1956/`58 Il giorno che Maro è venuto al mondo, era una calda

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1956/`58 Il giorno che Maro è venuto al mondo, era una calda
1956/’58
Il giorno che Maro è venuto al mondo, era una
calda mattina di luglio. Un parto travagliato e doloroso per la povera Mà, tra l’afa asfissiante e l’imperizia di una levatrice alle prime armi.
La piccola casa a due piani nel piccolo sobborgo alle pendici della piccola città di provincia aveva di fronte, dall’altra parte della strada, un grande
anfitea­tro romano. O meglio, i resti di un grande anfiteatro a testimonianza della grandezza di un tempo
che quel luogo aveva vissuto.
Ora di grande c’era solo il frastuono causato dai
frequentissimi incidenti d’auto che accanto a quella
casa, posta in mezzo a un trivio quanto mai pericoloso, erano soliti verificarsi. In questi frangenti, Mà
si tappava in casa, terrorizzata, alla possibile vista
del sangue; Bà usciva, quando c’era, ad aiutare i
malcapitati, per niente impressionato dai corpi straziati e, non di rado, morenti.
Il piccolo Maro, fin dai primi minuti, si era mostrato insofferente, vuoi per il gran caldo, vuoi per
il poco latte che aveva trovato nelle tette di Mà, che
era in ritardo con la cosiddetta calata.
Piero e l’amico Umbertino guardavano i due con
aria attenta.
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Giuseppe Pallotto
Per il primo, Maro era il fratello tanto atteso, per
il secondo una possibilità che tardava ad avverarsi.
– Mi madre mica se decide a famme ’sto fratello
– si lamentava Umbertino – vorrei proprio sapè che
aspetta...
– Se deve mette a letto. Che non lo sai che le
mamme pè fa li fiji devono stà a letto anche tre giorni!! – lo incalzò Piero.
– Ma se mi madre è stata a letto un mese!! Non
te ricordi l’anno scorso... quasi un mese è stata a
letto!!!
Era proprio così. La madre di Umbertino s’era
fatta quasi quaranta giorni di letto per una malattia
infettiva dolorosa e fastidiosa. Ma per i due bimbetti la gravidanza era ancora tutto un mistero.
Messo alle strette, Piero aveva fatto ricorso alla sua
fervida immaginazione, ribattendo con foga all’amichetto: – Però tù madre se moveva tutta... mica
le teneva ferme le gambe, come fa mì madre. Guarda... guarda come sta immobile!!
Mà si mordeva le labbra per non ridere e tenere a
bada il dolore causato dai numerosi punti di sutura
sull’addome. La vista di quelle due faccette che la
fissavano incuriosite era uno spettacolo già comico
così; lo scambio di battute tra i due rendeva il tutto quasi irresistibile. Non le restava che guardare
il soffitto, sperando che quella buffa accoppiata togliesse al più presto il disturbo.
Intanto s’era fatta ora di pranzo e dalla finestra
cominciava a entrare il consueto vocio dello sparuto gruppo delle altre mamme delle case vicine che,
avendo udito il lontano rombo della grossa moto di
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Una vita a tutto gas
Bà ormai in arrivo, raccoglievano i vari figlioletti
che giocavano in strada onde evitare che qualcuno
di loro finisse sotto le ruote della potente Guzzi 500.
Bà aveva sempre un regalino per il piccolo Piero.
Gli affari, il piccolo commercio di pollame, andava
più che bene e poteva permettersi anche il superfluo.
Certo, allora quasi tutto veniva considerato superfluo,
a parte una decina di cose veramente indispensabili.
Piero non aveva ancora capito che quel frugoletto che strillava senza pausa ormai da qualche ora
accanto a Mà, era colui con cui avrebbe dovuto dividere i regali e le attenzioni dei propri genitori. Per il
momento, costituiva unicamente un motivo di vanto
nei confronti del piccolo Umbertino, che non aveva
ancora fratelli. E infatti, l’amichetto aveva pensato
di prendersi una piccola rivincita chiedendo a Piero, con voce indispettita: – Dì un po’ a tù madre de
daje la sisa, a tù fratello... che io già non lo sopporto
più...
***
Maro era un bel bambino solido e robusto. Non
particolarmente vivace, e tantomeno svelto. Trascorreva spesso lunghi minuti a osservare a bocca aperta
l’oggetto del suo interesse prima di mettersi in azione. Miopia e astigmatismo lo affliggevano già da
piccolissimo, ma solo a quattro anni Mà se ne sarebbe accorta, e fino ad allora Maro avrebbe mantenuto
quel suo atteggiamento imbambolato.
Quando però decideva di mettersi in azione, già
a due anni riusciva a essere devastante. Una mattina
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Giuseppe Pallotto
Mà aveva trascorso più d’un’ora a rovistare in tutta
la cucina alla ricerca di due grossi conigli da tre chili l’uno, ancora da spellare, che Bà aveva portato la
sera prima e improvvisamente spariti.
Piero aveva negato con troppo vigore di essere
stato lui, per non essere creduto. Poi, una piccola
scia di sangue, dall’altra parte della casa, aveva svelato a Mà dove erano finiti i roditori.
Pensare che fosse stato Maro a portarli lì era trop­
po inverosimile. Quando poi, alcuni giorni dopo, lo
aveva beccato mentre furtivamente svuotava boccioni pieni di vino dentro la tinozza dei panni da
lavare, si era resa conto di quanta forza e tenacia
avesse quel suo figlio silenzioso, che non voleva saperne di parlare.
Silenzioso era anche il pianto di Maro che, se sgridato o contrastato nelle sue intenzioni, si rifugiava
in un pianto muto e accorato al punto di rifiutarsi di
respirare. Vederlo diventare viola e agitarsi convulsamente era una cosa che gettava nello sconforto e
nell’impotenza il resto della famiglia. Non capitava
spesso, ma se capitava bisognava accontentarlo a
tutti i costi.
Come quel Natale del ’58 in cui aveva avuto in
regalo uno stupendo cavallo a dondolo in cartapesta.
Non aveva voluto saperne di salirci sopra; aveva afferrato un martello, in cantina, e preso a martellate
quell’affare dondolante che evidentemente non aveva riconosciuto essere simile ai graziosi cavallini
delle giostre su cui era già salito più volte. Il giorno
dopo, l’animale, sfondato in più punti, era stato immerso nella solita tinozza, stavolta piena d’acqua.
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Grande era stato il suo stupore nel vederlo gonfiarsi e poi sciogliersi lentamente. Comunque, la tinozza, con o senza acqua, rappresentava quasi sempre l’epilogo dei suoi giochi.
Per Maro, quindi, i primi tre anni di infanzia erano scivolati via tranquilli e beati. Le lunghe giornate estive nel prato soffice al centro dell’antico anfiteatro, davanti casa, erano quanto di più tranquillo
un bambino di quell’età potesse chiedere alla vita, e
lo spazio abbastanza grande da non costringere Mà
a frapporre ostacoli che limitassero i movimenti del
piccolo Maro, desideroso ogni giorno di scoprire
cose e spazi nuovi. Non di rado accadeva che, nei
pochi secondi in cui Mà lo perdeva di vista, intenta
a sfogliare le riviste tanto amate e unico diversivo
agli impegni quotidiani, Maro si fosse arrampicato
sulle pareti sbrecciate di uno dei tanti ruderi e restasse lì, magari a due metri di altezza, incapace di
scendere ma senza fiatare, aggrappato con forza e
per niente atterrito dall’altezza, solo contrariato dal
fatto di non riuscire a procedere oltre.
Piero, nel frattempo, aveva comunque fatto, di
necessità virtù. Non aveva più Mà tutta per sé e la
somiglianza fisica del fratellino a Bà era così evidente che quest’ultimo non poteva non dimostrare una naturale predisposizione verso lo stesso.
Però, tutto questo aveva aumentato la libertà di movimento per Piero che, quindi, si sentiva meno controllato e in condizione di scorrazzare dove fino ad
allora gli era stato impedito.
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