I silenzi di - Confindustria Modena

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I silenzi di - Confindustria Modena
Cultura | Un americano a Bologna
Fino al 24 luglio Palazzo Fava ospita
una sessantina di opere provenienti dal Whitney
Museum of American Art di New York
I silenzi di
Edward
Hopper
A
chi (o a che cosa) starà pensando
quella ragazza? Cosa ci sarà oltre
quella finestra? Abiterà qualcuno
in quel faro solitario? E quante vite, quanti
segreti, quanti desideri si nascondono nei
palazzi di città senza nome? Davanti a ogni
opera di Edward Hopper fioriscono sempre
una, dieci, cento domande. «Perché Hopper
ha saputo anche descrivere il silenzio»,
spiega Barbara Haskell, curatrice di dipinti
e sculture del Whitney Museum of American Art di New York, l’istituto culturale
che custodisce il maggior nucleo di lavori dell’artista (circa 2.700 fra tele, disegni e incisioni) per lascito testamentario della moglie Josephine. Edward Hopper (18821967), amatissimo, inconfondibile, iconico,
«è stato il primo pittore del ‘900 autenticamente americano», osserva il critico d’arte
Luca Beatrice, «e ha influenzato in profon-
70 OUTLOOK - MAGGIO/GIUGNO 2016
È stato il primo pittore
del Novecento
autenticamente
americano. Dal carattere
schivo e introverso,
Hopper è diventato
ben presto famoso
al di là dei confini
nazionali.
Per la sua capacità
di raccontare
le emozioni
con un’intonazione
fortemente
contemporanea.
L’uomo di oggi
si riconosce
nell’impressione
di solitudine
anche in mezzo alla folla
che si respira
nelle atmosfere
e nei personaggi
delle sue tele
di Stefano Marchetti
Edward Hopper,
«Second Story Sunlight», 1960, oil on canvas.
Whitney Museum of American Art, NY;
purchase, with funds from the Friends
of the Whitney Museum of American Art
Cultura | Un americano a Bologna
Edward Hopper
è talmente
inconfondibile
e iconico
che si può parlare
di uno stile
e di un linguaggio
«hopperiano».
Che continua
ad affascinare
e talora
a inquietare:
i suoi quadri
ci parlano
e ci interrogano,
come se
riuscissero
a interpretare
al meglio anche
i mille dilemmi
del nostro tempo
dità la cultura, ma soprattutto la “visione” del secolo
scorso». Al punto che, aggiunge, possiamo parlare di
uno stile e di un linguaggio «hopperiano», proprio come
del cinema felliniano o dell’arte duchampiana. Le atmosfere di Hopper continuano ad affascinarci e talora a
inquietarci: i suoi quadri ci parlano e ci interrogano, come se riuscissero interpretare al meglio i mille dilemmi
anche del nostro tempo.
A sei anni dalle mostre di Milano e Roma, la primavera
di Bologna ha riportato Hopper in Italia. Una sessantina di opere, fra cui alcuni capolavori (come «Soir bleu»
del 1914 e «Second Story Sunlight» del 1960) e vari
studi che confermano lo straordinario talento dell’autore, ci accolgono nelle storiche sale di Palazzo Fava,
nell’abbraccio degli affreschi dei Carracci, per un’attesa retrospettiva, organizzata da Arthemisia Group con
la Fondazione Carisbo e Genus Bononiae. Caratteristica
essenziale di questo percorso (curato da Barbara Haskell e Luca Beatrice) è che tutte le opere esposte provengono appunto dal Whitney Museum, e in sei sezioni
attraversano l’intero arco temporale della produzione di
Hopper, dagli acquerelli parigini al periodo classico
degli anni ’30, ’40 e ’50, fra New York e la penisola di
Cape Cod nel Massachusetts, fino alle immagini degli
ultimi anni, sempre con quel taglio fotografico e quello
sguardo immediatamente riconoscibili. Per Hopper, la
pittura era in effetti una forma di narrazione: «Se potessi dirlo a parole, non ci sarebbe alcun motivo per dipingere», confidava. «Hopper è estremamente americano, soprattutto per il senso di onestà e di semplicità che
è tipico del nostro Paese», fa notare Barbara Haskell.
Edward Hopper,
«Soir Bleu», 1914, oil on canvas.
Whitney Museum of American Art, NY;
Josephine N. Hopper Bequest
Edward Hopper,
«South Carolina Morning»,
1955, oil on canvas.
Whitney Museum of American Art, NY;
given in memory of Otto L. Spaeth
by his family
Nelle immagini, a sinistra,
un momento dell’inagurazione
della mostra nelle sale
di Palazzo Fava a Bologna
72 OUTLOOK - MAGGIO/GIUGNO 2016
Cultura | Un
Edward Hopper,
«Summer Interior»,
1909 circa,
oil on canvas.
Whitney Museum
of American Art, NY;
Josephine N. Hopper
Bequest
Edward Hopper,
«Le Bistro
or The Wine Shop»,
1909, oil on canvas.
Whitney Museum
of American Art, NY;
Josephine N. Hopper
Bequest
Al richiamo
delle grandi città
Hopper preferiva
gli scorci
più anonimi
della provincia.
«Con un’auto
si mise
a percorrere
le strade
meno battute,
per trarne spunti
e suggestioni»,
ricorda Luca
Beatrice,
che insieme
a Barbara Haskel
ha curato
la mostra
«Ma è anche un artista amato ovunque per la sua capacità di prendere l’universalità delle sensazioni e trasporle nel mondo moderno. È stato il primo artista contemporaneo che è riuscito a dare l’impressione della
solitudine anche in mezzo alla folla».
Hopper nacque in una piccola cittadina dello Stato di
New York, e nella metropoli studiò illustrazione e pittura alla New York School of Art, con i maestri William
Merritt Chase e Robert Henri. È di quell’epoca il famoso autoritratto su fondo scuro che apre la mostra. Aveva 24 anni quando attraversò per la prima volta l’Atlantico per recarsi in Europa e, come tanti altri artisti
della sua epoca, fece tappa a Parigi: «Certamente il suo
apprendistato fu legato alla pittura impressionista, in
particolare Manet e Degas», annota Beatrice. Nella Ville Lumière tornò più volte in quegli anni, e la mostra si
apre proprio fra le luci dei panorami parigini, l’«Après
midi de printemps» del 1906, «Le pont des Arts» del
1907, «Le Pavillon de Flore» del 1909, ma anche le scale
del 48 di Rue de Lille, non lontano dal Louvre, e quel «Bistro» affacciato sulla Senna, dove compaiono un uomo e
una donna seduti al tavolino, un incontro di sguardi,
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ma forse non di parole. La palette è chiara, quasi trasparente, la luce inonda il paesaggio, è un mondo quasi
sospeso. Al definitivo ritorno negli Stati Uniti, nel
1913, Hopper aveva ancora negli occhi quei luoghi e
quelle suggestioni. Se ne ritrova l’eco in «Soir Bleu» del
1914, uno degli olii più grandi mai realizzati dall’artista: tre tavolini sulla terrazza di un caffè, un Pierrot
pensoso, e di fronte a lui un uomo in alta uniforme,
accanto a una coppia elegante, e al centro, in piedi, una
prostituta dal trucco pesante. Pur nel clima salottiero
del caffè, nessuno di loro sembra parlare, anzi dal quadro ci arriva un senso di incombente solitudine e quasi
di ambiguità. Il dipinto non fu accolto con favore, anzi
suscitò perfino scandalo negli ambienti conservatori:
Hopper, schivo e taciturno, decise di non esporlo più,
arrotolò la tela e la mise in un angolo del suo studio. È
stata riscoperta soltanto dopo la sua morte. Ed è considerata un masterpiece, una pietra miliare.
Non amava frequentare il mondo dell’arte, e al richiamo attraente delle grandi città o dei grattacieli preferiva gli scorci più anonimi della provincia. «Ben presto
Hopper acquistò un’auto e si mise a percorrere le stra-
de meno battute, per trarne spunti e suggestioni», ricorda Luca Beatrice. Si è trovato dunque a correre da
solo: in un momento in cui le avanguardie rifiutavano
le figurazioni classiche (per spingersi poi fino all’action
painting), «il pittore che sceglieva di esprimersi fuori di
metafora, osservando ciò che vedeva e riportandolo sulla tela, avvertiva una condizione di solitudine culturale», prosegue il curatore. Hopper scelse appunto il realismo, nonostante potesse sembrare inattuale, fuori tempo: ma proprio questa sua capacità di cogliere ambienti, attimi e mondi a parte lo ha reso unico. «In lui si leggono i tratti e gli stereotipi del mito americano, ieri come oggi», viene rimarcato.
Fra i suoi soggetti preferiti ci sono gli interni di tranquilli appartamenti, uffici, tavole calde, sale di cinema,
scorci quasi intravisti attraverso le finestre. Ogni luogo
ci lascia immaginare una storia, dei pensieri. «Hopper
ha saputo catturare l’esperienza, il senso dell’introspezione e perfino dell’alienazione, fermando dei momenti
quasi in maniera tridimensionale», interviene Barbara
Haskell. Nei suoi quadri molti hanno ritrovato le parole del filosofo Waldo Emerson: «In ogni opera di genio
noi riconosciamo i nostri pensieri rigettati. Ritornano a
noi con una certa alienata maestà». Sono i pensieri della giovane seduta a terra, ai bordi del letto, in «Summer
interior» del 1909, oppure della ragazza in abito bianco
da danza (quasi una citazione da Degas) che vediamo
solo di spalle in «New York Interior» del 1921, come se
la stessimo spiando. «Nelle sue tele, Hopper mette in
discussione il sogno americano: ma nel rivelare la disillusione, indica la strada per una rinascita, per la conquista di un’esistenza più consapevole», è la riflessione
che accomuna Fabio Roversi Monaco, presidente di Genus Bononiae, e Leone Sibani, presidente della Fondazione Carisbo.
La mostra bolognese affronta compiutamente anche il
rapporto essenziale fra la pittura e l’opera su carta, disegni e incisioni. «I disegni di Hopper sono l’aspetto meno studiato di tutta la sua opera», rammenta Carter E.
Foster in un saggio nel catalogo edito da Skira. «Hopper aveva un’idea molto precisa di come dovesse essere
un’opera d’arte compiuta, senz’altro qualcosa di totalmente risolto, non una fase di un processo, e lo dimostrano i suoi “Record books”, i famosi taccuini che riem-
«Nelle sue tele,
Hopper mette
in discussione
il sogno
americano;
ma nel rivelare
la disillusione,
indica la strada
per una rinascita,
per la conquista
di un’esistenza
più consapevole»,
commenta Fabio
Roversi Monaco,
presidente
di Genus
Bononiae
MAGGIO/GIUGNO 2016 - OUTLOOK 75
Cultura | Passato e presente in Romagna
Edward Hopper,
«Apartment Houses,
East River»,
1930 circa,
oil on canvas.
Whitney Museum
of American Art, NY;
Josephine N. Hopper
Bequest
Alcuni
dei suoi lavori
più ammirati
sono presenti
a Palazzo Fava
attraverso
il disegno
preparatorio,
che permette
di evidenziare
il «perfetto
equilibrio grafico
tra invenzione
e realismo»,
dice ancora
Luca Beatrice
Piero
della Francesca
e la seduzione
dell’antico
piva insieme alla moglie Jo, dove abbozzò molte delle
opere che lo hanno reso famoso». Alcuni dei suoi lavori
più ammirati sono presenti a Palazzo Fava attraverso
il disegno preparatorio: nello studio per «Office at
night» del 1940 ritroviamo la sottile linea di erotismo
che corre fra la segretaria in piedi e il capufficio alla scrivania, mentre nel carboncino e nel gessetto dello «Study for Gas» rivediamo le celebri pompe di benzina lungo
una road to nowhere, una strada che sembra portarci
verso il nulla. Molto curioso è anche lo studio per «Girlie Show» del 1941, una delle opere più audaci, con la
ballerina nuda che torna in proscenio per la passerella
finale: Hopper prese spunto da uno spettacolo di burlesque a cui aveva assistito, e chiese alla moglie Josephine (che pure aveva già sessant’anni) di fargli da modella. «Davvero c’è un perfetto equilibrio grafico tra invenzione e realismo», dice ancora Luca Beatrice.
Hopper non si è mai occupato di fotografia: «Schizzi,
disegni, appunti a matita erano il suo modo per annotare e tenere a mente le cose che osservava», indica Barbara Haskell. Ma non c’è dubbio che la sua poetica abbia influenzato direttamente anche altre forme d’arte,
come il cinema, dove i suoi quadri sembrano prendere
vita: il pensiero corre, per esempio, alla «Finestra sul cortile» di Hitchcock, oppure a «Psycho», ma anche agli spazi metafisici di Michelangelo Antonioni. «Perfino Dario
Argento, in un suo film, ha ricostruito un bar ispirandosi al “Nighthawks” conservato a Chicago», aggiunge
76 OUTLOOK - MAGGIO/GIUGNO 2016
Beatrice. C’è un taglio cinematografico in «Night shadows», incisione del 1921, come se una macchina da
presa riprendesse dall’alto il passante solitario, investito da una luce che sferza l’oscurità. E si avverte il
clima noir di certi dipinti di Hopper anche nella letteratura, come nei romanzi di Raymond Chandler o di
Georges Simenon.
Non si sa se Hopper abbia mai incontrato Giorgio De
Chirico, anche se i loro anni parigini sono stati praticamente gli stessi: «Tuttavia mi sembra che fra loro le differenze siano più delle somiglianze. L’Hopper parigino
era ancora acerbo», risponde Beatrice. «E comunque
nelle opere di Hopper l’osservatore entra nella scena,
partecipa, mentre in De Chirico resta sempre al di fuori, all’esterno», aggiunge la curatrice del Whitney Museum.
È difficile non essere attratti o addirittura rapiti dal paesaggio (non solo fisico, ma anche psicologico) che Hopper ci propone nei suoi dipinti, dalle tinte del tramonto
a Cape Cod del 1934 così come dall’orizzonte di un mattino in South Carolina (1955), l’unico quadro in cui
dipinge una donna afroamericana. Ed è bello perdersi
nella luce bianca e intensa di «Second Story Sunlight»
del 1960, sognando magari di prendere il sole su quella
stessa terrazza: un sogno che in mostra si può anche
realizzare, grazie a un simpatico trucco multimediale
per cui i visitatori possono realmente immergersi nel dipinto. E diventare hopperiani per sempre.
•
Che si vogliano onorare o dissacrare
i maestri del passato e la loro eredità
sono sempre un riferimento. Lo dimostrano
due grandi mostre a Ravenna e Forlì
Musei
San Domenico
di Forlì
Di fianco al titolo:
Piero della
Francesca,
«Madonna
della Misericordia»,
1445-1462,
olio su tavola.
Museo civico
di Sansepolcro
Giovanni Bellini.
«Compianto»,
1473-1476,
olio su tavola.
Musei Vaticani
L
’antico non si può chiudere in un cassetto,
come se non fosse mai esistito. L’antico insegna, guida, modella. E in un’opera d’arte c’è
sempre «quel non so che di antico e di moderno»,
come sentenziava Carlo Carrà nel 1919. Spingendoci verso la Romagna, due grandi mostre ci invitano a riflettere, appunto, sull’insegnamento che i
maestri del passato hanno lasciato ai loro eredi,
anche a quelli che sono arrivati molti secoli dopo di
loro. Al centro dell’«Indagine su un mito» che ci propongono fino al 26 giugno i Musei San Domenico di
Forlì, c’è la figura eccelsa e misteriosa di Piero della
Francesca, «il monarca della pittura», come lo definì
il suo conterraneo Luca Pacioli. Nacque attorno al
1415 a Sansepolcro, morì il 12 ottobre 1492, proprio
il giorno in cui Colombo scopriva l’America. Matematico rigoroso, profondo ricercatore, è considerato
l’inventore della prospettiva: si formò alla scuola di
Domenico Veneziano, fu incantato dai colori del
Beato Angelico, poi lavorò per le corti più prestigiose
MAGGIO/GIUGNO 2016 - OUTLOOK 77
Cultura
della sua epoca, e con la plasticità delle sue
figure seppe anche conquistare il nord e il
sud dell’Italia, Giovanni Bellini e Antonello
da Messina. Ma dopo la sua morte, presto
cadde nell’oblio: è stato riscoperto solo dall’800, poi soprattutto nel ’900, grazie agli
intellettuali inglesi del gruppo di Bloomsbury e, in Italia, alla monografia di Roberto Longhi.
È diventato un artista di culto, un mito per
quella modernità che tornava a guardare
alla storia. «Perché finalmente Piero della
Francesca è sembrato la dimostrazione perfetta, antica e perciò profetica, dell’idea che
la pittura, prima di essere discorso, sia
armonia di colori e di superfici», annota
Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, presidente del comitato scientifico
della mostra. A Forlì dunque alcune opere di
Piero della Francesca, come «Sant’Apollonia» dalla National Gallery of Art di
Washington o il «San Gerolamo e un devoto»
dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia, si
accostano a tesori del suo tempo e della
generazione successiva, opere di Francesco
del Cossa e di Melozzo da Forlì, di Perugino,
le tarsie lignee di Cristoforo da Lendinara e
la «Pietà» di Bartolomeo Bonascia dalla
Galleria Estense di Modena.
Ma l’obiettivo è puntato in particolare sugli
echi della pittura di Piero che tornano a distanza di secoli, in Cézanne e Seurat, in
Giorgio Morandi e Virgilio Guidi, fino a Balthus e a Hopper. E in questo dialogo ideale
spicca il confronto (sempre citato, eppure
mai realizzato dal vivo prima d’ora) fra la
«Madonna della Misericordia» di Piero, proveniente dal Museo Civico di Sansepolcro, e
la «Silvana Cenni» che Felice Casorati
ritrasse negli anni Venti del secolo scorso: la
stessa composizione, la stessa solenne
austerità, per rammentarci che è difficile
staccarsi dalla strada maestra.
Questa infinita «Seduzione dell’antico» ci
sorprende e ci ammalia anche fra le 150
opere del ’900 in mostra al Mar, il Museo
d’arte della città di Ravenna (sempre fino al
26 giugno). «Abbiamo voluto sfatare alcuni
pregiudizi, come quello che fra l’avanguardia e la controavanguardia ci fosse stata
una frattura. È vero semmai il contrario: gli
Museo d’Arte della città di Ravenna
Enrico Baj
«La vendetta della Gioconda», 1965,
collage su tavola.
Vergiate, Archivio Baj
scambi reciproci sono sempre stati numerosi e fruttuosi», spiega il curatore Claudio Spadoni. L’antico resta
sempre e comunque un punto di riferimento, sia che lo
si riprenda nel solco della tradizione, sia che lo si voglia
soltanto citare o addirittura dissacrare. E allora, ecco
la colossale Venere di Milo che Salvador Dalì ha trafitto
di cassetti, e «L’envers de la peinture», ovvero la
Gioconda a cui Marcel Duchamp nel 1955 aggiunse
baffi e pizzetto, ma anche il composto recupero neoclassico di Gino Severini e (al contrario) i turbamenti barocchi di Scipione, Lucio Fontana o Leoncillo. Da Arturo Martini a Man Ray, da Giorgio De Chirico alla
somma di distruzioni della «Testa di uomo barbuto» di
Pablo Picasso, fino alla «Venere degli stracci» di
Michelangelo Pistoletto e alla Venere di Botticelli che
Andy Warhol ha portato nell’universo pop: corsi e ricorsi, nell’inesauribile viaggio della fantasia.
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