Algerino canzone carico

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Algerino canzone carico
Dall’Atlante agli Appennini
di Maria Attanasio illustrazioni di Francesco Chiacchio
orecchio acerbo
Dall’Atlante agli Appennini
Dall’Atlante agli Appennini
di Maria Attanasio
illustrazioni di Francesco Chiacchio
orecchio acerbo
© 2008 Maria Attanasio (testo) · © 2008 Francesco Chiacchio (illustrazioni) · © 2008 orecchio acerbo s.r.l. viale Aurelio Saffi, 54 - 00152 Roma
grafica orecchio acerbo · www.orecchioacerbo.com
orecchio acerbo
Prima parte
Uno
In piedi, con la sua lunga barba e il bastone accanto, Sidi Habibi sembra il vigile pastore della massa di dormienti accovacciati a
terra; ne sente il respiro rilassato in quella notte di vigilia, dopo
la lunga attesa dell’imbarco rimandato di giorno in giorno.
Ogni mattina, per un mese, la stessa domanda ai fiduciari del capitano: “Quand’è la partenza?” E sempre la stessa risposta: “Ne
aspettiamo altri. Lo sa lui il momento giusto”.
E più i nuovi venuti aumentano –ormai in cinquecento nei ristretti spazi del centro di raccolta– più la disperazione diventa
esplosiva. Costretti a fare i turni per dormire, e soprattutto tormentati dalla fame: un piccolo pane e una bottiglietta d’acqua a
testa per l’intera giornata.
Arrivato con il primo gruppo, Sidi Habibi esercita un’indiscussa
autorità su tutti, vecchi e nuovi venuti, da tutti unanimemente
delegato a garantire l’ordine in quella difficile e forzata convivenza: organizzare l’equa ripartizione del cibo che ogni mattina i fiduciari del capitano portano, ma non distribuiscono; scegliere
uomini di varie etnie per la ronda notturna, al fine di evitare furti
e violenze; e soprattutto sedare le frequentissime liti: chiusi sot9
tochiave, sarebbe bastato un piccolo incidente –una sigaretta lasciata accesa, una rissa– e nessuno sarebbe uscito vivo.
A farlo intervenire più di frequente sono soprattutto i ragazzini
che arrivano da soli –si danno spinte, schiamazzano, ascoltano
transistor e lettori cd a tutto volume– e i più sconsiderati tra loro:
i due inseparabili marocchini Fouad e Youssef, che poco dopo il
loro arrivo era riuscito a malapena a sottrarre al pestaggio; in quello spazio zeppo e ristrettissimo tiravano calci a una palla, trovata
chissà come, scavalcando e urtando chi capitava per riprenderla.
Presi in consegna da lui direttamente, sono diventati devotissimi
esecutori delle sue disposizioni e attentissimi ascoltatori delle sue
storie, rumorosamente annoiandosi però –loro e tutti quanti gli
altri ragazzini– ai suoi racconti di spiriti e sceicchi; vogliono
complicate storie d’amore, come quelle delle telenovele egiziane,
o avventurosi resoconti di viaggi nelle luccicanti città del sogno
europeo, ritrovandosi in quelle storie loro stessi attori in cammino verso quel sogno. E lui li accontenta dettagliando ogni cosa.
“Ci sei stato in tutti questi posti?” gli aveva domandato un giorno
Youssef. “Sono i luoghi e le cose –sono loro– a venire: la vita è raglio d’asino senza il cunto che la fa conoscenza” gli aveva risposto,
ripetendo la formula rituale con cui concludeva ogni racconto.
Tra eccitazione e disperazione sono passati più di trenta giorni.
E all’improvviso l’ordine del capitano –l’egiziano che ha organizzato il viaggio, ma che nessuno ha mai visto– “Domani all’alba la
partenza”; un intero giorno di esultanza collettiva, e di incontenibili escandescenze di Fouad e Youssef che ora dormono come
due cuccioli stanchi; Sidi Habibi immagina le forme dei loro
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corpi accanto a lui e l’energia buona dei volti nell’abbandono fiducioso al sonno. Che non può vedere: da moltissimi anni il
mondo è biancore di forme, parola.
Parola, soprattutto; perché di parola ha vissuto raccontando
nelle fiere e nei moussem di tutto il Marocco storie di demoni, di
uomini, di santi, ogni volta adattandole ai desideri concentrati
nel respiro eccitato e nel silenzio d’attesa del pubblico seduto in
cerchio attorno a lui.
Un lavoro che non cambierebbe con nessun altro. E che gli ha
anche consentito di sposare bene le tre femmine e far studiare il
maschio in Italia, dove dopo la laurea è rimasto a lavorare in un
importante studio di architettura. È stato lui a convincerlo a partire per l’Italia per curarsi meglio la brutta infezione, contro cui
da mesi inutilmente lotta, ed eventualmente valutare la possibilità di operarsi agli occhi. Ma stanco delle lungaggini burocratiche ha deciso di raggiungerla da clandestino; una decisione di
cui continua a pentirsi amaramente; invece di una settimana era
rimasto più di un mese in quel caseggiato vicino Tripoli, in attesa del pieno carico e del momento propizio per la partenza, in
una condizione di sostanziale prigionia, insieme ad altri cinquecento provenienti da tutta l’Africa.
“Finalmente arrivano...” mormora Sidi Habibi, sentendo un rumore di jeep e chiavistelli: in un attimo già tutti alzati, e pronti
alla partenza con i loro piccoli fardelli in mano.
Sono condotti in una baia profonda e solitaria; una nave, pronta
a salpare, li attende al largo. Gli assistenti alla partenza li invitano a starsene seduti sulla sabbia in attesa della barca che ve li tra13
sferirà. Restano ostinatamente tutti all’impiedi, disposti in una
lunga fila sulla battigia: gli occhi concentrati sul piccolo villaggio
di pescatori nella punta del promontorio, da cui deve arrivare la
barca, che dopo due ore però non è ancora arrivata.
Si diffonde la voce che non si parte più: l’imbarco è stato rimandato in attesa di un altro carico dalla Somalia; qualcuno propone di prendere in ostaggio gli assistenti del capitano, qualcun
altro di arrivare a nuoto alla nave, tutti comunque sono dell’opinione di resistere: meglio morire su quella spiaggia piuttosto che
ritornare al centro di raccolta.
E all’improvviso la vedono, la barca, piccola e lontana in fondo
al promontorio farsi sempre più vicina e grande, rivelarsi un capiente barcone: lì, ormai a pochi metri dalla spiaggia.
La lunga fila di migranti si concentra in un denso e caotico stormo; si slanciano tutti insieme correndo sull’imbarcazione, che
nell’impatto si schianta in un groviglio di corpi e assi di legno
galleggianti; un ragazzino claudicante e una senegalese –una che
tra le rimostranze generali cantava notte e giorno nenie alla neonata piangente– rimangono travolti; i corpi sono deposti poco
lontano sulla spiaggia.
Arriva un’altra barca: lo stesso accalcarsi disperato, lo stesso epilogo; altri due corpi schiacciati –un anziano e un ragazzo– che
sono deposti accanto agli altri.
Rimasto seduto ad aspettare che uno dei due ragazzi ritorni dalla
barca a prenderlo –“avrai il posto più comodo” gli aveva detto
Fouad correndo verso di essa– Sidi Habibi sente l’urlo di Youssef: chiede, sa.
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Si fa accompagnare dal ragazzo che, disteso accanto al corpo
senza vita dell’amico, nessuno riesce a smuovere.
Attorno ai morti si è formato un cerchio: alcuni piangono, altri
si affidano ad Allah, ringraziandolo per la scampata morte; i più
cercano inutilmente di convincere Youssef, che farfuglia cose
senza senso: che se ne vadano, li avrebbe raggiunti dopo, assieme a Fouad. Che l’amico suo era stanco, e si stava un pochino
riposando.
Due
L’esperienza della morte per Youssef era stata fino ad allora il ripetuto e dettagliato racconto di sua madre, che ascoltava con attenzione ma senza dolore; la rievocazione della morte del marito
che, tre giorni dopo il ritorno dall’Italia per le ferie, mentre la domenica tutti i parenti riuniti lo festeggiavano con un sontuosissimo cuscus, aveva reclinato la testa come per un improvviso
sonno. Morto. Di cent’anni. Lasciandola vedova a trent’anni,
con due figli piccoli –lui di cinque anni e Jamila di dodici– e
senza niente per mantenerli se non il rudere della casa, che il marito stava costruendo in economia. Che lei non avrebbe voluto
vendere, ma vi era stata costretta dopo la chiusura della fabbrica
di pantaloni dove era andata a lavorare; e un breve periodo di lavoro come femme de maison; con grande vergogna dei parenti,
che l’avevano obbligata a lasciarlo.
Youssef non aveva alcun ricordo di quel giorno, né alcun dispiacere per quella morte: solo l’invidia per i suoi compagni
che il padre l’avevano, e rabbia contro il suo, che li aveva lasciati in mezzo alla strada costringendo la madre ad andare a
lavorare in Italia al posto suo. Era stata una cugina, da anni si19
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stemata e sposata a Bologna, a farle sapere che se fosse riuscita
ad arrivare in Italia era già pronto un lavoro presso una famiglia di insegnanti, dove sarebbe stata al riparo da retate e polizia; la paga era buona e appena fosse uscito il soggiorno
avrebbe potuto richiamare Youssef per fargli continuare gli
studi in Italia.
La scuola era sempre stata il chiodo fisso di sua madre; anche
dopo la partenza per l’Italia aveva continuato a raccomandarglielo in ogni lettera: lo voleva istruito, suo figlio, che sapesse stare
nella società; non come lei, analfabeta, che si confondeva per
ogni cosa, costretta a ricorrere ai cugini per scrivere ai suoi figli.
Fino alla sparizione di sua madre Youssef c’era andato volentieri
–e con buoni risultati– a scuola; e sempre nello stesso banco insieme a Fouad: sia alle primarie che avevano frequentato nel loro
villaggio sull’altopiano ai margini dell’Atlante, sia nella scuola
per contabili che da qualche anno frequentavano a El Jadida.
Ma dopo l’incidente sull’autostrada che aveva sterminato tutta la
famiglia dei cugini, di sua madre –clandestina e sotto falso nome
in Italia– si era persa ogni traccia.
E vana era stata ogni ricerca: nessuna notizia della famiglia Purisi, presso cui la madre lavorava e abitava, trattata bene –diceva
nelle lettere– e amata come una figlia dall’anziana madre del professore; né, dopo la prima lettera, avevano più avuto alcuna risposta da parte di Tarek –un paesano, lontano parente dei cugini,
subentrato come affittuario nella loro casa– che si era impegnato
a rintracciare l’indirizzo della famiglia Purisi. Tra i paesani a Bologna correvano le più improbabili voci sulla scomparsa della
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madre: presa dalla polizia ed espulsa; ricoverata all’ospedale; felicemente in fuga con un uomo.
A più di un anno e mezzo dalla sparizione, tutti ormai la davano
per morta, tranne Youssef, certo invece che la madre, viva e disorientata, stesse aspettando che i suoi figli la trovassero.
Suo cognato Mohcine, nella cui casa era andato a vivere dopo il
mariage di Jamila, aveva però opposto un rifiuto senza appello
alla sua proposta di andare in Italia a cercarla, insistendo invece
perché, per rispetto della memoria della madre –certamente
morta, altrimenti avrebbe trovato il modo di farsi viva– continuasse gli studi; per i soldi non c’era problema: con quelli che la
madre, mese dopo mese, per due anni aveva mandato, avrebbe
potuto continuare fino al diploma e oltre; una fortuna, diceva
Mohcine, che a lui non era toccata, costretto fin da piccolo a lavorare come un asino per campare.
Ma Youssef aveva resistito. Invece di entrare a scuola, ogni giorno se ne andava con Fouad in una caletta riparata in fondo a una
falesia, dove restavano sdraiati per ore: nuotando, prendendo il
sole, ascoltando nella marea che lentamente ritornava dall’altra
parte dell’oceano il brusio di grattacieli, il ritmo accelerato di
New York, lì di fronte; ma era l’Italia la meta di ogni immaginato viaggio: “A cercare mia madre; che è viva, ne sono sicuro” diceva lui. “A togliere mio padre all’italiana, riportarlo a forza da
mia madre” aggiungeva Fouad.
Il primo tentativo di raggiungere l’Italia fu attraverso la Spagna,
dopo un viaggio in treno di otto ore fino a Tangeri, e l’attraversamento dello stretto nascosti in un camion carico di vestiti. Al22
l’arrivo in Spagna, ad Algesiras, uscendo dal portellone, si erano
ritrovati però dritti dritti tra le braccia della polizia di frontiera,
e rispediti due giorni dopo in aereo a Casablanca.
Il cognato a quel punto si era deciso. Niente più scuola: a Rabat,
presso un parente, a lavorare in una fabbrica di tappeti; così
avrebbe imparato cosa vuol dire lavoro, aveva concluso infuriatissimo.
Una liberazione, per Youssef, allontanarsi da quel villaggio dove
anche Fouad non c’era più –lasciata la scuola era rimasto a El Jadida a lavorare come manovale in un cantiere– e soprattutto da
quella casa dove si sentiva sempre più solo e incompreso. La sera,
sdraiato nella stuoia in cucina tra kanun e couscoussière, metteva
il transistor a tutto volume, per non sentire il parlottare, i risolini... ma li sentiva lo stesso... la voce autoritaria del cognato...
quella cantilenante di Jamila... che Mohcine, quel bastardo, gli
aveva rubato. Fu in una di quelle sere che tirò fuori una sigaretta
dal pacchetto che il cognato aveva lasciato in cucina; l’accese restando a guardare per qualche minuto la piccola brace ardere nel
buio. Che spense sul suo polso: il dolore del corpo stordì quello
dell’anima, calmò l’assillo della mente.
Nella fabbrica artigianale di tappeti aveva imparato presto e bene
annodando con abilità mentre volava la sua mente: tentare di
nuovo al più presto, via mare; ma ci volevano almeno tremila
euro per il viaggio, che anche lavorando per due anni senza spendere un dirham, non avrebbe potuto mai mettere insieme.
Fu Mohammed, il lavorante più esperto di nodi e di cose del
mondo, che gli aprì la strada: per i soldi non c’era problema, gli
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disse, c’era chi, dall’Italia, li anticipava, ma una volta là doveva
restituirli, lavorando per l’organizzazione che aveva pagato il
viaggio. Tutto era preparato; arrivato in Sicilia sarebbe stato portato dalla polizia in un centro di accoglienza per minori, da dove
poi gli organizzatori –che avevano informatori sulla destinazione
di ogni carico– lo avrebbero fatto fuggire, trasferendolo al Nord
a lavorare. Questa era la prassi con tutti i minorenni soli. A pagamento ultimato sarebbe stato libero di cercare sua madre.
Gli diede il numero di un telefonino: “Quello del capitano egiziano che organizza la partenza” gli disse. “Telefonagli e accordati.”
Fouad, a cui appena poté comunicò la cosa, fu entusiasta: “Una
volta in Italia se ne parla” rispose, dissipando ogni sua perplessità riguardo alla restituzione dei soldi.
Prima di partire era andato a salutare Jamila, che lo aveva scongiurato di non farlo, avendo sentito alla televisione di barche alla
deriva, di gente buttata a mare, di ragazzi costretti in Italia a fare
cose disoneste. “Parto con Fouad” le aveva risposto perentorio.
“A lui nessuno lo frega.”
Tutto liscio –da Casablanca a Tunisi in aereo, e da lì col camion
in Libia, nel centro di raccolta– fino a quel mattino: alla corsa
verso la barca, mentre da dietro spingono, pressano, scavalcano.
La barca che si spezza, il corpo di Fouad che scivola nell’acqua...
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Tre
Youssef guarda stranito le lancette dell’orologio che continuano
placide a scorrere; ci tiene tanto Fouad a quell’orologio: l’ultimo
regalo di suo padre, prima di andarsene con l’italiana.
Ma quello non è il braccio di Fouad: non è suo, quel corpo svuotato, quella maschera di sangue.
Youssef aspetta di vederlo balzare all’improvviso alle sue spalle
gridando alhamdulillah! alhamdulillah! come quando, risalivano
dalla falesia –sveltamente, con il cuore in gola– mentre l’oceano
tornava a schiantarsi schiumando contro la roccia a perpendicolo, a cancellare le tracce di corpi e di pensieri sulla sabbia. Aspettavano fino all’ultimo per risalire, spostandosi sempre più
indietro man mano che la marea invadeva la spiaggetta. Ed era in
quella risalita che Fouad, sfidando la falesia e la marea, fingeva di
mancare l’appiglio... gridava...
Youssef sente la voce di Sidi Habibi risuonare amplificata dentro
il suo orecchio: “Per proteggerti, fiato mio!”, mentre sfilando l’orologio dal polso sinistro dell’amico lo allaccia al suo.
Nel frattempo è arrivata la terza barca; gli assistenti, il cui numero si è raddoppiato, bloccano ogni tentativo di assalto, minac29
ciando di non lasciarli più partire. Li fanno salire a gruppi di cinquanta sulla barca; un continuo va e vieni tra la nave e la spiaggia che a un certo punto si interrompe: la barca non torna più
indietro a caricare gli ultimi cento, dirigendosi placidamente
verso il villaggio di pescatori sulla punta del promontorio.
La nave è satura –fa sapere il capitano egiziano, che si dice sia lì
a dare ordini, ma che nessuno, nemmeno questa volta, ha visto–,
soltanto un’altra persona e sarebbe affondata prima di partire; da
lì a qualche ora arriverà un peschereccio che li porterà direttamente in Sicilia, evitando Lampedusa. Un viaggio più lungo ma
uno sbarco più sicuro.
Il sole era allo zenit quando il grosso peschereccio, con i cento
passeggeri –tra loro Sidi Habibi e Youssef– prese il largo tra un
coro di alhamdulillah e insciallah, che man mano si affievolì.
Fu mare aperto. Blu senza scampo.
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Quattro
Blu che a poco a poco si fa nero: del cielo, del mare, della sua
mente.
La testa di Youssef ciondola sulla spalla di Sidi Habibi seguendo
l’oscillazione sempre più forte del peschereccio; il rullio si confonde con quello del camion che un mese prima dall’aeroporto
di Tunisi lo ha portato a Tripoli: un continuo dondolio di teste e
gambe tra improvvisi sobbalzi nella strada accidentata.
Un sonno a brandelli.
Apre gli occhi: un neonato piange.
Li richiude. Rientra nel sogno. “Presto!” grida a Fouad, mentre
la marea risale vertiginosamente, senza aspettare il richiamo
lento di kamar.
Si agita, apre gli occhi, li chiude di nuovo.
Li riapre stranito alla voce di Sidi Habibi che lo strattona: “Svegliati! La barca fa acqua!”
Sul barcone la confusione è indescrivibile. Un’onda dopo l’altra,
accelerata. Ognuno cerca come può di svuotare la barca dall’acqua che l’onda successiva ributta dentro.
Il peschereccio nonostante tutto avanza verso la luce a intermit33
tenza che si fa sempre più vicina. Poi altre piccole luci via via
sempre più nitide: sono in salvo.
A poche centinaia di metri dalla costa i due scafisti dicono che
non possono andare oltre: a terra devono arrivarci a piedi; l’acqua è bassa, e non c’è nessun pericolo.
Resistono: molti non sanno nuotare; sono spinti a forza nell’acqua.
Dopo qualche bracciata Youssef si volta indietro in cerca di Sidi
Habibi, intravedendo alla luce intermittente del faro solo una
confusione di teste e braccia che cercano di tenersi a galla: gridano, affondano, risalgono, affondano di nuovo. Non risalgono più.
La costa non è così vicina come dal peschereccio gli era sembrato; arriva esausto sulla spiaggia, mentre la coscienza si allenta tra
un remoto vocio, e mani che lo trascinano chissà dove.
Si ritrova su una brandina in un grande capannone, avvolto in
una coperta. Un tunisino con un bicchiere in mano cerca di fargli bere un po’ di tè, rassicurandolo che lì sono tutti paesani, e
paesani –insieme a italiani amici dei paesani– sono i pescatori
che lo hanno raccolto sulla spiaggia. E portato lì al sicuro, prima
dell’arrivo di guardia costiera e polizia. Che se lui per qualche
giorno fosse restato quieto quieto, non ci sarebbe stato problema: nessuno l’avrebbe cercato. La polizia lì non ci arrivava.
Guarda i suoi vestiti ammonticchiati a terra: stracciati e colanti.
Il mare gli ha portato via tutto: i pochi soldi, il numero del cellulare italiano fornito dall’organizzazione prima di partire, l’indirizzo di Tarek il Grosso –che però rammenta perfettamente–, la
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foto di sua madre, e la manina di Fatima che lei gli aveva messo
al collo quando era partita per l’Italia. “Ti proteggerà da malocchio e malagente. Non te la levare mai” gli aveva raccomandato
abbracciandolo forte forte. E lui non l’aveva più tolta, sentendola, rassicurato, ballonzolare sul petto quando correva o giocava a
pallone. Solo all’hammam la toglieva riponendola religiosamente tra i suoi indumenti; dopo il bagno, aspettava con una sottile
ansia di rivederla tra le sue cose: la baciava con devozione e se la
rimetteva.
E Fouad, ha perso. L’amico di sempre. L’imbattibile in ogni rissa.
E Sidi Habibi, in fondo al mare con tutte le sue storie.
Pensa alla casa tutta –donne, uomini, cani, gatti, tortorelle– che
a quell’ora si sveglia, alla sorella, al richiamo petulante delle galline che reclamano il pastone.
Chiede una sigaretta a un paesano, che lo guarda sorpreso: “Così
piccolo, fumi?” gli dice. Ma gliela dà, e gliela accende.
Rimane solo nel grande dormitorio. Avvolto nella coperta si avvicina a una finestra bassa che si apre su qualcosa di biancastro
che lì per lì gli sembra mare, accorgendosi subito dopo che è un
ondulato orizzonte di plastica.
È colpa sua. Tutta colpa sua, la vita.
Spegne la brace della sigaretta sul suo polso sinistro, ma il dolore non arriva: Fouad l’ha protetto.
Guarda l’ora: le sei del mattino del 29 luglio del duemilaetre.
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Seconda parte
Uno
Il soggiorno è l’utopia, la polizia l’incubo. E quest’estate di sbarchi e naufragi che si susseguono giorno dopo giorno, più incubo
che mai: poliziotti, guardie costiere, vigili urbani –massicciamente sguinzagliati tra spiagge, centri abitati, strade sterrate– a
caccia dei nuovi arrivati che cercano di disperdersi tra le serre.
Youssef è perciò costretto a restare più di un mese in quel dormitorio in attesa che si calmino le acque; i paesani –tutti tunisini:
ma paesani sono tutti quelli che parlano arabo– essendosi ritrovati all’improvviso con un minorenne nel dormitorio, non sanno
come venir fuori da quella situazione.
Ricorrono ad Ahmed, rispettatissimo dai proprietari delle serre,
che a lui si rivolgono come intermediario per reclutare nuovi
clandestini; e temutissimo dai paesani, col soggiorno e non, che
a lui sono costretti a ricorrere per ogni cosa: ingaggi, prestiti, salari, alloggio, carte da sbrigare.
“Sei minorenne: se ti trovano, ci andiamo di mezzo tutti, anche
noi col soggiorno. Devi restare qui, quieto quieto, fino a quando
non te lo dico io. Qui, nelle serre, sono io che comando” gli intima Ahmed con un tono che non ammette replica e dissenso.
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Per alcune settimane al terrore della polizia si aggiunge per Youssef quello del capitano egiziano; più analizza i comportamenti, i
gesti, le parole di Ahmed, più si convince che è certamente uno
dei suoi emissari; e gli sta tendendo una trappola: e già si vede afferrato, trascinato chissà dove, costretto a fare cose brutte per
rimborsare i soldi del viaggio. Una sera dalla piccola televisione
portatile, che i paesani mettendo un tanto ciascuno avevano
comprato e per un’ora accendevano, sa che la nave dove era stata
imbarcata la maggior parte degli emigranti in attesa insieme a lui
in Libia, era andata alla deriva; pochissimi i superstiti avvistati
dopo molti giorni, e tantissimi i dispersi senza nome tra onde e
squali. Dalle dichiarazioni dei superstiti la polizia è risalita agli
scafisti, individuati e arrestati; al capitano egiziano, ricercato a livello internazionale; alla scoperta di una rete di trafficanti di minori tra il Nordafrica e l’Italia.
Invece di ritenersi fortunato per essere scampato alla morte e ai
trafficanti, Youssef si sente ancora più radicalmente orfano, abbandonato come una pietra in un pozzo in un luogo sconosciuto che chiamano Sicilia.
Per far passare più in fretta il tempo pulisce ogni giorno, da cima
a fondo, doccia, cucina e dormitorio, ritrovandosi sempre con
una quantità sterminata di ore vuote prima del ritorno dei paesani dal lavoro; a volte così stanchi morti che non gli rivolgono
nemmeno la parola. I più anziani se ne restano nel capannone a
chiacchierare tra loro di lavoro e soggiorno, a guardare la tivù, a
bere qualche bicchiere che il sabato si moltiplica, spesso trasformando quelle chiacchiere in furiosi litigi; i più giovani con una
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macchina scassatissima se ne vanno nel paese vicino, Vittoria, a
comprare sigarette, telefonare, guardare le ragazze italiane –litigando con gli italiani che quegli sguardi spesso non apprezzano–
a squagliarsela velocemente all’arrivo della polizia.
Ogni tanto dai capannoni vicini vengono altri paesani a vedere la
tivù, uno dei più assidui è Khaled; in quotidiana e spasmodica
attesa dell’uscita della nuova legge sul soggiorno, ascolta concentratissimo il tiggì, rivolgendo poi, deluso, la sua attenzione ai
presenti. In Youssef trova un attentissimo e coinvolto interlocutore alle cui domande –sulle possibilità di lavoro e sul modo di
vivere nelle città del Nord– non sa rispondere, non essendo andato mai al di là di Vittoria.
Fin dalla prima volta che lo aveva visto nel capannone, Khaled gli
aveva fatto un nostalgico e minuzioso racconto del suo villaggio
vicino Madia, della casa che si voleva costruire, della sua famiglia;
del figlio soprattutto, che si chiamava esattamente come lui,
Youssef: era ancora piccolo ma prometteva bene e da grande voleva farlo studiare da ingegnere. E ci sarebbe riuscito: i proprietari
lo apprezzavano e gli volevano bene; glielo avevano promesso: appena fosse uscito il soggiorno lo avrebbero messo in regola.
I paesani si divertono a prenderlo in giro insistendo nell’offrirgli
il vino, che lui scandalizzato rifiuta; è religiosissimo e non manca
nemmeno a uno dei cinque appuntamenti quotidiani con la preghiera, dovunque si trovi, persino nella serra; il responsabile lo
lascia fare sapendo che recupererà poi con maggior lena i minuti
perduti.
Sempre, prima di andarsene, Khaled gli recita a conforto verset45
ti del Corano, ma Youssef non sopporta più di restare bloccato lì:
a guardare ora dopo ora, giorno dopo giorno, il sole alzarsi e ritirarsi nello spiazzale di terra rossa davanti al capannone, immaginando –al di là di quello spiazzale, di quelle serre, di
quell’isola– sua madre che gli tende le braccia, che disperatamente lo chiama. Disperata, ma bellissima come nella foto. La prima
volta aveva stentato a riconoscerla nella donna vestita all’occidentale, appoggiata al parapetto di un ponticello sotto cui scorreva un fiume; ai lati di quel fiume palazzi e botteghe con vecchie
insegne –una, in primo piano, con una scrittura antica e parole
misteriose Inchiostri e timbri–. “Una città bellissima” la madre
aveva fatto scrivere allo zio nella lettera che l’accompagnava– con
le strade d’acqua e i palazzi come merletti, che voleva a tutti i
costi far vedere ai suoi figli quando l’avrebbero raggiunta in Italia. La foto era stata conservata da Jamila; ma quando lei usciva
o andava all’hammam, lui andava a prenderla di nascosto, imprimendosi nella mente ogni dettaglio; dopo la scomparsa della
madre aveva deciso che apparteneva solo a lui. E se ne era impossessato. Ma se l’era fatta strappare dal mare.
Ogni giorno però quella foto risale dall’acqua, si ricompone vivida nella sua mente, tornando a ricordargli lo scopo del suo viaggio: lavorare, raccogliere i soldi e partire per Bologna a cercarla.
Una sera Ahmed arriva finalmente con la notizia che il giorno
dopo lo avrebbe portato in serra; al proprietario ha detto che si
tratta di suo nipote arrivato con l’ultimo sbarco. E che bisogna
sistemarlo. Della sua paga –dieci euro al giorno: come gli albanesi che sono lavoratori grandi e forti– a lui tocca la metà, da ver46
sare per un anno intero; dopo avrebbero rivisto le percentuali.
Che non pensasse a scappare. In ogni capannone e in ogni serra
ci sono suoi amici: un passo falso e sarebbero stati guai. Se vuole
–conclude Ahmed passando dal tono minaccioso alla condiscendenza– il resto dei soldi è disposto a conservarglieli lui, glieli
avrebbe restituiti a richiesta, e con gli interessi.
Appena andato via, gli altri paesani lo avvisano: Ahmed nel riconteggio sbaglia sempre a suo favore, o li nega. Preferiscono
perciò sacrificarsi andando ogni settimana alla posta, e mandarli
subito alle loro famiglie, i soldi.
Fin dall’inizio Youssef è stato reticente, non volendo che sua
madre diventasse oggetto di conversazione in quel dormitorio, e
non ne ha parlato; a tutti i paesani che gli hanno chiesto della sua
famiglia, ha risposto che non ha nessuno al mondo, solo una sorella ammalata e senza mezzi.
Quando alla fine della prima settimana Ahmed passa da lui per
ritirare il dovuto, Youssef gli dice che il resto dei soldi lo deve
mandare in Marocco, a sua sorella. Per questo è venuto in Italia:
per aiutarla.
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Due
Più del caldo, della fatica, degli energici scappellotti del responsabile, i cui ordini in italiano all’inizio non capisce, la cosa che
più di ogni altra lo disorienta, nella sua nuova vita tra le serre, è
la perdita del nome.
Tutti i paesani hanno perso quello originario: Ahmed è diventato Aldo, Rachid Riccardo, Youssef Giuseppe; nome che risolutamente rifiuta, rivendicando per sé quello di Marco, come il
protagonista di una fiction italiana per ragazzi che aveva visto
alla televisione insieme a Fouad, a casa sua; con la parabolica,
comprata al mercato nero per pochi dirham, potevano vedere
tutti i programmi del mondo, ma loro sceglievano solo quelli italiani, cercando di memorizzare più parole che potevano: “pantaloni” diceva Youssef indicandoli, “camicia” rispondeva l’amico,
fingendo di volergliela strappare di dosso.
Youssef insiste sul nome di Marco. E poiché per tutti –paesani e
italiani– un nome vale l’altro, da quel momento Youssef è diventato Marco, e più spesso, minuto com’è, Marcuccio.
La sera, disteso sulla brandina, Marcuccio si chiama “Youssef!
Youssef!” ma più passano le settimane, più Youssef non risponde,
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sempre più immerso in quella nuova lingua che dopo qualche
mese già parla, e in quella faticosissima vita lavorativa nella serra,
dove il caldo è insopportabile, e l’aria irrespirabile per i vapori di
concimi e diserbanti che fanno crescere melanzane e peperoni
belli e grossi come teste di bambini; ma quando si trattengono a
lavorare oltre mezzogiorno tutti cominciano ad avere giramenti e
nausea.
A metà settembre il caldo non accenna ancora a diminuire e
nelle serre si scoppia. All’improvviso Khaled, che dice sempre sì
a qualsiasi richiesta lavorativa, si porta la mano alla gola, cadendo a terra come morto. Il padrone della serra dove lavora, informato dal responsabile col cellulare, non ne vuole sapere: è
clandestino e l’ha fatto lavorare per pietà. Viene abbandonato
davanti all’ospedale di Ragusa dove muore tre giorni dopo.
Per qualche giorno ne parlano giornali e tivù; per qualche giorno
la polizia si aggira in pompa magna tra serre e strade sterrate; per
qualche giorno i clandestini, che sono la quasi totalità dei lavoranti, per prudenza non vanno a lavorare. Poi tutto ritorna quieto e laborioso come prima, e di Khaled non se ne parla più.
Youssef non rientra nella serra, ma è ceduto a un altro proprietario, a cui serve un ragazzo in un magazzino per aiutare a scaricare, caricare, sistemare ortaggi nelle cassette e nelle celle frigo dei
camion; un compito, quest’ultimo, che a Youssef piace particolarmente, specie se capita con Orazio: uno degli autisti in partenza ogni settimana per i mercati all’ingrosso delle città del Nord,
segnate con un cerchietto rosso nella grande cartina dell’Italia
appesa a una parete del deposito.
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L’autista l’ha preso a benvolere, richiedendolo lui stesso come
aiutante. “Mannimi u mucciusu” diceva al responsabile del deposito, oppure: “Mannimi u niurittu” scherzando sul colore
della sua pelle –più scuretto rispetto agli altri lavoranti nordafricani– e sulla sua gracilità. Nonostante Youssef dimostri meno dei
suoi quindici anni, riesce però a portare senza fatica e senza lagnarsi cassette stracolme.
“Grande lavoratore, ma pesce senza parola.” Questo era stato il
verdetto di Orazio, la prima volta che aveva avuto a che fare con
il ragazzo; che però, entrando in confidenza, era diventato sempre più loquace, a ogni partenza e a ogni ritorno chiedendogli il
resoconto dettagliato dei suoi viaggi, le distanze, le città, gli incontri. Ogni tanto dal continente gli porta qualcosa –un giornale illustrato, una maglietta promozionale di qualche ditta– e,
vedendo che Youssef si incanta davanti alla cartina del deposito,
un giorno gli regala una grande carta geografica dell’Italia.
Quando Orazio parte, Youssef ne segue il percorso: Ragusa, Catania, lo stretto, l’autostrada, fino al folto delle città del Nord.
Bologna, Milano, Torino. E la parola Bologna si dilata in caratteri cubitali e cerchi luccicanti nella sua mente.
Al ritorno da un viaggio a Mestre, Orazio gli porta una rivista
piena di illustrazioni di Venezia e della grande festa che a febbraio lì si prepara; resta confuso davanti al pianto inarrestabile di
Youssef, che gli dice della foto di sua madre, raccontandogli per
intero e senza riserve la sua odissea, e ripetendo tra i singhiozzi
che non può più aspettare, anche ad andarci a piedi a Bologna a
trovare Tarek, l’unico che può dargli notizie della famiglia presso
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cui la madre lavorava. Il problema è sfuggire al controllo di
Ahmed: se fosse scappato tra le serre l’avrebbero ripreso subito.
Ci vuole un aiuto. Qualcuno che lo nasconda.
Orazio, che non ha mai conosciuto sua madre, morta alla sua nascita, si commuove; gli arruffa affettuosamente i capelli, dicendogli di tenersi pronto: tra due settimane è prevista la sua
partenza per Bologna.
Qualche giorno dopo, Youssef va a Vittoria a comprare un paio
di jeans, un giubbotto pesante, un maglione, comode scarpe da
ginnastica, e uno zaino nuovo dove ripone il tutto. La mattina
del giorno della partenza, prevista per il pomeriggio, nasconde lo
zaino sotto il sedile accanto al posto di guida. Quando finiscono
di caricare, Orazio si allontana verso il deposito per la consegna
delle bollette, restando più a lungo del solito a conversare col responsabile, per dargli tempo di riaprire il portellone e infilarsi lestamente nella cella frigo.
Dopo un quarto d’ora, Youssef sente la voce tonante dell’autista
salutare col solito “in gamba carusi”, sente il suo passo fermarsi
davanti al portellone socchiuso che chiude con un colpo secco, e
il camion, con uno strattone, riparte.
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Tre
Buio e freddo. E paura: sepolto vivo, come il protagonista di un
racconto infantile, ma invece che nella terra, in mezzo a lattughe
e pomodorini.
Uno stridere di freni. Il camion si ferma tra un tramestio di
grida, di vetri infranti. Una sosta interminabile. Orazio tarda.
Un incidente: forse è morto, pensa con terrore Youssef.
Man mano che passano i minuti sente il freddo oltrepassare i
vestiti, risalire dalla punta delle dita allo stomaco, al cuore.
Farsi sonnolenza degli occhi e della mente. Che si chiudono, si
chiudono...
Sonno di morte, ne è certo.
Irrompe improvvisa la voce di Orazio: “Scendi prima che diventi un baccalà”.
Mentre lo avvolge in una coperta gli racconta del tamponamento che ha coinvolto le due macchine davanti a lui, della strada
bloccata, del tempo perso e della sua angoscia per lui. Va al bar
della stazione di servizio dove si sono fermati, tornando con un
bicchiere di latte bruciante. Ripartono.
Youssef si riprende subito dal freddo e dallo spavento. Seduto
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nella cabina accanto all’amico, il mondo gli appare di nuovo
nelle sue forme molteplici e cangianti, e la vita un correre misterioso in cui tutto si mescola: il profilo in fuga di alberi e montagne lungo la strada, la luna rossa –kamar di demoni e maree– che
risale l’orizzonte, e le macchine –e gli uomini dentro di esse– che
vanno veloci chissà dove.
Oltrepassano Catania, ma prima di imboccare l’autostrada
Orazio devia per il paese sulle pendici dell’Etna dove abita, per
salutare il figlio che il giorno dopo deve sostenere l’ultimo
esame prima della laurea. Posteggia sotto casa sua, in un piazzale che si affaccia su un vasto panorama, raccomandandogli di
aspettarlo senza scendere, perché si tratta di perdere solo qualche minuto.
Youssef invece salta subito giù dal camion, attratto dal luccichio delle luci della città ai piedi della montagna: digradano
verso un ampio margine buio, attorniato da luci più piccole, e
da una –alta– che in quel buio lampeggia a intermittenza. Il
mare. E al di là di esso il mondo grande di terre e continenti:
Rabat, Casablanca, e il suo villaggio sull’altopiano oltre El Jadida, e Jamila... Sente la nostalgia della sua voce, e il suo passato fluire pacificato in quel presente. Anche il volto del cognato
gli appare all’improvviso amico: forse riguardo alla scuola non
aveva del tutto torto...
Le sue svagate riflessioni sono interrotte da un tuono sordo,
come se a partorirlo non fosse stato il cielo ma la terra: rivolge gli
occhi dall’altra parte del piazzale, verso la sagoma buia della
montagna che un fiume di un rosso abbagliante solca e illumina.
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Un altro tuono: un’esplosione di luce e scintille nel cielo.
Pensa a Fouad che mai avrebbe visto la montagna di fuoco; a se
stesso, vivo, che invece la vede; al ritmo del suo cuore che batte
accelerato, dopo sei mesi passati trattenendo il respiro come sott’acqua. Alla vita che torna intorno a lui: a sua madre che da
qualche parte lo aspetta. E l’avrebbe trovata.
“L’Etna è scassata di nuovo” gli dice Orazio ripartendo.
Youssef prende la sua cartina cercando, alla luce di un accendino,
i luoghi che attraversano: Messina, lo Stretto, l’interminabile Calabria, Salerno. “Il peggio dell’autostrada l’abbiamo passato. Riposati ché la strada è ancora lunga” gli suggerisce Orazio; cerca
invece di resistere con tutte le sue forze al sonno, ma la cartina gli
cade dalle mani.
Si sveglia ai mercati generali di Bologna; aiuta a scaricare e va a
cambiarsi, indossando gli abiti comprati a Vittoria. Torna che
sembra nuovo nuovo. “Un signorino” commenta Orazio che fa
un largo giro –attraversando strade interdette al suo grosso
mezzo, e rossi di semafori– per lasciarlo il più possibile vicino
alla stazione, dove potrà informarsi e prendere un mezzo per arrivare a casa di Tarek. Gli consegna i soldi che il ragazzo, dopo il
suo trasferimento nel magazzino, settimana dopo settimana gli
aveva affidato per conservarglieli. A Youssef sembrano una vera
ricchezza; durante quei mesi nella serra ha speso pochissimo, e i
trenta euro di paga settimanale –Ahmed passava ogni settimana
a riscuotere gli altri trenta– gli rimanevano quasi tutti. Ne mette
una parte in una tasca interna a scomparsa del giubbotto, e un’altra nello zaino, che si porta sempre appresso.
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“Occhio, niurittu. Che in giro c’è tanta mala gente” gli raccomanda Orazio, raccontandogli dello scontro in mezzo a cui,
senza volerlo, s’era trovato a Torino, all’uscita da una trattoria,
tra una banda di teste rasate e una di nordafricani; uno di loro
era stato preso e gettato nel Po; e, per non farlo risalire, le teste
rasate gli avevano buttato addosso spranghe, bottiglie, lattine
piene di birra. E quello era annegato.
“Per il sì e per il no, ecco il numero del mio telefonino” gli dice
porgendogli un bigliettino che Youssef ripone con cura, insieme ai soldi, nella tasca del giubbotto. “Se vedi la mala parata,
telefona.”
Lo lascia alla stazione, salutandolo con un forte abbraccio e una
robusta pacca sulla spalla.
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Terza parte
Uno
Seduto sull’autobus accanto al finestrino Youssef guarda concentrato il susseguirsi uguale e scintillante di portici e negozi, e le
pietre scurigne e severe dei palazzi. Lì si trova sua madre, persa
chissà dove.
Scende ai margini di una grande piazza animata come un souk;
un mescolamento di suoni e colori che lo affascina. Ragazzi e ragazze in gruppi sparsi vendono incensi, suonano flauti e darbuka, o semplicemente passeggiano. La coincidenza per arrivare
all’indirizzo di Tarek tarda; si siede accanto a un gruppo di suonatori, tutti rasta e orecchini; due gli sembrano paesani –e lo
sono: un algerino, e un egiziano– che lo trattano subito con familiarità, come se lo conoscessero da tutta la vita. L’egiziano, che
sa tutto dell’Italia, gli dice che per un extracomunitario è meglio
non camminare mai da solo, invitandolo –se quella sera non sa
dove andare– a restare a dormire al centro sociale con loro. In
quella grande piazza, tra quelle vite fraterne e sconosciute, Youssef si sente improvvisamente a casa, al sicuro.
Un italiano del gruppo gli passa un po’ di fumo che rifiuta –non
l’avevano mai provato, lui e Fouad–, accetta invece la birra; ne
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chiede un altro po’, poi va lui stesso a comprarne altre lattine per
offrirle ai suoi nuovi amici. Con molti sensi di colpa, però: nitido in ogni lurido dettaglio gli si presenta il volto del mendicante alcolista del suo villaggio che viveva nella strada evitato da
tutti; appena racimolava qualche dirham andava a comprarsi la
birra per tornare subito dopo a chiedere di nuovo la carità, insultando i passanti che non gliela facevano.
Una progressiva sonnolenza lo invade; si distende sugli scalini,
mentre l’algerino attacca a cantare: è la canzone che nel centro di
imbarco in Libia lui e Fouad ascoltavano a tutto volume, scatenando il furore degli adulti. E non per il volume –ne era certo–
né per il miscuglio di rap e tradizione, ma per le parole che raccontano di un emigrante morto in una fonderia e di sua moglie,
che non volle crederci, e che per tutta la vita ogni giorno andò al
porto ad aspettarlo. Pensa all’autobus che deve passare, a sua
madre che da qualche parte lo aspetta, ai suoi occhi che senza
scampo si chiudono, “Walida, perdonami” sussurra scivolando
nel sonno.
A un tratto –a bassa voce, di gruppo in gruppo– l’allarme in tutta
la piazza. “I vigili!” “I vigili!” Strumenti e mercanzie spariscono
in un attimo, mentre tutti –suonatori, vu’ cumpra’, sfaccendati–
velocemente si defilano.
Si ritrova solo e stordito sugli scalini. Qualcuno lo urta, “Vieni
via, scemo!” gli dice una ragazza scappando. Youssef le corre
dietro ma la perde subito di vista; si infila nella prima strada laterale che incontra, lasciandosi alle spalle la piazza, le guardie,
il vocio.
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Una strada, un’altra, un ampio viale, una piazza, due torri, un intrico di stradine: cammina senza sapere dove. Si accorge a un
tratto che la gente gli passa accanto senza far caso a lui. Si ferma.
Il nodo alla gola si allenta: è in salvo. A un passante chiede indicazioni per raggiungere via De Amicis. “Ci sei già” risponde l’uomo indicandogli la targa. Il cuore gli batte all’impazzata: si trova
proprio di fronte al numero del portone dove abita Tarek. Suona.
Gli risponde un paesano, che lo invita a salire fino all’ultimo
piano e a spiegarsi meglio, di presenza.
La porta dell’appartamento è aperta, ma Youssef resta sulla soglia. “Aji! Aji!” gli dice una voce imperiosa. Entra. Per un attimo
gli sembra di trovarsi in una casa marocchina: una fila ininterrotta di divani corre lungo tutte le pareti della stanza, mentre attorno a un tavolo basso, di musharabi, quattro uomini –due paesani
e due italiani– attingono da una tangine di harira densa e fumante. Appena entra i due italiani salutano con un ossequioso “sempre a disposizione”, e vanno via.
“Chi ti ha dato l’indirizzo di questa casa? Perché lo cerchi?” gli
chiede brusco uno dei due marocchini che si chiama Kamel e
sembra il capo, invitandolo con un cenno a prendere posto attorno al tavolo. Mentre con dovizia di dettagli Youssef racconta della scomparsa della madre e della necessità di incontrare
urgentemente Tarek il Grosso, Kamel lo interrompe bruscamente: “Abbiamo capito. Ma come ci sei arrivato in Italia?
Quando? Con chi?”
Quando finisce il suo racconto, Youssef coglie uno sguardo d’intesa tra i due: “Il carico intercettato e perso alla fine di luglio!”
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esclama Ibrahim, l’altro paesano; e rivolgendosi a lui: “Tarek lavora a Torino. È la mia zona: ti porto io dopodomani, insieme
agli altri ragazzi che sono appena arrivati”.
All’improvviso Youssef si accorge che nel trambusto della fuga ha
lasciato lo zaino. Agitatissimo si slancia verso la porta, dicendo
che deve tornare indietro a cercarlo; nello zaino ci sono tutte le
sue cose: i soldi, i vestiti, le scarpe. Kamel lo blocca. “Documenti non ce ne sono. Di che ti preoccupi? Per un ragazzo sveglio
come te i soldi è facile procurarseli: Torino è il posto giusto. E
Ibrahim è la persona che ci vuole. Quando verrà il momento potrai incontrare Tarek. Vai a dormire di sopra insieme agli altri.”
Appena entra nel sottotetto adattato a dormitorio, i tre ragazzi
che riposano su dei materassi gettati a terra lo assalgono di domande: sul lavoro che li aspetta a Torino, sulla paga, su Kamel
che, appoggiandosi ad amici siciliani, ha organizzato la loro fuga
dal centro e il loro trasferimento al Nord. Appena sbarcati a
Lampedusa erano stati portati dalla polizia in una comunità di
accoglienza all’interno della Sicilia, da dove avevano telefonato al
numero di cellulare fornito loro dall’organizzazione che aveva
anticipato i soldi del viaggio. Quello di Kamel appunto, che poi
aveva pensato a tutto. Da alcuni giorni si trovavano lì, senza sapere nulla su cosa li aspettasse.
Fino a tardi, nel sottotetto di quel vecchio palazzo del centro storico bolognese, si confondono speranza, paura, nostalgia, mentre
si fa buio sul mondo, e i rumori al piano di sotto si attenuano.
Poi il silenzio. La notte profonda.
Youssef non può prendere sonno. Le assurde coincidenze della
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vita, pensa; per caso è finito proprio in mano ai trafficanti a cui,
dopo i mesi passati nella serra, pensava di essere definitivamente
sfuggito.
La casa è totalmente immersa nel sonno: potrebbe scendere al
piano di sotto, aprire la porta, precipitarsi fuori correndo a perdifiato. Ma avrebbe perso ogni possibilità di rintracciare Tarek.
Si appisola. Nell’inquieto dormiveglia riaffiorano i volti di Orazio, di Fouad, di Sidi Habibi; ognuno gli sussurra qualcosa dissolvendosi però prima che lui riesca a percepire il senso delle loro
parole.
Poi, quello di sua madre. E nitide le parole della preghiera infantile: “Allah, fammi uscire dalla casa del male senza male”. Che
continua a ripetere finché il sonno vince totalmente stanchezza e
paura dell’ignoto.
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Due
Ibrahim ferma il furgoncino qualche chilometro prima di arrivare a Torino vicino a un agglomerato industriale dismesso pieno
di paesani. Dice ai ragazzi di sistemarsi alla meglio –questione di
qualche settimana, appena si fosse liberato qualche posto sarebbero stati trasferiti in città– scomparendo indaffarato.
A tutti Youssef chiede se conoscono Tarek il Grosso, ma nessuno
ne ha mai sentito parlare. Arrivati da poco, molti non sanno una
parola di italiano, né in quale parte d’Italia esattamente si trovino; smistati ogni mattina a pulire vetri ai semafori o a smerciare
bustine davanti alle scuole – secondo l’età e la sveltezza individuale– e la sera ripresi e riportati là.
Youssef cerca inutilmente Ibrahim per l’intera giornata. È lui
stesso la sera a farsi vivo per dirgli che la cosa s’è fatta più difficile perché Tarek è stato arrestato alcuni giorni prima; deve perciò
avere pazienza, rassegnarsi ad aspettare. E nel frattempo guadagnarsi il pane, come tutti: poiché da qualche tempo i minorenni
scarseggiano, verrà utilizzato come cavallino davanti a una scuola. Un lavoro di responsabilità ma facile facile: a un cenno dello
spacciatore, a cui il cliente ha già dato i soldi, deve andare a pren78
dere la dose nascosta in macchina, o in mezzo a un’aiuola, e consegnargliela. E non c’è nessun rischio: a un minorenne non possono mandarlo in galera, anche se lo prendono con la droga in
mano.
Youssef capisce che Ibrahim mente, che mai lo avrebbe fatto incontrare con Tarek. Ma opporsi è inutile: fingere piuttosto... e al
momento opportuno...
Si sistema in uno stanzone insieme a cinque anziani; chiede
anche a loro inutilmente di Tarek, ma mentre dorme sente un
soffio rauco, proprio dentro il suo orecchio.“Cercalo al Caffè Tripoli. A Porta Palazzo.” Si sveglia: nessuno accanto a lui. Tutti russano placidamente nelle loro brandine.
La mattina seguente interroga con lo sguardo i compagni di
stanza; nessun cenno d’intesa, nessuna complicità: in tutti lo
stesso silenzio a occhi bassi, la stessa rassegnata impotenza.
Per fargli imparare alla svelta le modalità di smercio, Ibrahim lo
affida a un giovane italiano, Giudi, che ha bisogno di un aiuto
–il precedente ragazzino imbranatissimo si era subito fatto beccare– ma la sua istruzione dura poco: è svelto, disponibile e sa
parlare l’italiano. Un cavallino perfetto, e di totale affidabilità, riferisce lo spacciatore a Ibrahim.
Dopo una settimana Youssef è pronto per il suo nuovo lavoro.
Appostato accanto alla fermata dell’autobus in attesa del cenno
convenuto, passa l’intera mattinata del primo giorno in un continuo andirivieni tra la macchina –dove è nascosta la droga– posteggiata un po’ più lontano, e Giudi che spaccia vicino
l’ingresso della scuola.
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All’una e mezza la campanella suona la fine delle lezioni; frotte di
ragazzi si precipitano vociando verso gli autobus scolastici in attesa. Un attimo. Si butta dentro anche lui: una fuga preparata in
ogni dettaglio; un gesto ripassato mentalmente decine di volte.
Stretto tra zaini e ragazzi, Youssef vede Giudi cercarlo con gli
occhi, precipitarsi verso la macchina, metterla in moto; bloccato
però senza rimedio da una muraglia di motorini.
L’autobus si muove dapprima lemme lemme, poi sempre più veloce imboccando la corsia riservata di una strada a senso unico.
Scende alla stazione; sa che da lì partono tram e bus per tutte le
direzioni. Sta per attraversare la strada per andare alla fermata del
bus per Porta Palazzo, ma si blocca: la macchina di Giudi arriva
sparatissima dal lato opposto. Si confonde sotto i portici in
mezzo a un gruppo di passanti, allontanandosi il più possibile
dalla stazione.
Entra in un affollatissimo McDonald, ordina un cheeseburger e
una coca-cola andandosi a sedere in un posto riparato, da dove
però può controllare macchine e passanti.
Si sente all’improvviso senza forze. Tutto gli sembra insensato: il
flusso ininterrotto di ordini, il tintinnio delle calcolatrici, i passi
dei clienti che entrano, consumano in fretta, escono. E lui stesso, insensato più di ogni cosa: perso in un punto del mondo a vigilare una strada. Da mesi in cerca di Tarek, di sua madre:
ombre, fantasmi forse… Meglio chiamare la polizia, raccontare
tutto, consegnarsi.
Un passo accanto a lui, una mano sulla sua spalla: “Che ci fai,
qui? Oggi hai finito presto la vendita?”
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Balza in piedi gridando.
“Come, non ti ricordi? Mario, quello dei panini” dice l’uomo
che aveva provato un’immediata simpatia per quel ragazzino vivace e mingherlino, fin dalla prima volta che si era avvicinato al
furgoncino per comprare due panini. “Sei un marocchino di Vittoria?” gli aveva chiesto, avendo riconosciuto nella sua parlata
l’inflessione dialettale del suo paese.
Mario non si aspettava lo sfogo disperato di Youssef che gli racconta tutte le sue traversie fino alla fuga di quella mattina e all’arrivo inaspettato di Giudi alla stazione, che ancora si aggira lì
intorno. E lui bloccato in quel fast food: che non sa come fare
per arrivare a Porta Palazzo da Tarek il Grosso.
“Tarek il Grosso!?” esclama Mario, restando un attimo sovrappensiero. Nella storia di Youssef ritrova la tremenda solitudine
dei suoi quindici anni: la fuga di casa dopo la separazione dei genitori; gli incontri sbagliati e lo spaccio per sopravvivere; poi,
senza volerlo, la droga, il carcere. E la difficile risalita: la comunità, l’incontro con Loredana, la nascita di Michela. E quel lavoro
pulito, che gli rendeva bene.
Decide di aiutarlo, quel ragazzo, ma senza esporsi.
Dice a Youssef di aspettarlo lì, nel fast food, che con tutto quel
va e vieni è il posto più sicuro; il tempo di andare a casa a lasciare il furgoncino dei panini –riconoscibile come una bandiera– e
prendere la macchina. Non c’è bisogno di andare a Porta Palazzo. Lo conosce bene a Tarek; una montagna di muscoli, ma
buono come il pane. Prima di mettersi in proprio con i panini,
aveva lavorato come cameriere nello stesso hotel dove Tarek con85
tinuava a fare il vigilante. E dove sarebbero andati a trovarlo.
Nemmeno un’ora dopo Youssef si trova davanti a un uomo alto
e minacciosamente massiccio, i cui occhi però si inumidiscono
come quelli di un agnellino di latte quando finisce il suo racconto. Grande è infatti il dispiacere di Tarek che non riesce a darsi
pace: causa involontaria della sofferenza del ragazzo per non
avere comunicato a lui e alla sorella l’indirizzo della madre.
Tramite un paesano –che lavorava come puliziere nella scuola
dove insegnavano i Purisi, marito e moglie– qualche tempo dopo
la loro richiesta di aiuto dal Marocco era riuscito a rintracciarne
l’indirizzo; la donna non abitava a Bologna, come tutti ritenevano, ma a Venezia –al numero 2635 della Calle del Rio delle Vecchie Arti– dove faceva la badante alla signora Maria Zulin, la
vecchia madre della professoressa, che si era sempre rifiutata di
seguire la figlia e il genero a Bologna.
Durante il suo trasferimento a Torino –nella casa dei loro cugini a Bologna lui c’era rimasto pochissimo– aveva perso l’agenda
con tutti gli indirizzi; anche il loro. Ma non se n’era preoccupato molto, ritenendo che lui e sua sorella avessero già rintracciato la loro madre; nel frattempo infatti erano passati parecchi
mesi e loro non avevano risposto dal Marocco alla sua ultima
lettera; Kamel e Ibrahim, i nuovi affittuari della casa, a cui aveva
chiesto di conservargli la posta, non gli avevano infatti mai consegnato nulla.
“Quei bastardi. Se li prendo li spezzo in due” tuona Tarek, mandando lampi di furore dagli occhi nocciola, quando sa delle tante
lettere che Youssef e Jamila gli hanno spedito.
86
Ma a Youssef ormai non importa più niente del passato: partire
subito per Venezia; soltanto questo vuole. Tarek e Mario cercano
inutilmente di dissuaderlo –data l’ora sarebbe arrivato di notte–
ma davanti alla sua ostinazione cedono; sono entrambi d’accordo nell’evitare la stazione di Torino.
Lo mettono su un pullman per Novara: da lì avrebbe potuto
prendere il primo treno in transito per Venezia. Gli raccomandano con insistenza di timbrare il biglietto nella macchinetta; col
biglietto timbrato avrebbe potuto stare sereno: nessun controllore gli avrebbe chiesto i documenti. Appena si siede sull’autobus
Youssef guarda l’orologio. Sono passate appena quattro ore dalla
sua fuga.
Un’eternità, un tempo infinito invece.
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Tre
Un remoto brusio di passi e voci, di arresti e ripartite in un’interminabile pianura verde e acquitrinosa.
Poi, vicinissimo, un pianto di bambino, e la voce severa del controllore: “Biglietto, ragazzo”.
Youssef tira fuori il biglietto dalla tasca a scomparsa del giubbotto, lentamente riapprodando nel tempo della vita: l’orologio di
Fouad brilla certo e rassicurante sul suo polso. Mancano due ore
per Venezia.
Nell’ultimo tratto il treno sembra camminare sull’acqua tra sparsi isolotti, dirigendosi verso uno sbarramento di cupole e case illuminate: da lontano Venezia sembra una città qualsiasi del
mondo.
Appena uscito dalla stazione Youssef però resta esterrefatto di
fronte al liquido buio e intransitabile del canale. Si avvicina a
una zattera galleggiante su cui una piccola folla è in attesa –l’autobus dell’acqua, pensa– chiedendo indicazioni per la Calle del
Rio delle Vecchie Arti.
“Fermata Giardini” gli viene risposto.
Incanto e incubo, per Youssef, il viaggio in vaporetto sul Canal
90
Grande: tra i palazzi illuminati che sprofondano nell’acqua in
mezzo a mille riflessi di luci e forme; e il silenzioso e nero transito di gondole straboccanti di maschere, con abiti dalle vive movenze e volti immoti, bianchissimi come di gesso. Una marea di
gente affolla ponti, banchine e una grande piazza da cui giungono allegre folate di grida e violini. San Marco, Youssef legge nell’imbarco; il vaporetto si svuota proseguendo spedito nel canale
che si allarga in un piccolo mare.
Scende ai Giardini; pochi i passanti, e pochissime le maschere,
tutti in cammino verso la grande piazza, di cui anche da lontano
s’intuisce l’animazione.
Si ferma a chiedere più volte indicazioni per la Calle del Rio delle
Vecchie Arti, seguendo un percorso tortuoso attraverso strette e
silenziose strade d’acqua e improvvisi slarghi. Quando pensa di
aver perso del tutto l’orientamento, sbuca all’improvviso in un
ampio canale. Riconosce l’insegna Inchiostri e timbri: quello il
canale; quello il ponte della foto di sua madre.
Segue per un lungo tratto la banchina, cercando il numero della
porta che si trova però dall’altra parte del canale; rifà di corsa il
percorso inverso e attraversa il ponte, arrivando sfiatato davanti
a un vecchio palazzo che sembra disabitato.
Cerca il nome Zolin sui quattro campanelli del citofono: sbiadito, ma c’è. Il cuore gli sbatte come un cavallo pazzo. Suona ininterrottamente per parecchi minuti. Suona anche agli altri
campanelli: nessuno, da nessuna parte. Forse anche sua madre e
la vecchia signora sono andate alla festa nella grande piazza. È già
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notte: presto rientreranno. Le aspetterà al riparo nella profonda
rientranza del portone. Chiude gli occhi, sprofondando tra la
paurosa fissità di maschere dalle orbite cave e dai nasi adunchi,
come i volti degli spiriti che abitano i pozzi e le cisterne; ed escono di notte trascinando giù i bambini... che si sciolgono, diventano bambini liquidi… Corre nel buio, inciampa. Una maschera
prende a gridare in una lingua sconosciuta; toccandola ha involontariamente svegliato l’anima in quel volto di cartapesta. “Walida! Walida! Aiuto!” grida. Ma sua madre sorride della sua
paura: lì davanti, ma a un’impercorribile distanza.
Il buio piano piano si dirada fino a diventare intirizzita luce di
un mattino invernale.
Si sveglia in preda all’angoscia. Forse sua madre e la vecchia signora sono rientrate mentre dormiva, e non si sono accorte di
lui. Con ansia crescente torna a suonare a tutti i campanelli. Alla
fine si arrende: il palazzo è disabitato. Si slancia come una furia
contro il portone, gridando e tirando calci.
Da un pianterreno del palazzo esce, appoggiandosi a un bastoncino, una donna vecchissima e minuta; “Calma! Se no chiamo la
polizia, e ti faccio arrestare” lo minaccia.
Senza rispondere né guardarla Youssef si lascia scivolare a terra; la
vecchia, turbata, gli chiede il perché di quel pianto sconsolato.
“Tua madre è Gianna, la marocchina?” esclama alla fine sorpresa. “La badante della signora Zolin? Bella e gentile. Andava sempre di premura, ma quando passava mi chiedeva sempre se avessi
bisogno di qualcosa. E qualche volta si fermava anche a fare due
chiacchiere.”
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Le mani tremanti, il viso in fiamme: il corpo di Youssef è tutto
un pulsare accelerato.
Scatta all’impiedi: “Dov’è adesso? Dov’è mia madre?”
“Entra che beviamo un’ombra e parliamo” gli risponde la donna,
spiegandogli che il palazzo è disabitato perché i nuovi proprietari lo vogliono trasformare in un hotel. Tutti gli inquilini sono
stati costretti ad andar via. Lei è l’ultima. E lì sarebbe rimasta:
solo da morta potevano farla uscire da quella casa dove era nata
e sempre vissuta.
Va in cucina e ritorna con un piccolo boccale di vino bianco e
due bicchieri, inutilmente sollecitandolo a bere; finisce col berli
tutti e due lei, mentre gli racconta che l’anno prima Gianna, sua
madre, era incappata in una retata della polizia ed era stata fermata. Un colpo tremendo per la signora Zolin –povareta– che
dopo il suo arresto non si era più risollevata; portata a forza in Sicilia, dove la figlia e il marito, che era siciliano, si erano trasferiti
e adesso insegnavano.
“Non ho più saputo niente, ma mi hanno lasciato il numero di
telefono della Sicilia per ogni eventualità. Loro ti possono dire
qualcosa di più su tua madre” conclude.
Youssef ritorna fino all’imbarcadero, dirigendosi a piedi verso la
grande piazza; nel primo tabaccaio che incontra compra una scheda telefonica e telefona; una voce metallica gli risponde: “Siamo
spiacenti: il numero selezionato non è attivo”. Eppure il numero è
quello: per timore di sbagliare l’ha controllato più volte dopo averlo trascritto. Ripete l’operazione a ogni cabina telefonica che incontra; ogni volta la stessa voce, la stessa implacabile sentenza.
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Nel frattempo è arrivato a San Marco. Demoni, animali preistorici, uomini tricorni lo circondano.Youssef non sa più né dov’è
né chi è. Corpo in cammino e mente cancellata dal dolore.
Le enormi ali nere di un uomo-pipistrello lo sfiorano.
Fugge per calli, campi, ponti, inseguito dagli insulti dei travolti.
Un vu’ cumpra’, incazzatissimo, minaccia di torcergli il collo,
perché non ha rispetto per il lavoro dei paesani.
Ma Youssef non sente né stanchezza di piede, né battito di cuore;
né riconosce la scalinata e il ponte della stazione accanto a cui si
accoccola inebetito: sua madre persa per sempre tra calli e rii di
quella terrifica città d’acqua.
Nel canale galleggiano coriandoli, sacchetti di plastica, pezzi di
oggetti che vanno ad approdare chissà dove, o a perdersi in mare
aperto. Tutta la sua vita, fin da quando è nato, gli sembra un confluire senza senso nel freddo di quello scalino: è quell’acqua torbida –quei nasi adunchi, quelle maschere beffarde attorno a lui–
la fine del suo viaggio.
Guarda l’ora. Sidi Habibi aveva torto: solo ore cattive aveva segnato l’orologio di Fouad. Vede il volto dell’amico affondare per
sempre nel canale insieme a quello di sua madre all’orologio al
giubbotto al brusio accelerato della vita che gli passa accanto...
Aspetterà la notte...
Le parole disperate della canzone dell’emigrante gli tornano alla
mente come un rap...“Basta! Basta!” grida.
I passanti guardano interrogativi, oltrepassando poi più in fretta
del dovuto il ragazzino seduto a terra che con la testa tra le mani
grida sconsolato: “Safi! Safi!”
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Parole che invece fanno drizzare le orecchie e il passo a un anziano –con barba, bastone e jallaba– che, insieme a un giovane sui
trent’anni vestito all’europea e dall’aria intellettuale, passa poco
lontano da lì.
Seguendo il suono di quella voce i due arrivano a Youssef, che all’improvviso si sente chiamare: “Youssef! Fiato mio!”
“Sono pronto, Sidi” mormora il ragazzo. A occhi chiusi. Senza
cambiare posizione.
Quattro
Durante il lungo tragitto in macchina verso Milano, dove abita
Faysal, il figlio di Sidi Habibi, è tutto un esclamativo e ininterrotto parlare in arabo tra il ragazzo e il conteur.
Pacato ed epico è il racconto di Sidi Habibi: non aveva opposto
resistenza all’acqua e l’acqua l’aveva deposto sulla spiaggia di
Punta Secca, vicino a un villaggio dove italiani e paesani avevano
fatto a gara per aiutarlo a rintracciare il figlio, che si era precipitato a prenderlo a Ragusa. Lo avevano operato a Milano, in una
clinica specializzata. E adesso ci vedeva: non benissimo, ma un
poco ci vedeva.
Concitato e interrotto da singhiozzi è invece quello di Youssef,
che ormai –dice alla fine– non ha più dove cercare sua madre.
“Era destino” conclude impotente, “era scritto”. Il conteur mestamente assente.
È Faysal, che ha guidato senza dire una parola per tutto il tempo,
a rompere il silenzio dicendo al ragazzo che non tutto è ancora
perduto; che talvolta le cose sembrano insormontabili perché,
per ignoranza, spesso non si conoscono le possibili soluzioni, né
il modo giusto per affrontarle. C’è invece ancora speranza di tro101
102
vare sua madre. A Milano farà ricerche in prefettura sui centri di
permanenza temporanea nell’Italia del Nord, e sui decreti di
espulsione negli ultimi due anni. Prima di tutto però bisogna
fare il tentativo di rintracciare il nuovo numero della famiglia
Purisi. E non è difficile; avendo il vecchio numero e quello del
distretto telefonico, ci vuole poco a sapere il nome della città siciliana a cui corrispondono.
Al distributore dove si fermano per fare rifornimento, Faysal col
cellulare chiama la Telecom; gli rispondono che quel vecchio numero rientra nel distretto di Catania –zona di Aci– ma non possono fornire il nuovo.
Una folgorazione. Youssef si batte la mano sulla fronte. “Ma è il
paese di Orazio!” esclama.
103
Cinque
Tre giorni dopo Youssef è sul treno per Catania; ad aspettarlo alla
stazione Orazio, che lo rimprovera affettuosamente: “E che! Le
mani non ce l’hai più! Non mi potevi telefonare direttamente tu
per tua madre?”
Arrivati a Milano, Faysal aveva infatti chiamato subito Orazio
spiegandogli la situazione e chiedendogli di cercare informazioni
–e possibilmente di rintracciare il nuovo numero di telefono–
dei professori Purisi.
Orazio gli aveva risposto che il cognome Purisi era diffusissimo
ad Aci, ma non c’era nessun problema riguardo al numero di telefono: i numeri erano rimasti gli stessi; sarebbe bastato solo
mettere un nove al vecchio numero e avrebbe potuto parlare subito con loro. Cosa che Faysal aveva fatto immediatamente.
La voce della professoressa era squillante. Lo aveva informato che
Gianna era viva, e stava con loro in Sicilia. Rilasciata col decreto di
espulsione e l’obbligo di lasciare l’Italia entro tre giorni, aveva invece telefonato al loro cellulare dalla stazione di Milano chiedendo
aiuto. Loro, che già si trovavano in Sicilia, avevano incaricato una
parente di andarla a prendere, e di metterla su un treno per Catania.
104
Ma l’espulsione, lo spavento, e soprattutto la lontananza dai
figli, di cui da tempo non sapeva più nulla, le avevano provocato
una brutta depressione da cui non era ancora del tutto uscita.
Solo sua madre riusciva a tirarla su; e solo con Gianna sua madre
stava bene. L’arrivo del figlio Youssef avrebbe sicuramente accelerato la sua guarigione. In quel momento tutte e due –Gianna e
sua madre che si era rotta il femore– si trovavano in un centro di
riabilitazione, ma erano alla fine della fisioterapia: il giorno dopo
sarebbe andata a riprenderle.
Mentre in macchina percorrono la strada per Aci, Orazio lo
ragguaglia sui compagni di lavoro, sui proprietari, sulle ricerche che per qualche giorno dopo la sua fuga erano state fatte,
temendo che fosse caduto in qualche vasca d’irrigazione. Alla
fine lui però glielo aveva detto di sua madre. E tutti si erano
commossi. Se avesse voluto, di sicuro lo avrebbero ripreso a lavorare…
Youssef risponde che di una cosa è certo: vuole riprendere la
scuola. Se non fosse stato così ignorante e avesse saputo di più,
tante cose non sarebbero successe; e forse avrebbe trovato prima
sua madre.
“Chi sa, può” dice ripetendo le parole usate da Faysal, quando
gli aveva spiegato che la sua paura di essere rimpatriato, se preso
dalla polizia, era infondata; ai minorenni soli –a tutti: sia quelli
affidati a qualche parente, sia quelli portati in comunità– veniva
dato un permesso di soggiorno fino alla maggiore età. E potevano, volendo, andare a scuola, lavorare come apprendisti, imparare un mestiere.
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“Niurittu, sembri un altro. Come se non fossero passati quindici giorni, ma una vita” gli dice ammirato Orazio.
“Sono un altro” risponde il ragazzo. “Marcuccio e Youssef hanno
fatto pace.”
108
Sei
Lo lasciamo così, Youssef, in macchina sulla strada per Aci, mentre
il Vulcano sfumacchia e tuona.
Orazio guida e parla al cellulare con il figlio di Sidi Habibi, che
vuole sapere se il ragazzo è arrivato.
Passa il cellulare a Youssef che alterna nel suo fitto dire esclamazioni come alhamdulillah! insciallah! Sidi Habibi gli sta dicendo che
presto tornerà in Marocco, e in tutte le fiere e i moussem racconterà la storia del suo avventuroso viaggio dall’Atlante all’Etna in cerca
di sua madre.
E anche la storia di Fouad, e quella della somala, racconterà. Forse,
però, le farà finire bene. E non per tradire la vita. Per conforto di
speranza; di giustizia realizzata. Che non c’è, ma ci può essere. Perché nel racconto anche la vita che non è, prende la parola e si fa vita.
Dall’Etna sfumacchiante piove una cenere nera che si deposita su
uomini e cose. E tutto omologa: speranze e disperazioni. E le vite
perdute e quelle nel cunto ritrovate: perché la vita è raglio d’asino
senza il cunto che la fa conoscenza.
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Finito di stampare a Roma nel mese di giugno 2008 da Futura Grafica ‘70 su carta Fedrigoni Arcoprint Edizioni
Un ragazzino, poco più di un bambino. La madre lontana, in un paese straniero.
Poche lettere, poi neppure più quelle. L’attesa sempre più trepidante di notizie,
poi la paura di averla persa per sempre. Infine, la decisione di imbarcarsi,
attraversare il mare e andarla a cercare laggiù, in quel paese lontano...
Titolo, trama, personaggi, tutto è esplicito e diretto riferimento al racconto
di Edmondo De Amicis Dagli Appennini alle Ande. Ma Marco è diventato Youssef,
il suo paese non è ai piedi dell’Appennino ligure ma dell’Atlante marocchino,
l’Eldorado non si chiama Argentina ma Italia.
€ 14,50