storia di lunga durata, fondata su
strutture (sistemi agrari, modi di produzione, mentalità, relazioni familiari, ecc.) che mutano con ritmo
quasi impercettibile, al di sotto dei movimenti superficiali dei fenomeni di breve periodo (come quelli
considerati dalla storia politica).
L'antropologo Alfred R. Radcliffe-Brown (1881-1955) sostiene che le istituzioni dei popoli primitivi, di cui
non conosciamo la storia, possono essere spiegate solo riconducendole al sistema sociale cui appartengono
e alla funzione che svolgono in esso.
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Altri esempi di approccio strutturalista possono essere rinvenuti nella psicologia o nell'economia. Pertanto,
è l'intero campo delle scienze umane e sociali ad essere ripensato in questa chiave, ponendo in evidenza
soprattutto i sistemi di regole, i princìpi di organizzazione sociale e le istituzioni che incidono in misura
determinante sul modo d'essere degli individui.
Fine del Soggetto?
In Francia, nel secondo dopoguerra, il dibattito culturale e filosofico è dominato dalla Fenomenologia,
dall'Esistenzialismo, dallo Spiritualismo cattolico e da un Marxismo influenzato dalla recente pubblicazione
delle opere giovanili di Marx: tutti indirizzi in cui prevale un orientamento soggettivistico e umanistico e fra
i quali ha luogo un intenso confronto, che sfocia talvolta in una convergenza, come avviene ad esempio tra
Esistenzialismo e Marxismo con la pubblicazione della Critica della ragione dialettica di Sartre.
L'etnologo Claude Lévi-Strauss si pone in controtendenza rispetto a questi orientamenti, respingendo la
centralità assegnata alla coscienza sia dai filosofi dell'età moderna che da alcuni fra i maggiori filosofi del
Novecento (da Cartesio a Kant fino ad Husserl, Jaspers e Sartre). Egli critica l'Esistenzialismo per l'accento
posto soprattutto sul singolo, cioè sull'individuo considerato nella sua dimensione soggettiva, irriducibile ad
ogni altra, inoggettivabile. In particolare, apre una dura polemica con Sartre e il suo umanesimo
esistenziale, affermando la necessità che lo studio del mondo umano riguardi non il "vissuto", la
"coscienza", ma le strutture inconsce che sottendono la molteplicità delle culture umane. È intento di LéviStrauss fondare l'antropologia come una scienza rigorosa e, per questo, contestare l'idea che una
conoscenza oggettiva della realtà umana possa continuare a fondarsi su un'idea "soggettivistica" e
"storicistica" della prassi umana nel mondo.
Dunque, a caratterizzare lo Strutturalismo è soprattutto un forte orientamento antisoggettivistico e
antiumanistico, cioè l'affermazione del primato della struttura sulla soggettività della coscienza, sul
soggetto che agisce nella storia.
Sono le stesse scienze umane — secondo gli Strutturalisti — ad affermare tale orientamento, facendo
derivare la vita, il pensiero e le stesse azioni umane dal linguaggio, oppure da strutture inconsce, da
istituzioni o da strutture economico-sociali.
Il soggetto viene, così, spodestato dal ruolo centrale che — sin dall'Umanesimo gli era stato assegnato nella
filosofia moderna. Il mondo umano non viene più definito mediante la soggettività trascendentale o
l'apertura dell'esistenza individuale verso l'essere, ma attraverso relazioni costanti tra fenomeni di ordine
culturale (linguistici, antropologici, economico-sociali, ecc.) nelle quali il soggetto viene assorbito. Il singolo
è rappresentato come elemento di un sistema regolato da leggi rigorose, che valgono per tutti gli elementi
del sistema stesso.
Critica dello Storicismo
Un altro aspetto caratterizzante della critica strutturalista è l'antistoricismo. Privilegiando il momento
sincronico, invariante, su quello diacronico, storico, lo Strutturalismo rifiuta di considerare la storia come
dimensione privilegiata per comprendere il mondo umano e critica lo Storicismo, considerandolo l'ultimo
baluardo dell' “umanesimo trascendentale".
Gli Strutturalisti rifiutano soprattutto l'idea della storia come svolgimento processuale contrassegnato dalla
continuità e ritengono, invece, che la realtà storica proceda per salti, rotture, discontinuità. Lo Storicismo è
accusato di "teleologismo", ossia di considerare lo svolgimento dei fatti come il frutto di una immanente
tendenza finalistica e provvidenziale. Al contrario, per gli Strutturalisti vi sono leggi che regolano lo svolgersi
dei fatti umani e costituiscono forme oggettive permanenti, dotate di coerenza formale, che devono essere
descritte nel loro puro e oggettivo modo di essere e di presentarsi.
Non tutti gli Strutturalisti, tuttavia, condividono questa sottovalutazione della dimensione diacronica a
favore di quella sincronica. Nella psicologia genetica dello svizzero Jean Piaget (1896-1980), ad esempio, la
dimensione diacronica gioca un ruolo significativo, manifestandosi come sviluppo delle strutture mentali
dell'individuo, delle sue funzioni cognitive, attraverso quattro stadi: 1. l'intelligenza senso-motoria (da 0 a
36 mesi d'età); 2. l'intelligenza intuitiva (3-7 anni); 3. il pensiero operatorio concreto (7-11 anni); 4. il
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pensiero ipotetico-deduttivo (11-14 anni). Le strutture dell'intelligenza umana passano da uno stadio
all'altro attraverso processi di ristrutturazione e un'interazione continua con la realtà.
CLAUDE LÉVI-STRAUSS - L’antropologia strutturale
Claude Lévi-Strauss (1908-2009) compie, fra le due guerre, ricerche nel Mato Grosso e in Amazzonia.
Durante l'occupazione tedesca della Francia si reca negli Stati Uniti, dove, insieme al linguista Roman
Jakobson, elabora più compiutamente il metodo strutturalistico. Tornato in Francia, pubblica i risultati delle
sue ricerche (fra cui Le strutture elementari della parentela, del 1949) e altri scritti fondamentali, come
Antropologia strutturale (1958), Il pensiero selvaggio (1962) e i quattro volumi delle Mitologiche (19641971). nei quali sviluppa un'originale interpretazione dei miti secondo il metodo strutturalistico.
Lévi-Strauss ritiene che anche il mondo umano possa essere indagato con i metodi propri delle scienze
naturali e che in esso si possano individuare delle "strutture invarianti". Egli intende pertanto superare la
tradizionale distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, tra il metodo delle scienze naturali e
quello delle scienze storico-sociali. I fenomeni sociali sono considerati come fenomeni naturali, dunque la
vita degli uomini deve essere ricostruita non dall'interno, come "interiorità" ed "esperienza vissuta", ma
dall'esterno, come se si trattasse di formiche. Ciò rende possibile trattare l'antropologia come scienza
rigorosa.
Pur essendo la cultura un campo di indagine del tutto diverso dalla natura, deve essere possibile riscontrare
in essa delle leggi universali, delle strutture indipendenti dai contesti ambientali e sociali e dal livello di
sviluppo di una civiltà.
Così, le strutture della parentela e lo scambio di doni fra gruppi umani diversi appaiono come sistemi
permanenti di relazione e comunicazione senza i quali il legame fra gli uomini non supererebbe la sfera
biologica, non si tradurrebbe mai in fatto sociale. Il tabù dell'incesto, da cui deriva l'esogamia (quindi lo
scambio delle donne fra diversi gruppi umani), "non è tanto una regola che vieta di sposare la madre, la
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sorella o la figlia, quanto invece una regola che obbliga a dare ad altri la madre, la sorella o la figlia",
donandole e stabilendo, così, una nuova rete di relazioni sociali e lo scambio di beni e messaggi. La pratica
dell'esogamia ha dunque la funzione di consentire la comunicazione con gli altri e di realizzare
un'integrazione sociale.
Lévi-Strauss enfatizza l'analogia tra linguistica e antropologia perché le società vengono considerate come
insiemi di individui messi in comunicazione mediante vari aspetti della cultura costituenti altrettante forme
di linguaggio. Il termine "linguaggio" ha qui un significato più ampio del termine "lingua", poiché include
tutti gli aspetti non verbali della comunicazione tra gli uomini, basati su sistemi di simboli, da quelli religiosi
fino a quelli della cucina. La cultura, quindi, può essere definita un sistema di segni, in quanto tale oggetto
della semiologia.
Nelle diverse narrazioni mitologiche presenti nelle più svariate culture, Lévi-Strauss coglie le variazioni di
una stessa struttura, di un sistema di relazioni logiche basate su contrapposizioni fondamentali (come
l'opposizione tra il "crudo" e il "cotto"). La struttura non appartiene all'ordine dell'osservazione, non è un
dato empirico: è un principio d'interpretazione valido per più istituzioni ed usanze. Essa è costituita da
forme che "sono fondamentalmente le stesse per tutti gli individui, antichi e moderni, primitivi e civili",
forme permanenti, sincroniche, che possono essere studiate solo attraverso la costruzione di modelli
astratti.
La "scienza delle strutture"
La scienza è "scienza delle strutture". Queste rappresentano un livello profondo della realtà studiata,
costituito dall'ordine interno dei suoi elementi costitutivi (da una "relazione fra due o parecchi termini") e
dalle regole che presiedono alle proprie trasformazioni interne.
La ricerca, per individuare una struttura, deve costruire dei modelli, ossia "sistemi di simboli che tutelano le
proprietà caratteristiche dell'esperienza, ma che, a differenza dell'esperienza, abbiamo il potere di
manipolare". I modelli, per meritare il nome di struttura, devono soddisfare quattro condizioni:
1. una qualsiasi modificazione in un elemento comporta la modificazione di tutti gli altri (si tratta, quindi, di
un sistema);
2. il modello deve appartenere a un gruppo di modelli della stessa famiglia, che costituiscono le varianti di
una determinata organizzazione logica della realtà (rinvenibile, ad esempio, nel modello di una società
elementare come in quello della società contemporanea);
3. deve essere possibile prevedere come reagirà il modello in caso di modificazione di uno dei suoi
elementi;
4. "il modello deve essere costruito in modo tale che il suo funzionamento possa spiegare tutti i fatti
osservati".
Ma che cosa garantisce l'universalità delle strutture? Qual è la loro origine? Come è possibile, ad esempio,
che in tutto il mondo i miti, frutto di fantasia, siano riconducibili a pochissime regole?
Certo, in parte ciò si può spiegare con i contatti tra i popoli. Ma per Lévi-Strauss la vera spiegazione risiede
nel fatto che tutti i fenomeni culturali sono il prodotto di una facoltà tipica della mente umana, che sa
produrre, inconsciamente, un codice dotato di senso utilizzando differenze o termini contrapposti (come fa
la lingua, ad esempio, con la coppia vocali/consonanti).
Questi meccanismi universali del pensiero sono frutto di un' “attività inconscia dello spirito”, che si svolge
quindi alle spalle degli uomini: l'uomo non ne è protagonista, ma ripete una trama di passaggi
fondamentali, sempre identici, che lo superano e giungono quasi ad annullarlo come vero soggetto
dell'attività simbolica.
Lévi-Strauss sostiene che si tratta di "un dispositivo mentale comune a tutta l'umanità", inconscio
(paragonabile, in tal senso, all'inconscio collettivo di Jung), in grado di operare in diversi contesti e in
diverse culture, come nel caso della parentela. Le strutture della parentela costituiscono infatti una
dotazione innata, inconscia, della generalità degli uomini: tale è il tabù dell'incesto. Le regole interne al
sistema matrimoniale e parentale sono riscontrabili presso ogni gruppo umano: esprimono delle invadenti
della mente umana, ciascuna delle quali può essere, come struttura logico-simbolica, ricostruita
scientificamente.
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Storia cumulativa e storia stazionaria
La dimensione diacronica, storico-genetica, costituisce dunque un aspetto secondario, non principale, della
conoscenza. Vi sono, anzi, sostiene Lévi-Strauss, delle società - le cosiddette società fredde - che non si
evolvono, o lo fanno in misura minima, mentre altre società - le società calde, le nostre - sono in grado di
evolversi. Ma non è detto che le prime siano "inferiori" alle seconde: per taluni aspetti, anzi (ad esempio,
per quelli che attengono al rispetto della natura), sono più "civili".
La critica allo Storicismo condotta da LéviStrauss ha delle implicazioni più vaste, poiché tende a mettere in
discussione l'idea di "progresso", o, almeno, una certa idea di progresso. Egli ritiene che il progresso non sia
necessario, né continuo, e non proceda come "un personaggio che sale una scala, che aggiunge con ogni
suo movimento un nuovo gradino a quelli già conquistati", ma a salti, a balzi, che non vanno sempre nella
stessa direzione. Volendo ricorrere a un'immagine, si potrebbe usare quella del giocatore che butta i dadi
ottenendo risultati diversi. Solo a volte i risultati si sommano in modo da dare combinazioni favorevoli per il
"giocatore". È in questi casi che si ha una "storia cumulativa". Ma in base a quali criteri si stabilisce se una
storia è cumulativa, oppure stazionaria? LéviStrauss ne è convinto: a decidere è la "prospettiva
etnocentrica, nella quale sempre ci poniamo per valutare una cultura diversa". La storia è l'illusione
ideologica di chi vuole affermare il primato della propria civiltà, nazione o classe, ripensando il passato per
giustificare le proprie scelte e azioni.
Pertanto, consideriamo cumulativa ogni cultura che si sviluppa in un senso analogo alla nostra, in rapporto
a ciò che per noi ha significato. Invece, altre culture ci sembrano stazionarie, perché la loro linea di sviluppo
non ha alcun significato per noi. Ma, allo stesso modo, la nostra cultura potrebbe apparire così ad altre:
"appariremmo l'uno all'altro come privi di interesse per il semplice motivo che non ci rassomigliamo".
Questa impostazione mette in discussione il primato "assoluto" dell'Occidente sulle altre culture: siamo al
primo posto se il criterio che viene assunto è la disponibilità di mezzi meccanici sempre più potenti o la
quantità di energia disponibile pro capite, ma non lo siamo, ad esempio, per quel che riguarda
l'utilizzazione e le risorse "di quella macchina suprema che è il corpo umano".
Struttura
Nel pensiero di Lévi-Strauss il concetto di struttura non si riferisce direttamente alla realtà empirica, ma ai
modelli teorici costruiti in base al materiale empirico. Un modello descrive un sistema caratterizzato da un
ordine interno e da determinate relazioni tra i suoi elementi. Tali relazioni sono soggette a trasformazioni
che danno luogo a modelli della stessa famiglia. Dall'analisi di tali modelli emerge la struttura, ossia
l'organizzazione logica della realtà che permane invariata nelle trasformazioni del sistema.
La conoscenza della struttura consente di prevedere le trasformazioni che si verificheranno nel sistema con
la modifica di un solo elemento e di spiegare la totalità dei fatti osservati.
Nella cultura del Novecento il termine "struttura" assume un'ampia gamma di significati, che mutano
secondo l'ambito disciplinare e - spesso - all'interno di una stessa disciplina.
Esso viene impiegato nella storia dell'arte per designare un principio interno di organizzazione degli aspetti
stilistici; con accezioni diverse è impiegato anche in biologia, chimica e matematica.
JACQUES LACAN
Alla critica della centralità del "soggetto" come "coscienza", operata dagli Strutturalisti, è riconducibile
anche l'impostazione dello psicoanalista Jacques Lacan (1901-1981). Lacan auspica un "ritorno a Freud",
convinto che la psicoanalisi succeduta al proprio fondatore abbia deviato dal suo pensiero, travisandolo.
Egli ritiene comunque che la psicoanalisi richieda una ricerca libera e aperta e non debba quindi essere
"ingabbiata" in modelli "accademici" di trasmissione del sapere (come sapere già dato e
"preconfezionato").
Per Lacan l'inconscio è strutturato come un linguaggio: come nel linguaggio, anche nell'inconscio vi sono
elementi caratterizzati da differenze (i pezzi degli scacchi di de Saussure) e legati tra di loro da rapporti
intrinseci al sistema, cioè indipendenti dalle intenzioni di chi parla.
Il linguaggio dell'inconscio è impersonale: ça parle, "esso" parla. Chi parla è un soggetto non cosciente, ma
anonimo, o meglio, non è un soggetto, ma è il linguaggio stesso che parla al posto suo. L'uomo "è un
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animale in preda al linguaggio", determinato dall'inconscio. Ma questo è un inconscio impersonale,
transindividuale. È l'Altro, un linguaggio che preesiste al soggetto, un significante - l'insieme dei simboli
linguistici e sociali - che, pur producendo un significato, non si riduce ad esso, va "oltre" il significato, cioè
"oltre" la coscienza.
Lacan parla di un soggetto barrato ($), cioè attraversato da una dimensione transindividuale, non
riconducibile all'io, un soggetto irrimediabilmente "diviso". L'identità dell'io con se stesso è scomparsa,
come anche la sua centralità.
Bisogna dunque decentrare il soggetto, convincersi che il suo centro reale è al di fuori della sfera della
coscienza e della ragione, la quale, quindi, si trova in una posizione periferica. Il soggetto, infatti, è dove
non pensa (nell'inconscio) e pensa dove non è (quando pensa è fuori dal suo reale centro-motore di
motivazioni e attività).
La coscienza si sdoppia: si rappresenta in un'immagine che è superficiale, perché in questa il soggetto non
ritrova ciò che avverte come in sé costitutivo, cioè il desiderio. Quest'ultimo ha la sua sede propria in
un'altra scena, quella dell'inconscio, le cui manifestazioni (sogni, lapsus, sintomi) operano al di fuori della
sfera cosciente.
Pertanto, nel linguaggio dell'inconscio non valgono le leggi logiche della coscienza. È impossibile una
ricostruzione razionale della sfera desiderante del soggetto.
È invece possibile un'indagine che operi sul simbolico, luogo dell'inconscio impersonale, linguaggio che ha
un proprio lessico e una sua sintassi, come mostrano i sogni. Il mondo del simbolico vive, però, nella
dimensione dell'individuo, dove trova il suo pieno significato. Nel metodo psicoanalitico di Lacan, dare
priorità al significante vuol dire guardare soprattutto a come il soggetto parla e meno a ciò che dice.
La pratica psicoanalitica deve evitare una "ricomposizione" tutta "razionale" e intellettualistica dei
significati. Il linguaggio della coscienza viene destrutturato, colto nelle sue pieghe, in "fessure" o magari in
"assenze" nelle quali è possibile avvertire, in qualche misura, la "verità" dell'inconscio, che di per sé non è
rappresentabile.
Solo così è possibile - secondo Lacan individuare e analizzare le strutture impersonali che costituiscono il
"discorso dell'Altro" e, in qualche modo, la nostra personalità profonda. Tali strutture ridimensionano, fin
quasi ad annullarlo, lo spazio del soggetto cosciente e razionale, che la modernità aveva costruito.
Poststrutturalismo
Michel Foucault pur condividendo la scelta degli Strutturalisti di spiegare l'essere dell'uomo attraverso
relazioni e processi che avvengono prima del costituirsi della figura del soggetto, rifiuta però la tesi che
sussistano delle strutture invarianti.
Foucault osserva che le "strutture" vanno ricondotte ad un'origine storica, ossia alla "discontinuità" che le
fa nascere in rottura con le strutture che le precedono nel tempo. Lo Strutturalismo tenta di spiegare i
mutamenti come possibilità già inscritte nella forma delle strutture invarianti, mentre Foucault considera il
mutamento un "salto" vero e proprio tra configurazioni irriducibili e discontinue.
MICHEL FOUCAULT - La vita e le opere
Anche se viene spesso collocato nell'ambito dello Strutturalismo, il pensiero di Michel Foucault (19261984), filosofo e storico, sfugge alla pura e semplice identificazione con tale indirizzo, costituisce cioè "una
figura intermedia" tra questa tendenza e quella poststrutturalista.
Egli ha elaborato alcuni modelli di analisi che hanno influito in modo sensibile sulla cultura francese e su
ampia parte della filosofia contemporanea. Ha scritto saggi di storia della psichiatria, dei manicomi e delle
carceri, di economia, letteratura e semiotica, oltre che di filosofia, utilizzando una varietà di strumenti
conoscitivi e un metodo analitico nel quale - a differenza dell'approccio di Lévi-Strauss - ha trovato largo
posto la ricostruzione storica.
Fra i suoi scritti citiamo la Storia della follia nell'età classica (1961), Nascita della clinica (1963), Le parole e
le cose (1966), Archeologia del sapere (1969), Sorvegliare e punire (1975), La volontà di sapere (1976, primo
volume della Storia della sessualità), Microfisica del potere (1977), L'uso dei piaceri e La cura di sé (1984,
secondo e terzo volume della Storia della sessualità).
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Ragione contro follia
Foucault ha fatto propria la critica elaborata dallo Strutturalismo nei confronti dell'idea umanistica del
soggetto e della centralità attribuita all'autocoscienza dalla filosofia moderna.
Per Foucault, ciò che per la cultura occidentale moderna è "primo" (la coscienza, la soggettività come
umana progettualità, su cui si è costruito il mito del progresso storico) è invece il prodotto di una
determinata società e/o di una determinata cultura. Anche la ragione, la cui affermazione nell'età moderna
coincide con la nascita del soggetto (e a cui si attribuisce l'inizio di una nuova fase nella storia dell'umanità),
è caratterizzata da una dinamica interna.
L'avvento della ragione non ha segnato una fase di "emancipazione" degli esseri umani, ma è stato
accompagnato da una esclusione, da una rimozione: quella della devianza, della diversità mentale e fisica.
La ragione è sorta insieme alla segregazione della follia, si è cioè costituita come una "ragione dominante",
che, per affermarsi, ha avuto bisogno della figura del "folle", pretendendo di stabilire che cosa sia
"normale" e che cosa non lo sia.
Nella Storia della follia nell'età classica, Foucault sostiene che la "follia" e la "ragione" si sono formate
insieme, come stati della mente assolutamente opposti: la ragione esclude da sé la follia facendone il
proprio esatto contrario, condannandola come malattia da confinare nella letteratura medica e nei
manicomi. Ciò avviene nel Seicento, il secolo del razionalismo e della scienza. Non è sempre stato così. Nel
Medioevo e nel Rinascimento la "devianza" mentale veniva associata alla stregoneria e all'eresia, ma anche
alla santità (si pensi alla "divina mania" descritta da Platone e di cui Erasmo aveva tessuto l'"elogio"), ed era
senso comune che il folle fosse il portatore della verità (solo Parsifal il folle poteva condurre a buon fine la
ricerca del Santo Graal).
Con l'avvento della filosofia cartesiana e l'affermazione di un metodo filosofico rigorosamente deduttivo e
razionale, si verifica una cesura determinante nello stile del pensiero, proprio attraverso l'emarginazione
della follia. Il gesto attraverso cui la ragione si afferma come facoltà autonoma, che obbedisce solamente ai
propri fondamenti e alle proprie regole di coerenza, stabilisce al contempo l'esclusione di tutto ciò che è
culturalmente altro e diverso, condannato come follia.
Al pazzo sono assimilabili coloro che si rifiutano di sottostare alle regole del gioco imposte in una data
società: i vagabondi, i criminali, le ragazze madri; tali figure vengono accomunate a quelle dei malati
mentali veri e propri, e raggruppate nella categoria dei folli.
Ed è proprio in nome di quegli esclusi, da allora privati di voce e rimossi dalla storia e dal regno della
ragione, che Foucault dichiara di avere scritto la Storia della follia. Insieme a loro, infatti, sono state rimosse
ed escluse le potenze creative dell'immaginario, che avrebbero potuto dare un corso diverso alla storia
della ragione come a quella dei rapporti e delle istituzioni sociali.
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Le strutture del sapere nell'età moderna
Foucault ritiene che a costituire la storia non sia la continuità, ma la discontinuità, non una connessione
progressiva di eventi, ma "il fatto selvaggio del cambiamento". La stessa ragione, come si è visto, è un
"codice" storicamente determinato. Egli considera destituita di fondamento la nozione di una ragione
universale come soggetto e fondamento di ogni discorso.
Nell'età moderna (scrive in Le parole e le cose) non si è affermato un unico modello di razionalità, ma tre
diverse strutture del sapere (o strutture epistemiche), alla base di altrettanti sistemi culturali:

quella rinascimentale, fondata sulla somiglianza o analogia tra i segni e che produce un sapere magico
e simbolico;
 quella classica (nel Sei-Settecento), fondata sull'evidenza di idee razionalmente concatenate (rispetto
alla quale la vecchia struttura analogica, incarnata da Don Chisciotte, è condannata al delirio e alla
follia);
 quella moderna (nell'Ottocento), che incrina e rompe l'impeccabile "trasparenza" della ragione classica
(della cui crisi è incarnazione l'opera di De Sade), manifestandosi come produzione di pulsioni e
desideri.
A differenza delle strutture invarianti di Lévi-Strauss, queste "strutture epistemiche" sono storicamente
determinate, modelli capaci di durare solo per un determinato periodo e soggetti, poi, a rotture radicali.
L'ultima epistéme presenta inoltre un aspetto paradossale. Difatti, la crisi della razionalità classica costringe
a riferire il significato di una realtà ad "altro", cioè a un "impensato", a un' “essenza” nascosta, mai
completamente esprimibile da parte dell'intelletto. La coscienza moderna è costretta a ricondurre il
"senso" di ciò che rivela a qualcosa di segreto, destinato a rimanere nascosto. È quanto accade, ad
esempio, con la dottrina kantiana della cosa in sé o con la concezione freudiana dell'inconscio: l'analisi del
significato, in queste teorie, conduce sempre verso un che di invisibile e nascosto.
Anche la nozione di "Uomo", lungi dall'essere il fondamento di ogni cultura, è un concetto cui conduce la
vana ricerca dell'impensato: di volta in volta chiamato "essenza", "anima" o "sessualità".
La conclusione de Le parole e le cose richiama l'annuncio nietzscheano della "morte di Dio" per affermare provocatoriamente - che oggi si dovrebbe parlare piuttosto della "morte dell'Uomo": così l'uomo, cioè un
concetto che è solo un' "invenzione di cui l'archeologia del nostro pensiero mostra la data recente",
verrebbe "cancellato, come sull'orlo del mare un volto di sabbia". Ma qual è, dopo "la morte di Dio e
dell'Uomo", il nuovo orizzonte del sapere? La domanda, in Le parole e le cose, resta come sospesa, senza
delineare il profilo di orizzonti alternativi.
Genealogia e microfisica del potere
Alla fine degli anni Sessanta, con Archeologia del potere, Foucault avvia un'indagine che esce dall'orizzonte
tematico e metodologico dello Strutturalismo.
Egli si avvale ora del metodo genealogico di Nietzsche, ritenuto capace di smascherare l'inganno connesso
al mito delle origini. All' "origine" di tanti valori non vi è alcun significato ideale, ma solo un caos conflittuale
di istinti, interessi eterogenei e strategie di assoggettamento, che possiamo ritrovare andandoli "a cercare
là dove sono, frugando nei bassifondi”.
La genealogia insegna a partire non da concetti, da connessioni formali che strutturano la logica del
discorso, ma da "fatti", "relazioni materiali", "pratiche". Foucault studia così la microfisica del potere, cioè il
reticolo di rapporti fra la molteplicità di centri di forza che costituisce il potere autentico. Si tratta di
un'analisi innovativa che invece di soffermarsi sui caratteri generali dell'agire politico e sociale, delle
istituzioni e dei processi in cui si determina, cerca di individuare le "pratiche di potere" concretamente
operanti nelle "microstrutture" (scuole, carceri, manicomi, ecc.): una rete di strategie che "attraversa i
corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi".
Il potere, in questa prospettiva, non è identificabile con un'entità centrale e con modelli di intervento solo
repressivi e punitivi, ma si disloca in varie istanze e sedi (cliniche, prigioni, scuole...), nelle quali alcune
funzioni sociali fondamentali (curare, punire, educare...) si traducono in forme e meccanismi di censura e
gratificazione, in modalità di conquista del consenso, su cui soprattutto (più ancora che sulla coazione e
repressione diretta) si basa l'esercizio del potere, il quale ha bisogno della complicità dei ceti subalterni,
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cioè della loro docilità. Questo meccanismo vale per l'istituzione psichiatrica, per l'istituzione scolastica e
per l'istituzione militare, organizzate secondo schemi disciplinari funzionali alla riproduzione del potere
moderno.
Secondo Foucault, mediante la genealogia è possibile ricostruire analiticamente l'origine effettiva dei
microsistemi di potere, smascherarli, e restituire voce all'altra" umanità, cioè agli esclusi, ai vinti, ai
"dannati" della storia: egli intende promuovere proprio una lotta contro i poteri diffusi (scuole, carceri,
manicomi, ecc.) e il dominio che essi esercitano sugli individui. A queste sue idee si è in parte ispirata la
"contestazione" giovanile e studentesca nel 1977.
In Sorvegliare e punire (1975) Foucault analizza in particolar modo l'istituzione carceraria, in quanto,
nell'epoca contemporanea, essa rientra in una più ampia strategia di produzione di individualità ritenute
omogenee ai dispositivi di potere. Egli assume il Panopticon, il modello di carcere ideale progettato dal
filosofo utilitarista Jeremy Bentham, come metafora della società contemporanea, in cui gli individui
agiscono non secondo il loro interesse, ma obbedendo agli interessi di chi comanda, anche senza
l'intervento di ordini, minacce o azioni repressive esplicite. Nel Panopticon, infatti, il sorvegliante può
vedere sempre i condannati, senza essere a sua volta mai visto. Dal momento in cui i condannati sanno di
poter essere osservati in qualsiasi momento, la torre di sorveglianza potrà anche essere affidata a un
bambino o a un'idiota, oppure addirittura essere lasciata incustodita, ma il risultato sarà sempre il
medesimo, e sempre efficace: i condannati finiranno per sorvegliare se stessi, adeguando il loro
comportamento a ciò che è ordinato dal potere.
In Foucault il potere non si configura più - marxisticamente - come "sovrastruttura", ma si delinea come
una vera e propria struttura, da cui dipende la stessa economia; è lo stesso potere a produrre sapere, cioè
scienza e verità, a dare forma alla soggettività. Ogni società ha la sua politica generale della verità, cioè
pratiche discorsive e modelli di sapere a cui attenersi. Scienza e ideologia sono interconnesse, fra loro
compenetrate.
La "biopolitica"
Negli ultimi anni, nei tre volumi della Storia della sessualità, Foucault si occupa del problema della
trasformazione degli individui da oggetti delle tecniche del potere a soggetti, attraverso nuove forme di
organizzazione dell'esistenza, nuovi stili di vita.
Egli afferma che l'argomento della sua opera non è il potere, ma il modo in cui gli uomini "diventano" e
"vengono resi" soggetti. La nozione di soggetto possiede infatti un duplice significato: "soggetto" è chi è
capace di agire e pensare autonomamente, ma anche chi viene assoggettato (ossia "reso soggetto"). La
filosofia idealistica considera solo il primo significato, assumendo il soggetto come un "primo", mai come
un "prodotto". Invece, secondo Foucault, si tratta di pensare entrambi i lati del processo: da un lato la
"soggettività", il fatto che i soggetti hanno sempre facoltà di scelta, in quanto "esseri pensanti"; dall'altro la
"soggettivazione", ossia il fatto che quella stessa facoltà di scelta è sempre il risultato determinato di un
processo, un prodotto. Oggetto della ricerca divengono quindi i molteplici modi in cui i soggetti vengono a
costituirsi attraverso pratiche di soggettivazione.
Foucault parla, a questo proposito, di biopolitica, termine con cui descrive come il potere si applichi
direttamente alla vita delle popolazioni. Nelle società liberali il baricentro del potere si sposta dallo Stato
alla società, diventa potere diffuso, flessibile e capillare, pervasivo, che evita di "governare" troppo, poiché
riconosce un’autonomia del soggetto, ma lo induce a fare ciò che il potere stesso vuole. Si tratta di una
società "che può funzionare solo nella misura in cui c'è effettivamente un certo numero di libertà" (di
mercato, proprietà, discussione, ecc.). In tal senso, commenta la studiosa francese Judith Revel, "l'analisi
foucaultiana distrugge l'idea di un confronto diretto tra potere (un potere concepito con la P maiuscola,
come un'entità) e libertà (come orizzonte assoluto). Perché ci sia potere, ci vuole libertà e non c'è libertà
che si eserciti senza potere".
Il soggetto, il "sé" (ciò che ciascuno di noi è), non è dunque una radice nascosta. ma un prodotto storico,
realizzato mediante "pratiche", "tecnologie del sé", che è possibile individuare nella storia della sessualità,
della religione, della politica. In Foucault, pertanto, la domanda classica: "Chi siamo?" si trasforma in quella:
"Cosa vogliamo fare di noi stessi?", con la quale si pone il problema di come gli esseri umani possano
esercitare la loro libertà senza essere più assoggettati a un potere.
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CLAUDE LE VI-STRAUSS, STRUTTURA E PROCESSO
Nei due brani che seguono — tratti da Antropologia strutturale e da I limiti del concetto di struttura in etnologia - LéviStrauss definisce la nozione di struttura e riconduce l'insieme delle trasformazioni cui è soggetta una "cultura" (in
senso antropologico) a regole che appartengono alla cultura stessa in quanto "struttura".
Secondo Lévi-Strauss la struttura sociale: a) non si riferisce alla realtà empirica ma ai modelli che la descrivono; b) ha il
carattere di un sistema; c) non si rivela all'osservazione dello storico, ma a quella dell'etnologo.
Il principio fondamentale è che il concetto di struttura sociale non si riferisca alla realtà empirica, ma ai
modelli costruiti in base ad essa. [1] Risulta quindi chiara la differenza fra due concetti tanto vicini da
essere stati spesso confusi, quelli cioè di struttura sociale e di relazioni sociali. Le relazioni sociali sono la
materia prima impiegata per la costruzione dei modelli che rendono manifesta la struttura sociale. In
nessun, caso, quindi, quest'ultima può essere identificata con l'insieme delle relazioni sociali, osservabili in
una data società. Le ricerche di struttura, non rivendicano una sfera propria, tra i fatti di società;
costituiscono piuttosto un metodo suscettibile di essere applicato a diversi problemi etnologici, e
assomigliano a forme di analisi strutturale in uso in campi differenti.
Si tratta allora di sapere in che cosa consistano quei modelli che sono l'oggetto peculiare delle analisi
strutturali. Il problema non è etnologico, ma epistemologico, poiché le definizioni che seguiranno
prescindono dalla materia prima delle nostre ricerche. Pensiamo infatti che, per meritare il nome di
struttura, i modelli debbano soddisfare esclusivamente a quattro condizioni.
In primo luogo, una struttura presenta il carattere di un sistema. [2] Essa consiste in elementi tali che una
qualsiasi modificazione di uno di essi comporti una modificazione di tutti gli altri.
In secondo luogo, ogni modello appartiene a un gruppo di trasformazioni, [3] ognuna delle quali
corrisponde a un modello della stessa famiglia, in modo che l'insieme di tali trasformazioni costituiscano un
gruppo di modelli.
In terzo luogo, le proprietà indicate qui sopra permettono di prevedere come reagirà il modello [4] in caso
di modificazione di uno dei suoi elementi.
Infine, il modello deve essere costruito in modo tale che il suo funzionamento possa spiegare tutti i fatti
osservati. [5]
1. Il concetto di struttura non si riferisce alla realtà empirica,
ma ai modelli costruiti in base al materiale empirico. LéviStrauss, ad esempio, distingue nettamente il campo delle
relazioni sociali, conoscibili empiricamente, da quello della
struttura sociale vera e propria, che emerge dall'analisi dei
modelli.
2. Il sistema è un insieme di relazioni fra elementi
"covarianti", tali cioè da subire una variazione in presenza
della variazione di uno soltanto di essi.
3. Un modello descrive un sistema caratterizzato da un
ordine interno e da determinate relazioni tra i suoi elementi.
I mutamenti temporali introducono "trasformazioni nelle
relazioni costituenti un sistema o oscillazioni di queste
trasformazioni intorno al limite costituito dal sistema
stesso". Ogni trasformazione configura il sistema secondo un
modello. Al gruppo delle trasformazioni compatibili con il
sistema corrisponde un gruppo di modelli della stessa
famiglia. Dall'analisi di tali modelli emerge la struttura.
4. Il modello stesso lascia intravedere quale combinazione
potrà realizzarsi ove sia modificato anche uno solo degli
elementi che lo costituiscono.
5. Il modello deve esser tale da poter spiegare l'insieme dei
dati empirici che costituiscono una realtà "culturale",
interpretandoli come possibili varianti di una stesso sistema.
Certo non intendo respingere la nozione di processo, né contestare l'importanza delle interpretazioni
dinamiche. Mi sembra soltanto che la pretesa di condurre in modo solidale Io studio dei processi e quello
delle strutture derivi, almeno in antropologia, da una filosofia ingenua, che non tiene conto delle particolari
condizioni in cui operiamo. Si sono dovuti aspettare gli antropologi per scoprire che i fenomeni sociali
obbedivano ad assetti strutturali. La ragione è semplice: le strutture si rivelano solo ad un'osservazione
esercitata dall'esterno. [6] Questa, inversamente, non può mai cogliere i processi, i quali non sono oggetti
analitici, bensì il modo peculiare in cui una temporalità è vissuta da un soggetto. Vale a dire che non esiste
processo se non in un soggetto impegnato nel suo divenire storico. [...]
Ma gli storici lavorano sulla base di documenti forniti da testimoni, essi stessi membri del gruppo studiato;
mentre l'etnologo è il suo solo testimone, e un testimone, per ipotesi, estraneo al gruppo. All'uno, quindi, il
cambiamento, all'altro le strutture [7] — senza dimenticare che uno storico può, qualche volta, lavorare da
etnologo, e un etnologo da storico —; ma i metodi, sì, sono complementari, [8] nel senso che i fisici danno a
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questo termine: cioè non si può, insieme e contemporaneamente, definire con rigore uno stadio A e uno
stadio B (cosa possibile solo dall'esterno e in termini strutturali) e rivivere empiricamente il passaggio
dall'uno all'altro (che sarebbe il solo modo intelligibile di capirlo). Anche le scienze dell'uomo hanno i loro
rapporti d'incertezza.
6. Mentre un processo sociale può essere colto solo
dall'interno, ossia dal punto di vista di un soggetto che lo
vive, una struttura sociale si rivela solo ad un approccio
come quello dell'etnologo, che rispetto ai fenomeni sociali
assume un punto di vista esterno, analitico.
7. Nei confronti di un fenomeno come il passaggio di una
società da uno stadio A a uno stadio B, sono possibili due
approcci e due scienze complementari: l'approccio "interno"
dello storico, che si avvale di testimoni appartenenti alla
società oggetto di studio, e l'approccio "esterno"
dell'etnologo, che è estraneo a quella società.
8. A proposito dell'impossibilità di adottare, nello stesso
tempo, un'analisi strutturale ed una storica, Lévi-Strauss
richiama il principio di complementarità del fisico Niels Bohr,
secondo cui nella fisica delle particelle possono essere
adottati — di volta in volta ma non contemporaneamente —
i due modi alternativi di descrivere la realtà subatomica,
quello corpuscolare e quello ondulatorio, poiché ciascuno
consente di cogliere un aspetto diverso della realtà.
MICHEL FOUCAULT, IL SOGGETTO NASCE COME ESCLUSIONE DELLA FOLLIA
Come Nietzsche e Heidegger, Michel Foucault critica l'idea del soggetto che è alla base del pensiero moderno. La
nozione di soggetto nasce da una rimozione, anzi da una esclusione: quella della devianza, della follia, operata nel
Seicento, nell'età del cogito cartesiano, quando la follia è diventata "malattia'. Tutto ciò che non rientrava nei canoni
della razionalità scientifica è stato escluso, punito, segregato e sorvegliato.
Secondo Foucault: a) nella cultura del Rinascimento vi era una circolarità fra ragione e follia; b) la rimozione della follia
è stata compiuta dal cogito cartesiano; c) il cogito ha fondato la soggettività e la razionalità moderne.
La follia diventa una forma relativa alla ragione, o piuttosto follia e ragione entrano in una relazione
eternamente reversibile che fa sì che ogni follia ha la sua ragione che la giudica e la domina, e ogni ragione
la sua follia nella quale essa trova la sua verità derisoria. Ciascuna è la misura dell'altra, e in questo
movimento di riferimento reciproco esse si respingono l'un l'altra, ma si fondano l'una per mezzo dell'altra.
[...]
Perché se la ragione esiste, essa consiste proprio nell'accettare questo cerchio continuo della saggezza e
della follia, [1] nell'essere chiaramente coscienti della loro reciprocità e della loro impossibile separazione.
[...] L'età classica ridurrà al silenzio, con uno strano colpo di forza, la follia, le cui voci erano appena state
liberate dalla Renaissance, ma la cui violenza era già stata dominata. Nel cammino del dubbio, Descartes
incontra la follia accanto al sogno e a tutte le forme d'errore. [2] [...] Ma la follia è esclusa dal soggetto che
dubita. Come ben presto sarà escluso che egli non pensi e non esista. [...] Così il rischio della follia è
scomparso dall'esercizio stesso della ragione. Quest'ultima è ridotta a un pieno possesso di se stessa, in cui
non può incontrare altre insidie che l'errore, altri pericoli che l'illusione. [...] Il procedere del dubbio
cartesiano sembra testimoniare che nel XVII secolo il pericolo si trova scongiurato e che la follia viene posta
fuori dal dominio di pertinenza nel quale il soggetto detiene i suoi diritti alla verità: quel dominio che per il
pensiero classico era la ragione stessa. Ormai la follia è esiliata. Se l'uomo può sempre essere folle, il
pensiero, come esercizio della sovranità da parte di un soggetto che si accinge a percepire il vero, non può
essere insensato. Viene tracciata una linea di separazione che renderà ben presto impossibile l'esperienza,
così familiare alla Renaissance, di una ragione sragionevole e di una ragionevole sragione. Fra Montaigne e
Descartes si è prodotto un avvenimento: qualcosa che riguarda l'avvento di una ratio. [...]
Ma una storia di una ratio come quella del mondo occidentale è ben lontana dall'esaurirsi nel progresso di
un "razionalismo"; essa è costituita, in parte altrettanto grande, anche se più segreta, dal movimento con
cui la sragione è sprofondata nel nostro suolo, per sparirvi senza dubbio, ma per prendervi radice.
1. Nel Rinascimento la divisione fra ragione e follia non era
così netta. L'inquietudine per la presenza della non-ragione,
non impediva la sua accettazione, o addirittura la
raffigurazione del folle, del "grullo", come di "colui che
detiene la verità".
2. Il cogito cartesiano spazza via l'idea della complementarità
fra ragione e follia che — pure — era emersa anche nella
riflessione del dubbio. Al "grande internamento" dei folli nei
manicomi corrisponde l'atto teoretico di esclusione della
non-ragione da parte di Cartesio.
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