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LA FATICA DI CRESCERE
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LA FATICA DI CRESCERE
Bambini e disagio nell’area torinese
A cura di DARIO REI
Con un commento conclusivo di Roberto Maurizio
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Progetto grafico e impaginazione:
Maria Beatrice Zampieri
Illustrazione di copertina:
Dragos Georgescu
Finito di stampare nel mese di Agosto 2002
presso GRAF ART, Venaria (TO)
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Quando ci si accosta all’Isola del Tesoro,
i pirati se ne sono già impadroniti.
(P. MATVEJEVIC)
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PRESENTAZIONE
P
aideia è una O.N.L.U.S. che opera prevalentemente a livello regionale per migliorare
le condizioni di vita dei bambini disagiati, finanziando e promuovendo nuove iniziative in campo sanitario, educativo, assistenziale e ricreativo.
Nel quadro delle sue attività istituzionali la Fondazione ha ritenuto opportuno affiancare ai consueti programmi di intervento, un lavoro di ricognizione analitica sul mondo
dell’infanzia, sulle tendenze in atto e sulle domande vecchie e nuove che ancora attendono
risposta. Il presente rapporto è il risultato di un’esplorazione informativa e critica nell’area
torinese, intorno ad una serie di problemi che interessano la vita e lo sviluppo dei bambini:
un quadro necessariamente incompleto ma che offre più angolazioni e diverse visioni di ciò
che abbiamo voluto chiamare «la fatica di crescere».
Frutto di un lavoro collettivo, la ricerca si è giovata dell’apporto di operatori che agiscono in specifici settori di responsabilità e che hanno trasferito nei loro capitoli un’esperienza
maturata direttamente sul campo.
• Mauro Perino, direttore C.I.S.A.P. (Capitolo 2)
• Ketty Brucato, assistente sociale presso l’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino.
(Capitolo 3)
• Filippo Furioso, insegnante e consulente dell’Ufficio Scolastico Territoriale. (Capitolo 4)
• Marina Sutelli, responsabile di redazione del servizio “Informa Handicap” del Comune di
Torino. (Capitolo 5)
• Luciano Tosco, responsabile del settore Minori presso l’Assessorato ai Servizi Sociali del
Comune di Torino. (Capitoli 6 e 7)
• Sued Benkhdim, mediatrice culturale presso l’istituto minorile Ferrante Aporti di Torino.
(Capitolo 8)
Ha fatto seguito a questi contributi una serie di interviste ad esperti e testimoni torinesi
allo scopo di sondare e meglio delineare le aree problematiche ed i possibili interventi.
Il gruppo di ricerca è stato diretto da Dario Rei, docente di Politica Sociale presso
l’Università di Torino al quale si deve anche l’inquadramento generale (Capitolo 1), la realizzazione e la sintesi delle interviste (Capitolo 9), oltre all’armonizzazione del testo definitivo.
Roberto Maurizio, studioso di problemi educativi e collaboratore del Centro Nazionale per l’Infanzia di Firenze, ha delineato le prospettive che concludono il rapporto. (Capitolo 10)
Chiara Serra e Filippo Pugnani hanno curato la stesura dei protocolli d’intervista e la
correzione del testo finale.
Fabrizio Serra che con me ha ideato questo lavoro, ne ha anche assicurato la continuità
e il coordinamento organizzativo.
Con questo rapporto Paideia si augura di fornire uno strumento che aiuti a conoscere e
comprendere ciò che si fa e ciò che potrebbe essere fatto per l’infanzia, da parte delle istituzioni, dei soggetti sociali organizzati e degli attori locali, pubblici e privati. La pubblicazione apre una strada che la Fondazione intende proseguire ed estendere, adottando una metodologia per bandi che consenta di raccogliere idee e proposte, di attuare progetti significativi e intervenire sulle aree reali di difficoltà e bisogno. Ed in questo spirito propone le pagine seguenti alla lettura di tutti coloro che siano interessati ad avviare nuove esperienze di
fruttuosa collaborazione.
MARCO SOBRERO
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UN QUADRO DI RIFERIMENTO
1
1.1 Bambini e problemi
Le classi d’età
Bambini sono persone comprese fra 0 e 13-14 anni di età. La fascia si può
ulteriormente scomporre in tre classi di età, 0-3 (4) prima infanzia, 4 (5)-10
infanzia o fanciullezza, 11-13 (14) preadolescenza. Prepara la fase 14-18
adolescenza, che si prolunga in una giovinezza, estesa almeno fino ai 24 anni. Le soglie rilevanti in questo ciclo sono l’inizio della scolarità obbligatoria; il suo termine; l’età minima legale per il lavoro (in Italia 15 anni); l’ingresso nella maggiore età giuridica (18). Vale anche il criterio della imputabilità (14 anni). Considerando i 14 anni la soglia massima a cui limitare la
condizione che facciamo oggetto di osservazione, segnaliamo in apertura la
preoccupazione che «i bambini da 0 a 13 anni sono la condizione sociale più
a rischio in Italia».
È in generale sempre vero che infanzia e adolescenza rispecchiano la società, ma è altrettanto vero che il rapporto Infanzia adolescenza vs. Società
e istituzioni presenta oggi una problematica insolita. La famiglia negli ultimi decenni ha vissuto profonde trasformazioni. Contrazione del numero
dei componenti, abbassamento del tasso di natalità, ritardo della nascita del
primo figlio, «paura della procreazione», sindrome di perdita del futuro,
cambiamenti negli stili e nelle culture educative. Per citare un dato casuale,
ma curiosamente significativo, a Milano in un giorno di giugno 2001 sono
nate più imprese che bambini.
A ciò si aggiunge l’instabilità coniugale; la formazione di nuovi tipi di famiglia ricostituita (Zani e Palmonari 1996; Barbagli Saraceno 1998); un generale spostamento dell’attenzione e del peso delle politiche sociali verso le
generazioni anziane; una maggiore difficoltà di trasmissione intergenerazionale di saperi, valori, consuetudini. Col paradosso che il tempo dedicato
all’allevamento dei figli piccoli si riduce (nel caso dei genitori che entrambi
lavorano), mentre si allunga a proporzioni inusitate il tempo di permanenza in famiglia di giovani che stentano a conseguire la pienezza dei ruoli
adulti.
Mentre la famiglia sembra perdere in parte la sua forza e il suo rilievo
«come istituzione», il modello istituzionale «europeo» di famiglia ed educazione viene sfidato dal sopraggiungere di gruppi etnici, che hanno organizzazioni e stili di vita familiari assai discosti dai nostri, conseguenti domande di accoglienza, sanità, inserimento scolastico e lavorativo, connessi problemi di abbandono, marginalità, devianza.
9
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I bambini nel welfare italiano
I problemi che riguardano i fenomeni di natalità e riproduzione in Italia
si presentano in forme peculiari. L’Italia è l’unico paese dell’Unione europea
in cui il peso delle persone con 65 e più anni supera quello dei bambini fino
ai cinque anni (17% contro 13%). Secondo OCSE (Rapporto Starting strong)
l’Italia in Europa è in testa alla classifica della denatalità, e la quota dei bambini sotto i 6 anni è scesa, in termini assoluti (da 3,4 a 3,2 milioni) e relativi
(dal 6% al 5,6% della popolazione: tabella 1.1).
Tabella 1.1 – Percentuali di persone sotto i 6 anni di età nella popolazione di alcuni
paesi europei
Paese europeo
1990
1999
Belgio
7,1
6,9
Danimarca
6,6
7,8
Finlandia
7,5
7,2
Norvegia
7,7
8,2
Olanda
7,4
7,4
Portogallo
7,1
6,6
Rep. Ceca
7,4
5,8
Regno Unito
7,9
7,4
Svezia
7,5
6,9
ITALIA
6,0
5,6
(Fonte OCSE, 2001)
L’Unione europea ha una presenza infantile inferiore a paesi come gli
Usa (8,6% nel 1996)e Australia (8,1 nel 1999). A parte il caso ceco, che rende
manifesto il drammatico peggioramento dalla condizione infantile in tutta
l’Europa ex-socialista, in Europa la riduzione della natalità ha a che fare con
scelte di vita individuali (femminili, e non solo), le caratteristiche del mercato del lavoro, il costo dei figli e le politiche di welfare.
L’eterogeneità delle politiche per la famiglia che si registra in tutta
l’Unione europea discende dal modello di welfare presente nel sistema nazionale. Si pensi alla distanza che intercorre fra un modello male bread-winner (che tendenzialmente non prevede la donna sul mercato del lavoro, e favorisce la copertura previdenziale dei carichi di famiglia attraverso il capofamiglia maschio occupato) ed un modello dual earner family (che favorisce
la presenza della donna attraverso una offerta più generosa di servizi per la
prima infanzia e di congedi parentali: tabella 1.2).
10
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Tabella 1.2 – Welfare per la maternità e la prima infanzia in Europa
Paese
Durata congedi di
maternità (settimane)
Copertura
(% della retribuzione)
Servizi per 0-3 anni
(% utenti)
Belgio
15,3
077
30
Danimarca
30,3
100
64
Finlandia
52,3
070
22
Norvegia
42,3
100
40
Olanda
16,3
100
06
Portogallo
24,3
100
12
Regno Unito
18,3
044
34 (Inghilterra)
Rep. Ceca
28,3
069
01
Svezia
64,3
063
48
ITALIA
21,5
080
06
(Fonte OCSE, 2001)
In Italia i trasferimenti del welfare hanno a che fare, se previdenziali, con
la presenza di un genitore sul mercato del lavoro regolare; se assistenziali,
con stati di bisogno da povertà economica accertati nell’ambito della famiglia. Sono erogati a livello centrale (assegni al nucleo familiare, assegni di
maternità a base previdenziale), e a livello locale da parte degli enti gestori
dell’assistenza (sussidi di assistenza economica, assegno per il terzo figlio,
assegno di maternità, reddito minimo di inserimento). Poiché il costo medio di mantenimento di un figlio è stimato (in Italia) in circa 10 milioni di lire/anno, è evidente che sia i trasferimenti negativi (come le detrazioni fiscali), sia i sostegni diretti (assegni previdenziali, sussidi assistenziali) restano distanti da tale livello.
Da una parte, l’estensione e l’incremento dei trasferimenti sono invocati a sostenere i costi ordinari, che una famiglia affronta per allevamento cura ed educazione dei figli, riconoscendo l’impatto che la nascita e la «gestione» dei figli hanno sul complessivo budget, a confronto con le famiglie che
non hanno (o non hanno più) analoghe esigenze. Dall’altra parte, il sostegno al reddito di famiglie con figli si muove seguendo criteri condizionali: se
il capofamiglia è un lavoratore occupato, specie se a bassa retribuzione, oppure se rientri in una qualche situazione di povertà, che è riconosciuta meritevole di essere protetta.
Rispondere alla esigenza del primo tipo comporterebbe «un’inversione
di tendenza al deterioramento relativo della posizione della famiglia con
minori, rispetto a quella che non ne ha e a quella che ne ha uno solo» (CNCA, 1997). Per quanto riguarda le prestazioni condizionali, il livello degli assegni familiari aggiunti alla retribuzione del lavoro, e le modalità delle indennità di disoccupazione fornite ai capifamiglia, incidono sulla condizione dei bambini all’interno delle famiglie e sul complessivo tasso di bambini
poveri nella popolazione. Si confronti la situazione della povertà infantile,
più elevata in Gran Bretagna rispetto a Germania, Francia (allocation parentale d’éducation fornita dalla sécurité sociale), Svezia e Olanda. Anche in
paesi come l’Italia e la Spagna, dove il numero dei figli per donna è dimi-
11
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nuito radicalmente, raggiungendo i livelli più bassi del mondo, la povertà
dei figli è in aumento. In altri termini, il tasso di povertà dei figli nella popolazione non dipende dalla mera ampiezza dell’aggregato familiare, ma da
variabili, quali la durata della disoccupazione dei capifamiglia, il livello della relativa indennità, il livello complessivo della spesa sociale, il livello dei
trasferimenti mirati a sostenere il carico di mantenimento per le famiglie
problematiche.
Da questo punto di vista, l’Italia non ha finora assunto nemmeno le famiglie a un solo genitore (perlopiù donna) come target specifico di appositi
sostegni economici. Né ha accettato il suggerimento (avanzato in passato
da E. Gorrieri) di porre alla base dei trasferimenti di welfare il parametro del
«reddito familiare disponibile», che combina varie dimensioni: il rapporto
fra percettori di reddito e persone a carico, il costo dei carichi ordinari di
educazione e di care, il costo dei carichi aggravati di assistenza specie ai non
autosufficienti. Per contro, una ipotesi di market welfare in via di espansione preferisce compensare gli eventuali carichi di famiglia con il ricorso più
ampio allo strumento fiscale (detrazioni d’imposta, deduzioni). Mantenendo una linea «agnostica» rispetto al riconoscimento delle situazioni «meritevoli» di trasferimenti assistenziali positivi, questo approccio non sembra
favorevole all’ampliamento dei servizi a diretto carico della spesa sociale
pubblica.
La discontinuità educativa e gli scambi difficili
12
Dopo gli aspetti economici e finanziari, vengono i problemi di scambi e
investimenti intergenerazionali, in senso lato educativi. Registriamo una
crisi evidente dei processi di socializzazione, misurata dall’indebolimento
delle competenze genitoriali, dalla perdita di credibilità e consenso delle
istituzioni scolastiche, dalla crescita abnorme della esposizione ai media,
dal diffondersi di allarmi, connessi a – reali e rappresentati – fenomeni di
abuso, prevaricazione e violenza. Poiché la socializzazione è il canale di comunicazione fra il mondo vitale del bambino e la società degli adulti, viene
da chiedersi che cosa sanno dare gli adulti ai bambini in termini di investimento culturale (cognitivo e valoriale) e morale (fiducia e relazione), oltre
che economico (mantenimento, reddito, consumi).
Va detto che la propensione a riorientare le politiche sociali dei paesi a
welfare progredito, in direzione del lavoro educativo e di care per i bambini,
si scontra con le trasformazioni sociodemografiche che mettono in tensione il welfare stesso. Basta considerare: la limitata generalizzazione dei servizi per la prima infanzia, il conflitto fra occupazione femminile e cure familiari, il rinsecchimento longitudinale delle generazioni, conseguente alla caduta della natalità e allo sfrondarsi della parentela. La prospettiva surreale
di paesi composti «di figli unici di figli unici» – dove ogni giovane senza zii
né cugini avrà a carico due pensionati e sei vecchi fra genitori e nonni – getta ombre sulla stabilità dei sistemi di sicurezza sociale.
Letta invece nel quadro della globalizzazione, la condizione infantile pone in evidenza una serie di altri problemi che «in questa nostra parte del
mondo» recano con sé echi di un mondo che si ritiene passato. Tuttavia
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«metà delle persone povere del mondo sono bambini»1. Malnutrizione e
morte per fame; sfruttamento nel lavoro; guerre subite, e talvolta combattute; sfruttamento sessuale; assenza di scuole ed analfabetismo: altrettanti
elementi di una «pedagogia nera» che non possiamo dire di avere lasciato
per sempre alle nostre spalle.
1.2 Bambini in Piemonte
I bambini cittadini italiani
Limitiamo la nostra osservazione alla popolazione infantile del Piemonte, riprendendo le informazioni fornite dalla Banca Dati Demografici Evolutiva della Regione Piemonte.
Nel 1999 la popolazione residente in Piemonte contava 510 mila persone tra 0 e 14 anni, pari all’11,92% della popolazione residente totale (tabella 1.3).
Tabella 1.3 – Popolazione infantile in Piemonte
Classi di età
M
F
MF
Pr. TO M
Pr. TO F
Pr. TO MF
0-4
87601
82711
170312
46031
43300
89331
5-9
87568
83272
170840
45568
43210
88778
10-14
87399
82309
169708
45561
42915
88476
tutte
262568
248292
510860
137160
129425
266585
(Fonte Regione Piemonte su dati BDDE al 31.12.1999)
Nel comune di Torino al 31.12.98 si contavano 91.498 persone comprese
fra 0 e 13 anni, pari al 10,1% della popolazione residente (tabella 1.4).
Tabella 1.4 – Popolazione infantile a Torino città
Classi di età
M va
M%
F va
F%
MF va
% sul totale
0-13
47020
51,4
44.478
48,6
91.498
10,1
14-17
14269
51,4
13482
48,6
27751
3,1
popolazione
436444
48,0
473297
52,0
908741
100,0
(dati BDDE Regione Piemonte al 31/12/98)
L’andamento della struttura per età della popolazione piemontese segnala,dal 1951 al 1971, un costante incremento della fascia 0-14, seguito da
un consistente decremento dal 1981 ad oggi. Il peso relativo della fascia di
età 0-14, che sfiorava il 20% nel 1951, a fine secolo è di poco superiore al
10%.Il fenomeno riflette l’impatto e il successivo assestamento del saldo migratorio interno, la costante riduzione dei tassi di mortalità e di natalità, il
ridimensionamento dell’aggregato familiare.
Questo mutamento avviene nel quadro di un decremento complessivo
13
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della popolazione piemontese, che dall’86 al 99 è diminuita di circa 75 mila
unità. Nel periodo 97-99 il tasso di natalità in Piemonte è stato pressoché costante su un valore 8,06-8,08 per mille (a fronte di un tasso di mortalità 11,511,7 per mille).Le province con tassi di natalità più alti sono, nell’ordine,
Cuneo, Novara e Torino. Tra il 91 ed il 99, mentre la classe d’età compresa fra
5-9 anni nella popolazione piemontese ha perso 2240 unità (-1,29%)e la
classe d’età 10-14 ha perso 36408 unità (-17,66%), nella classe d’età 0-4 anni vi è stato un incremento di 6178 unità, ossia un guadagno del 3,76%.
I bambini stranieri e le tendenze demografiche
Alla popolazione dei bambini cittadini italiani vanno aggiunti i bambini
figli di cittadini stranieri. Secondo l’indagine ISTAT sui cittadini stranieri
iscritti alle anagrafi comunali, in Piemonte il loro numero è passato dal 93 al
99 da 36 mila a 79.900, di cui 14.900 minorenni. La popolazione straniera residente al 1.1.2000 risultava di 92.768 unità, di cui 18.645 minorenni 2. A
Torino (dati dell’anagrafe comunale) la popolazione straniera residente al
30 giugno 2001 contava 39.516 persone (54% maschi e 46% femmine), di cui
7283 minorenni (nati dopo il 30 giugno 1983, di cui il 51,1% maschi e 48,9%
femmine).
Quanto ai permessi di soggiorno, a fine 98 risultavano essere 6036 per la
fascia di età 0-18 (compresi) o circa 5800 minorenni (di cui 2689 fino a 14 anni di età). Le comunità etniche più numerose a Torino, secondo dati dell’anagrafe cittadina, sono nell’ordine decrescente marocchini (9603), rumeni
(4720), peruviani (2891), albanesi (2241), cinesi (2010) e filippini (1664). Il
numero dei nati nella popolazione straniera residente è in cinque anni triplicato, passando da 485 (1993)a 1516 (1998). Nel periodo 1992-96 sono stati celebrati ogni anno 860 matrimoni con almeno un coniuge straniero. I nati (anno 1996) erano per il 51,9% figli di genitori entrambi stranieri, per il
32,4 da madre straniera e padre italiano, per il 15,7 da madre italiana e padre straniero. Nel 1999 i bambini nati da almeno un genitore straniero sono
stimati in circa 2200, pari al 6,3% delle nascite totali.
14
Due conclusioni significative di una recente indagine IRES sulle tendenze della demografia piemontese:
❖ le immigrazioni non sono mai riuscite a mutare in modo strutturale
e duraturo le tendenze di fondo della popolazione locale (denatalità
e invecchiamento);
❖ il meccanismo più rilevante,che offre spiegazione della bassissima
natalità piemontese, chiama in causa non tanto una rinuncia alla
procreazione, quanto la crescente tendenza al rinvio dell’inizio dell’attività riproduttiva ad età in cui diventa obiettivamente difficile generare più d’un figlio: «se si riuscisse ad anticipare una parte delle nascite dei primogeniti rispetto all’arco di vita dei loro genitori, si potrebbe probabilmente favorire un aumento delle nascite di secondo e
terzogeniti, alzando i tassi di riproduzione generali»3. I tassi di occupazione femminile a tutte le classi di età hanno una incidenza sul numero dei figli conviventi ed in particolare sulla scelta di non averne,
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con un differenziale negativo del Piemonte rispetto all’Italia che si attesta sul 13-14% per donne in età fra 25 e 39 anni4.
Il piccolo recupero delle nascite negli ultimi anni (+1300 nati in regione
nel 1999 rispetto alla media 93-96) non può essere attribuito in modo particolare ad una sola componente delle scelte riproduttive. «Su quella decisione potrebbe influire un secondo fattore più congiunturale collegato con il
miglioramento del ciclo economico in atto e delle prospettive del mercato
del lavoro. Infine va ricordato il contributo delle nascite da immigrati stranieri, ancora poche rispetto alla presenza di questi ultimi, ma certamente in
crescita in parallelo con il loro inserimento nel lavoro e nella società»5.
La crescente presenza di bambini stranieri residenti nel territorio è rispecchiata dall’incremento di questa popolazione nelle scuole (vedi capitoli 4 e 8). In cinque anni (dal 91 al 96) il totale degli stranieri iscritti è passato
da 0,4% a 1,0% sul totale, l’incremento interessa soprattutto la scuola elementare e materna. L’apporto di allievi stranieri all’incremento delle materne e delle elementari è comune a tutta Italia, e Torino è, dopo Milano e
Roma, la provincia con l’incidenza più elevata di allievi stranieri.
In quali famiglie
Per quanto concerne la tipologia familiare, i bambini in Piemonte (Rel.
IRES 1995 p. 209 ss.) erano collocati in sette diverse situazioni: a coppia coniugata b famiglia con un solo genitore padre c famiglia con un solo genitore madre d famiglia estesa (con ascendenti) e famiglia multipla f famiglia di
fatto g altro (tabella 1.5)
Tabella 1.5. – Bambini in Piemonte per tipologia familiare
Classi
V.A.
a
b
c
d
e
f
g
0-5
197700
84.4
0.6
3.5
4.7
2.9
3.5
0.3
6-10
178400
83.9
1.0
5.0
5.5
2.0
2.4
0.2
11-13
123300
82.6
1.4
5.9
6.1
1.7
2.0
0.3
0-13
499400
83.8
0.9
4.3
5.2
2.5
2.8
0.3
(Fonte IRES 1995)
Dati più aggiornati relativi a Torino (Tabella 1.6) consentono di individuare analiticamente in quali tipi di famiglie si trovano i bambini delle diverse classi di età. Si vede che le famiglie nucleari ristrette (con un massimo
di due figli) rappresentano oltre due terzi delle situazioni familiari torinesi,
in cui vivono figli di età inferiore ai 14 anni.
15
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Tabella 1.6. – Tipologie familiari con bambini a Torino-città
Tipologia
0-2 anni
3-5 anni
6-10 anni
11-13 anni
coppie+1 f
6418
coppie+2 f
5051
coppie+3+f
padre con f
14-17 anni
5513
6153
3265
4667
7783
14451
8763
11259
1117
1650
3666
2478
3203
256
229
452
338
623
madre con f
1597
1903
3855
2709
3804
altri con f
2168
1841
2182
1131
1410
(Dati Bollettino Statistico del Comune di Torino, riferiti al primo semestre del 2001.
I valori indicano la numerosità dei tipi di famiglie, non il numero dei bambini.)
La formazione di famiglie diverse dalla tradizionale famiglia coniugale a
un solo nucleo evidenzia l’estendersi di processi di instabilità nella convivenza familiare. Le dinamiche di instabilità familiare si riflettono anche in
ambito piemontese negli interventi adottati dal sistema giudiziario:
❖ Nel 1998 in Piemonte i provvedimenti di separazione per via giudiziaria hanno interessato 6241 donne e 6220 uomini; i provvedimenti
di divorzio 3410 donne e 3391 uomini.
❖ I provvedimenti relativi alla potestà dei genitori sono stati 1539 nel
triennio 96-98. Sempre nel triennio 96-98 i provvedimenti per regolamentare la potestà fra genitori naturali sono stati 1817.
❖ I figli naturali costituiscono circa il 10% dei nati; l’1,1% dei nati non è
riconosciuto da nessun genitore (dati 1996 riferiti a 3435 nascite naturali in Piemonte).
❖ L’ adozione si rivolge con ampiezza su «mercati» esteri. Le richieste,
dapprima prevalenti verso il Sud America, mostrano un più recente
orientamento all’Europa dell’Est. Accanto all’adozione internazionale
definitiva, vanno considerate le esperienze di bambini stranieri temporaneamente ospitati: si vedano in Piemonte i casi dei «bambini di
Chernobyl» e dei bambini ceceni accolti per iniziative di volontariato.
1.3 La protezione della vita e il sistema delle tutele
Alla base di tutte le politiche sociali che concernono la condizione di vita dei bambini, si pongono, in primo luogo, gli atti di tutela «inderogabile»
che si preoccupano della sussistenza in vita e della integrità fisica e psichica del bambino.
La casistica
16
❖ Nel 1996 il tasso di mortalità infantile era di 6,1 morti ogni 1000 nati
vivi (più elevato del tasso italiano, nel 1997 del 5,9 per mille per i ma-
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❖
❖
❖
❖
❖
schi e 5,1 per mille per le femmine). Le principali cause di morte per
persone da 0-14 anni nel periodo 91-96 sono, dopo le condizioni
morbose di origine perinatale, traumatismi e avvelenamenti (222 casi) e tumori (160).
L’incidentalità stradale nel 1998 ha prodotto 1 morto fra conducenti
compresi fra 10 e 14 anni, 10 feriti fra conducenti di età inferiore a 10
anni (di cui due femmine)e 128 feriti fra conducenti di età 10/14 (di
cui 23 femmine).I trasportati morti in età compresa fino a 14 anni sono stati in totale 10, i trasportati feriti ben 484, di cui il 57,4% sotto i
dieci anni.
Nel 1998 non vi furono casi di suicidi accertati di persone fino ai 13
anni ed 1 caso di tentato suicidio. Di contro, 1 caso di suicidio di persone tra 14 e 17 anni e 8 casi di tentati suicidi in quella medesima fascia di età.
Per abusi e maltrattamenti, con conseguenti lesioni fisiche e psichiche, nel triennio 96-98 sono stati emessi dal Tribunale per i Minorenni nel distretto di corte d’appello di Torino 2012 provvedimenti di
urgenza a tutela del minore. Tali provvedimenti nel 38,2% dei casi
(772) sono di allontanamento. La quota degli allontanamenti sul totale dei provvedimenti è in aumento (quasi il 50% nel 1998).
I delitti denunciati di «atti sessuali con minorenni» in Piemonte dal
1985 al 1999 sono stati 216, con una media per anno pari a 14,4 casi,
salita nel 1998 a 22, 30 nel 1999. La tendenza è comune all’Italia e riflette probabilmente una più avvertita attenzione sociale al fenomeno ed una più incisiva azione di contrasto al problema. Nel periodo
1995-1999 le denunce di questi reati sui bambini con meno di 14 anni in Italia sono quasi triplicate, passando dalle 205 del 1995 alle 511
del 1999. «Deve tuttavia essere chiaro che queste statistiche non riflettono in modo soddisfacente la realtà»6.
Non è dato conoscere l’incidenza in regione Piemonte della presenza
di minori in carcere insieme alle madri detenute (al 31.12.2000 risultavano 78 casi in tutta Italia con 70 donne detenute).
Le risposte giudiziarie e dei servizi
La dispersione nel sistema della «giustizia minorile» delle competenze,
attribuite a diversi enti (Tribunale dei Minorenni in sede penale e in sede civile; Tribunale ordinario in sede penale e civile; Giudice tutelare; servizi sociali del Ministero di Grazia e Giustizia; amministrazioni comunali e servizi
sociali territoriali) da tempo sollecita forme di ricomposizione e integrazione, che rendano più omogenea e rapida la definizione delle situazioni e dei
problemi. Un precedente interessante al riguardo è l’istituzione presso il
Tribunale ordinario di Torino di apposita sezione «per le fasce deboli» adulte. La legge 66/96 prevede l’istituzione di luoghi neutri ossia attrezzati per
audizioni protette, perizie di minori, interrogatori e per incontri fra genitori
e figli in situazioni di accesso regolato in via giudiziaria.
Tra i problemi di risoluzione difficile, figura il trattamento dei minori
stranieri non accompagnati; questione che si situa, con una problematica
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giuridica complessa e peculiare, all’interno del più generale problema del
trattamento dei minori stranieri non residenti. È stata di recente sperimentata nell’ambito della L.285/97 a Torino la cosiddetta «tutela civile»: minori
ultraquindicenni sono accolti in strutture, e affiancati da tutori «privati» (ossia diversi dall’amministrazione comunale) proposti da associazioni, cooperative, professioni ecc. Il tutore assume varie funzioni, tra cui la rappresentanza legale del minore, il supporto all’inserimento scolastico e professionale, l’accoglienza in strutture residenziali ecc.
Per connessione, si accenna alla collaborazione fra servizi socioassistenziali, servizi sociali del Ministero Grazia e Giustizia e istituzioni del circuito
penale minorile (Centro di Prima Accoglienza e Istituto Ferrante Aporti). Il
Codice di procedura penale minorile (Dpr 448/88, art.19) prevede la collaborazione fra i servizi e l’Ufficio servizio sociale minorenni del Ministero di
Grazia e Giustizia; consente l’utilizzo, attraverso convenzioni, di comunità
di accoglienza, anche per minori che vi sono destinati dal Tribunale a titolo
di misura cautelare. Un protocollo d’intesa fra Ministero di Grazia e
Giustizia e Regione Piemonte consente l’assistenza sanitaria ai minori figli
di donne detenute.
Nel quadro di attenzione alle problematiche dell’abuso7 confluiscono
preoccupazioni per diversi aspetti di violenza e maltrattamento, che hanno
per oggetto i minori: violenza e maltrattamento fisico (battering); trascuratezza materiale e affettiva, abbandono (neglect); abuso affettivo e psicologico; abuso e violenza sessuale (abusing). Situazioni a cui risultano più esposti i figli di genitori che si trovano in particolari condizioni di sofferenza e
marginalità (tossicodipendenti, psichiatrici, alcolisti) o vulnerabili a fattori
di rischio e di stress, che accentuano la propensione al maltrattamento.
Emerge altresì l’esigenza di un lavoro integrato fra istituzioni, servizi e operatori della sfera giudiziaria, sanitaria (NPI, psichiatria, pediatria di base,
consultorio pediatrico, SERT) e sociale (scuola, servizio sociale, consultorio
familiare). Altre attività significative in materia sono svolte da centri privati
di formazione ed associazioni di tutela, che si dedicano in particolare allo
studio e al trattamento dell’ abuso a contenuto sessuale, che appare la forma di abuso socialmente più allarmante.
1.4 I servizi sanitari e sociali
I servizi per la generalità dei bambini fanno riferimento alle loro esigenze ordinarie di integrità e crescita. Garantire salute e istruzione sono fra i
contenuti di una cittadinanza sociale, che include anche i bambini.
Descrizione dei servizi
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❖ La principale risposta ai bisogni di salute dei bambini è fornita dai
servizi sanitari, ospedalieri e territoriali. Esistono in Piemonte 1469
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posti letto in istituti ostetrico ginecologici (al 94,6% pubblici), 518 posti letto in istituti pediatrici, interamente pubblici. Ad essi si aggiungono i ricoveri in regime ospedaliero ordinario e in day hospital. I tassi di ospedalizzazione totali per bambini con meno di un anno sono
stati (dati `97) del 1254,8 per mille, il tasso di ospedalizzazione nella
fascia 1-14 anni è stato del 152,9 per mille. I servizi tipici sono forniti
dai dipartimenti materno-infantili delle aziende sanitarie locali, dal
pronto soccorso pediatrico e dalla pediatria di base. Nelle ASL a livello territoriale sono inoltre collocati servizi e interventi sociosanitari
(consultori familiari, neuropsichiatria infantile), che stanno «a ponte» con i servizi sociali veri e propri.
❖ I servizi sociali per la generalità della popolazione infantile comprendono:
• servizi di istruzione, forniti dalla scuola dell’infanzia (non obbligatoria) e dalla scuola dell’obbligo (elementare e media inferiore);
• servizi socioeducativi orientati alla socializzazione ed alla crescita,
quali: asili nido, soggiorni di vacanza, centri di educazione extrascolastica, con varie modalità di gestione (pubblica, associativa e di
mercato);
• servizi compensativi per condizioni di svantaggio (disabili, stranieri, aree e territori svantaggiati ecc.). I loro interventi sono universalistici, quando forniscono risorse aggiuntive, allo scopo di consentire ai soggetti svantaggiati la miglior fruizione di servizi di carattere generale. Sono compensativi, se e in quanto realizzano attività rivolte alla «integrazione», o quanto meno all’«inserimento» nel sistema delle risorse comuni. In caso contrario, rientrano in una dimensione assistenziale, che mescola elementi di controllo e aiuto, in
una logica di mantenimento della condizione differenziale.
Fattori di disagio
Un cenno ai problemi connessi alla fruizione dei servizi, rimandando all’analisi approfondita dei singoli capitoli, può essere così delineato.
❖ Al censimento 1991 in Piemonte il tasso di scolarizzazione ai cinque
anni si conteneva ad una soglia relativamente modesta (14,7 %), per
diventare pressoché universale tra sei e tredici anni (98,7-98%), cominciando a flettersi ai quattordici anni (90,4%), in presenza di una
uscita anticipata per conseguimento dell’obbligo scolastico e/o per
fenomeni di evasione. Si stimava che su 100 alunni iscritti in prima
elementare in Piemonte nel 1996-97, il 2,3% sarebbe uscito dal sistema scolastico senza conseguire il titolo di scuola media ed il 6,8%
non avrebbe proseguito alla scuola superiore, secondaria e/o professionale (v. capitolo 4).
❖ Nell’inserimento scolastico dei disabili, la fascia scolastica più aperta risulta essere quella dell’obbligo (elementare e media).
❖ La scuola per l’infanzia (in passato detta «materna») diventa quasi
universale nell’ultimo anno (il quinto di età) che precede l’ingresso
nella elementare, con frequenza statale, comunale o privata. La ma-
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terna privata (in prevalenza di matrice religiosa),conta in provincia di
Torino 200 presenze e circa 14 mila alunni, che valgono il nono posto
per numero in Italia (dati FISM).
❖ Gli asili nido servono una popolazione infantile fino ai 3 anni. Dei circa 2000 asili nido comunali in Italia, in prevalenza concentrati al
Centro Nord, 211 sono in Piemonte. Secondo dati della metà degli
anni Novanta, i bambini frequentanti tali asili erano 5913, di cui 34%
a Torino città (59 asili), 26% in provincia di Torino (53 asili),il restante 40% nei 99 asili distribuiti in regione. L’incidenza dei frequentanti
sui bambini fino a 3 anni residenti era del 6 %, in perfetta media nazionale. Nella provincia di Torino – città esclusa – erano in funzione
nel 1998/99 52 asili nido comunali, con una media annua di circa
2300 iscritti, e circa 600 bambini in lista di attesa.
La domanda di accesso agli asili nido è insoddisfatta soprattutto nelle
aree a più alta densità di popolazione, e per coppie in cui entrambi i genitori lavorano (tre quarti dei bambini del nido in Italia hanno la madre in questa condizione). Ai 100 mila bambini in Italia che frequentano asili nido, se
ne aggiunge un doppio (stimato) parzialmente affidato a personale retribuito (baby sitters e simili). La Regione Piemonte, che finanzia per circa 1/4 la
spesa complessiva sostenuta dai Comuni, ha proposto il riconoscimento di
un servizio («centro di custodia oraria denominato comunemente baby
parking»), che accoglie bambini non in età di scuola dell’obbligo (di norma
fra 13 mesi e 6 anni di età), con un massimo di 25 bambini per struttura. A
differenza dell’asilo nido, il B.P. non dispone di servizio di mensa, ha orari ridotti di permanenza, flessibilità di accesso e ritiro. Può essere istituito «anche presso aziende e centri commerciali». Il suo funzionamento è regolato
da autorizzazioni ai sensi della L.R.62/95.
1.5 I servizi socioassistenziali
Descrizione dei servizi
20
I servizi socioassistenziali sono rivolti a bambini, che hanno particolari
esigenze di assistenza e sostegno, e si trovano esposti a difficoltà gravi, dovute ad un contesto familiare mancante, assente o maltrattante, ed ai rischi
che ne conseguono di esclusione sociale e marginalità cronica.
Secondo la definizione data dal D.Lgs.112/98, art.123, i servizi sociali (in
realtà socioassistenziali) affrontano situazioni di bisogno e di difficoltà «che
la persona umana incontra nel corso della sua vita». Il Fondo per le politiche
sociali – istituito dalla finanziaria per il 98 – indicava tra i destinatari degli
interventi finanziati dal Fondo «infanzia e adolescenza, minori a rischio, disabili, famiglia» (art.59). Lo stesso D.Lgs.112/98 indica tra i destinatari: i minori, inclusi i minori a rischio criminale di cui alla legge 216/91; i giovani; le
famiglie (art.127).
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In ambito regionale la L.R. Piemonte n.62 del 1995 ha istituito il servizio
socioassistenziale, con la finalità di «prevenire e rimuovere» situazioni di
«bisogno rischio ed emarginazione» che riguardano le persone e le famiglie
in stato di difficoltà. La tipologia delle attività che hanno più diretto interesse verso i minori comprende: assistenza economica, assistenza domiciliare,
assistenza socioeducativa territoriale, assistenza alla persona disabile, affidamento (familiare e in comunità), interventi per minori e incapaci in rapporto con l’Autorità giudiziaria, inserimenti in centri diurni, inserimenti in
presidi residenziali (art. 22/1). Le prestazioni del SSA consistono in inserimenti in strutture di tutela e controllo (Istituti, Comunità di tipo familiare,
Comunità alloggio, Centri di pronto intervento) e interventi di sostegno,
mediazione e terapia: affido familiare, assistenza economica, assistenza domiciliare, assistenza educativa territoriale, centri di attività diurna, centri di
aggregazione ecc.
La de-istituzionalizzazione
Fino agli anni Settanta l’assistenza all’infanzia cosiddetta «abbandonata» passava attraverso enti nazionali, quali l’ONMI (Opera nazionale Maternità ed Infanzia); svariati enti di assistenza per «categoria» (ad es. ENAOLI,
Ente assistenza orfani dei lavoratori), l’attività di province e comuni (Istituti
provinciali per l’infanzia e la maternità), le IPAB. Tipica di questa politica assistenziale era la separazione fra il contesto di provenienza (familiare-territoriale) del bambino e l’istituzione educativa-assistenziale (a gestione pubblica, di IPAB, di enti religiosi) in cui veniva collocato.
La spinta alla de-istituzionalizzazione ha proceduto con maggior successo per quanto riguarda la popolazione dei minori, a differenza di quanto
è avvenuto per i disabili e soprattutto per gli anziani. L’attuazione delle nuove leggi sull’affido familiare e l’adozione, la diffusione di servizi territoriali
aperti hanno contributo a ridurre in misura considerevole il numero dei
soggetti in istituto. Benché le stime in questo ambito presentino sempre
margini di incertezza nella rilevazione, in Italia si calcolavano circa 150 mila minori in istituto nel 1971, mentre al 1998 sono censiti 14.945 minori in
istituti tradizionali e comunità alloggio. Di questi, il 68% compresi nella fascia 0-14 anni, il 53,5% maschi, 11,9% stranieri e 7,9% portatori di handicap8. Si aggiunga che oltre il 60% dei minorenni collocati in istituti è al Sud.
Tradizionalmente l’accesso all’istituto derivava da mancanza della famiglia d’origine o da condizioni di estrema povertà. Attualmente le ragioni risultano in prevalenza legate alla condizione della famiglia d’origine e all’intervento dell’autorità giudiziaria. «La famiglia d’origine è più disposta ad accettare un ricovero in Istituto (rispetto al quale si sente meno messa in discussione)che non l’affido familiare L’inserimento in una struttura educativo-assistenziale in alcuni casi può tradursi in una vera e propria «delega» alle strutture medesime di tutte le responsabilità relativa al progetto con il minore e la famiglia, se non in una vera e propria forma di abbandono istituzionale»9. La contrazione delle strutture di ricovero a carattere «istituto» ha
fatto strada, dalla fine degli anni 70, ad una sperimentazione di alternative
quali le comunità alloggio e le comunità di tipo familiare. In taluni casi la
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formazione di comunità alloggio è avvenuta non all’esterno delle tradizionali istituzioni di ricovero, ma come differenziazione e articolazione interna
delle stesse: ciò soprattutto nell’ambito del privato sociale con regime IPAB,
o in Enti religiosi.
L’istituto funziona talora, in Italia, come forma di sollievo anche economico alla famiglia di origine. Il fatto che ogni famiglia che accoglie un minore in affido riceva mensilmente un sostegno economico (L. 184/83, art.
80) in alcuni contesti locali ha introdotto elementi di «monetizzazione», non
del tutto conformi allo spirito dell’affidamento. Dopo oltre due decenni di
esperienza, la formula delle comunità alloggio e di tipo familiare appare
esposta a rischi di istituzionalizzazione «di ritorno», che hanno avviato riflessioni e necessità di riprogettazione. Una iniziativa è stata di recente promossa dalla Regione Piemonte per una valutazione sullo stato dei ricoveri,
che consenta di orientare future scelte in tema di deistituzionalizzazione.
Secondo le più recenti informazioni fornite della Regione Piemonte10, i
minori utenti del servizio socioassistenziale in regione sono stati in complesso 21.731: il 3,1% della popolazione in età, l’1,8% della intera popolazione piemontese, il 24,3% degli utenti totali. Il 47,5% di tale utenza si colloca
nella provincia di Torino. Guardando alle specifiche prestazioni rese da servizi territoriali sul totale di utenti censito, risultano prevalenti, nell’ordine:
assistenza socioeducativa (per il 20,4%), assistenza economica (18,9), istruttorie per minori e incapaci (16,7), affidamento familiare (14,3), inserimento
in presidi (6,8), inserimenti in centro diurno (5,9), assistenza domiciliare
(5,9), istruttoria adozioni (3,0).
Nella provincia di Torino (città esclusa) gli interventi realizzati dagli Enti
gestori del socioassistenziale consistono prevalentemente in affidamenti familiari (580 minori, tra cui 9 disabili: 0,28 % dei minori residenti) e in ricovero in presidi educativo-assistenziali (205 sono i minori ricoverati a carico
degli Enti gestori: solo 1/4 in presidi del territorio, gli altri prevalentemente
a Torino città e fuori provincia). Si conferma la relativa prevalenza negli istituti della fascia compresa fra 14-17 anni, che include il 46% del totale, contro il 40% di bambini nella fascia della scuola d’obbligo 6-13 anni. Nella città
di Torino11 l’incidenza dell’affidamento familiare è rilevante (vedi capitolo
6). Nel 1994 si avevano 650 inseriti in strutture residenziali e semiresidenziali, di cui 44% in istituti ed il resto in comunità alloggio, private, convenzionate e pubbliche. Nel 1999 gli inseriti in comunità alloggio sono 782
(89,6% in posti convenzionati e 11,4% pubblici).
L’assistenza economica
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Nel caso del Piemonte, la condizione di povertà minorile è descrivibile
considerando come variabile prossima le famiglie che ricorrono alla assistenza economica erogata dagli enti gestori del socioassistenziale (v. capitolo 2). Secondo i dati recenti forniti dalla Regione, i minori destinatari di
interventi di assistenza economica sono stati, nel 1999, 2869 (tra cui un
4,2% di disabili). Metà di questi minori assistiti poveri erano collocati nella provincia di Torino, circa 600 nella città di Torino (dati fine 99). In un solo comune della regione (Nichelino) è stata condotta l’esperienza del
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Reddito minimo di inserimento. Il Reddito minimo di inserimento, introdotto a titolo sperimentale nel 1998 e previsto dalla L.328/00 come futuro
istituto di base per il contrasto alle situazioni di povertà grave, ha fra i suoi
destinatari preferenziali proprio le famiglie gravemente povere e con molti figli minori a carico (famiglie che sono già oggetto dell’Assegno per il Terzo Figlio, misura assistenziale «a tempo» introdotta nel 1998). L’esperienza
evidenzia le difficoltà, comuni in tutta Italia, di stipulare con gli utenti più
deprivati quel «patto dinamico di inserimento», che tende ad andare oltre
la dimensione assistenziale e promuovere una uscita stabile dal rischio di
povertà.
Quanto l’impiego della variabile «assistenza economica pubblica» sia
adeguato a cogliere la varia fenomenologia delle povertà che toccano minori e bambini, non è agevole valutare. Sicuramente ad essa sfuggono le situazioni di ristrettezza economica dei «working poors», che non si qualificano
per l’assistenza o rifuggono dal ricorrervi. Una rilevazione sugli interventi
assistenziali di enti e associazioni religiose e di soggetti privati (ad es. Ufficio
Pio del San Paolo, San Vincenzo ecc.) potrebbe fornire qui elementi ulteriori, per cogliere la diffusione e l’incidenza delle situazioni di povertà «appena al di sotto della soglia». Tali situazioni, con le insicurezze che diffondono
in un contesto di accresciuta vulnerabilità, ed in assenza di strumenti di sicurezza economica nel transitorio, sono in ogni caso destinate ad incidere
sui destini sociali delle persone coinvolte, e fra queste dei bambini.
1.6 Innovazioni e progetti
La progettualità di parte pubblica
Su un quadro consolidato nel tempo e assestato nella tipologia delle prestazioni - anche se non mancano né disomogeneità territoriali né minor
densità istituzionale degli interventi, e ciò quanto più ci si allontana dall’area torinese - si sono via via inseriti, ed in parte sovrapposti, dispositivi di
progetti mirati e di coordinamento delle politiche. Merita qui richiamarne la
sequenza cronologica.
1989-1991: la Regione istituisce il Consiglio dei minori per il coordinamento di politiche e interventi (L.R. 55/89, attiva nel 1991). La legge 55 prende in considerazione una molteplicità di aspetti che riguardano la difesa
del minore rispetto a fattori sociali di debolezza. Istituisce un organo di
consulenza e confronto (il Consiglio regionale per i minori), che comprende rappresentanti di assessorati regionali, enti locali, associazioni. Il
CRM nell’ambito delle sue competenze promozionali, elabora linee programmatiche e servizi informativi e di consulenza, per l’integrazione tra
agenzie formative. Ha anche finanziato i progetti presentati da enti locali, scuole e associazioni, con obiettivi di prevenzione e promozione (ad
esempio i progetti pilota sul Consiglio Comunale dei Ragazzi).
1992-1994: la L.N.216/91 ha consentito l’attuazione di progetti «sulla pre-
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venzione della criminalità minorile». Tali progetti avevano coordinamento finanziamento e valutazione da parte del Ministero dell’Interno,
che entrava in rapporto con i soggetti proponenti attraverso le prefetture, recuperando la funzione pionieristica di associazioni di volontariato
e cooperative sociali, che avevano sviluppato fin dagli anni Ottanta servizi di assistenza educativa territoriale, svolti in centri diurni e presso le
famiglie. Nel 1993 la Regione Piemonte ha proposto la introduzione quale nuovo tipo di presidio socio-assistenziale del «Centro per l’attività
diurna a favore di minori in età di scuola dell’obbligo» (D.G.R.n.29 del
20.12.93). Si tratta di strutture semiresidenziali per minori con famiglie
«in difficoltà ad assolvere i quotidiani impegni educativi e di cura»; offrono spazi ed attività di socializzazione «anche per prevenire rischi di
emarginazione e devianza».
1995-1999: nel 1995 il Comune di Torino ha riconosciuto il servizio degli
educatori «di strada», dando stabilità ad una attività che era stata oggetto di sperimentazione in quartieri della periferia. Nel 1999 sono stati 660
i minori torinesi coinvolti in attività di educativa territoriale (e 104 in nove centri diurni). L’istituzione di centri diurni per minori (Delibera del C.
Comunale del 10/7/95) e la diffusione dei servizi di educativa territoriale (a gestione diretta e convenzionata) hanno trovato rilancio in molti
progetti della L.N. 285/97.
1997-2000: la L.N. 285/97 «per i diritti e le opportunità dell’infanzia e dell’adolescenza» ha introdotto un fondo nazionale per finanziare progetti
aventi come obiettivi: sostegno alla relazione genitoriale; contrasto alla
povertà ed alla violenza; misure alternative al ricovero in istituti; nuovi
servizi socioeducativi per la prima infanzia; servizi ricreativi ed educativi per il tempo libero (v. articoli 4, 5, 6 della legge). I progetti riguardano
sia situazioni di disagio, abuso e crisi delle relazioni intrafamiliari, sia offerte di servizi prestazioni ed opportunità per una migliore fruizione della condizioni di vita ordinaria.
Su oltre 3000 progetti approvati, il 58% degli interventi hanno avuto come fruitori prevalenti bambini fra 6 e 11 anni12.Nell’area torinese sono stati
attivati un Piano territoriale per Torino ed un Piano territoriale della provincia di Torino, detto «Concerto». Un secondo ciclo di progetti secondo la legge 285/97 è previsto per il triennio 2000-2002 (Concerto 2).
Risorse e apporti del sociale
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Nella progettualità espressa direttamente da iniziative sociali, si collocano le attività di soggetti del Terzo Settore, quali le associazioni di volontariato, le cooperative sociali, gli associazionismi familiari e di tutela, le fondazioni.
Il volontariato piemontese in riferimento a bambini, adolescenti e famiglie si impegna in attività di aiuto a base associativa, svolte soprattutto in
ambito sanitario (associazioni di genitori in campo oncologico, di malattie
rare, volontariato per i bambini in ospedale ecc.).Il volontariato a connotazione socioassistenziale ed educativa ha generato una significativa messe di
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innovazioni, perlopiù avviata su basi spontaneistiche e locali, e sovente sviluppata in attività di cooperazione- impresa sociale, come mostrano le interessanti storie di organizzazione tipiche dell’area piemontese (scheda A).
Quanto all’associazionismo familiare, in generale esso segue due linee di
intervento (Donati Rossi 1996):
❖ il sostegno mutuo delle famiglie, a fronte di specifici problemi da cui
sono toccate: bambini portatori di handicap fisici e psichici, patologie ecc.;
❖ forme di aggregazione e socializzazione «tra» famiglie, sia verso problemi della vita ordinaria (servizi per la prima infanzia, sostegni alla
genitorialità) sia a fronte di difficoltà che investono lo «specifico familiare»: nascite, separazioni, crisi educative ecc. La vitalità dell’associazionismo familiare in Piemonte appare relativamente più forte
nel contesto del mutuo aiuto, dove ha generato esperienze associative di rilevanza nazionale, nel campo dell’affidamento-adozione, dell’inserimento sociale dei disabili, delle patologie infantili rare e gravi.
Scheda A – Due storie
Storia 1.
• 1978: si forma come gruppo di volontariato sul disagio giovanile.
• 1983: genera una cooperativa strumentale- che si autodefinisce di solidarietà
sociale- per la gestione di servizi rivolti anche a soggetti con handicap.
• 1989: forma una associazione che affianca la cooperativa.
• 1996: è una cooperativa sociale (L.381/91) che gestisce: comunità per minori, educativa territoriale e di strada, doposcuola, laboratori pre-professionali, gruppi di automutuo aiuto (con il SerT).
Storia 2.
• fine anni 70: nasce una iniziativa di volontariato per favorire l’uscita di minori dall’istituto.
• 1981:forma una cooperativa strumentale per la gestione di comunità alloggio
e di centro diurno; successivamente gestisce comunità alloggio, servizi di
educativa territoriale, soggiorni estivi.
• 1996: giunge il momento di ridefinirsi come impresa (ossia la scelta di «mettersi i pantaloni lunghi»). Gestisce un centro diurno per ragazzi, un servizio
di educativa territoriale, attività extrascolastiche per la scuola dell’obbligo,
un progetto di recupero presso il carcere minorile, un centro di attività psicomotorie.
Ricomposizioni e scoperture nei servizi
Nell’ambito dei servizi formali e professionali, dall’inizio degli anni
Novanta ad oggi è cresciuta una separazione alquanto netta fra la tutela sanitaria (gestita a base regionale-aziendale), e il socio-assistenziale, affidato
a comuni e loro forme aggregative, secondo la modalità consortile prevalente in Piemonte.
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L’esigenza della ricomposizione/connessione fra diversi tipi di interventi rimane sullo sfondo. Ma viene sempre concretamente chiamata in causa,
quando le ragioni dell’efficacia richiedono una risposta adeguata, che scaturisce dal gioco delle connessioni e dei raccordi.
Il raccordo fra operatori sanitari e operatori socioassistenziali.
Gli obiettivi di tutela della salute delineati nel Piano sanitario nazionale
per il triennio 1998-2000 sono stati ripresi ed articolati nel Progetto materno-infantile (DM 24 aprile 2000). Esso prevede l’istituzione da parte delle
aziende sanitarie di uno specifico dipartimento materno-infantile «a carattere tecnico funzionale, ossia non equiparato ad una struttura operativa dotata di un proprio budget»13.
❖ In Piemonte fin dal 1982 il Piano sociosanitario regionale delineava le
linee di un progetto-obiettivo di tutela materno-infantile e dell’età
evolutiva. La materia permane, nella pianificazione successiva fino
ad oggi, come prestazione sanitaria a rilievo socioassistenziale, e include fra i suoi interventi (vedi allegato 2 al Piano sanitario regionale
97-99) educazione sanitaria e gestione della sessualità, neuropsichiatria infantile, interventi per i minori portatori di handicap.
❖ Nella legislazione socioassistenziale è previsto, al reciproco, che laddove l’intervento del servizio socioassistenziale richieda apporti integrativi di carattere sanitario (come nel caso della tutela materno-infantile e dell’età evolutiva), siano stipulate apposite convenzioni fra
Aziende sanitarie locali ed Enti gestori del socioassistenziale (v. L.R.
62/95 art. 16). Le attività svolte dal SSA in convenzione con il dipartimento materno-infantile hanno per obiettivi:
• lo sviluppo di programmi alternativi al ricovero; la piena attuazione
della L.184/83 sull’adozione e l’affidamento;
• la prevenzione del disagio minorile; l’intervento socioeducativo assistenziale per adolescenti in difficoltà o in situazioni di devianza.
S’intende che il problema di una effettiva collaborazione fra professioni
e servizi non si riduce alla stipula di convenzioni-trattati, ma richiede un più
elevato grado di coinvolgimento interprofessionale, che sia in grado di superare confini e conflitti di competenze, oggi acutizzati rispetto al passato.
Il raccordo fra interventi «per marginali» e interventi «per tutti»
Permane anche il problema di evitare che il sostegno educativo, territoriale e domiciliare, a situazioni mirate e problematiche, si carichi di stigmi
di assistenza, che tendono a dividere una popolazione «normale» da una
«tendenzialmente allarmante», alla quale l’assistenza viene concessa sulla
base di parametri di povertà o «gravità» dei problemi. Collegare la prevenzione del disagio con la promozione della condizione «normale» di vita significa, per contro, non scindere problemi e risorse, difficoltà e opportunità,
per popolazioni non comunicanti; bensì cercare di ricollegarle nella prospettiva di un percorso di crescita, che manifesti, sia pure in forme e con attenzioni diverse, un comune «prendersi cura».
26
Il raccordo fra luoghi di intervento e tempi di vita
È stato notato come la durata delle permanenze dei minori in istituto per
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più anni non autorizzi di per sé a parlare di segregazione di vecchio stampo,
né sia attribuibile alla mancanza di alternative di affidamento o adozione: «i
minori in buona parte disabili sono inseriti nei presidi dalle famiglie stesse,
ad esempio per motivi di studio; fanno regolarmente ritorno a casa durante
i week-end ed i periodi di vacanza»14. Si tratta, in questo caso, di una divisione del «lavoro di care» tanto più funzionale, quanto più diretti, agevoli e
coordinati siano i rapporti fra operatori e utenti del servizio. L’apertura all’esterno di presidi e strutture non è solo un problema di tempi di permanenza, ma dipende dalle modalità prevalenti di interazione.
Come le ricerche sulle comunità per minori evidenziano, l’apertura all’esterno, la partecipazione dei genitori alla vita della comunità, il momento
delle dimissioni segnalano soglie non poco critiche. La questione principale
riguarda quegli adolescenti che, raggiunta la maggiore età nella comunità,
cercano in essa risorse per conseguire una effettiva autonomia lavorativa,
abitativa o sociale. Tuttavia, se la destinazione dopo la dimissione è il ritorno
più o meno forzoso all’ambiente genitoriale di provenienza, lo stesso che ha
generato i problemi del ricovero, allora lo sforzo educativo della comunità
(come molti operatori dichiarano di temere) potrebbe rivelarsi improduttivo.
Inoltre «solo in pochi casi il minore è stato un interlocutore attivo nelle decisioni che riguardano direttamente la sua vita»15. Le ricadute del rapporto
strutture-territorio-famiglie chiamano dunque in causa la filosofia complessiva dell’intervento e il funzionamento dell’intera rete dei servizi.
1.7 Nuove domande e prospettive
Lo specifico familiare
È diventato quasi un luogo comune osservare che in Italia la famiglia
non è termine di politica sociale in quanto tale, ma solo se gravata da particolari problemi (la povertà, l’handicap, la presenza di anziani non autosufficienti ecc.) che la qualificano per l’assistenza. La famiglia è campo privilegiato dell’incontro relazionale fra generi e generazioni, e allo stesso tempo
ambito di possibile disagio con almeno una duplice fenomenologia:
• la sofferenza delle famiglie «socialmente inserite, formalmente coese, ma che manifestano al loro interno situazioni di lacerazione»;
• il disagio in famiglie «caratterizzate da forme tradizionali di povertà
e contemporaneamente segnate da lacerazioni e divisioni»16.
L’obiettivo generale di una politica familiare dovrebbe essere quello di
«sostenere la famiglia nelle sue riconosciute funzioni sociali, svolte in connessione con tutti gli altri sottosistemi del sistema sociale»17. Ciò conferirebbe alla famiglia diritti ad un duplice insieme di prestazioni, che la aiutino:
• a svolgere compiti specifici di educazione, care e sostegno nelle
condizioni di vita ordinaria ;
• a sostenere carichi che altrimenti non saprebbe reggere, quando sia
27
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investita da problemi gravi, connessi a handicap, malattia, disagio
mentale, non autosufficienza ecc..
È soprattutto la domanda di sostegno alle competenze «ordinarie» che
indica un’area scoperta, ed apre alla produzione di interventi e servizi per:
• formare e sostenere l’attività di care giving ordinaria della famiglia,
attraverso gruppi di auto aiuto e di mutuo aiuto, centri di ascolto e
di consulenza leggera, orientamento, attività di mediazione delle
relazioni e dei conflitti;
• fornire risorse di tregua e sollievo alla «famiglia stanca», e rafforzarne le competenze educative, relazionali, di supporto.
In questo contesto si segnalano, soprattutto a fronte di un domanda sociale parzialmente soddisfatta ma in larga misura solvibile, bisogni non risolti di childminding, con diverse alternative:
• potenziare l’offerta di servizi pubblici territoriali a copertura globale (inclusa la mensa e l’orario prolungato);
• consentire servizi ad accesso facilitato e con orario modulare; favorire l’auto-organizzazione familiare nei micro-nidi di condominio o di territorio; incrementare l’offerta di nidi sui posti di lavoro,
pubblici e privati; sostenere l’offerta di «servizi di prossimità» realizzati dalla cooperazione sociale e dal lavoro autonomo (le «tate
familiari»).
La comunità responsabile
28
Non rientrano di norma nell’ambito dei «servizi sociali» a connotazione
socio assistenziale una serie di attività culturali ricreative e del tempo libero,
che hanno una prevalente qualità socio educativa. Questa assenza è oltremodo significativa, se si considerano le analisi sull’uso del tempo libero a livello
nazionale18, dove i comportamenti infantili risultano contrassegnati da:
• fruizione dei nuovi media (computer e soprattutto videogiochi)
prevalentemente domestica;
• limitato accesso al cinema e alla lettura (il 41% delle famiglie con
bambini fino a 14 anni non compra ai figli neppure un libro all’anno; ovvia preparazione del comportamento adulto, dove oltre il 50%
non legge neppure un libro all’anno);
• esposizione alla televisione per un tempo superiore a quello impiegato nelle attività outdoor (scolastiche sportive e ricreative)e conseguente ascolto intensivo dei messaggi pubblicitari (fino al «coerente» rifiuto di andare a scuola senza zaini griffati o firmati);
• difficoltà nel praticare giochi e sport, fuori dello spazio domestico o
in ambienti esterni, quali: il parco, la strada, gli spazi attrezzati, anche per mancanza fisica dei medesimi; circa un decimo dei bambini e ragazzi da 6 a 17 anni partecipa, anche saltuariamente, alle attività di associazioni ricreative, culturali, ambientali, educative piazza e strada, spazi condominiali e cortili, oratorio e parrocchia
sono i luoghi di incontro più frequentati.
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Vi è un evidente sbilancio fra «consumi privati domestici e di cerchia ristretta» e «attività sociali» esterne. Ciò comporta l’esigenza di attivare agenzie e servizi che forniscano informazioni e risorse per l’accesso alle opportunità del tempo libero e ad ambiti di educazione integrativa e compensativa. In questo senso vanno i progetti, stimolati dalla L. 216/91 e dalla
285/97, che hanno promosso iniziative di partecipazione civile e progettazione locale (Consigli comunali dei bambini e dei ragazzi e simili). E lo spazio riservato al mondo infantile nella elaborazione dei programmi di recupero urbano19.
In altri termini, non vi è «sviluppo di comunità» che non trovi rispondenza – almeno a livello di progetto– nello «sviluppo dell’infanzia entro la comunità». Se comunità sicura è quella che opera per favorire l’orientamento
al futuro, a partire dai suoi componenti più giovani, ciò che qualifica una «responsive community» è il capitale sociale di fiducia che genera e mantiene.
La comunità che si /cura di sé è anche una comunità sicura.
Note
1
2
3
4
5
6
7
Caritas, F. Zancan, 2000, p. 282.
Informaires, ottobre 2001, p. 75.
M.C. Migliore e L. Abburrà, 2001, p. 8.
ibidem, p. 29.
ibidem, p. 53.
VV.AA. Relazione 2000, p. 117
Si segnalano al riguardo le Linee emanate dal Dipartimento Affari Sociali (settembre
1998), le Proposte di intervento per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del
maltrattamento e le Linee guida per la segnalazione e la presa in carico dei casi di
abuso e maltrattamento (delibera n.42 del 2 maggio 2000 della Regione Piemonte, riportata alle pp. 356-373 del volume Il bambino tradito. Carenze gravi, maltrattamento e abuso a danno di minori, Carocci Editore, 2000: questo testo raccoglie materiali e contributi per un corso di formazione degli operatori in tema realizzato dal
Comune di Torino). Un’iniziativa locale torinese che si sviluppa nell’ambito di un
gruppo di progetto interprofessionale e interistituzionale è, dal 1993, «Cappuccetto
Rosso»: v. Il bambino tradito, cit. pp. 281-294.
8
«Poiché l’indagine non ha riguardato i portatori di handicap ricoverati presso strutture sanitarie, né i fanciulli accolti nei collegi e convitti di istruzione, si può ipotizzare
che i minori istituzionalizzati (in Italia) siano circa 20 mila»: Floridi-Micucci, 2000,
p. 472.
Kazepov, 1996, pp. 103-108.
I numeri dell’assistenza in Piemonte, 2001: dati riferiti al 1999, mancano alcuni
Consorzi di gestione.
Comune di Torino, Guida ai servizi socioassistenziali, dati al 31.12.99.
Per un quadro generale in Italia: Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione
della L. 285/97 – pp. 215, 373 sul Piemonte e Torino – e la Relazione 2000, pp. 297301.
Relazione 2000, p. 270.
Provincia di Torino, 2001.
Bastianoni, 1992, p. 55.
Caritas, F. Zancan, 2000, p. 11.
Boffi, p. 25.
v. il capitolo «Il tempo tra», in Relazione 2000, e i dati dell’indagine ISTAT La vita
quotidiana di bambini e ragazzi, ivi riportati alle pp. 89-90.
Rei, 2001.
9
10
11
12
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15
16
17
18
19
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Firenze, dicembre 2000
31
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BAMBINI E POVERTA’
2
2.1 Dimensioni e problemi della povertà
economica dei minori
Le analisi sulla povertà in Italia
32
La povertà economica è un fenomeno complesso, in quanto è l’esito di
processi molto differenziati nei quali si intrecciano, in diversi modi, varie
forme di esclusione. «Il ‘volto della povertà’ è sempre meno definibile con
indicatori esclusivamente economici, di reddito, ma si caratterizza come un
prolungato processo di indebolimento delle risorse personali e familiari, attraverso eventi shock di varia natura, economica, professionale, sanitaria, di
mancata integrazione sociale, che cumulativamente determinano l’ingresso
in una situazione di ’emarginazione’ di cui la povertà economica è solo una
delle componenti. In altre parole, la società contemporanea produce una
povertà di tipo multidimensionale, in cui le dimensioni economiche, relazionali, sociali in senso lato sono strettamente correlate.» 1
Come osservano N. Negri e C. Saraceno2 «un reddito insufficiente può essere l’esito di un percorso di esclusione da alcuni beni – l’istruzione per
esempio – il cui possesso è un requisito indispensabile per accedere ad altri
beni: ad esempio, le informazioni e le conoscenze necessarie per svolgere un
lavoro decente». La povertà genera, in questo caso, carenze culturali che, a
loro volta, producono cronica debolezza sul mercato del lavoro perpetuando
nel tempo il meccanismo di esclusione. Ma la carenza di reddito fa anche sì
che una persona non possa, per motivi oggettivi o soggettivi, accedere a servizi ai quali avrebbe diritto – ad esempio un servizio sanitario – con il conseguente insorgere di problemi di salute, che si ripercuotono sulla capacità di
lavoro e di guadagno. Si può inoltre perdere il lavoro, e quindi il reddito, a
causa dell’alcolismo; così come si può precipitare nell’alcolismo (o in altre
forme di dipendenza) perché si è persa la speranza di trovare un lavoro.
Nella nostra società per non essere poveri non basta nutrirsi ed essere in
buona salute; è necessario lavorare, essere istruiti ed abitare in una casa decente. L’esclusione da questi beni basilari rende la persona fragile, avviandola in un percorso di progressivo impoverimento economico e relazionale,
lungo il quale vengono sempre più intaccate le capacità di inserimento sociale e di sopravvivenza fisica e mentale. La povertà ha un carattere processuale e multidimensionale e gli indicatori normalmente utilizzati per rilevarla (mancanza di reddito, bassa istruzione, dipendenza da sostanze, «carriere» di marginalità ecc.) non vanno considerati separatamente, secondo
logiche di causa – effetto, ma occorre studiare le interconnessioni nel tempo tra i fattori relativi alla situazione personale, alle risorse a disposizione,
alla capacità del soggetto di conoscerle ed utilizzarle, alla percezione di sé
ed all’autostima, all’etichettamento sociale.
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Secondo i dati ISTAT 3 nel 1998 risultavano povere in senso relativo circa
2 milioni 558 mila famiglie, pari all’11,8% del totale e in termini assoluti –
sulla base di un paniere di beni e servizi essenziali – il 4,4% delle famiglie,
per un totale di 950 mila unità.4
Dal 1999 al 2000 le famiglie in condizioni di povertà relativa passano da
2 milioni 600 mila a 2 milioni 707 mila (dall’11,9% al 12,3%) e le persone da
7 milioni 508 mila a 7 milioni 948 mila. I poveri assoluti risultano quantificati, nell’anno 2000, in 2 milioni 937 mila unità corrispondenti a 954 mila famiglie (con una media di 3,1 componenti). La percentuale delle persone
cresce dal 5,1% al 5,7%; quella delle famiglie dal 4,3% al 4,8%.
Con riferimento alla ripartizione territoriale della povertà relativa si rileva – tra il 1999 e il 2000 – un incremento della percentuale di famiglie dal 5
al 5,7 nel Nord del Paese5 (596 mila famiglie nel 2000) e dall’8,8 al 9,7 nel
Centro (413 mila famiglie nel 2000). Nel Sud la situazione appare sostanzialmente stabilizzata su percentuali più alte: 23,9 nel 1999 e 23,6 nel 2000 (1
milione 698 mila famiglie)6. Nell’anno 2000 risultano 1 milione 504 mila persone in condizione di povertà relativa nel Nord Italia (5,9% dei residenti); 1
milione 158 mila persone nel Centro (10,6% dei residenti); 5 milioni 280 mila persone nel Sud (25,4% dei residenti).
Il rischio di povertà relativa delle famiglie risulta maggiormente elevato
nei nuclei con persona di riferimento donna;7 con elevato numero di componenti;8 con basso titolo di studio degli adulti; composti da persone ultra
sessantacinquenni. Un fattore di rischio particolarmente significativo è rappresentato dai nuclei di una sola persona (specie se donna) o composti da
donne sole con figli. Tra le famiglie povere si trovano innanzitutto le famiglie di disoccupati, il gruppo più consistente (33,1%) ed i pensionati (14%).
Seguono i lavoratori dipendenti (9,8%) e quelli autonomi (7,9%).
Dai dati ISTAT si rileva che la situazione economica attuale delle famiglie
italiane appare caratterizzata dall’appartenenza a quattro grandi fasce. Una
prima fascia, nella quale sono raggruppate le famiglie sicuramente non povere con reddito superiore a 1 milione 883 mila lire mensili (il 79,4% del totale – 17,5 milioni); una seconda fascia nella quale convergono le famiglie
quasi povere con redditi mensili compresi tra 1 milione 569 mila lire e 1 milione 883 mila lire (l’8,3% del totale – 1,8 milioni); una terza fascia di famiglie definite appena povere con redditi compresi tra 1 milione 569 mila lire e
1 milione 255 mila lire mensili (il 6,3% del totale – 1,4 milioni) ed infine le famiglie sicuramente povere costrette a vivere con meno di 1 milione 255 mila
lire mensili (il 6% del totale – 1,3 milioni). Quest’ultima fascia comprende le
900 mila famiglie (pari al 4,3% del totale) che vivono in condizioni di povertà assoluta.
Dall’analisi dei dati si rileva un’elevata componente di inerzia della povertà: secondo l’ISTAT, circa il 70% delle persone che risultavano in condizione di povertà nel 1994 è rimasto tale sino al 1996. Il rischio di impoverimento è dunque più alto per coloro che hanno sperimentato in precedenza
una condizione di disagio. Anche la probabilità di uscire dalla condizione di
povertà è influenzata dalle precedenti condizioni: è infatti nettamente superiore per le persone che non risultavano povere nel 1994.
Oltre che da difficoltà delle famiglie ad acquisire redditi, la povertà può
essere causata o aggravata da eventi critici in ambito familiare e lavorativo.
33
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L’insorgere del disagio può derivare dal passaggio della persona di riferimento della famiglia dalla condizione di lavoratore a quella di disoccupato
o ritirato dal lavoro. Ad incidere negativamente sulla condizione economica
familiare è anche la nascita di un figlio, soprattutto nel passaggio dalla situazione di single a quella di monogenitore, ma anche da coppia senza figli
a coppia con un figlio. Le separazioni e la vedovanza influiscono soprattutto sulle coppie con figli minori. Ulteriori cause delle gravi difficoltà economiche che possono insorgere nel corso della vita sono rappresentate dall’acquisto dell’abitazione, dalla malattia o decesso di un familiare, dalla perdita del lavoro e dall’avvio o dal fallimento dell’impresa familiare.
In generale la probabilità di uscire dalla povertà è determinata dall’ampiezza e dalla struttura della famiglia, ed è più alta dove il disagio è meno
diffuso, come nel Nord del paese, e più bassa quanto più il reddito familiare
è inferiore alla linea di povertà.
Povertà economica e minori
34
Dai dati riportati in appendice al quaderno del «Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza»9, che fa il punto sullo
stato di attuazione della legge 285/9710, si rileva che «le famiglie numerose
sono anche quelle con la più alta incidenza della povertà; la massima incidenza della povertà viene infatti raggiunta nelle famiglie con tre figli e più
(24,4%). Le coppie con un figlio minore che si trovano in situazione di povertà sono una quota leggermente inferiore alla media nazionale (10,8%),
ma bastano due figli minori per ’proiettare’ l’incidenza della povertà delle
famiglie decisamente più in alto della media nazionale (16,4%)».
La tendenza che sembra emergere è che la presenza di almeno due figli
in una famiglia rappresenta un fattore di debolezza e di svantaggio, che può
incidere sul livello di povertà economica.
Oltre che sulle famiglie numerose si registra una maggior incidenza di
povertà anche tra le famiglie con persona di riferimento di sesso femminile:
posto pari a 100 il totale delle famiglie povere con a capo una donna, 51 di
esse sono anziane sole e 25 monogenitori.11
Il «Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza» – che riporta i dati sull’incidenza della povertà tra le famiglie italiane
aggiornati al 1999 – rileva una situazione sostanzialmente invariata nel triennio 1997 – 1999.12 Il Sud continua a presentare una situazione più negativa rispetto alle altre aree geografiche, con un’incidenza della povertà (23,9% nel
1999) doppia di quella nazionale. La povertà sembra invece diminuire al
Nord – dove scende al 5% – e crescere al Centro, dove si attesta all’8,8%.
In generale si evidenzia che la condizione di povertà economica riguarda una percentuale significativa (ma di difficile quantificazione) di minori.
Dai dati contenuti nel rapporto del 1994 della Commissione di indagine sulla povertà e l’emarginazione, risultavano circa un milione di bambini poveri nella fascia 0 – 13 anni (il 15% della corrispondente fascia d’età). Nel
Mezzogiorno raggiungono il 25,6%. Ogni 100 persone povere, 13 sono bambini fino a 13 anni nel Nord, 12 nel Centro e 20 nel Mezzogiorno.13
Si tratta di una delle componenti dei cosiddetti minori «a rischio» che
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rappresentano gran parte del target dei servizi sociali territoriali. In realtà il
concetto di rischio, nel caso dei minori, è – come osservano N. Negri e C.
Saraceno14 – «molto più esteso e pone dei problemi di definizione rispetto a
quali categorie di minori debbano essere rivolti gli interventi….Più che politiche per minori a rischio, quelle esistenti appaiono politiche per minori in
stato di difficoltà conclamata, dal momento che le misure previste…sono
più rivolte al contenimento del danno, successive quindi all’insorgenza di
problemi, che politiche mirate alla prevenzione in senso stretto».
Non si può che prendere atto che i servizi sociali – intervenendo in modo prevalente, se non esclusivo, sui «minori in stato di difficoltà conclamata» al fine di «contenere il danno» – rappresentano, nel bene e nel male, un
sensore importante delle problematiche espresse dai bambini e minori appartenenti a famiglie in condizione di indigenza economica.
L’assenza di una effettiva politica
Nel nostro sistema di welfare l’efficacia della protezione non strettamente socio-assistenziale appare, per i bambini, più incerta rispetto a quella garantita dalle misure per gli anziani. Il sistema di protezione sociale italiano è infatti caratterizzato da un’incidenza della spesa sociale sul P.I.L.
(Prodotto Interno Lordo) inferiore alla media europea, accompagnata dal
più alto peso delle spese per le funzioni vecchiaia e superstiti. L’Italia si colloca agli ultimi posti per le risorse attribuite alla copertura di bisogni espressi dalla famiglia e, in particolare, determinati da disoccupazione ed esclusione sociale. Secondo il dato Eurostat 199715 il welfare italiano destina per
la maternità e la famiglia, rispettivamente lo 0,1 e lo 0,8% del P.I.L, contro la
media europea del 2,1%.
La maggior fragilità dei minori dipende dunque dal fatto che la possibilità di accedere ad un qualche sostegno economico è legata allo status occupazionale dei genitori. Per poter ricevere l’assegno per il nucleo familiare
occorre essere lavoratori dipendenti o essere rimasti disoccupati ed essere
iscritti alle liste di collocamento. In ogni caso, l’importo dell’assegno non è
tale da consentire adeguati livelli di sostegno.16 Inoltre è molto difficile per
le famiglie in cui vi siano adulti in età da lavoro accedere ad un aiuto economico certo e continuativo di tipo assistenziale.
Come osserva Yuri Kazepov17 «Quando la disoccupazione diventa di lungo periodo, i meccanismi di tutela previdenziali esauriscono la propria copertura e l’assistenza sociale non è in grado di offrire una rete di garanzia di
un reddito minimo certo». Ne consegue l’aumento del livello di discrezionalità nella determinazione dell’accesso a diritti considerati minimi, che
contribuisce istituzionalmente ad un incremento notevole della vulnerabilità. «Nel passaggio dal sistema previdenziale al sistema assistenziale non
c’è, però, solo una discesa di status, ma si perdono quei diritti minimi che
vengono garantiti in tutti i paesi europei industrialmente avanzati. L’uscita
dalla condizione di bisogno può avvenire, infatti, con progetti costruiti con
risorse a disposizione molto diverse da contesto a contesto, ma che, comunque, non si possono basare su una garanzia certa dei mezzi di sostentamento. Ed è proprio questa mancanza che, oltre a riprodurre le disegua-
35
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36
glianze sociali, innesca un meccanismo di mobilità discendente istituzionalmente strutturato».18
Nel nostro Paese il sistema di assistenza sociale – al quale le istituzioni
affidano la tutela «degli inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per
vivere»19 – è regolato da leggi regionali attuate a livello comunale. A partire
dall’approvazione del D.P.R n. 616/77 la legislazione regionale in materia socio – assistenziale si è via via arricchita di nuovi provvedimenti normativi,
adottati però nell’ambito di un processo non omogeneo di sviluppo degli
interventi e dei servizi offerti. È auspicabile che la legge quadro 32820 di
riforma del settore –approvata nel novembre 2000 –favorisca, nei prossimi
anni, la diffusione sul territorio nazionale di servizi e prestazioni più adeguati, ma il processo di attuazione non sarà necessariamente lineare ed
omogeneo.21
Dai dati riportati da N. Negri e C. Saraceno, si rileva ad esempio che nel
1990 la percentuale di comuni italiani che erogavano contributi economici
a titolo assistenziale era solo del 59,9%. Inoltre in ogni realtà territoriale variano il target dei beneficiari, le modalità di erogazione e l’entità dei sussidi.
In genere, quest’ultima oscilla tra un importo pari a quello di una pensione
sociale ed un importo di poco superiore ad una pensione minima INPS, con
delle maggiorazioni sulla base dell’ampiezza della famiglia, dell’età e/o della tipologia dei componenti. Quasi dappertutto esiste una accentuata differenza tra le misure destinate agli anziani, ai disabili ed ai minori, e le misure indirizzate agli adulti abili ed alle loro famiglie. Le prime tre tipologie beneficiano di contributi economici di entità maggiore, erogati, in genere, in
modo più continuativo. Non la «semplice» povertà, dunque, ma la presenza
di un bisogno di reddito qualificato dalla particolare condizione di anziano,
disabile o minore rende un po’ più sicuro l’accesso agli interventi assistenziali locali.
Quanto all’offerta di servizi, negli anni Novanta l’offerta da parte dei comuni è aumentata, in generale, per tutte le categorie d’utenza, anche se,
con riferimento ai servizi per minori ed anziani, l’ISTAT rileva una crescita
più contenuta22. I servizi per minori più diffusi sul piano nazionale sono la
refezione scolastica (88,1%), il trasporto scolastico (81,8%), l’affido familiare (79,2%) e gli asili nido (77,6%). Dall’esame dei dati si rileva un significativo vantaggio dei comuni settentrionali rispetto a quelli meridionali per i
servizi di asilo nido23 e affido familiare (95,6% nel Nord-Ovest; 63-64% circa nel Sud).
In ogni caso i servizi che svolgono una funzione di sostegno diretto alle
famiglie per le esigenze legate all’ordinaria quotidianità rappresentano soltanto il 16,4% di tutti i servizi sociali attivati dai comuni, e quelli espressamente finalizzati al sostegno economico del nucleo familiare con minori risultano erogati solamente dal 63,7% dei comuni. Con specifico riferimento ai
principali servizi per minori presenti ed attivi nel 1997 nell’area Nord-Ovest
si rileva la seguente situazione: i servizi di refezione sono diffusi nel 91,3% dei
comuni; il trasporto scolastico è fornito nell’82,6% dei casi; l’affido e gli asili
nido nel 95,6%; l’assistenza scolastica nel 79,6%; i servizi ricreativi (estivi o altro) nell’87%; l’assistenza economica a minori illegittimi e a minori in genere nel 69,6%; il servizio di orientamento «informa giovani» nel 63,9%; il convitto è offerto nel 24,6%; il centro diurno socio-educativo nel 42,1%.
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Come si evince dai dati, l’attività di protezione dei minori dall’indigenza
risulta, nel Nord – Ovest, decisamente più diffusa rispetto al Mezzogiorno e
di 5,9 punti percentuali superiore anche rispetto alla media nazionale (il
69,6% dei comuni dell’area Nord Occidentale erogano infatti interventi economici espressamente finalizzati).
Nonostante negli ultimi anni siano emersi segnali innovativi nelle politiche assistenziali per i minori e le famiglie in condizioni di disagio economico – rappresentati, in particolare, dagli assegni di maternità e per le famiglie
con almeno tre figli minori previsti dagli articoli 65 e 66 della legge n.
448/9824 e dall’avvio della sperimentazione del reddito minimo di inserimento previsto dal D.Lgs. n. 237/9825– si evidenzia comunque pesantemente la mancanza di uno strumento specifico e generalizzato di contrasto alle
varie forme di povertà. Per le famiglie numerose e per quelle monogenitoriali, soggette ad un maggior rischio di indigenza – così come per le situazioni di difficoltà economica temporanea (ma spesso ricorrente) delle famiglie in generale- l’unico intervento di contrasto al problema della mancanza o carenza di reddito viene, nella fase attuale, dal sostegno economico fornito dai Comuni, con risorse di entità variabile in base alle politiche sociali
attuate a livello regionale e locale.
Per quanto attiene all’implementazione delle misure di contrasto alla
condizione di povertà minorile, con riferimento allo specifico locale, è interessante esaminare i dati sullo stato di attuazione della legge 285/97, relativi alla realizzazione degli interventi previsti dall’art.4, comma a), ovvero
all’«erogazione di un minimo vitale a favore di minori in stato di bisogno inseriti in famiglie o affidati ad uno solo dei genitori, anche se separati». Il totale dei progetti compresi nell’area «minimo vitale e lotta alla povertà» è 74,
pari al 2,6% di tutti i progetti catalogati in banca dati. Gli interventi sono 109
e rappresentano l’1,6% del complesso italiano. Di questi il 48,6% riferiti al
«minimo vitale» e il 44% al sostegno economico alla famiglia naturale. Solo
il 7% degli interventi prevede le due tipologie unite.
La ripartizione territoriale dei 74 progetti vede 7 progetti nel Nord –
Ovest (9,5%); 9 progetti nel Nord – Est (12,2%); 24 progetti nel Centro
(32,4%); 28 progetti nel Sud (37,8%); 6 progetti nelle Isole (8,1%).
I progetti sono presenti solo in 13 delle 20 Regioni italiane.Pochi anche i
progetti presentati nelle città riservatarie: «forse meno di quanto si poteva
ipotizzare in contesti metropolitani» – osserva il Quaderno del Centro
Nazionale – «visto che la povertà delle famiglie e in generale il costo della vita è maggiore nelle grandi città».26
La distribuzione degli interventi, diversamente dai progetti, fa registrare
– per quanto riguarda gli ambiti territoriali –una maggiore concentrazione
nelle regioni del Centro Italia (44,7%), seguite da quelle del Sud (29,1%),
mentre il minor numero si registra nel Nord Ovest (4,9%). Solo 6 interventi
su 109 sono stati realizzati nelle città riservatarie (2 a Bologna, 2 a Milano, 1
a Napoli, 1 a Taranto).
Se da un lato l’esame dei dati sulla legge 285/97 rimarca la disomogenea
situazione del Paese in termini di diffusione degli interventi di contrasto,
dall’altro conferma la diversa incidenza quantitativa del problema della povertà economica sulla popolazione minorile.
37
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2.2 I minori nel sistema di assistenza sociale
in Piemonte
Minori in carico ai servizi socio - assistenziali
Nel 199927 sono stati in carico alla rete regionale piemontese dei servizi
socio – assistenziali 19.758 minori (di cui 1973 disabili) che rappresentano il
3,16% della popolazione in fascia d’età 0-17 anni, così ripartiti per provincia
di residenza:
% su minori
residenti
Minori
Alessandria
1.954
331
2.285
4,11
494
40
534
1,93
Asti
Biella
Minori disabili
Totale minori
assistiti
Provincia
878
66
944
3,73
Cuneo
2.158
258
2.416
2,70
Novara
1.481
132
1.613
3,30
Torino
9.383
953
10.336
3,15
815
113
928
3,79
Verbania
Vercelli
Totale
622
80
702
2,80
17.785
1.973
19.758
3,16
I minori rappresentano il 24,08% del totale degli assistiti dai servizi sociali locali nell’anno 1999. Con riferimento al «catalogo» delle prestazioni
erogate dai soggetti gestori – in ottemperanza al disposto della L.R 62/9528 –
i minori risultano aver beneficiato dei seguenti interventi:
Interventi
Minori
Minori disabili
Tot. minori assistiti
Assistenza economica
2.747
122
2.869
Assistenza domiciliare
642
254
896
Assistenza socio – educativa
2.750
356
3.106
Affidamento familiare
2.125
48
2.173
Istruttoria per adozioni
457
0
457
Inserimenti in centri diurni
723
177
900
Inserimento in presidio residenziale
974
51
1.025
Istruttoria per minori e incapaci
38
2.487
45
2.532
Inserimento lavorativo
177
75
252
Altro
953
328
1.281
Dai dati regionali risulta che i minori appartenenti a nuclei assistiti economicamente per indigenza dai servizi territoriali sono stati, nel 1999, 2869
e rappresentano il 14,52% degli assistiti e lo 0,45% dei residenti in fascia
d’età.
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Con riferimento alle province di residenza risultano:
Provincia
Minori
Minori disabili
Totale minori
assistiti
% su minori
residenti
Alessandria
306
5
311
0,55
Asti
139
3
142
0,51
Biella
38
2
40
0,15
Cuneo
359
11
370
0,41
Novara
140
7
147
0,30
Torino
1.397
46
1.443
0,43
Verbania
254
46
300
1,22
Vercelli
114
2
116
0,47
2.747
122
2.869
0,45
Totale
In cifra assoluta la maggior concentrazione di minori assistiti economicamente si rileva nella provincia di Torino, con 1443 minori in carico ai servizi, corrispondenti al 50,29% del totale regionale dei minori in assistenza
economica.
Il dato sull’incidenza territoriale degli interventi di sostegno economico
è confermato dal numero complessivo di persone (minori, adulte, disabili o
anziane) assistite per indigenza nell’area provinciale, che risultano complessivamente quantificate in 8.932 unità, corrispondenti al 63,95% del totale degli assistiti a livello regionale ed allo 0,39% dei residenti. A conferma
della forte concentrazione del problema del disagio economico minorile
nell’area metropolitana viene il dato – più recente – fornito dai servizi sociali
del Comune di Torino, che nell’anno 2000 hanno assistito economicamente
nella sola Città ben 1.367 minori29 – corrispondenti all’1,03% dei residenti 019 anni – appartenenti a 1040 nuclei familiari.
Anche dai dati a suo tempo raccolti dalla Provincia di Torino30 si rileva
un numero elevato di minori assistiti economicamente, ed è inoltre possibile ricavarne la distribuzione all’interno del territorio provinciale. Nei territori dei 21 soggetti gestori esclusa la città di Torino – che coincidono con
quelli delle ex U.S.S.L dell’area provinciale torinese – risultavano, nell’anno
1998, 2452 minori beneficiari di assistenza economica (l’1,17% dei 208.115
residenti in fascia d’età).
Dalla ripartizione territoriale emergono i seguenti dati percentuali:
Ex U.S.S.L
Totale minori
in assistenza economica
% su minori
residenti
N.24 – Collegno
128
0,89
N.25 – Rivoli
119
1,23
N.26 – Venaria
153
1,12
N.27 – Ciriè
183
1,30
N.28 – Settimo Torinese
231
1,65
93
1,54
N.29 – Gassino
segue
39
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Ex U.S.S.L
% su minori
residenti
N.30 – Chieri
145
1,07
N.31 – Carmagnola
279
3,53
N.32 – Moncalieri
58
0,49
N. 33 – Nichelino
69
0,56
N.34 – Orbassano
161
1,06
49
1,20
114
0,85
63
1,65
N.35 – Val Sangone
N. 36 – Susa
N. 37 – Valli di Lanzo
N. 38 – Cuorgnè
36
0,37
N. 39 – Chivasso
103
1,09
N. 40 – Ivrea
220
1,79
N. 41 – Caluso
69
1,29
N. 42 – Val Chisone
16
0,65
N. 43 – Val Pellice
27
1,07
136
1,01
2.452
1,17
N.44 – Pinerolo
Totale
40
Totale minori
in assistenza economica
Non potendo disporre di dati generali riferiti al numero di nuclei familiari in carico ai servizi per assistenza economica, risulta difficile comprendere quanto questo tipo di intervento incida sulle percentuali di povertà rilevate dall’ISTAT.
Come nel resto del Paese, ai servizi locali è affidato il compito di intervenire prioritariamente nei confronti di tutte quelle persone il cui diritto all’assistenza economica è riconosciuto dall’articolo 38 della Costituzione – cioè
anziani, inabili, portatori di handicap e minori – in quanto rientranti tra coloro ai quali non si possono richiedere prestazioni lavorative. «Si tratta di un
gruppo» – osserva Nicoletta Bosco31 – «che, nonostante l’eterogeneità dei
soggetti che lo compongono, si caratterizza per la presenza di ’bisogni qualificati’ e che, in quanto tale, rimane necessariamente ai margini della discussione in relazione ai vincoli di bilancio, dal momento che è piuttosto remota
l’idea che eventuali tagli di spesa possano incidere sui sostegni economici
previsti per coprire i bisogni di reddito di queste categorie di soggetti».
Accanto all’area dei «poveri e inabili» ne esiste però un’altra – più problematica e decisamente meno protetta dagli interventi di sostegno – alla
quale appartengono gli adulti «abili al lavoro», la cui situazione di indigenza non è connessa a problemi di invalidità fisica o psichica, ed il cui bisogno
di reddito non si accompagna alla presenza di «bisogni qualificati» definiti
dall’impossibilità di partecipazione al mercato del lavoro. Di certo gli interventi di sostegno forniti attualmente dai servizi socio – assistenziali locali
non sono, nella generalità dei casi, estesi alle famiglie in condizioni di «povertà relativa». Si può anzi dire che all’interno di un’utenza in condizioni di
«povertà assoluta» – così come definita dall’ISTAT – esistono livelli di protezione differenziati. Tali da escludere non solo le situazioni «a rischio di povertà», di «povertà non conclamata», di «povertà temporanea» ecc., ma an-
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che alcune situazioni di povertà spesso grave (i disoccupati), sulle quali «si
concentrano le preoccupazioni di quanti considerano i sostegni al reddito
come un incentivo a comportamenti di passività e di dipendenza dall’assistenza, o peggio a un uso opportunistico dei dispositivi di assistenza e di sostegno economico».32
Questa considerazione sembra suffragata (almeno per quanto riguarda
la provincia di Torino) dalla descrizione delle problematiche espresse dalla
popolazione minorile – e degli interventi di sostegno ad essa rivolti – che i
soggetti gestori dei servizi forniscono.33
a) Dai dati raccolti dal CISAP34 – il consorzio che gestisce i servizi dei
Comuni di Collegno e Grugliasco, un’area territoriale della prima cintura
collocata ad ovest di Torino nella quale risiedono 87.431 abitanti per complessivi 34.690 nuclei familiari – si evidenzia un carico di utenza complessivo, nell’anno 2000, di 2287 assistiti (il 2,61% dei residenti), appartenenti a
1401 nuclei familiari (il 4,03% dei nuclei residenti).
Nell’ambito intercomunale considerato i minori assistiti sono stati 594
(di cui 53 disabili) corrispondenti al 26,01% del totale degli assistiti del consorzio ed al 4,45% dei minori residenti in fascia d’età. L’1,04% dei minori in
carico risulta essere nato nell’anno (8 unità); il 3,92% è di età compresa tra
zero e dieci anni (312 unità); il 4,13% è nella fascia tra zero e tredici anni (420
unità pari al 70,7% del totale dei minori in carico).35
Le famiglie in carico per assistenza economica nel 2000 risultano quantificate in 276 nuclei (con una media di 1,8 componenti) e rappresentano il
19,7% dei nuclei assistiti e lo 0,79% dei nuclei residenti. Le persone assistite
per indigenza risultano complessivamente 528 (il 23,08% degli assistiti e lo
0,6% dei residenti). I minori appartenenti a nuclei in assistenza economica
nell’area di Collegno e Grugliasco sono quantificati in 142 unità (età media
8,2 anni), rappresentano il 23,9% dei minori assistiti e l’1,06% dei 13.319 minori residenti.
b) Nell’area territoriale del consorzio C.I.DI.S36 – che comprende i comuni di Beinasco, Bruino, Orbassano, Piossasco, Rivalta e Volvera, con un
totale di 88.352 abitanti – risultano in carico ai servizi al 31.12.2000, 2.555
persone corrispondenti al 2,89% dei residenti.
I minori assistiti nell’anno sono stati 667 (di cui 38 disabili), corrispondenti al 16,89% del totale degli assistiti del consorzio ed al 4,47% dei minori
residenti in fascia d’età. I titolari di interventi finalizzati al sostegno economico sono stati complessivamente 722 unità (il 28,25% degli assistiti e lo
0,81% dei residenti). Di queste, 180 sono bambini o adolescenti, che rappresentano il 26,98% dei minori in carico al consorzio e l’1,2% dei 14.926 residenti in fascia d’età.
c) Nell’area territoriale del consorzio C.I.S37 – che comprende i comuni
di Ciriè, Caselle, Borgaro, San Maurizio, Nole, San Francesco, Mathi, San
Carlo, Robassomero, Fiano, Rocca, Front, Barbania, Vauda, Villanova,
Grosso e Levono, con un totale di 86.192 abitanti – risultano in carico ai servizi, nell’anno 2000, 3.968 persone (pari a circa 2300 cartelle aperte, di cui il
70% attive) corrispondenti al 4,6% dell’intera popolazione residente. I mi-
41
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nori in carico nell’anno sono stati 848, corrispondenti al 21,37% del totale
degli assistiti del consorzio ed al 6% dei 14.03138 minori residenti in fascia
d’età.
Le famiglie in carico per assistenza economica nel 2000 risultano quantificate in 305 nuclei. Le persone assistite per indigenza risultano complessivamente 648 (il 16,33% degli assistiti e lo 0,75% dei residenti). I nuclei con
minori in assistenza economica nell’area del C.I.S sono quantificati in 107
famiglie per un totale di 139 minori, che rappresentano il 16,39% dei minori assistiti e l’0,99% dei minori residenti.
Si tratta di famiglie, queste ultime, con problemi di carattere economico
«legati ad una disoccupazione, meno prolungata rispetto al passato, ma ancora connotata da instabilità. Un’alta percentuale di nuclei è costituita da
un unico genitore a causa di separazione o divorzio, ed è ancora forte il disagio rappresentato sia da un’elevata incapacità da parte delle figure genitoriali di adottare metodi educativi idonei a supportare i figli nel loro percorso di crescita, sia da una altrettanto elevata disorganizzazione della vita
familiare».39
d) Nell’area territoriale del consorzio C.I.S.S.P40 – che comprende i
Comuni di Leinì, San Benigno, Settimo Torinese e Volpiano con un totale di
77.443 abitanti – risultano, al 31.12.2000, 979 cartelle di servizio sociale attive, di cui 336 relative a minori in carico. «Significativo è il dato» – si osserva
nella relazione del consorzio – «che un terzo delle cartelle attive, sia nel 1999
sia nel 2000, riguardino minori, con un notevole carico di lavoro che deriva
da: frequente multiproblematicità delle situazione seguite, con coinvolgimento di altri servizi (Servizio di Psicologia dell’età evolutiva, Servizio di
Salute Mentale, Servizio per le Tossicodipendenze) e operatori (educatori,
pediatri, ecc.); rapporti con l’Autorità Giudiziaria, particolarmente onerosi
nel caso di apertura del procedimento per la dichiarazione di adottabilità…;
costante monitoraggio delle situazioni di minori in comunità…».41
I minori in carico per assistenza economica nel territorio del consorzio
di Settimo Torinese risultano quantificati in 31 unità, che rappresentano il
12,3% dei 252 assistiti nell’anno 2000 e lo 0,24% dei minori residenti.
42
e) Nell’area territoriale del consorzio C.I.S.A. 1242 – che comprende i
Comuni di Nichelino, Vinovo, None e Candiolo per complessivi 74.060 abitanti – risultano – a tutto 2000 – 663 persone/nuclei in carico. I minori complessivamente seguiti nell’anno vengono quantificati in 157 unità e rappresentano il 23% degli assistiti e l’1,25% dei minori residenti. I minori in carico
per assistenza economica censiti dai servizi consortili di Nichelino vengono
quantificati in 55 unità, corrispondenti allo 0,43% dei minori residenti.
I dati rilevati attraverso le relazioni annuali prodotte dai consorzi sembrano confermare una maggiore incidenza del problema dell’indigenza minorile nell’area metropolitana, ove la percentuale di minori assistiti risulta
elevata non solo rispetto al complesso della Regione Piemonte, ma anche rispetto all’area della provincia torinese. I minori in assistenza economica nell’anno 2000 nella Città di Torino e nei 5 consorzi esaminati sono infatti 1894
e rappresentano il 66,01% del totale dei minori assistiti – nell’anno precedente – a livello regionale. Con riferimento alla Provincia di Torino è signifi-
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cativo il confronto tra i numeri assoluti: 1894 minori assistiti a tutto 2000 nell’area considerata, contro i 1443 assistiti, nel 1999, dai servizi sociali nell’ambito dell’intera provincia di Torino.
Come segnalato nelle relazioni dei consorzi, i minori seguiti dai servizi
sociali appartengono a famiglie con problemi legati ad una disoccupazione
più o meno prolungata degli adulti di riferimento; connotate da instabilità;
costituite da un unico genitore; spesso multiproblematiche. Il tratto comune
è in ogni caso rappresentato dalle condizioni di grave indigenza in cui versano. Gli enti gestori socio – assistenziali non sono infatti strutturati, come si è
detto, per sostenere le situazioni «a rischio» di povertà – certamente meno
gravi ma sicuramente molto più diffuse – sulle quali intervengono, con proprie «politiche tariffarie», i comuni direttamente, o le ASL per quanto attiene,
ad esempio, alle esenzioni dalla spesa sanitaria.43
I nuclei in carico ai servizi sociali – a causa delle condizioni di indigenza
conclamata in cui versano – sono dunque relativamente pochi. I minori coinvolti rappresentano solamente lo 0,45% dei minori residenti a livello regionale e lo 0,43 a livello della provincia di Torino. Anche nell’area metropolitana – ove il dato percentuale è più elevato – gli interventi non affrontano che
le manifestazioni più eclatanti del problema dell’indigenza.
Tipologia familiare, indigenza e stile di vita
La povertà economica dei minori «intercettata» dai servizi di assistenza
sociale si manifesta dunque – in forme spesso esasperate dal concorso dei
molti fattori che la generano – all’interno di nuclei che, in genere, non sono
in grado di garantire adeguate cure ed attenzioni ai figli. Risulta inoltre maggiormente concentrata in micro-aree territoriali, caratterizzate dalla forte incidenza di disagio sociale.
I nuclei seguiti dai servizi di assistenza sociale risultano appartenere, sostanzialmente, a due tipologie:44 «In alcuni dei nuclei familiari in carico si rilevano condizioni di estrema povertà economica; in altri, in cui non è prevalente il problema economico, emerge una situazione di isolamento, in
parte derivante da radicati stili di vita (legami familiari deboli, rapporti poco incisivi con il vicinato ed il territorio...) ed in parte legata a problemi di
salute mentale o di alcoldipendenza».
a) Proprio con riferimento agli «stili di vita» si rileva, da parte dei servizi,
«… un aumento di richieste provenienti da persone con problemi giudiziari (es. ex detenuti, detenuti domiciliari o in attesa di giudizio, persone che
sottostanno a misure alternative al carcere ecc.). Da un lato l’aspettativa di
queste persone (con famiglia a carico o in carico alla famiglia) nei confronti del nostro servizio è quella di essere destinatari di sicuro aiuto, dall’altro
le effettive possibilità di offrire un valido sostegno nel reinserimento sociale
sono molto limitate, oltre che dalla carenza di risorse, anche dal forte pregiudizio che esiste nei confronti di chi ha precedenti penali. Ne consegue
che spesso i progetti elaborati con queste persone non portano ad un reale
cambiamento del loro disagio e non incidono sul loro senso di emarginazione… In particolare ci riferiamo alle maggiori probabilità di fallimento dei
43
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:20 Pagina 44
tentativi di inserimento lavorativo rispetto agli altri soggetti. Anche quando
si intravedono reali possibilità di collaborazione con questa tipologia d’utenza, l’unico concreto intervento attuabile (quale segnale di sostegno nei
loro confronti) è quello dell’assistenza economica, sempre che in famiglia
non vi sia già un reddito seppur non elevato. Infatti non è più possibile la
partecipazione di queste persone ai cantieri di lavoro del Comune di
Collegno per via dei precedenti fallimenti».
In generale sono gli adulti «…perlopiù soli e in maggioranza di sesso maschile» che «..stanno caratterizzando in modo significativo la popolazione
assistita, esprimendo nuove forme di disagio, determinato da assenza di
prospettive occupazionali, almeno nel breve periodo, da abbandono da parte delle famiglie di provenienza e dalla mancanza di positive relazioni sociali
ed affettive. In questa fascia di popolazione sono anche ricompresi adulti ultra trentenni, con alle spalle storie di tossicodipendenza, alcoldipendenza,
detenzione o con disturbi psichiatrici.»45
Fra i nuclei familiari in carico ai servizi si rileva la massiccia presenza di
nuclei ‘storici’ caratterizzati da ‘cronicità assistenziale’ i quali ciclicamente
ritornano in carico ripresentando le stesse problematiche. «Con queste famiglie» – osserva il servizio sociale46 – «risulta difficoltoso modificare la cultura assistenzialista del ‘tutto dovuto’». Si rileva infatti «…come la maggior
parte dei casi di assistiti economicamente rientri nel cosiddetto circolo vizioso dell’assistenza, per cui le nuove domande vengono valutate con maggior attenzione e in buona parte ricevono risposte negative, mentre chi è
stato seguito in passato – e conosce di conseguenza i ‘trucchi’ per essere assistito – ottiene sovente le varie agevolazioni possibili». Gli interventi messi
in atto dai servizi sono «finalizzati ad un aiuto nella risoluzione dei problemi presentati, anche attraverso un’azione di stimolo per l’attivazione delle
risorse personali. La cronicizzazione di molte situazioni rimane però un evidente nodo problematico rispetto all’erogazione di alcuni interventi quali,
ad esempio, l’assistenza economica, vissuta ancora da molti come una sorta di ‘rendita vitalizia’, in assenza di altre alternative».47
Le osservazioni sull’indigenza, formulate dai servizi consortili, si completano con la considerazione48 che «persistono le difficoltà nell’accertare la
veridicità delle dichiarazioni rilasciate per ottenere il contributo economico, in quanto non è possibile contare su un sistema di verifica efficace.
Spesso i controlli dei Vigili non ci aiutano a fare chiarezza sulle situazioni
dubbie, lasciando a noi l’antipatico compito di richiamare le persone a rendere le autocertificazioni quasi credibili, rischiando di incrinare il rapporto
di fiducia che si dovrebbe creare». Il lavoro non regolarizzato è infatti diffuso e, sovente, consapevolmente non dichiarato al fine ottenere agevolazioni
varie (sussidi, esenzioni ecc.). Inoltre, per mantenere gli interventi di sostegno economico, vengono spesso celate le assunzioni, dichiarate false separazioni, richieste cancellazioni dallo stato di famiglia ecc.»
44
b) Il tema dell’indigenza rimanda a quello del rapporto tra marginalità e
lavoro: un problema che i servizi cercano di affrontare con strumenti diversificati, perché i soggetti tradizionalmente a rischio di esclusione sociale (gli
utenti dei servizi sociali), pur appartenendo alla tipologia delle «fasce deboli del mercato del lavoro», non sono, in genere, dei semplici disoccupati. Ad
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essi non basta «trovare il lavoro», ma necessitano di aiuto per «reggerlo»,
cambiando lo stile personale di vita.
«Molte problematiche portate dagli adulti» – si osserva nella relazione di
consuntivo del C.I.S – «quali la ricerca di opportunità lavorative, nonché di
risorse abitative, non sempre risultano di stretta pertinenza del servizio socio-assistenziale, e la carenza di risposte in tal senso spesso vanifica la realizzazione di progetti di reinserimento sociale».49 In ogni caso permane, tra
le famiglie assistite, un alto livello di disoccupazione sia giovanile (precoce
abbandono scolastico, scarsi livelli di istruzione e di specializzazione) sia in
età ’matura’ (difficoltà da reinserimento nel mondo del lavoro successivamente a licenziamenti, fallimenti ecc.). «In varie situazioni si rileva la difficoltà di reinserimento nel mercato del lavoro: talvolta è subentrata una condizione invalidante; in altri casi, la separazione della coppia ha portato ad
una instabilità economica, con ricadute in ambito lavorativo e sociale.
Sembra essere in aumento, inoltre, il numero di situazioni che vedono uomini soli di età media in condizioni di elevato rischio di marginalità, in seguito alla perdita del lavoro o di riferimenti familiari».50
Dall’osservatorio dei servizi si rileva che «l’incidenza maggiore è quella
di nuclei provenienti da altri territori, spesso dove ci sono genitori molto
giovani con figli minori, con seri problemi legati alla salute di uno dei genitori, con grosse difficoltà economiche, di disoccupazione e di relazione
(bassa scolarità), con scarsa capacità a muoversi nel mondo dei servizi.
Spesso emerge la posizione debole della figura femminile, per la quale è necessario trovare nuove ipotesi di emancipazione (corsi di formazione, inserimenti lavorativi) e/o gratificazioni per il ruolo che comunque hanno all’interno delle proprie famiglie». I nuclei sono sempre più spesso «famiglie
con minori in situazioni socio – economiche gravemente disagiate, che necessitano di immediata presa in carico ed interventi molteplici. In particolare si evidenzia un incremento di famiglie di stranieri extracomunitari».51
Infine risulta accelerata la tendenza ad una rottura conflittuale dei rapporti tra coniugi nel nucleo familiare, «disgregato al proprio interno anche
se non c’è una vera e propria separazione in atto; questo spesso comporta la
non adesione ai progetti concordati con i servizi, con il risultato che spesso
l’operatore si ritrova a comunicare con un solo componente del nucleo, facendo venir meno la globalità del progetto stesso».52
Il circolo vizioso della povertà
Uomini e donne sempre più spesso soli, o inseriti in nuclei familiari conflittuali, caratterizzati da una forte precarietà economica ed esistenziale dei
componenti, sulla quale gli interventi economici di sostegno non incidono
in modo sostanziale, se non nei rari casi in cui la persona è effettivamente
motivata ad uscire dalla condizione di marginalità.
È prevalentemente all’interno di questi nuclei che si trovano i «bambini
poveri». Per questi bambini la povertà non è quasi mai conseguenza pura e
semplice della carenza di risorse economiche della famiglia, ma ha cause ed
aspetti più complessi, che rimandano agli adulti genitori ed ai loro stili di vita. Adulti con problemi di salute mentale che determinano comportamenti
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bizzarri, ai quali il bambino deve adattarsi, in un ambiente spesso turbato
sul piano affettivo, sociale e comportamentale.
Non meno gravi i problemi posti dalle famiglie con adulti tossico dipendenti o alcol dipendenti, nelle quali il minore deve assistere alle continue liti, subire l’isolamento del nucleo e le conseguenze delle condizioni di vita
precarie dei genitori. Padri che entrano ed escono di prigione, per i quali, se
la carriera criminale «può essere resa in qualche modo compatibile con un
ruolo genitoriale quotidiano, in ogni caso la ’neutralizzazione’ del carcere
interrompe fisicamente il rapporto. Per cui, se il problema in genere non nasce con l’arresto, di certo con questo diventa più traumatico per il figlio».53
Coppie giovani ed immature, nelle quali la presenza di un figlio si pone precocemente ad adulti ancora alla ricerca di una propria autonomia, che non
reggono il ruolo genitoriale e nemmeno la coniugalità. Famiglie divise – da
una separazione giudiziale che giunge dopo lunghi conflitti tra coniugi – ma
anche famiglie «dissolte», nelle quali gli adulti ricorrono a forme di separazione di fatto a cui consegue, spesso, la scomparsa di uno dei genitori. In
queste situazioni, l’esperienza della separazione (o dell’abbandono del coniuge-genitore assente) è causa, per il bambino, di privazioni di supporto
affettivo oltre che materiale. Ed è in genere la madre che rimane ad assicurare, da sola, la cura quotidiana e ad assumersi la totale responsabilità su
uno o più bambini.
In tutte queste situazioni si ritrova anche l’indigenza e, conseguentemente, vi è la necessità di fornire, al nucleo familiare, quei «contributi economici» che costituiscono spesso uno strumento per «agganciare» gli adulti, al fine di realizzare interventi più incisivi a protezione dei minori.
Il disagio minorile si genera dunque – a partire dal nucleo familiare – nel
rapporto tra genitori e figli; tra adulti che propongono modelli educativi incongrui alle richieste che la società pretende, e ragazzi avviati precocemente nel mondo adulto senza la necessaria strutturazione e strumentazione.
L’incapacità degli adulti a reggere le «regole del gioco» sociale si trasmette,
spesso in modo traumatico, ai figli. Ciò avviene, in particolare, nelle sempre
più frequenti separazioni conflittuali (legali e non) e nelle famiglie multiproblematiche in genere. Famiglie nelle quali lo scontro tra gli adulti è acuito dalla strumentalizzazione dei figli, e dalla presenza nel nucleo di problematiche economiche e psico-sociali di varia natura, tra loro connesse.
La povertà dei minori è l’aspetto più triste della condizione di indigenza
del nucleo familiare – spesso monoparentale; ma, quest’ultima, non è quasi mai disgiunta dall’incapacità degli adulti di accedere autonomamente alle opportunità (per limiti di conoscenza e/o per incapacità di rispettare le
regole sociali); dall’incapacità di organizzare l’esercizio della genitorialità (o
di riorganizzarla alla fine della coniugalità); da situazioni di alcolismo, dipendenza da sostanze, comportamenti devianti ecc. «È aumentato il numero di minori spettatori, spesso attori, della separazione dei propri genitori,
le cui situazioni di conflittualità vengono segnalate al territorio dall’Autorità
Giudiziaria, con la richiesta di intervenire, al di là dell’indagine sociale, con
funzioni di protezione nei confronti dei minori (incontri mediati)».54 La povertà, per questi bambini, si concretizza nella trascuratezza e carenza di attenzioni in famiglia; nella scarsa cura materiale ed affettiva. Viene generata
dall’intreccio perverso tra condizioni economiche precarie della famiglia e
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caratteristiche culturali degli adulti, che «responsabilizzano» precocemente
i figli più grandi (ai quali è spesso delegata la cura dei piccoli) ed assegnano
poca o nulla importanza all’istruzione scolastica.
Questi messaggi, che disconfermano la scuola, favoriscono il calo di interesse da parte dei ragazzi, ponendo le basi per la dispersione e l’abbandono precoce del percorso scolastico. «L’elevazione dell’obbligo scolastico»
fanno osservare i servizi – «sta creando nuove problematiche: i ragazzi non
intenzionati a proseguire gli studi ma non ancora inseribili nel mercato del
lavoro, in considerazione dell’età, spesso trascorrono il loro tempo in giro
per il quartiere o nei centri commerciali». Ed è tra questi ragazzi (ma non solo) che si evidenzia il problema ulteriore dell’uso di sostanze, soprattutto
cannabis, ecstasy e altre pasticche.
Un’altra preoccupazione – segnalata dai servizi – riguarda la micro-criminalità, le azioni illegali, la piccola delinquenza (furti d’auto o di appartamento, piccolo spaccio…). «Questa moda ha rappresentato per alcuni un’alternativa alla noia, per altri una trasgressione non troppo rischiosa e per altri ancora una pratica risorsa per procurarsi successivamente pasticche o altro materiale di consumo per lo sballo. Questo periodo è durato all’incirca 6
mesi ed è scemato quando tutti i rischi più ovvi sono incominciati ad emergere, un po’ dai nostri discorsi e un po’ dai piccoli imprevisti di questo «mestiere»: inseguimenti della polizia e dei proprietari delle auto, incidenti avuti durante l’allontanamento, conflitti di interesse coi compratori di merce o
altro… Purtroppo rimangono tuttora coinvolti in questi traffici quei pochi
elementi che non riescono o non vogliono reperire risorse alternative».55
2.3 La complessità delle risposte possibili
Alcuni progetti locali
A conferma della dimensione assunta dal problema dell’intreccio tra situazione di indigenza e difficoltà/incapacità ad esercitare le funzioni genitoriali da parte degli adulti in carico ai servizi,56 viene il dato più recente relativo all’avvio di progetti d’intervento, specificamente finalizzati al sostegno della genitorialità, da parte dei soggetti gestori delle funzioni assistenziali.
Il progetto «Tutti intorno per far quadrare il giorno»57 – elaborato dal
consorzio C.I.DI.S – ha come target donne sole, in difficoltà e con figli minori, e si pone l’obiettivo di aiutare queste donne a fronteggiare le esigenze
organizzative quotidiane, fornendo loro un punto d’appoggio, e a sostenere
le ansie e i timori di tipo educativo, affettivo e relazionale. Va sostanzialmente nella stessa direzione il progetto «Punto in comune» – gestito dal
consorzio C.I.S.A.P – che si rivolge a quella tipologia di genitori che ha «più
probabilità di innescare ’circoli viziosi’ nei rapporti familiari, ripetendo errori subiti quando erano figli, all’interno di famiglie spesso caratterizzate da
un rapporto cronico con i servizi sociali».58 Il progetto prevede la costituzio-
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ne di gruppi di sostegno a genitori di ragazzi preadolescenti, destinatari di
interventi erogati dai servizi, e considerati ad elevato rischio di dipendenza
da sostanze.
Come si è detto, la povertà «intercettata» dai servizi socio assistenziali
rappresenta solo una quota di quella presente sul territorio. La rilevante presenza di fasce deboli del mercato del lavoro – che si aggiungono ai soggetti
tradizionalmente a rischio di esclusione sociale e ufficialmente al di sotto
della soglia di povertà – è causa di un impoverimento più diffuso.
La «nuova povertà» si presenta nelle forme di un disagio presente in
molte famiglie «normali», dovuto al divario tra costo della vita e redditi da
lavoro, che sempre meno garantiscono un livello esistenziale dignitoso e la
possibilità di accedere con regolarità a consumi «normali».59 Si assiste di
conseguenza all’emergere, a livello locale, di richieste di sostegno economico anche da parte di segmenti della cittadinanza in possesso di redditi
diversificati, e non collocabili tra i tradizionali destinatari di «assistenza
economica».
Il problema viene fronteggiato – in modo più o meno diffuso ed efficace
– in piccola parte mediante i servizi socio assistenziali60, ma soprattutto attraverso le politiche comunali di esenzione dal pagamento dei tickets sanitari (con criteri generalmente meno selettivi di quelli utilizzati per l’assistenza economica); l’esenzione dal pagamento o l’applicazione di quote di
maggior favore per il pagamento dei servizi socio – educativi (rette nidi,
mensa scolastica, centri estivi ecc.); l’esenzione dal pagamento o la riduzione degli importi delle tasse e tariffe locali (ICI, raccolta rifiuti).
Nell’area territoriale della provincia di Torino si è inoltre registrato un
notevole sviluppo, nel corso degli anni ’90, di politiche di sostegno del reddito, attraverso la promozione, da parte dei comuni, di «cantieri di lavoro»
(in molti casi organizzati in collaborazione con i servizi socio – assistenziali) e di lavori di pubblica utilità (L.S.U; L.P.U) per adulti disoccupati. Si tratta di esperienze che hanno consentito ai servizi di sperimentare progetti individuali di «messa alla prova» di beneficiari «storici» dell’assistenza sociale.
Con risultati positivi, per le persone più motivate a ricercare, attraverso l’esperienza di lavoro, un diverso ruolo nella famiglia e nel contesto di vita e di
relazione. Con l’entrata in vigore della legge 431/9861 ai comuni è stato infine consentito di fornire contributi di sostegno per il pagamento degli affitti:
intervento gestito in genere direttamente dagli uffici comunali, così come
avviene per l’istruttoria finalizzata all’erogazione, da parte dell’INPS, degli
assegni di maternità e per il terzo figlio previsti dagli articoli 65 e 66 della
legge n. 449/98.62
È appena il caso di osservare che gli interventi messi in atto a livello locale non sono assolutamente risolutivi dei problemi derivanti dall’intreccio
tra nuova e vecchie povertà, tra povertà relativa e povertà assoluta, tra utenti «cronici» dell’assistenza e cittadini con reddito insufficiente, che faticano
ad arrivare a fine mese pur lavorando.
Questa dimensione di complessità, tendenzialmente in crescita, modifica radicalmente la domanda sociale che emerge dal territorio. Il disagio economico non si manifesta più in modo netto, con il volto del «caso sociale» o
del «lavoratore disoccupato» vittima dei processi di ristrutturazione industriale, come accadeva nei primi anni ’80. La povertà, intesa come insuffi-
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cienza di risorse economiche, più diffusa che in passato, si connota come la
risultante di molti fattori, che includono – nelle manifestazioni più eclatanti – l’esclusione dal lavoro, comportamenti «autodistruttivi», gravi crisi relazionali. E, per quanto attiene ai minori, inadeguatezza da parte degli adulti
a svolgere le funzioni genitoriali.
Scheda A – L’impatto delle nuove misure di sostegno economico
ai minori e alla maternità
Con la legge n.449/1998 (finanziaria del 1999) sono stati introdotti l’«Assegno
ai nuclei familiari con almeno tre figli minori» (art.65) e l’«Assegno di maternità» (art.66).
L’assegno ai nuclei con tre o più figli in età inferiore ai 18 anni viene concesso,
a far data del 1 gennaio 1999, a nuclei composti da cittadini italiani residenti
che risultino in possesso di risorse economiche non superiori al valore dell’indicatore della situazione economica (I.S.E) di cui al D.Lgs.n.109/199863 pari a
36 milioni di lire annue con riferimento a nuclei familiari con cinque componenti. Per nuclei familiari con diversa composizione il requisito economico è
riparametrato sulla base di una scala di equivalenza.
L’assegno – concesso dai comuni ed erogato dall’I.N.P.S. – è corrisposto integralmente, per un ammontare di 200 mila lire mensili64 e per 13 mensilità, per
valori I.S.E del beneficiario inferiori o uguali alla differenza tra i 36 milioni (per
5 componenti) e il doppio dell’importo dell’assegno calcolato su base annua (5
milioni 200 mila lire). Per valori ISE del beneficiario compresi tra la predetta
differenza ed il valore ISE assunto a parametro, l’assegno è corrisposto in misura pari alla metà della differenza tra i 36 milioni e l’ISE del beneficiario.
L’assegno di maternità è concesso al nucleo familiare di appartenenza delle
madri che risulti in possesso di risorse economiche non superiori al parametro ISE fissato in 50 milioni di lire annue con riferimento a nuclei con tre componenti. Per nuclei familiari con diversa composizione il requisito economico
è riparametrato sulla base di una scala di equivalenza.
L’assegno è concesso dai comuni ed erogato dall’INPS a far data dal 1 luglio
1999 alle madri, cittadine italiane, in possesso dei requisiti previsti, che non
beneficiano del trattamento previdenziale della indennità di maternità. Viene
quantificato in 200 mila lire mensili per cinque mensilità per i figli nati successivamente al 1° luglio 1999. Per i parti successivi al 1° luglio 2000 viene elevato
a 300 mila lire.
L’assegno è concesso anche alle lavoratrici che godono di un’indennità di maternità previdenziale di importo inferiore al valore dell’assegno ed abbiano
redditi non superiori al parametro ISE. In tal caso alle beneficiarie viene erogata la quota differenziale.
Le misure introdotte dalla legge n.449/1998 sono doppiamente importanti: da
un lato perché assicurano gli interventi di sostegno su tutto il territorio nazionale – e quindi anche in quei comuni che non erogano assistenza economica
in modo strutturato – dall’altro perché consentono di intervenire su una fascia
di disagio economico più vasta rispetto a quella normalmente coperta dai servizi di assistenza sociale. I criteri ISE utilizzati per la determinazione del reddito dei beneficiari e per fissare la soglia di accesso agli assegni includono infatti aree di povertà meno conclamate ma più diffuse. Ciò avviene in particolare
con l’assegno di maternità.
La relazione sulle attività del 2000, prodotta dal consorzio di Ciriè, segnala le
prime ricadute positive dei nuovi provvedimenti sull’attività dei servizi: «…le
segue
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famiglie con minori hanno subito un calo del 15% circa rispetto all’anno precedente; tale calo è stato sicuramente determinato da una maggiore possibilità
di reperire un’occupazione da parte di giovani adulti, ma anche dall’applicazione di leggi nazionali (provvidenze per i nuclei numerosi e l’assegno di maternità) che hanno assorbito, benché parzialmente, la richiesta di aiuto economico da parte di famiglie con minori»65.
Anche dai dati riferiti all’anno 1999 forniti dal Comune di Grugliasco risulta
un’estensione dell’area di disagio coinvolta degli interventi di sostegno. Il
Comune ha infatti erogato assegni a 34 nuclei con almeno tre figli minori ed
assegni di maternità a 19 nuclei per un totale di 53 famiglie assistite nell’anno.
Solamente 5 di queste famiglie hanno beneficiato, nello stesso anno, degli interventi del C.I.S.A.P, il consorzio al quale sono delegate le attività di assistenza economica ai cittadini di Collegno e Grugliasco.
I dati più recenti riferiti all’area territoriale consortile, relativi al primo semestre
2001, confermano la tendenza: risultano infatti 42 nuclei percettori di assegni a
Grugliasco e 40 nuclei a Collegno per complessive 82 famiglie. Di queste solo 5
risultano in carico ai servizi consortili per interventi di sostegno economico.
La sperimentazione del RMI e i suoi problemi
50
Il Decreto Legislativo 18 giugno 1998, n.23766 ha disciplinato l’introduzione – in via sperimentale e solamente in alcune aree territoriali del
Paese67 – dell’istituto del «reddito minimo di inserimento». Si tratta – come
recita l’articolo 1 del decreto – di «una misura di contrasto della povertà e
dell’esclusione sociale attraverso il sostegno delle condizioni economiche
e sociali delle persone esposte al rischio della marginalità sociale ed impossibilitate a provvedere per cause psichiche, fisiche e sociali al mantenimento proprio e dei figli». Il reddito minimo «è costituito da interventi volti a perseguire l’integrazione sociale e l’autonomia economica dei soggetti
e delle famiglie destinatarie, attraverso programmi personalizzati, e da trasferimenti monetari integrativi del reddito». Con il decreto viene individuata una possibile risposta al problema di disporre di strumenti efficaci di
contrasto della povertà.
A conferma di una nuova sensibilità al tema della «povertà diffusa» viene infine l’assunzione dell’impegno – formalizzato dall’articolo 23 della
Legge 328/2000 – ad adottare un apposito provvedimento legislativo che, tenuto conto dei risultati della sperimentazione effettuata, definisca: «le modalità, i termini e le risorse per l’estensione dell’istituto del reddito minimo
di inserimento come misura generale di contrasto della povertà alla quale
ricondurre anche gli altri interventi di sostegno del reddito…». Senza l’attivazione di una misura generale di sostegno agli adulti è infatti impossibile
garantire una seria protezione dei minori appartenenti a famiglie povere.
Con le risorse di cui dispongono attualmente i comuni68 si realizzano interventi di sostegno economico inefficaci perché sporadici, limitati nel tempo
o comunque di entità insufficiente.
È perciò di fondamentale importanza che il R.M.I sia adeguatamente finanziato e soprattutto sia «mirato» alle famiglie con figli minori, allo scopo
di ridurre – attraverso l’integrazione del reddito – il disagio economico e
contrastare la riproduzione familiare della povertà.
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Per far sì che il R.M.I possa essere una misura assistenziale «attiva» – che
fa fronte all’emergenza, ma mira anche ad attivare risorse e a sviluppare capacità di autonomia – appare indispensabile risolvere, in modo chiaro, il nodo del rapporto tra «sussidio» e lavoro. Il decreto legislativo 237 concede il
reddito minimo alle persone «esposte al rischio della marginalità sociale ed
impossibilitate a provvedere per cause psichiche, fisiche e sociali al mantenimento proprio e dei figli» (art.1); ma richiede a chi ne è beneficiario «la disponibilità a frequentare corsi di formazione professionale e la disponibilità
al lavoro» (art.7, comma 2). La «disponibilità al lavoro» di adulti – appartenenti a nuclei familiari spesso costituiti da una donna sola con figli a carico,
concentrati per lo più nelle aree urbane e, in genere, sprovvisti di qualificazione professionale – non può che manifestarsi con il reperimento e l’accettazione di lavori scarsamente remunerati.
Si porrà dunque un problema di «convenienza»: è meglio arrotondare un
sussidio di 1.060.800 (per un nucleo «a reddito zero» composto da due adulti ed un minore) con lavoretti in nero o impegnarsi (dopo averlo attivamente ricercato) in un lavoro regolare (es. tempo pieno in impresa di pulizie)
con uno stipendio di 1.200.000 – 1.300.000 lire mensili?
Si deve inoltre considerare che, uscendo dall’assistenza economica, si
perdono, in genere, i «benefici» connessi, rappresentati dalle esenzioni generalizzate accordate, dai Comuni, agli utenti dei servizi assistenziali. È probabile che – se davvero si intende sostituire il welfare con il workfare – si
debba mettere in conto la necessità di «creare intenzionalmente dei posti di
lavoro, in quantità, localizzazione e forma adatte alle persone che dovranno
occuparli»69. Siccome i lavori accessibili a molti degli assistiti «forniranno
loro salari bassi e irregolari», il sussidio in denaro dovrà comunque essere
pagato – un po’ come «un secondo assegno» – almeno nella prima fase di avvio al lavoro. Si dovranno, inoltre, mettere in conto «periodici ritorni» in regime di assistenza.
Oltre allo strumento rappresentato dal R.M.I – necessario per affrontare
il problema della povertà conclamata – la legge di riforma 328/200 individua
nei «prestiti d’onore» – erogati dai Comuni con finanziamenti a tasso zero –
una ulteriore misura di sostegno economico alle famiglie.
Anche in questo caso si tratta di un intervento importante per il sostegno di quelle persone o famiglie che – pur non rientrando nei limiti di reddito che danno titolo all’assistenza – vivono situazioni transitorie (ma spesso ricorrenti) di difficoltà economica, a causa di eventi «straordinari» che,
con redditi adeguati, potrebbero venire affrontati autonomamente. I «contributi erogati a titolo di prestito» sono da tempo utilizzati da molti servizi
sociali della provincia di Torino. In genere risultano efficaci, ed hanno il vantaggio di non sottrarre, in modo definitivo, risorse economiche agli interventi di assistenza economica più tradizionali. Il limite è rappresentato dall’entità dei fondi che i Comuni, da soli, riescono a mettere in campo. Un
ruolo importante – per sviluppare e diffondere l’utilizzo della misura di contrasto della povertà rappresentato dai «prestiti d’onore» – potrebbe venire
svolto dalle fondazioni bancarie, con la messa a disposizione di «fondi di rotazione» o, quantomeno, di «fondi di garanzia» che tutelino i Comuni dai rischi di mancata restituzione dei prestiti.
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Scheda B – Primi dati sulla sperimentazione del Reddito Minimo
a Nichelino
Nei primi due anni di sperimentazione del R.M.I sono state presentate al
Comune di Nichelino (47.653 abitanti) 518 domande di cui 352 accolte (il
67,95%).
Al 31.12.2000 risultavano in carico 232 famiglie di cui 75 composte di adulti soli; 20 da coppie senza figli; 63 da coppie con figli; 5 da coppie con figli e membri aggregati; 60 risultavano famiglie monoparentali e 9 classificate come «altra struttura familiare». Il numero totale di persone beneficiarie risulta quantificato in 620 unità.
Delle 226 «persone di riferimento»70 censite, 73 sono maschi e 159 femmine.
Con riferimento all’età si rilevano 6 persone tra i 18 e 24 anni; 25 tra 25 e 34 anni; 105 tra 35 e 49 anni; 57 tra i 50 e 65 anni e 39 persone oltre 65 anni.
Il numero dei nuclei familiari presi in carico e successivamente usciti dalla misura di sostegno nei due anni di sperimentazione è di 120 di cui: 62 per superamento dei limiti di reddito previsti; 38 ai quali è stato revocato il contributo
per abbandono dei programmi di inserimento; 20 per altri motivi (di cui 19 rinunce).
Il RMI mira ad attivare risorse e quindi a sviluppare capacità di autonomia personale attraverso programmi di reinserimento. Gli inserimenti realizzati a questo scopo sono stati:
• 313 di tipo occupazionale di cui 21 inserimenti lavorativi con tutor;
• 27 di tipo formativo (di base e professionale);
• 214 di tipo scolastico (alfabetizzazione, recupero dell’obbligo ecc.);
• 104 di riabilitazione (percorsi per tossicodipendenti, disabili, alcolisti);
• 52 di cura e sostegno familiare (accudimento anziani, minori, sostegno delle
responsabilità genitoriali);
• 323 classificati come «altro» di cui: 52 per «sanatoria morosità», 16 reinserimenti di ex detenuti; 91 per «integrazioni del reddito».
A seguito dei programmi seguiti 91 persone hanno trovato occupazione (di cui
10 seguite nell’inserimento lavorativo da tutor); 37 hanno conseguito la licenza elementare/media; 37 hanno conseguito un diploma/attestato formativo di
base professionale.
Le risorse complessivamente erogate (come RMI) ad integrazione dei redditi
delle famiglie in carico durante la sperimentazione risultano così quantificate:
1999: L.1.529.702.600 – di cui 1.508.952.952 a carico dei fondi ministeriali e
L.20.749.648 a carico del Comune;
2000: L.1.985.316.300 – di cui 1.960.999.227 a carico dei fondi ministeriali e
L.24.317.073 a carico del Comune.
Nel biennio si sono spese, per l’erogazione dei contributi, complessivamente
L.3.515.018.900 alle quali vanno aggiunte L.454.384.800 per spese di personale
e varie.
Se si confrontano i dati di spesa relativi alla sperimentazione del RMI, con quelli degli interventi di normale assistenza economica svolti dai consorzi socio assistenziali, si percepisce chiaramente la portata espansiva della nuova misura di
sostegno del reddito. Il consorzio CISAP di Collegno e Grugliasco ((87.431 abitanti) ha assistito economicamente, nel 2000, 276 famiglie, per un totale di 528
persone, spendendo per erogazioni L. 650.343.200 corrispondenti a L. 2.356.315
medie annue per famiglia. Nel solo Comune di Nichelino (47.653 abitanti) si sono potute assistere nello stesso periodo – grazie alla sperimentazione – 232 famiglie, per complessive 620 persone, spendendo per i contributi
L.1.985.316.300, corrispondenti a L. 8.557.398 medie annue per famiglia.
52
segue
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Il raffronto rende bene l’idea della quantità di risorse che sarebbero complessivamente necessarie per garantire un sostegno economico – di poco più di
700 mila lire mensili medie per famiglia – a nuclei «privi di reddito ovvero con
un reddito che, tenuto conto di qualsiasi emolumento a qualunque titolo percepito e da chiunque erogato, non sia superiore alla soglia di povertà» stabilita
in L.500.000 mensili per una persona che vive sola «fatta eccezione per l’unità
immobiliare adibita ad abitazione principale se posseduta a titolo di proprietà,
il cui valore non può eccedere la soglia indicata dal comune».71
Assistenza e sviluppo delle reti sociali
La produzione legislativa degli ultimi anni ha messo in moto una serie di
importanti innovazioni: la centralità del comune e della comunità locale; il
cittadino al centro del sistema dei servizi; un ruolo crescente per le organizzazioni del terzo settore e di volontariato; l’affermarsi del principio della
sussidiarietà verticale dei servizi.72 Più in generale sono state poste le premesse per un passaggio dal welfare state alla welfare community secondo il
principio della stretta correlazione tra risorse e servizi.
Alla necessità di dare puntuale risposta a vecchi e nuovi bisogni si accompagna, infatti, la necessità di far sì che la comunità locale sia coinvolta appieno nel community care, che si attrezzi cioè a «prendersi cura» di se stessa.
Assume dunque importanza strategica la funzione di programmazione e
coordinamento delle reti locali di servizi ed opportunità che può svolgere il
«piano di zona» – previsto dall’articolo 19 della legge 328/200 – al quale sono chiamati a partecipare gli organismi non lucrativi di utilità sociale, della
cooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione sociale, gli enti
di patronato, le organizzazioni del volontariato, gli enti riconosciuti delle
confessioni religiose, le I.P.A.B e le fondazioni. Queste ultime, in particolare,
possono svolgere un ruolo strategico per lo sviluppo di «politiche mirate» a
livello delle comunità locali. Sarebbe in tal senso opportuno il pieno coinvolgimento delle fondazioni negli «accordi di programma», che regolano gli
impegni dei soggetti (istituzionali e non) chiamati a cooperare nel «piano di
zona». Ciò consentirebbe di impostare interventi strutturali – caratterizzati
da intenzionalità e continuità – finalizzati ad affrontare le problematiche
espresse dai settori della popolazione meno tutelati.
Non bisogna infatti dimenticare che – accanto ad attori con poteri decisionali riconosciuti – esistono delle «categorie» di cittadini che non sono in
grado di prendere decisioni, né di «rappresentarsi» autonomamente. Tra queste, quella dei bambini appartenenti a famiglie povere merita sicuramente
una particolare attenzione. La promozione di «progetti finalizzati» alla tutela
dei minori – ad esempio attraverso il sostegno alle madri sole o l’accompagnamento dei padri all’inserimento lavorativo – può esser efficacemente perseguita solo attraverso l’assunzione di responsabilità dirette nel governo della rete di interventi e servizi. È infatti importante evitare la frammentazione
delle iniziative, attraverso il finanziamento di progetti, anche importanti, che
nascono e muoiono senza riuscire a consolidare le reti sociali di risposta, a
causa della mancanza di coordinamento tra i soggetti attuatori.
Come opportunamente osserva Gabriele Righetto73 «Non tutte le que-
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stioni sociali e ambientali sono esplicitamente sollevate da persone coinvolte. Vi possono essere molti casi di socialità emarginata e depotenziata.
Un sistema socio – sanitario partecipato rivela un’autentica vitalità quando
non solo recepisce al proprio interno la dinamicità socio – ambientale esplicita ed espressa, ma si fa anche carico di individuare la socialità silente, afasica, impedita. E promuove forme organizzate perché si passi dall’emarginazione e afasia sociale alla partecipazione socio – ambientale».
Si tratta, in buona sostanza, di valorizzare le reti sociali esistenti sul territorio, non solo per colmare le carenze dei servizi, che vanno comunque attivati e potenziati, ma soprattutto per dare dignità, capacità e competenza
ai cittadini nella risoluzione dei problemi. In questo senso le famiglie rappresentano uno dei nodi fondamentali delle reti sociali primarie, da coinvolgere e valorizzare, alle quali riconoscere capacità e competenze, anche
quando sono le famiglie stesse a rappresentare «un problema».
Non serve a nulla vivere le famiglie in carico ai servizi come «controparte». Vanno ricercate e costruite alleanze educative che consentano di far interagire le agenzie presenti sul territorio con le reti sociali primarie. Si devono offrire opportunità di formazione per gli adulti ed occasioni che permettano alle famiglie di crescere culturalmente, acquisire competenze rispetto
ai propri compiti educativi, esercitare un ruolo attivo sul territorio. Nella famiglia sono soprattutto le donne che si assumono l’onere della rete informale degli aiuti, e si trovano in molti casi a dover badare da sole ai figli in assenza di un partner maschile.
L’area problematica alla quale appartengono queste donne è la fascia femminile che, per un insieme di condizioni (basso reddito, bassa scolarità, carico familiare, mancanza di reti di sostegno, scarsa mobilità territoriale), non è
in grado di utilizzare i normali percorsi di inclusione sociale e lavorativa. La
costituzione di gruppi di auto e mutuo aiuto tra le donne che vivono nelle micro aree territoriali all’interno delle quali si generano disagio ed emarginazione, può rappresentare un punto di partenza per reimpostare i rapporti tra le
famiglie e gli operatori sociali. Più in generale si tratta di delineare e realizzare azioni di sviluppo locale in stretta partnership tra le istituzioni pubbliche
ed i soggetti che operano nel campo dell’economia sociale. In tale contesto, le
politiche di mainstreaming di genere possono trovare un ambiente maggiormente favorevole a proporre interventi a favore delle donne, nei settori della
formazione, del lavoro, dei servizi di sostegno e di supporto; per promuovere
condizioni di uguaglianza di opportunità tra uomini e donne e favorire processi di inclusione sociale.74 Per sviluppare iniziative e pratiche tese all’empowerment delle donne, ed al cambiamento delle loro condizioni materiali di
vita al di fuori dei tradizionali percorsi assistenziali – che producono cronicizzazione del bisogno, più che sostegno all’autonomia – è necessario prestare la
dovuta attenzione all’analisi – da effettuare con il coinvolgimento diretto e la
partecipazione attiva delle donne destinatarie degli interventi – della loro situazione di difficoltà e dei processi di povertà in cui sono coinvolte.
«La letteratura sullo sviluppo di comunità ci ha ormai insegnato che se
si dedica sufficiente tempo ed ascolto a capire il problema, la soluzione nasce dal rapporto che si è stabilito per capire quel problema»75. Le soluzioni
non vengono dunque soltanto dalla capacità di chi analizza il problema, ma
soprattutto dal processo che si è costruito per risolverlo.
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Note
1. Assessorato alle politiche sociali del Comune di Modena: «Analisi e riflessioni sui
processi di disagio, povertà e esclusione sociale presenti a Modena» – Quaderno
dell’Osservatorio sul disagio e le risorse sociali. Citato in «Prospettive Assistenziali»
n.134 aprile giugno 2001.
2. N. Negri C. Saraceno, Le politiche contro la povertà in Italia, Il Mulino, Bologna
1996, p.11.
3. ISTAT Rapporto annuale – La situazione del paese nel 1999; ISTAT Rapporto annuale – La situazione del paese nel 2000.
4. Povertà relativa: viene definita povera una famiglia di due componenti con una spesa mensile per consumi inferiore o uguale a quella media di una persona nel Paese.
Per famiglie di diversa ampiezza si utilizza una «scala di equivalenza». Nel 1999 la
linea di povertà risultava pari a 1 milione 492 mila lire mensili. Nel 2000 la linea
standard di povertà risulta fissata in 1 milione 569 mila lire mensili. Se una famiglia
di due persone spende mensilmente un importo pari o inferiore a questa cifra viene
considerata relativamente povera. Povertà assoluta: determinata in base ad un paniere che comprende una componente alimentare, una per l’abitazione ed una per soddisfare le altre necessità. Nel 1999 la linea di povertà assoluta risultava determinata
in 1 milione 29 mila lire per una famiglia di due componenti. Nel 2000 la linea di
povertà assoluta valeva 1 milione 55 mila lire.
5. E le famiglie numerose da 7,3% a 11,3 %.
6. Nel Sud risiede il 63% di tutte le famiglie relativamente povere ed il 70,7% delle famiglie in condizioni di povertà assoluta. L’indigenza si concentra in particolare fra i
nuclei numerosi e nelle famiglie con componenti anziani.
7. Su 100 famiglie povere con a capo una donna prevalgono le condizioni di «anziane
sole» e «madri sole».
8. In particolare le famiglie con 5 e più componenti, specie nel Nord e nel Centro.
9. Quaderni del centro di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza n. 18
Firenze Istituto degli Innocenti, gennaio 2001, p. 210.
10. Legge 28 agosto 1997, n. 285 Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza.
11. ISTAT – La povertà in Italia nel 1999 – FORUM Rivista di cultura e amministrazione
delle politiche sociali. N 12, Dicembre 2000, Anno VI, p. 2.
12. Con percentuali di incidenza del 12% nel 1997; dell’11,8% nel 1998; dell’11,9% nel
1999.
13. N. Negri, C. Saraceno, Le politiche contro la povertà in Italia, p. 255.
14. N. Negri, C. Saraceno, Le politiche contro la povertà in Italia, p. 257.
15. «Solidarietà Sociale: nel laboratorio del nuovo Welfare» – Presidenza del Consiglio
dei Ministri Dipartimento per gli Affari Sociali, p. 28.
16. L’assegno al nucleo familiare per le famiglie numerose e monoparentali è stato rideterminato con lo stanziamento, per il triennio 1996 – 1998, di 1.800 miliardi. Le detrazioni per figli a carico erano uguali a 188.874 lire per quota singola e sono state
portate a 366 mila lire per quota singola. «Solidarietà Sociale: nel laboratorio del
nuovo Welfare» – Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per gli Affari
Sociali, p. 28.
17. Yuri Kazepov: «Povertà e assistenza economica: la tutela istituzionale dei rischi a livello locale in Italia» in «Assistenza sociale ed enti locali» – Archivio storico della
Città di Torino, p. 246.
18. Yuri Kazepov: «Povertà e assistenza economica: la tutela istituzionale dei rischi a livello locale in Italia» in «Assistenza sociale ed enti locali» – Archivio storico della
Città di Torino, p. 247.
19. Articolo 38 della Costituzione.
20. Legge 8 novembre 2000, n. 328 «Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali».
21. Con la modifica del titolo V° della Costituzione si è stabilito (art.117) che, allo Stato,
compete la «determinazione dei livelli essenziali concernenti i diritti civili e sociali
che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». La riforma «federalista» si
innesta però in una fase di oggettiva debolezza della capacità di indirizzo del parlamento rispetto al potere acquisito dalle regioni. Può dunque accadere che il parlamento venga a trovarsi in una condizione di assoluta debolezza nella determinazio-
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ne dei principi e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
L’ISTAT ha rilevato la presenza dei 30 principali servizi socio-assistenziali nei comuni di 20.000 abitanti e più. Anno 1997 (per 100 comuni della stessa ampiezza demografica) – ISTAT «Rapporto annuale – La situazione del paese nel 1999», p.472
A proposito degli asili nido, l’ISTAT rileva che la percentuale di bambini che li frequentano è tra le più basse d’Europa: solo il 6% dei bambini tra zero e due anni.
Legge 23 dicembre 1998, n. 448 «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato». Con il successivo Decreto ministeriale 15 luglio
1999, n. 306 «Regolamento recante disposizioni per gli assegni per il nucleo familiare e di maternità, a norma degli articoli 65 e 66 della legge 23 dicembre 1998, n.
448, come modificati dalla legge 17 maggio 1999, n. 144» si è avviata la concessione da parte dei comuni di assegni, che rientrano nelle categorie delle provvidenze
economiche di tipo assistenziale: dove il primo è una misura di contrasto della povertà volta ad aiutare le famiglie numerose nelle quali vi siano tre figli minorenni (200
mila lire per 13 mensilità per redditi sino a 36 milioni per nuclei con 5 componenti)
e l’altro è una misura di integrazione del reddito, volta ad aiutare le madri che non
hanno copertura previdenziale per affrontare l’evento della nascita (1.500.000 lire
per redditi sino a 50 milioni per nuclei di tre componenti).
Decreto Legislativo 18 giugno 1998, n. 237 «Disciplina dell’introduzione in via sperimentale, in talune aree, dell’istituto del reddito minimo di inserimento, a norma dell’articolo 59, commi 47 e 48, della legge 27 dicembre 1997, n. 449». Il R.M.I è una
misura assistenziale rivolta a chi si trova in condizioni di povertà e cioè ha un reddito inferiore alle 500 mila lire mensili in caso di persona sola, o reddito equivalente
in caso di famiglie di due persone o più. Nella fase sperimentale, è rivolto a coloro
che sono esclusi dalle misure di sostegno al reddito previste a livello nazionale: per
anziani poveri (che fruiscono di pensione sociale) e disabili poveri (che fruiscono di
indennità civile), salvo che essi non vivano in una famiglia che, nonostante la presenza di queste misure, ha complessivamente un reddito inferiore a quello previsto
dal D.Lgs.237/98. Di fatto il R.M.I si rivolge ad adulti in età da lavoro, senza handicap psicofisici gravi, e alle loro famiglie, in particolare ai loro figli minori.
Quaderni del centro di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza n. 18,
Firenze, Istituto degli Innocenti, gennaio 2001, p. 213.
Regione Piemonte «I Numeri dell’assistenza in Piemonte – i servizi sociali territoriali». I dati sono riferiti a 54 soggetti gestori su 61.
Legge Regionale 13 aprile 1995, n. 62 «Norme per l’esercizio delle funzioni socioassistenziali». In Piemonte l’attività socio-assistenziale di sostegno al nucleo familiare o finalizzata alla sostituzione, anche temporanea, dello stesso viene organizzata
nelle seguenti prestazioni: assistenza alle persone disabili; affidamenti presso famiglie, persone singole o comunità di tipo familiare; interventi per minori nell’ambito
dei rapporti con l’autorità giudiziaria; inserimenti in centri diurni ed in presidi socioassistenziali.
Di cui 439 per competenze assistenziali della Provincia di Torino.
Vengono utilizzati i dati – riferiti all’anno 1998 – relativi agli interventi rivolti a minori residenti nei territori dei 21 soggetti gestori (esclusa Torino Città) che operano in
convenzione con la Provincia di Torino per la gestione delle funzioni assistenziali di
competenza provinciale (assistenza ai minori figli di ignoti, abbandonati o esposti all’abbandono; assistenza integrativa di quella esercitata dai comuni rivolta ai minori
illegittimi in situazione di abbandono morale o materiale o di povertà; gestanti e madri in situazione di povertà o di grave maltrattamento).
Nicoletta Bosco: «Il caso Torino: percorsi nell’assistenza e carriere degli assistiti» in
«Assistenza sociale ed enti locali» – Archivio storico della Città di Torino, p. 259.
Nicoletta Bosco: «Il caso Torino: percorsi nell’assistenza e carriere degli assistiti» in
«Assistenza sociale ed enti locali» – Archivio storico della Città di Torino, p. 260.
Nella parte seguente si sono utilizzate le «Relazioni di consuntivo anno 2000» di alcuni dei principali Enti socio – assistenziali che gestiscono i servizi nell’area della
provincia di Torino.
C.I.S.A.P – «Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese sostenute – anno 2000», giugno 2001.
Nel presente testo si parla perlopiù di minori, termine con il quale i servizi sociali codificano la fascia di popolazione assistita compresa tra O e 17 anni. È evidente che
non c’è perfetta sovrapposizione fra «minori» e «bambini», e che sarebbe interessan-
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te disaggregare i dati. Purtroppo solo il CISAP fornisce una suddivisione delle fasce
d’età che consente di quantificare i bambini in carico. La sensazione è comunque
che le percentuali rilevate dal consorzio di Grugliasco e Collegno valgano anche per
il complesso dei servizi attivi nell’area della provincia di Torino.
C.I.DI.S, «Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sui costi sostenuti, anno 2000», maggio 2001.
C.I.S, «Relazione di consuntivo anno 2000», giugno 2001.
Dato regionale 1998.
C.I.S, «Relazione di consuntivo anno 2000», giugno 2001, p. 19.
C.I.S.S.P, «Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sui costi sostenuti, anno 2000».
C.I.S.S.P, «Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sui costi sostenuti, anno 2000», p. 23.
C.I.S.A 12, «Relazione consuntivo anno 2000».
È significativo che le esenzioni per reddito praticate dal Servizio Sanitario presuppongano la condizione di lavoratore o quantomeno di ex lavoratore. Sono infatti
esentati i minori in età 0 – 6 anni e gli anziani ultra 65 anni appartenenti a famiglie
con reddito lordo non superiore a L.70 milioni; gli adulti di età compresa tra 60 e 65
anni al minimo contributivo pensionistico; i disoccupati – iscritti al collocamento in
attesa di seconda occupazione per aver perso un precedente lavoro dipendente – con
reddito lordo familiare di L. 16 milioni (22 milioni per due componenti e 1 milione
in più per ogni ulteriore persona a carico). Sono inoltre esentati i lavoratori per infortunio INAIL. L’esenzione «per indigenza» a coloro che non sono compresi nella casistica prevista viene lasciata ai comuni che, con propri fondi, rimborsano alle ASL le
spese sostenute dai propri cittadini in condizioni di disagio economico.
C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese
sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 29.
C.I.S, Relazione di consuntivo, anno 2000, giugno 2001, p. 18.
C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese
sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 28.
C.I.S, Relazione di consuntivo anno 2000, giugno 2001, p. 18.
C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese
sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 29.
C.I.S, Relazione di consuntivo anno 2000, giugno 2001, p. 18.
C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese
sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 30.
C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese
sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 30.
C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese
sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 31.
Il rischio familiare e la tutela del bambino, a cura di Ernesto Caffo – Guerini e associati pp. 276, 277.
C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese
sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 32.
C.I.S.A.P, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sulle spese
sostenute, anno 2000, giugno 2001, p. 32.
Nella relazione di consuntivo del C.I.S si registra, come dato positivo rilevato nel
2000: «un maggiore afflusso spontaneo di genitori con richieste di sostegno nei rapporti interpersonali e di consulenza». C.I.S, «Relazione di consuntivo anno 2000»
giugno 2001, p. 19.
C.I.DI.S, Relazione illustrativa sull’attività svolta, sui risultati conseguiti, sui costi sostenuti, anno 2000, maggio 2001» p. 36.
C.I.S.A.P, Progetto punto in comune, reperibile sul sito www.cisap.to.it in Progetti
sperimentali.
«Il ricorso a contributi straordinari è stato determinato dalle difficoltà che molte famiglie, anche in presenza di un reddito, hanno lamentato nell’affrontare le spese connesse all’abitazione (affitto e riscaldamento) oltre che per utenze varie. Situazioni debitorie, anche considerevoli, sono state presenti nel 50% almeno dei nuclei assistiti.»
C.I.S. Relazione di consuntivo 2000, giugno 2000, p. 28.
Alle molte persone in difficoltà economica – ma che non rientrano nei criteri d’accesso alle prestazioni economiche deliberati a livello locale, – si risponde, in gene-
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re, segnalando il caso ad associazioni caritative e agli enti competenti a concedere
esenzioni, agevolazioni o contributi.
Legge 9 dicembre 1998, n. 431 «Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo».
Legge 23 dicembre 1998, n. 449 «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato».
Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 109 «Definizione di criteri unificati di valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate a norma dell’articolo 59, comma 51, della legge 27 dicembre 1997, n. 449»
Quota anno 1999. Gli importi degli assegni e dei requisiti economici di cui agli articoli 65 e 66 della legge sono rivalutati annualmente sulla base dell’indice ISTAT dei
prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati.
C.I.S. «Relazione di consuntivo 2000», giugno 2000, p. 26.
D. Lgs. n. 237/98 «Disciplina dell’introduzione in via sperimentale, in talune aree,
dell’istituto del reddito minimo di inserimento, a norma dell’articolo 59, commi 47 e
48, della legge 27 dicembre 1997, n. 449».
In Piemonte è stato individuata come area di sperimentazione il Comune di Nichelino.
La spesa assistenziale delle Regioni e delle Province autonome è stata quantificata,
nel 2000, in 184 mila lire medie pro – capite per abitante: si va dalle 977 mila lire
della Valle d’Aosta alle 18 mila della Puglia. Il Piemonte è attestato a 52 mila lire pro
– capite per abitante. Fonte: Elaborazione Osservatorio Spi – Cgil su dati Istituto studi sulle regioni.
Robert Solow, citato in Workfare – Ricetta Usa, sostituire il sussidio di assistenza con
il lavoro salariato di Luigi Cavallaro, Il Manifesto, 1 luglio 2001, p. 12.
Con «persona di riferimento» si intende il percettore/intestatario dell’assegno relativo
al nucleo di appartenenza.
D.Lgs. n. 237/1998 articolo 6 «Accesso al reddito minimo di inserimento».
La dottrina della sussidiarietà è fondata sul principio: «che le autorità pubbliche devono essere coinvolte nella fornitura di servizio solo quando siano completamente
esaurite le capacità e le risorse che permettono alla famiglia, alla comunità e alle organizzazioni primarie di assistere i propri membri. L’ideale di questa dottrina consiste in un welfare ad organizzazione privata ma a finanziamento pubblico. La sussidiarietà attribuisce maggiore importanza agli obblighi ed ai doveri della persona che
non ai diritti del cittadino» (Annueli Anttonen e Jorma Spilia: I modelli di servizi sociali in Europa, in I servizi sociali in Europa, a cura di C.Gori, Carocci editore in
Roma 2001, p. 30).
Gabriele Righetto: Per un approccio ecosistemico al welfare, in «Studi Zancan –
Politiche e servizi alle persone», Gennaio/Febbraio N°1, 2001, p. 100.
Inchieste & Richieste – Ricerca azione sui nuovi bisogni della popolazione femminile, Progetto di ricerca elaborato da Cisap, Comune di Collegno, Comune di
Grugliasco, Commissione pari opportunità della Provincia di Torino, Arcst Lega
Coop, Arci Valle Susa, Coop. Sociale Atypica.
Eleonora Artesio, Collegno Underground – Atti del convegno sui progetti giovani del
9.03.2001, p. 16.
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L’ESPERIENZA DELLA MALATTIA
3.1 Non c’è fatalità
Nella letteratura medica contemporanea è scomparso il termine fatalità,
che fino a 50 anni fa tendeva a giustificare sofferenze incurabili con conseguenti morti. Un secolo, appena trascorso, centrato sulla ricerca e sperimentazione, sul pensiero positivo, ha sottratto alla natura molti dei suoi segreti, facendo emergere l’effetto terapeutico rafforzato dall’uso della tecnologia appropriata. Di conseguenza la qualità e la durata della vita sono di
molto cresciute. Ricorda l’Organizzazione Mondiale della Sanità che «la salute non è solo assenza di malattia, ma uno stato di completo benessere fisico, sociale e mentale». Purtroppo sovente l’approccio al problema è parziale e ciò cancella la necessaria relazione tra le funzioni, la sinergia che l’organicità produce, con effetti curativi o devastanti a seconda della qualità e
dello stile dell’intervento.
La risoluzione del problema diviene più complessa quando ad essere
malato è un bambino. Sono trascorsi più di cinquant’anni da quando il pediatra inglese James Robertson, con il suo libro «Bambini in ospedale», richiamava l’attenzione dell’opinione pubblica sui disturbi comportamentali, nei bambini, indotti dalla degenza in ospedale. Nei passati anni Cinquanta il ricovero causava la separazione dai genitori e l’allontanamento dal
territorio domestico. L’indagine e le considerazioni suscitarono vivo interesse in tutta Europa, e furono seguite da ulteriori studi volti a cogliere il disagio vissuto dal bambino malato e la disperazione negli atti del bambino, interpretati precedentemente dai medici come una manifestazione di serenità. L’apatia del bambino era in realtà una forma di estrema protesta contro la violenza subita ed incompresa dall’istituzione ospedaliera. La dimensione dell’ascolto, e non solo nell’intervento medico, richiedeva, e richiede,
il recupero del significato etimologico dell’aver cura invece del semplice curare e, nell’accezione sociale della salute, aver chiaro cosa dovesse intendersi parlando di medicina per la comunità.
Dal momento in cui Robertson pubblicò il suo libro, trascorrono molti
anni senza che i paesi europei abbiano prodotto leggi e riforme strutturali
conformi a quanto indicato dal pediatra inglese. Nel 1986 il Parlamento europeo redige la Carta europea dei bambini ricoverati in ospedale, e l’anno
successivo viene organizzato a Leida, in Olanda, a cura di associazioni di volontariato, il primo convegno su tale argomento con l’obiettivo di definire i
settori d’intervento che prioritariamente potessero creare benessere al
bambino. La «Carta di Leida» indica i settori nei quali operare interventi utili a prevenire e ridurre il trauma e afferma che elementi importanti sono la
presenza dei genitori, la preparazione al ricovero, il gioco, anche in ospedale,
l’ambiente.
Da allora molto è stato realizzato affinchè la malattia non venga vissuta
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solo come un trauma, ma anche come occasione di apprendimento e maturazione. La Regione Piemonte anticipò le richieste della Carta di Leida, e
nel 1980 con la Legge n. 18 dettò norme per la tutela psico-affettiva dei bambini ospedalizzati. In particolare, riconobbe ai genitori il diritto a poter «assistere» con continuità, e non più solo nel corso delle visite, il figlio degente,
soprattutto se di età inferiore a sei anni. La circolare inviata all’epoca ai presidi pediatrici richiamò l’importanza di concorrere al mantenimento dell’equilibrio e del benessere psico – fisico del bambino, garantendo, sia nelle
modalità organizzative di degenza, sia nell’attuazione degli interventi diagnostico – terapeutici, il rispetto del bambino nella sue esigenze affettive,
cognitive ed espressive. Raccomandò che i medici favorissero la presenza
dei genitori dei piccoli degenti e realizzassero una informazione corretta,
fruibile e non burocratica. A seguito di tali raccomandazioni ai genitori fu
consentita la presenza continuativa nei reparti, esclusi quelli in cui era presente il rischio di contagio.
La Regione Piemonte raccomandò ai presidi ospedalieri che si procedesse a riforme strutturali onde rendere operativa la presenza e la collaborazione dei genitori nelle cure rivolte ai figli. Non vennero affrontati temi
quali la formazione e la sensibilizzazione del personale ospedaliero, medico
e non, alle problematiche psicologiche del degente e della famiglia.
I medici, in assenza di una formazione di base al colloquio ed alla comunicazione, si trovano disorientati per la presenza in ospedale dei «non
addetti ai lavori», portatori di ansie e di richieste. Vivono in sostanza una
sorta di conflitto interiore, tra l’adesione razionale al principio della terapia
partecipata e l’abitudine inveterata ad operare in completa autonomia e responsabilità. Una assistenza al bambino di tipo nuovo deve sempre più tener conto del valore della comunicazione, che, nel caso specifico, non può
essere asettica ma coinvolgente.
I ventidue anni trascorsi dall’emanazione della legge regionale permettono un consuntivo e rinforzano la convinzione che è possibile ed auspicabile, in molti casi, un approccio non traumatico all’evento patologico quando coinvolge bambini. Tra la fatalità, di cui parlavamo all’inizio, e la presunzione di onnipotenza, deve e può esistere una terza modalità d’incontro,
una sorta di «riduzione del danno».
Il ricorso alle cure ospedaliere
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L’insorgere della malattia nel bambino produce disagio nell’intera famiglia, che oltre alla generale preoccupazione, deve affrontare problemi d’ordine pratico che determinano stati di ansia e difficoltà operative. Il primo
intervento consiste nel «chiamare il medico»; ma non sempre ciò è possibile perché non è più il momento per effettuare la visita domiciliare, o è passata l’ora, o è sabato o domenica o l’ambulatorio è chiuso… Telefonare ad
un pediatra privato è un’alternativa possibile, soltanto se si dispone dei
mezzi economici per far fronte alla parcella, sovente onerosa.
La soluzione più semplice ed accessibile è far ricorso alla cure dell’ospedale. Si avvolge il piccolo in una coperta e via verso il Pronto Soccorso. Ma
nessuna soluzione è facile e per comprendere meglio la complessità del fe-
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nomeno, esorcizzata, a volte, da semplificazione istituzionale, si cercherà di
tracciare un percorso: una sorta di Via dolorosa, con le sue stazioni rituali, e
irradiazioni microsociali.
L’ospedale è una realtà con un nome ed un indirizzo, ed ha una funzione definita. Nell’immaginario dei pazienti e di coloro che ad esso fanno ricorso, vi è la certezza che la domanda di cura verrà accolta in qualsiasi momento essa sia posta, e che l’intervento diagnostico e terapeutico sarà rapido ed efficace.
Le fantasie di fiducia elaborate nei genitori che conducono il bambino in
ospedale producono sollievo e riducono l’ansia presente nell’ambito familiare, la quale proietta sensi di colpa, e impotenza, a fronte di un avvenimento che coglie tutti di sorpresa, ed intacca il bisogno di tranquillità e di
sviluppo senza ostacoli. Persino il bambino, al centro di queste scariche incontrollate, può provare sensi di colpa, trasformando, così, il dolore in male, realtà estranea che occupa un corpo non suo.
Da indagini recenti emerge che solo il 12% dei bambini dopo la visita medica al Pronto Soccorso viene ricoverato. La domanda che ci poniamo è perché l’88% di bambini viene condotto in ospedale, senza che oggettivamente
emerga un reale bisogno. Varie possono essere le risposte. La scarsa educazione alla salute, intesa come benessere complessivo e non solo come assenza di malattia, induce i cittadini ad una dipendenza quasi «magica» dall’istituzione, che ha i mezzi per ristabilire la salute; la perdita di un approccio al
dolore di tipo olistico, caratteristico delle generazioni contadine passate, che,
al di là dell’efficacia oggettiva, conteneva la sofferenza con il gesto e con il dire, si traduce in un orfanaggio, nel bisogno di una nuova «tata» rassicurante,
l’ospedale; l’incapacità di modulare il dolore e di darne un senso, per cui si
intende la cura come «negoziazione» della sofferenza (che si trasforma in
male) spinge ad una rapida soluzione, ad un «soccorso pronto».
Secondo questa lettura, il pagamento del ticket, per le prestazioni di
pronto soccorso erogate senza che ce ne sia urgenza, pur previsto nella recente legge dello Stato, non modificherà il comportamento dei genitori.
Giunti in ospedale, i genitori ed il bambino hanno l’impressione che il
tempo si fermi, inoltre si è immessi in un’atmosfera generalmente morbosa
ed il disagio aumenta. Il sistema triage, attivo quasi ovunque, ha migliorato
la qualità dell’attesa, in quanto il bambino è visitato per ordine di gravità e
non di arrivo, ma poco si concilia con le aspettative dei genitori. L’ansia impedisce l’insorgere di atteggiamenti solidali, per cui i pazienti si guardano, si
osservano, senza riuscire a condividere nulla. L’accoglienza è lenta e carente e non vede quasi mai gli operatori sanitari in un ruolo attivo. I genitori
presenti, risorsa potenzialmente preziosa, finiscono col trasformarsi in amplificatori di sentimenti negativi, che coinvolgono, volente o nolente, anche
il bambino.
L’ingresso del bambino in reparto è il momento in cui ha inizio l’esperienza più difficile, sia per il bambino che per la sua famiglia. Un luogo che
non si conosce ingoia il malato e gli fa sperimentare una sorta di spaesamento. Al dolore fisico si aggiungono la perdita delle abituali coordinate
spazio-temporali, l’impossibilità d’essere attivo in un ambiente conosciuto,
la presenza di figure sconosciute, a volte vissute come minacciose, la modificazione dei ritmi di sonno e veglia, che devono adattarsi ai ritmi ed alle esi-
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genze dell’istituzione (prelievi, misurazione della temperatura, visite dei
medici…).
Il fenomeno dello sradicamento, dello spaesamento, è ben noto a tutti
coloro che hanno a che fare con l’infanzia (e non solo). Psicologi, sociologi
ed educatori ne hanno esaminato le manifestazioni patologiche ed hanno
proposto interventi. Non essere a proprio agio in un ambiente dato, significa sentirsi «straniero sulla Terra», in balìa degli eventi più diversi, quasi sempre negativi. Il bambino, se ne ha la capacità reagisce, cercando di ricostruirsi un angolo di intimità e continuità con il mondo domestico. Non rara è la richiesta del degente di portare con sé un oggetto, che costituisca una
sorta di legame con la casa-nido e con il mondo affettivo traumatizzato.
La risposta varia a seconda delle diverse età del bambino. Nella primissima infanzia, il disagio causato dalla sofferenza fisica è acuito dalla presenza di figure estranee al suo mondo abituale, che riusciva a decodificare
e a controllare. Fantasie di aggressione e di lesione possono essere alimentate dal dolore e dalla paura. Intorno ai tre anni, il bambino ha una maggiore consapevolezza del proprio corpo, ed è più preoccupato dalla perdita
della integrità fisica. L’incapacità, connessa alla malattia, d’essere sempre
all’altezza della situazione gli fa introiettare il senso del limite, vissuto, sovente, come abbassamento del livello di autostima. Crescendo, accade che
ricordi meglio e con più intensità le esperienze spiacevoli, specialmente
nei casi di cronicità. La causa della malattia gli resta sconosciuta e le cure
mediche inspiegabili. Può colpevolizzarsi, sentendosi responsabile della
condizione morbosa.
Nella fase dello sviluppo, che da noi coincide con la scolarizzazione, e
quindi con il confronto tra pari, può avvenire che il bambino malato si misuri con il coetaneo sano. Se la malattia è stata transitoria, e occasione per
ricevere tenerezze supplementari e doni dagli adulti, verrà esibita come trofeo; se, invece, è cronica, lo metterà in condizione di verificare e confermare la propria diversità.
Il vissuto dei genitori
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Ai genitori, con la malattia del figlio, toccano risposte nuove rispetto a
quelle abituali. È il momento in cui il pensiero subisce un’accellerazione: ci
si interroga sulla scelta del medico e dell’ospedale, sul perché non ci si era
accorti prima del malessere del bambino, sentendosi per questo in colpa. Ci
si interroga sulla scelta del medico e dell’ospedale. Ci si domanda se non
fosse possibile prevenire, o prevedere, l’evento o se, per caso, non siano stati proprio loro, genitori, a determinarlo. Quesiti senza soluzioni soddisfacenti, che si aggiungono ad altre difficoltà d’ordine organizzativo, complicano l’esistenza e creano una sorta di nebbia attorno al gruppo.
La malattia del bambino produce un effetto analogo a quello d’una pietra gettata in uno stagno. La quiete dell’acqua si frantuma, e intorno alla pietra si formano cerchi concentrici, che aumentano in rapporto al volume dell’oggetto caduto. Ambiti diversi vengono sconvolti dalla malattia, e la reazione del nucleo familiare dipende dal reddito, dalla cultura, dal numero dei
componenti, dalla provenienza geografica della famiglia.
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I primi interventi riguardano l’organizzazione della quotidianità. Occorre consentire ad almeno uno dei genitori, di solito la madre, di accudire
il figlio e di assisterlo per la durata della degenza se ospedalizzato. Non
sempre ciò è facile, perché il lavoro e eventualmente gli altri figli presentano difficoltà. L’esigenza assistenziale, unita alle apprensioni per la malattia,
assumono proporzioni così ampie da ridurre la capacità dei genitori di rassicurare e intrattenere il figlio. Nel corso della degenza, finiscono col diventare l’ombra degli adulti che solitamente sono, a discapito della relazione
con il bimbo e con il personale medico. Si manifestano comportamenti reattivi all’ambiente: le lamentele proliferano e, se non prese in considerazione,
diventano una insormontabile barriera, suscitata anche dall’incomprensione delle procedure dell’ospedale e delle prescrizioni terapeutiche.
Se, nonostante le difficoltà, la degenza è stata lunga, l’annuncio delle dimissioni produce uno stato di ansia da insicurezza. Per il bambino si approssima una nuova separazione e la faticosa ma fruttuosa compensazione
operata nel reparto di degenza (nuovi amici piccoli e grandi, nuovi giochi,
nuovi oggetti entrati a far parte del suo mondo intimo) si dilegua. Il ricordo
e il desiderio della casa sono forti ma lontani, l’esperienza ospedaliera nasce dalla sofferenza ma è prossima. Sia l’entrata che l’uscita dall’ospedale richiedono un sostegno adeguato. Il passaggio repentino da un mondo all’altro produce una sensazione di «vertigine».
Quando il bambino viene dimesso dall’ospedale, il responsabile delle
sue cure scrive una «lettera di dimissione» nella quale descrive le cure praticate, i risultati ottenuti e le terapie che eventualmente si dovranno seguire.
Se tale «lettera» è spiegata ai genitori, da essi compresa, diviene una sorta di
salvacondotto, di rassicurazione, quasi dicesse «la società ti vuole bene e
non ti abbandona, l’ospedale rappresenta il suo intervento benefico; ora sarai affidato ad altre persone valide che di te avranno cura».
Se la malattia è cronica
La condizione di malattia cronica richiede un approfondimento specifico, in quanto non solo è caratterizzata da una durata che va ben oltre l’intervento episodico, ma produce cambiamenti strutturali nella realtà complessiva della vita del bambino e dei suoi genitori.
La prima cosa che si modifica è la percezione del tempo che scorre: cambiano i sentimenti di appartenenza, il rapporto con il desiderio, la voglia di
progettualità. Per conto suo, il bambino colpito da malattia cronica vede
mutare intorno a sé la rete familiare da cui si sentiva sostenuto nella sua crescita. I suoi genitori, dopo lo stress causato dalla diagnosi, devono cambiare gli stili di vita e ciò influisce sui rapporti interni alla famiglia. Devono accompagnare il bambino nel percorso di cura, e le difficoltà che si presentano sono tante. Gli obblighi sociali aumentano, si trasformano in rigidità; i
diritti sembrano scemare progressivamente. Incertezze e dubbi sulle cose
da fare contribuiscono al disorientamento ed al senso di inadeguatezza. Più
la malattia è grave, più i genitori vivono in isolamento, che viene accentuato al rientro dall’ospedale.
I parenti e gli amici sembrano non saper più trovare il consueto linguag-
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gio affettivo. Occorre misurarsi con la nuova organizzazione familiare, ove la
coppia fa fatica a riconoscersi, poiché la necessaria ridistribuzione dei ruoli determina sentimenti di estraneità, già sollecitati da sensi di colpa più o
meno consci; le attenzioni terapeutiche, che in ospedale sembravano così
semplici da soddisfare, diventano gravose («ho imparato, ma ora ho paura
di fare»). Muta il rapporto con l’ospedale, in assenza di un sostegno domiciliare: il legame con la struttura assume significati diversi, che inducono dipendenza, oppure isolamento e senso di abbandono.
Contemporaneamente vi sono genitori che ritengono, pur non avendo
competenza, di accostarsi a scelte terapeutiche alternative. Sembra loro che
ogni decisione relativa alla salute dei bambini sia legittima e, dopo aver raccolto informazioni da fonti diversificate, iniziano il «consumismo sanitario». I «viaggi della speranza» hanno costi emozionali ed economici elevati
e, se la famiglia non ha strumenti culturali od economici adeguati, viene ad
accentuarsi lo stato di disorientamento iniziale.
Dalla focalizzazione della famiglia sul bambino malato emerge il rischio
della desertificazione dei rapporti. Anche il dialogo della coppia diviene monotematico, e si indebolisce il rapporto di intimità che teneva uniti. Il bambino malato rischia di finire al centro di una ragnatela di rapporti, dove è debole il principio di reciprocità, sovrastato dalla condizione dell’obbligo che i genitori stanno vivendo: acquisire un nuovo linguaggio, per poter usufruire del
vocabolario richiesto dal percorso di cura; svolgere funzioni tipicamente infermieristiche; rassicurare il bambino; accogliere gli eventuali altri figli, che
sembrano non capire o capire troppo; rispondere alle richieste del datore di
lavoro, che non può dare il denaro a chi non c’è; trovare le risorse economiche
che sembrano non bastare mai, sebbene rese necessarie da una giusta causa.
A completare il quadro, c’è un infelice incontro con la burocrazia delle
istituzioni che, a fronte di necessità di medicamenti, ausili o altro, sembra
non essere in grado di rispondere in modo soddisfacente.
3.2 ASO e ASL: la rete dei servizi sanitari
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Nell’arco di pochi anni i cambiamenti in atto nel Servizio Sanitario
Nazionale hanno costretto gli utenti ad appropriarsi di termini nuovi: SAUB,
USL, ASL ed ASO. Nel linguaggio più comune molti continuano a parlare
tuttavia di «Mutua», termine che è rimasto nella memoria, a indicare un servizio di scarsa qualità. Dal canto suo l’ospedale, nell’immaginario collettivo,
continua ad essere visto come una struttura forte, protettiva, alla quale, in
caso di bisogno, si può senza attese fare ricorso.
La rete ospedaliera non è una realtà sé stante, ma integrata nell’insieme
dei servizi. In sede locale, il Distretto Sanitario si pone come interprete dei
bisogni della popolazione e come mediatore fra i diversi attori coinvolti nell’erogazione, evitando frammentazioni, duplicazioni, separatezze nell’erogazione delle cure.
Gli obiettivi complessivi sono la definizione di un ventaglio flessibile di
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diverse soluzioni fra cui scegliere, e la personalizzazione della risposta, non
solo in termini qualitativi e di soddisfazione dell’utenza, ma anche in funzione dell’efficacia e dell’economicità.
Assistenza Distrettuale
Per quel che concerne l’organizzazione dei servizi rivolti all’infanzia,
possiamo individuare due reti: una dell’assistenza distrettuale ed una dell’assistenza ospedaliera.
L’Assistenza Distrettuale, che comprende la medicina di base, l’assistenza farmaceutica, l’assistenza specialistica ambulatoriale e di territorio, è la
branca dei servizi più vicina, non solo come ubicazione, ai bisogni degli
utenti ed è il tramite più facile per l’ accesso ai servizi.
È nell’Assistenza Distrettuale che si colloca il Dipartimento Materno Infantile, struttura operativa aziendale, che collega ed integra funzionalmente i servizi territoriali ed ospedalieri rivolti alla tutela materno-infantile. Il
Dipartimento ha come obiettivo il miglioramento degli interventi di educazione sanitaria, di prevenzione, di diagnosi, di cura e riabilitazione dei bambini, attraverso l’unitarietà, l’interdisciplinarietà e la continuità delle prestazioni. Nel Dipartimento confluiscono, a livello territoriale, le unità operative che hanno competenza nel settore dell’infanzia:
❖ la pediatria di comunità ed il consultorio pediatrico;
❖ la pediatria di base;
❖ l’unità operativa di N.P.I. (neuropsichiatria infantile);
❖ i servizi di riabilitazione dell’età evolutiva;
❖ l’A.D.I.(assistenza domiciliare integrata);
❖ l’Assistenza Infermieristica Domiciliare.
Si realizza una rete operativa che, nel rispondere a bisogni complessi, deve interagire ed integrarsi con i servizi afferenti all’area socio-assistenziale.
Sul piano organizzativo il modello non presenta lacune, eppure continua ad
essere carente la risposta ai bisogni di cura dei bambini. Si avverte la mancanza di una «cerniera», che metta in moto un sistema flessibile all’interno
del Dipartimento, in grado di orientare le risorse che il territorio esprime. Il
Piano Sanitario Regionale individua tale cerniera nella Pediatria di Comunità
e ne indica le funzioni ed il significato nelle linee guida applicative. Per la sua
importanza rispetto alla prevenzione ed alla accoglienza del disagio infantile conseguente a malattia, si riportano stralci (dalle linee guida regionali),
mentre per le altre unità operative se ne riassumono brevemente le funzioni.
La Pediatria di Comunità
Il PSR individua nella Pediatria di Comunità uno degli strumenti necessari a perseguire gli obiettivi relativi alla tutela della salute materno-infantile. Alla base di questa scelta vi è l’esigenza di affrontare la salute del bambino oltre che con un approccio individuale, quale può essere fornito dalla pediatria di base ed ospedaliera, da un «approccio di popolazione», che consideri i bambini e le famiglie nella comunità e nel contesto sociale, che rac-
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colga, interpreti e trasmetta dati al singolo operatore e ai centri epidemiologici e decisionali dei vari livelli, che identifichi gruppi ad elevato rischio o
con bisogni speciali e ne affronti i problemi. Dagli studi epidemiologici appare sempre più evidente come la salute del bambino sia condizionata da
fattori molteplici ed assai diversi e, come fra questi, divengano via via più rilevanti quelli psicosociali. Pertanto è necessario garantire interventi interdisciplinari che oltre a concorrere all’integrazione assicurata dal DMI, di cui la
Pediatria di Comunità fa parte, assicurino il collegamento con gli altri Dipartimenti territoriali e con le Agenzie esterne all’Azienda (scuole, assistenza sociale ecc.).
La Pediatria di Comunità dovrà quindi svolgere una funzione di cerniera, ma anche integrare le attività dei pediatri di famiglia ove questi non coprono ancora tutta la popolazione pediatrica (aree disagiate ed età adolescenziale). Essa si caratterizza per un’offerta attiva nei confronti di quelle fasce sociale ove si annidano i bisogni di salute più rilevanti, incapaci, per limiti culturali e sociali, di utilizzare autonomamente i servizi. La Pediatria di
Comunità dovrà avvalersi dell’apporto di personale medico, infermieristico
ed amministrativo, che in buona parte è già disponibile in servizi attualmente non integrati (consultori, medicina scolastica, operatori dei nidi,
ecc.) (….omissis….).
Le funzioni della Pediatria di Comunità sono di concorrere a realizzare:
❖ controlli di salute periodici estesi a tutta la popolazione da 0 a 14 anni;
❖ promozione del benessere dei bambini con malattie croniche e disabilità, oppure in situazioni di disagio psico-sociale;
❖ controllo delle malattie infettive e parassitarie;
❖ educazione sanitaria collettiva.
Nello spirito della 285 «Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza» la pediatria di comunità deve rappresentare l’anello di collegamento della politica sanitaria pediatrica locale
con le altre politiche locali coinvolte.
In questa prospettiva nell’ambito del triennio di validità del piano, gli
obiettivi da realizzare sono:
a) Controlli di salute (bilanci di salute e screening) (….omissis…)
b) Vaccinazioni (…omissis…)
c) Integrazione dell’assistenza al malato cronico.
Essendo i bisogni dei bambini con malattie croniche non soltanto di natura medico-specialistica, ma anche di tipo sociale, educativo, riabilitativo,
psicologico, economico, di accompagnamento e trasporto, la Pediatria di
Comunità deve:
❖ elaborare un sistema di monitoraggio dei bisogni, espressi e non
espressi, delle risorse dell’Azienda e del territorio;
❖ attivare ed aggiornare il registro delle malattie croniche infantili, prevedendone il collegamento con il Progetto ALI di cui alla D.R.G. n°2523435 del 15.12.97;
❖ essere di supporto e stimolo ai pediatri di base nella creazione della
rete assistenziale (centro ospedaliero, neuropsichiatria infantile, servizi sociali, scuola, enti vari, associazioni di volontariato) che garantisca al proprio assistito la soddisfazione dei bisogni, la garanzia dei
diritti e l’integrazione dei vari interventi. (….omissis…)»
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L’unità operativa di Neuropsichiatria Infantile
L’unità operativa di NPI svolge attività di prevenzione, diagnosi, cura e
riabilitazione della patologia neuropsichiatrica del bambino e dell’adolescente. A livello territoriale garantisce:
❖ prestazioni specialistiche neurologiche e psichiatriche;
❖ la presa in carico precoce del bambino con disabilità fisica, psichica,
sensoriale e della sua famiglia;
❖ la presa in carico della psicopatologia dell’adolescenza;
❖ la collaborazione per l’inserimento scolastico dei disabili;
❖ la collaborazione per l’inserimento lavorativo o socializzante del disabile;
❖ l’attività di tutela dei minori abusati, deprivati, allontanati da casa
con provvedimenti giudiziari;
❖ l’attività riguardante l’affidamento familiare e le adozioni;
❖ l’attività di abilitazione-riabilitazione della neuropsicomotricità, del
linguaggio e della comunicazione.
L’Équipe di N.P.I. presente in 70 distretti, collabora con i Centri di Riabilitazione psico-motoria e, per più competenze, opera in stretto contatto
con il Servizio Sociale e l’Autorità Giudiziaria.
Il ventaglio di attività copre dai bisogni propriamente clinici fino a quelli di carattere psico – sociale. Sarebbe necessario un maggiore investimento,
in termini di attenzione e di strutture, in modo che il servizio possa realmente soddisfare la composita domanda di cura.
I Consultori Pediatrici
I consultori pediatrici costituiscono, per storia e competenza, una risorsa preziosa per la gestione della salute del bambino, poiché soddisfano il bisogno diffuso di molte madri di esprimere inquietudini legate all’allevamento del neonato, ma non ancora sufficientemente chiare da essere portate al medico di famiglia od ad un medico specialista. La loro competenza
rientra appieno nella pediatria di comunità e concerne:
❖ visite domiciliari ai nuovi nati;
❖ corsi post-parto e massaggi al neonato;
❖ informazione su argomenti di puericultura, promozione all’allattamento materno;
❖ controlli di salute a bambino senza assistenza sanitaria;
❖ controllo pediculosi e malattie infettive;
❖ screening in collettività.
L’ Assistenza Domiciliare Integrata
L’ADI è un servizio deputato a soddisfare le esigenze di malati che necessitino di un’assistenza domiciliare complessa di tipo socio-sanitario. È
prevalentemente utilizzata per rispondere ai bisogni di salute di soggetti anziani, anche se nessuna norma vieta che ne beneficino i bambini, qualora
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affetti da malattie oncologiche o comunque fortemente invalidanti.
Il Piano Sanitario Nazionale per il triennio 1998-2000 ha collocato questo servizio, come alternativa all’ospedalizzazione, nel Patto di solidarietà
per la salute, rivolto ai soggetti particolarmente deboli, bambini compresi.
La Regione Piemonte non ha fornito alle ASL indicazioni operative vincolanti e l’ADI si è sviluppata utilizzando modelli diversificati, legati più a scelte amministrative delle singole Aziende che alla necessità espressa dall’utenza. Non sempre nel personale adibito all’ADI è presente una specifica
formazione professionale infermieristica dell’età pediatrica.
L’Assistenza Ospedaliera
I presidi ospedalieri vengono classificati, nel nostro sistema sanitario,
secondo criteri organizzativo-gestionali e funzionali.
Sul piano organizzativo-gestionale i Presidi si distinguono in:
❖ Presidi Ospedalieri Aziendalizzati (ASO, Istituti di Ricerca e Cura a carattere scientifico, ospedali ex art.4 e 43 legge 833/78 e strutture ospedaliere private);
❖ Presidi Ospedalieri unici di ASL;
❖ Presidi Ospedalieri riuniti di ASL.
Dal punto di vista funzionale, li distinguiamo in:
❖ Ospedali di rilievo nazionale e di alta specializzazione (ASO e IRCCS);
❖ Ospedali di rete;
❖ Ospedali monospecialistici;
❖ Ospedali di Distretto.
La tabella 3.1 raccoglie i presidi ospedalieri che, nella nostra Regione, hanno competenza in ambito pediatrico, indicandone la collocazione territoriale
e la tipologia funzionale. Sul totale di 45 presidi, 39 hanno competenza pediatrica in regime di ricovero, 6 svolgono attività di alta specialità clinica.
Come si rileva dalla tabella, la distribuzione territoriale dei posti letto, per
l’utenza in età pediatrica, risponde alle più comuni ed essenziali esigenze di
cura, ma presenta aree di disomogeneità per quanto riguarda interventi e prestazioni sanitarie specialistiche. Questo problema acquista un maggior rilievo
in presenza di bambini con patologie complesse, che vivendo lontano dai
Centri specialistici di riferimento, debbono affrontare supplementari difficoltà di tipo assistenziale. Per risolverlo adeguatamente sarebbe necessario
che i diversi livelli di assistenza (ospedali di 1°, 2° e 3° livello) tra loro interagissero, individuando, per ogni singolo caso, le reciproche competenze.
Tabella 3.1
Denominazione struttura
sede
classificazione
Torino
ASL 2 di rete
Ospedale Maria Vittoria
Torino
ASL 3 di rete
Ospedale Mauriziano
Torino
ex art.41
Casa di Cura Koelliker
Torino
privato
Ospedale Martini
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segue
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Denominazione struttura
OIRM
Ospedale San Luigi
sede
classificazione
Torino
ASO
Orbassano
ASO
Ospedale Infermi
Rivoli
ASL 5 di rete
Stabilimento Ospedaliero
Ciriè
ASL 6 di rete
Chivasso
ASL 7 di rete
Chieri
ASL 8 di rete
Moncalieri
ASL 8 di rete
Ospedale Civico
Ospedale Maggiore
Ospedale Santa Croce
Ospedale Civile
Cuorgnè
ASL 9 di rete
Ospedale Civile
Ivrea
ASL 9 di rete
Osp. Civile E. Agnelli
Pinerolo
ASL 10 di rete
Osp. San Giovanni Battista
Gattinara
ASL 11 di rete
Ospedale S. Andrea
Ospedale San Pietro e Paolo
Ospedale Infermi
Vercelli
ASL 11 di rete
Borgosesia
ASL 11 di rete
Biella
ASL 12 di rete
Ospedale San Lorenzo
Carmagnola
ASL 8 di rete
Ospedale SS Trinità
Borgomanero
ASL 13 di rete
Ospedale San Biagio
Domodossola
ASL 14 di rete
Verbania
ASL 14 di rete
Stabilimento Ospedaliero
Nuovo Ospedale
Ospedale Maggiore Annunziata
Ospedale Santa Croce e Carle
Ospedale SS Trinità
Ospedale Civico di San Lazzaro
Ceva
ASL 16 di rete
Savigliano
ASL 17 di rete
Cuneo
ASO
Fossano
ASL17di rete
Alba
ASL 18 di rete
Ospedale Santo Spirito
Bra
ASL18 di rete
Ospedale Civile
Asti
ASL 19 di rete
Ospedale SS. Antonio e Biagio
Ospedale SS. Antonio e Margherita
Ospedale Santo Spirito
Alessandria
ASO
Tortona
ASL 20 di rete
Casale
ASL 21 di rete
Ospedale Civile
Acqui Terme
ASL 22 di rete
Ospedale San Giacomo
Novi Ligure
ASL 22 di rete
Ospedale Maggiore della Carità
Centro Auxologico
Novara
ASO
Piancavallo
ASO
È probabile che molti accertamenti clinici siano effettuabili proficuamente anche presso presidi di primo o secondo livello, prossimi alla residenza degli assistiti. Non mancano strumenti per una efficace comunicazione tra il personale dei differenti presidi; purtroppo si assiste alla tendenza, da parte di molte strutture ospedaliere, ad un comportamento autarchico, che preclude scambi di informazione ed utilizzazioni di capacità diagnostiche. Si rischia così di rafforzare negli utenti un sentimento di sfiducia
verso i presidi di cura di primo livello («se lo specialista dà delle regole ha i
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suoi buoni motivi per farlo, come genitore devo adeguarmi nell’interesse del
mio bambino»), perdendo così l’occasione di fruire delle cure presso servizi
prossimi al luogo di residenza. Indirettamente i servizi di rete perdono a loro volta opportunità di sviluppare immagine e professionalità.
3.3 L’informazione
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L’introduzione dello stile aziendale in sanità ha modificato il rapporto
con il paziente, offrendo servizi e prestazioni di qualità e facendoli sempre
più conoscere in modo da stimolare la fruizione. In quest’ottica di mercato,
avere da parte del cliente risposte positive diviene un’esigenza prioritaria. Il
rapporto tra chi eroga salute e chi è malato potrebbe permettere a quest’ultimo di sapere preventivamente cosa offrirà la prestazione e di scegliere
conseguentemente.
Le carte dei servizi rispondono ad un bisogno di conoscenza importante, ma non sono ancora soddisfacenti e non possono esaurirsi nelle pagine
di un opuscolo. Il cliente vuol sapere cosa attendersi dalla prestazione offerta, indipendentemente da cosa essa sottenda sul piano tecnico.
La conferenza dei servizi è l’occasione per la dirigenza dell’Azienda Sanitaria, i sindaci, i rappresentanti delle Associazioni di Volontariato, gli operatori ed i cittadini, di incontrarsi e fare il punto sull’attività dell’Ente, tracciando insieme strategie e programmi futuri. Poiché il confronto avviene su
piani diversi e tra soggetti con interessi non uniformi, l’incontro è difficoltoso: ciò che è giusto, dal punto di vista clinico o gestionale, può non soddisfare le attese ed i bisogni dei pazienti, così come non sempre ciò che la medicina offre soddisfa le attese dei malati. La situazione sanitaria è tale per cui
il soddisfacimento delle necessità cliniche di un malato può mettere in discussione la distribuzione delle risorse tra gli altri aventi diritto: questo rimarcano numerose associazioni. Se è difficile sul piano strettamente medico, l’incontro si appiana, fino a divenire collaborativo, quando l’obiettivo è
il miglioramento della qualità dell’accoglienza dei pazienti. In particolare,
l’Azienda ospedaliera riconosce nelle organizzazioni di volontariato una risorsa importante per il raggiungimento, da un lato, di uno standard di qualità nella gestione dell’accoglienza, dall’altro, per il contributo in termini
economici che queste sono in grado di fare affluire al Servizio.
L’Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP)ha l’espresso compito di realizzare un dialogo con i cittadini che usufruiscono dei servizi dell’ASL, allo scopo di accogliere e tutelarne i diritti. Fornisce informazioni e chiarimenti sulle prestazioni, sui tempi di attesa e sulle modalità di accesso, e raccoglie le
proposte ed i suggerimenti volti al miglioramento dei servizi erogati. L’URP
si fa carico delle istanze e dei reclami dell’utenza e provvede, dopo avere
svolto istruttoria, a darvi risposta scritta. Il ruolo svolto dall’Ufficio può essere più o meno significativo, a seconda di come le Aziende lo interpretano.
Può caratterizzarsi come monitoraggio delle carenze del luogo di cura, non
limitandosi ad una funzione «consolatrice», la quale non modifica le dina-
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miche che si vorrebbero correggere. Può offrirsi come luogo di deposito di
progetti correttivi portati dagli utenti, o ancora divenire promotore di progetti alternativi. Il rischio è che nel tempo l’URP riduca la propria attività ad
impegni residuali di rappresentanza, «sprecando» l’opportunità che gli viene offerta dall’incontro con l’utenza e i suoi disagi.
3.4 L’uso dell’ospedalizzazione
Due eventi significativi ci aiutano a comprendere le conseguenze prodotte dalla malattia del bambino: il ricorso al pronto soccorso e la degenza
prolungata in ospedale.
Il Pronto soccorso e i ricoveri
I dati, relativi all’Ospedale Infantile Regina Margherita, sono riferiti ai
passaggi in pronto soccorso dal gennaio 2001 al novembre 2001. Ammontano a 50.123 unità, nella media degli anni passati. Di questi passaggi, 6070
(12%) hanno avuto come esito il ricovero (Tabelle 3.2, 3.3).
I dati confermano la convinzione che chi si rivolge all’ospedale lo utilizza sovente in modo improprio, per malattie che potrebbero essere diagnosticate e curate in altra sede. Il primo anno di vita del bambino è il periodo
di maggior ricorso al Pronto Soccorso. Il 31% dei bambini visitati appartiene a questa fascia di età, all’interno della quale il 16% è stata ricoverata.
L’ansia dei genitori è inversamente proporzionale all’età: minore è l’età del
bambino, maggiore è la preoccupazione parentale. I dati contenuti nella tabella 3.4 confermano ulteriormente il fenomeno.
Tabella 3.2 – Passaggi in P.S.
con conseguente ricovero
Tabella 3.3 – Passaggi in P.S.
senza ricovero
Fascia di età
Passaggi
Fascia di età
0–1
1.733
Passaggi
0–1
6.695
1
925
1
6.467
2
551
2
4.908
3
433
3
4.443
4
359
4
3.497
5
5.262
5
2.738
6
245
6
2.221
7
229
7
2.049
8
237
8
1.975
9
238
9
2.084
10
214
10
1.907
71
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Fascia di età
Passaggi
Fascia di età
Passaggi
11
209
11
1.842
12
189
12
1.523
13
135
13
1.200
14
47
14
206
15
32
15
44
16
13
16
27
17
8
17
15
altre
totale
11
6.070
altre
182
totale
44.053
Tabella 3.4 – Degenze presso ospedali pediatrici della Regione Piemonte relative all’anno
2000. Fascia di età 0-17. Distribuzione per giorni di degenza
n° giorni
72
n° ricoveri
1
8390
2
16346
3
8892
4
5801
5
3592
6
2296
7
1566
8
1005
9
683
10
497
11
390
12
293
13
216
14
195
15
157
16
109
17
103
25
34
18
86
26
37
19
56
27
32
20
56
28
31
21
66
29
36
22
44
30
23
48
oltre
24
41
totale
n° giorni
n° ricoveri
29
560
51.677
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Le degenze
I dati relativi ai ricoveri ospedalieri in Piemonte (tabelle 3.5/3.8) inducono una considerazione sulla durata della degenza. Per semplicità, nella tabella 3.5, sono state identificate tre grandi tipologie di ricoveri: degenze di 1, 2 e
oltre i 30 giorni. Nel primo caso si tratta di un intervento para – ambulatoriale, che sottolinea il limite delle strutture presenti sul territorio piemontese, in
quanto gli ospedali vengono chiamati a supplire quelle attività che dovrebbero svolgere i servizi territoriali; il dato è ancora più evidente se osserviamo le
fasce di età dei soggetti. Ben il 33% è compreso nella fascia di età sotto i due
anni di vita, e le cure ospedaliere svolgono quella funzione di rassicurazione
dei genitori che più propriamente potrebbe essere assunta dal pediatra di famiglia. La degenza di 1 o 2 giorni, lo conferma la tabella 3.7 nell’analisi della
patologia manifestata, è causata da malattie risolvibili in ambito domestico e
non produce risultati migliori di quelli che si otterrebbero trattenendo il
bambino a casa, dando ascolto al pediatra di base. Nel contempo, l’uso improprio intasa le strutture ospedaliere, impedendo un loro uso ottimale.
Tabella 3.5 – Ricoveri presso ospedali pediatrici della Regione Piemonte. Anno 2000
Distribuzione per fasce di età e giorni 1, 2 e 30 di degenza
Fascia di età
n° ricoveri gg. 1
n° ricoveri gg. 2
n° ricoveri gg. 30
0-1
1551
2008
135
1
999
1192
13
2
689
901
9
3
546
1268
7
4
537
1569
5
5
435
1394
6
6
363
1034
6
7
334
848
10
8
360
829
14
9
327
772
17
10
313
702
18
11
306
646
27
12
321
589
35
13
270
511
43
14
269
516
70
15
239
528
48
16
245
490
56
17
286
549
70
totali
8390
16.346
589
73
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Tabella 3.6 – Ricoveri presso ospedali pediatrici Regione Piemonte – anno 2000. Fascia
di età 0-1 degenza giorni 1 e 30 (ed oltre); distribuzione per reparti
Reparto
n° ricoveri gg. 1
n° ricoveri gg. 30
Cardiochirurgia
6
15
Cardiologia
5
4
103
8
N.P.I.
12
6
Ortopedia
34
3
1173
13
4
2
Neurochirurgia
28
2
Urologia
66
/
Terapia intensiva
23
77
Chirurgia
Pediatria
Gastroenterologia
Pneumologia
Totali
6
5
1551
135
Tabella 3.7 – Ricoveri in Pediatria, per giorni 1, fascia età 0-1
Patologia
n° ricoveri
Convulsioni, cefalee
11
Stato soporoso e coma di origine traumatica
45
Commozione cerebrale
64
Otiti
148
Laringotracheiti
26
Bronchiti, asma
95
Infezioni prime vie aeree
39
Esofagiti, gastroenteriti
175
Infezioni vie urinarie
20
Malattie di origine virale
60
Avvelenamenti, effetti tossici da farmaci
35
Totale
1173
Tabella 3.8 – Ricoveri in Cardiochirurgia, Neuropsichiatria Infantile ed Oncologia
Distribuiti per fasce di età – Regione Piemonte, anno 2000
74
Fascia età
Cardiochirurgia
N.P.I.
Oncologia
0-1
65
92
12
1-2
10
99
54
2-3
7
82
34
3-6
10
91
165
6-10
11
138
136
10-17
16
181
223
Totale
119
683
624
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3.5 Due casi esemplari
La legislazione italiana prevede che la famiglia abbia obblighi primari
nei confronti dei propri membri, specie se di età minore, mentre le altre istituzioni hanno compiti sussidiari. Carente è però l’indicazione, da parte del
sistema sanitario regionale, su come affrontare le nuove evidenziate necessità in modo armonico ed efficiente, anche perché si ignora, di fatto, la
quantità di malati cronici di cui ospedali, famiglie e territorio debbono occuparsi. L’alta sopravvivenza dei bambini affetti da malattie croniche o necessitanti di lunghi periodi di cure, ha evidenziato gli effetti psicologici conseguenti alla malattia.
La storia clinica di Aldo e di Lucia, e delle loro famiglie, è quella di tutti i
bambini malati cronici o con patologie gravi. L’esistenza è scandita dalle cure domiciliari e dai ricoveri ospedalieri e dal timore di non sapere fronteggiare altre evenienze.
Aldo ha tre anni, i sintomi di una possibile malattia cronica si sono manifestati quando aveva pochi mesi di vita. Soffriva di disturbi gastroenterici
e polmonari, respirava e digeriva con difficoltà. La tosse non gli dava tregua,
sudava abbondantemente, non cresceva. Il pediatra ha consigliato ai genitori accertamenti. In ospedale al bambino è stato praticato un test indolore,
che è bastato per diagnosticare una fibrosi cistica. Da quel momento la vita
quotidiana della famiglia è stata la seguente:
Martedì- mercoledì, giovedì- domenica
Ore 7.00 suona la pompa, sono finiti i lipidi, spengo la pompa
Ore 8.00 lavo il piano di lavoro, preparo le siringhe per il lavaggio del catetere e per l’eparina
Ore 9.00 suona la pompa, è finita la sacca con la tpn, la spengo, stacco, faccio il lavaggio del catetere ed eparino
Ore 10.00 preparo l’aerosol e lo si fa
Ore 10.30 è l’ora della fisioterapia
Ore 11.30 schiaccio e riduco in polvere la mezza pastiglia di vitamine
Ore 12.30 prendo le due sacche dal frigo e le metto a temperatura ambiente
Ore 15.00 preparo l’aerosol e lo si fa
Ore 17.00 lavo e disinfetto il piano di lavoro, preparo le sacche, inserisco il
deflussore ecc. ecc.
Ore 18.00 metto la flebo a mio figlio, accendo la pompa della tpn
Ore 19.00 accendo la pompa dei lipidi
Ore 21.00 preparo l’aerosol e lo si fa
Lunedì – venerdì
Ore 7.00 suona la pompa, sono finiti i lipidi, spengo la pompa
Ore 8.00 lavo il piano di lavoro, preparo le siringhe per il lavaggio del catetere e per l’eparina
Ore 9.00 suona la pompa, è finita la sacca con la tpn, la spengo, stacco, faccio il lavaggio del catetere ed eparino
75
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Ore 15.30 lavo e preparo il piano di lavoro, preparo le sacche e preparo anche il materiale per la medicazione sterile. Nei giorni della medicazione
faccio il bagnetto al bambino
Ore 18.00 metto la flebo al bambino, accendo la pompa della tpn
Ore 21.00 aerosolterapia
Sabato
Ore 8.00 lavo il piano di lavoro, preparo le siringhe per il lavaggio del catetere e per l’eparina
Ore 9.00 suona la pompa, è finita la sacca con la tpn, la spengo, stacco, faccio il lavaggio del catetere ed eparino
Ore 10.00 preparo l’aerosol e lo si fa
Ore 11.30 schiaccio e riduco in polvere la mezza pastiglia di vitamine
Ore 15.00 aerosol
Ore 21.00 aerosol
Ogni sera
Cambio l’acqua dello sterilizzatore e metto a sterilizzare mascherine e ampolle usate durante la giornata per l’aerosol
Ogni venti giorni
Telefono alla Baxter (ditta fornitrice delle sacche e di tutto il materiale inerente all’alimentazione parenterale) per l’ordinazione
Arriva il materiale a casa: 2 grosse scatole e 2 scatole piccole. Le due scatole
piccole contengono le sacche da mettere immediatamente in frigorifero;
le altre due le sistemo in un secondo momento.
Devo portare le bolle della merce ricevuta all’ASL
Una volta al mese – se non si verificano imprevisti
Faccio i tamponi nasali e faringeo; chiamo la Traco che viene a prenderli a
domicilio o diversamente li porto presso un punto di raccolta Traco
Day Hospital della durata media di 5 ore
Quasi tutti i mesi nei tamponi del bambino trovano dei germi che vanno
trattati con terapie antibiotiche che, a seconda del tipo di germe, durano
dai dieci ai venti giorni
Mi reco alla farmacia dell’Ospedale di zona a prendere le medicine che, man
mano che finiscono, riordino
Imprevisti conosciuti sino ad ora
Ricoveri ospedalieri ripetuti.
Day Hospital ravvicinati. Non uno al mese come previsto ma anche due volte la settimana.
Difficoltà nel funzionamento della pompa (non parte e suona, il deflussore
è occluso, c’è aria nel deflussore).
76
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Superfluo ogni commento. Le manovre che compie la mamma di Aldo
sono di vitale importanza per il bambino, e si comprende come non possa
né voglia esimersi dal farlo. L’affetto moltiplica le energie, ma resta complessa la gestione familiare: la mamma di Aldo ha dovuto licenziarsi, per
l’impossibilità di conciliare cure e lavoro.
Chiameremo Lucia, la protagonista di un’altra vicenda, simile tuttavia a
centinaia di altre storie dolorose.
La bambina ha quattro anni e vive in un paesino del sud. La sua famiglia
è composta da madre, padre e tre figli. Lei è la primogenita. La madre lavora
come operatrice scolastica e il padre è impiegato presso un ente pubblico.
Poco tempo dopo la nascita della sorellina, Lucia lamenta dolori diffusi,
febbre alta, linfonodi ingrossati. La febbre non smette ed i genitori si rivolgono al pediatra di famiglia, il quale li invia presso l’Ospedale locale. I medici sospettano che i sintomi siano segnali di una presunta leucemia e, in assenza di competenze specifiche, suggeriscono ai genitori di ricorrere alle cure presso alcuni Ospedali specializzati.
I genitori «scelgono» il presidio sanitario ed i medici prendono contatto
con i colleghi. A questo punto ritengono di aver adempiuto ai loro obblighi
e, in nome della libertà di scelta da parte dei genitori, latitano. Chi aiuterà
questa famiglia, allertata sulla probabile patologia della figlia, abbandonata
a se stessa in preda all’angoscia e a difficoltà oggettive nel tentativo di affrontare la nuova realtà? Non è compito dell’ospedale, ma di chi allora? Non
siamo di fronte ad una sorta di pilatismo sanitario?
L’ospedale a cui la famiglia si rivolge, si trova a Torino. Nei pressi della
città risiedono alcuni parenti della famiglia di Lucia. La bambina viene visitata, sottoposta a nuovi accertamenti finalizzati alla conferma del sospetto
diagnostico e, quindi, ricoverata. Quando viene confermata la diagnosi con
il medico, c’è lo psicologo ad accogliere la richiesta di aiuto dei genitori che,
provati dalle trascorse ansie, sono increduli e confusi. La famiglia, ospite
presso parenti, attende l’esito dei primi interventi. Le uniche notizie certe
sono che, per due anni almeno, tra Lucia, la sua famiglia e l’Ospedale si dovrà stabilire una sorta di cordone ombelicale. Nel frattempo chi si prende
cura degli altri due figli, di cui una neonata? I nonni ed il padre, il quale, almeno sulla carta, ha la possibilità di usufruire di due anni di congedo, non
pagato, nell’arco di tutta la sua carriera lavorativa. E poi?
La madre, per poter seguire Lucia, chiede, in un primo tempo, permessi
non pagati per assentarsi dal lavoro ma, infine, sarà costretta a licenziarsi.
La bambina non può lasciare la città ospitante anche quando non necessita di ricoveri in ospedale. Il suo desiderio è di ritornare alla famiglia, ai
fratelli, ai luoghi della sua infanzia drammaticamente messa in crisi, ma per
due anni vivrà prevalentemente tra il nuovo domicilio e l’ospedale. Le esigenze crescenti di cura consiglieranno la famiglia ad accettare l’ospitalità
offerta dall’Associazione di volontariato: l’alloggio è situato vicino al presidio ed il problema del trasporto, che aveva angustiato la famiglia, non si
porrà più, verrà però meno il conforto dei parenti. I volontari dell’Associazione si prodigheranno, per non lasciare soli Lucia e la mamma, offrendo
compagnia, conforto, denaro.
77
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3.6 Struttura ospedaliera e umanizzazione
Nell’interesse del bambino è bene che l’ospedale, in quanto spazio di vita, assuma nuovi aspetti, che lo colleghino maggiormente alla tipicità domestica, integrandolo sempre più nel vissuto quotidiano ordinario. È noto
che le istituzioni totali tendono a caratterizzarsi come un microcosmo autonomo, con propri stili, regole e morfologie. Alla base di tutto ciò, sono esigenze operative specifiche, le quali però non sempre comunicano con l’utente. Spesso trasmettono una sensazione di alienazione, di estraneità. Nel
caso dell’ospedale, che ha come compito specifico alleviare il dolore, curare
il malato e rimetterlo in grado di gestire la propria vita, la collaborazione attiva del paziente con l’operare dei medici è fondamentale per la riuscita degli interventi. La non-comunicazione, il disagio ambientale, divengono impedimenti alla realizzazione piena della cura.
Un ambiente accogliente
Le pareti degli ospedali e dei reparti «non comunicano». Dipinte in bianco, non lasciano spazio alla giocosità, alla varietà. La monocromia non produce discorsi, dialoghi, assorbe ed annulla. Coloro che provvedono alla manutenzione degli edifici ospedalieri invocano, a favore di questa scelta, l’igiene, quasi che una tinta fosse più impermeabile di altre ad intrusioni infettive. Nel bianco totalizzante dell’ospedale, il bambino vive un’esperienza
di privazione. Il messaggio è chiaro: «Guardare e non toccare». Questo è un
mondo di adulti, ed i bambini non possono interferire.
Si ha l’impressione che si ignorino le esigenze profonde del bambino,
per di più malato, invalidato e traumatizzato nella visione buona di sé. Gli si
chiede, in sostanza, una resa completa allo stile di vita adulto in una realtà
particolare. Il mondo del bambino non è monocromatico, ma vario, articolato, gridato. Laddove si osserva un bambino che è privo di colori nel suo
esprimersi, di certo siamo in presenza d’una qualche sofferenza d’anima, a
volte sintomo di patologie ben più gravi, quali l’autismo. I colori sono vita,
emozioni, stimoli, gusti. Suggeriscono che il mondo è bello, vario, plastico,
e tutto da scoprire, anche nella malattia.
Il gioco in ospedale
78
Il bambino ha necessità di chiarire con se stesso i sentimenti che prova,
quando è ospedalizzato. Difficile per lui è riuscire a comunicarli a chi di lui
ha cura. Può però riuscirvi giocando: l’attività ludica gli è familiare e lo aiuta ad elaborare l’esperienza. Inoltre nel gioco trova conferma che, sia pure
in un luogo che gli è estraneo, come l’ospedale, la sua occupazione preferita può continuare. Nel gioco il bambino riesce a volte ad esprimere conflitti e paure ed a sdrammatizzare una situazione che sembrava densa di ostacoli. Ama invertire i ruoli bambino-medico e vedere la realtà della malattia,
e delle cure che teme, da una differente angolatura, riuscendo in tal modo a
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controllare le paure provate. Angela, in dialisi da più di un anno, è riuscita a
ricreare sul proprio bambolotto il trattamento che subiva e, nel farlo, le sue
resistenze nell’avvio delle sedute si sono dissolte.
La funzione terapeutica del gioco si è affermata,negli ospedali pediatrici
piemontesi, più di vent’anni fa. Si inseriva nel quadro di una politica di
«umanizzazione della medicina», sostenuta anche in Piemonte da un elevato numero di medici, psicologi, infermieri. Erano gli inizi degli anni ’80 e si
era appena riconosciuto il diritto del bambino ad avere vicino a sé i propri
genitori nel momento della malattia. Ma questi genitori si presentavano ansiosi ed inquieti, con una forte accentuazione della sensibilità emotiva, che li
portava ad avere minore capacità di fronteggiare la situazione e ad interagire nella comunicazione con il figlio ed il personale medico. Le attività di gioco hanno costituito un rimedio, inserendo adulti e bambino in un terreno comune. Infatti il figlio che gioca pone se stesso e la propria malattia in un contesto reale, meno fantasmatico, che permette di elaborare risposte operative
concrete. Come è successo ad una madre, che ha potuto considerare il figlio
non più come un problema medico, ma come un individuo che, nonostante
la malattia, intendeva continuare a ridere, scherzare, e fare le cose che aveva
fatto prima dello scatenarsi dell’evento patogeno. Era lo stesso bambino, con
una nuova storia complessa. In sostanza il gioco in ospedale soddisfa i bisogni di tutti i soggetti che si occupano, con differenti funzioni, del bambino e
previene - allenta - scioglie le tensioni, che lo stato di malattia genera.
Va detto che nei presidi pediatrici della Regione Piemonte l’attività ludica è una realtà diffusa. Al gioco, ove possibile, sono state destinate delle apposite sale, e animatori, bambini e genitori creano un clima che aiuta tutti a
vivere meglio il trauma della malattia del bambino.
Presso l’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino le sale gioco
compiranno tra breve vent’anni: sono otto, ubicate nelle chirurgie, in neurochirurgia, presso il centro ustionati, in neuropsichiatria, in ortopedia, in
urologia, in diabetologia ed in nefrologia-dialisi. Ad animarle provvede personale comunale dell’Assessorato Istruzione, Progetto «Gruppo Gioco in
Ospedale», grazie ad una convenzione tra il Comune e l’Azienda. In questi
anni l’attività è andata differenziandosi, secondo l’età dei bambini, gli interessi manifestati, lo stato di salute, la possibilità di movimento, ed ha risposto ai bisogni dei degenti in modo più pregnante.
I progetti, gestiti dagli operatori, sono nati dalla collaborazione tra figure professionali diverse, medici ed infermieri, di modo che l’operazione appare estremamente significativa.
❖ La Storia Cancellapaura ha trasformato i materiali sanitari in materiali ludici;
❖ L’operazione in gioco prepara i bambini all’intervento chirurgico;
❖ Bibliomouse è una biblioteca itinerante ma anche un locale di lettura per tutti i bambini degenti.
L’operazione in gioco affronta il difficile momento del ricovero in ospedale, in attesa di intervento chirurgico. «L’importante», si legge nella presentazione dell’opuscolo, «è non mentire, non nascondere la realtà, ma presen-
79
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:20 Pagina 80
tarla nel modo opportuno, comprensibile, con la certezza che non siete soli,
che ci sono persone che si prendono cura di voi con competenza e disponibilità». L’informazione diviene gioco ed il gioco veicolo di informazione.
Anche presso il reparto di pediatria dell’Ospedale Martini di Torino, la
sala gioco è animata da personale dell’Assessorato Istruzione del Comune di
Torino. Presso il reparto di Pediatria dell’OIRM ed in altri presidi del territorio regionale (Ospedale Mauriziano di Torino, gli ospedali di Biella, Cuneo,
Domodossola, Mondovì e Savigliano), il gioco è offerto ai bambini dall’ABIO
(Associazione Bambini in Ospedale), attraverso la presenza di volontari preparati.
3.7 La scuola in Ospedale
80
La scuola, in ospedale, è parte integrante dell’attività curativa, in quanto contribuisce al mantenimento o al ricupero dell’equilibrio psicofisico del
piccolo ricoverato. Essa ha una grande importanza nella vita del bambino ricoverato, in quanto non soltanto costruisce uno spazio di apprendimento
continuo e di sviluppo, ma favorisce l’incontro e il confronto con adulti non
genitori e con coetanei. L’apprendimento può avvenire in vari modi, anche
non istituzionali, ma la scuola è un momento particolare, carico di emozioni e significati, soprattutto quando l’allievo è in ospedale.
Quando al bambino si comunica la diagnosi ed il percorso di cura, o
eventuali operazioni chirurgiche, ci si sente chiedere: «Ma allora dovrò lasciare la scuola?». L’abbandono dei compagni, degli insegnanti che si occupano principalmente di lui, provoca nel bambino sentimenti di perdita e di
separazione, che si manifestano repentinamente, e conferma la necessità di
restituirgli questa parte di normalità, così importante proprio in circostanze traumatiche.
Le prime classi di scuola elementare operano nelle principali cliniche
pediatriche a partire dagli anni ’50, e hanno visto un notevole sviluppo a cavallo tra gli anni ’70 ed ’80, grazie alle leggi regionali che hanno permesso la
presenza in ospedale di figure non sanitarie, quali i volontari, gli educatori,
gli animatori e gli insegnanti. Per gli adolescenti degenti si è dovuta attendere la seconda metà degli anni ’90, proseguendo il lavoro già svolto dalla
scuola dell’obbligo, in seguito alla emanazione delle Legge 104/921 e grazie
alle aperture concesse dalla Legge 59/972, che hanno favorito l’autonomia
didattica ed organizzativa della scuola, stimolando la progettazione di interventi sul territorio a favore di coloro che non sono in grado di seguire regolarmente gli studi.
Circolari ministeriali hanno meglio definito in seguito le modalità di attuazione del servizio scolastico in ospedale. In tempi recenti, il Protocollo
d’intesa siglato dai ministri della Pubblica Istruzione, della Sanità e della
Solidarietà Sociale (27.9.2000), a tutela dei diritti alla salute, al gioco, all’istruzione e al mantenimento delle relazioni affettive ed amicali dei cittadini
di minore età malati ha impegnato i firmatari al raggiungimento dell’obiet-
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:20 Pagina 81
tivo fissato. I precedenti provvedimenti normativi (legge 9/99 sull’innalzamento dell’obbligo scolastico; legge 144/99 sull’obbligo formativo; legge
30/2000 sul riordino dei cicli scolastici) richiedevano la definizione di diversi modelli di attuazione del servizio scolastico, rivolto a ragazzi fino al diciottesimo anno in strutture ospedaliere; con il Protocollo d’intesa sono state poste le basi per la realizzazione di servizi efficienti attraverso la partecipazione delle Istituzioni coinvolte. Inoltre con il Protocollo d’intesa siglato il
23 febbraio 2001 tra Ministero della Pubblica Istruzione, Ministero per i Beni
Culturali e Ministero della Sanità, si conferma la validità delle iniziative culturali, ludiche e ricreative rivolte ai bambini in ospedale ed alle loro famiglie, sollecitando anche la promozione di spettacoli all’interno dei reparti di
degenza o di day hospital.
Vi sono perciò oggi tutti i presupposti per garantire al bambino malato
una presenza scolastica organizzata. L’insegnante dovrà aiutare i suoi nuovi
allievi ad integrare l’ospedale come parte di un’esperienza più ampia, ricca
ed emotivamente densa, trasformandola in occasione d’indagine, riflessione, espressione. Se il bambino è interessato al servizio scolastico proposto,
si contatta la scuola di appartenenza. Agli insegnanti viene comunicata la situazione dell’allievo, la possibilità d’uso del servizio scolastico e la richiesta
di una fattiva collaborazione didattica. Tramite fax o e-mail, possono essere
inviati all’ospedale esercizi da affrontare con i bambini, e altrettanto può esser fatto da parte dell’istituzione sanitaria. Si apre un canale di comunicazione, attraverso il quale passano proposte, risposte, valutazioni e giudizi. Il
tutto in funzione della non esclusione del malato dalla sua classe di provenienza. Questo tipo di attività serve certamente al malato, ma ingenera anche nei compagni sani un proficuo spirito di collaborazione e sostegno.
I bambini che necessitano di lunghe degenze, o di ricoveri frequenti per
patologie gravi, si appoggiano maggiormente alla scuola ospedaliera.
Pretendono d’essere valutati, vogliono il voto e superare le prove finali come
i loro compagni più fortunati, che trascorrono il proprio tempo nelle aule
della scuola. Queste attività aiutano i degenti in età scolare a non restare indietro rispetto ai coetanei, e favoriscono un rientro meno traumatico nella
classe di appartenenza. La didattica consueta, qui, deve essere individualizzata, adattata alle esigenze del bambino e del reparto, che possono produrre continue e non sempre gradite interruzioni (terapie, visite, pasti) oppure
oggettivamente limitare gli spazi con relative carenze di attrezzature.3 Non è
facile essere maestri in ospedale! Centrale è la collaborazione tra operatori
di diverse istituzioni e formazione, per evitare comportamenti contradditori che possono disorientare bambino e famiglia.
La scuola elementare statale, presente al Regina Margherita sin dal 1967,
è una delle prime in Italia. L’iniziativa fu progettata e realizzata dalla professoressa Livia Di Cagno, Direttore della cattedra di Neuropsichiatria Infantile.
Nel 1998, a seguito della Circolare Ministeriale con la quale si istituiva la
scuola media inferiore negli ospedali pediatrici, viene formalizzata l’iniziativa, avviata sperimentalmente cinque anni prima tra la Scuola Media A.
Peyron ed un gruppo di genitori con bambini a patologia oncologica. Dal
1999 è presente, presso i reparti di oncologia ed ematologia, un’insegnante
di scuola materna. Inoltre, di anno in anno, vengono attivate iniziative con
scuole diverse, nell’ambito di progetti elaborati con il Comune di Torino.
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Scuola elementare e scuola media parteciparono al Progetto Torino 2000,
utilizzando nuove tecnologie per le attività didattiche, di comunicazione e
raccordo con le scuole di provenienza dei degenti.
Significativo, e molto importante, è stato il progetto di teledidattica, finalizzata all’organizzazione di modalità di studio e lavoro per ragazzi lungodegenti, i quali, a causa dei pesanti e prolungati protocolli di cura, non
possono partecipare alle normali attività scolastiche nelle scuole di appartenenza. Un insegnante, che opera presso il Regina Margherita, sostiene che
«la navigazione in Internet consente un virtuale ma benefico distacco dal
contesto ospedaliero, favorendo inoltre nuove forme di socializzazione a distanza, attraverso l’uso della posta elettronica, di bacheche apposite, di liste
di discussione adeguate all’età».4 All’inverso, la teledidattica favorisce la conoscenza, da parte dei bambini non ospedalizzati, di una istituzione estremamente importante per il benessere di ciascuno, mostrandone un’immagine più amichevole, diversa da quella che normalmente essi hanno.
3.8 Il Terzo Settore e l’offerta di sostegno
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Operano negli ospedali pediatrici numerose associazioni di volontariato, che attraverso stili improntati alla spontaneità e all’ innovazione, e per il
fatto di non subire vincoli ed obblighi istituzionali, riescono a portare avanti iniziative a sostegno del bambino e della sua famiglia. Vogliamo ricordare,
nel grande arcipelago di volontari, alcune associazioni che, più di altre, sono «militanti» in ospedale con presenze quotidiane. Molte di queste Associazioni sono riunite in una Federazione, che ha sede presso l’Ospedale
Regina Margherita.
L’Associazione Bambini In Ospedale (ABIO) ha come obiettivo primario
quello di minimizzare i traumi psico-affettivi legati al ricovero del bambino.
Opera attraverso volontari, preparati allo scopo, che si collocano nella struttura sanitaria come figure prive di un compito specificatamente terapeutico, e si inseriscono con discrezione tra l’operatore sanitario, il bambino malato ed i suoi genitori. Così recita lo statuto. Nata nel 1978, l’associazione solo recentemente sta estendendo la propria presenza all’interno dei presidi
della nostra Regione.
L’attività è di: accoglienza al momento del ricovero, facilitando l’inserimento del bambino in reparto; sostegno durante le visite ambulatoriali; collaborazione con il personale infermieristico nella preparazione delle diverse
procedure terapeutiche, utilizzando appropriate tecniche e materiali appositamente studiati. Anche il genitore del malato rientra nell’impegno del volontario ABIO. È aiutato a sdrammatizzare la malattia, informato sul comportamento da tenere, con una presenza amica che facilita l’affido del figlio
all’ospedale. L’ABIO ha organizzato seminari di studio sul disagio infantile
nel corso delle degenze in ospedale, favorendo in queste circostanze lo
scambio di esperienze tra i diversi paesi europei. Collabora con la scuola
dell’obbligo per informare correttamente gli scolari sulla realtà ospedaliera.
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L’Associazione Volontari in Ospedale (AVO) è conosciuta in tutto il territorio regionale, perché i suoi volontari sono presenti in molti presidi ospedalieri. La si trova nei presidi pediatrici ove sostituisce il genitore nell’intrattenimento del bambino. Si tratta di interventi da parte di personale formato, e quindi capace di rispettare la complessità della malattia.
L’Unione Genitori Italiani (UGI) è sorta nel 1980, per iniziativa dei genitori coinvolti nel dramma della malattia oncologica. L’impegno è andato nel
tempo diversificandosi, lavorando a fianco dei medici per migliorare le condizioni di cura (la TAC, il Centro Bassa Carica Batterica, l’acquisto della
Risonanza Magnetica Nucleare) ed evitare che i bambini fossero spostati in
altri presidi con conseguente disagio; e, dall’altro lato, per rispondere ai bisogni di bambini e famiglie conseguenti al protrarsi delle cure mediche.
L’attività svolta dall’UGI sul versante del sostegno ai bambini ed ai genitori, presenta la seguente tipologia di iniziative:
❖ Progetto accoglienza –affidata alla capacità dei volontari, ha lo scopo
di rendere meno disagevoli i tempi del ricovero e delle cure;
❖ Progetto ospitalità - molte famiglie risiedono lontano dal luogo di cura, e hanno bisogno di ospitalità. I costi sarebbero insostenibili, se
l’associazione non avesse approntato una rete di 14 alloggi, concessi
in uso con modesti contributi;
❖ Progetto sostegno economico – con erogazione di sussidi mensili a famiglie in difficoltà economiche;
❖ Progetto di assistenza infermieristica domiciliare – per far fronte a
problemi relativi alla gestione delle terapie;
❖ Progetto di assistenza domiciliare – per allentare le tensioni intrafamiliari, con una presenza solidale;
❖ Progetto di assistenza scolastica domiciliare – nato per dare un appoggio didattico ai bambini costretti a lunghi periodi di assenza da
scuola.
L’elenco non comprende tutte le iniziative, poiché la tensione solidale
intorno al bambino affetto da malattia oncologica, ha fatto crescere le risorse UGI, ma anche la volontà dell’associazione di accogliere l’espressione di
nuovi bisogni. Creatività, intelligenza, sensibilità ed ottime capacità organizzative fanno il resto. Vi sono altre Associazioni che in modi diversi esprimono sostegno alle famiglie dei bambini affetti da malattie croniche, quali:
l’Associazione Bambini Cardiopatici (ABC), l’Associazione Giovani Diabetici
(AGD), l’Associazione Spina Bifida (A.SPI.B), l’Associazione Bambini Nefropatici, l’Associazione per la Lotta Contro La Fibrosi Cistica, l’Associazione
Gianni, Wendy e Michele, l’Associazione Trapiantati di Fegato, l’Associazione
Talassemici.
L’attività che queste associazioni svolgono è legata ai presidi ospedalieri
di riferimento.
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3.9 La comunicazione tra diversi soggetti
La cura al bambino è, in questi anni, migliorata, offrendogli uno «spazio»
ove esprimere le sue emozioni: l’importanza degli interventi psicologici ed
educativi è stata culturalmente riconosciuta, così come favorito è stato l’apporto dei volontari nei presidi sanitari. Nel rapporto tra chi cura e chi è curato, l’organizzazione ospedaliera ha, in qualche modo, alleviato le difficoltà
di adattamento del bambino alla nuova realtà, ma nonostante le risorse
messe in campo, rimane insufficiente e migliorabile la qualità della comunicazione tra i diversi soggetti coinvolti.
Esordio della malattia.
Normalmente è il pediatra di base che invia il bambino malato all’ospedale di 2° o di 3° livello a seconda della diagnosi. La collaborazione tra pediatra e ospedale offre la possibilità all’équipe curante di raccogliere l’anamnesi clinica, e di avere una conoscenza del malato più approfondita,
con uno «sfondo» che evita ai medici ospedalieri inutili ricerche. Attualmente questa esigenza viene soddisfatta, bene o male, dai genitori, non
sempre competenti a riguardo. Questo tipo di comunicazione ha un effetto
rassicurante sul bambino e la sua famiglia, poiché l’invio in ospedale non
viene più percepito come delega ad altri, ma come scelta consapevole sul
piano umano e professionale. Il ruolo attivo del pediatra, inoltre, assicura
un buon ritorno del bambino a casa, una volta risoltosi l’episodio morboso,
e una più serena convalescenza.
È una modalità semplice e vantaggiosa perché, implicando una interazione tra medici, produce un reciproco arricchimento professionale. Inoltre gli interessi clinici ed istituzionali coincidono con quelli del bambino
malato, rafforzando un rapporto di fiducia e sostegno che genera benessere. È efficace pure sul piano simbolico, e riesce a ridurre il disagio del bambino e dei genitori, oltre ad essere un precedente per le eventuali future occasioni di cura. Nella sostanza, i rapporti del medico con i familiari del piccolo paziente sono molto importanti: se tra famiglia e pediatra c’è un buon
rapporto, se il bambino è abituato a sentire parole di fiducia nei confronti
del medico, questo clima positivo, vissuto al domicilio o in ambulatorio,
viene trasferito sull’ospedale e permane anche nei momenti più difficili
della malattia.
In un’ottica di reciprocità, nel caso in cui si tratti di un ricovero d’urgenza, dovrà essere il personale ospedaliero a sollecitare il contributo del pediatra di base. Se la malattia è grave o cronica, e richiede cure protratte nel
tempo, la presenza in ospedale del pediatra è indispensabile.
Imminenza della dimissione
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In caso di malattia cronica o grave, dove si richiede alla famiglia un’attività terapeutica domiciliare, la mancata relazione tra ospedale e pediatra
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isola il bambino dimesso e la sua famiglia, privandoli di punti di riferimento importanti.
I medici ospedalieri svolgono la loro attività di routine tutta all’interno
del presidio, senza che venga sentita la necessità di un rapporto stretto con
l’operatore di territorio, il quale, a sua volta, in questi frangenti, assume un
comportamento passivo di attesa. Vecchi pregiudizi discriminano tra il corpo medico ospedaliero, visto come professionalmente più avanzato e specializzato, ed il pediatra, considerato medico «per tutti gli usi» e per un primo intervento. Lodevole eccezione è l’attività svolta dai neuropsichiatri infantili, i quali, per la loro formazione professionale, prestano attenzione ai
bisogni complessi del bambino e della sua famiglia.
Quando l’abitazione del bambino è distante dal presidio ospedaliero, sarebbe bene che la famiglia fosse informata delle opportunità di cura esistenti nel territorio prossimo. Dovrebbe rientrare nei doveri dell’ospedale
instaurare rapporti articolati con le varie strutture periferiche, perché non
sempre i genitori sono in grado di farlo, per realizzare in tal modo anche una
comunicazione scientificamente più corretta. La ricerca di alternative alle
cure ospedaliere, per problemi risolvibili con altre opzioni assistenziali ed in
altri contesti, produce migliore qualità di vita: sarebbe auspicabile che fosse una prassi abituale. Se la rete sanitaria diffusa non è qualificata, o tale
non viene considerata dagli utenti, questi ultimi si rivolgeranno ossessivamente all’ospedale, eletto come garante di una buona sanità a scapito delle
strutture territoriali.
Le difficoltà di comunicazione si manifestano anche nei rapporti tra
specialisti operanti nello stesso presidio, nei casi in cui il bambino malato
presenta patologie differenziate. I diversi medici non sempre si parlano, ed
il collegamento è portato avanti solo dalla famiglia.
Comunicazione e cultura della malattia
La comunicazione tra i medici ed i genitori incide sullo stile di cura familiare,mentre la distanza culturale e sociale tra operatori sanitari e pazienti
aumenta il rischio di incomprensioni. Una comunicazione imperfetta produce effetti negativi, che a volte sfuggono alla percezione dei medici, soprattutto quando non è stato dedicato tempo alla conoscenza della storia familiare. Genitori che protestano, che contravvengono le indicazioni terapeutiche, sono genitori che non sono stati accolti. La capacità di ascolto, la comunicazione colloquiale, dovrebbero diventare stili comportamentali consueti
e diffusi; la presenza dello psicologo in ospedale, nei momenti più delicati
della storia clinica del bambino, non può essere sostitutiva di una relazione
umana benevola e compassionevole. Se i sanitari assumono, nei riguardi dei
loro interlocutori, un atteggiamento altezzoso, ermetico, frettoloso, verrà minata la fiducia necessaria ai genitori per proseguire nei loro compiti. Si accentuerà la tendenza, già forte nei casi di malattia infantile, a trasferire sul
medico, quale capro espiatorio, frustrazioni e risentimenti. Così facendo, la
famiglia ritirerà sempre più la propria aspettativa benevola nei riguardi del
mondo esterno, e l’efficacia terapeutica della medicina si attenuerà.
La sofferenza di cui tener conto non è solo quella presente nella diagno-
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si medica, ma si manifesta in forme diverse che sfidano il medico nella sua
deontologia professionale. E la nostra stessa cultura della malattia e della vita. La malattia è sempre presente nel percorso di vita. Un’educazione scorretta, fondata sull’onnipotenza o sulla difesa ad oltranza del sé, porta a leggere l’evento morboso quale oltraggio ai propri diritti alla felicità. Così non
è, ovviamente. Il bambino malato è l’espressione delle complesse relazioni
che sostanziano l’essere-al-mondo. La sua sofferenza riguarda tutti, è una
sorta di insegnamento, doloroso fin che si vuole, rivolto all’ambiente prossimo. Stimola negli altri sentimenti di protezione e solidarietà, ridonando
dignità a individui che non sempre l’hanno manifestata. Il bambino colpito
dal morbo esprime la nostra fragilità, ci induce a considerare la vita come
occasione di gioia e bellezza.
Note
1. Legge 5 febbraio 1992 n. 104 – Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale
e i diritti delle persone handicappate (Gazzetta Ufficiale 17 febbraio 1992, n. 39,
S.O.).
2. Legge 15 marzo 1997, n. 59, Delega al Governo per il conferimento di funzioni e
compiti alle regioni e agli enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e
per la semplificazione amministrativa (Gazzetta Ufficiale del 17 marzo 1997, n. 63).
3. N. Pacini, I. Monaco, Rapporti con il personale medico e paramedico – La scuola in
ospedale – Modelli relazionali e organizzazione del lavoro per una scuola in
Ospedale Pediatrico, supplemento a Informazioni I.R.R.S.A.E Liguria n 9, settembre/dicembre 1988.
4. C. Moro – Progetto Torino 2000 – Ospedale Regina Margherita di Torino, Seminario
Nazionale Interdirezionale – Le nuove tecnologie nella scuola in ospedale, Genova,
aprile 1998.
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IL DISAGIO NELLA SCUOLA
4.1 Di cosa stiamo parlando?
Comunemente diciamo che il disagio è un fenomeno ampiamente diffuso e difforme di malessere, prodotto da cause diverse: sociali, culturali,
emozionali, istituzionali, familiari. «Genericamente con il termine disagio ci
si riferisce alle difficoltà che ha un soggetto ad usare le proprie capacità in
relazione conseguentemente con una certa quota di sofferenza emotiva sul
piano dei rapporti interpersonali» (Barone).
Il disagio scolastico va inteso come insieme di difficoltà relazionali e di
apprendimento, in stretta interdipendenza. Vanno abbandonate le idee dell’eccezionalità del disagio a scuola, per assumere un nuovo paradigma, che,
dato il cambiamento avvenuto di società e scuola, comprenda costanza e ricorsività. Pur essendo usata frequentemente, l’espressione «disagio scolastico» dovrebbe essere sostituita con «il disagio che si esprime a scuola»; nel
senso che difficoltà di natura diversa, che originano da problemi nella vita
di un bambino anche profondi e remoti, si esprimono e/o si acuiscono a
fronte delle richieste della nuova situazione rappresentata dalla scuola. «Più
correttamente si può dire che (il disagio che si esprime a scuola) è frutto della relazione intercorrente tra un bambino che vive un’esperienza di disagio
e l’adulto, l’insegnante, l’operatore che entra in rapporto con lui, sentendosi a disagio a sua volta» (Bucciarelli).
In relazione all’eziologia del «cosiddetto» disagio scolastico, pare applicabile anche a questo contesto un ragionamento su una serie di fattori favorenti (Scheda A):
4
❖ ascrivibili alle dinamiche del sistema sociale globalmente inteso;
❖ rilevabili nel contesto relazionale più prossimo all’individuo, nella famiglia in particolare;
❖ rintracciabili in problemi delle funzioni cognitive e strumentali e/o
della sfera affettiva e relazionale e/o in eventi imprevedibili/scatenanti;
❖ riferibili alle condizioni di funzionamento della scuola, al «clima» ed
alle relazioni interne.
In un’ottica che potremmo definire prognostica, resta fuori discussione
che la possibilità di percorrere regolarmente l’itinerario della socializzazione scolastica resta ancora il migliore, anche se non l’unico, predittore di un
vissuto indenne da rischi inaccettabili, da disagi insopportabili, da emarginazioni ingiuste o da devianze pericolose.
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Disagio, malessere, insuccesso.
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Quel che è necessario subito sottolineare è che il processo formativo oggi, a differenza che nel passato, è caratterizzato da un modello policentrico,
cioè da una molteplicità di interventi posti in atto da soggetti formativi diversi in relazione non gerarchizzata tra loro.
Con la consapevolezza «che il successo scolastico è una parte del successo formativo. […] Il primo contribuisce al secondo, non lo sostituisce»,1
si intende riproporre l’importanza di declinare insieme, per quanto riguarda l’ambito scolastico, disagio/agio/benessere e insuccesso/successo come
variabili interdipendenti fra loro, e dipendenti anche dal tipo di azione formativa che la scuola mette, o può mettere, in atto.
Disagio ed insuccesso scolastico non sono sinonimi. Certamente esiste
una stretta relazione tra agio-disagio/successo-insuccesso scolastico, se
consideriamo l’importanza del senso di appartenenza e di come questo sia
strettamente correlato con il livello di autostima dei bambini; ma l’appartenenza, la disponibilità a identificarsi e a spendersi nell’istituzione, cambiano radicalmente di intensità, a seconda che si vivano diverse situazioni di tipo affettivo, sociale e intellettivo.
Sembra addirittura banale ricordare che un bambino-ragazzo che non
sta bene, che soffre, non può imparare bene; le sue energie, la sua attenzione, saranno distratte e disturbate dallo sforzo per il controllo di sé e della situazione.
Un bambino o una bambina può sentirsi ospite indesiderato a scuola,
oppure «prigioniero», non accettato, o più semplicemente non riesce a capire gli scopi e le regole del gioco; comunque sia vivrà male l’esperienza
scolastica.
È necessario perciò capire cosa succede nel bambino/bambina, per il
fatto di essere obbligato/a ad esercitare il diritto di frequentare la scuola, e
far sì che si producano risultati positivi in termini di crescita personale e di
apprendimento, evitando che la frequenza si riduca ad un «pedaggio» da pagare per diventare grande. L’obbligo scolastico non deve produrre discriminazione negativa per chi è, in un certo senso, «costretto a sperimentare l’insuccesso». La frequenza scolastica può essere vissuta in modo più o meno
positivo o negativo, in relazione al vissuto della propria condizione, fortemente influenzato dalla percezione che il bambino ha di essere «tenuto in
conto».
Va evidenziata, ancora, la correlazione tra la percezione che il bambino
o la bambina ha dell’essere tenuto/a in conto, il grado di benessere scolastico (intendendo benessere come essere in relazione positiva con se stessi e
con gli altri) e tra queste, che potremmo considerare delle precondizioni, e
la qualità dell’apprendimento: poiché dal benessere nascono le motivazioni per capire, informarsi, investire energie ed idee nel gruppo classe, che allora diventerà non solo un aggregato di individui nello stesso spazio, ma un
riferimento per la propria crescita individuale. Nel gruppo classe, grande
importanza hanno quegli insegnanti che riescono ad avere uno «spazio nella mente» per ogni bambino e bambina, cercando di conciliare il diritto di
ciascuno alla propria formazione e la valorizzazione delle personalità individuali, con la dimensione comunitaria del fare scuola.
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Infine, una correlazione che va ancora evidenziata è quella fra disagio
scolastico e forme di insuccesso non scolastico, sul piano affettivo, familiare, sociale, ecc. Su questa base germina gran parte della devianza: se il bambino si scontra con diverse forme di insuccesso, fra le quali si stabiliscono
necessariamente relazioni, si crea un circolo vizioso in cui il suo disagio non
può che aumentare.
Gli interventi educativi e sociali svolti in un’ottica di prevenzione cercano di impedire che si verifichino queste correlazioni. Ma le diverse situazioni di tipo affettivo, sociale e intellettivo cui si è fatto cenno non si realizzano
solo in ambito scolastico, né caratterizzano esclusivamente la condizione di
scolaro: non dobbiamo dimenticare che la scuola non è «il» luogo che decide del bene e del male della vita di un bambino, che lo salva o lo annienta,
ma «una» delle opportunità a disposizione del bambino: importante, non
unica.
Da ciò il richiamo alla necessità di un impegno condiviso tra i diversi attori ed enti o agenzie educative, nella ricerca dei giusti raccordi interistituzionali.
Fattori del disagio
Lo svantaggio socio-culturale ed economico
Pressoché in tutte le scuole troviamo taluni bambini o ragazzi che vivono in famiglie, la cui situazione è caratterizzata da svantaggio socio-culturale, rispetto ad un ipotetico livello standard; vi sono realtà scolastiche inserite in territori in cui il numero delle famiglie e di bambini che vivono una situazione simile è elevato, e in cui spesso, proprio per questo motivo, il lavoro di prevenzione e contenimento del disagio ha una storia più antica e
maggiormente visibile.
Cause di tipo prevalentemente sociale e culturale influiscono sul processo di interiorizzazione della cultura, e sono alla base di carenze nella capacità linguistica e di concettualizzazione, così come nelle motivazioni allo
studio, provocando piuttosto spesso anche fattori psicologici secondari che
aggravano il quadro (frustrazione, sensi di colpa, autosvalutazione, …). In
estrema sintesi, succede che una forma di svantaggio socio-culturale, presente già all’ingresso di questi bambini a scuola, sia causa di difficoltà, che
a loro volta possono causare un accrescimento dello svantaggio stesso, e del
disagio conseguente. Si rischia così un circolo vizioso, in cui le disuguaglianze tendono spontaneamente ad aumentare nel corso degli anni della
frequenza scolastica.
Ci si riferisce soprattutto: a famiglie troppo numerose; a diversi nuclei
conviventi in situazioni di sovraffollamento; alla rottura di nuclei familiari
con assenza di una delle figure adulte di riferimento; alla presenza di patologie organiche e/o psichiche e a frequente ospedalizzazione civile o psichiatrica di un membro della famiglia; alla presenza di una madre depressa/esaurita; a scarsa o errata alimentazione; a stato di povertà economica.
Certo, oggi si parla meno di povertà in senso «classico», e più di «nuova»
povertà: «si parla di povertà assoluta, di povertà relativa, di quasi povertà, di
povertà estrema, riferendosi ad essa come ad un fenomeno multifattoriale,
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sul quale non incide solo la variabile economica, ma anche gli aspetti relazionali, l’ambiente di vita, l’istruzione, ecc.».2 Ci si riferisce quindi a persone che vivono in situazioni di fragilità e precarietà, con assenza di relazioni
sociali significative, e quindi in isolamento sociale ed affettivo. Si parla ancora di «povertà educativa», in presenza di un ambiente scarsamente sensibile alla cura del bambino, privo di stimoli.
Lo svantaggio socio-culturale fa riferimento proprio a questi ultimi temi,
in relazione con la situazione socio-economica di vita.
Problematiche emozionali
Parlare di disagio esclusivamente causato da svantaggio socio-culturale
sarebbe tuttavia limitativo. Ci sono bambini e bambine che esprimono un
disagio di tipo emozionale, che sembrerebbe provocato da squilibri, carenze, frustrazioni affettive sofferte nell’ambiente familiare. Il riferimento è alle disarmonie familiari che disturbano il processo di identificazione coi genitori; a incoerenza educativa fra un genitore e l’altro; ad un clima familiare
caratterizzato dall’aggressività; a iperprotezione del bambino, cui viene evitato il contatto con la realtà e negate anche le normali frustrazioni, incrementando i sentimenti di dipendenza e rendendo difficile ogni tentativo di
socializzazione. A genitori troppo esigenti e perfezionisti, che chiedono ai figli prestazioni sproporzionate al patrimonio intellettivo e all’età, inducendo
sentimenti di colpa ed inferiorità negativi in ambito scolastico.
In queste situazioni i bambini esprimono difficoltà a convivere con compagni ed adulti, ad accettare un minimo di regole di convivenza. Emergono
forme di isolamento e/o aggressività, cambiamenti improvvisi di umore, ecc.
Difficoltà ad apprendere
Un disagio che potremmo definire cognitivo, è tipico di quei bambini
che incontrano soprattutto difficoltà nell’apprendimento.
❖ Ci sono bambini con piccoli danni a carico del sistema nervoso, in
cui vi è una maturazione cerebrale disarmonica, che si traduce in difficoltà di apprendimento in particolari settori; per questi bambini
esistono non pochi problemi di individuazione e diagnosi, prima ancora che di intervento; dovrà essere messo in campo, in un indispensabile lavoro interdisciplinare, anche un forte impegno di professionalità specialistiche di tipo neuropsichiatrico e psicologico.
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❖ Ci sono bambini con un disturbo funzionale dell’apprendimento. «Si
tratta di bambini intelligenti, che spesso hanno avuto separazioni
frequenti e precoci dalla famiglia e che all’entrata nella scuola materna, elementare e media, presentano delle notevoli difficoltà ad apprendere il linguaggio parlato, scritto, letto, ed il calcolo aritmetico.
Possono apparire ben adattati alla vita sociale, anche se spesso sono
definiti timidi o turbolenti, inibiti o aggressivi, sempre comunque in
seria difficoltà per un buon inserimento scolastico … Sono quegli
alunni che non presentano dei seri disturbi psicopatologici, né problemi socio-economici-culturali importanti, ma piuttosto un disturbo funzionale, senza lesioni organiche evidenziabili».3
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❖ Ci sono bambini che incontrano «troppe» difficoltà ad apprendere,
più direttamente connesse con l’organizzazione dei saperi proposta
dalla scuola. Il linguaggio e gli strumenti utilizzati in essa sono scarsamente adeguati ai cambiamenti di talune strutture del pensiero infantile odierno, la disabitudine all’uso di risorse logiche base dell’argomentazione, ecc.
Rispetto all’apprendimento, il confine fra «difficoltà» e «patologia» in alcuni casi è molto incerto, labile, aleatorio, discutibile e discusso; ma si è fatta strada l’idea della pericolosità di una sanitarizzazione del problema nella
scuola. È ormai universalmente accettata una logica che non legge più le
difficoltà o diversità come incompatibili con la vita della scuola e/o come
carenze o disturbi da curare, sicché si possono aiutare gli alunni in difficoltà
senza concepirli necessariamente come «malati».
Essere bambini stranieri
Si è quasi costretti a trattare separatamente il possibile disagio dei bambini stranieri, figli di emigrati da paesi poveri extracomunitari, che si trovano
a fare i conti con problemi che possono originare dalla somma di diversità
con i loro coetanei, legate ad aspetti culturali, etnici, linguistici, religiosi.
«Le trasformazioni che stanno interessando i flussi migratori degli ultimi
anni, in particolare la crescente incidenza dei ricongiungimenti familiari e
la progressiva stabilizzazione dei nuclei immigrati in Italia, influiscono significativamente sulla presenza dei minori stranieri nel nostro Paese e, in
special modo, nelle scuole italiane. Esiste un ampio consenso nel ritenere
che la scuola rappresenti il primo e il principale canale d’inserimento dei
minori immigrati nel Paese ospitante e quindi rivesta il ruolo di ambito importante di confronto/incontro tra culture diverse, oltre che di luogo destinato alla trasmissione e alla costruzione di modelli culturali. …potendo inserire anche i minori irregolari, la scuola diviene un ambito privilegiato di
osservazione del fenomeno migratorio legato alle fasce più giovani, poiché
dà visibilità anche a coloro che non sono registrati ufficialmente».4
Questi alunni che tipo di situazioni di disagio vivono? La loro presenza,
e la multiculturalità che si crea di fatto nelle scuole, rappresenta anche una
risorsa, un’opportunità, o è soprattutto un problema? Il problema evidenziato dalla presenza di alunni stranieri è come nella scuola si possono garantire pari opportunità educative a tutti i bambini e le bambine.
Anche la scuola in Italia si confronta con il fatto che l’aumento della
presenza infantile straniera, a differenza che in altri Paesi europei, è stato
solo recentemente massiccio, ed ha riguardato bambini provenienti da
aree del mondo molto diverse, e lontane fra loro sia geograficamente sia
culturalmente. Soprattutto nella scuola di base, diverse culture entrano in
contatto e si confrontano su aspetti intimi, quali i problemi relativi all’accudimento e all’educazione dei bambini; aspetti importanti per l’identità
di ciascuno e di ciascun gruppo, delicati sul piano emotivo, che chiamano
in causa le diverse interpretazioni del ruolo genitoriale e le rappresentazioni dell’infanzia.
Rispetto ai bambini arrivati nel nostro Paese da poco, si può osservare
una differenza significativa, a seconda che abbiano già alle spalle un’espe-
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rienza di scolarizzazione nel loro Paese d’origine o in un’altra nazione, o no.
Nel primo caso, incontrano minori problemi nell’integrazione scolastica;
nel secondo l’indispensabile alfabetizzazione e l’insegnamento della lingua
italiana come seconda lingua devono ancor più fare i conti con la necessità
di un’accoglienza globale e un’attenta cura degli aspetti affettivi.
La necessità, comune peraltro a tutti i bambini e le bambine, di trovare
nella scuola un posto «caldo», affettivamente valido, che fornisce concreti
appigli di realizzazione e valorizzazione umana e culturale, non è ostacolata solo da difficoltà linguistiche. Al nostro livello di ragionamento, l’apprendimento della lingua italiana può assumere una particolare problematicità,
per esempio quando il bambino si trova ad essere eccessivamente responsabilizzato con improprie richieste di diventare un facilitatore di relazioni,
su problemi la cui mediazione, più che linguistica, è culturale in senso lato.
Sempre a livello di insegnamento della lingua italiana, un tema emergente
che riguarda tutti, pur essendo nel caso specifico più accentuato, è la motivazione alla comunicazione, cioè sapere «cosa, perché e a chi comunicare».
Per i genitori dei bambini stranieri i problemi non si limitano all’ambito
linguistico; spesso si pongono con maggior forza problemi che attengono
alla costruzione dell’identità, che è strettamente intrecciata con il senso di
appartenenza: bambini stranieri che vogliono a tutti i costi essere italiani,
genitori che si sentono integrati come stranieri in Italia, e faticano ad accettare che i figli non si sentano per nulla stranieri. Ci sono genitori che incontrano difficoltà a fornire adeguato sostegno ai figli, rispetto a situazioni nuove in un universo sociale differente da quello ben conosciuto del paese di
provenienza. È ancora alto il numero di genitori immigrati che non hanno
alle spalle un’esperienza scolastica, e anche per questo si trovano a corto di
opzioni da confrontare e proporre alla scelta dei figli, sentendo così la propria storia personale troppo lontana e scarsamente utile a sostegno alla loro genitorialità.
La situazione delle madri spesso è particolarmente difficile: le mamme
non lavoratrici vivono condizioni di isolamento non dissimili da quelle italiane, aggravate dalla debolezza o assenza di reti sociali parentali e comunitarie inclusive e protettive; le madri lavoratrici non possono, per esempio,
fare ricorso alle nonne, una delle soluzioni più praticate anche dalle colleghe italiane.
Un altro tema fondamentale nella riflessione sulla qualità del sistema
scuola, riproposto dalla presenza di alunni stranieri, è quello della condivisione educativa fra famiglie e istituzione. Si può far riferimento alle diversità di quadri normativo-valoriali, che sono importantissimi per tutto il
quadro del funzionamento mentale e delle performance di ciascun individuo. Tutto ciò assume una grande importanza, perché nella comunicazione interculturale è fondamentale non dimenticare che ci sono regole e modalità diverse, oltre che diversi strumenti: ci si confronta con «parole», si dà
un nome alle cose del mondo e si «mette in parola» il proprio vissuto in modo differente. Si devono tenere presenti questi problemi, se si vuole che le
scuole rappresentino «luoghi in cui possono crearsi legami positivi con la
comunità locale e con l’amministrazione pubblica, in cui si possono fare
esperienze di partecipazione sociale, luoghi in cui il confronto fra culture è
posto in risalto». 5
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La famiglia è centrale, sempre
Il disagio scolastico dei bambini è parte ed allo stesso tempo concausa
di un più ampio disagio formativo, per la comprensione del quale non si
può prescindere dalle diverse tipologie di famiglia che si muovono nello scenario sociale.
A proposito del disagio nei contesti familiari, il Rapporto 2000 sull’emarginazione e l’esclusione sociale6 parla di «una fenomenologia del disagio familiare che tende a svilupparsi lungo due direttrici parallele:
❖ da un lato, la tendenza al progressivo coinvolgimento in situazioni di
emarginazione e sofferenza di famiglie socialmente inserite, formalmente coese, ma che manifestano al loro interno situazioni di lacerazione e di disagio intergenerazionale. (…)
❖ d’altra parte situazioni di disagio in famiglie caratterizzate dalla permanenza di forme tradizionali di povertà e contemporaneamente segnate da lacerazioni …», sempre più multiproblematiche.
Soprattutto fra queste ultime famiglie e le istituzioni emerge molto
spesso un’interazione disturbata. Vediamo rapporti strumentali, nel senso
che istituzioni e/o servizi vengono avvicinati solo per obbligo, o per risposte immediate a situazioni di bisogno; scarsa discriminazione, nel senso
che il giudizio dipende esclusivamente dal grado di soddisfacimento della
richiesta presentata; eccessiva personalizzazione, con l’identificare l’intera
istituzione o servizio con il singolo operatore, percepito come detentore
unico del potere decisionale. Inoltre il peso esercitato dalle culture familiari è sempre rilevante. Queste si possono rappresentare come un vero e proprio «patrimonio culturale» che «continuerebbe, nonostante tutte le politiche sociali realizzate, a operare da forte discrimine tra gli alunni, indirizzandone modelli di socializzazione e definendone le capacità effettive di
apprendimento. … Vi è la possibilità concreta che, davanti ai mutamenti
profondi indotti dalla diffusione delle nuove tecnologie, i patrimoni culturali a disposizione dei singoli bambini e ragazzi contribuiranno ad approfondire le disuguaglianze (…)».7
Accenneremo solo ad alcuni di questi cambiamenti che, essendo trasversali, attraversano i diversi tipi di famiglia. Questi non rappresentano, di
per sé, fattori di rischio che si cumulano ed interagiscono fra loro, ma possono essere anche fattori di opportunità, a seconda di come si declinano
nella concreta esperienza familiare ed in relazione con il territorio.
Le famiglie sono cambiate, per composizione e dimensioni. Alle famiglie
mononucleari si affianca una crescente e diversificata minoranza di famiglie
«post-nucleari»: un solo genitore, più spesso la madre; uno dei partner non
genitore, che può avere altri figli; diversi nuclei familiari provvisoriamente
conviventi; «moltiplicazione» dei nonni; nonni conviventi per periodo prefissati; parenti che suppliscono alle carenze di genitori inadeguati, ecc.
Soprattutto per le mutate condizioni delle donne, non riconducibili solo
alle nuove realtà lavorative, è aumentato il numero di madri che lavorano
fuori casa, che generano ad un’età più avanzata il primo figlio, il quale spesso rimane unico; diminuite le situazioni familiari in cui a prendersi cura dei
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figli troviamo altri parenti conviventi. Ovviamente il fenomeno dell’innalzamento dell’età, così come quello della scelta del figlio unico riguarda anche
i padri; anche nelle famiglie «tradizionali», talvolta, fratelli o sorelle nati in
diverse epoche di vita dei genitori assumono connotazioni da figli unici.
Tutto ciò spiega la diffusione della genitorialità come scelta fondamentalmente culturale, basata su processi di autorealizzazione degli adulti.
L’opzione della genitorialità è diventata solo una delle possibilità, sia pure
importante, per gli uomini e le donne. Ci troviamo di fronte a genitori abituati a rivendicare la propria realizzazione attraverso il lavoro e la produzione; che, quando si sentono «finalmente arrivati», generano figli ai quali non
lasciano posto e per i quali non prevedono un futuro migliore (e non investono quindi molto).
Nei confronti del proprio bambino prevale soprattutto un sentimento di
proprietà autorealizzativa, in cui lo «stare molto» e il «fare molte cose» con
lui serve innanzitutto a rinforzare la propria autostima personale di «bravo
genitore». Spesso questo stesso genitore ricerca soluzioni alimentando il
mercato di specialisti, consulenti, psicologi, riviste, enciclopedie.
In questo clima, è facile che si deprimano le «sane» spinte alla ribellione,
indispensabili per crescere staccandosi dalla famiglia. A complicare le cose,
molti di questi genitori si trovano schiacciati in una relazione che li vede ancora figli di nonni giovanili, se non giovani, e/o bisognosi di attenzioni e cure. In una dimensione fluttuante, dove vi è confusione e scarsa chiarezza su
ruolo, funzione e compiti dei genitori, è facile che si assista ad un affievolimento della loro autorevolezza. Gli adulti, sempre più amici e fratelli maggiori, per non essere autoritari e impositivi non offrono ai loro bambini motivazioni forti ed il gusto dell’impegno, contribuendo a farli diventare incerti e demotivati. «È paradossale, ma una confusione esagerata tra compiti impegni e risultati determina non tanto un «rilassamento» nelle azioni, ma
una «demotivazione confusa negli obiettivi» che fa correre rischi per lo sviluppo psicologico e sociale dei bambini. Se accompagniamo questo aspetto
al fatto autoidentificatorio di una più massiccia presenza psicologica adulta
nelle motivazioni del bambino (con una presenza forte di cose da fare in comune) e un bambinismo adulto, ecco apparire un bambino meno divergente di quanto vorremmo. Sì, certo: meno divergente, meno cioè coraggioso
nelle proprie azioni ma più portato a gratificare l’adulto o all’acquisizione
passiva di modelli preconfezionati.».8
Scheda A – Il disagio scolastico: manifestazioni e indicatori
Principali manifestazioni
• basso livello delle prestazioni, eccessiva eterogeneità dei livelli di apprendimento, insuccesso scolastico non dovuto a deficit;
• isolamento, solitudine, lontananza e scarsa capacità di instaurare positivi
rapporti con i compagni e con l’insegnante;
• fobia scolare, pianto, ansia, fuga;
• aggressività, bullismo, vandalismo, mini delinquenza;
• rifiuto e/o disturbo delle attività, noia, iperattività;
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• scarsità di attenzione, concentrazione, impegno, motivazione, aspettative;
• precari livelli di autostima, di speranza e proiezione positiva nel futuro (vedersi adulti);
• debole autonomia individuale rispetto allo svolgimento di semplici attività;
• difficoltà a raggiungere processi di astrazione;
• problemi di memorizzazione, stentata assimilazione degli apprendimenti e
difficoltà a trasferirli in ambiti diversi;
• ritardi, frequenze irregolari, abbandono.
Principali indicatori
• Indicatori ambientali: socio – economici, di disaggregazione sociale, di carattere culturale, problematiche familiari;
• Indicatori personali generali: di tipo emotivo e relazionale, di tipo intellettivo, di tipo comportamentale, relativi al corpo, di cura;
• Indicatori personali scolastici: attenzione e concentrazione, motivazione ad
apprendere, autonomia, relazionalità sociale e comunicazione, livello degli
apprendimenti e delle competenze, frequenza;
• Indicatori a carico della scuola, che riguardano gli insegnanti: il sistema di
valutazione, le disparità di trattamento, il carico di lavoro (compresi i compiti a casa), la preparazione sul piano educativo e culturale e le metodologie didattiche;
• le strutture: l’ubicazione della scuola, le barriere architettoniche, la strutturazione dell’orario scolastico, l’organizzazione interna (scadenze varie, iscrizioni, livello della comunicazione formale: orari di colloquio, accesso e modalità);
• le relazioni: le violenze fra coetanei, il livello della comunicazione informale,
le violenze degli insegnanti e degli operatori verso bambini e genitori.
4.2 Di chi stiamo parlando?
Attualmente non sembrano disponibili sul territorio locale ricerche estese e/o confrontabili, che incrocino dati riferiti ai diversi tipi di indicatori a
cui ci si è precedentemente riferiti. Alcune scuole hanno cercato di colmare
questa lacuna con ricerche autonome o in collaborazione con agenzie diverse.
Confronti da una ricerca romana
Da una recente ricerca condotta a Roma, che secondo gli autori può ben
rappresentare la realtà di tutta Italia, emerge che il 36% dei bambini, quasi
4 scolari su 10, presenta un disagio a scuola.9 Il dato disaggregato rivela che
per il 10% circa il disagio si deve a difficoltà di apprendimento, per il 15% a
difficoltà ad instaurare un rapporto con i compagni; nel 6% il disagio si ri-
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vela nell’ansia da inserimento, che si manifesta anche con vere e proprie fobie scolastiche, nel rimanente 5% il disagio risiede nella noia, nell’accettare
la scuola con un senso di fastidio.
La ricerca tenta di individuare le responsabilità di questo disagio, che ritrova nel 70% dei casi nella famiglia e nel 30% all’interno della scuola. Per
quanto riguarda la famiglia, vengono evidenziate particolari responsabilità
in comportamenti di genitori troppo presenti o troppo assenti, che distorcono la relazione del figlio con la scuola, e sovrastimano i figli, riversando su
di loro aspettative eccessivamente elevate.
Le responsabilità della scuola andrebbero equamente divise tra gli insegnanti e la scuola come istituzione. Gli insegnanti si sentono oberati da eccessivi carichi di responsabilità (si richiede loro di essere un po’ tutto: educatori, psicologi, assistenti sociali, sorveglianti), con scarsi spazi per la comunicazione fra colleghi e con i genitori degli alunni, scarsa conoscenza
delle dinamiche di gruppo e conseguente difficoltà nella gestione del gruppo-classe, pochi momenti di autoanalisi e verifica. È la scuola dove regna
l’episodicità, che permette a buone progettualità (con punte di eccellenza)
di convivere con una quotidianità spesso non attrezzata a farsi carico dei
bambini, per un numero di ore, giorni ed anni così elevato e importante.
Dati raccolti a livello locale
Un’indagine analoga, condotta nell’anno 1997 nelle scuole materne ed
elementari di una Direzione Didattica della periferia nord-ovest di Torino,
raccoglieva i seguenti dati.10
Facendo riferimento agli indicatori elencati in precedenza, si è evidenziato che il 18,3% di alunni vivevano in famiglie problematiche (genitori separati, mancanza di un genitore, affidamento ai nonni o in comunità), il
15% erano figli unici, mentre il 7,9% vivevano in famiglie con più di 3 figli;
nel 5,3% dei casi si rilevava la convivenza fra diversi nuclei familiari. Non
trascurabile la presenza di famiglie che vivevano al loro interno esperienze
quali l’uso di droghe o il carcere (6,1%), difficoltà economiche (13,8%), una
situazione lavorativa instabile o la disoccupazione dei genitori (10,3%).
Infine, nel 4,2% dei casi, erano ancora presenti genitori analfabeti.
Rispetto al secondo gruppo di indicatori, i docenti indicavano, nelle
scuole elementari, che il 15% di bambini manifestava situazioni scolastiche
particolarmente problematiche, con prevalenza degli aspetti emotivo-comportamentali; il 4,2 % avevano una evidente scarsa cura dell’igiene personale e il 5,6% presentava vistosi problemi nel rapporto peso/altezza.
96
Rispetto al terzo gruppo di indicatori si rilevava che il 24,1% dei bambini manifestava problemi di attenzione, il 6,9% comportamento motorio
scomposto, il 12,2% metteva in atto azioni ripetute di disturbo. Per l’8,8%
degli studenti si notava una generale mancanza di autonomia, per il 7,9% atteggiamenti aggressivi, per l’8,2% atteggiamenti rinunciatari, per il 13,3%
problemi di linguaggio. Complessivamente, il 17% degli alunni aveva notevoli problemi di apprendimento scolastico. Il 6,1% degli alunni aveva una
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frequenza scolastica discontinua. Infine veniva sottolineata la scarsa partecipazione dei genitori alla vita scolastica dei figli.
In questa ricerca si sono utilizzati dati forniti dagli insegnanti, con notevole fiducia nelle loro capacità di cogliere elementi significativi di disagio
quali fattori di rischio educativo. La prevalenza delle percezioni dei docenti
rispetto alla problematica del disagio dei bambini a scuola, non è di per sé
un tratto negativo. Bisogna infatti considerare che gli insegnanti «vivono» le
classi per come le descrivono: le percezioni e le rappresentazioni che hanno
della realtà, pur non corrispondendo sempre e necessariamente alla «oggettività», contribuiscono in modo significativo alla sua costruzione, e condizionano i loro comportamenti, l’atteggiamento complessivo della scuola, le
stesse performance degli alunni.
Ulteriori elementi di indagine
Altri elementi utili, sul modo di condurre la propria vita e quella scolastica in particolare, di bambini e bambine torinesi, si possono ricavare all’interno di due ricerche condotte nelle scuole elementari e medie inferiori
del territorio della Circoscrizione n. 5 di Torino. Queste ricerche11 sono state alla base del lavoro di un gruppo che ha prodotto anche proposte e materiali di intervento per un’azione pedagogico-didattica di prevenzione della violenza fra coetanei nella scuola.
Nelle scuole elementari vennero intervistati, mediante questionario
anonimo, 584 bambini e bambine delle classi quarte e quinte. Quasi il 96%
di questi alunni aveva un buon rapporto con i genitori (il 76,5% dichiarava
di andare «molto» d’accordo con il papà ed il 76,9% con la mamma). Fra le
cose che piacevano meno della propria famiglia era indicato il «non poter
fare quello che voglio» nel 26,7% delle risposte, «i litigi con i miei fratelli e sorelle» nel 38,7%, «i litigi tra gli adulti» nel 27,9%, «le punizioni che mi danno»
nel 14,2%, altro nel 7,4%, «non poter confidarmi, parlare» nel 4,2% e «la
mancanza di affetto» nel 2,4% delle risposte.
L’esperienza scolastica era vissuta in maniera piuttosto positiva, salvo
che da una minoranza peraltro consistente. Alla domanda: «Venire a scuola
ti piace?», il 40,3% ragazzi rispose «molto», il 45,7% «abbastanza», mentre al
14% l’esperienza piaceva «poco» o «nulla».
Alcune domande facevano emergere orientamenti, che evidenziavano
l’importanza degli aspetti relazionali, sia di tipo orizzontale (tra compagni)
sia di tipo verticale (tra alunni e insegnanti). Alla domanda: «Cosa ti piace di
più della tua scuola?» le risposte furono: «Stare con gli amici» (30,5%), «Le
cose che si imparano» (25,3%), «Le attività diverse» (24,8%), «La gentilezza e
l’amicizia delle maestre» (17,4%), altro (1,9%). Le risposte alla correlata domanda: «Cosa ti piace di meno della tua scuola?», sono state: «Dover stare
tanto tempo fermo e attento» (28,4%), «Il comportamento dei compagni»
(26,2%), «I compiti e lo studio troppo difficili» (20,9%), «La severità delle
maestre o dei maestri» (14,7), altro (9,8%).
Un ulteriore conferma veniva dal fatto che il 91,9% dei/delle bambini/bambine andava d’accordo con i compagni («molto» 44,2%, «abbastan-
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za» 47,7%) e che l’89% dichiarava che diversi compagni erano «veramente
amici» (60,6% «tanti», 28,4% «due o tre», solo 1,8% «nessuno»). Infine al
85,8% piaceva abitare nel proprio quartiere («molto» al 53,2%, «abbastanza» al 32,6%).
Nelle scuole medie inferiori, una precedente analoga ricerca aveva
coinvolto 1414 studenti di tutte le classi di cinque scuole. L’88,4% degli studenti vivevano con entrambi i genitori, ed i rapporti con loro apparivano
piuttosto buoni (il 62,3% li definiva «molto buoni» con il padre ed il 72%
con la madre). Ciò che piaceva di più della propria famiglia era, per il
42,4%, «l’affetto che mi danno» e per il 25,3% «la fiducia che hanno in me»;
quello che piaceva di meno erano «le punizioni» per il 35,1%, «i litigi fra gli
adulti» per il 31,8%, mentre di «mancanza di libertà» si lamentava il 14,3%
degli studenti.
Andare a scuola piaceva abbastanza alla maggioranza degli studenti
(59,7%) e molto al 12,2%, ma erano ben il 28,1% coloro a cui piaceva poco o
per nulla. I motivi per cui la scuola piaceva erano soprattutto «perché ci si
trova con gli amici» (39,2%) e «per le attività diverse dallo studio che vi si svolgono» (22,7%). Ciò che, invece, piaceva di meno della scuola erano «le difficoltà nello studio» per il 29,5% degli studenti, «gli atteggiamenti dei compagni» (21,3%), «la severità dei professori» (20,4%). I rapporti con i compagni
erano molto significativi: praticamente tutti (96,3%) affermavano di avere
rapporti «molto» o «abbastanza» buoni con i compagni di scuola; il 50,2% degli studenti aveva i migliori amici a scuola; seguivano a distanza notevole i
fratelli e i cugini (16,7%). Il 52,9% apprezzava il gruppo di amici, soprattutto
«perché si gioca e ci si diverte insieme», il 24,2% «per l’aiuto che può offrire».
In sintesi, anche qui sembrava molto apprezzato e gradito il ruolo e lo
spazio di socializzazione offerti dalla scuola, decisamente meno il suo ruolo istituzionale di istruzione e formazione.
Questi ragazzi sembravano avere una buona immagine di sé, anche dal
punto di vista scolastico; la cosa che piaceva di meno di sé era rappresentata dalle difficoltà nello studio (33,4% degli studenti) e dall’aspetto fisico
(29,4%). In generale si dichiaravano contenti del quartiere dove abitavano
(88,2%), soprattutto per la presenza degli amici (60%).
Emerge, in sostanza, l’immagine di un bambino o una bambina «normale», o almeno che così si percepisce, relativamente soddisfatto/a di come
è, della vita che conduce e delle relazioni che intesse, relazioni per le quali il
contesto scolastico si rivela importantissimo.
Eppure, non pochi di questi ragazzi e ragazze/bambini e bambine (quasi 4 su 10 nella scuola elementare secondo la ricerca romana, ma le cose non
variano molto analizzando i dati della ricerca di Torino nord-ovest) vivono e
manifestano, anche a scuola, situazioni di disagio, che talvolta a causa della
scuola stessa si acuiscono.
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4.3 Ciò che preoccupa
Bullismo: la violenza fra coetanei
Fra le manifestazioni di disagio che maggiormente preoccupano tutti gli
adulti ma anche i bambini, spicca negli ultimi anni il fenomeno del «bullismo» nella scuola. Ne è testimonianza l’aumento di ricerche, analisi, saggi e
la crescente richiesta di formazione specifica da parte del personale. D’altra
parte studi nazionali ed europei sembrano rilevare un aumento ed una diversificazione del fenomeno della violenza fra minori, in particolare nelle
scuole.
È soprattutto l’enfasi dei mass-media che fa considerare il bullismo come un fenomeno in crescita smisurata, o addirittura nuovo, mentre sarebbe
più ragionevole pensare ad un aumento di visibilità del fenomeno, favorita
dall’interesse per il tema della violenza ai bambini, e dal diffondersi di modelli di relazione adulto-bambino maggiormente basati sul dialogo, con una
maggiore attenzione ai diritti individuali ed alla loro tutela.
Scheda B – Il bullismo: definizioni
Un inquadramento del problema ce lo fornisce lo psicologo norvegese Dan
Olweus, forse lo studioso maggiormente conosciuto: «Uno studente è oggetto
di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato e vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da
parte di uno o più compagni. Un’azione viene definita offensiva quando una
persona la infligge intenzionalmente o arreca un danno o un disagio a un’altra.
Tali azioni negative o «prepotenze» possono essere compiute attraverso: 1)
contatto fisico (percosse di varia natura e intensità), 2) parole ingiuriose o gesti offensivi, 3) allontanamento o esclusione dal gruppo». Per poter parlare di
bullismo deve anche esserci «uno squilibrio di forze, ossia una relazione di potere asimmetrica, per la quale il ragazzo esposto ai tormenti evidenzia difficoltà nel difendersi».12 Olweus distingue tra i bulli il tipo «aggressivo» e quello
«passivo» (che partecipa ma abitualmente non prende iniziative), e tra le vittime il tipo «passivo-sottomesso» e quello «provocatore».
Sharp e Smith ci forniscono questa definizione: «Un comportamento da «bullo» è un tipo di azione che mira deliberatamente a ferire: spesso è persistente,
talvolta dura per settimane, mesi e persino anni ed è difficile per coloro che ne
sono vittime difendersi. Alla base della maggior parte dei comportamenti sopraffattori c’è un abuso di potere e un desiderio di intimidire e dominare. (…)
Il bullismo assume forme differenti: fisiche, verbali, indirette. Le vittime dei
bulli hanno vita difficile, possono sentirsi oltraggiate, possono provare il desiderio di non andare a scuola. Nel corso del tempo è probabile che perdano sicurezza e autostima, rimproverandosi di «attirare» le prepotenze dei loro compagni. Questo disagio può influire sulla loro concentrazione e sul loro apprendimento».13
A. Fonzi nel presentare una ricerca svolta in diverse regioni italiane scrive: «…
Con il termine bullismo si intende riunire in un’unica categoria sia gli aggressori che le vittime (…) intenzionalità, persistenza e disequilibrio sono gli elementi che caratterizzano il fenomeno del bullismo; i primi due sono a carico
segue
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di colui che compie l’azione, il terzo distintivo della situazione nella sua globalità (…). Ci si riferisce (…) ad un processo dinamico in cui persecutori e vittime sono entrambi coinvolti (…) in definitiva, entrambi gli attori di quel complesso dramma chiamato bullismo, risultano «sgrammaticati» in una competenza sociale fondamentale, quella che permette di cogliere i segnali emotivi
che provengono dagli altri».14
100
A Torino è stata condotta sul bullismo una ricerca in diverse scuole medie, coordinata da F. Prina, che scrive: «Parlando di bullismo intendiamo riferirci a comportamenti di tipo offensivo, provocatorio, prevaricatorio, intimidatorio, ricattatorio, aggressivo, violento, che si concretizzano in azioni –
episodiche o reiterate – quali percosse, maltrattamenti, minacce, insulti,
umiliazioni, molestie e abusi sessuali, furti, estorsioni, esclusione dal gruppo, che connotano relazioni caratterizzate da aggressività, prepotenza,
mancanza di rispetto per le sensibilità, la dignità, i diritti altrui, che si sviluppano in situazioni in cui sono presenti, in qualità di attori della relazione, singoli o gruppi di “aggressori”, singole o gruppi di “vittime”, singoli o
gruppi di “osservatori”».15
È utile accennare, anche solo brevemente, ad alcuni fattori favorenti l’insorgere del bullismo, invitando innanzitutto alla cautela, per non cadere in
trappole di semplificazione e di stereotipia, in particolare per quanto riguarda i fattori ascrivibili alle dinamiche del sistema sociale globalmente inteso.
Alcuni di questi fattori favorenti si possono individuare nel contesto relazionale più prossimo ai bambini/ragazzi di cui ci occupiamo (quartiere,
famiglia, ecc.): fenomeni di disgregazione sociale, vicinanza di situazioni in
cui l’esercizio della violenza è comune, assenza di opportunità di certi
quartieri, hanno un peso notevole, soprattutto se si combinano con un certo clima relazionale esistente in famiglia, e con talune modalità educative
adottate dai genitori. Per esempio, un atteggiamento negativo, rifiutante,
direttivo e disconfermante, magari associato a punizioni fisiche, può provocare forti tendenze aggressive e ostilità nel figlio; uno ostile e aggressivo
può fungere da modello per il bambino; un’educazione trascurata, incoerente, con relazioni genitori-figli carenti, ostacola lo sviluppo di meccanismi di regolazione interna dell’aggressione; sempre «… la reazione dei genitori di fronte al comportamento aggressivo assume una posizione cruciale...» (Fonzi, op.cit.).
Per quanto riguarda le condizioni di funzionamento della scuola, il «clima» e le relazioni interne, per il bullismo sono confermate connessioni con
il tipo di relazioni interpersonali tra gli alunni della classe e con gli insegnanti. Particolare peso possono avere un’istituzione rigida, o, al contrario
lassista, dove si percepisca un’assenza di impegno in direzione del rispetto
delle regole; la possibile insoddisfazione per l’esperienza scolastica, nei casi d’insuccesso, fortemente legata alla qualità dell’intero processo di insegnamento-apprendimento; l’atteggiamento degli insegnanti, e di tutti gli
adulti della scuola, in particolare nei confronti dei conflitti e delle possibilità e modalità di risoluzione. Si deve considerare che «la presenza di soggetti in cui si sia strutturata una propensione psicologica all’aggressività o,
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all’opposto, alla remissività, non necessariamente determina il prodursi di
episodi di violenza o l’instaurarsi di relazioni stabili connotate da prevaricazione» (Prina, op.cit.).
Tra i fattori scatenanti, particolare attenzione si può porre alle dinamiche «offesa/reazione»: nella scuola non è infrequente che nel rapporto tra
alunni e tra insegnanti-alunni vi siano diversi tipi di offesa che provocano
reazioni violente (l’offesa alla dignità, l’essere paragonato ad altri che hanno creato problemi, il ricevere una punizione ingiusta, l’assenza di considerazione da parte degli altri e soprattutto dell’insegnante, ecc.). Si possono
avere perciò delle reazioni violente, che si dirigono verso vittime «designate», che fungono da «capro espiatorio».
Ancora è utile distinguere tra un bullismo diretto, caratterizzato da attacchi evidenti nei confronti di una vittima, e bullismo indiretto, che si manifesta soprattutto con l’isolamento e l’esclusione dal gruppo. Il bullismo è
anche un fenomeno di gruppo. Si possono verificare forme di «contagio sociale» verso ragazzi più insicuri; nel gruppo può esserci un indebolimento
del controllo e dell’inibizione nei confronti delle tendenze aggressive, soprattutto se il comportamento violento è «oggettivamente premiato». Nell’ambito scolastico, di frequente i gruppi sono relativamente ristretti e scarsamente organizzati, e mettono in atto comportamenti aggressivi contro individui che, per qualche motivo, sono considerati diversi (straniero, handicappato, debole, grasso, ecc.).
E gli adulti? «…Si ha l’impressione che [gli adulti] acquisiscano consapevolezza del fenomeno in questione quando questo ha già raggiunto evidenze eclatanti o quando le vittime abbiano corso concreti e ripetuti rischi di
danneggiamento fisico e psicologico. O quando sono gli stessi adulti a fare
le spese delle prepotenze agite dai ragazzi». (Prina op.cit.)
A seconda del modo in cui gli adulti reagiscono, essi corrono il rischio di
favorire reazioni a catena, del tipo: offesa –> provocazione –> punizione –>
nuova provocazione –> nuova punizione –>ulteriore provocazione –> punizione formale (spesso espulsione), ecc. A tutto ciò si accompagna, o a causa
di ciò si determina, un processo di stigmatizzazione, che fissa l’identità del
bambino/ragazzo in termini negativi, attaccando la sua immagine di sé e la
sua autostima, con una sclerotizzazione delle relazioni tra il bambino ed il
contesto, dove il circolo vizioso tenderà a ripetersi e ad ingigantirsi, in una
spirale che potrà sembrare ben presto inarrestabile.
Che si tratti della vittima, del bullo o dei compagni, tutti avranno dei
danni da un clima di forte conflittualità e di tensione: «l’esposizione a modelli di comportamento e a stimoli aggressivi provoca in primo luogo un apprendimento, che conduce alla ripetizione dei comportamenti osservati.
Questo apprendimento impedisce a sua volta la rielaborazione di strategie
più evolute e più complesse di risoluzione delle situazioni conflittuali, quali sono le strategie cooperative e prosociali».16
Quantità e qualità della violenza nella scuola
Una ricerca condotta su 1258 soggetti, maschi e femmine, di scuola elementare e scuola media inferiore del Piemonte e Valle d’Aosta, dalla terza
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classe elementare alla terza classe media, rivela che la percentuale di bambini e bambine che hanno subito prepotenze «qualche volta o più» in un periodo di tre mesi è più elevata nelle scuole elementari (35%) che non nelle
scuole medie (18%); in percentuale quasi identica fra maschi e femmine
nella scuola elementare, mentre nella scuola media i maschi sono colpiti
maggiormente (il 19,2% contro il 16,5%). La percentuale di bambini e bambine che si dichiara responsabile di prepotenze ai danni dei compagni, con
la medesima frequenza e nello stesso arco temporale, è piuttosto elevata e
vede prevalere i maschi della scuola elementare (30% contro il 25% di femmine) in prevalenza abitanti nelle periferie cittadine. Inoltre si nota un abbassamento numerico nella scuola media, dove abbiamo il 22% di responsabili maschi e il 10% femmine.
La violenza fisica è la modalità più frequente solo per i maschi alla scuola elementare, per le altre età e per le femmine la modalità più frequente è
l’offesa verbale. Questo andamento risulta più lineare nelle realtà cittadine.
La grande maggioranza del campione denuncia di subire prepotenza all’interno della sua stessa classe (47,8% dei maschi e 61,5% delle femmine alle
elementari, 60% dei maschi e 70,1 delle femmine alle medie). Spesso l’autore delle prepotenze è un compagno maschio che agisce da solo.
Pur non essendo fra loro confrontabili, per le differenze nelle modalità
di svolgimento, negli strumenti utilizzati e nell’impostazione di fondo, può
risultare interessante affiancare i dati di due ricerche condotte in scuole dell’obbligo di un quartiere periferico di Torino nel 1997 e nel 1999, che abbiamo già utilizzato in precedenza. 1414 ragazzi e ragazze di cinque scuole medie vennero intervistati sugli episodi di violenza nell’arco degli ultimi cinque mesi di scuola. Il 37% delle vittime dichiara che nei casi di aggressione
fisica il responsabile è un compagno di classe e il 21% che si tratta di ragazzi di altre classi. Preoccupa il numero di ragazzi e ragazze che ammettono di
aver perpetrato un atto di violenza nei confronti di qualche loro compagno
o compagna, come di coloro che dichiarano di averlo subito; in non pochi
casi anche la gravità degli atti è rilevante.
Nella tabella 4.1 riportiamo alcuni dei dati quantitativi maggiormente
significativi, relativi agli episodi di violenza che i ragazzi e le ragazze hanno
ammesso di aver compiuto.
Tabella 4.1 – Episodi di violenza significativi ammessi da bambini e bambine aggressori. (F. Prina, op. cit.)
Picchiato un compagno o compagna da solo
30,7%
Picchiato un compagno o compagna con altri
14,1%
Toccato qualcuno in parti intime
18,3%
Costretto qualcuno a consegnare soldi o a portare qualcosa da casa
102
5,2%
Dette cose brutte o false su qualcuno
39,1%
Insultato
35,9%
Spaventato un compagno
49,6%
Preso in giro per difetto o carattere fisico
47,3%
Preso in giro per qualche altro motivo
41,0%
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È particolarmente interessante osservare la graduatoria delle più frequenti modalità di aggressione ammesse dai ragazzi e dalle ragazze, e le differenze a seconda del sesso, come risultano dalla tabella 4.2.
Tabella 4.2 – Modalità di aggressione più frequenti. (F. Prina, op. cit., p.42)
MASCHI
FEMMINE
1
Spaventato un compagno
1
Preso in giro per difetto
o carattere fisico
2
Buttato a terra per scherzo
2
Dette cose brutte o false su
qualcuno
3
Fatto a botte
3
Spaventato un compagno
4
Preso in giro per difetto
o carattere fisico
4
Preso in giro per qualche
altro motivo
5
Picchiato un compagno da solo
5
Accusato ingiustamente di qualcosa
6
Preso in giro per qualche
altro motivo
6
Insultato
7
Insultato
7
Buttato a terra qualcuno.
8
Dette cose brutte o false
su qualcuno
8
Minacciato di rivelare qualcosa
9
Minacciato di dare botte
9
Fatto a botte
10
Accusato ingiustamente di qualcosa 10
Minacciato di dare botte
Proponiamo anche un confronto con le graduatoria dei più frequenti casi di vittimizzazione, di cui i ragazzi e le ragazze dichiarano di essere stati oggetto (Tab. 4.3).
Tabella 4.3 – Bullismo subito (F. Prina, op. cit., p. 36)
MASCHI
FEMMINE
1
Insultato
1
Insultata
2
Accusato ingiustamente di
qualcosa
2
Dette cose brutte o false sul
suo conto
3
Buttato a terra per scherzo
3
Presa in giro per difetto o carattere
fisico
4
Dette cose brutte o false sul suo
conto
4
Accusata ingiustamente di qualcosa
5
Preso in giro per difetto o
carattere fisico
5
Presa in giro per qualche altro
motivo
6
Fatto scherzi tipo carnevale
6
Fatto scherzi tipo carnevale
7
Dette cose brutte su suoi parenti
7
Buttata a terra per scherzo
8
Preso in giro per qualche altro
motivo
8
Minacciata di rivelare qualcosa
di se
9
Minacciato di botte
9
Spaventata
10
Minacciato di rivelare qualcosa
di se
10
Dette cose brutte su suoi parenti
103
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Analizzando i motivi dichiarati dalle vittime come causa delle aggressioni subite, si rileva che ciò avviene, per lo più, a seguito di uno scambio di insulti, perché l’aggressore si è sentito offeso, perché qualcuno voleva così divertirsi, perché l’aggredito non ha voluto cedere a una qualche pressione, in
qualche caso per reazione ad uno sgarbo fatto. Gli aggressori giustificano il
loro gesto soprattutto come reazione ad uno sgarbo o un’offesa, o come seguito di uno scambio di insulti (rispettivamente nel 41,7% e nel 34,4% dei
casi): si percepisce una «normalità» e quotidianità, sulla base della quale
emerge una certa non rigidità dei ruoli di aggressori e vittime.
Alcuni elementi di profilo delle vittime dicono che i maschi sono in maggioranza (65,4%) e sono maggiormente presenti nelle prime e seconde medie; a loro piace meno che alla generalità dei compagni andare a scuola, e più
della metà ha basse valutazioni scolastiche. Rispetto alla famiglia, l’unico
elemento degno di rilievo è un denunciato cattivo rapporto con il padre
(11,9% contro il 6% degli studenti in generale). Infine, le vittime danno una
valutazione di sé più negativa, e dichiarano di aver rapporti piuttosto negativi con i compagni, in misura superiore alla media degli studenti in generale.
Gli aggressori sono soprattutto maschi (79,4%) e sono più presenti in
terza media. Anch’essi denunciano un cattivo rapporto con il padre. La percentuale di bocciati è decisamente alta (23,2%), così come quella di coloro
che hanno basse valutazioni scolastiche. Anche alta è la percentuale di coloro a cui non piace andare a scuola e che hanno basse valutazioni.
Appaiono isolati o dominanti rispetto ai compagni, e indicano fra i loro amici più spesso ragazzi del quartiere. I ragazzi di questo sottogruppo sono
maggiormente favorevoli all’uso della forza per farsi rispettare in reazione
ad insulti, e sono meno disponibili a parlarne con i genitori o i professori.
Passando ai fenomeni di bullismo nella scuola elementare, gli alunni
delle classi quarte e quinte intervistati furono 585. Nella tabella 4.4 si vede la
diffusione e la rilevanza delle principali forme di prepotenza, aggressività,
violenza secondo le ammissioni degli stessi bambini e bambine aggressori,
dati utili anche per un confronto con quelli delle scuole medie.
Tabella 4.4 – Episodi di violenza significativi nelle scuole elementari ammessi da bambini e bambine aggressori.
Fatto a botte con qualcuno
44,6%
Insultato qualcuno
42,3%
Spaventato qualche compagno/a
41,2%
Escluso da gioco o attività qualche compagno/a
40,3%
Preso in giro per difetto o caratteristica fisica
38,0%
Preso in giro qualcuno per qualche altro motivo
37,6%
Detto cose brutte o false su qualche compagno/a
33,4%
Picchiato un/a compagno/a con altri compagni/e
11,7%
Toccato qualcuno in parti intime
104
7,6%
Costretto a darti merendine o cose di scuola
7,4%
Costretto uno a fare male, picchiare compagno/a
7,2%
Costretto qualcuno a darti dei soldi
3,4%
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È interessante notare quanto sia alta la percentuale di coloro che rilevano un sostanziale non intervento, sia fra gli aggressori sia fra le vittime
(Tabella 4.5).
Tabella 4.5 – Conseguenze degli episodi di violenza
Vittime
Aggressori
risolvono fra bambini
46,8%
risolvono fra bambini
33,7%
non succede nulla
31,1%
non succede nulla
31,8%
totale non intervento
77,9%
totale non intervento
65,5%
Anche in questo caso, cogliere la percezione che i bambini e le bambine esprimono è più importante che sapere se essa corrisponde o meno alla realtà. In queste ricerche sono stati costruiti alcuni indici di vittimizzazione e di aggressione, «che hanno permesso di tenere conto di più indicatori contemporaneamente, sintetizzando la molteplicità delle informazioni originarie».17 Si sono così ottenute le posizioni riassunte nelle tabelle seguenti 4.6 e 4.7.
Tabella 4.6 – Sintesi degli indici di vittimizzazione
Scuola media
Scuola elementare
vittime
21%
vittime
7%
non vittime
54%
non vittime
57%
tendenziali vittime
25%
tendenziali vittime
36%
Tabella 4.7 – Sintesi degli indici di aggressione
Scuola media
Scuola elementare
aggressori
17%
aggressori
non aggressori
58%
non aggressori
60%
8%
tendenziali aggressori
25%
tendenziali aggressori
32%
In chiave preventiva, appare importante intervenire sulla fascia dei «tendenziali» aggressori e/o vittime, che raggiunge tra un quarto e un terzo della popolazione scolastica interessata.
Disagio emotivo-comportamentale e difficoltà
d’apprendimento
Ricerche anche recenti hanno evidenziato la presenza di una percentuale significativa di bambini che affrontano l’ambiente scolastico con una
buona dose di insicurezza; un numero non irrilevante esprime svalorizzazione della famiglia o un conflitto affettivo al suo interno, vive con qualche
disagio l’appartenenza al proprio nucleo familiare. Spesso sono bambini o
bambine che non hanno potuto sperimentare il piacere di un coinvolgimento emotivo ed operativo dei genitori nei primi apprendimenti scolastici, di cure ed attenzioni, soprattutto materne, in momenti così importanti.
105
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106
In non pochi casi, pare che i genitori restino a guardare disarmati ed impotenti, probabilmente perché ciò che accade nella scuola al figlio è così lontano dalla loro cultura da restare in un mondo a parte; sembra che questi genitori possano pensare alla scuola solo in termini di diffidenza. In altre situazioni, si tratta forse più di una distanza emotiva, di adulti troppo centrati su se stessi, immaturi.
Una «Indagine emotivo-comportamentale per la prevenzione del disagio e delle difficoltà di apprendimento» è stata condotta sul territorio torinese tra il 1994 e il 1999 per meglio individuare alcune cause favorenti l’insuccesso scolastico.18 «L’ipotesi di partenza è stata quella dell’esistenza di
una correlazione tra successo scolastico e aspetti che hanno a che vedere
con l’idea di sé, non soltanto a livello cognitivo, ma a livello emotivo …
Fattori quali la speranza, la fiducia in sé, la capacità di vedersi adulti, possono influenzare l’atteggiamento verso l’apprendimento e la vita scolastica,
nonché le possibilità di successo scolastico. A questo livello risultano particolarmente importanti il modo di percepirsi e i vissuti dei singoli, accanto
agli effettivi elementi di realtà».
Nell’indagine sono stati coinvolti circa 2000 alunni delle scuole elementari dal 1994/95 al 1996/97; successivamente più di 300 alunni delle
classi prime elementari; infine, fra i dati emersi dalle interviste a questi ultimi, sono stati isolati quelli riguardanti gli alunni che, a giudizio degli insegnanti, presentavano difficoltà di apprendimento.
Si è rilevato che, già in prima elementare, gli alunni con basso rendimento scolastico, pur avendo scarsa consapevolezza rispetto a ciò che non
sanno fare in generale, si ritengono poco competenti in cose attinenti lo
specifico scolastico, dimostrando così di essere discretamente capaci di effettuare un corretto esame di realtà. Ben il 52% di questi alunni, contro il
19% del totale, infatti, fa riferimento a difficoltà nelle attività scolastiche
astratte. «La linea di demarcazione tra consapevolezza dei propri limiti e
sfiducia nelle proprie capacità in un bambino di 6/7 anni non è così netta:
gli sconfinamenti potrebbero minare il senso di autostima e le stesse possibilità di speranza, con effetti a catena sulla sua vicenda scolastica». Il 52%
degli alunni in difficoltà esprime desiderio di apprendimento relativo alle
attività scolastiche, con particolare riferimento proprio alle aree in cui si
sente debole, contro il 38% del totale. Ancora, nel 55% di questi bambini,
contro il 37% del totale, si evidenzia «una maggiore propensione alla dipendenza dal giudizio degli adulti; il riferimento a «imperativi categorici»
sembra essere maggiormente il criterio di definizione degli aspetti positivi
di sé». Solo il 59% degli alunni in difficoltà ritiene di aver avuto più esperienze positive nella propria vita, contro il 79% del totale, e coloro che ritengono di aver avuto più esperienze negative sono il 24%, percentuale
doppia rispetto al totale: «come a dire che questi allievi si sentono, già così
piccoli, poco fortunati».
Infine, mentre quasi tutti i bambini intervistati esprimono una buona
fiducia nell’attribuire ai propri genitori un giudizio positivo su di sé, il dato
sugli insegnanti cala dal 79% del totale al 59% nel caso degli alunni in difficoltà; fra questi ultimi è quindi piuttosto consistente il numero di coloro
che a scuola «sentono di non poter essere apprezzati». Non ci si deve meravigliare se per taluni bambini si parla già di «defuturizzazione»: una sin-
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drome che, più preoccupante in adolescenza, induce a porsi con pessimismo nei confronti del proprio futuro, fino a non riuscire più, nei casi più
gravi, a pensarlo.
Scheda C – La televisione può amplificare le difficoltà
di apprendimento?
Si parla spesso delle influenze che l’esposizione ai media ha sui processi d’apprendimento dei bambini e delle bambine, soprattutto in termini negativi.
Senza voler ingrossare le fila dei catastrofisti antitelevisivi, vogliamo solo accennare ad alcuni elementi che appaiono effettivamente influenti sui meccanismi dell’apprendimento. Anche se la maggior parte dei bambini guarda la TV
per capire il mondo, è per loro molto difficile distinguere fra la realtà ed una
sua replica, i fatti e la finzione. La confusione tra realtà e fantasia è favorita dalla pubblicità, che contribuisce a concretizzare i personaggi delle storie che sono anche oggetti che si possono comprare. L’uso del telecomando, e le immagini che scorrono velocemente, contribuiscono ad una tensione verso la novità, a discapito dei processi di approfondimento critico degli argomenti che
contribuiscono alla produzione del sapere, almeno per i meccanismi che conosciamo.
Negli spettatori bambini viene indotta passività soprattutto dall’apparente
semplicità delle immagini, che non necessita di partecipazione intellettiva, e
dal fatto che la TV è diventata il rumore di fondo della loro giornata. La TV, privilegiando l’immagine visiva, toglie spazio all’esercizio della lettura e conseguentemente riduce la capacità di sintesi e di attenzione di cui il testo scritto
necessita. Il privilegiare l’immagine sulla parola rappresenta un’eccessiva semplificazione, con cui la televisione, in fondo, ripropone una modalità di pensare il mondo che apparteneva alle culture preletterate.
Se si considera che il flusso televisivo modifica le categorie spazio-temporali,
si viene a creare un effetto di «piatto presente astratto», che toglie al bambino
indispensabili appigli alla comprensione e favorisce l’instaurarsi di una deleteria abitudine alla loro assenza. Al contrario di quanto facciamo noi adulti, e
la scuola stessa, per cui è privilegiata una concezione del tempo sequenziale
(con un prima, un adesso e un dopo) il tempo/spazio della televisione consumata dai bambini si basa su un’idea ciclica del tempo e sul prevalere della fissità dei luoghi: ogni episodio di una storia che può essere infinita, può essere
compreso senza necessità di riferimenti a conoscenze pregresse; si svolge in
uno spazio che non cambia mai; in cui, soprattutto, non cambiano gli elementi del contesto. La mediazione dell’esperienza diretta non viene contemplata
nell’uso del mezzo televisivo e si sa quanto siano importanti le esperienze concrete-dirette per favorire apprendimento reale e duraturo nei bambini.
Numerosi esperti sostengono che: «Con il computer è diverso: il soggetto interagisce, stabilisce i suoi percorsi, si riappropria della possibilità di progettare, della capacità di essere attivo, prova piacere ad apprendere, si predispone a
fronteggiare la cangiante realtà complessa. Vi è più corrispondenza tra pensiero e prodotto. Inoltre la multimedialità, sollecitando l’unitarietà tra saperi diversi, favorisce la multidisciplinarità e l’interdisciplinarità, rende il pensiero
fluido, critico, originale, anticonformista, indipendente nei giudizi.»19
107
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 108
Il maltrattamento
Nella scuola «più spesso di quanto vorremmo credere, dietro a comportamenti genericamente definiti inadeguati (difficoltà di apprendimento,
non rispetto delle regole, aggressività incontrollata, isolamento, ecc.), si nascondono drammi ben più gravi riconducibili a situazioni di maltrattamento e/o di abuso sessuale.»20
La scuola è fondamentale per ogni intervento su e con i bambini maltrattati. Il bambino non sempre riesce a confidare il suo malessere o verbalizzare richieste di aiuto; i comportamenti allora rappresentano segnali importanti che l’insegnante può raccogliere, se è in grado di porsi in un atteggiamento di ascolto del bambino, standogli affettivamente vicino. In questo
modo, dalla rilevazione del disagio si avvia l’importante processo d’intervento, che può poi proseguire con l’eventuale segnalazione, la dovuta e delicata indagine, una valutazione soprattutto della recuperabilità della relazione adulto (spesso genitore) – bambino, il trattamento terapeutico e di sostegno.
Si propongono qui alcune riflessioni, guardando questo tema da due diverse angolature:
❖ la scuola (e quindi gli insegnanti, i dirigenti, gli operatori scolastici) di
fronte al maltrattamento subito dagli alunni, di cui essa viene (o può
venire) a conoscenza: il maltrattamento extrascolastico;
❖ la scuola rispetto al maltrattamento che produce (o può produrre) in
proprio: il maltrattamento intrascolastico.
Il maltrattamento extrascolastico
Perché per rendersi conto che in classe c’è un bambino maltrattato anche grave ci vogliono sovente molti anni e a qualcuno non viene assolutamente in mente? Perché talvolta serve l’alleanza di più persone affinché un
insegnante prenda coscienza di essere l’unica persona che, vedendolo tutti
i giorni, può essere un testimone soccorrevole per il bambino che vive quella situazione? Perché spesso si reiterano i tentativi di parlare con la madre, o
al contrario si ritiene che sia perfettamente inutile parlarle, ritenendo anche
lei vittima come il figlio?
Le difficoltà che gli insegnanti incontrano, nel rilevare il maltrattamento, riconoscerlo come tale, segnalarlo e intervenire, spesso risiedono nel
fatto che essi stessi sono corazzati di difese, sia in quanto adulti, sia perché
inseriti in un’istituzione sociale che è fatta di regole che servono anche per
difendersi. L’incontro con il maltrattamento provoca in ciascuno dei meccanismi emotivi inconsapevoli, difensivi dal dolore che si potrebbe provare, e da emozioni che non si vogliono vivere e rivivere. I principali meccanismi sono:
108
❖ La rimozione: si vede il problema, ma la complessità e l’incertezza
della situazione, la difficoltà a trovare risposte risolutive, ecc. potrebbero produrre vissuti di dolore ed impotenza difficilmente sopporta-
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bili. Allora lo si allontana. Succede che il problema è percepito e accantonato contemporaneamente, e così il bambino viene come «dimenticato»: ci si attiva, magari freneticamente, alla fine del ciclo scolastico, quando non è più possibile attuare provvedimenti.
❖ La negazione: si cerca, per esempio, di spiegare sempre con l’accidentalità e/o l’unicità fatti che in realtà fanno parte di una serie, e
perciò rappresentano sicuramente maltrattamento di cui preoccuparsi. È un po’ come chiudere gli occhi per non vedere ciò che ci fa
star male, un meccanismo infantile per negare ciò che accade.
❖ L’idealizzazione: viene sopravvalutato uno dei genitori, spesso la madre, su cui si ripongono «magiche» ma immotivate speranze di cambiamento e soluzione del problema. Così ci si convince, contro ogni
evidenza, che basti poco, un semplice messaggio al genitore, una
chiacchierata a quattr’occhi fra persone adulte. Il distacco emotivo
porta a nascondersi dietro alla professione, con la sua rigidità di ruoli ed automatismi. Si invocano altre figure professionali. La propria
affettività viene in qualche modo bloccata, impedisce di immedesimarsi, per non dover incontrare la sofferenza del bambino.
❖ La razionalizzazione: si cercano «validi e razionali» motivi per giustificare in qualche modo il maltrattamento; si ridimensionano i segnali che il bambino ci invia; ci si appella al fatto di non avere prove evidenti; si invocano altre figure professionali competenti («Ah, questo
è compito dell’assistente sociale!»). Oppure, al contrario, ci si improvvisa specialisti, psicologi in particolare, immaginando complessi edipici non risolti, diagnosticando l’incapacità nel bambino di distinguere vissuto-fantasia-realtà.
❖ La scissione: l’istituzione in questo caso rappresenta sempre il bene,
e la famiglia il male; considerare la famiglia irrecuperabile permette
di non fare i conti con la sofferenza, la rabbia, il senso di impotenza,
e quindi l’ansia, che l’adulto rischierebbe di dover tollerare, se scegliesse di approfondire.
Il maltrattamento intrascolastico
I meccanismi cui si è accennato diventano incredibilmente più forti
quando si tratta di affrontare un problema di maltrattamento interno alla
scuola, provocato da educatori-insegnanti. Non si può onestamente negare
che anche a scuola si produce maltrattamento, o quantomeno si favorisce
l’insorgere e l’aumentare del disagio.
Una prima forma è rappresentata dal trattare i bambini in maniera non
adeguata al raggiungimento del loro benessere. È indispensabile accennare
all’importanza della riflessione sul significato implicito delle scelte che gli
adulti/insegnanti compiono, e sul quadro di riferimento interpretativo di
cui sono, più o meno consapevolmente, portatori. In linea di massima gli insegnanti aderiscono, magari implicitamente-inconsapevolmente-contrad-
109
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ditoriamente, al modello pedagogico adultocentrico prevalente nella nostra
società odierna. Nell’ipotesi di un continuum del maltrattamento, che inizia
a casa per espandersi nella società, la scuola ha talune caratteristiche, che
possono indurla a divenire una sede dove si perpetua un maltrattamento
soprattutto occulto. Questo avviene attraverso l’indifferenza, la creazione di
barriere alla comunicazione o, peggio, con comportamenti aggressivi (denigrare, umiliare, deridere). Un fattore favorente è costituito anche da un
«normale» insegnamento spesso spersonalizzato. Succede che i comportamenti di alcuni insegnanti a volte siano di maltrattamento, malgrado le loro
intenzioni, sostenute dalla convinzione di svolgere bene il proprio ruolo
educativo.
Il rischio di comportamenti maltrattanti è particolarmente alto quando
si verifica un «intenso coinvolgimento dell’educatore a modificare comportamenti (del bambino) ritenuti inadeguati».21 Le motivazioni sono riconducibili in buona parte ad un’interpretazione che sopravvaluta l’intenzionalità
dei comportamenti dei bambini e li legge come provocatori. Vi è una reazione al presunto attacco all’immagine sociale e professionale dell’insegnante (se non alla sua integrità fisica), un richiamo alla preoccupazione sul
futuro del bambino («...ti punisco per il tuo bene!»), la necessità di fornire alla classe esempi in chiave preventiva, le esplicite richieste delle famiglie, lo
stress provocato dalle condizioni in cui si svolge l’insegnamento.
4.4 La scuola del disagio «normale»
A scuola vanno tutti i bambini e le bambine intorno al loro sesto anno di
vita: già a 5 anni sono più del 95% quelli che la frequentano. In Piemonte si
tratta di circa 325.000 bambini e bambine, di cui 165.000 ca. nella Provincia
di Torino e più di 70.000 nella città di Torino.
Riassumiamo in Tabella 4.8 i principali dati della scuola dell’obbligo piemontese, in modo da fornire anche un’idea della dimensione in cui si inseriscono i problemi.
Tabella 4.8 – Alunni – classi - insegnanti
Alunni
Piemonte
Provincia Torino
Sc. Elementare
Sc. Media
61.228
162.848
101.058
28.963
83.626
51.498
Sc. Materna
Sc. Elementare
Sc. Media
Piemonte
2.538
9.502
4.862
Provincia Torino
1.163
4.546
2.421
Insegnanti
Sc. Materna
Sc. Elementare
Sc. Media
Piemonte
5.478
18.012
10.920
Provincia Torino
2.507
9.240
5.383
Classi
110
Sc. Materna
M.P.I. «Scuola statale, sintesi dei dati a. s. 2000/01»
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La scuola si inserisce ad un punto già avanzato del processo di sviluppo
e apprendimento dei bambini e delle bambine, e con intenzionalità formativa cerca di favorire il progresso di ciascuno, proponendo conoscenze formali. Essa può essere un osservatorio privilegiato, ed un luogo di interventi
a cavallo tra la prevenzione primaria e quella secondaria, quando i docenti
sono in grado di rilevare, e occuparsi adeguatamente delle situazioni dei
bambini e delle bambine, che necessiterebbero di un’attenzione particolare, per il fatto di vivere una qualche forma di disagio e/o di rischio socio ambientale e/o emotivo. Certo, non si può richiedere alla scuola di farsi carico
di tutti i disagi che originano in altri contesti, anche perché così facendo si
favorirebbero le logiche di delega deresponsabilizzante di altre agenzie. Si
tratta di comprendere, invece, che le finalità stesse della scuola prevedono
una valutazione delle potenzialità dei bambini e delle bambine; la capacità
di calibrare su queste la propria proposta; di comprendere a che punto sta
(e come sta!) ogni bambino e bambina mentre progredisce; di correggere il
tiro se necessario, per favorire in ciascuno la coscienza e lo sviluppo delle
proprie potenzialità.
In realtà la scuola dell’obbligo si presenta per lo più con un’organizzazione rigida e adultocentrata: con insegnanti scarsamente valorizzati, talvolta anche poco motivati, trasmettitori di un sapere statico, non sempre attenti ai diversi canali della comunicazione e stili di apprendimento, né in
grado di porsi positivamente in una relazione educativa personalizzata
(…una scuola grigia, insomma!).
Non va dimenticato che il disagio scolastico può essere letto anche come disagio degli adulti nella scuola, posti come sono di fronte a richieste di
veri e propri «compiti impossibili». Questa scuola può a sua volta produrre
situazioni di disagio nei bambini e nelle bambine, che spesso si sommano a
quelle che essi vivono in altri contesti della loro vita. Talvolta ci troviamo di
fronte ad una scuola addirittura maltrattante, malgrado le buone intenzioni
degli insegnanti, sostenuti dalla convinzione di agire per il bene dei bambini. Non dobbiamo cadere nella trappola della generalizzazione, ma neppure possiamo considerare i numerosi esempi di buone pratiche, che scuole e
docenti attuano, individualmente o in gruppi, come elementi che caratterizzano l’intero sistema.
Scheda D – Principali cause di disagio interne alla scuola
• scarso valore attribuito alla conoscenza intesa come capacità, desiderio e
possibilità di avere e coltivare curiosità, fare osservazioni ricerche e manipolazioni;
• dovere dello studio basato sullo sforzo (per cui la scuola dell’obbligo non diventa mai «scuola del desiderio»);
• surmenage scolastico;
• modalità di gestione della classe da parte dell’insegnante (autoritario o lassista);
• scarsa attenzione alle differenze individuali;
• scissione tra sapere ed esperienza, tra conoscenza ed emotività;
segue
111
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 112
• «accanimento educativo» degli adulti della scuola per la «correzione» di taluni comportamenti;
• svalutazione e offese alla propria dignità, reali o percepite come tali dagli
alunni;
• squilibrio tra le aspettative altrui (genitori, insegnanti, adulti e compagni) e
la realtà o ciò che il bambino o la bambina percepisce come tale;
• inadeguatezza degli insegnanti nella scelta ed utilizzo di metodi didattici
adeguati;
• accentuazione dei meccanismi premio/punizione legati alle prestazioni, valutazione globale da parte degli insegnanti dei bambini e delle bambine sulla base di queste;
• effettive difficoltà di apprendimento non affrontate adeguatamente;
• incoerenza educativa/contraddittorietà di messaggi e richieste che arrivano
ai bambini;
• organizzazione scolastica rigida anche nella gestione di tempi e spazi.
La dispersione
Un indicatore di mal funzionamento associato a fenomeni di disagio è
ravvisabile nei processi di dispersione.
La dispersione palese
I dati sulla dispersione scolastica comprendono gli alunni ritirati entro il
15 marzo dell’anno scolastico, quelli non valutati per assenze dovute a motivi di salute, oppure per interruzione della frequenza scolastica in corso
d’anno per motivi non conosciuti dalla scuola, quelli che seppure iscritti
non hanno mai frequentato.
Nella scuola elementare la dispersione scolastica «ufficiale» è fortunatamente prossima allo zero: a livello nazionale il fenomeno coinvolgeva nel
1998/99 molto meno di un alunno su mille (0,04%).
Nelle scuole medie nello stesso anno si raggiungeva lo cifra di 0,38%,
quasi un alunno ogni duecento22. È evidente che qui ci riferiamo a quello
che comunemente viene definito l’aspetto palese della dispersione scolastica, che, secondo diversi esperti, nel nostro Paese avrebbe assunto ormai una
dimensione fisiologica, che non si può pensare di comprimere ulteriormente, se non in alcune aree dove è più significativa.
Le ripetenze
Appare utile riproporre l’accento su un problema spesso sottovalutato e
costitutivo della selezione, quello delle ripetenze, dove le cifre assumono in
Italia una dimensione ancora significativa (Tabella 4.9).
Tabella 4.9 Ripetenze in Italia
% alunni respinti
112
% al. ripetenti
% al. in ritardo
Sc. Elementari
0,60
0,34
2,01
Sc. Medie
5,46
4,34
11,69
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Il numero degli alunni respinti mantiene dimensioni preoccupanti nelle
prime medie, dove raggiunge il 7,27%, confermando una delle tipiche caratteristiche della selezione, che è di essere, all’interno di ogni ordine di scuola, massima nel primo anno e successivamente in diminuzione. Questi tassi, alti o bassi che li si voglia considerare, nei due ordini di scuola sono cinque volte superiori a quelli della dispersione scolastica. Il Piemonte registra
valori leggermente più bassi, attestandosi su un totale di ripetenti del 4,1%
sul totale degli allievi e del 5,6% nelle prime medie, con un innalzamento
nella città di Torino (Tabella 4.10).
Tabella 4.10 – Alunni respinti nella scuola media (%)
classe prima
classe seconda
classe terza
TOTALE
Provincia (✪)
5,87
2,77
3,72
4,12
Torino (✖)
7,9
4,8
4,5
5,7 (✦)
✖ «Osservatorio sulla condizione giovanile» – Rapporto 1998/99, Scuola – Comune di
Torino
✪ II Concerto, Piano Territoriale di intervento per l’infanzia e l’adolescenza – Provincia
di Torino, L. 285/97
✦ Nel passato anno scolastico questa percentuale sarebbe scesa al 4,7%.
Il fenomeno delle ripetenze si riflette sulla dispersione scolastica, alimentandola. È il fenomeno palese di cui maggiormente occorre preoccuparsi e su cui lavorare, per il suo abbattimento.
La dispersione occulta
L’aspetto occulto della dispersione scolastica non è quantificabile, ed è
un tipico prodotto della scuola dell’obbligo. In particolare, carenze dei presupposti familiari ed ambientali propedeutici alla scolarizzazione, e scarsi
stimoli all’uso degli strumenti culturali appresi a scuola, disarmonie nella
maturazione e nello sviluppo individuale, piccoli danni cerebrali, frequentemente sono concausa delle diffuse difficoltà di apprendimento scolastico,
e non incentivano la motivazione all’apprendimento ed allo sforzo richiesto
dalla scuola.
La dispersione scolastica occulta si manifesta, oltre che come mancato
raggiungimento delle capacità e degli obiettivi formativi previsti dagli insegnanti, come malessere nello stare a scuola e come comportamenti disturbati-disturbanti e comunque non adeguati. Nella sua definizione vi è la tendenza a ricomprendere tutti i disagi più o meno sommersi dei bambini a
scuola. Va però ribadito con forza, mantenendo ancora l’attenzione all’interno della scuola, che le conseguenze dello svantaggio socio-culturale-economico, in relazione agli ostacoli all’apprendimento e al pieno sviluppo della formazione del bambino, non vanno lette solo come una serie di elementi negativi, tali da rendere impossibile l’apprendimento stesso e l’inserimento sociale di un soggetto. Sono anche segnali di disequilibrio, che richiedono risposte adeguate, in una scuola capace di intervenire positivamente, per attutire le differenze che costituiscono svantaggio, valorizzare
quelle che si esprimono in positivo, e promuovere il successo formativo generalizzato.
113
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4.5 Linee di risposta istituzionale.
Cercheremo ora di occuparci delle linee che emergono dalla realizzazione di azioni istituzionali di prevenzione e degli interventi di contrasto al
disagio, con un’attenzione particolare alla scuola dell’obbligo nell’area torinese.23
Sono oramai numerose le realtà scolastiche in cui, in modo più o meno
compatto, si cerca di intervenire a livello di prevenzione primaria del disagio/promozione dell’agio, attraverso azioni sulle metodologie didattiche, le
relazioni interpersonali, gli aspetti organizzativi del servizio, sempre più
spesso collaborando e coprogettando con i servizi e le agenzie del territorio.
Ci sono sempre stati docenti e ricercatori sensibili a questi problemi e
preparati nell’affrontarli, vere e proprie «colonne della scuola», spesso scarsamente riconosciute, che hanno prodotto una varietà di progetti, e messo
in evidenza il grande limite rappresentato dalla loro episodicità.
L’episodicità è dovuta al fatto di essere costretti a progettualità troppo
spesso di corto respiro, sempre «sperimentali»; ma si registra anche in riferimento alla vita scolastica quotidiana di bambini ed adulti, nel senso che
spesso si confezionano episodi più o meno isolati, anche ben strutturati,
che tuttavia non incidono a fondo sulla relazione educativa alla base dei
processi di insegnamento-apprendimento. Anche quando è predisposta
una qualche ricaduta degli interventi sull’attività curricolare, qualcuno paragona questi interventi «aggiuntivi» alla classica «ricreazione».
La «preistoria»
114
L’azione sul disagio che si esprime nella scuola è debitrice del lavoro di
molti anni svolto a favore dell’integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap. Già a metà degli anni Settanta, la normativa che prevedeva l’integrazione scolastica nelle classi comuni degli alunni in situazione
di handicap faceva riferimento alle situazioni di disagio. Per queste ultime,
non erano previste risorse particolari, ma veniva proposta una modificazione dell’organizzazione scolastica e della classe, che sembrava doversi instaurare «spontaneamente».
Negli anni immediatamente successivi, in molte scuole soprattutto delle
periferie urbane vennero elaborati, autorizzati ed attuati specifici progetti
sperimentali di interventi sul disagio da svantaggio socio-culturale, così presente ed evidente in quelle aree, che prevedevano anche azioni integrate con
i servizi del territorio, e spesso la creazione ad hoc di organismi locali.
Crebbe l’attenzione a queste problematiche anche a livello ministeriale, così che nel 1989 vennero elaborate, recependo in parte le indicazioni fornite
dalle esperienze di base, analisi e proposte per «aree prioritarie di intervento», individuate a livello nazionale mediante una ricerca affidata al CENSIS.
In queste aree si avviarono esperienze pilota, basate sulla ricerca-azione e
sull’approccio integrato fra istituzioni, nel tentativo di coinvolgere tutti i servizi del territorio. L’anno successivo vennero istituiti gli Osservatori interistituzionali a diversi livelli: dalla singola scuola fino al livello nazionale.
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L’ipotesi di lavoro prevedeva che, individuate le aree in cui ragioni soprattutto di carattere socio-culturale ed economico determinavano tassi di
dispersione scolastica superiori alla media nazionale, la scuola elaborasse
un buon progetto, possibilmente trovando forme di raccordo con altre istituzioni e servizi del territorio, a cui destinare risorse umane ed economiche
aggiuntive. Le aree individuate sul territorio torinese furono: Castello
Mirafiori, Falchera, Vallette, Via Artom.
Di fatto le risorse non furono sufficienti a coprire le esigenze, le scuole
non poterono attuare programmazioni a lungo termine, non sapendo di anno in anno con precisione quale fosse la disponibilità. Prevalse il già segnalato limite dell’episodicità/discontinuità. Soprattutto non venivano affrontati alcuni dei nodi problematici principali della rigida struttura scolastica,
rappresentati dalla motivazione e scelta degli insegnanti, dalla loro stabilità,
dalla formazione del personale e dall’assunzione del lavoro di rete come
modalità ordinaria e necessaria di lavoro.
Dispersione scolastica e promozione del successo formativo
È del 1995 la proposta di Progetti Provinciali per la prevenzione della dispersione scolastica. A livello torinese «l’obiettivo fondamentale viene da
subito precisato … come promozione del successo formativo (ritenuto prospettiva più alta della prevenzione della dispersione scolastica.)».24 Si ripartiva dalle «aree» precedentemente individuate, a cui vennero aggiunte
Settimo Torinese ed Ivrea, con l’idea di diffondere l’esperienza attraverso la
costituzione di grandi reti interscolastiche (Centro, Nord Ovest, Sud, Settimo T.se, Ivrea).
L’ipotesi di un Piano che «trascorre dalla presa in carico della emergenza e dello straordinario (rischi educativi evidenziati in aree prioritarie di intervento) a presa in carico dell’ordinario, con la generalizzazione dell’agio e
della qualità del servizio formativo sull’intera area provinciale, «valorizzando e integrando l’esperienza maturata in aree territoriali definite» non pare
essersi realizzata pienamente. Le condizioni per portare a sistema le modalità più interessanti delle esperienze precedenti, non erano favorevoli fin
dall’inizio, anche se molto lavoro è stato fatto. Si può parlare perciò di una
sorta di eredità, che le scuole hanno mantenuto presso di sé e talvolta hanno diffuso ad altre: l’esperienza della realizzazione dell’autonomia didattica/organizzativa degli istituti scolastici, accompagnata dal cosiddetto dimensionamento, che ha visto la fusione di diverse scuole, il loro frazionamento e spesso un rimescolamento del personale, si è potuta avvalere di
competenze specifiche precedentemente maturate. Ciò ha evidenziato la
necessità del lavoro di rete, anche interistituzionale, per affrontare i problemi correttamente ed in modo incisivo; le scuole coinvolte nelle sperimentazioni di tutti questi anni hanno consolidato elementi organizzativi, affinato
aspetti metodologici, capacità progettuali e atteggiamenti del personale,
che sono entrati ormai sempre più nella didattica quotidiana.
115
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Scuole situate nelle aree a rischio
Attualmente si interviene ancora su scuole situate nelle cosiddette aree
a rischio, anche se con forti elementi di discontinuità rispetto alle esperienze precedenti. La riproposizione della tematica è avvenuta a livello della
contrattazione sindacale. Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
Integrativo del comparto Scuola del 1998 infatti prevede, all’art.4, un nuovo
istituto contrattuale, che si ispira alla differenziazione della retribuzione del
personale. Si tratta di un riconoscimento economico aggiuntivo, per il personale di scuole che operano in aree considerate a rischio, che si impegna a
realizzare un progetto, elaborato dalla singola scuola e approvato dal Ministero, e a rimanere in quella sede per almeno tre anni. L’obiettivo di prevenzione primaria ha alla sua base l’ipotesi che disagio, selezione, insuccesso,
evasione e abbandono dell’obbligo scolastico siano fattori di rischio rilevanti, rispetto al fenomeno della stessa criminalità minorile.
Sono state individuate come aree a rischio 28 province e quattro aree
metropolitane (Genova, Milano, Torino, Roma). Il modello di riferimento
sono le Z.E.P. (Zone di Educazione Prioritarie) francesi degli anni Ottanta.
Con un approccio sistemico è previsto il coinvolgimento dei soggetti, istituzionali e non, del territorio per la realizzazione di un sistema formativo
integrato. Sono previste modalità flessibili di insegnamento, ampliamento
dei tempi di funzionamento del servizio, una maggiore apertura ad iniziative locali, il coinvolgimento delle famiglie, anche attraverso interventi formativi ed informativi per gli adulti, il collegamento formale con gli Enti
Locali e le istituzioni territoriali, finanziamenti per attività formative del
personale.
A fronte del migliore inquadramento del problema, rispetto alla situazione precedentemente descritta, emergono i seguenti elementi problematici:
❖ non viene riconosciuto l’impegno del personale che negli anni precedenti si era impegnato nei progetti contro la dispersione scolastica
per il successo formativo;
❖ la continuità triennale non è stata garantita al livello dell’organizzazione complessiva, per cui si è assistito ad una certa mobilità annuale del personale;
❖ non è stato previsto un incremento di fondi per le dotazioni di attrezzature e materiali necessari;
❖ la sperimentalità dell’operazione, e lo scarto fra le risorse disponibili
e le esigenze individuate a livello locale, hanno scatenato una competizione quanto meno anomala fra scuole, che non sempre ha favorito la qualità progettuali;
116
❖ vi è stata scarsa chiarezza verso gli impegni richiesti al singolo, ed il
loro legame con la situazione di rischio;
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❖ la progettualità ha eccessivamente sfavorito alcuni istituti, che pur
trovandosi in aree a rischio non hanno potuto rientrare fra quelli ammessi a godere dei benefici economici.
Per l’individuazione delle aree «a rischio» e delle scuole al loro interno, a
livello torinese sono stati utilizzati dati diversi, come il numero e la percentuale di minori assistiti (dati forniti dagli Assessorati all’Assistenza dei
Comuni), il numero dei fascicoli civili aperti presso il Tribunale per i
Minorenni, il numero di alunni residenti e la percentuale delle famiglie assistite delle scuole di ogni area (dati forniti dalle scuole stesse). Le aree di riferimento a Torino sono risultate: Borgo Cina, C.so Grosseto, C.so Taranto,
Falchera, Porta Palazzo, S. Salvario, Vallette, Via Arquata, Via Ivrea, per la
città; aree di Collegno, Grugliasco, Moncalieri, Nichelino, Venaria per la cintura cittadina.
Le scuole dove si sta realizzando la specifica progettualità sono tutte
scuole dell’obbligo: D.D. «Costa», D.D. «Frank», D.D. «Pellico», I.C. «Turoldo»
in Torino; I.C. «King» Grugliasco. Nonostante le contraddizioni indicate, nelle scuole il lavoro è stato, ed è, molto significativo e partecipato.
L’educazione alla salute
Un aspetto non secondario della prevenzione del disagio è l’educazione
alla salute. La Legge n. 216 del 1991 esplicitamente richiama interventi finalizzati a rimuovere le condizioni di disagio, in particolare mediante «l’attuazione di interventi da realizzare … nell’ambito delle strutture scolastiche in
orari non dedicati all’attività istituzionale o nel periodo estivo». Il D.P.R. n.
309 del 1990 «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi
stati di tossicodipendenza», indica la necessità della promozione e del coordinamento di «attività di educazione alla salute e di informazione sui danni
derivanti dall’alcoolismo, dal tabagismo, dall’uso delle sostanze stupefacenti o psicotrope, nonché dalle patologie correlate», e contestualmente aggiunge che queste attività «si inquadrano nello svolgimento ordinario dell’attività educativa e didattica, attraverso l’approfondimento di specifiche
tematiche nell’ambito delle discipline curricolari.».
Vengono istituiti i Comitati Tecnici, a livello nazionale e provinciale, e in
ogni scuola è individuato un docente referente. Si prevedono corsi di formazione e momenti di informazione per il personale scolastico, in particolare per i docenti referenti di scuola, ed il coinvolgimento delle famiglie.
Grazie allo stesso testo, prendono avvio, solo negli istituti di istruzione secondaria superiore, i Centri di informazione e consulenza per gli studenti
(CIC) e le Iniziative di studenti animatori (gruppi di almeno venti studenti
possono proporre iniziative, da realizzare con la collaborazione del personale docente).
Nella legge vi è una distinzione fra attività di educazione alla salute e
informazione sui danni derivanti dalle dipendenze, che impegna la scuola
su entrambi i fronti. Nel 1999 la Legge n. 45 ha modificato la precedente legge in particolare nella parte riguardante i finanziamenti. La nuova legge pre-
117
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vede che il 75% del fondo nazionale sia affidato alle Regioni e che per il restante 25% anche il Ministero della Pubblica Istruzione possa proporre progetti triennali sperimentali ed innovativi, mirati alla prevenzione ed al recupero delle tossicodipendenze.
In questi dieci anni di Educazione alla Salute e prevenzione delle tossicodipendenze i progetti sono stati diversi. Il Progetto Giovani del 1993 aveva quale finalità di promuovere migliori rapporti nelle interazioni fra i giovani e la società. Il progetto Ragazzi 2000 è più mirato alla scuola elementare e media, in cui viene ribadito che l’educazione alla salute deve essere inserita all’interno della programmazione ordinaria delle attività educative e
didattiche. Il progetto Arcobaleno, per la scuola materna, incentiva l’elaborazione di progetti in cui sia evidenziata la necessità di conservare e migliorare il «bene salute». A livello locale, una importante circolare del
Provveditore agli Studi di Torino, la n. 13 del 1999, si apre con l’affermazione che: «I processi di riforma che accompagnano la trasformazione del nostro sistema scolastico si propongono di disegnare una scuola, la cui costruzione ruoti intorno allo studente come persona in formazione e come
soggetto di un percorso di apprendimento …»; e indica fra gli obiettivi quello di «creare e consolidare in tutte le scuole una cultura della prevenzione
radicata nell’ordinarietà».
Scheda E – Educazione alla salute: qualche concetto di base
Assumendo il concetto di salute come definito dalla O.M.S. «Stato di benessere psichico, fisico e mentale dell’individuo e della collettività, in interazione dinamica con l’ambiente naturale e sociale», intendiamo gli interventi nel settore dell’educazione alla salute come lavoro per il riconoscimento del diritto alla salute e al benessere del bambino come soggetto di diritto. Pare tuttora valida la definizione di Educazione alla Salute come: «Attività mediante la quale si
creano le premesse per cui ogni allievo, ogni docente ed ogni genitore si occupa positivamente di sé e del proprio benessere, di quello degli altri e dell’ambiente che lo circonda». Educare alla salute, più che trasferire informazioni
(operazione necessaria, ma non sufficiente), o lavorare per la dissuasione da
comportamenti indesiderabili attraverso l’addestramento alla resistenza a
condizionamenti esterni, o ancora modificare abitudini, significa mirare alla
promozione di competenze psicosociali, di quelle abilità che permettono di affrontare efficacemente le richieste e le sfide della vita di tutti i giorni.
Ancora l’O.M.S. ricorda che intervenendo su queste abilità fondamentali ci si
rivolge ai «fattori psicosociali che intervengono nei comportamenti, che a loro
volta contribuiscono a determinare problemi sociali e di salute». La scuola con
l’educazione alla salute mira ad avere un ruolo attivo in iniziative di promozione del benessere psicofisico di tutti i suoi attori, ma anche a limitare l’incidenza delle malattie, intervenendo soprattutto su fattori di rischio (compresa
l’adozione di comportamenti a rischio per la salute). Rivalutando l’importanza della relazione educativa e della valenza educativa delle discipline all’interno della scuola, incrementando le necessarie conoscenze e competenze, essa
contribuisce alla prevenzione primaria del cosiddetto disagio infantile, comunque esso si manifesti.
Lo specifico dell’Educazione alla Salute è fatto essenzialmente di:
118
segue
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• attenzione ai temi educativi, soprattutto sulla dimensione educativa delle discipline; capacità di lettura e di comprensione di segnali riguardanti fenomeni negativi per lo sviluppo individuale e sociale, abbinata alla ricerca su
possibili cause e concause;
• studio e proposte di alcune strategie per affrontare, in chiave preventiva,
quei fenomeni;
• promozione di iniziative e attività che incrementino il benessere all’interno
della scuola;
• lavoro in rete con le altre agenzie educative, e partecipazione alla «vita» del
territorio, per un sistema formativo integrato.
Su questi punti gli insegnanti «referenti» hanno sviluppato precise competenze e le hanno messe al servizio della scuola. Questo non significa che l’educazione alla salute sia compito di alcuni docenti, al contrario essa è tematica
connettiva che attraversa tutto il Piano di offerta formativa (Pof) di ogni scuola. I docenti referenti/esperti quindi, pur in un’ottica di differenziazione di
compiti e di cooperazione, rappresentano un patrimonio di competenze a cui
attingere, piuttosto che figure a cui delegare burocraticamente i compiti di
Educazione alla Salute.
L’autonomia scolastica
Le recenti innovazioni del settore scolastico, che hanno il loro punto
principale nel DPR n. 275 del 1999 «Regolamento recante norme in materia
di autonomia delle istituzioni scolastiche», possono apparire come un arcipelago di momenti isolati fra loro, se non si considera il concetto di «successo formativo» come base ed obiettivo comune a tutta l’operazione.
Il DPR infatti all’art. 1 recita: «l’autonomia delle istituzioni scolastiche è
garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia
nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione, mirati allo sviluppo della persona umana (…) al fine di
garantire [agli studenti] il successo formativo, coerentemente con le finalità
e gli obiettivi generali del sistema d’istruzione …». Il Piano dell’offerta formativa (Pof) è il «documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche». Nel Pof deve essere esplicitata
«la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa
che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia», promuovendo «le potenzialità di ciascuno e adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo».
Come si vede, l’obiettivo del «successo formativo» si è inserito a fianco di
quello del «benessere», indicato alle scuole dalla già citata legge n. 309 del
1990 sull’educazione alla salute.
«Per intendere il valore formativo di questi concetti basta pensare che si
è arrivati a proporli come valori di sintesi dell’azione formativa della scuola,
antagonisti di due mali quali il disagio giovanile e la dispersione scolastica
…».26 In questo modo si integrano e si precisano le indicazioni già fornite
che permettevano alla scuola di organizzarsi per intervenire efficacemente
anche sul disagio degli alunni, superando le confusioni sui concetti di facoltativo e, in particolare per la scuola dell’obbligo, di extracurricolare.
119
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Già il DPR n. 567 del 1996 prevedeva infatti che le scuole definissero «iniziative complementari e integrative dell’iter formativo degli studenti, la
creazione di occasioni e spazi d’incontro riservati loro, le modalità di apertura della scuola in relazione alle domande di tipo educativo e culturale provenienti dal territorio …». Tali iniziative integrative «sono finalizzate ad offrire occasioni extracurricolari per la crescita umana e civile e opportunità
per un proficuo utilizzo del tempo libero; sono attivate tenendo conto delle
esigenze rappresentate dagli studenti e dalle famiglie, dalle loro proposte,
delle opportunità esistenti sul territorio, della concreta capacità organizzativa espressa dalle associazioni studentesche, nonché, per la scuola dell’obbligo, delle associazioni di genitori».
Ora ogni scuola deve sentirsi obbligata «a pensarsi come comunità, cioè
come realtà relazionale che stabilisce legami di reciprocità e solidarietà fra i
suoi membri, a costruirsi come risorsa territoriale a tutti gli effetti, ad attivare e promuovere le risorse presenti nell’ambiente esterno», a collegarsi in
rete con altre scuole. Le indicazioni della riforma qui richiamata possono
essere sintetizzate, a partire dai suoi valori fondamentali, con lo schema che
segue:
Centralità del soggetto che apprende.
Dal diritto allo studio al diritto
all’apprendimento.
Valore formativo della cultura.
Successo formativo.
Formazione del cittadino.
Riconoscimento e valorizzazione delle
diversità, differenziazione, formazione
permanente, trasferibilità.
Solidarietà e cooperazione.
Contratto formativo, corresponsabilità fra
insegnanti, alunno, famiglia, territorio.
grande
attenzione
a
METODOLOGIA
flessibilità, articolazione, individualizzazione,
apprendimento costruttivo
lavoro di rete
120
A supporto del processo di autonomia delle scuole, il Provveditorato
agli Studi di Torino ha attivato delle Unità Territoriali di Servizi professionali per i Docenti (U.T.S.), tematiche e distribuite sul territorio, con un’attenzione particolare ai punti sopra indicati. Le U.T.S. funzionanti sono otto: Necessità Educative Speciali, Servizi per l’Orientamento, Centro Informazione Documentazione Inserimento Scolastico Stranieri, Centro Provinciale per l’Educazione degli Adulti, Servizi per l’educazione Motoria, Fisica e Sportiva, Dimensione Europea dell’Educazione, Centro Risorse Territoriale per le Lingue Comunitarie, Dipartimento di Scienze Umane,
Sociali e Umanistiche.
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Gli interventi degli Enti Locali e la Legge 285/97
Gli interventi degli Enti Locali, a supporto e/o in collaborazione con le
scuole, contro il disagio infantile nella nostra realtà piemontese coprono un
ampio spettro di possibilità. Sono interventi gestiti anche, attraverso apposite convenzioni, da associazioni di volontariato e cooperative sociali.
Si devono considerare almeno alcuni interventi diretti: da quelli della
cosiddetta Educativa Territoriale e domiciliare a quelli di supporto alla genitorialità, ai centri di ascolto, all’affidamento diurno, al sostegno psicologico;
particolarmente significativo è il progetto «Provaci ancora Sam». Ancora,
non va sottovalutata la partecipazione della scuola a diversi Tavoli Sociali e
Contratti di Quartiere, realizzati in alcune zone particolarmente sensibili.
Anche interventi per così dire più indiretti, quali laboratori territoriali e di
animazione, i soggiorni, ed esperienze formative diverse che rappresentano
concrete possibilità di intessere relazioni significative con il territorio di appartenenza e di sviluppare il protagonismo dei bambini, sono fortemente
significativi nella lotta al disagio dei bambini a scuola.
In particolare la Scuola piemontese è stata coinvolta in numerosi progetti, finanziati grazie alla Legge 285 del 1997, «Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza», soprattutto ai
sensi degli articoli 5, 6 e 7. Nella sola Città di Torino sono state più di 35 le
scuole dell’obbligo impegnate nella gestione dei progetti, con prevalenza
delle scuole elementari.
Nel dettaglio, si tratta di:
❖ «Azioni per la promozione delle opportunità di socializzazione positiva »: Scuole aperte il pomeriggio;
❖ Ampliamento del servizio (orario e utenza) dei laboratori della scuola dell’obbligo, delle ludoteche e punti gioco;
❖ Apertura delle strutture scolastiche durante le festività del calendario
e/o durante il periodo estivo;
❖ «Azioni volte alla promozione del protagonismo di preadolescenti e
adolescenti»:Percorsi sicuri a scuola;
❖ Ristrutturazione dei cortili scolastici;
❖ Progettazione partecipata per la trasformazione della realtà urbana;
❖ «Azioni di accompagnamento ai percorsi evolutivi»: Scuola e lavoro;
❖ Soggiorni (Loano, Pra Catinat, La Mandria);
❖ Luoghi della cultura;
❖ Scambi scolastici nazionali e internazionali.
Particolarmente significativa è stata la presenza delle scuole situate nelle zone «a rischio».
Oltre all’accordo di programma, previsto dalla legge stessa, tra il
Comune di Torino e il Provveditorato agli Studi, che ha partecipato alle diverse fasi di consultazione, preparazione, avvio e monitoraggio delle pro-
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gettualità, l’avvio di alcuni progetti è stato accompagnato dalla sottoscrizione di accordi specifici; così è stato per i progetti Drop Out «Provaci ancora
Sam» (recupero scuola media), Inserimento a scuola minori stranieri (14 –18
anni) C.I.D.I.S.S. (Centro Informazione Documentazione Inserimento
Scolastico Stranieri), Crescere in Città con Torino 2000, Estate Ragazzi, La
scuola adotta un monumento, Scuola Internazionale Europea.27
Anche nel nuovo Piano Territoriale triennale «Concerto 2»della Provincia
di Torino, varato nel gennaio 2001, che comprende 125 progetti dei Comuni
e/o Consorzi, fra gli enti coinvolti troviamo un elevato numero di scuole, in
prevalenza dell’obbligo, che sono presenti in più di 50 progetti. In questo
Piano c’è una varietà di temi-azioni ed iniziative, poiché la scelta della
Provincia di Torino è stata di «valorizzare e stimolare la capacità e la volontà
progettuale dei soggetti locali».
Le tipologie di progetti in cui sono coinvolte le scuole riguardano prevalentemente:
❖ Spazi per la famiglia (mediazione, confronto, sportelli d’ascolto);
❖ Sportelli d’ascolto per adolescenti; Laboratori anche in orario extrascolastico (teatrali, musicali, grafico-pittorici, manuali, per l’educazione ambientale, per lo sviluppo della creatività);
❖ Attività ludico-ricreative, di tempo libero; Protagonismo dei ragazzi
(Consiglio Comunale dei Ragazzi);
❖ Città amica, sviluppo abilità sociali;
❖ Educativa territoriale (potenziamento degli interventi su singoli «casi a rischio», sviluppo iniziative e azioni per gruppi anche misti, coinvolgimento famiglie);
❖ Scuola e disagio;
❖ Lavoro in rete con/fra servizi;
❖ Biblioteche.28
122
I due piani prevedono azioni mirate per la sensibilizzazione e la formazione di operatori, insegnanti e educatori, in particolare su abusi e maltrattamenti, su cui interviene anche la Regione Piemonte, e azioni rivolte alla
promozione dei diritti e educazione alla cittadinanza, attraverso la produzione di materiali e l’organizzazione di seminari e conferenze-dibattiti.
Nella realtà sopra richiamata, elementi di eccellenza convivono con la
difficoltà ad avere e mantenere buoni ed efficaci livelli di coordinamento e
sinergia, fra diverse agenzie ed enti e fra gli interventi. I rapporti faticano a
divenire sistema, anche a causa di una certa burocratizzazione ancora diffusa. L’evoluzione, in ogni caso, è verso politiche che prevedano interventi
sempre più integrati e partecipati, dando vita a rapporti di complementarietà tra diversi tipi di attori, pubblici e privati, favorendo la comunicazione
e la partecipazione dei soggetti a vario livello diversamente interessati.
Gli interventi «possono incidere positivamente solo se sono in grado di
mobilitare energie sociali ed economiche endogene».29
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4.6 Lavori in corso, strategie possibili
Due domande fondamentali riguardano il rapporto disagi dei bambinie-scuola fin qui trattato:
❖ quali condizioni agevolano l’elaborazione e la realizzazione di efficaci strategie contro il disagio di bambini e bambine nella scuola?
❖ quali iniziative può assumere, quali interventi valorizzare e potenziare, un soggetto esterno alla scuola, che intenda contribuire alla lotta
al disagio dell’infanzia così come si manifesta nella scuola?
«La risposta che la scuola può dare si colloca tanto sul versante dell’azione educativa e didattica, quanto sul versante delle politiche scolastiche e
degli interventi istituzionali. Da un lato riguarda, per così dire, l’ordinarietà
dell’esperienza scolastica, che deve essere di qualità, dall’altro la capacità di
sviluppare una strategia istituzionale che preveda interventi organici, mirati e integrati.»30
Con la consapevolezza che al «sistema del disagio» è bene offrire un «sistema di risposte», in cui quello educativo-scolastico rappresenta uno dei
sottosistemi più interessanti ed utili, si cercherà ora di indicare alcuni punti di forza, che costituiscono tessere importanti del mosaico e per la generalizzazione dei quali sarebbe opportuno lavorare. Per alcuni di questi punti si
può solo auspicare e prevedere un potenziamento dell’iniziativa istituzionale, per altri invece l’aiuto, anche economico, di enti e agenzie esterne risulterebbe indubbiamente utile ed efficace.
Lavorare per promuovere e prevenire
Ancora una volta siamo in debito con le riflessioni svolte, e le azioni attuate, per l’integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap.
Prendiamo infatti in prestito il concetto di «speciale normalità» proposto in
un recente Convegno internazionale sull’integrazione. La Speciale Normalità «rappresenta una condizione «mista», intricata in modo complesso,
di normalità e di specialità, che coesistono, si influenzano reciprocamente e
in cui l’una (la specialità) si trasforma nell’altra (la normalità), ne viene assimilata e la trasforma arricchendola. In questa sintesi però deve prevalere
la Normalità: la scuola di tutti, quella «vera» (…)
Troviamo anche la Speciale Normalità nella crescente eterogeneità delle nostre classi, crescente sia in termini di reale presenza di alunni con speciali caratteristiche …, sia in termini di sempre maggiore capacità e volontà
da parte dei docenti di comprendere le differenze e le individualità per tentare di rispondere in modo più individualizzato.
Troviamo la Speciale Normalità in quel crescente numero di alunni
«normali» che però presentano bisogni educativi speciali, che vanno affrontati adeguatamente. (…)
Troviamo anche la Speciale Normalità nella sempre maggiore consapevolezza delle normalissime differenze individuali delle «specialità» e singo-
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larità di tutti gli alunni, che chiede differenziazioni nella didattica e varie
individualizzazioni, ad esempio:
❖ le differenze di stile nell’elaborazione delle informazioni e nell’apprendimento
❖ la pluralità delle intelligenze e degli stili di pensiero.
Dunque vediamo la normalità sempre più sfaccettata, e ricca di elementi e caratteristiche di specialità: anche nell’alunno più apparentemente normale si trovano notevoli differenze e specialità, che vanno incontrate, conosciute, e a cui va data possibilità di espressione e valorizzazione. (…) Anche
nel caso degli interventi psicoeducativi sui comportamenti problema possiamo rimanere, sbagliando, al livello di interventi strettamente individuali,
oppure possiamo evolvere la nostra relazione educativa, leggendo le funzioni, prevalentemente comunicative e interpersonali, dei comportamenti
problema e proponendo all’alunno modalità sostitutive, più accettabili, di
comunicare. (…) [Il punto è di assorbire] all’interno di una prassi rivolta a
tutta la classe i principi di un intervento tecnico specialistico originariamente rivolto soltanto al soggetto problematico.»31
Questa lunga citazione, utile per la chiarezza dell’esposizione, esprime
l’ambito all’interno del quale vogliamo inserire alcuni suggerimenti di strategie educative possibili. Proponiamo alcuni «slogan», che dovrebbero far
emergere gli elementi di coerenza del quadro complessivo che si cerca di
delineare:
❖ valorizzare l’ecosistema formativo: progettare in modo unitario e integrato, dai progetti nella scuola al progetto della scuola; creare lavoro di rete all’interno della scuola, fra le scuole e con gli enti e le agenzie educative del territorio (e fra queste le famiglie); favorire la diversificazione per mirare gli interventi; ricercare il coinvolgimento di
tutti gli attori del sistema scuola; curare l’ambiente scuola e il contesto prossimo ad essa;
❖ considerare la dimensione esistenziale: privilegiare la relazione educativa, presupposto per la qualità dell’apprendimento; dare valore all’attenzione e all’ascolto, permettere alle emozioni ed ai vissuti di
emergere; favorire la costruzione dell’identità degli alunni;
❖ intervenire sulla classe, inserendo al suo interno eventuali interventi di tipo specialistico, e operando perché diventi un gruppo cooperativo;
❖ potenziare la formazione: degli insegnanti in particolare, prevedendo
anche forme di accompagnamento di tipo psicopedagogico in itinere, senza dimenticare i dirigenti ed il personale non docente.
124
Si può applicare anche alla scuola il concetto di «glocal», coniato dagli
ambientalisti, traducendolo nel senso della necessità di porre contemporaneamente attenzione ad aspetti globali (la società, l’educazione e l’apprendimento, il contesto prossimale di vita degli alunni e delle loro famiglie, ma
anche l’istituto, il progetto formativo, …) e aspetti locali (dalla classe, fino
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alla storia del singolo individuo-alunno, con i suoi problemi e le sue risorse, alla qualità dell’esperienza scolastica nella quotidianità). Tutto ciò con
l’obiettivo di avere una scuola sempre più qualitativa (evitando quindi di
pensare ad una scuola che si occupi di tutto, rischiando poi di non occuparsi sostanzialmente delle cose essenziali), che sia in grado di aiutare tutti gli studenti nel lavoro continuo di conoscenza e scelta fra strategie, fornendo loro gli strumenti e le procedure necessarie per vivere consapevolmente nella nostra società. La nostra realtà scolastica è attualmente caratterizzata da una «randomizzazione» delle risposte, ma in molte di esse già
si trovano elementi, se non proprio di un disegno strategico, di risposte positive possibili.
Una scuola che si ri-progetta
Le scuole che si confrontano da anni con il disagio hanno compreso, attraverso l’esperienza, l’importanza di collocare i propri obiettivi all’interno
del quadro di riqualificazione scolastica complessiva. Alcune esperienze,
che si stanno rivelando vincenti, hanno tra i principali fattori di successo:
❖ una certa ricchezza, intesa come disponibilità di mezzi economici e
di risorse professionali adeguata alle necessità, in modo da permettere alle scuole di acquisire gli strumenti utili per gli interventi predisposti;
❖ una buona disponibilità e capacità del personale della scuola al lavoro in team;
❖ la cura dell’alta qualità professionale individuale, anche mediante
forme mirate di formazione;
❖ una disponibilità a leggere i processi, innestati dalla realizzazione
dell’autonomia scolastica, come spinta all’innovazione e ad una rinnovata qualificazione anche pedagogica dell’istituto scolastico, e della sua offerta formativa;
❖ un progetto unitario di scuola, articolato e attento ai diversi livelli,
compreso quello individuale;
❖ una rete interistituzionale e di relazioni interpersonali, che concretizza la visione di sistema integrato.
Esiste un filo comune fra queste diverse realtà, rappresentato dalla ricerca della migliore risposta pedagogica e didattica alle esigenze culturali
espresse dal territorio in cui sono inserite, e dall’attuazione di una linea
operativa che si propone di valorizzare i fattori protettivi della scuola. Nella
scuola, infatti, ogni bambino/a può sperimentarsi in un contesto di relazioni significative, il ruolo dei coetanei e degli adulti può influenzare l’interiorizzazione delle regole sociali, l’autostima e l’autonomia; si possono proporre esperienze che alimentino il senso di un possibile successo in campi
diversi, con insegnanti che fungano da «figure di attaccamento secondarie».
Tutto l’intervento educativo e didattico, con le sue attività, è finalizzato
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al superamento delle situazioni di disagio e di instabilità relazionale, nella
continua ricerca di fornire ai bambini adeguate opportunità per l’acquisizione delle competenze della alfabetizzazione culturale, e favorire il maggior sviluppo possibile della loro personalità. Questo richiede che il processo di insegnamento-apprendimento sia connotato in senso orientativo, con
l’offerta di seri contributi all’orientamento nel mondo, e la valorizzazione di
interessi attitudini e potenzialità, rivolgendo l’attenzione al contesto ambientale e culturale in cui la scuola è inserita, rendendola concreto tramite
tra il bambino e la realtà.
Non va mai dimenticato, peraltro, che il modo di conoscere ed orientarsi nell’ambiente è legato agli aspetti affettivi e relazionali dei bambini e delle bambine. Gli obiettivi di prevenzione e contrasto del disagio nella scuola
si realizzano perciò soprattutto attraverso l’allestimento di interventi didattici mirati, spesso di tipo laboratoriale, con proposte metodologico-didattiche ed organizzative innovative. Le relazioni interpersonali sono da considerare fondamentali per tali processi di insegnamento-apprendimento, così come l’attenzione alle differenze individuali. Si cerca di superare la distinzione fra curricolare ed extracurricolare, e la scissione tra conoscenza ed
emozione, socializzazione e apprendimento, così da garantire un insegnamento attraente e flessibile.
In linea di massima, i progetti migliori coinvolgono, come già detto, l’intera scuola, a livelli differenti a seconda delle responsabilità e sensibilità individuali, con i docenti che svolgono attività di ricerca-azione sui fattori di
disagio di bambini e bambine, sui temi della relazione educativa e sullo stile educativo.
Sviluppare cooperazione, aprire le scuole
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È a questa serie di esperienze significative e di buone pratiche che ci rifacciamo anche entrando più nel dettaglio, con alcuni concreti suggerimenti. I ripetuti inviti, contenuti anche nella normativa, al lavoro di rete fra
scuole e sul territorio, trasversalmente con tutte quelle agenzie deputate ad
occuparsi di salute, sicurezza, educazione, se presi seriamente in considerazione evitano la trappola degli interventi separati, puntiformi, che non
raggiungono risultati soddisfacenti. Le collaborazioni stabili e la co-progettazione di interventi di rete con il territorio, e con gli Enti e le istituzioni ivi
operanti, comprese le realtà di volontariato e del terzo settore, vanno praticate non solo perché la scuola ha «bisogno di aiuto», quanto per l’origine
del disagio e i suoi possibili esiti, e a salvaguardia dell’unitarietà di ogni
bambino/a.
Ma, coerentemente con quanto scritto sino ad ora, per intervenire con
maggiore efficacia contro il disagio dei bambini, la scuola può proporre, anche in controtendenza rispetto a certi modelli vincenti, vere attività cooperative. Come detto, interessanti esperienze di questo genere sono state avviate da alcune scuole, ed hanno prodotto risultati sul piano dell’integrazione degli alunni, delle motivazioni, dei comportamenti, ma anche delle acquisizioni di carattere cognitivo.
Abbiamo così esperienze cooperative interne alla scuola, per la prepara-
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zione di merendine come per la produzione del giornalino scolastico, ma
anche giochi cooperativi in cui la riuscita è intrisecamente legata alla cooperazione fra i partecipanti. Una cooperazione più «esterna» è quella in cui
la scuola, o la classe, partecipa come tale ad iniziative concordate con, o rivolte al territorio, al contesto prossimale. Può essere l’adozione di una parte di territorio, la partecipazione a progetti di solidarietà sociale, a manifestazioni culturali e/o ludico-sportive, l’offerta di locali, come di attrezzature
e competenze per iniziative di associazioni, ecc. Tutto ciò sviluppa il senso
di appartenenza e di comunità e funziona da antidoto nei confronti del disagio infantile, anche perché permette ai bambini di esprimere capacità di
tipo non strettamente scolastico e di trovare più facilmente significativi momenti di visibilità positiva.
Un altro aspetto da mettere in rilievo è la possibilità di apertura della
scuola oltre l’orario e il calendario scolastico per gli alunni. Non si vogliono
riproporre qui il modello del doposcuola, né situazioni in cui si garantisce
semplice badanza a bambini e bambine «bisognosi/e», o momenti per il recupero scolastico. Perché sia proficua, l’apertura della scuola deve prevedere attività opzionali in cui l’aspetto vocazionale sia valorizzato al massimo.
Classi e laboratori
Nelle classi vengono realizzate attività di tipo laboratoriale ed a classi
aperte: intendendo la classe come gruppo e luogo fisico, ma anche spazio
mentale e di relazioni, a cui fare riferimento e ritorno, in un insieme di proposte e stimoli educativi diversificati: classe eterogenea, in cui si possa sviluppare il fondamentale processo della coeducazione.
Si privilegia l’apprendimento cooperativo, cercando di valorizzare le diverse intelligenze e i differenti stili di apprendimento individuali, offrendo a
tutti opportunità per l’acquisizione del massimo di conoscenza, competenze e capacità. Le modalità d’intervento maggiormente diffuse in queste situazioni prevedono anche il lavoro con piccoli gruppi di alunni, ma non viene escluso il rapporto individuale fra docente e alunno/a, sia pure in tempi
parziali e definiti, e per attività specifiche.
Entrano quindi a far parte del bagaglio delle competenze necessarie per
gli insegnanti, oltre alla rinnovata conoscenza di metodologie didattiche attive, la capacità di svolgere osservazioni sistematiche, di padroneggiare le
dinamiche di gruppo, di guidare le discussioni collettive e quelle attività e
giochi utili alla comprensione delle relazioni interpersonali, e per l’apprendimento di buone abilità pratiche e di vita.
La produzione di interventi pedagogico-didattici articolati e personalizzati impone un ampliamento della programmazione delle attività e dello
spazio educativo, in modo da tener conto delle varie esigenze dei bambini,
e una maggiore collaborazione collegiale fra gli adulti, anche per realizzare
l’arricchimento della valutazione scolastica in senso processuale, e con una
giusta attenzione all’area non cognitiva.
Lo sforzo di seguire i bambini secondo percorsi specifici e personalizzati, la realizzazione di progetti che intersechino le attività scolastiche con
quelle del tempo libero, che assumono dignità e importanza per la loro cre-
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scita e maturazione, vengono costruiti cercando di realizzare una programmazione degli interventi comune con gli altri servizi ed agenzie educative
del territorio.
A sua volta, il laboratorio va inteso non come momento aggiuntivo, ma
come tessuto di connessione nella pratica didattica quotidiana anche per
la ripresa e/o l’approfondimento di specifiche tematiche. È un ulteriore
spazio organizzato, dove si realizzano percorsi didattici strutturati per un
potenziamento dei livelli di apprendimento, in particolare per i bambini e
le bambine che vivono situazioni di disagio, con una didattica in cui il fare
e il pensare sono uniti, e sono facilitate le relazioni interpersonali, anche
confidenziali.
In questo modo si persegue la costruzione di un sistema in cui differenti momenti, attività e modalità di approccio-proposta, con diversi adulti e
diversi compagni, favoriscono nei bambini il superamento dell’instabilità,
oltreché la capacità di autonoma elaborazione di strategie d’apprendimento, per l’acquisizione e la capacità di transfert, nelle esperienze affettive e
sociali che vivono, di strumenti culturali di base.
Sono necessarie quindi proposte ricche, non scontate, che offrano opportunità di ampliamenti interdisciplinari, e l’utilizzazione di linguaggi diversi. Nello specifico dell’intervento contro il disagio, si tratta di rompere il
circolo vizioso che confermando una già scarsa autostima non fa altro che
rinforzarla: proposte in cui sia possibile mettere in gioco solo una parte di
sé, non sia scontato l’insuccesso, si parta dalle conoscenze e capacità che i
bambini possiedono e dalla loro esplicita valorizzazione. Vengono privilegiate quelle attività che favoriscono una ricerca della risoluzione di problemi; un’attenzione particolare viene dedicata anche ai problemi di natura sociale, articolati sui temi della comprensione di sé come agente sociale e degli stati emotivi esperiti nelle relazioni interpersonali, alla esplicitazione di
regole di convivenza, alla gestione del conflitto, al valore della cooperazione
ed allo sviluppo dell’empatia.
I laboratori cercano di valorizzare l’operatività vicina alle esigenze di
concretezza che molti bambini manifestano, così come di offrire ad alunni/e attività opzionali. Si propongono attività che permettono di concretizzare un prodotto finito (con un effettivo valore d’uso), anche per il forte valore educativo-didattico che possiede il continuo intreccio fra il lavoro di
ideazione, progettazione e quello operativo, per il benefico stimolo di capacità cognitive e per il loro conseguente potenziamento. È necessario predisporre tempi non troppo lunghi, e controllabili anche dal bambino o bambina senza bisogno di troppo aiuto; il prodotto, infine, deve avere visibilità
esterna, permettendo al bambino e alla bambina di dire con soddisfazione:
«Questo l’ho fatto io!».
Non sono necessari, in queste situazioni, grandi interventi; per favorire
la cooperazione, di cui i bambini hanno proprio bisogno, i progetti ben fatti hanno intrinseca necessità del contributo degli altri e agli altri. Così concepiti, i laboratori possono essere fortemente connotati in senso curricolare, o privilegiare contenuti tradizionalmente considerati meno scolastici; in
ogni caso si tratterà di prestare la massima attenzione e di intrecciare fra loro, sia gli aspetti metodologici più attinenti ai rapporti interpersonali e alle
dinamiche di gruppo, sia quelli riguardanti le tecniche di insegnamento-ap-
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prendimento, lo statuto epistemologico ed i linguaggi delle discipline, sia
infine gli aspetti specifici del contenuto scelto.
Qui si accennano solo alcuni esempi di percorsi possibili in sede di laboratorio, cercando di mettere in risalto l’importanza dell’intreccio sopra
descritto.
Il teatro, utilizzato come percorso educativo, favorisce insieme l’uso integrato di strumenti tecnici e disciplinari, l’apertura espressiva e all’altro, e
l’uso non stereotipato del corpo; inoltre permette l’esplorazione del valore
cognitivo e affettivo della relazione e la percezione della coralità necessaria
alla realizzazione del prodotto.
L’utilizzo di strumenti che la tecnologia offre comunemente, quali la telecamera ed il computer, e multimediali, permette la gestione del processo
di costruzione del prodotto e la sua progressiva trasformazione, l’uso combinato di modalità espressive diverse, una diversità modalità di interfaccia
(se è permessa la parola!), una rapidità di comunicazione, che altrimenti sarebbero impensabili: un uso, quindi, non separato e astratto di saperi e tecnologie. Si può inoltre fare educazione all’immagine ed opera di decondizionamento, facilitati dall’uso diretto ed appropriato di questa strumentazione. Infine, e per i bambini che vivono situazioni di disagio è molto importante, il computer non si arrabbia anche se si ripetono le stesse operazioni, una telecamera e un televisore permettono di vedersi come in uno
specchio, di cancellare le immagini non riuscite e di vedere e far vedere molte volte quelle riuscite o ben montate.
La musica crea facilmente un clima che aiuta la creatività e l’approccio
alle emozioni da parte dei bambini, e può altresì favorire l’ampliamento del
linguaggio, supportando attività di produzione e comprensione di testi.
La costruzione del rapporto fra alunno/a e la natura, attraverso un’educazione delle capacità di intervento sull’ambiente – a partire da quello circostante del giardino della scuola, alla costruzioni di micro-ecosistemi o alla coltivazione di fiori e piante – permette un proficuo lavoro con le percezioni e la possibilità di progettazioni individualizzate e, in quanto più facilmente controllabili, meno ansiogene di altre. Anche un laboratorio di aggiustaggio, bricolage e di produzione di materiali per i compagni – giochi,
arredi, strumenti, materiali di scena per il teatro, ecc. – può avere valenze
educative e didattiche importantissime, andando oltre le «attività manuali e
pratiche» o quelle di scienze naturali. Si possono così offrire al bambino o
bambina anche opportunità di acquisire facilmente consapevolezza dell’utilità del proprio lavoro, e di incrementare il senso di appartenenza alla comunità, con un implicito insegnamento del rispetto delle cose pubbliche.
La scoperta ed il controllo del proprio corpo, del movimento e dell’espressività, pur essendo trasversali a diversi dei percorsi appena indicati,
necessitano anche di momenti specifici, in cui l’obiettivo della ricomposizione tra fare e pensare sia esplicitamente riferito alla fisicità ed al pensiero.
Infine, per l’acquisizione da parte dei bambini di maggiori capacità relazionali e della presa di coscienza dei propri bisogni, emozioni e risorse, sono
certamente importanti gli atteggiamenti quotidiani degli insegnanti per una
corretta educazione socio-affettiva. Ma è anche «necessario riuscire a favorire la conquista di competenze prosociali attraverso un «allenamento» che
richiede tempo e specifiche attività (…) Si tratta di un percorso di apprendi-
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mento che coinvolge abilità cognitive ed atteggiamenti emotivi nello stesso
tempo».32
Talvolta può essere utile che questi programmi, almeno in una prima fase, vengano proposti da persone esperte e specificatamente preparate, in
compresenza con un insegnante, che potrà così a sua volta, attraverso questa formazione, incrementare le proprie capacità.
L’accompagnamento
130
Le esperienze di accompagnamento e tutoraggio degli alunni, nei casi
meno gravi di disagio, vedono la presenza di giovani all’interno della scuola, anche in tempi e spazi diversi, per attuare interventi individualizzati, in
stretta collaborazione con i docenti.
Si vuole evitare così una posizione «assistenzialistica» ed intervenire in
modo utile ed efficace su cause non eccessivamente profonde del disagio.
Vengono quindi attivate, all’interno della rete scuola-servizi-territorio, risorse inusuali, rappresentate da giovani che per lo più vivono nel medesimo territorio, sono fortemente motivati, appartenendo a strutture del volontariato sociale, e sono più vicini agli alunni negli interessi e nel linguaggio. Nei casi di bambini e ragazzi che manifestano un disagio più profondo,
e i cui comportamenti tanta influenza hanno anche sul clima complessivo
delle classi e della scuola, si deve partire dall’obiettivo dell’aggancio emotivo per un tentativo di rimotivazione, prima di pensare al rendimento scolastico.
Nella nostra realtà, il Comune di Torino, la Direzione Generale regionale
piemontese dell’Istruzione, alcuni Istituti di scuola media della città e
l’Ufficio scuola dell’Istituto San Paolo di Torino da alcuni anni hanno attivato un Progetto di recupero scolastico, complesso ed articolato in veri e propri obiettivi di intervento preventivo della devianza giovanile - «Provaci ancora Sam»- e propongono un nuovo segmento di questo progetto. Oltre al
recupero scolastico dei minori dai 14 ai 16 anni, esclusi dal normale percorso scolastico, ed il recupero di minori della fascia d’età 15-18 anni nei Centri
Territoriali per l’educazione Permanente (CTP), si sta sperimentando nelle
classi di prima media il progetto prevenzione– accompagnamento solidale,
che ha coinvolto 18 scuole.
Sono necessari a questi progetti una forte articolazione, tempi lunghi,
molteplicità e stabilità di figure adulte, cura della formazione delle persone
che collaborano con i docenti, e dei docenti stessi, con un’attenzione particolare agli aspetti psico-pedagogici della relazione d’aiuto che si vuole instaurare. Nell’ottica di una sempre maggiore e positiva integrazione sociale,
si pone la garanzia di una supervisione in itinere, anche a sostegno della fatica emotiva richiesta agli adulti coinvolti. Con un giro di parole, si può dire
che è necessario prevedere un «accompagnamento degli accompagnatori».
Nei casi in cui il disagio manifestato da alcuni alunni a scuola appare
grave, può essere necessario ipotizzare interventi multiformi e multipli, arrivando quasi ad una presa in carico dell’intero nucleo familiare. In questi
casi, oltre a quanto previsto e messo in atto dai servizi sociali, può risultare
utile prevedere un accompagnamento educativo particolare, per offrire al
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bambino l’opportunità di compiere esperienze di vita e di socializzazione
importanti, ed utili a metterlo in condizione di affrontare i compiti di sviluppo cui è chiamato. L’educatore professionale può svolgere efficacemente questo compito – dentro e fuori la scuola; – così come può fare da intermediario all’eventuale intervento di uno specialista con specifiche competenze psicologiche, per un intervento preventivo che eviti l’allontanamento
del minore dalla famiglia e valorizzi residue capacità dei genitori, aiutandoli anche ad inserirsi gradualmente in una rete di supporto come precedentemente descritta.
Alcune volte è possibile, come hanno dimostrato significative esperienze attuate in alcune scuole, prevedere degli interventi educativi e didattici in
cui si cerchi di potenziare la «coscientizzazione» del patrimonio conoscitivo
presente in ogni bambino; obiettivo primo è contribuire alla costruzione, in
questi bambini, della coscienza di essere in grado di sapere e saper fare delle cose e di provare il piacere di farle. È indispensabile lavorare anche con
piccolissimi gruppi di alunni, impostando interventi che intreccino in modo evidente e palpabile il fare e il pensare, e con adulti accoglienti, attenti ai
bisogni affettivi dei bambini, e capaci di creare un clima di lavoro e relazioni interpersonali favorevoli. La massima cura deve essere posta alle modalità del processo di insegnamento-apprendimento: con una continua esplicitazione dell’obiettivo, del contenuto della proposta e delle sequenze logiche e operative necessarie, in ingresso; con una grande attenzione al linguaggio e al suo arricchimento, alla necessaria riflessione, ma soprattutto al
controllo dell’impulsività e dell’emotività, nella fase intermedia; concludendo con numerosi tentativi di generalizzazione e trasposizione a diverse situazioni (bridging) delle modalità e dei processi messi in atto, e delle conoscenze apprese.
Il coinvolgimento delle famiglie
L’obiettivo di avere genitori maggiormente consapevoli e collaborativi
può essere perseguito, a partire dal considerarli una risorsa, attraverso la ricerca di coinvolgimento in iniziative e attività di cui sia percepibile l’utilità;
per ottenere un effetto moltiplicatore positivo, si creano microstrutture ad
hoc, anche gestite direttamente dai genitori. Spesso, per agganciare le famiglie che assumono un atteggiamento di delega nei confronti della scuola, si
rivela importante lavorare per piccoli gruppi «tematici». In questi casi i genitori possono assumere un ruolo di mediazione culturale importante sia
per i bambini sia per altre famiglie, e diventare efficaci moltiplicatori di partecipazione consapevole alla vita scolastica.
Sono indispensabili iniziative mirate, che abbiano come presupposto
quello di voler valorizzare gli aspetti migliori, le capacità spesso insospettate, ma anche i desideri dei genitori. Gli esempi possono essere diversi. Si
può partire coinvolgendo un gruppo di genitori in attività di preparazione
dei materiali per una festa o per uno spettacolo, o di uno spettacolo dei genitori, di miglioramento estetico della scuola, di riparazione di arredi o strumentazione, di assistenza in attività oltre l’orario scolastico, di elaborazione
di proposte didattiche per gli alunni, di allestimento e cura del funziona-
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mento di una biblioteca locale. Proporre il giornale dei genitori o la frequenza di un corso, se si rileva un bisogno di formazione specifica.
Esiste, e sarebbe da studiare e potenziare, qualche interessante esperienza anche di accompagnamento dei genitori da parte di altri genitori:
questa forma di tutoraggio non invadente può permettere a genitori «troppo» occupati da loro stessi, genitori in difficoltà che non «vedono» i figli, di
riscoprirli, attraverso, per esempio, la valorizzazione dei prodotti dei bambini. È un lavoro molto delicato, che necessita di una certa formazione dei
genitori tutor e di un monitoraggio costante, ma leggero, delle situazioni.
Per favorire un contatto diretto, in alcune scuole si sono allestiti anche
nuovi servizi ed opportunità per le famiglie, come sportelli-centri d’ascolto,
che consentono ai genitori di portare all’attenzione della scuola problemi,
richieste, suggerimenti e proposte, e di ricevere attenzione, informazioni,
suggerimenti, indicazioni. Si fornisce così alle famiglie l’opportunità di ricevere informazioni sui servizi, le agenzie e le risorse, innanzitutto di tipo educativo, che «fanno rete» con la scuola. Il tutto in una situazione più accogliente, e nello stesso tempo più «neutra» e riservata, rispetto al colloquio
con l’insegnante del proprio figlio o figlia.
Ancora, la realizzazione di forme di counselling vero e proprio rivolte ai
genitori, ma anche agli insegnanti, ha lo scopo di rafforzare la rete di interventi di protezione nei confronti dello sviluppo di bambini e bambine, e deve essere strettamente connessa con gli altri interventi attivati a livello socio-assistenziale e sanitario. Il dibattito sul luogo più adatto per svolgere un
simile servizio, in modo da favorire l’accesso di coloro che ne hanno bisogno e per i quali nasce, è ancora aperto. In questa sede ci si limita a rilevare
che solo un’attenta analisi del territorio, e dei bisogni che esprime, permettono di sciogliere, almeno provvisoriamente, questo nodo.
Queste iniziative sono per lo più gestite dalle scuole in collaborazione
con operatori di altri servizi del territorio e/o di associazioni. Quello che è
certo è che qualunque iniziativa si voglia attuare sono necessarie risorse,
perché l’impegno volontario delle persone abbia sempre un supporto – in
materiali, strutture e finanziamenti – che stimoli anche quello spirito d’impresa, di cui oggi tanto si parla, e che solo in parte normalmente una scuola può garantire.
Note
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1. Non solo sfruttati o violenti - Bambini e adolescenti del 2000, Ist. degli Innocenti,
Dip. Affari Sociali, 2001
2. Non solo sfruttati o violenti, cit.
3. La difficoltà ad apprendere, Convegno Internazionale, Torino 1988, L. Di Cagno (introduzione)
4. Non solo sfruttati o violenti, (cit.) - p. 202. V. il cap. 8 del presente Rapporto.
5. T. Musatti, Attorno ai più piccoli: confronto multiculturale e socializzazione, MPI /
CNR Convegno «Scuola e società multietnica», Roma 2001
6. La rete spezzata, Caritas Italiana e Fondazione Zancan, Feltrinelli, 2000
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 133
7. Indagine sulla dispersione scolastica, Comm. Cultura Camera dei Deputati 1999
8. «Se 0.3 vi pare poco: demografia e scuola» – Valore Scuola – CGIL Scuola, febbraio
1994
9. F. Bianchi di Castelbianco, M. Di Rienzo, Vivere bene la scuola. Esplorazione del disagio infantile nel mondo scolastico, Edizioni Scientifiche MaGi, Roma, 2000
10. Per il successo scolastico - Giornale dei docenti D.D. «Leopardi», Torino
11. Nodi&Snodi (Progetto ITACA Comune di Torino, in collaborazione con Provveditorato agli Studi di Torino) 2000
12. D. Olweus, Bullismo a scuola, Giunti ed., 1996
13. Sharp e Smith, Bulli e prepotenti a scuola, Erickson, 1995
14. A. Fonzi, Bullismo in Italia, Giunti ed., 1997
15. F. Prina, Bullismo e violenza a scuola, Città di Torino, 1997
16. S. Bonino, Piemonte e Valle d’Aosta: i ragazzi si raccontano, in A. Fonzi, op. cit.,
1997
17. Nodi&Snodi, op. cit.
18. Gruppo di Ricerca insegnanti utilizzati progetto provinciale prevenzione dispersione
scolastica e promozione del successo formativo – Settore Sc. Materna ed Elementare,
Torino
19. N. Citarella, Scuola e multimedialità, in «Babele», Ass. Psicologi SRM, n. 18/2001
20. CISMAI, Il fenomeno dell’abuso sessuale e del maltrattamento ai danni di minori,
2000
21. Zecca, Il bambino inferiorizzato, p.117
22. I dati riportati in questo paragrafo provengono, salvo diversa indicazione da M.P.I. –
Servizio statistico
23. Sembra diffusa la consapevolezza di quanto ben espresso in uno dei rapporti che
l’Istituto degli Innocenti di Firenze ha realizzato per il Ministero della Solidarietà
Sociale: «Nelle scuole, sul piano concreto e su quello teorico, assistiamo ad una sorta di tensione divaricante fra funzione di apprendimento e funzione di socializzazione. In realtà … le due funzioni non sono separabili che attraverso un esercizio di
astrazione. (…) Quella tensione divaricante sottolinea il duplice rischio che vive la
scuola oggi, pur fra tanto qualificato impegno: il carattere astratto, irrilevante ai fini
personali, non gratificante della funzione di apprendimento che vi è svolta; per contro, il suo essere spesso luogo di socializzazione povera, casuale, più riparo temporaneo alle insicurezze che alla frammentazione e alla solitudine contemporanea»:Un
volto o una maschera?, Ministero degli Affari Sociali, 1997
24. Osservatorio & C., Provveditorato agli studi di Torino, 1998 (p.164)
25. Rosina, Zucchi, L’educazione alla salute nella scuola, Provveditorato Studi di Torino,
1997
26. Non solo sfruttati e violenti, op. cit., p.58
27. Elaborazione dal Piano Triennale, a cura di Torino Città Educativa
28. Elaborazione da «Concerto 2» Piano Territoriale d’Intervento, 2000/2002, Provincia
di Torino
29. IRES Piemonte, La configurazione sociale dei diversi ambiti spaziali nella città di
Torino, 2000, p.4
30. MPI, La scuola e i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, nota d’indirizzo, 1998
31. D. Ianes, Il bisogno di una «speciale normalità» per l’integrazione, Convegno «La
qualità dell’integrazione nella scuola», Erickson, 2001
32. Nodi&Snodi, op. cit.
133
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BAMBINI E DISABILITÀ
5.1 Premessa
5
134
In queste pagine si è tentato di offrire una lettura che nasce soprattutto
dall’esperienza diretta con i bambini disabili e con le loro famiglie, sviluppata all’interno dei servizi e dei gruppi di auto mutuo aiuto. Il taglio, più empirico che scientifico – analitico in senso stretto, trova il proprio fondamento nella richiesta dei cosiddetti utenti, che, soprattutto, desiderano essere
affrontati, trattati, avvicinati come individui e non come «casi». Si impara a
guardare le persone negli occhi, a non farsi spaventare dai loro bisogni e dalle loro paure. Sicuramente questa è una lettura parziale, non solo per le premesse esposte, ma soprattutto per la complessità del problema trattato.
L’handicap nella maggioranza dei casi, a differenza di altre condizioni
sfavorevoli, è uno «svantaggio permanente», che determina nelle persone
una situazione di dipendenza, nel tempo duratura e costante, seppur mutevole. Le condizioni di autonomia sono quindi compromesse, in relazione a
molte variabili: tipologia, gravità ed esiti dell’handicap, condizioni economiche, sociali, culturali, qualità degli interventi e degli esiti riabilitativi, e così via. In qualsiasi caso, le condizioni di autonomia possibili e realizzabili
non sono scontate, ma da conquistare, dimostrare, difendere, ottenere, sia
nei confronti di persone (genitori, fratelli, sorelle, insegnanti, operatori ecc.)
sia verso i servizi. La dipendenza si traduce, infine, nella moltiplicazione di
figure professionali, e di soggetti erogatori di prestazioni e di servizi. Ciò significa che, nel «panorama esistenziale e relazionale» di una persona disabile e della sua famiglia, sono presenti molti e diversi soggetti, sia pubblici
sia del terzo settore, che intervengono a vario titolo e con competenze diverse. Alcuni di questi costantemente (medici, assistenti sociali, terapisti
ecc.), altri variano a seconda delle fasce di età (educatori, insegnanti di sostegno, associazioni di volontariato e così via).
Inoltre, nell’ambito dei minori, le informazioni sono molto frammentate e parziali, poiché risentono delle diverse «titolarità» di intervento: si tratta, per ricostruire tale panorama, di cercare di capire «chi fa cosa» e riflettere su «chi e cosa non c’è».
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5.2 Problemi di classificazione e definizione
Concetti
Quando si parla di disabilità, molte sono le trappole in agguato, spesso
riferibili alla terminologia corrente, agli strumenti utilizzati e all’ottica con
cui si affronta la lettura del problema, o alla inadeguatezza che si avverte di
fronte a certe complessità: servizi e operatori spesso non hanno risposte. I
significati e le implicazioni terminologiche, innanzi tutto, variano a seconda del soggetto classificatore o utilizzatore.
Per l’OMS, le definizioni che individuano disabilità, handicap, menomazione seguono determinati criteri ed hanno precise implicazioni non sempre esattamente coincidenti con quelli adottati, ad esempio, dai servizi sociali, che devono ragionare in termini di prestazioni, servizi e liste d’attesa.
(Scheda A).
Scheda A – Definizioni della disabilità
Nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha proposto una classificazione generale così articolata:
Disabilità
Definizione:
Nell’ambito delle evenienze inerenti alla salute, si intende per disabilità qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) delle capacità di
svolgere un’attività nel modo o nei limiti considerati normali per un essere
umano.
Caratteristiche:
La disabilità è caratterizzata da scostamenti, per eccesso o per difetto, nella
realizzazione dei compiti e nella espressione dei comportamenti, rispetto a ciò
che sarebbe normalmente atteso. Le disabilità possono avere carattere transitorio o permanente ed essere reversibili o irreversibili, progressive o regressive.
Possono insorgere come conseguenza diretta di una menomazione o come
reazione del soggetto, specialmente da un punto di vista psicologico, a una
menomazione fisica, sensoriale o di altra natura.
Classificazione:
• Disabilità nel comportamento
• Disabilità nella comunicazione
• Disabilità nella cura della propria persona
• Disabilità locomotorie
• Disabilità dovute all’assetto corporeo
• Disabilità nella destrezza
• Disabilità circostanziali
• Disabilità in particolari attività
• Altre restrizioni all’attività
segue
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Handicap
Definizione:
Nell’ambito delle evenienze inerenti alla salute, l’handicap è la condizione di
svantaggio conseguente a una menomazione o a una disabilità che in un soggetto limita o ostacola il compito di una funzione ritenuta normale per un individuo, in relazione alla sua età, sesso e condizione socio-culturale.
Caratteristiche:
L’handicap è collocato alla fine di un processo di dipendenza funzionale, preceduto dallo stato di malattia, menomazione, disabilità. L’handicap, quindi,
non è attributo funzionale del soggetto, ma risultato dell’interazione fra il soggetto (disabile) e il sistema in cui si trova ad interagire; riguarda il significato
assunto da una situazione o esperienza individuale quando essa si scosta dalla normalità.
Esso è caratterizzato dalla discrepanza tra l’efficienza o lo stato del soggetto e
le aspettative di efficienza e di stato sia dello stesso soggetto sia del particolare gruppo di cui fa parte.
Classificazione:
• Handicap nell’orientamento
• Handicap nell’indipendenza fisica
• Handicap nella mobilità
• Handicap occupazionali
• Handicap nell’integrazione sociale
• Handicap nell’autosufficienza economica
• Altri handicap
Menomazione
Definizione:
Nell’ambito delle evenienze inerenti alla salute, per menomazione si intende
qualsiasi perdita o anormalità temporanea o permanente di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica.
Caratteristiche:
La menomazione è caratterizzata da perdite materiali o anormalità che possono essere transitorie o permanenti e comprende l’esistenza o l’equivalenza di
anomalie, difetti o perdite a carico di arti, tessuti o altre strutture del corpo. La
menomazione può rappresentare visibilmente uno stato patologico e, in linea
di principio, può riflettere i disturbi manifestati a livello organico.
136
Classificazione:
• Menomazioni della capacità intellettiva
• Altre menomazioni psicologiche
• Menomazioni del linguaggio e della parola
• Menomazioni auricolari
• Menomazioni oculari
• Menomazioni viscerali
• Menomazioni scheletriche
• Menomazioni deturpanti
• Menomazioni generalizzate, sensoriali e di altro tipo.
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Così nel campo della disabilità i concetti di lieve, grave e gravissimo, impiegati per precisare le condizioni di una persona con insufficienza mentale, poco dicono di quell’individuo, mentre fanno subito intuire il tipo di servizio e quindi di assistenza necessari.
Cosa dire di tutte le situazioni in cui convivono più disabilità, o in cui
qualcuna non è riconosciuta? Ad esempio, in diversi casi, di fronte ad una situazione di handicap motorio evidente, affiancato ad una insufficienza
mentale lieve, la famiglia preferisce riconoscere (o riesce a riconoscere) solo la disabilità motoria. Ciò per molti motivi: è meno vergognosa, si pensa di
poterla «curare», è intollerabile pensare di avere un figlio handicappato da
tutti i punti di vista, e così via. E cosa dire delle implicazioni neurologiche,
che si ripercuotono anche da un punto di vista cognitivo, comportamentale e culturale?
Un altro aspetto problematico è dato dalle zone di contiguità tra la malattia (che di per sé può non essere invalidante) e complicanze, che possono
determinare condizioni di disabilità: l’anoressia è un esempio interessante,
perché coinvolge giovani in età sempre più precoce. La persona malata, in alcuni casi, è una persona da curare; in altri è una persona da assistere, e può
essere considerata malata o disabile a seconda del servizio fruito. Si sta assistendo alla trasformazione dell’utilizzo di alcuni servizi, che, nati per le persone con handicap, ora sono richiesti da persone malate, come ad esempio
il servizio di trasporto tramite buoni taxi. Questo servizio, organizzato per
aiutare le persone che hanno gravi impedimenti alla deambulazione (anziani, disabili motori e non vedenti) che usufruiscono del trasporto tramite buoni taxi, ha poco più di 3000 utenti a Torino (181 di questi sono minori compresi nella fascia 2-18 anni). È ora in grande difficoltà, per il numero delle richieste, sempre crescente, di trasporti per persone con malattie oncologiche,
che devono recarsi ad effettuare terapie, compresi anche bambini. Si può così concludere che una persona disabile non è solo un malato, e che un malato può essere anche una persona disabile.
Il concetto di disabilità dunque è trasversale e variegato; bisogna evitare
le semplificazioni e gli accorpamenti artificiosi. La condizione di disagio e di
difficoltà psicologica e/o relazionale non necessariamente coincide con una
condizione di disabilità. La legge 104 del 1992 stabilisce che «è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale,
stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di
svantaggio sociale o di emarginazione». Questi presupposti riguardano tutti gli individui disabili; quindi, da un punto di vista formale, la condizione di
handicap deve essere accertata e diagnosticata dall’équipe multidisciplinare dell’A.S.L. del territorio di residenza del minore. Solo dopo tale accertamento, un soggetto è considerato disabile, e può accedere ai servizi e alle
forme di sostegno previste. È evidente che tale certificazione riguarda esclusivamente gli aspetti funzionali e che i fattori concernenti il/i deficit sono
determinanti al fine della definizione delle reali e generali condizioni di
svantaggio: le limitazioni date da una insufficienza mentale gravissima non
sono le stesse prodotte da una disabilità sensoriale.
Il problema della definizione certa di una condizione di handicap diventa spinoso, soprattutto nei casi che riguardano i disturbi della comuni-
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cazione e del comportamento. Un esempio interessante, sia dal punto di vista dell’evoluzione diagnostica, sia rispetto ai ruoli e alle funzioni di stimolo e innovazione che, anche in questo campo, i servizi possono assolvere, è
dato dall’autismo, e dal progetto ad esso collegato promosso in ambito regionale (Il bambino che scende dalla luna). Una delle principali finalità dell’iniziativa promossa dalla Regione Piemonte, è infatti quella di promuovere e migliorare la fase diagnostica nel campo dell’autismo. È molto importante comprendere l’importanza di una diagnosi certa e precoce, in quanto
il successo degli interventi educativi e/o riabilitativi in molti casi è strettamente connesso alla pertinenza e alla tempestività degli interventi stessi.
Veniamo ora ai bambini (minori) disabili. Qual è il nesso che unisce i due
concetti, quale equilibrio esiste tra le due condizioni, una sicuramente
svantaggiata (l’essere disabile), l’altra non necessariamente (l’essere minore)? Nella realtà si registra tra le due espressioni uno scarto concettuale, che
connota, forse con eccessiva enfasi, la condizione sociale del minore, a scapito del riconoscimento e dell’intervento specifico sul deficit, in termini di
gamma delle offerte e di integrazione in senso globale. In altri termini, i servizi tendono a riconoscere e tutelare la condizione di minore più che quella
di disabile. Ciò, se da un punto di vista delle buone intenzioni sembra un atteggiamento moderno e democratico, nella realtà si traduce nella difficoltà
da parte dei bambini e delle famiglie di trovare migliori risposte ai bisogni.
Le offerte fino a 6 anni riguardano quasi esclusivamente l’ambito sanitario,
e l’approccio è curativo, riabilitativo, più che di integrazione nel senso pieno del termine. Successivamente, da 6 fino a 14 anni, è la scuola dell’obbligo, attraverso l’assegnazione di insegnanti di sostegno, a rappresentare il
soggetto erogatore di servizi; ancora una volta, la visione è parziale, perché
risponde ad una particolare tensione, quella dell’integrazione scolastica. È
una visione parziale, che corrisponde ad una scansione temporale specifica
(6-14 anni), che rappresenta solo una porzione del tempo globale di un individuo.
L’atteggiamento che considera il bambino disabile esclusivamente un
minore, e la conseguente scelta di «investire» dal punto di vista della sua integrazione solo in tali termini, è dunque una posizione inadeguata. Questo
limite si manifesta con evidenza soprattutto in due situazioni:
❖ durante il periodo della scuola dell’obbligo, quando la scuola (da sola) non riesce a colmare le richieste di normalità e socializzazione del
bambino;
❖ successivamente, quando per un ragazzo disabile (pur essendo minore) non sono previsti offerte e interventi specifici.
138
Infatti, per la fascia di età dai 14 ai 18 anni, i servizi sono quasi assenti: i
ragazzi sono troppo cresciuti per fruire dei servizi scolastici, ma troppo piccoli per ottenere quelli previsti in ambito socio assistenziale, il terzo settore
solo parzialmente riesce a colmare le lacune esistenti. Ciò è tanto più vero,
se riferito all’ambito dell’insufficienza mentale grave e gravissima. Queste
contraddizioni si avvertono in maniera sensibile quando si raccolgono
informazioni nel campo: l’ambito statisticamente meglio rappresentato è,
ancora una volta, quello della scuola. Ciò non perché la scuola «lavora» be-
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ne, ma perché, insieme al sistema sanitario, è sovente l’unica istituzione che
lavora a vantaggio di questi soggetti (Scheda B).
Scheda B – Il trattamento dei bisogni
Presa in carico
È il processo integrato e continuativo, attraverso cui deve essere garantito il governo coordinato dell’insieme degli interventi sulle condizioni che ostacolano
l’inserimento sociale, scolastico e lavorativo, inteso a favorire il più completo
dispiegarsi della personalità dei singoli individui. In un quadro di riferimento
sulla nuova classificazione ICDH-2 (International Classification of Disease
Disability and Handicap) dell’OMS, la presa in carico dovrebbe essere definita
come la strategia di attenzione di servizi, distribuiti omogeneamente sul territorio, verso la condizione di svantaggio delle persone con disabilità. Questa
strategia di attenzione deve tradursi, attraverso l’offerta di servizi pubblici o
privati, in interventi, coordinati e con la continuità necessaria, che abbiano la
finalità di valorizzare le capacità e le abilità delle persone con disabilità, e di
operare, con risorse e competenze adeguate, per il conseguimento di una pari
opportunità di condizione tra i cittadini, limitando o eliminando le discriminazioni sociali e culturali.
La presa in carico è uno dei momenti fondamentali per l’impostazione e il
mantenimento del rapporto persona/famiglia/sistema dei servizi/contesto sociale. È quindi un processo che, rispettoso delle scelte individuali delle persone in situazione di handicap e dei loro familiari, è influenzato dalla entità e
qualità delle risorse esistenti, dai livelli di integrazione tra servizi e istituzioni,
oltre che dalla loro capacità di garantire con continuità il coerente evolversi dei
percorsi di vita. Richiede particolare attenzione nei contesti di intervento ad
ampia espressività interistituzionale, e nelle fasi di passaggi evolutivi di particolare significatività, come ad esempio quello infanzia/adolescenza o adolescenza/età adulta.
(a cura del gruppo di lavoro «Presa in carico e riabilitazione»
Prima Conferenza Nazionale sulle Politiche dell’Handicap)
Bisogni Educativi Speciali (B.E.S.)
Con questo concetto si intende l’analisi dei bisogni individuali di particolari
fasce di popolazione, e la pianificazione di strategie utili a compiere processi
di integrazione sociale nei diversi contesti di vita.
Anche in questo caso ci sono problemi di classificazione generale rispetto al significato attribuito a tale termine dalle diverse realtà nazionali. L’OCSE sottolinea che esistono differenze tra un paese e l’altro nel modo di valutare i bisogni dei minori, differenze che riguardano la terminologia usata, ma anche le
categorie con le quali sono classificati i minori in difficoltà. Ciò spiega l’incertezza con cui si confrontano tra un paese e l’altro i numeri di minori con bisogni educativi speciali.
Una parte dei minori inseriti in questa categoria sono portatori di minorazioni o deficit, secondo le definizioni fornite dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità.
L’Unione Europea, attraverso il Progetto MOISE inserito nel Programma SOCRATES, ha finanziato diversi soggetti istituzionali europei, che si sono impegnati, con compiti e obiettivi diversi, nella definizione di un Modello
Organizzativo Internazionale dei Servizi per Bisogni Educativi speciali, da cui
l’acronimo del Progetto.
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I dati ovvero la loro mancanza
«Finora le analisi e le valutazioni di carattere epidemiologico sull’handicap, compiute a livello nazionale, non hanno permesso di ottenere informazioni complete per conoscere quanti siano i portatori di handicap in età
evolutiva, e ancor meno, di descrivere compiutamente quali e quante siano
le diverse problematiche. L’utilizzazione di diversi criteri e parametri non ha
consentito di pervenire ad una corretta rilevazione statistica; ha contribuito, invece, ad alimentare informazioni confuse e incerte, nonché l’invisibilità sociale di questa realtà».
Questo veniva affermato dall’Istituto degli Innocenti di Firenze nel
Rapporto 1996 sulla condizione dei minori in Italia, ed è valutazione che trova un riscontro nell’esperienza di coloro che operano nel campo. Si cerca di
produrre numeri, e di ottenere cifre, ma sono quasi sempre informazioni
che, per la loro parzialità e incertezza, poco dicono rispetto alla vastità dell’argomento. Con questo non si intende sostenere che non esistono statistiche capaci di restituire adeguatamente i confini del «fenomeno» indagato,
ma che dal punto di vista statistico il fenomeno non è ancora stato studiato
adeguatamente.
Analizzando le statistiche prodotte in ambito nazionale, si scopre che i
dati più consistenti e approfonditi inerenti i minori disabili riguardano le
scuole dell’obbligo, per ciò che concerne le forme di sostegno scolastico.
Altre informazioni reperibili interessano l’handicap in generale; il fenomeno è analizzato per ampie fasce di età (6-14 anni), in relazione alle condizioni di salute e al ricorso ai servizi sanitari: nulla, o poco, si sa sul tempo libero, gli stili di vita, le tipologie delle famiglie e così via. Secondo i dati dell’indagine Multiscopo Istat, riferiti al lontano 1994, si contavano in Italia
2.364.000 famiglie con almeno un disabile. Le disabilità in persone comprese tra 6 e 14 anni, per il 56% maschi e 44% femmine, raggiungevano 400.000
casi in Italia (Tab. 5.1)
Anche dal punto di vista locale (regionale o provinciale) la situazione
non cambia, è sempre l’ambito scolastico ad essere meglio analizzato.
Non manca una «autarchia» delle banche dati. Queste non dialogano e
non scambiano informazioni. Ogni soggetto costruisce i propri archivi
informatizzati e si «tiene» le proprie informazioni. Inoltre, oltre a non dialogare, le banche dati sono scarsamente visibili e difficilmente consultabili.
Tutto ciò denuncia la debolezza degli Osservatori quali strumenti istituzionali utili allo studio e al controllo di determinati fenomeni sociali. In diversi casi sono degli strumenti poco funzionanti. Si deve ricorrere direttamente ai servizi, agli operatori e alle famiglie, per ottenere le informazioni utili
per capire il fenomeno.
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Tabella 5.1 – Disabili, per classe di età, tipo di disabilità e sesso
Maschi (dati in migliaia)
Tipo di disabilità
Classi di età (anni)
6-14
Disabili
15-24 25-34 35-44
Totale
45-54 55-64
65
e oltre
106
35
37
35
54
135
626 1.028
7
11
6
11
17
34
237
Disabilità nelle funzioni
102
14
18
18
23
93
461
729
Difficoltà nel movimento
3
3
6
6
17
50
268
353
135
215
Confinamento individuale
Difficoltà vista, udito e parola
Totali
323
5
17
15
9
15
19
223
80
82
79
126
331 1.727 2.648
Classi di età (anni)
Totale
Femmine (dati in migliaia)
Tipo di disabilità
6-14
Disabili
15-24 25-34 35-44
82
24
21
Confinamento individuale
5
8
Disabilità nelle funzioni
74
9
Difficoltà nel movimento
6
Difficoltà vista, udito e parola
7
174
57
Totali
45-54 55-64
65
e oltre
34
79
160 1.249 1.649
11
11
24
48
494
9
12
31
80
873 1.088
6
8
12
30
70
598
730
10
10
7
15
25
208
282
59
76
179
383 3.422 4.350
601
Fonte ISTAT Indagine multiscopo sulle famiglie, anno 1994
5.3 Le competenze e gli interventi del settore
pubblico
I principali soggetti pubblici erogatori di servizi per l’ handicap sono collocati nel settore sanitario (Aziende Sanitarie Locali e Aziende Ospedaliere),
nella scuola (Direzioni Generali Regionali Scolastiche), e nel settore Socioassistenziale (Enti Locali, soprattutto Comuni, e loro Consorzi).
Le aziende sanitarie: le funzioni
Per ciò che concerne le prestazioni rivolte alle persone in condizione di
handicap, le Aziende Sanitarie Locali gestiscono in forma diretta alcuni servizi a valenza sanitaria e, parallelamente, concorrono alle spese per la gestione di servizi socio assistenziali con caratteristiche e componenti anche
sanitarie (ad esempio i servizi residenziali e semi residenziali, ecc.); tali
competenze in alcuni casi non sono di facile definizione. Inoltre, si deve ri-
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cordare che il sistema sanitario prevede un certo grado di autonomia gestionale delle Aziende Sanitarie, che si traduce in offerte di servizi piuttosto
diversificate nelle Aziende Sanitarie Locali piemontesi.
In sintesi si offre una definizione generale delle offerte in ambito sanitario, per ciò che concerne la popolazione oggetto di intervento.
Neuropsichiatria infantile (N.P.I.)
Il Servizio di Neuropsichiatria infantile fornisce prestazioni di diagnosi,
terapia e riabilitazioni a minori (da 0 a 18 anni) con problemi psicologici e/o
con handicap. Si occupa delle prevenzione e cura dei disturbi neuropsichiatrici e neurologici:
❖ disturbi psicologici e relazionali
❖ disturbi logopedici (della comunicazione, del linguaggio, della deglutizione) in età evolutiva
❖ attività in materia di inserimento scolastico di allievi portatori di
handicap
Prestazioni:
❖ visite neuropsichiatriche e neurologiche
❖ colloqui ed esami psicodiagnostici
❖ inquadramenti logopedici
❖ riabilitazione logopedica
❖ terapia farmacologica
❖ psicoterapia e colloqui di sostegno
❖ colloqui e consulenze specialistiche neuropsichiatriche, psicologiche, a genitori e insegnanti, servizi specialistici ad istituzioni che si
occupano di minori
Assistenza riabilitativa
Il Servizio garantisce interventi riabilitativi e rieducativi per il recupero
funzionale a seguito di traumi e malattie. In alcuni casi (a discrezione dell’ASL) l’assistenza può essere svolta a domicilio.
Prestazioni:
❖ visite fisiatriche
❖ terapia riabilitativa
❖ rieducazione motoria
❖ rieducazione logopedica per linguaggio e deglutizione
❖ prescrizione di protesi e ausili per disabili
Assistenza medico-legale
Il Servizio di Medicina Legale interviene nell’esprimere valutazioni a carattere medico in casi particolari e per situazioni precise stabilite a norma di
legge. Utile per:
142
❖ certificazione dello stato di handicap (L. 104/92)
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❖ ottenimento dell’indennità di invalidità civile
❖ rilascio del contrassegno speciale per il permesso di sosta
❖ assistenza protesica (protesi e ausili)
Diagnosi funzionale (D.F.)
L’équipe multidisciplinare dell’A.S.L. del territorio di residenza della famiglia, su richiesta della stessa, ha il compito di redigere la Diagnosi
Funzionale, documento indispensabile per ottenere i benefici della Legge
104/92. Tale documento, inoltre, è necessario in altre situazioni, quali l’iscrizione del bambino alla scuola dell’obbligo. La Diagnosi Funzionale è il
documento indispensabile per chiedere l’insegnante di sostegno e tutti i
supporti utili all’integrazione. In mancanza di tale documento, l’allievo non
può in alcun modo essere considerato in situazione di handicap.
Le Direzioni generali regionali scolastiche
Nell’intenzione legislativa, l’integrazione scolastica del disabile si realizza prevalentemente attraverso gli strumenti di lavoro partecipati (i gruppi),
che operano a livelli diversi e con obbiettivi differenti. Parallelamente, per
rispondere ai bisogni di sostegno individuale degli alunni in condizione di
handicap sono state predisposte due tipologie di risposte: gli insegnanti di
sostegno e gli assistenti per l’autonomia e la comunicazione. Questi due interventi dovrebbero inserirsi all’interno di una progettazione integrata, che
vede impegnati diversi gruppi: il gruppo tecnico, il gruppo di studio e di lavoro di Circolo o di Istituto, il Gruppo di Lavoro Interistituzionale
Provinciale, e così via. Infine, l’Unità Territoriale di Servizi Professionali per
i Docenti «Necessità Educative Speciali», attraverso le proprie attività, assolve prevalentemente a funzioni formative e informative.
Ricostruiamo le sequenze dei diversi livelli di intervento, partendo da
quelli direttamente rivolti agli studenti in condizioni di handicap.
Gruppo tecnico
Per ciascun alunno, il gruppo tecnico è formato dai docenti del Consiglio
di classe, dall’eventuale operatore psicopedagogico, dagli operatori dell’A.S.L., dai genitori dell’alunno in situazione di handicap e dal dirigente
scolastico o suo delegato. Il Gruppo tecnico deve (v. Scheda D):
❖
❖
❖
❖
predisporre il Profilo Dinamico Funzionale (P.D.F.)
predisporre il Piano Educativo Individualizzato (P.E.I.)
verificare l’attuazione del P.E.I.
verificare gli effetti dei diversi interventi e l’influenza esercitata dall’ambiente scolastico
❖ aggiornare il P.D.F.
143
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 144
Gruppo di studio e di lavoro di Circolo/Istituto
Il gruppo è composto dai docenti di classe e di sostegno, dal Dirigente
scolastico, dagli operatori dei servizi, dai genitori e, per le superiori, dagli
studenti stessi in situazione di handicap e non. Il gruppo può essere integrato, almeno nel primo periodo dell’anno scolastico, anche dagli insegnanti che hanno seguito l’alunno nel precedente ordine di scuola.
Questo gruppo collabora alle iniziative di integrazione scolastica ed ha il
compito di:
❖ analizzare la situazione complessiva nell’ambito delle scuole di competenza (numero di alunni in situazione di handicap, tipologia degli
handicap, classi coinvolte)
❖ organizzare e coordinare attività di integrazione (corsi di formazione,
assemblee degli studenti sulla diversità, attività teatrali, ecc.)
❖ predisporre le procedure di continuità
❖ osservare e analizzare le difficoltà sorte e attivare strategie organizzative capaci di rispondere efficacemente alle problematiche evidenziate
❖ attivare il raccordo con gli Enti corresponsabili del processo di integrazione
❖ offrire agli Organi collegiali consulenza per la formazione delle classi.
La presenza degli studenti nei Gruppi di Studio e di Lavoro è una innovazione importante introdotta dalla Legge 104/92. Si riferisce, in primo luogo, alla scuola secondaria superiore, e riguarda:
❖ la presenza degli studenti nel gruppo con attenzione a tutte le iniziative idonee a facilitare i rapporti di amicizia e di aiuto reciproco tra
compagni
❖ il coinvolgimento dello studente in situazione di handicap nella definizione dei documenti e dei provvedimenti relativi al suo percorso
educativo e formativo ed a sostegno dell’integrazione nella scuola.
Gruppo di lavoro Handicap provinciale (Gruppo H)
Tali gruppi non hanno un carattere interistituzionale-rappresentativo,
come previsto per i G.L.I.P, ma una connotazione tecnico-professionale istituzionale. Essi, infatti, sono costituiti da operatori attivi nell’ambito del sistema educativo e svolgono una funzione consultiva nei confronti dell’Ufficio Scolastico. Ai Gruppi H spettano competenze di carattere istituzionale:
❖ l’esame dei documenti diagnostici
❖ l’analisi dei materiali di programmazione educativa didattica riferiti
ai singoli alunni in situazione di handicap
❖ attività di ricerca
❖ promozione di attività inerenti all’integrazione degli alunni in condizione di handicap
144
Gruppo di lavoro Interistituzionale Provinciale (G.L.I.P.)
Voluto come strumento per l’integrazione dei servizi e delle attività in
ambito scolastico, il gruppo di lavoro prevede la presenza rappresentativa di
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diverse organizzazioni istituzionali impegnate a vario titolo nel settore. Il
G.L.I.P. è composto da:
❖ un ispettore tecnico nominato dal Direttore Regionale
❖ un esperto della scuola
❖ due esperti designati dagli Enti Locali
❖ due esperti designati dalle Aziende Sanitarie Locali
❖ tre esperti designati dalle associazioni di persone disabili
In ogni Provincia è prevista la presenza di un G.L.I.P. che dura in carica
tre anni, i cui compiti sono:
❖ consulenze e proposte al Provveditore agli Studi
❖ consulenze alle singole scuole
❖ collaborazione con gli Enti locali e le Aziende Sanitarie Locali per
• produzione di materiali finalizzati alla stipula, alla realizzazione,
al monitoraggio e alla verifica degli accordi
• attività di ricerca e analisi
• rilevazione di dati, comparazione fra contesti territoriali differenti
• individuazione dei piani educativi individualizzati
• altre attività inerenti all’integrazione degli alunni in difficoltà di
apprendimento
Unità territoriale Necessità educative speciali
È una iniziativa della Direzione Regionale di Torino per favorire un buon
risultato formativo degli studenti in situazioni particolari: disabili, ospedalizzati con lunghe degenze, con difficoltà di apprendimento e di relazione.
Il gruppo favorisce la qualificazione dell’offerta formativa riferita ai bisogni educativi speciali nell’ottica della piena integrazione scolastica; collabora
con la scuola nella stesura dei piani dell’autonomia per trovare le soluzioni
formative adatte agli specifici problemi. L’attività si svolge su quattro livelli:
❖ informazione
❖ documentazione
❖ consulenza
❖ promozione
L’Unità Territoriale «Necessità Educative Speciali» raccoglie e potenzia le
esperienze di più soggetti presenti sul territorio:
❖ Gruppo H della Direzione Regionale
❖ G.L.I.P. (Gruppo Interistituzionale Provinciale)
❖ Centro Idea
❖ Progetto A.L.I.
❖ I.T.C. Arduino
❖ Centro di Documentazione per l’Orientamento
❖ I.T.C. Marro
❖ Progetto Sfida (a favore degli studenti ospedalizzati).
145
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 146
Insegnanti di classe e di sostegno
In tutti gli ordini di scuola è garantita la presenza di insegnanti di sostegno, ma tutti i docenti devono farsi carico della programmazione e dell’attuazione degli interventi didattico educativi previsti dal P.E.I.
I docenti nominati per le attività di sostegno fanno parte del Consiglio di
classe, e pertanto partecipano a pieno titolo alle operazioni di valutazione
periodiche e finali di tutti gli allievi ed agli esami di licenza di scuola media
e di qualifica professionale.
Assistenti per l’autonomia e la comunicazione
Nel caso in cui la situazione dell’alunno lo richieda, oltre agli insegnanti
di classe e di sostegno, sono previste altre figure professionali per affrontare
i problemi di autonomia personale e/o di comunicazione, come stabilito
dalla Legge 104/92, art. 13 comma 3.
Scheda C – Le risorse della scuola per l’handicap
Profilo Dinamico Funzionale (P.D.F.):
Dopo un primo periodo di frequenza scolastica, i genitori, il referente del caso
(in genere il medico che segue il bambino), il consiglio di classe e gli operatori
(gruppo tecnico) sulla base della conoscenza dell’alunno, e del contenuto della
diagnosi funzionale, concordano gli obiettivi didattici (di apprendimento, di autonomia, di socializzazione, ecc.) e le proposte di attività che saranno programmate nel corso dell’intero ciclo scolastico. Successivamente il gruppo tecnico verifica gli obiettivi che ha concordato e, se necessario, provvede a modificarli.
«Il profilo dinamico funzionale è aggiornato a conclusione della scuola materna, della scuola elementare, della scuola media e durante il corso di istruzione
secondaria» (Legge 104/92, art. 12)
Piano Educativo Individualizzato (P.E.I.):
Il gruppo tecnico che ha concordato il P.D.F. – tenendo conto delle indicazioni
contenute nella Diagnosi Funzionale e nel Profilo Dinamico Funzionale – propone interventi integrati tra di loro. Queste proposte devono essere finalizzate
al superamento della disabilità, delle difficoltà che da questa derivano e mirare allo sviluppo delle potenzialità esistenti.
Il gruppo che redige il P.E.I. verifica anche il raggiungimento degli obiettivi previsti; tale verifica avviene più volte nel corso dell’anno. Gli studenti maggiorenni che non sono né interdetti né inabilitati partecipano direttamente alla
definizione del profilo dinamico funzionale e del piano educativo individualizzato e li firmano. I P.E.I. vengono redatti anche dagli educatori impegnati nei
Servizi socio educativi, quali i Centri Socio Terapeutici e i Centri di Attività
Diurna. Come in quello scolastico, nel P.E.I. socio educativo si stabiliscono
obiettivi e, quindi, attività finalizzate al raggiungimento di questi. I risultati sono soggetti a verifiche periodiche.
Allievi con handicap nella scuola piemontese
146
Le tabelle 5.2, 5.3a, 5.3.b ricavate da Statistiche della scuola materna ed
elementare (Istat 2000) indicano la presenza di bambini portatori di handi-
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 147
cap nelle scuole materne piemontesi, con informazioni sul tipo di handicap
e sulla presenza di insegnanti di sostegno.
Tabella 5.2 – Bambini portatori di handicap
scuole materne in totale – area piemontese suddivisione per provincia
valori assoluti e in percentuale – a.s. 96-7
Bambini portatori di handicap
Province
Totale
%
Torino
606
1,2
Vercelli
37
1,0
Biella
47
1,2
Verbano Cusio Ossola
34
0,9
Novara
67
0,8
Cuneo
127
0,9
Asti
43
1,1
Alessandria
76
0,9
1037
1,1
Piemonte
Tabella 5.3a – Bambini portatori di handicap per tipologia di handicap e insegnanti
di sostegno di ruolo
scuola materna statale – area piemontese suddivisione per provincia
valori assoluti e in percentuale – a.s. 96-7
Province
Totale
%
Insegnanti
di sostegno
di ruolo
3,0
271
1,0
92
-
33
1,2
8
2,3
44
1,5
3
-
33
1,6
3
Bambini portatori handicap
Psico fisico Uditivo Visivo
Torino
90,0
7,0
Vercelli
100,0
-
Biella
75,0
22,7
Verbano Cusio Ossola
100,0
-
Novara
100,0
-
-
47
1,2
8
Cuneo
91,2
8,8
-
113
1,3
22
Asti
95,2
2,4
2,4
42
1,8
7
Alessandria
98,6
1,4
-
70
1,2
18
Piemonte
92,2
6,3
1,5
653
1,2
161
147
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 148
Tabella 5.3 b – Bambini portatori di handicap per tipologia di handicap
scuola materna non statale – area piemontese suddivisione per provincia – valori assoluti e in percentuale – a.s. 96-7
Bambini portatori handicap
Province
Totale
%
335
1,4
Psico fisico Uditivo Visivo
Torino
77,0
13,1
Vercelli
100,0
-
-
4
0,4
66,7
-
33,3
3
0,2
100,0
-
-
1
0,1
Novara
85,0
10,0
5,0
20
0,5
Cuneo
85,7
-
14,3
14
0,3
Biella
Verbano Cusio Ossola
Asti
Alessandria
Piemonte
9,9
-
-
100,0
1
0,1
100,0
-
-
6
0,2
78,1
12,0
384
1,0
9,9
Le tabelle 5.4a, 5.4b, 5.5, 5.5a ricavate da Statistiche della scuola media
inferiore (Istat, 1999) riportano i dati sugli alunni con handicap e gli insegnanti di sostegno nella scuola dell’obbligo elementare e media.
Tabella 5.4 a – Alunni portatori di handicap per tipologia di handicap e insegnanti
di sostegno di ruolo
scuola elementare statale – area piemontese suddivisione per provincia
valori assoluti e in percentuale – a.s. 96-7
Province
Bambini portatori handicap
Totale
%
Psico fisico Uditivo Visivo
Torino
148
93,1
Insegnanti
di sostegno
di ruolo
4,6
2,3
1422
1,7
349
Vercelli
98,8
0,6
0,6
155
2,4
33
Biella
96,6
3,4
-
116
1,8
13
Verbano Cusio Ossola
100,0
-
-
89
1,6
18
Novara
100,0
-
-
285
2,2
58
Cuneo
97,3
1,9
0,8
360
1,5
63
Asti
97,4
2,6
-
192
2,6
34
Alessandria
93,0
3,9
3,1
382
2,8
71
Piemonte
95,1
3,3
1,6
3001
1,9
639
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 149
Tabella 5.4 b – Alunni portatori di handicap per tipologia handicap
scuola elementare non statale – area piemontese suddivisione
per provincia – valori assoluti e in percentuale – a.s.96-7
Province
Bambini portatori handicap
Totale
%
19
0,3
Psico fisico Uditivo Visivo
Torino
Vercelli
Biella
Verbano Cusio Ossola
57,9
42,1
-
-
-
-
-
-
100,0
-
-
1
0,3
-
-
-
-
-
1
0,1
4
0,9
Novara
100,0
Cuneo
75,0
25,0
-
-
-
-
Asti
Alessandria
Piemonte
100,0
65,4
34,6
-
-
-
1
0,1
26
0,2
Tabella 5. 5 – Alunni portatori di handicap per tipologia di handicap
scuole medie in totale – area piemontese suddivisione per provincia
valori assoluti e in percentuale – a.s. 96-7
Province
Alunni portatori handicap
Totale
%
Psico fisico Uditivo Visivo
Torino
94,1
4,0
1,9
1158
2,0
Vercelli
95,2
1,6
3,2
124
2,7
Biella
97,6
1,6
0,8
127
2,7
Verbano Cusio Ossola
100,0
-
-
111
2,7
Novara
100,0
-
-
274
3,0
Cuneo
92,9
6,1
1,0
312
2,0
Asti
96,4
1,6
2,1
192
3,8
Alessandria
96,3
2,0
1,7
348
3,7
Piemonte
95,5
3,0
1,5
2646
2,4
149
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 150
Tabella 5.5 a – Docenti di ruolo di sostegno agli alunni portatori di handicap
per tipologia di handicap
scuola media statale – area piemontese suddivisione per provincia
valori assoluti – a.s. 96-7
Docenti di sostegno di ruolo
Province
Totale
Psico fisico Uditivo Visivo
Torino
261
16
6
283
Vercelli
40
1
2
43
Biella
32
1
-
33
Verbano Cusio Ossola
21
-
-
21
Novara
84
-
-
84
Cuneo
123
8
3
134
59
-
-
59
Alessandria
107
4
4
115
Piemonte
727
30
15
772
Asti
Un quadro della situazione aggiornata all’ anno scolastico 2000 – 2001 è
fornito dalla tabella 5.6.
Tabella 5.6 – Alunni portatori di handicap iscritti alla scuola statale, distribuiti per tipo di scuola, tipo di handicap e per province piemontesi a.s. – 2000/2001
Province
Scuola Infanzia
Scuola Elementare
DH
CH
EH
totale
DH
CH
EH
totale
Alessandria
1
1
73
75
6
82
356
444
Asti
0
0
52
52
5
1
222
228
Biella
6
0
38
44
15
1
116
132
Cuneo
4
3
123
131
19
10
406
435
Novara
32
0
29
61
0
0
356
356
Torino
12
2
224
238
61
23
1494
1578
Verb.Cusio-Ossola
3
0
20
23
5
1
113
119
Vercelli
0
0
28
28
0
2
141
143
58
6
588
652
111
120
3204
3435
Piemonte
(Fonte: Sistema Informativo del Ministero della Pubblica Istruzione, dati Organico
di fatto, situazione al 28/02/01).
DH: minorati dell’udito; CH: minorati della vista; EH: minorati psicofisici.
150
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 151
Province
Scuola Media di I grado
EH
Scuola Secondaria di II grado
DH
CH
DH
CH
EH
totale
Alessandria
5
8
391
totale
404
0
0
152
152
Asti
3
0
173
176
3
0
86
89
Biella
0
1
94
95
4
1
51
56
Cuneo
8
94
222
324
11
5
154
170
Novara
0
1
303
304
0
0
120
120
Torino
42
20
1095
1157
60
24
646
730
Verb.Cusio-Ossola
4
1
82
87
4
0
54
58
Vercelli
1
1
144
146
4
3
44
51
63
126
2504
2693
86
33
1303
1422
Piemonte
(Fonte: Sistema Informativo del Ministero della Pubblica Istruzione, dati Organico
di fatto, situazione al 28/02/01).
DH: minorati dell’udito; CH: minorati della vista; EH: minorati psicofisici.
5.4 I servizi socio assistenziali locali
Le competenze e i servizi
Gli Enti Locali promuovono iniziative a favore delle persone disabili tramite diversi Assessorati, a seconda della materia oggetto dell’intervento:
Assistenza, Istruzione, Lavoro, Edilizia Pubblica e privata, Viabilità e così via.
Certamente i primi due settori sono quelli maggiormente coinvolti e attivi
nelle problematiche riferibili ai bambini disabili. Alcuni campi sono di
esclusiva competenza socio assistenziale, altri sono promossi dall’istruzione, alcuni, infine, prevedono l’impegno distinto dei due settori con finalità
analoghe: l’ambito delle competenze varia a partire dalle scelte promosse
da ogni singolo Comune e/o Consorzio.
Vista la complessità e la diversificazione degli interventi, questi sono stati raggruppati per aree, seguendo le modalità di individuazione e di classificazione fornite in ambito ministeriale, integrate da alcune voci ulteriori.
Servizi alla famiglia e all’individuo
Gli enti gestori della funzione socio assistenziale realizzano numerosi
interventi a favore delle persone e delle famiglie in difficoltà. Questi sono
attuati tramite i Servizi socio assistenziali, ai quali è necessario rivolgersi
per ottenere tali interventi e che, previa valutazione, li accordano. Di seguito sono riportati i principali sostegni di natura economica e/o di aiuto alla
persona:
❖ affidamento familiare
❖ assistenza domiciliare
❖ assistenza e contributi economici
151
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 152
❖ contributi per l’abbattimento delle barriere architettoniche (in edifici privati)
❖ educativa territoriale handicap
❖ integrazioni rette
❖ permessi di parcheggio e transito per persone disabili
Assistenza scolastica
L’assistenza scolastica non è di stretta competenza socio assistenziale,
quindi non tutti i soggetti gestori sono impegnati in tale attività. È il servizio
di trasporto per gli alunni delle scuole dell’obbligo, rivolto anche ai bambini con disabilità, a rappresentare l’impegno più consistente in questo campo. È di competenza degli Enti Locali in base alla Legge Regionale 49/85, riguardante le modalità per l’esercizio delle funzioni di assistenza scolastica
attribuite ai Comuni, che provvedono al trasporto degli alunni dalle zone
decentrate alle scuole. Per l’erogazione piò essere richiesta una partecipazione alla spesa come previsto dalla stessa Legge, ma per gli alunni disabili
il servizio è gratuito.
In alcuni casi gli enti pubblici ampliano il proprio impegno anche nell’ambito scolastico, tramite l’assegnazione di personale specializzato per il
supporto e il sostegno degli allievi in condizione di handicap. Le attività extrascolastiche raramente sono settore di intervento diretto per la pubblica
amministrazione.
Accoglienza diurna
È questo uno dei campi in cui l’offerta dei servizi si concentra. Le tipologie sono diverse, e variano a seconda della tipologia degli utenti accolti, delle loro abilità e dei loro livelli di autonomia, ovvero delle finalità perseguite
dai servizi stessi. Prevalentemente essi sono rivolti a persone con disabilità
psicofisica, con età superiore a 14 anni e si distinguono in:
❖ Centri diurni
❖ Centri occupazionali
❖ Centri ricreativi
❖ Centri socio-educativi riabilitativi. Questi ultimi sono rivolti, soprattutto, alle persone con insufficienza mentale medio grave, quindi con
un grado di autonomia relativamente basso.
152
Accoglienza residenziale
I servizi residenziali sono uno degli elementi principali delle iniziative rivolte alle persone con disabilità. Anche in questo caso si stanno affermando
diverse tipologie di risposte residenziali, a seconda della tipologia degli
utenti e dei loro bisogni. Il modello della comunità alloggio attualmente è
quello più invalso, anche se le richieste non trovano sempre soddisfazione
nell’offerta. Per i minori disabili è un servizio residenziale utilizzato per le situazioni di maggior emergenza e difficoltà, quando il nucleo familiare non
riesce più a sostenere la situazione (handicap psicofisico grave e gravissimo,
famiglie in grandi difficoltà e/o pressoché inesistenti). Per ciò che concerne
i minori disabili si preferiscono aiuti diretti al nucleo e/o alla persona e come soluzione temporanea, l’affidamento familiare diurno o residenziale.
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 153
Integrazione sociale
Da questo punto di vista sono stati fatti pochi progressi per migliorare il
panorama delle offerte. Queste ancor oggi sono scarse; solo nelle località
più importanti o dove sono maggiormente attive realtà del non profit, soprattutto associazioni di volontariato, vi è qualche iniziativa volta ad integrare i minori disabili anche nelle attività sportive e del tempo libero.
Per quanto concerne i soggiorni e le vacanze, nei migliori dei casi sono
realizzati dalle strutture di accoglienza (comunità alloggio e centri diurni),
ma sono in prevalenza le associazioni di volontariato ad organizzare i soggiorni estivi per bambini disabili.
Le prestazioni socioassistenziali del Comune di Torino
Gli impegni del Comune di Torino nel campo socio assistenziale sono rilevanti, e annoverano un numero di iniziative, a favore delle persone disabili e delle loro famiglie, piuttosto vasto e diversificato. Tali azioni sono promosse innanzitutto dagli Assessorati ai Servizi Sociali e al Sistema
Educativo, e sono garantite da un numero consistente di figure professionali differenti. Torino, grazie ad alcune scelte decisive realizzate in passato, ha
garantito da anni ai propri cittadini svantaggiati servizi di pregio, quali il trasporto per disabili mediante buoni taxi, le comunità alloggio per disabili intellettivi e per disabili motori adulti, i Centri Educativi Municipali e così via.
Per chiarezza espositiva, si è preferito suddividere gli interventi a favore
dei bambini disabili e delle loro famiglie, distinguendo quelli predisposti in
ambito socio assistenziale da quelli in ambito educativo.
Affidamento familiare
È un servizio di volontariato sociale, svolto da singoli o da nuclei familiari, disciplinato dalla legge n. 184 del 1983, ed ha l’obiettivo di offrire temporaneamente ai minori (anche disabili) che vivono in nuclei con gravi difficoltà, un ambiente affettivo e sociale idoneo alla loro crescita. L’affidamento può essere residenziale o diurno, quest’ultimo in accordo con i genitori che si occupano del figlio la sera e i fine settimana. È disposto dal servizio sociale, con il consenso della famiglia d’origine (definito «affido consensuale»), o in base ad un provvedimento del Tribunale per i minorenni.
Può essere effettuato sia da parenti sia da terzi; a questi ultimi è offerta
la possibilità di partecipare ad incontri formativi, cui seguono, se permane
la disponibilità, alcuni colloqui di approfondimento, utili ad individuare l’idoneità rispetto le diverse condizioni e caratteristiche di affidamento.
Le persone che si impegnano per un affidamento ricevono, oltre alla copertura assicurativa, un rimborso spese mensili commisurato alle condizioni dell’affidato.
Assistenza domiciliare
Questo servizio ha lo scopo di facilitare alle persone disabili la permanenza nel proprio nucleo familiare ed evitare il loro ricovero in strutture residenziali. È fornito dal Servizio socio assistenziale competente per territorio, in base ad una valutazione sulla necessità di intervento ed è soggetto a
153
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 154
lista d’attesa, con priorità per le persone sole e a basso reddito.
In collaborazione con il servizio sanitario, sono previsti interventi di tipo
integrato, quali, ad esempio, la cura della persona, la conduzione della casa,
la gestione di attività extra domestiche (visite mediche, accompagnamento
a scuola dei bambini ecc.) e così via.
Contributo economico «Custodia»
È un contributo economico riconosciuto alle persone disabili adulte e
minori (con necessità di assistenza e di cura e con un reddito insufficiente),
per consentire loro di essere accudite da familiari, parenti, vicini e volontari. Gli importi sono riconosciuti in base alle condizioni della persona e l’assistito ha l’obbligo dell’assunzione del «lavoratore domestico», a cui vanno
corrisposti, oltre alla retribuzione oraria, i contributi INPS. Retribuzione e
oneri seguono un tariffario stabilito dagli uffici competenti e variano a seconda della condizione in cui si trova il lavoratore domestico (coniuge, parente affine, convivente, ecc.). Il rapporto di lavoro segue regole precise; i
minori non possono essere datori di lavoro, il rapporto quindi può instaurarsi con i genitori.
Educativa territoriale
È una iniziativa rivolta a persone disabili adulte e minori, con problematiche di inserimento sociale, che, per tali motivi, possono aver necessità
di un sostegno educativo. La finalità è di favorire le condizioni per migliorare i rapporti tra persona e ambiente (famiglia, scuola, tempo libero ecc.),
agendo sui fattori di rischio e di disagio a cui il minore può essere soggetto.
Poiché l’intervento è orientato all’inserimento sociale, esso non viene realizzato all’interno delle strutture socio assistenziali, ma in collaborazione
con la scuola e la famiglia, e si concretizza nei luoghi frequentati quotidianamente dalla persona.
Attualmente si sta sviluppando un tipo di intervento che intende superare l’ottica della presa in carico del singolo caso, privilegiando il lavoro con
i gruppi formali (a scuola, all’oratorio, ecc.) e informali («di panchina», «di
strada», ecc.), attingendo alle risorse che l’ambiente può esprimere. Può essere una forma efficace ed alternativa ad altre soluzioni di allontanamento
dal nucleo familiare, in quanto le caratteristiche di tale attività sono la gradualità e il sostegno. La prestazione viene fornita in base ad una valutazione da parte del Servizio socio assistenziale dopo la segnalazione dei servizi
sociali, della scuola frequentata dal minore, del Tribunale, o del singolo educatore.
Mobilità - Trasporti
La Città è da tempo impegnata nell’offerta di servizi, capaci di rispondere ai bisogni di mobilità delle persone disabili e delle loro famiglie.
Alcuni sono analoghi a quelli presenti su tutto il territorio nazionale, altri riguardano la realtà torinese:
154
❖ Permesso di libera circolazione e sosta in aree pubbliche. Tale permesso consente alle persone disabili (motorie e/o non vedenti) di transitare in zone altrimenti vietate (ad esempio Zone a Traffico Limitato,
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 155
vie riservate ai mezzi pubblici, ecc.) e di sostare nelle aree di parcheggio pubbliche. Per il rilascio del permesso, è necessario rivolgersi al competente ufficio comunale e, successivamente, sostenere una
visita medico-legale per l’accertamento delle condizioni di necessità.
❖ Servizio di accompagnamento Pronto Passepartout. Le persone con
difficoltà di deambulazione, che hanno necessità di recarsi presso
servizi e uffici comunali parzialmente accessibili o inaccessibili, possono rivolgersi a questo servizio. Esso può essere prenotato tramite
telefono, con un preavviso di due giorni. La persona disabile dal proprio domicilio viene accompagnata gratuitamente, tramite mezzo attrezzato, presso l’ufficio interessato e viceversa. Gli accompagnatori,
tramite ausili e punti di chiamata, aiutano la persona per l’espletamento delle pratiche amministrative.
❖ Servizio trasporto disabili. È riservato ai soggetti di età superiore ai 2
anni, residenti in Torino, con disabilità motoria tale da impedire loro
l’accesso ai mezzi pubblici di trasporto e ai non vedenti. Dietro richiesta dell’interessato, una commissione medica e una tecnica valutano
la presenza dei requisiti necessari e, qualora riconosciuti, valutate le
esigenze dei soggetti, è accordato il servizio e il relativo numero mensile di buoni trasporto. I buoni taxi costano l’equivalente del biglietto
sui mezzi di trasporto pubblici e conseguentemente possono subire
analoghe modifiche nel prezzo. L’utente può essere accompagnato,
senza ulteriori spese, da una o due persone se utilizza il taxi, da una se
utilizza il minibus attrezzato. Per tutti gli utenti il servizio è esteso fino
ai primi due chilometri oltre al confine cittadino, mentre, esclusivamente per chi utilizza il servizio mediante taxi, è possibile recarsi nei
comuni confinanti per motivi di lavoro, per corsi di formazione professionale o pre-lavorativi e per cure riabilitative. L’utilizzo dei minibus attrezzati è riservato alle persone con carrozzella a motore.
Servizi informativi
Sono ormai attivi diversi spazi informativi dedicati all’ambito dell’handicap e rivolti alle persone disabili, alle loro famiglie, agli operatori, alle organizzazioni impegnate nel settore. Oltre allo sportello cittadino Informa
Handicap, aperto al pubblico dal 2000, e alle pagine web curate dal 1996 dalla redazione del servizio per disabili motori Passepartout, sono in funzione
altri punti informativi territoriali. Scopo principale è quello di fornire informazioni e consulenza sugli argomenti attinenti l’ambito della disabilità fisica e psichica: servizi, mobilità e trasporti, tempo libero, formazione e lavoro, ausili e così via. Attualmente sono presenti nelle Circoscrizioni 3, 4, 5, 6
e 10, ed è ragionevole ipotizzare che presto saranno aperti altri sportelli nelle altre Circoscrizioni cittadine.
Comunità alloggio
Seppur prevista come tipologia, per i bambini disabili tale offerta residenziale non è stata attualmente attivata in ambito cittadino. Sono privilegiati, infatti, interventi non istituzionalizzanti, quali i sostegni domiciliari o
l’affidamento familiare.
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Le comunità alloggio sono strutture residenziali, in cui abitano da un
minimo di sei ad un massimo di dieci persone. I modelli organizzativi sono
tra loro diversi, perché rispondono alle diverse autonomie delle persone
ospitate e ai relativi bisogni educativo-assistenziali. Esse tendono ad avere
le caratteristiche di un normale appartamento, e cercano, per quanto possibile, di ricreare una condizione ambientale affine a quella familiare.
L’inserimento, soggetto a lista d’attesa, può essere definitivo o temporaneo
a seconda delle necessità e caratteristiche dei soggetti, ed è effettuato sulla
base di una valutazione del Servizio socio educativo o assistenziale competente. La gestione di tali strutture può essere di diretta competenza dell’Ente, o affidata in gestione ad organizzazioni convenzionate, prevalentemente
cooperative sociali.
Comunità familiari
Sono realizzate da nuclei familiari in condizione di ospitare non più di
quattro minori e si possono considerare come delle «famiglie affidatarie allargate». Quando la famiglia si rende disponibile ed esistono le condizioni
ambientali, nelle comunità familiari sono inseriti anche bambini disabili.
Alle famiglie viene corrisposto un contributo, che diventa superiore nel caso di bambini disabili, e varia a seconda della gravità dell’handicap.
Interventi socioeducativi del Comune di Torino
Centri per disabili sensoriali
Sono servizi «storici» del Comune di Torino. Uno è rivolto alle persone
non vedenti (Centro non vedenti), l’altro alle persone audiolese (Centro
Audiolesi). Entrambi offrono consulenza e formazione alle insegnanti e alle
famiglie. Organizzano corsi di lingua braille e di lingua dei segni, svolgono
servizio all’interno degli ospedali che si occupano delle disabilità sensoriali
(Ospedale Oftalmico). Si occupano, infine, della gestione dei casi nelle scuole municipali.
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Centri Educativi Specializzati Municipali (C.E.S.M.)
È un servizio rivolto a bambini e ragazzi portatori di handicap in età di
obbligo scolastico. Il bambino o il ragazzo deve essere iscritto alla scuola dell’obbligo e questa, in accordo con il C.E.S.M., stabilisce un programma mirato secondo le necessità del singolo caso. Per il bambino con handicap viene
predisposto un progetto specifico, ove si stabiliscono eventuali ambiti di sviluppo educativo. Tale progetto è concordato con tutti quei soggetti che appartengono al panorama relazionale ed educativo del bambino: famiglia, curante (se esiste), referenti dell’area handicap del Provveditorato agli Studi, responsabile del C.E.S.M. Sono privilegiati gli interventi individuali specifici o
in piccoli gruppi, e in essi si prevedono i tempi e i metodi di frequenza relativi sia al C.E.S.M. sia alla scuola dell’obbligo di appartenenza.
Per usufruire del servizio è indispensabile una documentazione medica
aggiornata che, insieme alla richiesta di ammissione, sono valutate dalla
commissione handicap del Provveditorato agli Studi; quindi l’accesso dell’utenza non è libero, ma integrato con le scuole. Attualmente sono attivi,
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mattino e pomeriggio, 4 Centri Educativi Specializzati Municipali, ognuno
segue circa 25 progetti speciali, che vedono impegnate più di 60 insegnanti
specializzate.
Consulenza Educativa Domiciliare (C.E.D.)
È un servizio che si rivolge alle famiglie con bambini portatori di handicap da 0 a 6 anni (in alcuni casi, è attivato già durante il periodo di gestazione), che non hanno la possibilità di frequentare altre strutture educative territoriali.
I casi possono essere segnalati direttamente dalle famiglie interessate,
oppure dai servizi territoriali assistenziali e sanitari.
Le insegnanti specializzate, con la presenza della responsabile del servizio, dietro richiesta della famiglia intervengono a domicilio, per orientare i
genitori verso i servizi pubblici (comunali e sanitari) ritenuti più adeguati.
Insieme ai genitori possono, inoltre, programmare attività formative finalizzate a favorire lo sviluppo del bambino; individuare giochi, sussidi, attrezzi
sanitari necessari all’orientamento educativo; seguire la famiglia per l’espletamento di pratiche burocratiche necessarie per l’ottenimento di prestazioni quali il servizio di trasporto.
La gestione del servizio è fruibile esclusivamente dai cittadini residenti
nella città.
Gruppo giochi ospedali
È un progetto attivo in alcuni ospedali della città, come, ad esempio, il
Regina Margherita e il Martini. Negli ospedali coinvolti dal progetto sono attivi, oltre agli operatori sanitari e al personale specializzato, anche alcune
insegnanti di sostegno comunali, che svolgono attività di intrattenimento
con i bambini ospedalizzati.
Laboratori
Nel corso degli anni, a partire dalle attività svolte all’interno delle scuole
municipali e dei servizi, si sono strutturati diversi laboratori impegnati in attività di varia natura: informatica, musica, pittura, ceramica, ecologia e così
via. Il numero dei laboratori e le tipologie delle attività da questi svolte sono
da censire (il numero stimato era oltre 50, in una ricerca del 1998/99).
Ognuno di essi attiva progetti che vedono come parte attiva e integrante le
scuole. Le scolaresche si recano presso i laboratori per svolgere le attività
previste nell’ambito educativo e scolastico. Alcuni dei laboratori municipali accettano libera utenza.
Pool di specialiste
Il progetto Integrazione e Sviluppo del settore Servizi educativi scolastici ha promosso la costituzione di un gruppo di specialiste, esperienza nel
suo genere unica in Italia. Si tratta di insegnanti molto specializzate, capaci
di fornire consulenze e di fornire loro stesse servizi riferiti alle rispettive
competenze. Il pool è composto da esperte di psicomotricità e competenti
sugli aspetti della relazione e della comunicazione. Le esperte lavorano all’interno del circolo didattico, e quindi intervengono all’interno delle strutture (asili nido e materne), non dei nuclei familiari. Seguono prevalente-
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mente i casi non certificati, da 0 a 6 anni, e lavorano a stretto contatto con
le insegnanti che non sono in grado di effettuare gli interventi specialistici
sopra evidenziati.
Scuole e nidi per l’infanzia
La Città di Torino ha previsto, sia per gli asili sia per le materne, la presenza di proprie insegnanti di sostegno. La famiglia che desidera iscrivere in
un nido o in una scuola per l’infanzia municipale il proprio figlio, portatore
di disabilità di vario tipo e grado, può segnalarlo direttamente alla responsabile del Circolo didattico. Una commissione apposita valuta le richieste, e,
in base al progetto Integrazione e Sviluppo del settore Servizi educativi scolastici, esamina i criteri per l’ingresso e per l’assegnazione dell’insegnante di
sostegno. Le insegnanti non sono affidate alle scuole, bensì seguono i casi;
quindi, fatto salvo il bisogno di mantenere la continuità educativa e i riferimenti all’interno della scuola, sono mobili sul territorio comunale. Da parte della famiglia non vi sono somme da corrispondere per la presenza dell’insegnante di sostegno; il costo è dato dalla quota mensile variabile a seconda del reddito familiare, così come prevista per tutte le famiglie che fruiscono del servizio.
Insegnanti di sostegno comunali per scuole statali dell’obbligo
È un servizio che si rivolge ai bambini e ai ragazzi disabili frequentanti le
scuole statali dell’obbligo e prevede, dietro presentazione di richiesta, la
presenza delle insegnanti di sostegno comunali, utili per favorire l’inserimento sociale ed educativo. La famiglia deve inoltrare la richiesta direttamente al direttore della scuola frequentata. È il direttore, a sua volta, a dover
informare il Provveditorato della necessità di affiancare alla persona disabile una insegnante di sostegno comunale. Attualmente nelle scuole cittadine
sono impegnate circa 200 insegnanti di sostegno comunali, realtà pressoché
unica a livello nazionale, poiché tale funzione deve essere assolta dallo Stato
attraverso i propri Uffici Scolastici territoriali. L’insegnante di sostegno affianca la persona, seguendo un progetto concordato tra i referenti dell’area
handicap dell’ufficio Scolastico e del Settore Servizi educativi del Comune
di Torino.
Servizi estivi
Si rivolgono a tutti i bambini in età compresa tra 6 e 14 anni, quindi anche ai bambini disabili. I servizi estivi possono essere organizzati in città,
grazie all’apertura di alcune scuole municipali che vengono utilizzate per
attività diurne extra scolastiche; di Estate Ragazzi, le cui iniziative sono riservate ai bambini da 6 a 10 anni. È prevista la presenza di bambini disabili, per i quali sono contemplati insegnanti di sostegno o animatori in sovrannumero, per garantire le attività di socializzazione e di integrazione.
Parallelamente sono organizzati, in diversi luoghi di villeggiatura, i tradizionali soggiorni estivi, per i bambini da 6 a 14 anni. In tali soggiorni possono
essere inseriti bambini con handicap, previo colloquio con la famiglia, per
capire le necessità e quindi per offrire un affiancamento adeguato.
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Servizi informativi per le famiglie
Sono servizi informativi rivolti alle famiglie in generale, non esclusivamente a quelle con bambini e/o ragazzi disabili. Aperti dal 2000 con orari
precisi, i servizi sono diversi, variamente distribuiti e assolvono a funzioni
informative diversificate:
❖ Sportelli informativi per le famiglie. Sono sportelli informativi rivolti
genericamente a tutte le famiglie con figli da 0 a 6 anni, decentrati all’interno delle scuole municipali. Per gli addetti è prevista una formazione. Oltre a fornire informazioni e consulenza, gli sportelli possono organizzare incontri di sensibilizzazione e di informazione su
temi specifici, connessi ai temi educativi e rivolti alle famiglie, agli
operatori e al territorio.
❖ Punto Famiglia. Sono sportelli informativi rivolti a quelle famiglie
che non hanno i propri bambini inseriti nelle scuole municipali, asili nido e scuole materne.
❖ Informa Handicap. Rivolto esclusivamente alle famiglie con problemi
di handicap, lo sportello è stato attivato in collaborazione con la
Divisione servizi socio assistenziali. Un giorno alla settimana, il mercoledì, le referenti del Progetto Integrazione e Sviluppo offrono informazioni e consulenze sulle materie di loro competenza.
La scheda D (nella pagina seguente) sintetizza l’offerta dei servizi, socioassistenziali ed educativi, del Comune di Torino per i minori disabili.
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Scheda D – Servizi per l’infanzia presenti sul territorio cittadino e
presenza dei minori disabili
Tipologia di prestazioni e fasce di età coinvolte (anno 98/99)
Prestazioni
Assessorati
Assistenza
economica
S. Socio
Assistenziali
Età
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18
utenti
2066
Interventi ass. econ. Servizi
ed esenzione tariffe Educativi
numero
non rilevato
Consulenza educat. Servizi
Domiciliare
Educativi
22 famiglie
23 bambini
Assistenza
domiciliare
S. Socio
Assistenziali
100 utenti
Progetto
Integrazione
e Sviluppo
Servizi
Educativi
268 utenti
Gruppi gioco
in ospedale
Servizi
Educativi
numero
non rilevato
Centri Educativi
Municipali
Servizi
Educativi
numero
non rilevato
Educativa
territoriale
S. Socio
Assistenziali
600 utenti
Educativa
assistenziale
S. Socio
Assistenziali
(*)
Centri di Attività
Diurna (C.A.D.)
S. Socio
Assistenziali
(*)
Centri di lavoro
guidato
S. Socio
Assistenziali
(*)
Centri Socio
Terapeutici (C.S.T.)
S. Socio
Assistenziali
(*)
(*) Il numero degli utenti dei 4 servizi (Educativa assistenziale, C.A.D., C.S.T. e Centri di
lavoro guidato) complessivamente ammonta a 1292.
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Ulteriori prestazioni per tipologia e fasce di età (anno 00/01)
Età
Prestazioni
Assessorati
Assistenza
economica
S. Socio
Assistenziali
2066
Buoni trasporto
S. Socio
Assistenziali
181
Affidamento
familiare
S. Socio
Assistenziali
(**)
Comunità
familiari
S. Socio
Assistenziali
(***)
Sportello
informativo
S. Socio
Assistenziali
(****)
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18
utenti
(**) Sono 1200 i minori seguiti attraverso l’affidamento (diurno o residenziale), circa
25/30 sono minori disabili
(***) Le comunità familiari sono 10 e sono accolti 3 bambini disabili
(****) Lo sportello cittadino Informa Handicap è stato aperto nell’ottobre del 2000, non
è ancora possibile stabilire con esattezza il numero delle persone che si sono rivolte al servizio per ottenere informazioni. Da gennaio ad aprile 2001 su 210 domande pervenute (di persona o tramite telefono) circa 20 riguardano minori.
I progetti speciali nel Comune di Torino
I progetti in corso riguardano vari aspetti relativi all’apprendimento, all’educazione affettiva e all’inserimento sociale e pre lavorativo.
Didattica e informatica (DI.DA)
Il gruppo di lavoro è composto da educatori provenienti da alcune
Circoscrizioni, che lavorano in stretto raccordo con agenzie e altre realtà
formative. Il progetto si propone come elemento di stimolo, supporto e consulenza, per rendere «quotidiano» l’utilizzo del PC anche nella realtà delle
persone disabili. L’iniziativa, rivolta alle persone disabili (fisiche e intellettive), alle loro famiglie, agli operatori e agli insegnanti, si propone di:
❖ raccogliere le esperienze maturate nel settore e promuovere il «lavoro di rete» con le diverse realtà impegnate nel campo educativo e formativo
❖ offrire informazione, consulenza e diretta sperimentazione sugli ausili hardware utilizzabili
❖ proporre esempi di applicazione multimediali
❖ allestire e aggiornare una banca dati sulla materia
❖ offrire percorsi formativi e informativi ad educatori e insegnanti
Progetto Handicap e Sessualità - P.H.S.
Le tematiche connesse alla sessualità e all’affettività delle persone portatrici di handicap sono, da diversi anni, oggetto di specifica attenzione e
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sensibilità da parte degli operatori dei servizi socio educativi della Città di
Torino e della Regione Piemonte.
Il progetto, promosso dalle Circoscrizioni 3 e 10, è costituito da una
équipe di educatori professionali coordinata da uno psicologo e sessuologo,
e si rivolge alle persone disabili, ai familiari, agli operatori e agli insegnanti.
Gli obiettivi principali sono:
❖ offrire consulenze informative
❖ promuovere ricerche, studi e «lavoro di rete» sulle problematiche
specifiche
❖ favorire una nuova cultura dell’integrazione sociale delle persone disabili
Lavorare insieme
L’iniziativa, rivolta ai ragazzi con disabilità intellettiva, cerca di promuovere l’integrazione di questi soggetti all’interno del proprio contesto.
Finanziato dalla Regione Piemonte, il progetto vede il coinvolgimento delle
scuole dell’obbligo e dei centri diurni rivolti alle persone con insufficienza
mentale (Centri Socio Terapeutici - C.S.T. e Centri di Attività Diurna - C.A.D).
Lavorare insieme prevede la possibilità per i ragazzi disabili (ultraquattordicenni) di svolgere attività lavorative all’interno delle scuole. Viene così
steso un progetto, ove si pianificano le attività da svolgersi (manutenzione,
migliorie e abbellimento dell’edificio scolastico), i tempi necessari e l’acquisto del materiale necessario. Gli operatori del settore Integrazione e
Sviluppo svolgono funzione di interfaccia tra la scuola e il servizio (C.S.T. o
C.A.D.). Tale esperienza serve per migliorare la conoscenza tra scuole e servizi, e mostra alla famiglia che ha un figlio disabile inserito nella scuola dell’obbligo quale futuro può prospettarsi per il proprio ragazzo.
Il bambino che scende dalla luna
Il progetto è rivolto ai bambini che soffrono di autismo. Vede la presenza di diversi soggetti: il Comune di Torino (Servizi Educativi e Socio
Assistenziali), 5 A.S.L. (Torino e Mondovì), la Regione Piemonte, ed è condotto insieme all’associazione delle famiglie con bambini autistici.
Viste le ultime evoluzioni della diagnostica riferita alla materia, la finalità prevalente del progetto è la formazione rivolta alle famiglie, agli insegnanti, al personale impegnato in questo ambito. Altri obiettivi del progetto
riguardano:
❖ l’ideazione di servizi capaci di rispondere efficacemente ai bisogni
peculiari dell’autismo
❖ l’adattamento e la riformulazione dei servizi esistenti
❖ lo sviluppo del lavoro di rete tra sanità, scuola, assistenza, famiglia.
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5.5 L’apporto del terzo settore
Un profilo complessivo
Nell’ambito dei minori disabili, la descrizione dell’apporto fornito dal
terzo settore, vista la varietà e la vastità del fenomeno, meriterebbe una trattazione a sé stante. In questa sede si accennerà brevemente ad alcune situazioni e ad alcuni aspetti riguardanti il contributo offerto dalle organizzazioni, soprattutto rispetto a talune esperienze maturate nell’ambito associazionistico (escludendo il campo della cooperazione sociale, che lavora in
convenzione con l’Ente pubblico).
Per le associazioni di volontariato, è utile tentare di individuare alcune
categorie di analisi che possono guidare una lettura, seppur parziale, relativa alle azioni prodotte, e ai rapporti che si instaurano con gli altri attori degli interventi socio assistenziali.
Dimensione territoriale
Un primo livello di verifica quantitativa del fenomeno è alquanto parziale, infatti sono molte le realtà di volontariato che, per vari motivi, non
sono iscritte all’albo regionale. Nel territorio piemontese la presenza delle
organizzazioni di volontariato è comunque significativa: nel 1999 le organizzazioni iscritte al registro regionale ammontavano a 1.188, salite a oltre
1300 nel 2001 (dati ISTAT). In una ricerca prodotta nel 1997 dalla
Fondazione Italiana per il Volontariato, su 603 realtà piemontesi censite,
182 si concentravano nella provincia torinese (30,2 % sul totale). Sempre
nel censimento Fivol su 603 organizzazioni:107 rivolgevano il proprio impegno verso i disabili fisici (17,7%), 85 verso gli insufficienti mentali
(14,1%), 108 operavano con i minori nella fascia 0-12 anni (17,9%) e 103
nella fascia 13-17 (17,1%).
Delle oltre sessanta associazioni impegnate nel campo della disabilità,
censite nella Guida Ragionata delle Associazioni di volontariato e delle
cooperative sociali in Piemonte (il numero differisce dal censimento Fivol,
in quanto nella pubblicazione piemontese si tenta di offrire un panorama
sui servizi offerti più che un registro vero e proprio), la maggior parte opera in ambito locale, cittadino e/o regionale, e circa un terzo a livello nazionale. Queste ultime rappresentano esperienze «storiche» dell’associazionismo le quali, nel corso del tempo, hanno svolto ruoli e attività di fondamentale importanza: ad esempio la Fondazione Don Gnocchi, l’AISM,
l’Associazione Nazionale Famiglie di disabili intellettivi e relazionali
(Anffas). Tali realtà sono diffuse e radicate nel territorio nazionale attraverso una precisa ramificazione geografica e strutture organizzate. La UILDM,
ad esempio, è articolata in comitati regionali, provinciali e sezioni cittadine. L’analisi quantitativa della distribuzione geografica rivela un fenomeno
specifico legato alle realtà urbane, quale è il territorio torinese. In tali contesti, si assiste ad una moltiplicazione e ad una frammentazione associazionistica, ma soprattutto ad una tendenza alla informalità. «È evidente
che nei centri non urbani il dialogo e il rapporto con le istituzioni locali
sembra raggiungere una dimensione più accessibile, e congrua a sancire
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un certo grado di legittimità e visibilità sociale delle organizzazioni sul territorio. Ciò appare più difficoltoso quando ci si muove su grandi aree urbane: la lontananza (in senso fisico, ma ancora di più in senso «percettivo»)
dalle amministrazioni locali, influisce sul carattere più spontaneo ed informale, e sull’azione più decentrata e isolata, che caratterizza in particolare i
gruppi metropolitani.» (S. Menna 1996)
A Torino, vi sono diverse associazioni che operano solo all’interno del
proprio quartiere. Alcune circoscrizioni sono ricche di associazioni «di territorio», altre, al contrario, non ne hanno. Così nella Circoscrizione 2, comprendente i quartieri di Santa Rita e Mirafiori Nord, sono presenti ben 5 organizzazioni che operano territorialmente (Aladino, Arca di Noè, Disabili
2000, La Scintilla e La Perla) ed è la Circoscrizione più feconda della città per
i disabili. Nello stesso territorio, sono attivi 3 gruppi di auto aiuto, di cui due
sono rivolti ai genitori di persone con handicap che utilizzano i servizi comunali (centri diurni e comunità alloggio), mentre il terzo è frequentato da
persone con disabilità fisica/motoria.
Nelle aggregazioni associazionistiche di quartiere, il tipo di organizzazione varia a seconda della natura e dei motivi che hanno originato la nascita dell’associazione stessa: alcune hanno assetti fortemente formali e
strutturati, altre sono caratterizzate da maggiore flessibilità.
164
Tipologia dell’utenza interessata
Quasi tutte le realtà associazionistiche si rivolgono contemporaneamente sia alle persone disabili sia alle loro famiglie. Più difficile è stabilire il confine «anagrafico» degli interventi, vale a dire se essi sono destinati ai minori
o agli adulti disabili. È possibile riconoscere vocazioni specifiche esclusivamente nelle associazioni che operano nell’area sanitaria o in quella legata
all’integrazione scolastica.
Nel primo caso, si tratta di organizzazioni attive all’interno degli ospedali infantili, quale il Regina Margherita di Torino, o dei reparti pediatrici,
quale il SS. Annunziata di Savigliano, che operano a sostegno sia dei bambini sia delle loro famiglie, per aiutare i soggetti ad affrontare la condizione di
emergenza data dall’ospedalizzazione. La vocazione è sanitaria; i bambini
presi in carico sono per la maggior parte bambini malati ma, in alcune circostanze, anche bambini disabili ricoverati nelle strutture ospedaliere traggono beneficio dalle attività dei volontari. Il secondo caso è rappresentato
prevalentemente dalle varie associazioni rivolte alla Sindrome di Down, le
quali operano con i bambini affetti da tale patologia e, conseguentemente,
hanno tra le proprie finalità anche quella dell’integrazione scolastica.
La selezione riguarda non tanto l’aspetto «anagrafico», quanto lo specifico tipo di handicap su cui l’organizzazione interviene. In tal senso, vi sono
due macro categorie: le associazioni che operano a favore di una patologia
particolare, e quelle che intervengono per limitare la condizione di disagio
indipendentemente dalla tipologia dell’handicap. Le prime sono diffuse a livello nazionale e intervengono a sostegno di patologie, quali la distrofia, le
patologie della vista, dell’udito, della parola, la sclerosi, la Sindrome di
Down, l’insufficienza mentale, la spasticità, ecc.
Le seconde perlopiù sono organizzazioni locali. L’area metropolitana torinese vede la presenza di molte associazioni con tale caratteristica: presen-
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ti in diverse città quali Rivoli, Chieri, Alpignano, Orbassano, Nichelino, Borgaro, esse assicurano territorialmente servizi e interventi, volti all’integrazione sociale delle persone disabili.
Forme e caratteristiche delle azioni sostenute
Il settore associazionistico esprime varie tipologie di offerte, oltreché diverse forme, proposte e richieste di integrazione con il sistema dei servizi
predisposti dalle istituzioni. Se si tratta di servizi costosi e complessi, quali i
servizi destinati alle persone con gravi e gravissime forme di disabilità, centri diurni e comunità alloggio innanzitutto, essi quasi sempre sono gestiti in
convenzione con gli enti pubblici. Tale modalità di amministrare servizi e
interagire con il sistema si è velocemente trasformata negli ultimi anni;
mentre queste forme di gestione sono state adottate da tempo dalle organizzazioni legate alla cultura cattolica, le realtà di matrice laica le hanno accolte solo in tempi recenti.
Alcune realtà significative
Vi sono esperienze di terzo settore da tempo impegnate nel fornire servizi, in proprio e in convenzione, che hanno ormai consolidato la propria
posizione all’interno del sistema di welfare. Altre operano con orientamenti rivendicativi e di tutela, o forniscono servizi su base associativa e di mutuo aiuto.
Il Cottolengo
Nell’home page del sito Internet dell’Istituto Piccolo Cottolengo di Don
Orione di Tortona si può leggere: «Il Piccolo Cottolengo di Tortona svolge la
propria attività di assistenza e cura ai disabili fin dal giugno 1940, epoca in
cui accolse i primi portatori di gravi handicap provenienti da Genova. Da allora è sempre stato attento alle esigenze sempre più incalzanti dei disabili,
esigenze imposte dai progressi della moderna medicina, fino a raggiungere
un livello di alta specializzazione nell’assistenza e cura di questi soggetti
gravissimi. Oggi, l’Istituto, accoglie 40 bambini di età compresa tra pochi
mesi e 18 anni. I casi sono segnalati all’Istituto dalle aziende ospedaliere di
tutto il territorio nazionale, proprio perché si tratta dell’unica struttura in
grado di far fronte alle enormi esigenze dei soggetti di cui sopra. Il tipo di assistenza offerta è possibile grazie all’attività svolta dal personale infermieristico, dagli psicoterapisti, dai pedagogisti e dalle educatrici, coordinati dal
Direttore Sanitario in collaborazione con i medici di base e gli specialisti
delle aziende ospedaliere di Alessandria e Tortona. (…) I Volontari di
Tortona e dintorni frequentano con assiduità il Piccolo Cottolengo, sono numerosi e di diverse età. (…) La Comunità religiosa del Piccolo Cottolengo organizza per il periodo estivo dei campi servizio di una settimana per ragazze da 17 anni in poi, provenienti da tutta Italia, che desiderano condividere
in gruppo il servizio ai bambini come animazione ludica, fraternità, preghiera. Accoglie durante l’anno le giovani che intendono condividere la vita
comunitaria come esperienza di vita (…)». Il testo tratto da Internet chiarisce la tipologia e la portata delle azioni realizzate da queste organizzazioni,
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ma soprattutto mostra che, in questi casi, vi è una risposta precisa ad un bisogno. Le istituzioni affidano a questi soggetti settori di interventi socio sanitari, che in proprio non possono, o non vogliono, gestire.
La Fondazione Don Gnocchi
Un ulteriore esempio è rappresentato dalla Fondazione Don Carlo
Gnocchi, attiva nell’ambito della disabilità fin dal 1945. Ai suoi esordi il fondatore si occupò di bambini mutilati e nel 1951, con la nascita della Fondazione Pro Juventute, gli impegni si rivolsero ai bambini poliomielitici e,
più in generale, ai minori con patologie fisico-motorie. Attualmente è «riconosciuta Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (segnatamente
per i centri di Milano e Firenze), ha alle proprie dipendenze quasi 3.000 operatori, ed eroga le proprie prestazioni in regime di convenzione con il
Servizio Sanitario Nazionale in 19 centri, distribuiti in 8 regioni italiane. Ha
inoltre ottenuto il riconoscimento ufficiale di Organizzazione Non Governativa per un più diretto intervento nei Paesi in via di Sviluppo».
Le attività della Fondazione riguardano i campi della riabilitazione (erogate in regime residenziale, day-hospital, ambulatoriale e domiciliare); della ricerca scientifica (in collaborazione con il Politecnico di Milano ha istituito un Centro di Bioingegneria); della formazione per disabili (scuole materne, elementari, corsi didattici con attività manuali e corsi di formazione
professionale per disabili); della formazione per operatori sociali (corso riconosciuto dalla Regione Lombardia); della gestione di servizi diurni e residenziali (comunità alloggio e centri socio educativi). Relativamente alla
realtà milanese, e più in generale lombarda, la Fondazione Don Gnocchi, oltre ad essere un soggetto economico di grande peso, ha assunto un valore
assai significativo nella storia e nella cultura dei servizi. A Torino la Fondazione è presente con un Centro di Riabilitazione, che opera, sia privatamente sia in convenzione con le aziende sanitarie locali piemontesi, in regime residenziale, day-hospital, ambulatoriale e domiciliare. Il sistema dei
servizi torinese individua il Centro di Torino come un normale fornitore di
servizi, presente sul mercato, capace di soddisfare i bisogni riabilitativi delle persone disabili.
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L’ANFFAS
Talune realtà associazionistiche locali in tempi recenti hanno deciso di
affrontare le attività di gestione dei servizi. L’ANFFAS, ad esempio, nel
contesto torinese fa ormai parte del sistema dei servizi, come le cooperative sociali partecipa alle gare d’appalto, offrendo servizi (non limitatamente ai propri associati) quali i centri socio terapeutici, i soggiorni estivi
ecc.
Ciò che, in alcuni casi, la rende «vincente» è la grande esperienza e il
know-how maturato nel settore. Per l’ANFFAS torinese questa svolta «verso
il mercato» è stata determinata, da un lato, dal bisogno di accettare le nuove logiche del sistema, affrontando anche le attuali prospettive d’impresa,
necessarie alle associazioni per capitalizzare. Dall’altro, dalla necessità di
incrementare l’offerta di servizi rivolti alle persone con handicap grave e
gravissimo, non delegando alle istituzioni la soluzione del problema, ma
operando direttamente.
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È possibile che tale situazione sia determinata dal compito che, storicamente, svolgono le istituzioni locali nella scelta delle strategie di politica sociale e dalla posizione che il terzo settore ha assunto all’interno di tali equilibri. Se, da un lato, gli enti cittadini hanno chiesto alle organizzazioni la mera gestione dei servizi più consolidati, queste ultime, talora, si sono «appiattite» su tale funzione, che non necessariamente comporta spazi progettuali
orientati alla definizione di nuove forme e tipologie di interventi.
Il CSA
«D’altra parte la «scoperta del no-profit» porta con sé rischi non irrilevanti per l’identità stessa delle organizzazioni no-profit. L’elemento che le
accomuna consiste infatti nella necessità di conciliare lo svolgimento di un
compito di servizio (che deve essere assicurato attraverso un livello accettabile della performance organizzativa) con il mantenimento e la continua rivitalizzazione della loro identità originaria (che vengono garantiti dall’elevata adesione ideale del personale e dei soci alla missione associativa). È
proprio la conciliazione di identità e servizio il tratto che differenzia l’organizzazione no-profit dall’azienda privata lucrativa e dalla burocrazia pubblica. Ma è proprio questa ambivalenza ad essere sotto tensione, in una fase in cui l’attenzione verso il terzo settore si concentra più sulla sua funzione di servizio che su quella di democratizzazione e di attivazione della società civile» (Ranci, 1999).
Diverso è il caso del Coordinamento Sanità e Assistenza tra i movimenti
di base a Torino. Se pressoché tutte le associazioni, piccole e grandi, si dichiarano impegnate nel campo dell’informazione, della consulenza e della
sensibilizzazione, rivolte sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione,
vi sono alcune realtà «specializzate» nei settori dell’informazione, della sensibilizzazione, della consulenza e dell’advocacy. Un esempio significativo a
livello torinese è quello del C.S.A., che ha come finalità principale di
«…coordinare le associazioni che si occupano di tutela della fascia più debole della popolazione, e in particolare di promozione e difesa dei diritti degli anziani cronici non autosufficienti, dei minori in situazione famigliare
problematica, degli handicappati (in primo luogo di quelli intellettivi).»
(Coero Borga, Degiacomi, Fabbri, Bonisoli, s.d.).
Il Coordinamento presenta alle istituzioni programmi, progetti e proposte su problematiche precise, spesso riguardanti l’apertura, la diffusione
e la qualità dei servizi, quali i centri diurni e le comunità alloggio. Ne fanno
parte: Ass. Genitori Fanciulli handicappati ASL 34, AIAS, AISM, Ass. Nazionale Famiglie Adottive Affidatarie, UTIM, Ass. Odissea 31 di Chivasso,
Ass. Promozione Sociale, Ass. La Scintilla di Collegno-Grugliasco, ASVAD,
Ass. Spina Bifida, Comitato Integrazione Scolastica Handicappati, Coordinamento dei Comitati Spontanei di Quartiere, Coordinamento Para-Tetraplegici, Comitato Utenti Mezzi di Trasporto Accessibili, Gruppo Inserimento Sociale Handicappati ASL 27, Unione per la Lotta contro l’Emarginazione Sociale, Ass. Vivere Insieme di Rivoli, Ass. Oltre il Ponte di Lanzo,
Ass. Prader Willi.
Il C.S.A., oltre a svolgere attività di coordinamento, compie azioni importanti di advocacy, con funzioni di interfaccia e controllo nei confronti
degli enti pubblici, soprattutto verso quelli che realizzano attività socio as-
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sistenziali. Per il Coordinamento, i servizi dovrebbero essere di piccole dimensioni e distribuiti sul territorio. Da tempo chiede l’apertura di comunità
alloggio rivolte alle persone disabili, laddove vi è tale necessità. Le comunità
dovrebbero essere integrate nel quartiere e collocate in contesti «normali»;
in passato tale principio aveva scatenato la dura contrapposizione del C.S.A.
all’apertura di una comunità alloggio per persone con handicap motorio all’interno dell’Istituto di Riposo per la Vecchiaia di via San Marino.
Il Coordinamento intende essere soggetto politico creativo e autonomo,
capace di influire sulle scelte politico istituzionali locali e, pur nell’asprezza
del rapporto dialettico con le istituzioni, contribuisce a mantenere viva la
tensione progettuale e l’attenzione alla qualità dei servizi erogati. È importante, infine, l’attenzione che il C.S.A. rivolge alle realtà territoriali, con le
quali collabora strettamente.
Le associazioni minori
Spesso sono proprio le associazioni di quartiere a rappresentare un elemento di garanzia e di «protezione» sociale, perché sono disponibili ad intervenire sul bisogno specifico del singolo individuo e/o della famiglia e a
«rattoppare le smagliature» della rete del sistema, offrendo servizi di accompagnamento, attività di animazione, di socializzazione, ecc.
Fra le realtà del terzo settore vanno compresi i gruppi di auto mutuo aiuto, la cui formazione, nell’ambito della disabilità, è piuttosto recente ed ha
connotati autenticamente informali. Viste le caratteristiche dell’auto aiuto
(empowerment, cittadinanza attiva, aumento della competenza, condivisione dell’esperienza, spirito solidaristico, ecc.) e i campi tradizionali della
sua applicazione (alcol dipendenza, tossico dipendenza, dipendenze affettive, ecc.), questo nuovo sviluppo nell’ambito dell’handicap è da osservare
con grande interesse.
Il fenomeno, per la sua dimensione fortemente informale, è difficilmente quantificabile. Attraverso la ricerca di alcuni operatori impegnati nel settore sono stati individuati:
❖ 5 gruppi di genitori con figli disabili nell’ambito del territorio del
Canavese, coordinati dalla Fondazione Ruffini
❖ 4 gruppi di genitori con figli disabili nell’ambito del Consorzio
Monviso Solidale, di cui 1 nella città di Fossano, 1 nella città di
Savigliano, 2 nella città di Saluzzo
❖ 3 gruppi di genitori con figli disabili nell’ambito del territorio torinese, gestiti dall’associazione E.C.O. per conto dell’Anffas
❖ 2 gruppi di genitori con figli disabili, nell’ambito del territorio torinese - Circoscrizione 2 (1 autogestito)
❖ 1 gruppo di persone con disabilità fisico/motoria nell’ambito del territorio torinese - Circoscrizione 2
❖ 2 gruppi di genitori con figli disabili nell’ambito del territorio torinese - Circoscrizione 6
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❖ 1 gruppo di genitori con figli disabili, gestito dalla Cooperativa ICS
per conto del Consorzio C. I. di S. di Orbassano.
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In ambito piemontese si ha una percezione ancora imprecisa del fenomeno, anche se si registra un netto aumento dell’interesse sull’auto mutuo
aiuto, vista la diffusione e la moltiplicazione di percorsi di sensibilizzazione
e formazione rivolti agli operatori, alle famiglie e ai volontari.
I rapporti che questi gruppi stabiliscono con enti pubblici e organizzazioni formali del terzo settore (cooperative e associazioni) sono assai diversificati, ed hanno caratteristiche specifiche nelle singole realtà. Va sottolineato che di questi progetti:
❖ nessuno è stato avviato autonomamente dalle famiglie
❖ tutti sono nati grazie all’iniziativa delle organizzazioni citate
❖ eccetto i gruppi collegati all’Anffas, sono tutti sostenuti, in forma più
o meno diretta, dai settori socio assistenziali degli enti pubblici.
È ragionevole sostenere che, mentre l’associazionismo - legato alla rivendicazione di diritti e servizi - nasce come iniziativa autonoma, o in collegamento con esperienze analoghe già avviate, le iniziative di self-help, almeno in una prima fase, vista la delicatezza tipologica dell’iniziativa e la sua
relativa «fragilità», hanno bisogno di essere sostenute dal settore pubblico.
Ma l’esperienza piemontese mostra che, in alcuni casi, il percorso di empowerment può successivamente produrre nelle famiglie processi di autonomia. Ad esempio, nel 1999 ad Ivrea sotto l’egida della Fondazione Ruffini,
è nata l’associazione Gr.a.m.a. (associazione dei Gruppi di Auto Mutuo
Aiuto del Canavese) la quale, oltre a proseguire le attività di self-help, è impegnata nell’organizzazione di vacanze estive, corsi, attività di sensibilizzazione e formazione.
Il problema delle modalità con cui vanno gestiti i rapporti e i collegamenti tra settore pubblico ed esperienze di auto aiuto è questione delicata. Il grande pericolo è quello di fraintendere la natura di queste esperienze, snaturandone caratteristiche e finalità fino a farle divenire dei servizi di
cura formali. Questi rischi si possono correre quando, ad esempio, all’interno di un appalto l’ente pubblico, oltre a richiedere una serie di servizi,
sollecita ai soggetti gestori anche l’attivazione di gruppi, con modalità progettuali e gestionali simili a quelle adottate per la creazione di servizi veri
e propri.
Le associazioni in Piemonte
Le informazioni riguardanti le organizzazioni che si occupano di handicap infantile sono tratte dalla Guida Ragionata delle Associazioni di volontariato e delle cooperative sociali in Piemonte. Poiché il campo della disabilità è trasversale ad altri ambiti, soprattutto quello sanitario, nell’elenco sono state incluse varie tipologie di associazioni. Sono state escluse
quelle che operano unicamente nel campo delle patologie che insorgono in
età adulta.
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A.B.I.O. Associazione per il Bambino In Ospedale
Ha sede presso l’Ospedale SS. Annunziata di Savigliano CN. Svolge attività di gioco e animazione per bambini (0-14 anni) ricoverati nel reparto
pediatrico dell’ospedale e aiuta i genitori ad affrontare i problemi di degenza dei loro bambini.
• Nel 1997 si è costituita la sede locale dell’associazione fondata a
Milano nel 1978.
A.G.B.D. Associazione Genitori Bambini Down
Opera nelle province di Novara, Verbania-Cusio-Ossola. Oltre a fornire
sostegno alle famiglie, organizza seminari informativi per le famiglie, gli
operatori e gli insegnanti. Promuove la ricerca scientifica sulle cause della Sindrome e sui metodi di prevenzione. Avvia contatti con le strutture
pubbliche presenti sul territorio per sviluppare progetti finalizzati all’inserimento lavorativo. Un gruppo di medici svolge gratuitamente visite
preventive ai ragazzi iscritti.
• Formatasi nel 1990 come punto d’incontro per le famiglie, è cresciuta grazie all’aiuto di vari gruppi di volontari, una parte dei quali costituisce un’équipe professionale di sostegno.
A.G.D. (ONLUS) Associazione per l’aiuto al Giovane Diabetico Piemonte e Valle d’Aosta
Promuove iniziative di informazione e di formazione anche attraverso la
pubblicazione di periodici d’informazione sulla patologia. Organizza
campi scuola educativi, manifestazioni e occasioni di incontro e scambio
di esperienze per i giovani diabetici e i familiari.
• È stata costituita nel 1975
A.I.A.S. Associazione Italiana Assistenza Spastici
Opera nel settore socio assistenziale e promuove la difesa dei diritti delle persone disabili. Pubblica un periodico mensile.
• L’associazione nata nel 1961, è presente sul territorio nazionale attraverso sezioni locali. A livello locale la sezione torinese fa parte del C.S.A.
(Coordinamento Sanità Assistenza), mentre a livello nazionale partecipa
al C.I.S.A. (Consorzio Interregionale Sezioni AIAS).
A.I.R. Down (ONLUS) Associazione per l’Autonomia l’Integrazione
e la Riabilitazione
Ha sede a Moncalieri, Alle famiglie fornisce sostegno psicologico e informazioni concernenti la sindrome di Down. Per consentire lo sviluppo e
l’integrazione sociale delle persone disabili offre, inoltre, l’ausilio di terapie riabilitative, la consulenza di tecnici e l’aiuto di volontari. Organizza
corsi e seminari d’aggiornamento rivolti ai docenti delle scuole e agli operatori sanitari.
A.I.R.H. Associazione Italiana Ricerca e prevenzione Handicap
170
Sviluppa azioni di divulgazione e informazione, con l’obiettivo di fornire
sostegno economico a ricercatori ed enti che si occupano delle problematiche connesse all’handicap. Organizza corsi di formazione e sensibi-
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lizza le strutture socio sanitarie ad organizzare attività di formazione sul
territorio attraverso le scuole, i CST, le cooperative e le associazioni che
si occupano di handicap. Nel settore della genetica assegna borse di studio a giovani ricercatori e gestisce un sistema informatico collegato in
Internet con i centri mondiali di ricerca genetica.
• Si sviluppa sul territorio nazionale attraverso le diverse sezioni locali.
A Torino si è formata nel 1984 e fa parte della Consulta HandicapUnidown
A.I.S.A. Associazione Italiana per la lotta alle Sindromi Atassiche
Offre informazione e sostegno ai malati e alle famiglie e fornisce consulenza genetica. Segue e sostiene la ricerca scientifica per la cura e la prevenzione genetica delle sindromi atassiche, contribuendo con borse di
studio e acquisto di apparecchiature scientifiche. Per i soci pubblica un
periodico d’informazione. Fa parte dell’associazione europea per le sindromi atassiche (Euro-Ataxia) il cui centro si trova a Bruxelles.
• Si è costituita nel 1982
A.M.A.M.I. Associazione Malati Anemia Mediterranea Italiana
Promuove l’individuazione dei portatori di tale malattia e facilita la programmazione familiare mediante l’istituzione di servizi di assistenza ginecologica. Favorisce l’inserimento dei malati di anemia mediterranea
nella vita scolastica e sociale. Sollecita la creazione di centri specializzati, partecipa alla ricerca scientifica e ne diffonde i risultati.
• È stata costituita nel 1997
A.N.F.F.A.S. Associazione Nazionale Famiglie di disabili intellettivi
e relazionali
Fornisce un servizio sociale di informazione e guida ai servizi pubblici
esistenti e agli uffici preposti. Su convenzione con il Comune di Torino
gestisce centri Socio Terapeutici che ospitano utenti gravi e gravissimi.
Nei mesi estivi realizza soggiorni montani e marini per insufficienti mentali. All’interno dell’associazione opera un gruppo di volontari che organizza attività ricreative per i soci. Organizza un corso annuale di formazione per assistenti di persone disabili. Per le famiglie ha attivato gruppi
di auto mutuo aiuto. A livello nazionale l’associazione pubblica un periodico.
• L’associazione nazionale è stata fondata nel 1958 ed è stata riconosciuta nel 1964. In Piemonte conta 19 sezioni. Precedentemente il nome
dell’associazione era Associazione Nazionale Famiglie Fanciulli e Adulti
Subnormali.
A.N.P.V.I. (ONLUS) Associazione Nazionale Privi della Vista
Svolge attività di accompagnamento e di assistenza domiciliare e ospedaliera, di consulenza e di assistenza per la tutela dei diritti. Promuove
l’integrazione sociale delle persone non vedenti.
• È un ente morale fondato nel 1978 e organizzato in segreterie nazionali, regionali e provinciali. A Torino l’associazione opera dal 1986.
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A.N.V.I.C.I.A. Ass. Nazionale dei Volontari per l’Integrazione dei
Ciechi, Ipovedenti e pro Anziani.
Offre servizi di accompagnamento e di assistenza (a domicilio e presso le
strutture sanitarie) ai soggetti non vedenti. Segue i giovani nello studio,
nelle attività sportive e in quelle ricreative. Per le persone non vedenti
svolge attività di lettura e di registrazione di testi e documenti.
• Promossa a livello nazionale dall’ANPV, si è formata a Torino dal
1999.
Arca di Noè (ONLUS)
Ha sede a Torino. Organizza e gestisce attività ludiche, di intrattenimento e di socializzazione con persone disabili all’interno dei CST della
Circoscrizione 2 di Torino, nonché soggiorni e momenti di vita comunitaria. Promuove la cultura del mutuo aiuto mediante la gestione di gruppi di auto aiuto. Offre servizi di assistenza domiciliare, affido diurno e custodia; propone attività sportive e di doposcuola.
• Si è costituita nel 1999
A.RE.A. Associazione Regionale Amici degli handicappati
L’attività si snoda su tre settori di intervento. Mediateca del software: anche tramite il sito Internet, è un punto di riferimento per le informazioni
sull’utilizzo delle nuove tecnologie da parte di persone disabili.
Organizza corsi di formazione e seminari, e fornisce consulenza a genitori, insegnanti e riabilitatori. Ha attivato un centro per la diagnosi e il
trattamento dei disturbi dell’attenzione e dell’iperattività. Da gennaio
2000 gestisce un sito per ragazzi, disabili e non, di età compresa tra 11
e 16 anni, che ha l’obiettivo di favorire le comunicazioni interpersonali
tra i ragazzi. Servizio di ascolto: per le persone disabili e per le loro famiglie, connesso con la rete dei servizi socio sanitari e delle associazioni. Sviluppa progetti di ricerca/intervento e di formazione.
Spazi/Famiglia: attraverso attività rivolte ai bambini, ai ragazzi e ai loro
genitori si promuove la valorizzazione delle risorse presenti nelle famiglie. Le attività comprendono per i bambini disabili della scuola elementare un laboratorio di danza-terapia; per i ragazzi maggiorenni un laboratorio e un progetto di supporto all’autorganizzazione del tempo libero. Infine «Spaziogioco» che accoglie e intrattiene bambini e ragazzi
disabili durante gli incontri dei genitori e «Spaziogenitori» che promuove momenti di scambio e riflessione per i genitori con figli portatori di
handicap.
A.S.H.I. Associazione Subacquei Handicappati Italiani
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Tiene lezioni formative con frequenza trisettimanale in piscine cittadine e
corsi settimanali di teoria per i subacquei; le attività sono svolte in locali
senza barriere architettoniche. Con cadenza mensile organizza immersioni in mare o in laghi. Mette a disposizione dei soci attrezzature subacquee, biblioteca e videoteca sull’argomento. Partecipa a convegni medici e sportivi per mantenere la didattica al passo con la ricerca scientifica
e per sensibilizzare l’opinione pubblica per l’abbattimento delle barriere
architettoniche e culturali.
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• È attiva dal 1987 inizialmente all’interno della UICEP. Come associazione si è costituita nel 1991 e collabora con il Centro di Rieducazione
Funzionale del C.T.O. di Torino.
A.P.I.C. Associazione Portatori Impianto Cocleare
Sensibilizza le strutture pubbliche per migliorare l’assistenza e la diffusione delle informazioni su questo tipo di intervento sanitario efficace per
il trattamento della sordità profonda. Offre supporto ai soggetti in attesa
di intervento (o che ad esso siano appena stati sottoposti) e promuove
l’aiuto reciproco fra gli associati mediante incontri. Fa opera di informazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle problematiche riguardanti la sordità grave.
• L’associazione è stata costituita nel 1998
A.Pi.C.E. Associazione Piemontese Contro l’Epilessia
Offre opportunità di socializzazione e di formazione attraverso un laboratorio di piccoli lavori artigianali, una compagnia teatrale stabile e una
palestra dove svolgere diverse discipline sportive. Organizza gite, soggiorni, convegni e seminari. Pubblica un trimestrale di informazione sulla malattia e l’attività dell’associazione
A.Pi.S.B. Associazione Piemontese per la Spina Bifida
Offre assistenza morale e materiale ai bambini e agli adulti affetti da spina bifida e ai loro familiari. Fornisce un servizio di informazione sulla legislazione sanitaria, scolastica e occupazionale per le persone disabili.
Sensibilizza le istituzioni e i servizi territoriali per la cura e l’integrazione
sociale delle persone portatrici di handicap funzionali. Promuove e incoraggia la ricerca scientifica sulla spina bifida.
• Costituita nel 1991, fa parte della FAISBI (Federazione delle Associazioni Italiane Spina Bifida e Idrocefalo).
A.P.R.I. Associazione Piemontese Retinopatici e Ipovedenti
Collabora con i servizi di Oftalmologia Sociale dell’Ospedale Mauriziano
di Torino e dell’Ospedale Valdese presso cui finanzia borse di studio e indirizza i propri soci. In convenzione con la Città di Torino gestisce il
Consultorio Retinopatici. Organizza tavole rotonde, congressi e manifestazioni, pubblica opuscoli, riviste informative e notiziario su audiocassetta per non vedenti.
• L’associazione è stata costituita nel 1990 e fa parte della FIARP
(Federazione Italiana delle Associazioni contro la Retinite Pigmentosa).
Collabora con l’associazione nazionale Privi della Vista.
A.T.E. Associazione Traumatizzati Encefalici
Fornisce informazioni ai traumatizzati cranici e alle loro famiglie sulle
strutture pubbliche e private esistenti e sui servizi cui hanno diritto e, nel
caso di necessità, sostegno morale, economico, assistenza. Sostiene la ricerca scientifica, organizza corsi di formazione per volontari ospedalieri
e domiciliari, istituisce borse di studio, fa opera di prevenzione presso i
giovani.
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AU.DI.DO. Autogestione Diversamente Dotati
Ha sede ad Alpignano dove organizza laboratori manuali e culturali per
disabili mirati alla loro autonomia e autogestione (disegno e pittura, educazione al movimento, acquaticità/nuoto, ceramica, informatica, judo,
ecc.): nel 1998 è nato un laboratorio teatrale che ha dato vita alla compagnia «Fuori Testo» composta sia da persone disabili sia normodotate. È
attivo un laboratorio di terapia per i genitori. Organizza soggiorni marini
e pubblica un periodico.
• Fondata nel 1992.
A.V.O.I. Associazione Volontari Ospedalieri per l’Infanzia (c/o
Presidio Pediatrico C. Arrigo Alessandria).
Organizza attività ludiche, didattiche, di animazione e d’intrattenimento
per i minori tramite materiale ludico adeguato alle varie età (P.C., testi e
software didattici, videogiochi, biblioteca mobile, ecc.).
• È nata ad Alessandria nel 1993.
Associazione Aladino
Ha sede nella Circoscrizione 2 dove organizza e gestisce attività ludiche
rivolte a soggetti portatori di handicap e soggetti normodotati. Organizza
gite, promuove attività di formazione per volontari, fornisce un supporto
alle persone disabili nell’inserimento lavorativo, promuove la cultura dell’auto aiuto.
• Si è costituita nel maggio del 1998.
Associazione Arcobaleno
Ha sede a Mompantero (TO) e con le sue attività promuove e favorisce la
costituzione di case-famiglia per bambini disabili in affidamento nell’area
piemontese.
Associazione Case-Famiglia P.G. Frassati
Opera nella provincia torinese per promuovere e favorire la costituzione
di comunità residenziali (case-famiglia), per disabili esclusivamente fisici,
anche gravi. Promuove la ricerca di soluzioni di assistenza domiciliare
idonee.
• È stata fondata nel 1991 da persone con disabilità motoria
Associazione Down
A Torino organizza una forma di prima accoglienza e di assistenza sociale nei confronti delle famiglie con bambini Down, seguendoli nello sviluppo cognitivo della prima infanzia, nei problemi adolescenziali, nell’inserimento scolastico in ogni grado di scuola. Organizza convegni, corsi e stage di aggiornamento sulla trisomia.
• L’associazione è stata costituita nel 1992 e collabora con l’équipe
dell’Ambulatorio Down presso l’Ospedale Infantile Regina Margherita di
Torino e con altri ospedali di Torino e provincia, con le Aziende Sanitarie
e con l’Associazione Down di Barcellona.
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Associazione Gianni, Wendy e Michele
Opera a Torino nel campo del disagio e dell’emarginazione dei minori interessati da patologie pediatriche correlate al virus HIV e delle loro famiglie naturali, affidatarie o adottive. Oltre all’assistenza in ospedale, interviene anche a domicilio. Organizza momenti di incontro collettivi al di
fuori dell’ospedale tra i bambini sieropositivi e altri piccoli affinché possano giocare insieme, mentre i loro genitori si confrontano e scambiano
esperienze. Per alcuni bambini sieropositivi accompagnati dai genitori organizza brevi periodi di vacanza con l’appoggio di volontari, soci e medici. Inoltre, organizza spettacoli e concerti per sensibilizzare e raccogliere fondi.
• Si è costituita in Torino nel febbraio 1995
Associazione Insieme Gruppo Handicappati Cenisia
Offre occasioni di socializzazione alle persone disabili, anche attraverso
attività di laboratorio. Ogni due anni organizza nelle scuole dell’obbligo
un concorso denominato «Tutti hanno diritto a vivere insieme»; pubblica
un periodico.
• Si è formata nel 1977 per iniziativa della Commissione servizi socio
sanitari, dell’allora Comitato di quartiere spontaneo Cenisia, e di alcune
famiglie di persone portatrici di handicap. Nel 1984 si è costituita in associazione.
Associazione per l’aiuto ai soggetti con sindrome di Prader-Willi
e alle loro famiglie (c/o Azienda Materno-Infantile Regina
Margherita, Divisione Endocrinologia di Torino)
Favorisce la ricerca medica e la conoscenza della malattia. Aiuta i soggetti con tale sindrome e le loro famiglie ad affrontare percorsi di integrazione sociale. Cura la pubblicazione di un periodico
Associazione Shantala
Ha sede a Nichelino (TO.) dove offre occasioni di socializzazione alle
persone portatrici di handicap organizzando, ad esempio, uscite per il
tempo libero. Ha rapporti con gli enti locali per la definizione di politiche sociali nel territorio.
• Fondata nel settembre 1987.
Associazione talassemici di Torino
Organizza manifestazioni per la raccolta fondi. Essi sono impiegati per le
cure dei talassemici, in particolar modo per quelle da effettuarsi all’estero. Finanzia la ricerca e pubblica un bimestrale.
• È nata nel 1980
Associazione volontariato Cottolenghino
Opera a favore degli ospiti delle Piccole Case della Divina Provvidenza
presenti nel territorio regionale.
• Il volontariato Cottolenghino nasce contemporaneamente alla Piccola
Casa della Divina Provvidenza, fondata nel 1897. Nella sua forma moderna si sviluppa dal 1965.
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Casa Amica
Attiva a Torino, è formata da 12 piccoli alloggi in cui vengono ospitati parenti di ammalati (soprattutto bambini) degenti in ospedale, per lo più al
Regina Margherita di Torino, che provenendo da fuori città non possono
permettersi altre sistemazioni. Collabora con l’U.G.I. (Unione Genitori
Italiani). Ogni alloggio si autogestisce con l’aiuto dei volontari e delle
Suore Luigine. Le famiglie contribuiscono alle spese con un modesto contributo.
• Opera dal 1989.
C.I.L.P. (ONLUS) Centro Internazionale Libro Parlato
Per i non vedenti e per tutti coloro che, per varie patologie, hanno difficoltà a leggere produce «Libri parlati», opere librarie su richiesta specifica degli utenti, registrati da «Donatori di voce» su audiocassette (sono
in catalogo più di 9.000 opere: romanzi, testi di studio, ecc.). Provvede
a stampare trascrizioni e spartiti musicali in braille; pitture, piante di edifici e percorsi, sia naturalistici che cittadini, in rilievo. Collabora con vari musei tra i quali quelli di Belluno, Treviso e Verona ed ha utenti anche
all’estero.
• Il centro opera dal 1983.
Comitato per l’integrazione scolastica degli handicappati
Fornisce attività di segreteria e consulenza. Sensibilizza l’opinione pubblica, gli operatori scolastici e i servizi sulle problematiche dei minori e
degli adulti in situazione di handicap. Promuove convegni, tavole rotonde, congressi e, con la collaborazione di esperti, ha creato un centro di
studio e di documentazione. Pubblica e diffonde un periodico di informazione. Divulga un notiziario e partecipa alla pubblicazione di testi di
informazione sull’handicap.
Coordinamento para-tetraplegici del Piemonte
Collabora con l’Unità Spinale di Torino (c/o il Centro di Rieducazione
Funzionale del CTO) dove vengono curati i paraplegici e i tetraplegici.
Favorisce attività di appoggio e informazione rivolte alle persone ricoverate al CRF, per le quali organizza uscite mirate al reinserimento sociale.
• L’associazione è nata nel 1983 e aderisce alla FAIP (Federazione
Associazioni Italiane dei Para-tetraplegici), al CSA (Coordinamento Sanità
Assistenza) al CUMTA (Comitato Unitario per i Mezzi di Trasporto
Accessibili) e al CREBA (Comitato Regionale per l’Eliminazione delle
Barriere Architettoniche).
C.V.A. - Centro Volontari Assistenza
Ad Alba assiste disabili, ammalati e anziani, offre assistenza ospedaliera
e a domicilio, e prestazioni infermieristiche in due ambulatori. Presta attrezzature sanitarie (carrozzine, stampelle, materassi ad acqua, letti, ecc.)
e mette a disposizione un servizio di trasporto.
• È nata nel novembre 1992
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Disabili 2000
A Torino sostiene le persone disabili e le loro famiglie nella rivendicazione e nella tutela dei diritti, anche informandoli sulla legislazione esistente in materia di handicap. Grazie all’attività dei volontari supporta i disabili privi di assistenza domiciliare. Organizza attività ludiche, ricreative,
sportive e culturali, rivolte a soggetti portatori di handicap fisico-mentali
e a soggetti normodotati. Promuove la cultura dell’auto aiuto ed esercita
forme di controllo continuativo sulle condizioni di vita all’interno delle
strutture in cui i disabili sono istituzionalizzati.
Epi ’76 (ONLUS) Associazione per la lotta all’Epilessia
Effettua un servizio di accoglienza su appuntamento, con presa in carico
delle diverse e complesse domande di cui, chi soffre di epilessia, è portatore. Tali domande vengono analizzate da volontari esperti nella relazione di aiuto, al fine di segnalare risorse e opportunità. Inoltre, si propone come centro di raccolta dei dati e delle esperienze che concernono
l’epilessia al fine di sviluppare l’informazione, favorire l’aggiornamento e
promuovere ricerche mirate.
• Nel 1976
F.I.A.D.D.A. (ONLUS) Famiglie Italiane Associate per la Difesa dei
Diritti degli Audiolesi
Fornisce informazioni e supporti alle famiglie. In particolare, affianca i
bambini sordi in età prescolare e scolare, promuovendone l’educazione
secondo la metodologia oralista e favorendone l’inserimento sociale. Fa
opera di sensibilizzazione e di informazione attraverso l’organizzazione
di convegni, seminari e corsi rivolti soprattutto agli operatori sanitari e sociali, agli educatori e agli insegnanti.
• L’Associazione nazionale è stata fondata nel 1973 ed è organizzata in
sezioni sparse in tutta Italia. La sezione di Torino è stata costituita nel
1979 come Associazione Genitori Audiolesi Piemontesi e nel 1991 ha
aderito alla FIADDA. È associata a Federazioni nazionali ed europee.
G.I.L.S. Gruppo Italiano per la Lotta alla Sclerodermia
Si occupa dell’assistenza e della tutela degli ammalati di sclerodermia.
Promuove programmi periodici di sensibilizzazione attraverso campagne
di informazione, allo scopo di far conoscere le tappe della ricerca scientifica sulle cause e sulle possibili terapie. Organizza campagne per la raccolta fondi.
• È stata fondata nel 1993 a Milano.
G.R.H. Genitori Ragazzi Handicappati
Ha sede a Druento (TO.) e svolge la sua attività principalmente sul territorio dell’ASL 26 della Regione Piemonte, dove organizza iniziative di
socializzazione per il contenimento del disagio: attività di laboratorio manuale (pittura, cucito, lavori in creta, ecc.), gli oggetti prodotti vengono
esposti e venduti alle mostre-mercato. Organizza feste e gite, accompagna i ragazzi allo stadio per le partite di campionato. D’estate effettua un
soggiorno marino con il supporto di personale esperto e specializzato e
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durante l’anno organizza servizi di trasporto. Sostiene le persone disabili
e le famiglie nella rivendicazione e nella tutela dei diritti.
• L’associazione è nata nel 1989.
Gruppo Incontro
Opera a Torre Pellice dove, per le persone portatrici di handicap mentale, organizza uscite quindicinali di un giorno (domenica) o di due giorni
(sabato e domenica), per andare in discoteca, al bowling, alle partite di
calcio, al mare, in montagna, ecc.
• È attiva dal 1979.
Gruppo Insieme
È attiva a Torino, dove organizza forme di animazione per il tempo libero e un lavoro di sensibilizzazione, di difesa dei diritti e di sostegno per
le persone con handicap fisico-motorio e intellettivo e per le loro famiglie. Promuove la cultura dell’auto aiuto attraverso l’attivazione di un
gruppo di genitori.
• Formata come gruppo nel 1979, è diventata associazione nel 1986.
G.V.A. Gruppo Volontariato Assistenza handicappati
Con la sezione locale dell’ANFFAS, ha gestito un centro diurno per disabili medio-gravi. Attualmente, tramite convenzione, si occupa del servizio di trasporto e di varie attività educative all’interno del centro diurno.
Inoltre, è impegnata nel fornire assistenza domiciliare e nel divulgare
informazioni sulle materie attinenti l’handicap. In tal senso gestisce, infatti, una biblioteca-centro di documentazione aperta al pubblico.
• Fondata nel gennaio 1984.
G.V.V. Gruppi di Volontariato Vincenziano
Opera in molte direzioni (anziani, immigrati, giovani a rischio, senza fissa dimora, ecc.) organizzando veri e propri servizi (mense, centri e case
di accoglienza, consultori, scuole materne, soggiorni, ecc.). All’interno
degli interventi sociali e pastorali nelle diverse realtà territoriali, ove necessario, si possono realizzare iniziative di sostegno rivolte direttamente
alla persona e/o alla sua famiglia.
• Nel 1617 S. Vincenzo de’ Paoli fondò la prima esperienza e nel 1655
in Piemonte nasceva il primo gruppo. Oggi l’Associazione è estesa in tutto il mondo come A.I.C. (Associazione Internazionale della Carità).
Handicap e sviluppo
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A Torino persegue la promozione e lo sviluppo dei servizi domiciliari territoriali e di aiuto alla persona, il superamento delle barriere architettoniche, la promozione e lo sviluppo del trasporto pubblico accessibile e integrato per consentire autonomia e indipendenza alle persone con disabilità. Raccoglie, organizza, produce, elabora e diffonde informazioni sulle realtà e problematiche inerenti la disabilità fisica, psichica e sensoriale, soprattutto relative al sud del mondo.
• Si è costituita nel 1990.
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Il cammino
L’associazione è attiva a Torino, dove organizza un «Centro di aiuto allo
studio» che non è solo un doposcuola, ma un luogo di educazione complessivo e di socializzazione. Per particolari situazioni di handicap, solitudine, malattia realizza anche interventi domiciliari.
• Nata dal 1975, collabora con altre associazioni e i servizi territoriali.
Il cerchio aperto
Mediante iniziative culturali, formative e di ricerca nel campo incoraggia
la cultura dell’integrazione. Elabora, inoltre, progetti volti a migliorare la
realtà personale, sociale e lavorativa delle persone disabili. Promuove le
attività di formazione al lavoro e/o di mantenimento delle abilità lavorative: per mezzo di apposite strutture che si occupano di orientamento e
inserimento, alle persone disabili sono proposte esperienze di tirocinio,
stage e borse lavoro.
• È stata costituita nel gennaio 1998 per iniziativa delle associazioni
ACLI Piemonte, la sezione torinese dell’ANFFAS e dell’UN.I.DOWN.
Insieme per l’handicap
A Borgaro Torinese assiste le famiglie con portatori di handicap nei rapporti con le istituzioni. Per persone disabili medio-gravi trasferisce su supporti informatici attività di «comunicazioni alternative», mentre per quelle con handicap fisico/motorio organizza corsi di informatica e di telelavoro finalizzati alla realizzazione di cooperative sociali.
Iris Associazione di volontariato per la lotta contro l’anoressia
e la bulimia
In ambito cittadino e regionale si propone di offrire sostegno e informazione alle famiglie e ai soggetti colpiti. A tal fine ha creato un centro di
ascolto telefonico ed ha attivato un numero verde. Sensibilizza l’opinione pubblica e, soprattutto, i giovani sui problemi inerenti i disturbi alimentari, mediante cicli di incontri condotti da personale specializzato e
la pubblicazione di materiale informativo. Promuove attività di espressione corporea da affiancarsi alle terapie tradizionali.
L’Ancora
Nel territorio torinese offre aiuto e sostegno alle famiglie, soprattutto in
campo legislativo. Incentiva la prevenzione e la cura dei disturbi psicorelazionali sostenendo la ricerca, nonché l’integrazione e l’inserimento
dei portatori di handicap.
La Perla (ONLUS)
A Torino offre sostegno ed occasioni di socializzazione ai ragazzi con
handicap mentale medio lieve, che hanno ultimato la scuola dell’obbligo
e sono in attesa di inserimento lavorativo.
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La Scintilla
È dotata di strutture e laboratori di musica e attività manuali e di una struttura per soggiorni estivi. Ha delimitato il suo ambito di intervento al quartiere S. Rita per garantire una maggiore integrazione dell’associazione nel
tessuto urbano e per favorire l’impegno dei volontari. All’obiettivo iniziale di fornire un appoggio alle famiglie, si è aggiunta l’opera di sensibilizzazione sulle problematiche connesse all’handicap.
• Si è costituita nel 1981.
La Vita Nuova
Opera nel territorio torinese a favore dei ragazzi con handicap intellettivo di lieve e medio grado tramite attività mirate e specifiche. Li segue ed
assiste con i genitori e i soci e promuove iniziative per contrastare l’emarginazione.
L’ho dipinto con
Nella provincia torinese favorisce le persone con difficoltà fisiche e/o psichiche a sperimentare percorsi espressivi (pittura, scultura e disegno) con
artisti affermati. Per pubblicizzare l’iniziativa organizza mostre-mercato e
collabora con altre organizzazioni ed enti, soprattutto la Provincia di
Torino.
Noi come voi
A Galliate (NO) propone attività volte all’integrazione psicofisica e alla
sollecitazione multisensoriale dei disabili: pittura, musicoterapia di gruppo, attività motoria e acquatica, psicomotricità, laboratorio di intaglio del
legno, danza e attività corporee, attività teatrale, attività ludiche.
Organizza gite nelle città d’arte, visite a musei, incontri con personaggi
del mondo dello sport e della musica. Si occupa del recupero scolastico
e, d’estate, di un centro estivo.
• È stata costituita nel 1988.
P.A.N.D.HA. Polisportiva Associati Normodotati Disabili
ed Handicappati
Le attività sportive sono svolte nelle palestre accessibili di Torino e sono
rivolte a persone con handicap mentale. Tutte le attività sono proposte sia
sotto l’aspetto ludico motorio, sia sotto l’aspetto agonistico e riguardano
il nuoto, la pallacanestro, l’atletica leggera, il tennis e lo judo.
• Fondata nell’aprile 1989, tramite la F.I.S.D. (Federazione Italiana Sport
Disabili) è in contatto con tutte le altre associazioni italiane che praticano gli sport special olympics.
Piccolo Fiore
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A Sagliano Micca (BI) organizza mostre e manifestazioni benefico-solidaristiche, il cui ricavato viene utilizzato in favore degli ospiti del Centro di
Riabilitazione Domus Laetitial. Propone incontri e momenti di confronto
su specifiche tematiche contemporanee per far conoscere le problematiche legate al mondo dell’handicap e stimolare il confronto e lo scambio
di esperienze.
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PRO.GIO. (ONLUS) Associazione ProGio
Promuove a Torino iniziative di assistenza e sostegno a favore delle persone disabili. Per il tempo libero organizza momenti di socializzazione.
Si occupa di formazione e aggiornamento dei volontari.
O.F.T.A.L. Opera Federativa Trasporto Ammalati a Lourdes
Opera a livello nazionale offrendo assistenza socio sanitaria agli ammalati durante i pellegrinaggi ai santuari mariani.
Regina della Pace
È attiva a Torino, dove sviluppa progetti di volontariato socio assistenziale rivolti alle diverse fasce sociali deboli. Per le persone disabili organizza un laboratorio giornalistico (la stampa del giornale per i soci) e fornisce assistenza lavorativa ai disabili della cooperativa sociale Il Cammino.
• È nata nel 1993.
Tribunale dei diritti del malato
Ai cittadini che intendono far valere i propri diritti, mette a disposizione
centri nei quali i volontari, debitamente informati, forniscono informazioni e assistenza e, quando necessario, consulenza legale. Alcuni gruppi di volontari eseguono sopralluoghi nelle strutture sanitarie con lo scopo di valutarne qualità e sicurezza. Organizza giornate di formazione.
È presente sul territorio regionale tramite sezioni.
U.G.I. Unione Genitori Italiani contro il tumore dei bambini
In stretta collaborazione con il personale sanitario svolge assistenza nei
reparti di oncologia ed ematologia pediatrica. Intrattiene i bambini affetti
da tumore e leucemia con attività ludiche e sostiene le famiglie in difficoltà offrendo, inoltre, anche un servizio di assistenza domiciliare Ogni
anno assegna borse di studio e finanzia corsi di aggiornamento per personale medico e paramedico. Stampa pubblicazioni di studi e ricerche
specifiche finalizzate sia alla diffusione delle informazioni sia alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
• Fondata negli anni ’80, è stata legalmente riconosciuta nel 1989. Fa
parte della Federazione Nazionale delle associazioni di genitori di bambini emato-oncologici fondata nel 1987.
U.I.L.D.M. Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare
Oltre ad occuparsi dell’assistenza alle persone affette da distrofia, la sezione torinese e l’Università di Torino, nel 1989, hanno firmato una convenzione per l’istituzione, presso la Clinica Neurologica II, di un centro per lo
studio delle malattie neuromuscolari. Il centro «P. Peirolo» svolge, inoltre,
attività di assistenza sanitaria per l’iter diagnostico e ambulatoriale. L’associazione sostiene la ricerca scientifica del settore, anche mediante la raccolta di fondi, che avviene in varie forme, tra cui la conosciuta iniziativa «Telethon» in collaborazione con la RAI. Per gli iscritti e i sostenitori delle varie
sezioni italiane è pubblicato un mensile e parecchi opuscoli. Il Comitato regionale piemontese divulga un notiziario dal titolo «Vincere Insieme».
• A livello nazionale esiste dal 1961, con riconoscimento del Presidente
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della Repubblica nel 1970. La sezione di Torino è stata fondata nel 1967
ed ha collegamenti locali con l’AISM e i Centri di coordinamento per paraplegici. È fondatrice dell’EAMDA (comitato che raggruppa tutte le associazioni per la distrofia europee).
UN.I.DOWN (ex CEPIM) Unione Italiana Down
Offre informazioni sulla sindrome di Down e sostegno psicologico alle
persone affette da tale patologia e alle loro famiglie. Collabora con associazioni, iniziative o strutture che abbiano come finalità l’integrazione
delle persone con handicap. Attraverso l’opera di personale specializzato incoraggia interventi terapeutici il più possibile precoci. Offre, inoltre,
ai ragazzi Down la possibilità di partecipare a gruppi di attività.
• Fondata a Torino nel 1979 con il nome CEPIM (Centro Persone
Down), nel 1983 con altre associazioni italiane di genitori di bambini
Down ha dato vita all’UNIDOWN.
Unione Silenziosi Torinesi (ONLUS)
Per le persone sordomute organizza attività ricreative, culturali, sportive,
all’interno del gruppo di volontari e soci. Fornisce assistenza e consulenza ai sordomuti e promuove corsi di lingua dei segni.
U.N.I.T.A.L.S.I. Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati
a Lourdes e Santuari Internazionali
Organizza pellegrinaggi ai santuari mariani: per persone ammalate e/o con
handicap (anche grave) effettua, con mezzi attrezzati, viaggi speciali. In tal
caso, tramite la presenza di volontari laici e religiosi, è assicurata alle persone disabili un’assistenza adeguata e costante. Inoltre, svolge regolarmente anche altre attività di cura spirituale, sostegno e condivisione.
• Nata nel 1903, l’associazione è diffusa su tutto il territorio nazionale.
U.N.I.VO.C. Unione Nazionale Italiana Volontari pro Ciechi
Si occupa dell’accompagnamento dei non vedenti, per aiutarli ad espletare le incombenze dell’attività quotidiana, di seguirli nelle attività di tempo libero e di fornire assistenza domiciliare. I volontari sono coadiuvati
dal personale dell’Unione Italiana Ciechi.
• Nata nel 1989 nell’ambito dell’Unione Ciechi, ha assunto una propria
autonomia organizzativa e gestionale nel 1993.
U.T.I.M. Unione per la Tutela per gli Insufficienti Mentali
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Opera per la difesa e la tutela dei diritti degli insufficienti mentali.
Organizza incontri aperti alla cittadinanza, per informare i familiari di
persone con insufficienza mentale sui diritti di questi ultimi, soprattutto rispetto a temi quali l’inserimento scolastico e lavorativo, l’assistenza e la
riabilitazione, ecc. Favorisce la medicina preventiva e sollecita gli enti
pubblici competenti ad intervenire per il potenziamento dei servizi. Offre
consulenza su pratiche inerenti la pensione d’invalidità, l’indennità di accompagnamento, l’interdizione ed altro.
• È stata fondata nell’aprile del 1991. Aderisce al CSA e collabora con
altre associazioni.
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Vivere
A Chieri (TO) offre sostegni pratici alle famiglie con figli portatori di handicap mirati all’integrazione nel tessuto urbano, rurale, scolastico e lavorativo. Organizza iniziative di sensibilizzazione rivolte alla popolazione
e agli enti pubblici e privati su temi e problemi collegati all’handicap.
Una volta all’anno con l’aiuto di esperti tiene un corso di formazione.
• È stata fondata nel 1988.
Vivere Insieme Associazione per l’assistenza e la difesa dei diritti
agli handicappati
Nel territorio di Rivoli (TO) aiuta, assiste e appoggia i disabili fisici e le loro famiglie, anche attraverso la gestione di comunità alloggio. Tra le iniziative vi è l’acquisto di un minibus attrezzato per il trasporto dei disabili. È particolarmente impegnata nei confronti delle istituzioni per l’abolizione delle barriere architettoniche. Collabora con l’ASL, la rete Progest
e l’associazione Arcobaleno per corsi di formazione rivolti ai nuovi volontari.
• È stata fondata nel 1991.
Volare Alto
Nel territorio di Rocca Canavese (TO) fornisce aiuto alle famiglie dei
bambini disabili che, prima di tutto, devono essere accettati dal proprio
nucleo familiare. A tale scopo gestisce un punto d’ascolto diretto alle famiglie, che si configura come un gruppo di auto aiuto.
• È nata nel 1997.
Volontari San Giovanni Bosco
Offre assistenza domiciliare e trasporto a disabili, anziani e malati. Svolge
consulenze legali e servizi di patronato, attività di animazione periodica
e continuativa. Promuove conferenze e dibattiti pubblici su temi riguardanti il volontariato e la tutela dei diritti dei malati e dei disabili, al fine
di sensibilizzare la collettività.
ZEROTRE (ONLUS) Associazione Genitori
Opera a Torino dove sostiene le famiglie dei bambini nati prematuri e/o
con patologie croniche complesse. Promuove le reti di relazioni tra genitori e operatori ospedalieri e di territorio per una comune presa in carico.
Sollecita i presidi ospedalieri a riservare posti a bambini da 0 a 3 anni affetti da patologie complesse e a rivedere le modalità di passaggio delle
competenze tra le neonatologie e i reparti specialistici.
• Fondata nel 2000, ha costituito un comitato scientifico medico.
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5.6 Nodi e problemi
Dalla parte delle famiglie
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La comunicazione della diagnosi
«Sono la mamma di Pietro, nato 32 anni fa a Catania, dove noi viviamo.
Pietro è stato il mio primo figlio. Avevo 17 anni quando è nato: un fagottino
tenero che mi guardava spaurito. Non capivo che cosa potesse avere.
Nessuno mi ha aiutato a comprendere cos’era accaduto. Il foglio di diagnosi
che ho ricevuto era veramente tremendo, per due anni sono come morta. Poi
grazie all’aiuto di mio marito, alla sua pazienza, al suo amore, sono riuscita a
vedere mio figlio per quella persona bellissima che ancora oggi è. Quella diagnosi parlava di una vita breve per mio figlio, fatta di malattie e di sofferenze,
una vita che avrebbe sconvolto tutta la nostra famiglia.(…) Oggi, rivivendo
quello che è successo, penso a quanto sia assurdo presentare diagnosi del genere. Si sono fatti molti progressi nell’ambito della Sindrome di Down ma la
comunicazione della diagnosi non è cambiata molto: notizie date per i corridoi, prevalentemente a un solo genitore, in modo sbagliato. In questo modo
si uccidono i genitori, che trovano faticoso riprendere a vivere.(…)
Bisogna aiutare le famiglie ad affrontare bene il loro grande «problema»,
che poi tale non è se si guardano le cose dal lato giusto, e si affrontano in
maniera adeguata. Introdurre una nuova cultura, o almeno inviare un diverso tipo di messaggio. «Quando una madre porta una creatura nel ventre,
per nove mesi le parla, le racconta le sue cose, ripone su di lei le sue attese.
Il bambino che vive dentro di lei rappresenta tutto il suo domani, la sua continuità. Poi il parto; ti portano il bambino e non è quello che avevi sognato,
è diverso da come te lo immaginavi. Lo guardi e resti disorientata; vorresti
chiudere gli occhi, e risvegliarti pensando che tutto ciò sia solo un incubo.
Ti senti tradita… Poi ti innamori comunque di lui, perché una madre si innamora sempre del proprio figlio, lo ama! Ed è proprio in quel momento che
devono intervenire le persone giuste, per non lasciare sola quella donna in
quell’enorme travaglio interiore, aiutarla a camminare insieme, da subito
con la propria creatura, per dare serenità alla famiglia, ad iniziare un percorso comunque difficile (…)».
Questo è l’intervento di Aida Fazio Russo, rappresentante dell’Associazione Italiana Persone Down (AIPD), alla Prima Conferenza Nazionale sulle
politiche dell’handicap, tenutasi a Roma nel dicembre del 1999. La testimonianza, analoga a quella di molte altre madri con figli disabili, evidenzia
aspetti delicati e complessi, che riguardano non solo la qualità e l’efficienza
dei servizi, ma soprattutto la sensibilità e l’efficacia con cui questi vengono
organizzati, gestiti e messi a disposizione delle famiglie e delle persone disabili. Si può tentare di tracciare un percorso ideale, a partire «dall’evento»,
per comprendere quali problemi e possibili soluzioni affrontano la persona
disabile e il suo nucleo familiare, e per capire se le situazioni esistenti diano
reale soddisfazione alla quantità e alla qualità delle problematiche che si incontrano nell’ambito della disabilità.
Nel racconto di quella donna si trovano alcuni passaggi cruciali, utili per
comprendere le implicazioni e le difficoltà che una madre, un figlio, un nu-
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cleo familiare nel suo complesso devono affrontare, allorché si presenta un
evento inaspettato. Un evento di per sé non è positivo o negativo, lo è in relazione alle conseguenze che comporta: è evidente che la nascita di un figlio
disabile per una famiglia è un fatto traumatico, doloroso e privo di senso.
Queste emozioni sono comuni a tutti quei genitori che hanno figli disabili,
anche quando la disabilità è successiva alla nascita ed interviene in un momento qualsiasi della vita. In realtà un evento così doloroso come l’essere
disabile è di per sé traumatico, e difficile da sottoporre a valutazioni predefinite. Non si può sostenere se è più sfortunata una persona che è disabile
dalla nascita o lo diventa, se è più difficile prendersi cura di persone con
handicap fisico o con insufficienza mentale, e così via.
Queste affermazioni, condivisibili perché di estremo buon senso, si
scontrano con una realtà, che trova inadeguati gli operatori ad affrontare le
specificità delle persone, a partire dal momento in cui un operatore sanitario si trova a fronteggiare il problema della comunicazione della diagnosi.
Questione di fondamentale importanza, perché da tale istante si giocano le
possibilità di una persona disabile e della sua famiglia di conoscere correttamente il «problema» e le eventuali risorse esistenti. Lavorando a contatto
con le famiglie delle persone disabili, è frequente ascoltare racconti in cui
riaffiorano sentimenti analoghi a quelli sopra riportati. Ciò che stupisce è la
«freschezza» delle emozioni, anche a distanza di parecchi anni.
Questo conferma la necessità di produrre progressi nell’ambito dello stile e delle modalità con cui vengono comunicate le diagnosi. Si tratta di promuovere scelte attente al processo di avvicinamento ai servizi, perché tali
scelte producono emozioni, che si traducono in atteggiamenti, che, una volta provocati, difficilmente e solo con il tempo e a fatica si rimuovono. Si sostiene la necessità di ragionare con maggiore attenzione intorno al problema
della comunicazione e dell’informazione su aspetti che riguarderanno le
persone coinvolte per tutta la loro esistenza. Cosa significa aiutare una persona a comprendere cosa è accaduto? A capire il tradimento di un figlio atteso «sano» e nato «malato», quindi «diverso» dagli altri bambini? A comprendere un «tradimento biologico»? Non ci sono, allo stato attuale, ricette risolutrici o figure professionali che, all’interno del proprio compito istituzionale, abbiano trovato tecniche adatte alle diverse situazioni.
Che cosa accade a tutte le madri che partoriscono un figlio disabile o
che, per diversi motivi, si ritrovano ad affrontare problemi di disabilità insorta? Succede che, dopo essere state tramortite dall’evento, e dopo aver
passato un certo lasso di tempo per riprendersi (tempo che varia a seconda
delle persone, alle volte può durare tutta la vita), provano a capire cosa possono fare per aiutare il proprio figlio. Da questo momento in poi, si apre il
ventaglio dell’offerta delle prestazioni, dei servizi e dei soggetti implicati.
Il linguaggio
Un grande problema è quello del vocabolario, con terminologie da addetti ai lavori, che variano con il variare degli ambiti di intervento: sanitario,
assistenziale, educativo, legale, ecc. Quindi le persone diventano utenti,
l’occuparsi di loro diventa una presa in carico, che può essere riabilitativa/sanitaria, assistenziale, educativa, legale, e così via, con una pluralità di
riferimenti frammentaria, raramente integrata, mai totale. Il concetto di
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presa in carico, nei suoi elementi più alti, designa «il processo integrato e
continuativo attraverso cui deve essere garantito il governo coordinato dell’insieme degli interventi sulle condizioni che ostacolano l’inserimento sociale, scolastico e lavorativo, e inteso a favorire il più completo dispiegarsi
della personalità dei singoli individui» (Gabriel Levi). Nella realtà, a tutt’oggi, la presa in carico si traduce nella somma di prese in carico, ovvero «nell’apertura di cartelle», sanitarie, educative, socio assistenziali, e così via.
Al momento dell’evento la famiglia si ritrova, come è stato detto, a confrontarsi con parole nuove e con nuovi soggetti, fino ad allora sconosciuti o
quasi, che inizialmente sono da riferirsi quasi esclusivamente all’ambito sanitario/riabilitativo.
In alcune realtà territoriali, prime fra tutte la Città di Torino, oltre agli interventi sanitari sono previste forme di assistenza, e servizi comunali che
hanno il compito di affiancare la famiglia con supporti specifici e mirati, tramite azioni di sostegno rivolte sia al bambino disabile sia al suo nucleo: l’attenzione posta al «problema» non riguarda esclusivamente il versante medico, e la risposta non è unicamente di cura. La Città di Torino, pur con limiti e difficoltà, ha da tempo compreso che, quando si parla di bambino disabile, la presa in carico riguarda innanzitutto la famiglia, perché da essa dipende il futuro del bambino.
A Torino, quindi, una famiglia a cui è appena nato un bambino con handicap può fare riferimento agli interventi riabilitativi, all’assistenza sanitaria,
ai servizi collegati alla medicina legale, alle attività della neuropsichiatria infantile (in campo sanitario), alla consulenza educativa domiciliare e, se è in
struttura sanitaria, al gruppo giochi degli ospedali (da parte comunale).
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Isolamento e rischio di povertà
L’esperienza, ancora una volta, evidenzia uno scollamento tra risorse,
offerte, risultati attesi e ottenuti, perché la presa in carico riguarda solo il
problema dell’handicap, non gli sconvolgimenti e le trasformazioni che
questo ha prodotto. L’approccio è quello professionale e terapeutico, dove
c’è poco posto per accogliere il senso di solitudine e l’enorme travaglio interiore. Spesso una madre si ritrova sola nell’educazione e nella cura del figlio,
perché il padre si ritaglia una parte marginale, volta all’esterno, agli impegni
lavorativi. Sono lacerazioni che una coppia si porta dietro, più o meno silenziosamente, nel corso degli anni, e riemergono quando alle persone, come avviene, ad esempio, nei gruppi di auto aiuto, viene offerta la possibilità
di parlare di sé stesse.
Il senso di solitudine può riguardare la famiglia anche nelle relazioni
con l’esterno, che spesso si riducono drasticamente, per diversi motivi: di
fronte ad un grande dolore, si preferisce interrompere il circuito delle relazioni; a torto o a ragione, «non ci si sente capiti»; fare attività socializzanti con un figlio disabile è difficile, e spesso considerato imbarazzante.
Non è facile convincere le persone che può essere «normale» cercare pizzerie, case, cinema accessibili; che gli «sbavamenti» possono non creare
problemi, che le domande insistenti, a volte noiose e ripetitive, si possono
tollerare. Questa famiglia, nel corso del tempo, è condannata a rimanere
sola, e, se fortunata, può contare esclusivamente sui legami parentali. Da
un lato, a livello formale, una famiglia conta su una sequenza di servizi,
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non sempre integrati e con lacune spesso evidenti; dall’altro, a livello
informale, vede che i rapporti di amicizia si diradano, la qualità delle relazioni parentali si trasforma, disgregandosi o stringendosi come una morsa eccessivamente solidaristica. In ogni caso, il bambino disabile e la sua
famiglia vivono in una sorta di campana di vetro, che taglia fuori tutta la
varietà delle relazioni.
In alcuni casi, poi, la madre rimane letteralmente sola, perché la coppia
non resiste all’evento. È una madre che difficilmente conserva il proprio posto di lavoro; una donna che, come conseguenza diretta, rientra nelle fasce
deboli della popolazione, e smette di essere socialmente competitiva, rientrando in una condizione di povertà economica, culturale e affettiva.
La solitudine
Partendo dal presupposto che la disabilità, intesa nella accezione consueta (mentale, fisico-motoria e sensoriale), è un evento inaspettato, non
prevedibile, che può colpire qualsiasi individuo appartenente a qualsiasi
ceto sociale, fuori di condizioni economiche e socio culturali specifiche, è
difficile stabilire la «famiglia tipo» cui appartengono le persone disabili. I
bambini con handicap hanno genitori di tanti tipi, come tutti i bambini; ciò
che fa la differenza sono le risorse, economiche e culturali, che il nucleo
possiede, per rispondere efficacemente ai problemi, senza schiantare di
fronte all’evento. Se la qualità della vita dei bambini è strettamente connessa alla qualità espressa dalla loro famiglia, ciò è tanto più vero per un bambino disabile, perché la famiglia di tale bambino, e soprattutto la madre, saranno l’unico suo vero punto di riferimento affidabile e certo. Un riferimento che durerà per anni e anni, anche quando la madre invecchierà e
sarà stanca.
Attualmente il maggior numero delle famiglie denunciano una grande
solitudine sociale, accompagnata da emozioni parallele, quali la depressione e il pessimismo, per le quali spesso non c’è risposta, nè la somma delle
prestazioni riesce a colmare. Ma un bambino che convive con queste emozioni può essere un bambino integrato?
La famiglia di un bambino disabile cerca di farcela sempre da sé, raramente delega la cura e la crescita del proprio figlio ai servizi. Questo è dimostrato dall’esperienza, dalla realtà dei servizi e dagli studi statistici.
Secondo i dati forniti dalla Regione Piemonte, nella provincia di Torino vi
sono solo 18 minori disabili inseriti in presidi socio assistenziali, di età compresa tra i 14 e 18 anni: si tratta di ragazzi con insufficienza mentale gravissima, ospitati, per le loro condizioni, all’interno di Istituti. A questo numero
si può sommare il dato regionale che riguarda l’affidamento familiare, e si
arriva a 27 casi nella provincia di Torino di minori disabili allontanati dalla
famiglia. Il confronto con altri numeri giustifica l’affermazione che vede
nella famiglia un elemento centrale, sempre presente, che raramente «abbandona» il figlio disabile. Semmai, all’opposto, la famiglia vive per tutta la
sua esistenza con il fantasma dell’abbandono, della delega ad altri; teme
questa eventualità, la evoca con grandi sensi di colpa. Solo negli ultimi tempi, da parte di alcune famiglie più coraggiose, ci si è posti il problema del
«dopo di noi» come fatto che va gestito «durante noi». Stanno emergendo
tentativi di strategie e soluzioni.
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Famiglia e servizi
La realtà mostra quanto le famiglie siano restie a richiedere l’intervento
dei servizi sociali. La famiglia tende a ritardare questo momento, sperando,
da un lato, di poter reggere autonomamente l’impegno necessario per occuparsi di una persona disabile; cercando, dall’altro, di evitare una condizione che viene percepita come stigmatizzante. Ciò significa, in altre parole,
che quasi sempre una famiglia si «rimbocca» le maniche e cerca di fare da
sé, perché pensa di potercela fare, vuole a tutti i costi farcela. E soprattutto
perché andare ai servizi sociali a chiedere aiuto, significa collocarsi nelle cosiddette fasce deboli, diventare utenti, veder aprire una cartella in cui si raccolgono anamnesi, diagnosi, fotocopie di certificati e dichiarazioni dei redditi, dove c’è poco spazio per dolori e solitudini. Aspetti non sempre desiderabili e desiderati. Una famiglia che vive una condizione di solitudine ed
esclusione, come è la famiglia di un bambino disabile, non vuole sentirsi anche «marchiata», e cerca di ritardare tale momento, che quasi sempre coincide con la fine della scuola dell’obbligo.
Quando ciò accade, la stessa famiglia si ritrova effettivamente sola a non
saper cosa fare. Per i ragazzi con insufficienza mentale, si apre la lista d’attesa per l’ingresso ai Centri Socio Terapeutici (C.S.T), ai Centri di Lavoro
Guidato (C.L.G), ai Centri di Attività Diurna (C.A.D), ai molti laboratori e così via. Per i ragazzi con disabilità motoria o sensoriale poco si sa, se non attraverso la scuola e i servizi che si occupano di inserimenti lavorativi.
I fratelli e le sorelle
Maggiori considerazioni meriterebbero anche i fratelli e le sorelle. Si pone troppa poca attenzione a queste figure parentali, nonostante i ruoli svolti. In molti casi, a loro viene chiesto, più o meno esplicitamente, di occuparsi dei fratelli non solo mentre i genitori sono in vita, ma, soprattutto, quando non saranno più vivi. Sono «vite ipotecate», di cui si sa troppo poco per
sostenere qualsiasi cosa: una realtà scarsamente visibile e poco sostenuta.
Dalla parte dei servizi
188
Presidi, affidamenti, comunità familiari
Per vari motivi può accadere che una famiglia non ce la faccia, e allora per
il bambino si apre la sofferenza dell’allontanamento. Le soluzioni, nel corso
degli anni, si sono progressivamente orientate verso servizi con caratteristiche le più vicine possibili al modello familiare: agli Istituti si sono preferite le
comunità alloggio. Nella realtà, vi sono ancora diversi minori ospitati all’interno di «case protette», nei casi di insufficienze o di malattie mentali gravissime. Questi Istituti hanno utenti le cui rette sono in convenzione con le ASL
di tutta Italia e, quindi, sono sparsi su tutto il territorio nazionale.
Alcuni di questi minori non sono stati inseriti attraverso i servizi sociali,
ma direttamente dall’ASL: la verifica su questi casi è molto complessa, essendo i dati sommersi e difficilmente reperibili. Negli ultimissimi tempi si
sta assistendo alla trasformazione di alcuni presidi in Centri di
Riabilitazione. In risposta alle necessità riabilitative dei disabili gravissimi,
potrebbe così aumentare il numero dei minori inseriti in tali strutture, umi-
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liando i bisogni di umanizzazione e di legami significativi che tutti gli individui hanno.
I servizi sociali, come è stato detto, sono sempre più orientati a favorire
la permanenza dei minori, anche disabili, all’interno del proprio nucleo familiare. Uno strumento importante è l’affidamento familiare, diurno o residenziale. Nel caso dei bambini disabili, gli affidamenti residenziali realizzati sono pochissimi (a Torino circa una decina; inoltre, su una lista d’attesa di
circa 60 bambini 3 sono disabili); alcuni riguardano bambini piccoli e avvengono tramite gli Ospedali cittadini. In questo caso, più che di affidamenti familiari, si tratta di «adozioni mascherate», in quanto quasi nessuno
di questi bambini tornerà mai in famiglia. Il problema del «dopo di noi» è
analogo sia per una famiglia d’origine sia per una famiglia affidataria; perché quest’ultima dovrebbe impegnarsi in un affidamento che dura tutta la
vita e ipoteca anche la morte? Probabilmente, se si cominciassero a trovare
soluzioni più adeguate, qualche famiglia in più potrebbe candidarsi a prendere in affidamento minori disabili, con la tranquillità che una volta, diventati anziani, «qualcosa accade».
Come strumenti di sostegno per le famiglie affidatarie, sono stati attivati dal 1996 i gruppi di sostegno e successivamente quelli di auto-mutuo aiuto. Attualmente i gruppi rivolti alle famiglie affidatarie sono così articolati:
❖ Gruppi informativi: si occupano dell’accoglienza, dell’orientamento
e dell’informazione delle famiglie candidate all’affido;
❖ Gruppi misti e di sostegno, nei quali le famiglie che hanno già alle
spalle una lunga esperienza affiancano le famiglie appena arrivate all’affidamento. Tale aiuto si realizza attraverso il confronto, la valorizzazione, il supporto reciproco e la ricerca di strategie per affrontare le
difficoltà;
❖ Gruppi di auto mutuo aiuto, nei quali la presenza di un conduttore
non è più necessaria.
Un’altra esperienza interessante, come tipo di risposta residenziale, è la
Comunità familiare. Essa ha la caratteristica di essere gestita all’interno di
un nucleo familiare esistente, che può ospitare non più di 4 minori. Anche
in questo caso il modello di riferimento è quello familiare, e il tentativo è di
restituire al minore delle condizioni di vita affettiva e relazionale equilibrate e soddisfacenti. A Torino vi sono 10 comunità familiari, e in 3 di queste sono ospitati bambini disabili. I racconti degli operatori restituiscono l’idea
dell’estrema importanza e validità, riconoscibile e misurabile, dei risultati
ottenuti.
I «buchi»
Si registrano gravi carenze di intervento e offerta rispetto ad alcune tipologie di handicap (gravi, gravissime, pluriminorazioni, borderline ecc), di
servizi (di socializzazione, per le situazioni di emergenza, ecc) e fasce di età
(0-6 anni,14-18 anni).
Queste carenze, o la cattiva organizzazione delle risorse esistenti, mettono in grave difficoltà i servizi e gli operatori. Non c’è niente di più doloroso
189
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di non poter trovare risposte adeguate a situazioni di grande malessere.
L’impotenza, il «senso di colpa» e la frustrazione sono alcuni dei sentimenti
che spesso serpeggiano tra gli operatori, i quali fanno fronte come possono,
e quanto le condizioni attuali dei servizi consentono.
Le informazioni
Come è stato detto, i numeri attualmente diffusi sono piuttosto parziali,
poiché provengono in maniera disorganica dai diversi servizi e campi che
«prendono in carico» i bambini disabili: la sanità attraverso la neuropsichiatria e i servizi di riabilitazione; l’istruzione, tramite le insegnanti di sostegno, l’assistenza grazie agli interventi rivolti alla famiglia, i trasporti, ecc.
Va precisato che i dati maggiormente reperibili riguardano il campo dell’istruzione, perché essi spesso fanno riferimento alle insegnanti di sostegno
e al rapporto numerico tra queste e i bambini disabili: informazioni oggettivamente reperibili e quantificabili. Ma come è stato detto, sono informazioni frammentate, che non dialogano tra loro; nessuno cerca di seguire le tracce di questi numeri, e da soli essi non restituiscono il senso degli interventi.
Uno dei problemi più sentiti, da chi si occupa della programmazione
delle azioni e degli interventi in ambito sociale, è capire qual è la distribuzione dei sostegni, ovvero «chi fruisce di cosa», per comprendere se esiste
una distribuzione equa delle offerte, o se, al contrario, ci sono persone che
godono di molti servizi e altre che hanno poco o niente. Il sospetto è che sia
abbastanza diffusa la seconda eventualità. Quando si cerca di quantificare
gli sforzi che l’assistenza produce nel campo dei servizi, si scopre che non è
raro imbattersi nell’assenza di numeri certi, perché gli operatori sono abituati a lavorare nell’emergenza e nella routine, restando lontani dai concetti di verifica e misurazione.
190
Integrazione e lavoro di rete
Il problema della classificazione e delle definizioni (v. il paragrafo 5.2),
specularmente si ricollega al problema dell’inadeguatezza terminologica ed
è causa di una condizione di disagio e difficoltà, avvertibile nelle strategie e
nelle azioni di welfare locale. Stabilire se un utente è una persona «da curare» o «da assistere» significa riconoscere una diversa titolarità progettuale e
gestionale.
In una situazione in cui, sempre più, le persone possono essere utenti di
servizi diversi, il modello legislativo e gestionale che si sta affermando prevede l’integrazione. Tale termine compare nel titolo della Legge 328/00
(«Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali»), e il riferimento a tale concetto è forte e ripetuto, a dimostrazione della necessità imprescindibile di operare in tal senso. È chiaro a tutti
che, viste le difficoltà e le complessità che si determinano dal rapporto bisogni/offerte, è indispensabile pensare e offrire un sistema integrato di interventi e servizi. Ma all’interno di tale concetto sono impliciti problemi e
nodi di gestione ancora in gran parte da risolvere. Tali ostacoli sono denunciati sia dagli utenti, che spesso sono ostaggio delle incertezze, sia dagli operatori che, pur con tutte le buone intenzioni, affrontano le stesse difficoltà
stando dall’altra parte «della barricata».
Questo si evince dalle relazioni dei vari gruppi di lavoro integrati. Un
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esempio è evidenziato nel testo redatto dai Gruppi di Lavoro Interdivisionali
Provinciali dei Provveditorati agli Studi - G.L.I.P. («Relazione annuale al
Parlamento sullo stato di attuazione delle politiche per l’handicap in Italia 1999») dove, tra i diversi problemi aperti, concernenti l’integrazione scolastica, si segnalano:
❖ la scarsa diffusione della stipula di accordi di programma
❖ la riorganizzazione amministrativa e funzionale delle A.S.L., la scarsità di organici del personale socio-sanitario chiamato a collaborare
con l’istituzione scolastica, ai fini della stesura della D.F., del P.D.F. e
del P.E.I.
❖ la disomogeneità della compilazione delle D.F. da parte dei distretti
A.S.L.
❖ la diversità di linguaggio tra operatori della scuola, ASL ed Enti Locali,
che ostacola una comunicazione efficace, finalizzata al coordinamento degli interventi
❖ l’individuazione di sistemi integrati per la circolazione delle informazioni, affinché queste raggiungano tutte le persone interessate alla
problematica dell’handicap e specialmente le famiglie; più in generale, la scarsa diffusione delle conoscenze circa le problematiche dell’handicap e del disagio
❖ l’integrazione scolastica difficile di alunni con handicap di particolare gravità
❖ la mancata rimozione di quanto ostacola un pieno esercizio del diritto allo studio (trasporti, abbattimento delle barriere architettoniche).
Tra le varie proposte, le principali riguardano:
❖ l’integrazione degli alunni con handicap sensoriale
❖ il coinvolgimento di tutte le figure professionali interessate all’integrazione scolastica
❖ il collegamento tra scuola e lavoro
❖ la diffusione delle esperienze positive maturate e delle buone pratiche
❖ l’attivazione di un servizio di consulenza nelle scuole
❖ il collegamento in rete.
Contenuti assai analoghi sono segnalati da operatori del Comune di
Torino, all’interno della Ricerca esplorativa sui servizi per l’infanzia (a cura
delle Divisioni Servizi Socio Educativi, Servizi Socio Assistenziali e Settore
Gioventù - 1998/99). Tra gli aspetti «a rischio» si segnalano:
❖ un basso livello di integrazione tra i progetti
❖ un non sempre presente coordinamento tra progetti che attengono
allo stesso ambito di intervento, e il rischio di dispersione degli investimenti
❖ la carenza di precisi elementi quantitativi, relativamente ai costi, ai
destinatari, alla durata e alle risorse impiegate
❖ la difficoltà nel fornire indicatori di trasformazione sociale.
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Tutto ciò denuncia un’evidente distanza tra l’intenzione e lo stato dell’arte. È ancora presente il problema delle suddivisioni delle competenze,
che penalizza operatori, persone disabili e famiglie e che, probabilmente, va
affrontato da altri punti di vista. Si potrebbe sostenere che la somma delle
prestazioni non fa un intervento integrato, e, soprattutto, non si traduce in
soddisfazione per l’utente.
192
L’inserimento sociale
Questo concetto è collegato al precedente, perché un sistema integrato
dei servizi dovrebbe produrre come effetto la piena integrazione dell’individuo e del suo nucleo familiare. È ovvio che, vista la difficoltà a procedere
verso una integrazione dei primi, diventa difficile pensare a grandi progressi rispetto al resto. Si dovrebbe smettere di «parlare di» integrazione per
«agire la» integrazione, producendo quotidianamente gesti e pensieri volti a
generare normalità nell’accezione più evoluta e generosa. L’integrazione sociale è un aspetto, per certi versi, ancora più complesso dell’integrazione organizzativa, ma, in ogni caso, passa attraverso le risorse dell’individuo, le
specificità del nucleo familiare e del contesto sociale di riferimento. Dai racconti delle madri di bambini disabili con età diverse, si capisce che molti sono stati gli sforzi e i cambiamenti prodotti in ambito scolastico: ad esempio,
i bambini disabili ora frequentano tutti le scuole dell’obbligo e non più i
Centri Educativi Speciali. Ma, sempre nei racconti, emerge un quadro poco
rassicurante per ciò che concerne altri aspetti.
Le scuole, soprattutto quelle che ospitano le medie inferiori e superiori,
sono piene di barriere architettoniche, e i bambini con la carrozzella e le loro famiglie frequentemente sono costretti a fatiche e mediazioni inimmaginabili, per cui la scelta della scuola spesso è determinata esclusivamente
dalla accessibilità dell’edificio scolastico. Le barriere architettoniche sono
presenti, oltre che in molte scuole, nella gran parte degli edifici sportivi pubblici, nei cinema (a Torino solo 13 sale su 44 hanno sale e bagni accessibili),
nelle strutture alberghiere e così via.
Può accadere che un ragazzino non frequenti attività di laboratorio perché, mentre l’aula è stata ospitata al piano accessibile, i laboratori spesso sono localizzati in spazi «di risulta» o in seminterrati, comunque non trasferibili; quindi lo stesso ragazzino è «integrato» in situazioni alterne, a seconda
delle attività da svolgere.
La presenza di insegnanti di sostegno garantisce un supporto durante le
attività scolastiche, ma che ne è delle attività extrascolastiche? Attualmente
queste ultime rappresentano gran parte delle attività di socializzazione dei
bambini, e proprio in questi frangenti i bambini disabili e le loro famiglie si
ritrovano spesso soli ed esclusi. Quando un bambino disabile racconta il
proprio tempo libero, le proprie attività sportive, le proprie vacanze, cosa
narra, quali emozioni condivide con i suoi compagni di classe? Come sono
le vacanze estive di una famiglia con un bambino disabile? Non in albergo e
neppure in campeggio; in alcuni casi la famiglia, se ha le possibilità economiche, va in appartamento, finché il bambino è piccolo e la sua disabilità
non è troppo evidente e faticosa. I problemi emergono quando il bambino
cresce, e i suoi bisogni e le sue difficoltà anche, soprattutto se la condizione
di handicap è grave.
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Molte famiglie non vanno in vacanza con il proprio figlio perché non
trovano la struttura accessibile, e/o adatta o disponibile ad ospitare ragazzi con tali problemi. Poiché l’assistenza di un ragazzo con handicap motorio o mentale grave è faticosa, spesso la famiglia preferisce stare in città,
dove almeno può godere di alcune forme di aiuto. L’assistenza fuori città
non è quasi mai prevista e la si deve pagare. Gli unici casi in cui si osservano vacanze congiunte è quando un genitore, quasi sempre la madre, accompagna il proprio figlio presso un centro di riabilitazione convenzionato con l’ASL; in tal caso le spese del ragazzo sono interamente a carico
dell’Azienda sanitaria e l’onere a carico della famiglia è quello dell’accompagnatore. Le vacanze diventano momenti di separazione tra il bambino
disabile e la famiglia, il primo perché partecipa ai soggiorni estivi, la seconda perché «tira il fiato».
Ma la quotidianità per un bambino con handicap e per la sua famiglia
non riserva emozioni tanto diverse. Si è pensato che organizzare iniziative
che promuovono l’integrazione dovrebbe generare una crescita culturale in
tale direzione: è così, ma parzialmente. Per i bambini che frequentano le
scuole medie inferiori, l’offerta istituzionale delle iniziative extrascolastiche
scarseggia, il Terzo settore è meno impegnato. Per i bambini da 10 a 14 anni
si apre una fase esistenziale piuttosto faticosa e dolorosa, dove essi toccano
con mano il senso dell’esclusione; soprattutto per i ragazzi con handicap
motorio, sensoriale e mentale grave, il concetto di barriere architettoniche
assume un significato davvero pregiudiziale.
Allora che ne è stato di tutto il processo di integrazione scolastica? Di
tutti gli sforzi per promuovere una cultura attenta alle differenze e alla solidarietà, fatti negli anni scolastici precedenti alla scuola media inferiore?
Forse, anche in questo caso, oltre a proposte mirate, si dovrebbe avviare
una prassi più democratica, dove le iniziative prevedono «geneticamente»
l’integrazione, ovvero non producono esclusione. Così, ad esempio, le
strutture sportive dovrebbero essere accessibili a tutti (disabili, anziani, cittadini con difficoltà motorie temporanee, ecc); al loro interno dovrebbe essere previsto l’intervento di insegnanti preparati ad allenare anche ragazzi
con handicap; si deve immaginare la presenza di attività speciali fruibili dai
minori disabili.
Nuove risorse per l’integrazione
Molti bisogni, che emergono dalle famiglie, poco hanno a che fare con la
dimensione istituzionale. Ciò significa che la maggior parte delle risposte
possibili non riguardano le istituzioni, e non implicano necessariamente
un’ulteriore offerta di servizi. È probabile che ciò che si deve attivare sono
risorse meno formali, legate direttamente all’esperienza, in grado di sintonizzarsi meglio con le esigenze espresse o sottese dai genitori. Vediamo alcune necessità di frequente espresse.
Informazione
Non solo sportelli informativi, ma soprattutto processi informativi attenti ai loro linguaggi. È stato detto come gli operatori utilizzano codici lin-
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guistici diversi da quelli usati dalle famiglie. Perché una informazione arrivi correttamente al destinatario, il codice linguistico e i canali di trasmissione utilizzati devono essere adeguati. Sono soprattutto le famiglie dei
bambini più piccoli che necessitano di tali attenzioni, perché sono più confuse, devono imparare tutto, si deve interrompere da subito il «cerchio della solitudine». Il problema dell’informazione riguarda soprattutto il Terzo
settore, che, da questo punto di vista, registra un certo ritardo rispetto alla
pubblica amministrazione. Le associazioni di volontariato faticano a divulgare le informazioni fuori dai propri circuiti associativi (bollettini e periodici, assemblee, passaparola, ecc). Sono ancora poche le realtà associative
che presentano le proprie attività su Internet, e la maggior parte dei siti allestiti sono «di vetrina» più che «di servizio». Ancora oggi esempi quali i siti della UILDM (Direzione Nazionale, Handylex, Handylink) sono esperienze rare, che molto possono insegnare nell’ambito dell’informazione telematica. Anche i call center possono svolgere una importante attività di supporto da un punto di vista informativo. È decisivo insistere sul valore dell’informazione e della comunicazione, perché è fondamentale che i cittadini diventino preparati e consapevoli; la qualità dei servizi dipende anche
dalla qualità della domanda: buone domande obbligano a buone risposte
(Scheda E).
Scheda E – Domande archiviate dall’Informa Handicap cittadino
(gennaio - aprile 2001)
1. Richiesta inoltrata dalla madre, di affiancare bambino autistico di 7 anni
nelle ore pomeridiane (16.00-18.00) da lunedì al venerdì, dopo la scuola
2. Richiesta di informazioni per ottenere abbonamento Atm per un bambino
con lieve insufficienza mentale di 10 anni
3. Bambino distrofico che frequenta il primo anno della scuola media inferiore ha problemi di barriere all’interno dell’edificio scolastico
4. La mamma di una bambina cerebrolesa chiede qual è la procedura per ottenere l’esenzione del bollo auto
5. Mamma di bambino di 9 anni ammalatosi a 8 compiuti chiede informazioni e consulenza per l’inoltro di richiesta di aspettativa. La signora è dipendente del Comune di Torino
6. Richiesta di informazioni e consulenza per ottenere pensione di invalidità
e di accompagnamento per una bambina di 11 anni affetta da osteogenesi
imperfetta
7. Richiesta di un sostegno extrascolastico per un bambino di 11 anni con insufficienza mentale, anche a pagamento
8. Mamma di bambino con tetraparesi spastica di 7 anni che ha problemi di
barriere all’interno della propria abitazione
9. Richiesta di informazioni sulla accessibilità delle scuole elementari visto
che quella di zona è inaccessibile per la figlia
10. Mamma con figlia affetta da tetraparesi spastica distonica chiede informazioni sulla possibilità di richiedere il periodo di aspettativa di due anni retribuito.
11. Chiede, inoltre, qual è la procedura per ottenere l’esenzione del bollo auto
194
segue
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12. La mamma di un Bambino distrofico di 12 anni chiede informazioni sulle
attività sportive frequentabili da bambini disabili in Città di Torino
13. La mamma di una bambina con tetraparesi spastica di 8 anni chiede quali piscine sono accessibili a Torino
14. Il papà di un bambino di 3 anni chiede qual è la procedura per ottenere i
buoni per il trasporto
15. Il papà di una bambina affetta da spina bifida chiede informazioni per ottenere i permessi previsti dalla L.104
16. Richiesta di informazioni per ottenere abbonamento ATM per un bambino con lieve insufficienza mentale di 13 anni
17. Richiesta di informazioni per ottenere assegno di accompagnamento per
un bambina di 12 anni con trauma cranico
18. Richiesta di affiancare bambino psicotico di 11 anni nelle ore pomeridiane
(16.00-18.00) da lunedì al venerdì, dopo la scuola
19. Permesso di transito e sosta per l’auto di un papà con bambino di 9 anni
insufficiente mentale e disabile motorio
20. Richiesta di una madre con bambina con disabilità mentale gravissima di
poter richiedere l’aspettativa retribuita per il periodo di due anni. La signora lavora in un Ospedale Cittadino
21. Una educatrice chiede informazioni su iniziative di supporto alla famiglia,
una collega ha partorito un bambino con sindrome di Down
Le richieste pervenute all’Informa Handicap della Città di Torino mostrano alcuni bisogni informativi comuni, i cui contenuti sono riferiti:
❖ al trasporto e alla mobilità
❖ alle barriere
❖ all’assistenza diretta (con l’utilizzo di periodi di astensione e di permessi lavorativi) o con il sostegno di altre persone
❖ all’assistenza economica e alle agevolazioni fiscali
❖ alle attività sportive
Altri elementi possono così essere sintetizzati:
❖ le richieste provengono in numero superiore dalle madri
❖ le fasce di età interessate riguardano, prevalentemente, la scuola dell’obbligo (sopra i 6 anni)
❖ le patologie sono variamente rappresentate, e sono, inoltre, presenti
anche situazioni di patologie rare
❖ quasi la totalità delle domande riguardano la possibilità di ottenere
servizi, prestazioni e agevolazioni.
Cittadinanza ed empowerment
Difficilmente invece la «logica» della richiesta muove in un contesto di
cittadinanza attiva, o comporta un modo diverso di utilizzare la propria
competenza. I genitori dei bambini disabili frequentemente pensano che
l’unico modo per raggiungere l’integrazione possa realizzarsi attraverso il
reclamo dei propri diritti. In tal modo, le attività delle associazioni diventano di pura rivendicazione, e la progettualità e la creatività dei singoli vengo-
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no sacrificate. È importante invece che le persone, allorché imparano ad essere più abili ed esperte, decidano di mettere a disposizione della propria
comunità tali competenze.
Il concetto si collega direttamente al processo di empowerment.
Quest’ultimo si costruisce intorno al pensiero del «prendere in mano» la
propria vita, imparare a comprendere la propria condizione, per essere in
grado di attivare autonomamente soluzioni capaci di prospettive positive. Si
tratta di uscire da una condizione sociale che delega la responsabilità del
proprio benessere solo a figure professionali, in un rapporto di curato/curante. È un modo per riappropriarsi attivamente dei propri problemi, trasformandoli per sé e per la propria comunità in risorsa.
Auto mutuo aiuto
Da intendersi non come obiettivo, ma come strumento utile alle persone per raggiungere una condizione di sofferenza accettabile. Un dolore come quello dell’avere un figlio disabile non può essere risolto; può solo trovare punti di equilibrio, che lo rendano più tollerabile. I gruppi di auto aiuto, per le loro specificità e per gli obiettivi che si prefiggono, possono assolvere a tale scopo. Possono aiutare le famiglie in momenti particolari della loro vita a promuovere processi di «riconoscimento nel dolore dell’altro», solidarietà, empowerment, capaci di interrompere il cerchio della solitudine.
Molte fasi caratterizzano tale cerchio: l’evento, la speranza (delusa) della
guarigione, l’accettazione rancorosa e/o depressa e così via. Il gruppo di auto aiuto obbliga l’individuo a guardare da altri punti di vista le fasi attraversate, tentando di attribuire a queste significati ulteriori, condivisi attraverso
le esperienze delle altre persone. Le coppie possono ricominciare un dialogo interrotto, le persone possono sentirsi meno colpevoli, e soprattutto meno sole. È importante condividere l’idea che il gruppo non è l’obiettivo ultimo, ma un utile strumento per imparare altri linguaggi e quindi capitalizzare maggiori risorse. I gruppi A.M.A. sono utili anche per la marginalità che vi
assume il «tecnico», e per il superamento del rapporto di dipendenza che si
instaura tra curato/curante.
196
Insufficienti mentali gravi e gravissimi
La loro cura può uccidere un genitore. Se è vero, come è stato detto, che,
la totalità delle famiglie tiene a casa i propri figli disabili, anche se gravi o
gravissimi, non si può pensare che a queste famiglie non si offra mai una occasione per «tirare il fiato».
Sono necessari più servizi di «pronto intervento», da intendersi non solo
in termini residenziali (posti in comunità alloggio), ma anche domiciliari,
programmabili su richiesta. Una interessante offerta di sostegno al nucleo riguarda l’affidamento individuale, diverso dall’affidamento presso una famiglia. Mentre per il secondo è necessaria una valutazione del Tribunale per i
minori e dell’U.V.H. (Unità Valutazione Handicap), per l’affidamento individuale non è previsto alcun allontanamento; anzi viene offerto un sostegno
individuale, secondo un programma riferito al progetto globale d’intervento.
Ciò significa che la famiglia può contare su una persona che, per un numero
prestabilito di ore settimanali e per un certo lasso di tempo, svolge una serie
di attività con il minore disabile, concordate progettualmente.
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Tempi dei servizi
I tempi delle famiglie con persone disabili non corrispondono ai tempi
delle famiglie «normali». Un problema assilla le famiglie, soprattutto le madri che lavorano: i servizi non rispettano quasi mai i tempi della famiglia.
Prevalentemente sono attivi dal lunedì al venerdì, dalle 8,30/9,00 alle 16,00.
Questi tempi, già difficili per qualsiasi madre che lavora, diventano impossibili per le madri di disabili. C’è da chiedersi come fanno queste donne a
conciliare tutti gli obblighi: sempre impegnate a portare i bambini alle attività di fisioterapia e di riabilitazione, alle attività socioanimative e ludiche, e
così via. È interessante ascoltare i loro discorsi sulla scarsità del tempo.
Tempo libero
Uno degli aspetti di maggiore difficoltà riguarda la possibilità per i bambini disabili di «occupare» il proprio tempo libero insieme ad altri bambini,
realizzando attività «normali», capaci di sviluppare un processo di integrazione reale e non surrogato. Come è stato osservato, molte delle richieste di
informazioni, pervenute nei primi sei mesi di apertura dello sportello
Informa Handicap del Comune di Torino, riguardano tale aspetto: sono connesse ai temi della mobilità (agevolazioni fiscali, permessi di circolazione e
servizi di trasporto), delle barriere architettoniche e dell’accessibilità.
Mediatore
Le offerte di prestazione sono molteplici; ma, ammesso che una famiglia
possa attingere a tutte quelle presenti nel territorio torinese, come riesce a
districarsi nei molti linguaggi? A confrontarsi con tutte le figure e le professionalità? Come può ricomporre da sola la frammentazione? Come può
concretizzarsi un processo di inclusione e di solidarietà, di comprensione
dei bisogni e di integrazione dei linguaggi? Forse è necessario un agente capace di catalizzare il processo.
Visti tutti i tentativi voluti dalle istituzioni, e solo parzialmente riusciti,
può essere sensato pensare che tale ruolo sia positivamente assunto da persone che conoscono il problema, non perché professionisti, ma perché lo vivono direttamente. Chi meglio di una madre e un padre con un figlio con
handicap può comprendere le difficoltà di un’altra coppia? Solo una madre
«esperta» può mediare e tradurre una realtà difficile, complessa e incomprensibile, ad una «madre inesperta». Nelle tradizioni contadine le donne
più anziane avevano il compito di aiutare le giovani ad affrontare le responsabilità dell’essere moglie e madre. Oggi tale funzione è surrogata da letture, esperti, corsi preparatori, e dai servizi. Ciò che può funzionare se le difficoltà sono circoscrivibili, diventa inadeguato nelle situazioni connesse alla
nascita di un figlio disabile. La capacità di realizzare autonomamente processi di problem-solving nelle famiglie a cui nasce un figlio con handicap si
riduce drasticamente, perché si è sommersi da una angoscia che non si riesce a comunicare. Una persona «esperta», che ha vissuto e vive quotidianamente in prima persona quel problema, può riattivare questa abilità.
Il concetto di mediazione è vicino al principio dell’auto mutuo aiuto, ovvero della funzione terapeutica assolta dalla condivisione delle difficoltà tra
«pari». Ma, in questo caso, la prospettiva è di affiancare agli operatori delle
figure «esperienziali» con funzioni di mediazione, catalizzazione e tutoring,
197
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che siano in grado di comunicare e di accompagnare la famiglia inesperta e
in difficoltà, fino a che questa non è in grado di sviluppare autonomamente
proprie condizioni di equilibrio.
In conclusione, si deve pensare ad un sistema di cura rivolto alla comunità, alle famiglie e agli individui, dove il ruolo delle persone capaci di trasferire competenze assume un significato e un coinvolgimento maggiore,
fuori e dentro i servizi. Il compito delle istituzioni non deve essere solo quello di moltiplicare la stessa offerta, ma di promuovere offerte differenziate,
anche facendosi da parte e lasciando spazio ad una pluralità di risorse.
5.7 Riferimenti
Normativi
198
Legge 66/62
Assistenza economica ai ciechi
Legge 482/68
Collocamento obbligatorio
Legge 381/70
Assistenza economica sordomuti
Legge 118/71
Invalidi civili (assistenza economica, sanitaria, protesica,
inserimento scolastico)
Legge 517/77
Integrazione scolastica
D.P.R 384/78
Eliminazione barriere architettoniche
Legge 180/78
Riforma psichiatrica
Legge 833/78
Riforma sanitaria
Legge 18/80
Indennità di accompagnamento
Legge 41/86
Eliminazione barriere edifici pubblici
Legge 508/88
Modifiche norme assistenza economica
Legge 13/89
Eliminazione barriere edifici privati
Legge 104/92
Legge-quadro sull’handicap
D.P.R 503/96
Eliminazione barriere edifici pubblici
Legge 285/97
Promozione diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza
Legge 162/98
Modifiche alla legge-quadro sull’handicap
Legge 9/99
Elevamento obbligo istruzione
Legge 17/99
Integrazione e modifica legge-quadro sull’handicap
Legge 68/99
Diritto al lavoro dei disabili
Legge 53/00
Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità
Legge 328/00
Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato
di interventi e servizi sociali
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paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 200
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(sito del Comune di Biella)
(sito del Comune di Novara)
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(sito della Regione Piemonte)
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(sito della Società italiana per lo studio
del Diritto e della Famiglia)
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UN.I.Down)
http://utenti.tripod.it/cristina/
(sito dell’Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici)
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da alcune delle principali organizzazioni del terzo settore)
http://www.aiasmilano.it
(sito della sezione milanese dell’Associazione A.I.A.S)
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(sito dell’Associazione Italiana Persone
Down)
http://www.aism.it
(sito dell’Associazione Italiana Sclerosi
Multipla)
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(sito dell’Associazione A.N.F.F.A.S)
http://www.asphi.it
(sito dell’Associazione per lo Sviluppo
di Progetti Informatici per gli Handicappati
http://www.centrodown.org
(sito della sezione alessandrina dell’UN.I.Down)
http://www.cottolengo.org
(sito dell’Istituto Cottolengo)
http://www.dongnocchi.it
(sito della Fondazione Don Gnocchi)
http://www.fivol.it
(sito della Fondazione Italiana Volontariato-FIVOL)
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(sito della Fondazione Ruffini)
http://www.minori.it
(sito del Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza)
http://www.parentproject.org
(sito dell’Associazione Duchenne
Parent Project)
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(sito a cura dell’Associazione A.R.E.A)
http://www.tor.it/piccolocottolengo/istituto.html (sito del Piccolo Cottolengo di Don
Orione di Tortona)
http://www.uildm.org
(sito dell’Associazione UILDM)
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VIVERE IN UN’ALTRA FAMIGLIA
6.1 Premessa
Il contributo fornito in questo capitolo e nel successivo vuole essere una
riflessione sulle forme del disagio infantile grave, che comporta l’allontanamento anche temporaneo dalla propria famiglia e sulle principali risposte (e
mancate risposte) che riceve. Dopo una sintetica analisi dell’ambiente di riferimento sia a livello socio-familiare che istituzionale e normativo, vengono
trattate alcune delle principali situazioni/problemi, sia negli aspetti quantitativi sia in quelli qualitativi, che comportano il rischio dell’allontanamento
dal nucleo. Successivamente sono affrontate le principali forme di intervento (Affidamento/Adozione/Strutture residenziali), individuandone le caratteristiche, gli attori, gli aspetti di complessità, nonché evidenziando le sperimentazioni in atto, con particolare riferimento alla realtà torinese. Infine si fa
cenno ad iniziative e servizi consolidati ed innovativi, miranti al sostegno alla famiglia, sia per evitare il rischio di allontanamento che per favorire il rientro. Saranno in particolare trattati gli aspetti di complessità tecnico-organizzativa, che condizionano l’efficacia di questi interventi e servizi.
6
6.2 Aspetti di contesto
Uno sguardo d’insieme
Un’analisi della situazione dei minori, in Italia in generale e nella nostra
Regione in specifico, non può non rilevare come ci siano sempre meno
bambini. Al punto che le persone di età inferiore ai 18 anni presentano un
trend costante di decremento in percentuale rispetto alla popolazione totale, fino a rappresentare appena il 17,8% della stessa.
Tale fenomeno è parzialmente mitigato da una riduzione inferiore per la
fascia 0-14, dovuta ad un arresto del decremento di natalità, grazie soprattutto all’immigrazione extracomunitaria, e alla significativa componente di
persone di età inferiore ai 15 anni immigrate. Gli anziani comunque superano i bambini fino ai 14 anni in tutte le regioni del Nord e del Centro, così
come sono in continuo calo le famiglie con almeno un figlio minorenne. Il
numero medio di figli per donna è pari a 1,18, ben sotto alla soglia di fecondità necessaria per la «sostituzione generazionale».
Peraltro alcuni indicatori relativi alla salute segnalano una situazione
soddisfacente (diminuzione malattie infettive e ricoveri per gravi malattie,
diminuzione morti per cause morbose e altre cause nella fascia 0-14). Per
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quanto riguarda i servizi educativi, si riscontrano carenze relativamente ai
nidi, mentre è soddisfacente la rete delle scuole materne e dell’obbligo. La
dispersione scolastica si attesta su livelli «fisiologici», anche se occorrerebbe
approfondire gli aspetti qualitativi di tali dati. Per esempio, chiedersi se questa stabilità è determinata da un aumento degli interventi e della loro efficacia, oppure da una diminuzione del livello di competenze richieste: alcune analisi rilevano come gli allievi che hanno ottenuto la valutazione di sufficiente al termine del ciclo dell’obbligo rischiano, dopo qualche anno, l’analfabetismo di ritorno. Per quanto riguarda la povertà, la sua incidenza sulla popolazione tende ad un lieve aumento e colpisce, in particolare, le famiglie con più di due figli.
Sono in aumento le denunce per violenza sessuale su minori, mentre lo
sfruttamento di minori italiani (al contrario per gli stranieri) sotto i 14 anni
sembra essere contenuto e non in aumento. Risultano in aumento le separazioni e i divorzi.
Pur esprimendo alcuni indicatori un aumento del disagio (povertà familiare, abusi, separazioni e divorzi), in generale la situazione per i minori 0-14
anni sembra essere accettabile, o almeno non mostra segni di peggioramento generalizzato.
L’ambiente di riferimento
I dati e le considerazioni di cui sopra dovrebbero trovare riscontro in una
diminuzione degli interventi nell’ambito delle situazioni gravi. Al contrario,
per esempio a Torino, a fronte di una diminuzione della popolazione minorile si rileva un progressivo aumento degli interventi rivolti alle situazioni di
grave difficoltà (educativa territoriale, centri diurni, borse formazione lavoro, affidamenti diurni, inserimenti in strutture residenziali). Tali interventi
sono stati 2250 nel ’96, 2460 nel ’97, 2630 nel ’98, 2740 nel ’99, 2754 nel 2000,
2806 nel 2001. Il trend di aumento è dovuto non ad un maggior numero di
nuovi minori che necessitano di intervento, ma ad un sempre minor numero di bambini e ragazzi che escono dal circuito assistenziale. Ciò è dovuto,
oltre a cause connesse alla erogazione dei servizi (delega, induzione, assistenzialismo), soprattutto all’aumento della gravità delle situazioni, e alla
difficoltà di uscire dai meccanismi di esclusione sociale.
L’ambiente di riferimento, relativamente ai minori in situazioni di grave
disagio personale/sociale e familiare, è caratterizzato da un elevato livello di
complessità, trasformazione, imprevedibilità. I principali aspetti possono
essere così sintetizzati:
202
❖ tipologia di utenza con situazioni di deprivazione sociale e culturale,
conflittualità intrafamiliare, difficoltà cognitive, progettuali e relazionali; tali da richiedere interventi poco standardizzabili, flessibili, personalizzati;
❖ aumento continuo della quantità e multidimensionalità dei problemi
sociali ed emergere di nuove domande e bisogni (es. tutela minori
neonati e piccoli, madri sole in gravi difficoltà, minori extracomunitari non accompagnati in condizioni di povertà estrema e di abban-
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dono e sfruttamento, bambini/e soggetti ad abusi e maltrattamenti
anche all’interno della propria famiglia);
❖ complessità delle risposte e degli esiti delle stesse. Basti pensare ai rischi di delega degli interventi ai servizi da parte delle famiglie, nel caso di interventi di sostegno al nucleo quali l’educativa territoriale, e ai
conseguenti processi di «assistenzializzazione»;
❖ incertezza sulle risorse disponibili e mobilitabili, e impossibilità di significative modificazioni delle stesse, a fronte di una domanda sia
qualitativamente che quantitativamente crescente. L’esperienza ha
dimostrato che politiche miranti ad interventi «leggeri», di supporto
al nucleo e all’affidamento familiare, non portano all’automatica diminuzione degli interventi in comunità alloggio, e quindi ad una riconversione della spesa;
❖ interdipendenza, relativamente all’efficacia ed efficienza degli interventi, tra varie Istituzioni che perseguono obiettivi e compiti diversi
(Servizi sociali – Servizi sanitari – Scuola – Autorità Giudiziaria
Minorile).Spesso cambiamenti e difficoltà in uno dei segmenti (es.
carenze di organico nella neuropsichiatria infantile, ritardi nei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile ecc.) comportano significative ripercussioni per tutto il sistema degli interventi.
6.3 L’allontanamento della famiglia
Aspetti normativi
In questo contesto, l’obiettivo generale delle politiche per i minori in situazione di grave difficoltà, anche in ottemperanza alla normativa vigente,
è di favorire al massimo percorsi di autonomia e responsabilizzazione, fornendo servizi e prestazioni di sostegno e supporto ai nuclei in difficoltà e ai
bambini e ragazzi presenti negli stessi. Ciò al fine di permettere la permanenza dei minori nel proprio ambiente di vita. Qualora, per la gravità della
situazione familiare, nonostante gli interventi non sia possibile il mantenimento del minore nel suo nucleo, devono essere attivati interventi di sostituzione, di norma temporanea, della famiglia.
Quanto sopra indicato richiama a due principi fondamentali, sia di diritto minorile che deontologici e professionali per chi opera in questo ambito: Genitorialità e Protezione/Tutela. La legge 184/83 sull’affidamento e
adozione e successive modificazioni sancisce il diritto del minore alla propria famiglia, ossia a crescere e ad essere nella stessa educato (art. 1). Le
condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà non
possono essere di ostacolo all’esercizio di tale diritto. Lo Stato, le Regioni e
gli Enti locali sostengono con idonei interventi i nuclei familiari a rischio, al
fine di prevenire l’abbandono e consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia.
203
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204
La L. 176/91, che ratifica la convenzione di New York dell’89 sui diritti del
fanciullo, stabilisce l’interesse superiore dello stesso quale diritto soggettivo. Infatti l’art. 3 comma 1 recita: «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di
competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei
tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse
superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente». All’art. 9
comma 1 si stabilisce che: «Gli Stati parti vigilano affinché il fanciullo non
sia separato dai suoi genitori contro la loro volontà, a meno che le autorità
competenti non decidano, sotto riserva di revisione giudiziaria e conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nell’interesse preminente del fanciullo». L’art. 20 comma 1 e 2 prevede
poi, che «ogni fanciullo, il quale è temporaneamente privato del suo ambiente familiare, oppure non può essere lasciato in tale ambiente nel suo proprio interesse, ha diritto ad una protezione e ad aiuti dello Stato. Gli Stati
Parti prevedono per questo fanciullo una protezione sostitutiva, in conformità con la loro legislazione nazionale».
La citata legge 184/83 e successive modificazioni prevede, quali forme di
sostituzione della famiglia di origine, l’istituto dell’affidamento familiare,
oppure, ove ciò non sia possibile, l’inserimento in una comunità di tipo familiare o ancora in un istituto (ad eccezione dei minori di anni 6). In ogni
caso, i ricoveri in istituto per i minori devono essere superati entro il 2006.
Sono dichiarati in stato di adottabilità quei minori di cui sia stata accertata
la situazione di abbandono morale e materiale da parte dei genitori o dei
parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio. Non c’è causa di forza maggiore, quando i genitori rifiutano le misure di aiuto e sostegno offerte dai servizi sociali, e tale rifiuto viene ritenuto dal giudice ingiustificato.
La funzione «vicaria» alla famiglia può essere esercitata in forma diretta
o consensuale da parte della famiglia stessa. Infatti la legge 184/83 e successive modificazioni prevede affidamenti familiari, a cura dei genitori, presso
parenti entro il quarto grado o altre persone, come prevede affidamenti disposti dal servizio sociale locale con il consenso dei genitori. Nel contempo
non è escluso l’inserimento diretto, da parte dei genitori, dei propri figli in
strutture residenziali. In ogni caso, il legislatore non considera «normali» le
collocazioni eterofamiliari dirette o consensuali, al punto da sottoporle al
controllo dell’Autorità giudiziaria. Il giudice tutelare rende esecutivo con
proprio provvedimento l’affidamento disposto dal servizio sociale con il
consenso dei genitori. Tale affidamento deve durare al massimo due anni, e
una eventuale proroga può essere disposta solo dal Tribunale per i Minorenni. Al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni
deve pervenire semestralmente, da tutte le strutture residenziali, l’elenco
dei minori collocati presso di loro, con l’indicazione, tra l’altro, dei genitori,
al fine di valutare eventuali situazioni di stato di abbandono.
Il genitore che affida direttamente il figlio, e l’affidatario non parente entro il quarto grado che accoglie un minore per un periodo superiore ai sei
mesi, ne devono dare comunicazione al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni.
Se la decisione di «vicariare» le proprie funzioni può essere assunta dalla famiglia direttamente, o comunque consentita dalla stessa, pur con i con-
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trolli di cui sopra, l’allontanamento dal nucleo può essere deciso, anche
contro la volontà dei genitori, dall’Autorità giudiziaria minorile. Il nostro ordinamento, infatti, prevede il diritto/dovere dei genitori ad esercitare la potestà nei confronti dei figli (art. 316 C.C.) ai fini del loro mantenimento e sviluppo. Nel caso in cui l’esercizio di tale potestà sia di pregiudizio per i figli,
l’Autorità giudiziaria può disporne la limitazione, con provvedimenti di natura civile, per la protezione e tutela del minore stesso. In genere per «condotta pregiudizievole» di uno o entrambi i genitori nei confronti del figlio, si
considerano uno o più comportamenti che causano danni fisici, educativi,
evolutivi e per la strutturazione della personalità. Tali comportamenti possono assumere sia una valenza passiva (trascuratezza, mancanza di cure)
che attiva (maltrattamenti, abuso di mezzi di correzione, abusi). In tali casi,
il giudice può adottare provvedimenti idonei, compresi l’allontanamento
temporaneo dal nucleo (art. 333 C.C.) e, nei casi di grave pregiudizio, anche
la decadenza della potestà (art. 330 C.C.). Quando i comportamenti pregiudizievoli si sommano, sono reiterati, o restano immutati, nonostante gli interventi di sostegno, e causano danni spesso irreversibili, si possono configurare gli estremi di «stato di abbandono», quale privazione (attiva e/o passiva) di assistenza materiale e morale, di cui alla citata legge 184/83 e successive modificazioni.
I provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile possono essere assunti su autonoma iniziativa, ma, di norma, avvengono a seguito di segnalazione, sia di qualunque cittadino che di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio. Peraltro i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio
(qualsiasi servizio a gestione diretta o in affidamento a terzi da parte di Enti
pubblici) sono tenuti a denunciare qualsiasi notizia di reato perseguibile
d’ufficio di cui vengano a conoscenza nell’esercizio della loro funzione (art.
331 C.P.). Occorre infine rilevare come, ai sensi del D.P.R. 616/77, gli Enti locali, in quanto titolari delle competenze socio-assistenziali, hanno la competenza circa gli interventi urgenti di protezione e tutela dei minori (art. 403
C.C.). Inoltre, ai sensi dell’art. 25 del decreto di cui sopra, i servizi sociali degli Enti locali hanno la competenza istruttoria e di esecuzione dei provvedimenti civili dell’Autorità giudiziaria minorile.
Implicazioni tecnico - professionali
Il quadro normativo brevemente delineato, richiama i principali Istituti
e Servizi che «vicariano» la famiglia di origine, in situazioni di grave pregiudizio nonostante l’attivazione degli aiuti e supporti di sostegno: Affidamento familiare / Comunità di tipo familiare / Istituto (forma residuale e
«ad esaurimento») / Adozione.
Tale funzione vicaria può essere decisa direttamente dagli esercenti la
potestà parentale, oppure dal Servizi sociali su consenso degli stessi. In tal
caso è comunque prevista l’informazione e il controllo dell’Autorità giudiziaria minorile. Nei casi di condotta pregiudizievole dei genitori, l’allontanamento, anche contro la loro volontà, viene disposto dall’autorità giudiziaria minorile spesso su segnalazione dei servizi pubblici (in particolare sociali, sanitari e, in misura minore, scolastico-educativi).
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I Servizi sociali, con l’apporto di quelli sanitari se di competenza, hanno
poi compiti istruttori per gli eventuali provvedimenti di esecuzione (es. inserimento in una comunità alloggio).
Da quanto sopra indicato, si inferisce chiaramente il ruolo centrale dei
servizi sociali, relativamente alla segnalazione, al parere e all’esecuzione dei
provvedimenti di allontanamento. La rappresentazione «popolare», che
l’Assistente sociale porta via i bambini, ha un certo suo fondamento. Meno
fondata, anzi quasi sempre sbagliata, è invece l’idea di un «accanimento» da
parte dei servizi verso genitori sostanzialmente validi ed adeguati. Sui giornali appare solo e sempre la versione degli interessati, né potrebbe essere altrimenti, per motivi di evidente obbligo di riservatezza e deontologia da parte degli operatori interessati. Ma nella realtà della nostra Regione in genere,
e di Torino in specifico, i servizi di sostegno al nucleo sono talmente capillari e sviluppati da permettere di evitare allontanamenti impropri.
Va detto che il ruolo dei servizi, di segnalazione, proposta ed esecuzione
di interventi sostitutivi alla famiglia, e contro la volontà della stessa, peraltro obbligatorio per legge, può confliggere con quello, ugualmente attribuito dalla normativa ai servizi, di sostegno e aiuto alla stessa, per esercitare le
competenze genitoriali.
La coesistenza in capo allo stesso servizio, e anche agli stessi operatori,
di funzioni di sostegno e valutazione/controllo delle competenze genitoriali richiede l’assunzione di responsabilità e capacità culturali, operative e relazionali estremamente complesse, ma ineludibili.
In alcuni casi, per affrontare tale complessità, si sono teorizzate e anche
sperimentate soluzioni, quali servizi separati, di aiuto/sostegno e di allontanamento. In altri casi, in modo più o meno esplicito, si sono strutturati
ruoli diversi all’interno dello stesso servizio: operatore con funzione più di
ascolto – in genere l’educatore – e operatore con funzioni più normativesanzionatorie.
In genere, nella realtà che stiamo analizzando, l’esercizio contestuale
dell’aiuto e della valutazione/controllo è stato ed è esercitato con modalità
di lavoro di servizio sociale fondate su modelli di approccio integrato (umanistico / contrattuale-comportamentale).
Situazioni di rischio
206
Gli interventi di sostituzione del nucleo familiare interessano pesanti situazioni sociali-relazionali-familiari e di struttura della personalità del minore. Tale fenomeno si può ipotizzare determinato da un aggravamento dei
meccanismi di esclusione sociale di alcune fasce di popolazione, e dal fallimento per le stesse dei processi di integrazione ed inclusione. I fenomeni di
cronicità assistenziale ed «ereditarietà» del disagio pesante, trasmesso dai
padri ai figli e da questi ai propri figli, sono ben noti agli operatori. Nel contempo la cultura dei servizi esclude sempre più il tradizionale utilizzo delle
soluzioni eterofamiliari in senso «preventivo». Ormai più nessun operatore
si sogna di proporre l’inserimento in struttura residenziale di un bambino
(«andare in collegio per studiare»), perché possa agevolmente seguire il ciclo scolastico senza le «perturbazioni» di una situazione difficile.
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Peraltro tale cultura è avvalorata dalle pressioni di contenimento del
budget che vengono da amministratori e dirigenti, poiché l’inserimento in
comunità incide in modo particolarmente significativo, essendo la media
di costo di una comunità alloggio pari a 80 euro giornalieri per persona.
Infine, la rete capillare di interventi territoriali e domiciliari di sostegno
permette il mantenimento nella propria famiglia di minori anche in situazioni difficili.
In sintesi, i principali fattori/problemi che possono comportare la necessità di collocazione eterofamiliare risultano essere i seguenti: Abbandono /
Trascuratezza grave / Abusi sessuali e maltrattamenti / Sfruttamento grave
(prostituzione, spaccio) /Tossicodipendenza dei genitori/ Tossicofilia /
Problematiche relazionali connesse alla situazione familiare e sociale /
Patologie relazionali (v. Scheda A) / Disagio grave e marginalità sociale /
Multiproblematicità della famiglia / Deprivazione socio-culturale.
Di seguito affronteremo alcuni aspetti/fattori di rischio per l’allontanamento che hanno particolare rilevanza, a causa della complessità dei problemi e dei relativi interventi, della gravità delle situazioni, della «novità» del
fenomeno, delle storie personali.
6.4 Abusi e violenze
I maltrattamenti
Per abuso e maltrattamento dell’infanzia si intendono: «gli atti e le carenze che turbano gravemente i bambini e le bambine, attentano alla loro
integrità corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le
cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di terzi» (IV Seminario
Criminologico – Consiglio d’Europa, Strasburgo 1978). I maltrattamenti includono sia comportamenti «attivi», come la violenza fisica, emozionale o
l’abuso sessuale, che «passivi», come la mancanza di cure adeguate, tipica
della trascuratezza. Tali comportamenti possono presentarsi come isolati, o
associarsi in diverso modo tra loro, determinando manifestazioni diverse e
variabili nel tempo. Il maltrattamento produce una ricaduta sul bambino,
con implicazioni per l’evoluzione dello stesso, che vanno direttamente a minare la salute fisica, la sicurezza, l’equilibrio emotivo, lo sviluppo psico-relazionale, la stima di sé, il presente e futuro ruolo sociale. Nella storia del
maltrattamento sono comprese evoluzioni gravi, che intaccano la successiva possibilità dell’adulto, maltrattato nell’infanzia, di stringere legami affettivi stabili, e di svolgere un competente ruolo genitoriale.
Il maltrattamento può comportare vari aspetti:
❖ lesioni non accidentali. Di regola queste lesioni vengono riferite come accidentali ma alcuni indicatori possono indurre dubbi: ad esempio il ritardo nel ricorrere al medico, racconti vaghi e poveri di detta-
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glio del fatto, incompatibilità tra tipo di lesione e descrizione dell’accaduto, reiterazione di tali «incidenti» ecc.;
❖ trascuratezza grave. Il quadro è quello di alterazioni dello stato generale, ritardi nell’accrescimento staturo-ponderale e dello sviluppo
psicomotorio, alterazioni del comportamento associate a segni esteriori di carenze di cura, quali scarsa igiene, inadempienza dell’ obbligo scolastico ecc. Si possono presentare anche gravi ritardi nel linguaggio, nell’apprendimento e nelle «performance» intellettive, problemi comportamentali quali aggressività, irritabilità ecc.;
❖ maltrattamento mentale o psicologico. Si tratta di comportamenti
dell’adulto, e in particolare dei genitori, di eccessiva rigidità, ricatto
affettivo, eccessiva e ossessiva cura che impedisce l’acquisizione di
esperienze autonome e processi di «distacco» dalle figure parentali.
Anche in questo caso le conseguenze riguardano deficit dello sviluppo psicomotorio e turbe della condotta. In particolare, possono derivare quadri sintomatologici apparentemente opposti: da un lato agitazione, iperattività, opposizione e aggressività; dall’altro, depressione, apatia, passività;
❖ abuso sessuale. Consiste nel coinvolgimento di un minore da parte di
un partner preminente in attività sessuali, anche non caratterizzate
da violenza esplicita.
L’ abuso sessuale
208
Le norme e i comportamenti
Per abuso sessuale si intende qualunque tipo di coinvolgimento in attività sessuali, anche senza violenza esplicita, di soggetti minorenni ai quali
manca consapevolezza delle proprie azioni e capacità di scegliere.
Rientrano, quindi, nell’abuso sessuale all’infanzia, oltre alle pratiche sessuali che comportano rapporti completi, anche gli atti di libidine e la partecipazione attiva o passiva ad atti sessuali tra adulti, in pratica in tutti quei
casi in cui non può esservi un libero e consapevole consenso del bambino.
È un fenomeno che si configura sempre come un attacco confusivo e destabilizzante alla personalità del minore e al suo percorso evolutivo. L’intensità e la qualità degli esiti dannosi derivano dal bilancio tra le caratteristiche dell’evento (precocità, frequenza, durata, gravità degli atti sessuali) e
gli interventi protettivi e riparativi esterni che si attivano. Il danno è tanto
maggiore, quanto più il fenomeno resta nascosto e non viene riconosciuto;
non viene attivata protezione a livello del contesto primario e nel contesto
sociale; l’esperienza resta non elaborata e verbalizzata; è forte il legame di
dipendenza fisica e psicologica dall’abusante.
L’abuso sessuale può avvenire da parte di un adulto o di coetanei al di
fuori della famiglia. Nella famiglia da parte dei genitori (il caso più frequente è quello del padre con la figlia), ma anche di altri parenti prossimi quali i
fratelli. Infine l’abuso può collegarsi ad aspetti di sfruttamento, con l’immissione nel circuito della pornografia e della prostituzione.
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Il concetto di consapevolezza e capacità/possibilità di scegliere è assunto anche dal legislatore nel distinguere tra reati sessuali a querela e reati procedibili di ufficio, per cui lo Stato è tenuto a perseguire il responsabile a prescindere dalla volontà dei privati titolari dei diritti violati. Sono procedibili
d’ufficio i seguenti reati sessuali nei confronti di minori:
❖ atti sessuali con persona che al momento del fatto non ha compiuto
gli anni dieci, da chiunque commessi;
❖ la violenza sessuale, quando ad essere costretta a compiere o subire
atti sessuali sia una persona che al momento del fatto non ha compiuto gli anni quattordici;
❖ la corruzione di minorenni, che consiste nel commettere degli atti
sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici al fine di
farla assistere;
❖ gli atti sessuali con persona che, al momento del fatto, non ha compiuto gli anni sedici, se il fatto è commesso dal genitore, anche adottivo, o dal di lui convivente, dal tutore ovvero da altra persona cui il minore è affidato per ragioni di cura, educazione, vigilanza o custodia;
❖ la violenza sessuale commessa da pubblico ufficiale o da incaricato
di pubblico servizio nell’esercizio delle proprie funzioni;
❖ la violenza sessuale di gruppo;
❖ i maltrattamenti in famiglia (art. 572 codice penale), tra i quali rientra anche l’abuso a sfondo sessuale.
In ogni caso, anche nei reati procedibili a querela di parte per i minori di
età inferiore agli anni quattordici, è possibile, nel caso di conflitto di interessi tra esercente la potestà e il minore, la nomina di un curatore speciale
che sostituisce i genitori nella possibilità di procedere alla denuncia.
È evidente come la legge, tutelando con la procedibilità d’ufficio o la nomina di un curatore i minori al di sotto di una determinata età, riconosca
quanto gli atti e gli abusi a sfondo sessuale (e non solo la violenza) possano
essere «subdoli». Infatti spesso non sono esplicitamente riconoscibili dalla
vittima, perché ancora piccola, senza conoscenze specifiche, fiduciosa.
Sono perpetrati in un ambiente conosciuto e da persone significative, e la
vittima è ricattabile con minacce o affettivamente. «Accennavo a ribellarmi,
e allora, avevo ormai quindici anni, oltre a chiedermi di stare zitta, di non dire niente alla mamma, diede inizio ad una nuova strategia. Lo sai cosa succede se parli – sibilava – la colpa è tua, non farai che aggravare la tua posizione. Cominciò a dirmi anche questo, che l’avevo sedotto io. E pian piano me
ne convinsi anch’io» (Caputo, 1995). Infatti l’abuso sessuale, specie se perpetrato in famiglia, ed incestuoso, in quanto tra parenti prossimi, non è quasi mai violenza esplicita, o almeno come tale non è percepito dalla piccola
vittima. È una violenza consumata nel silenzio, che fa leva sulle asimmetrie
di età e di autorità, sulla fiducia e sull’inconsapevolezza, e probabilmente
anche sul timore di non venire credute da parte delle giovani vittime.
Non a caso, le rivelazioni da parte degli interessati avvengono nell’età
preadolescenziale e adolescenziale, per la maggiore coscienza dei comportamenti, e per il desiderio del distacco dalla famiglia proprio di questa età.
O per voler proteggere il fratello o sorella minore, rispetto al quale si perce-
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pisce possono venir attuati gli stessi comportamenti abusanti. L’inequivocabilità di questi comportamenti giunge fino al vero e proprio atto sessuale,
che spesso si consuma contestualmente allo sviluppo psico-fisico della vittima. «Avrò avuto l’età di circa sette anni quando mio padre, con la scusa che
mia madre faceva i turni di notte, mi invitava a dormire nel suo letto. Ricordo
che ogni qual volta andavo a letto approfittava nel toccarmi le parti intime.
Poi, avevo undici anni, mio padre mi si avvicinava mostrandosi nudo e si
metteva nel letto dove ero distesa, inizialmente ha incominciato ad accarezzarmi la parti intime e sul seno baciandomi sulle labbra. In una successiva
occasione ricordo di aver sentito tanto dolore. Ricordo ancora oggi il rumore
delle ciabatte calzate da mio padre che di notte si avvicinava al mio letto»
(storia raccolta in Veneto e citata in «Pianeta Infanzia», 1998).
L’esperienza apre nella vittima ferite profonde, spesso difficili di rimarginare, perché in qualche modo rimosse e «spostate», in quanto non solo indicibili ma anche impensabili. È una ferita che si aggrava nella solitudine,
all’interno del luogo che dovrebbe essere il più sicuro. Dice una ragazza non
creduta dalla madre: «Lui mi ha violentata e tormentata per tutta l’infanzia.
Ma mia madre mi ha uccisa» (Caputo 1995)
210
Alcuni dati statistici
I dati statistici relativi al fenomeno dell’abuso sessuale provengono da
fonti giudiziarie. Essi presentano indubbiamente dei limiti, in quanto non
sono rappresentativi dell’universo del fenomeno, caratterizzato dalla presumibile significativa presenza di reati non scoperti o denunciati. Di contro, il
numero delle denunce può non essere indicativo di un aumento del fenomeno, in quanto tale fatto potrebbe essere letto come segno di maggiore
sensibilità, attenzione e controllo sociale. I dati ISTAT, tratti dai volumi delle Statistiche giudiziarie penali, indicano un aumento delle denunce di violenza carnale nei confronti di minori di anni 14 (258 nel ’84 / 305 nel 1996).
Per contro, nella regione Piemonte c’è stata una diminuzione, da 25 casi nel
’84 a 16 nel ’96. Le violenze sessuali risultano in aumento nel 97 sia in Italia
che in Piemonte, per effetto della legge 15 febbraio 1996 n.66 (art. 609 c.p.:
violenza sessuale), che sostituisce il vecchio concetto di violenza carnale,
comprendendo nel nuovo anche fattispecie delittuose che prima non erano
oggetto di rilevazione statistica. Sono 470 in Italia le violenze sessuali denunciate contro minori di 14 anni, di cui 30 in Piemonte.
Da una ricerca relativa alle denunce per reati sessuali, sporte a Milano e
a Napoli e in quattro Tribunali del Veneto in alcuni anni campione (Terragni,
1997) emergono alcuni dati più «disaggregati» del fenomeno. La stragrande
maggioranza degli abusanti ha un’età superiore ai 30 anni. Ciò indica come
l’abuso su bambini non avvenga nell’ambito della stessa generazione, ma
sia un comportamento di prevaricazione messo in atto da persone adulte.
La maggioranza delle vittime ha un’età superiore ai sei anni: ciò non significa necessariamente che l’abuso colpisca la fanciullezza e l’adolescenza.
Infatti più difficile è la rilevazione e la rivelazione da parte dell’interessato di
comportamenti abusanti nei suoi confronti nel periodo dell’infanzia. La
maggioranza degli abusi si consuma in ambito familiare o di conoscenti, e
cioè in presunti luoghi «sicuri» e da parte di persone di «fiducia». Inoltre la
reiterazione e la durata dell’abuso sono tanto più rilevanti, quanto più esi-
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ste un legame forte, familiare o di conoscenza. Nella maggioranza dei casi
non c’è esplicita violenza (minacce, uso della forza, armi). Come di norma
l’abusante non ricorre a forme esplicite di coercizione, la vittima non mette
in atto strategie attive di evitamento. Tali forme avvengono più frequentemente in ambiti esterni, non quando l’abuso si perpetua un luoghi familiari o conosciuti.
In sintesi,dai dati emerge la conferma di quanto espresso dalla letteratura e dalla clinica. Le bambine e le adolescenti presentano una vulnerabilità
maggiore dei loro coetanei maschi. Il rischio aumenta nel periodo della
preadolescenza e adolescenza, dove la violazione, in concomitanza con lo
sviluppo, diventa sempre più esplicita e chiaramente «sessuata». L’abuso sui
bambini tende ad avvenire in luoghi chiusi, da parte di persone conosciute,
adulti di riferimento, quali padri, zii, patrigni, che fanno leva sulla fiducia e
sulla autorità. La violenza commessa da estranei appare più marginale, sia
in termini quantitativi che di gravità. L’abuso in questi casi tende ad essere
episodico, non assume le forme più gravi, e soprattutto non intacca (perché
non esiste) un rapporto di affetto e una relazione preesistente emotivamente significativa.
Prevenzione e uscita dal trauma dell’abuso
Il modo migliore, anche se più complesso perché non specificamente
mirato, per attuare azioni di tutela contro l’abuso, è quello finalizzato alla
sua prevenzione, attuata aiutando il bambino ad assumere una salda coscienza e rispetto di sé e della sua identità di genere. Ciò può essere attuato
dalle agenzie educative, soprattutto la scuola, anche attraverso l’educazione
sessuale.
È indispensabile preparare gli adulti, che quotidianamente sono in contatto con i minori, ad una nuova sensibilità ed attenzione verso l’infanzia, e
fornire loro competenze per affrontare adeguatamente i problemi connessi
alla sessualità. La sensibilizzazione al fenomeno dell’abuso come «prevenzione secondaria» consiste nella capacità di rilevarne precocemente i possibili segnali. Infatti, il bambino abusato solitamente non riesce a far parola
con nessuno di ciò che gli è capitato, per le pesanti rimozioni cui soggiace;
ma lascia delle tracce eloquenti, che adulti attenti sono in grado di interpretare. Si tratta, per esempio, di bruschi cambiamenti nel rendimento scolastico, regressioni a stadi di apprendimento precedenti, che possono essere
seri campanelli d’allarme, soprattutto se associati a modalità di comportamento fortemente sessualizzate e seduttorie, oppure a comportamenti aggressivi, provocazioni verbali e fisiche, attaccamenti morbosi, distrazione,
svogliatezza. La sintomatologia patologica è varia (mutismo, disturbi del
sonno, malattia, mimica corporea, fobie).
La deliberazione della Regione Piemonte del 2 maggio 2000 n. 42-29997:
«Approvazione linee guida per la segnalazione e la presa in carico dei casi di
abuso sessuale e maltrattamento ai danni di minori da parte dei servizi socio-assistenziali e sanitari», sulla base della letteratura scientifica, della normativa e delle procedure giudiziarie, individua strumenti e percorsi metodologici per il «trattamento» dell’abuso.
La rilevazione consiste nell’attenzione ai segnali provenienti dal bambino e dalla famiglia, e la valutazione se gli stessi siano riconducibili ad un’i-
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potesi di sospetto abuso o maltrattamento. In caso di valutazione positiva, è
compito dell’operatore non accertare il fatto, ma dare avvio ad un percorso
di tutela del minore, attraverso la segnalazione alla Magistratura minorile.
Con la segnalazione, gli operatori dei servizi informano la Procura minorile
circa gli elementi che hanno rilevato e la situazione di pregiudizio in cui si
troverebbe il minore.
Nel caso invece di rivelazione del fatto da parte dell’interessato, c’è l’obbligo anche di denuncia alla magistratura penale ordinaria, qualora si tratti
di reato perseguibile d’ufficio. Qualora il presunto fatto sia avvenuto in famiglia, nel caso di rilevazione e successiva segnalazione alla Magistratura
minorile, può essere definito un provvedimento di allontanamento temporaneo dal nucleo quale forma di protezione e tutela; esso sempre avviene,
qualora ci sia una rivelazione da parte della vittima, e il fatto assuma la gravità del reato procedibile d’ufficio. Quasi sempre gli interventi avvengono
attraverso l’inserimento in una comunità, dato anche il carattere di urgenza
degli stessi. Di particolare complessità, in tale periodo, è il rapporto con la
famiglia, che non può essere coinvolta dagli operatori nel riconoscimento e
trattamento dell’abuso, in quanto lo stesso è presunto, mentre occorre evitare di compromettere l’esito di eventuali atti di indagine penale in corso o
di urgente effettuazione.
La protezione e tutela, ove attuata, avviene contestualmente alla validazione e cioè all’approfondimento circa l’attendibilità della presunta vittima,
e la sussistenza dell’ipotesi di abuso e maltrattamento. Tale validazione si
avvale anche di strumenti quali il referto medico e l’esame medico clinico,
mirante ad accertare sul corpo della vittima le tracce della violenza. La diagnosi consiste poi, a livello multidisciplinare, nel raccogliere tutti gli elementi necessari per una valutazione globale e complessiva, relativamente al
minore e alla famiglia. Tale valutazione permette la formulazione di una
prognosi, in particolare circa la recuperabilità della relazione genitori-figli.
Tale prognosi può dunque essere positiva o negativa, e la valutazione incide
sulle successive modalità di intervento/trattamento. Nel primo caso, il trattamento può consistere nella terapia familiare e individuale, nel sostegno
alla relazione genitori-figlio in vista di un rientro in famiglia. Nel secondo
caso, oltre alla terapia individuale occorrerà prevedere una definitiva collocazione eterofamiliare (comunità-affido-adozione) e/o il sostegno per una
vita autonoma.
Il percorso sopra definito, utile come orientamento metodologico e operativo, presenta molteplici aspetti di complessità; connessi alle indagini e alle procedure giudiziarie, alla «tensione emotiva» cui è sottoposta la vittima,
in una fase che può protrarsi ai diversi livelli del giudizio, alla situazione psicologica del minore (elaborazione del trauma, sensi di colpa ecc.).
I servizi di fronte al maltrattamento.
212
A tali complessità, è necessario aggiungere quella relativa alla competenza e organizzazione dei molteplici operatori e servizi, coinvolti nelle varie fasi di validazione, protezione tutela, diagnosi e trattamento. I fenomeni
di maltrattamento e abuso coinvolgono infatti molteplici servizi, socio-sa-
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nitari e non (Servizio sociale, Neuropsichiatria infantile, Pediatria di comunità, Consultorio familiare, Servizi tossicodipendenze e di Salute mentale,
Comunità alloggio, Famiglie affidatarie, Scuola). La complessità e specificità
del problema, e dei relativi interventi, richiede competenze adeguate, non
necessariamente presenti in servizi ad esso non dedicati in modo esplicito.
In effetti, l’abuso e il maltrattamento, e i relativi interventi, costituiscono
una «cartina di tornasole» particolarmente significativa rispetto alla questione delle caratteristiche dei servizi territoriali, tra globalità e specificità.
Quando, ormai 25 anni fa, lo scrivente ha iniziato a lavorare nei servizi
socio-assistenziali torinesi «andava di moda» l’operatore unico. Ci si è presto accorti che era necessario acquisire specifiche competenze, attraverso
ruoli differenziati tra figure professionali diverse, inserite in équipe che si
dovevano occupare di una vasta area di tipologie e problematiche della popolazione. Successivamente, gli operatori dei centri sociali di base, pur continuandosi ad occupare di tipologie di situazioni molto differenziate relativamente alla presa in carico della persona (anziani, minori, disabili ecc.), si
sono specializzati in particolari aree, diventando referenti e consulenti per
gli altri colleghi.
Attualmente i Centri sociali di base si stanno articolando per aree anche
relativamente alla presa in carico del caso singolo. Pertanto, le assistenti sociali si «specializzano» per i minori, oppure per i disabili o gli anziani. Percorso analogo verso la specificità è stato svolto dai servizi sanitari territoriali. Poiché la differenziazione tra il comparto socio-assistenziale e quello sanitario, e all’interno dei singoli comparti, richiede poi sintesi e coordinamento, data la interrelazione fra gli interventi e la complessità dei bisogni,
l’organizzazione si sta orientando verso la costituzione di équipe socio-sanitarie pluriprofessionali, mirate per specifiche problematiche e competenze. Di queste équipe fanno parte operatori di vari servizi, che alle stesse dedicano parte del loro tempo-lavoro. Si sono così costituite équipe per gli affidamenti, per le adozioni, unità di valutazione geriatrica, per l’handicap,
per i minori con disturbi relazionali ecc.
La deliberazione regionale sopra citata prevede anche questo tipo di
équipe per gli abusi e i maltrattamenti. In specifico, dispone la costituzione
sul territorio regionale di équipe multidisciplinari composte da operatori dei
servizi di NPI, Sert, Servizio sociale, pediatri di comunità, salute mentale, che
vi lavorano a tempo parziale. Compito di tali équipe è fornire consulenza in
tutte le fasi del procedimento e, quando necessario, prendere in carico i casi
concreti. Si ribadisce, inoltre, che tutti gli operatori dei servizi territoriali devono avere conoscenze specifiche su come comportarsi, nell’espletamento
di interventi che rientrano comunque nelle competenze istituzionali.
È evidente come la soluzione organizzativa adottata voglia conciliare l’esigenza di specificità con la scelta di non creare servizi specialistici deresponsabilizzando quelli territoriali. Tale soluzione presenta molteplici complessità. Cosa significa consulenza e come si esercita? Se sono semplici consigli, non si rischia una perdita di tempo? Se invece è cogestione con i servizi territoriali, come fa una équipe a seguire tutte la situazioni? Cosa significa «presa in carico quando è necessario»? Si potrebbe ipotizzare che la presa in carico da parte di questa équipe sia necessaria per tutti i casi in una determinata fase del percorso, per esempio la validazione e la valutazione?
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Cosa comporta «togliere» operatori dai servizi per partecipare, anche se
in tempo parziale, alle équipe? Non si rischia che nei servizi di base ci siano
sempre meno risorse? E ancora, come conciliare l’esigenza di interventi globali e di più servizi, con la diversità di tempi, modalità di presa in carico, liste di attesa degli stessi?
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Le comunità contro l’abuso
Quando il minore è in comunità, la «discrasia» nei tempi di intervento
dei vari servizi appare evidente, e a volte drammatica. Sono infatti sempre
più numerosi gli inserimenti di minori in comunità per problemi di abuso
sessuale, in genere intrafamiliare. La complessità del problema e dell’intervento richiede, come nel caso delle équipe di cui sopra, la presenza di educatori e comunità «dedicate»: non solo ad ospitare minori vittime di abuso,
ma dotate di una «qualità specifica», per aiutare bambini/e che portano con
sé ferite profonde. Ferite che toccano e coinvolgono gli operatori come professionisti, ma anche come persone/figli e spesso anche genitori.
La comunità è un luogo di vita dove si agisce la quotidianità nel qui ed
ora, in un rapporto forte di vicinanza, continuità, intensità emotiva tra i minori e le figure adulte degli educatori. «Dopo aver sentito tutto questo cosa rispondi quando ti chiede se la adotti, se la prendi in affidamento? Quando dice di volere un papà come te?» (un educatore di comunità). In questo senso,
la comunità assume un ruolo strategico non solo per la tutela e la protezione, ma anche per la validazione, la valutazione e il trattamento. In genere,
dopo l’inserimento in comunità non c’è racconto dell’abuso, che viene al
contrario ridimensionato, minimizzato, in qualche modo rimosso. «A volte
la vittima di abuso non si sente di parlare spontaneamente, ma vuole percepire l’interesse dell’adulto a conoscerla. Fammi tu delle domande, chiedimi
ancora» (un educatore di comunità). Si avverte un grande senso di colpa,
vergogna e svalutazione del sé. Viene fuori la paura di ciò che potrà adesso
accadere, per sé, per i fratelli. Oppure la rimozione si sposta su comportamenti sessualizzati, su tentativi di riprodurre la relazione abusante. Tutto
ciò richiede grande preparazione e capacità di ascolto da parte dell’educatore; il non forzare i tempi o richiedere cose in quel momento «irraccontabili». «Il sentimento più forte è quello dell’impreparazione, dell’inadeguatezza. Che domande fare? Tocca a me farle? In certi momenti stando ad ascoltare e basta, essendo presente con profonda attenzione, in altri chiedendo (anche con una certa frequenza): vuoi che continuiamo, ti dà fastidio?» (un educatore di comunità).
Si richiede anche di non negare o reprimere determinati comportamenti, ma accoglierli tentando di aiutare ad elaborarli e «canalizzarli» in positivo. «Sono le tre di notte. Mi chiama «papà» e non vuole schiodarsi dalla mia
stanza. Non riesco in nessun modo a mandarla a dormire. Vorrebbe dormire
con me. Le dico, esasperato, che i papà non dormono con le figlie. Mi risponde: Ma tu in che mondo vivi? Questa risposta apre la possibilità di parlare di
quel mondo in cui lei ha vissuto. Le dico: Puoi fidarti di me perché io resisto.
Perché non parliamo? Da questo momento alle avance si sostituisce il racconto, spesso al buio (la vergogna, la paura, l’imbarazzo di essere vista raccontare?), su due poltrone di fronte (ormai hai resistito, sono sicura, ma ho bisogno comunque di mettere un po’ di distanza, le parole sono ancora troppo
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forti)» (un educatore di comunità). Nel contempo l’educatore deve vivere in
una situazione emotivamente pesante istanze contraddittorie, tra il desiderio di tutelare e considerare il minore, e quello più inconsapevole di salvaguardare le immagini «interne» buone dei genitori.
«Si avverte un enorme disagio, una forte incredulità, a volte il desiderio
di essere altrove, un senso di scollamento dalla realtà» (un educatore di comunità). «Per me è molto difficile condurre il colloquio, ma sento dentro una
rabbia sorda e dolorosa» (una educatrice di comunità). Il confidente in posizione d’ascolto, che non tradisce, è insieme un esercente di pubblico servizio, con doveri di denuncia e testimonianza giudiziale, e uno che può essere vissuto come un «delatore», responsabile di una eventuale condanna
del familiare abusante. «Altro sentimento, potremmo dire un’arma a doppio
taglio, è il senso di gratificazione. Ci si sente il prescelto, la prescelta, colui/colei che è riuscito/a a trovare un aggancio con la ragazza, con cui lei si confida. Anche se poi si deve reggere il peso di queste confidenze» (un educatore
di comunità).
La gestione dei rapporti con i familiari, sia a livello simbolico/rappresentativo che reale, risulta complessa. Il rapporto di amore-odio con i familiari, e soprattutto con il genitore non abusante (in genere la madre) deve essere gestito nella quotidianità con rispetto delle scelte e del tempo del minore. «Francesca è risolutissima nel non volerli incontrare, ha paura e vergogna e noi educatori non abbiamo mai forzato la mano in questo senso; abbiamo sempre accolto le sue richieste, ascoltando e condividendo le sue ansie»
(una educatrice di comunità). Per aiutare la persona a sostenere scelte di riconciliazione o separazione, serve, da parte dell’educatore, un atteggiamento di comprensione nei confronti del genitore abusante e/o di quello
«complice». Aiutando la vittima a capire che il padre è malato, che ha bisogno di essere aiutato, che il suo comportamento non dipende da quello di
una bambina, che la mamma ha paura ed è succube del marito, è possibile
attivare un percorso di uscita. Che le permetta di prendere le distanze, superare i sensi di colpa legati ad un’esperienza confusiva, che ha impedito di
interiorizzare una chiara distinzione tra il colpevole e la vittima; andarsene,
se lo decide, psicologicamente e/o fisicamente anche dalla propria famiglia
«senza sbattere la porta». «L’ascoltavamo e non sempre era facile, cercavamo
di smontare i suoi sensi di colpa, di rafforzare le sue qualità, di convincerla
che nulla poteva una bambina di sei anni contro un uomo maturo, ma soprattutto contro il proprio papà, che con le parole e il comportamento le diceva di essere la figlia preferita. Francesca sente di essere un po’ più libera finalmente, dopo molti anni, ed è contenta di aver trovato delle persone che l’ascoltano e non provano «schifo» per lei, che si è macchiata, in quanto consenziente, di colpe molto gravi» (una educatrice di comunità).
Nell’esperienza delle comunità ci si è trovati, giorno per giorno, a dover
ripetere tante volte queste cose. Accanto alla fatica di gestire la relazione
quotidiana e vicina, con situazioni di ferite e sofferenze così profonde, le comunità scontano i tempi, gli scollamenti e le procedure di tutti gli altri attori istituzionali. Gli educatori non devono soltanto accogliere e rispettare i
tempi del minore, ma anche quelli dei vari servizi. La differenza è che, i primi, fanno parte di un percorso di crescita e necessaria evoluzione, gli altri
spesso a questo percorso sono disfunzionali, se non dannosi. «In tutto il
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contesto le nostre difficoltà maggiori sono state rivolte all’esterno, al reperimento di figure di riferimento in ogni fase processuale, al ruolo dell’assistente sociale, all’invadenza dei periti di parte» (una educatrice di comunità). Ne
deriva il senso di solitudine di chi, con questo minore, ha relazioni intense e
continue altamente coinvolgenti per entrambi, e non solo sporadiche sedute terapeutiche, colloqui di servizio sociale, interrogatori per le indagini.
In particolare, il periodo che va dalla segnalazione/denuncia alla sentenza con gli eventuali ricorsi è eccessivamente lungo (perizie di parte, audizioni protette, dibattimento ecc.) e difficile da sostenere. «Nella gestione di
questo caso abbiamo rilevato che il periodo che va dalla denuncia alla fine
dell’istruttoria è un periodo molto delicato e complesso; le situazioni si susseguono a ritmo incalzante e spesso gli educatori non sono attrezzati per affrontarle» (una educatrice di comunità). «L’epilogo della vicenda giudiziaria
si è concretizzato un anno e mezzo dopo il suo ingresso in comunità, con la
confessione del padre, il patteggiamento, la condanna e il risarcimento dei
danni» (una educatrice di comunità).
Nel contempo, la presa in carico terapeutica da parte dei servizi sanitari
spesso ritarda a causa dei carichi di lavoro, e quindi ci si limita ad una generica supervisione nei confronti degli educatori, decidendo che al momento «l’intervento educativo» è sufficiente. Spesso neppure sono chiari i limiti, le possibilità, le interpretazioni delle norme. «Ci è capitato di ospitare
ragazze abusate per cui non era ancora stato emesso un provvedimento che
delineasse i confini entro cui ci si potesse muovere. In questi casi come ci si
comporta, con un genitore che telefona e vuole vedere la figlia? Come ci si
comporta dinanzi ad un perito di parte, che pretende di interrogare la minore con un preavviso di poche ore? E soprattutto siamo tenuti a permettere questi incontri con modalità discutibili?» (un educatore di comunità).
Scheda A – Le patologie relazionali: una storia
C’è una terra di nessuno in cui «vivono» tutti quei ragazzi e ragazze, quasi sempre preadolescenti, che hanno dei problemi di relazione, con gli altri e con
l’ambiente sufficientemente gravi da «farsi notare», ma non così gravi da essere «certificati». Appartengono al piccolo, ma sempre più numeroso popolo di
studenti difficili da gestire in classe. Mette in crisi gli insegnanti che richiedono il «sostegno», ma non ci sono elementi per una diagnosi che lo permetta.
C’è qualcosa che supera i «normali» problemi dell’adolescenza e fa presagire
nulla di buono.
Questi bambini vivono per anni nel limbo tra normalità e patologia. La famiglia dapprima non riconosce il problema, anzi lo nega; poi addebita ad altri la
colpa, chiede aiuto, fino ad arrendersi e a volere l’allontanamento, quando i
problemi esplodono in modo drammatico e il bambino un po’strano si trasforma in un piccolo adulto aggressivo o estraneo alla realtà. Tutti allora si chiedono cosa è successo e se non era meglio intervenire prima, magari anche con un
allontanamento temporaneo dalla famiglia. Tutti si chiedono cosa fare e balena l’idea «scandalosa» di una comunità terapeutica (quelle «normali» non
sembrano poter reggere questi ragazzi): per alcuni nome improponibile, collocazione impensabile per una così giovane età.
La storia di Susanna è una tra le numerose storie di questo tipo. Susanna, ra-
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segue
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gazzina dalla carnagione olivastra, lunghi capelli neri e grandi occhini scuri,
arriva accompagnata al centro diurno dai suoi genitori: due persone cordiali,
attente alla figlia e preoccupate per la sua eccessiva timidezza. Hanno chiesto
aiuto ai servizi sociali perché fa fatica nel fare i compiti in prima media. La
neuropsichiatria aveva conosciuto Susanna durante la scuola materna perché
aveva alcuni problemi nell’alimentazione e adesso diagnosticava un «problema adolescenziale di relazione con la madre».
Susanna parla raramente, fa dei grandi sorrisi, mangia molto lentamente girando la posata nel piatto in modo lento e metodico. A scuola ha delle lacune,
ma non più di altri; socializza solo con le ragazze e si affeziona in particolare a
due del centro, molto vivaci e gentili con lei. Sembra tanto timida, eppure qualche suo comportamento stupisce; a volte il suo sguardo si perde nel vuoto, ride a sproposito, ha paura di rimanere sola e si «attacca» alle compagne e all’educatrice. I genitori sostengono che non ci sono mai stati particolari problemi;
in famiglia tutto va bene; ha un fratello più grande di lei di 10 anni, è amata e
coccolata da tutti. Susanna alterna periodi di buon umore, in cui prevale l’aspetta della ragazzina dolce, affettuosa, timida, ad altri in cui le sue paure prevalgono, dice che ce l’hanno tutti con lei, piange facilmente, ha scatti di rabbia.
Tutto normale, dice lo psicologo, è solo più fragile di altri adolescenti, fatica a
costruire la sua identità e a relazionarsi con la madre. Susanna mangia sempre
meno, i suoi inspiegabili scatti di ira al centro diurno sono sempre più frequenti, a scuola incominciano a non sopportarla più. Racconta bugie, qualche
volta strane e non collegate alla realtà. La famiglia riporta una situazione sempre più difficile da gestire. Ha iniziato ad isolarsi in camera, non mangia, a volte la sua rabbia la porta a rompere gli oggetti. I litigi con la madre sono sempre
più frequenti e violenti. Standole vicino ci si accorge che non si lava. I genitori
iniziano a litigare tra di loro, il fratello cerca di stare fuori casa il più tempo possibile, gli amici incominciano a dare consigli: le erbe, lo psicologo, il prete, l’esorcista…
Gli incontri tra i servizi si intensificano, ma Susanna non può essere presa in
carico, per esempio con una psicoterapia: si dice che i problemi sono da collegarsi a crisi adolescenziali che i genitori non sanno contenere. «La madre è una
che esagera e drammatizza, faceva così anche quando Susanna era piccola». Le
paure di Susanna aumentano, sente voci che la perseguitano, piange perché
crede che tutti parlino male di lei, il cibo non le piace, l’odore che si porta addosso è sempre più acre. L’insegnante che più le sta vicino va in crisi; il padre
è sempre più triste; la madre cerca mille soluzioni, ma sente il rifiuto della figlia, questo la fa arrabbiare.
Certo è una grave crisi adolescenziale, Susanna soffre il disturbo della personalità e la relazione con la madre molto problematica. È in lista d’attesa per la
presa in carico. Durante l’estate viene ricoverata all’ospedale disidratata, pesa
30 chili ed ha una crisi prepsicotica.
6.5 I genitori tossicodipendenti
Aspetti generali
La tossicodipendenza come fattore di rischio per la collocazione del bambino al di fuori della propria famiglia, è indicata dall’incidenza degli inserimenti in comunità di bambini di madri tossicodipendenti. Il Comune di
Torino, ha dovuto inserire, nel periodo 1996-1999, 165 bambini nella fascia di
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età 0-3 anni, di cui ben 68 figli di mamme tossicodipendenti, pari al 41%. La
gravità di tali situazioni può essere ulteriormente dimostrata dal fatto che solo 13 si sono successivamente ricongiunti alla mamma (quasi tutti in comunità terapeutica), mentre per gli altri è proseguita la collocazione eterofamiliare (7 affidamenti «normali», 39 a rischio giuridico e 6 preadottivi), con «prognosi» di adozione per la maggior parte (45). Questi dati sono confermati da
quelli relativi agli inserimenti nelle comunità della Provincia di Torino per
bambini piccoli. Su 262 minori inseriti dal 1991 al 1999, di cui 118 non riconosciuti e 144 riconosciuti da almeno un genitore, ben 79 di questi ultimi sono figli di madri con problemi di tossicodipendenza. Anche in questo caso la
maggior parte non ha fatto rientro in famiglia o si è ricongiunta con le mamme. Ulteriore conferma è data dai procedimenti di adottabilità aperti dal
Tribunale per i Minorenni di Torino. Su 152 casi nel ’99, ben più di un terzo riguardavano bambini nati da donne tossicodipendenti che li avevano riconosciuti. Ad essi devono aggiungersi i 27 che riguardavano figli di ignoti (tra i
quali presumibilmente anche qualcuno figlio di tossicodipendente).
La genitorialità «impossibile», per i genitori con problemi di tossicodipendenza, è determinata da una condizione esistenziale spesso totalizzante, tale da escludere ogni altra motivazione, interesse, relazionalità, che non
sia connessa alla sostanza. Nella maggior parte di questi casi, il partner della donna tossicodipendente è anche lui tossico. Sono molto frequenti partner molto disturbati, anche con problematiche psichiatriche, con un aumento dell’area di comorbilità tra disturbi da uso di sostanze psicotrope e
patologie psichiatriche.
Quasi mai la coppia ha una casa in cui portare il bambino, quasi mai ha
un lavoro, spesso si mantiene con la prostituzione e attività illecite. Una situazione particolare riguarda i bambini nati in SAN (sindrome di astinenza
neonatale): la mamma ha assunto sostanze durante la gravidanza e anche
nell’ultimo periodo, con conseguenze rilevanti e spesso gravi per il bambino, che nasce prematuro, sotto peso, con un punteggio di salute (abgar)
spesso molto basso. Questi genitori, totalmente oppressi dalla loro condizione, non vogliono o non sono in grado di «mentalizzare» il proprio figlio,
e assumono un comportamento gravemente pregiudizievole per il nascituro, gravemente abusante, al pari di quello fisicamente maltrattante. Infatti ci
troviamo di fronte ad un bambino sofferente, di cui si è violato il diritto all’integrità psicofisica: è possibile che i danni prodotti siano irreversibili, è
ipotizzabile che gli atti e le carenze vengano reiterati.
Pur esprimendo sempre una «genitorialità difficile», le situazioni di tossicodipendenza sono tuttavia molto diverse l’una dall’altra, e non comportano soltanto una «genitorialità abbandonica». Si va da chi ha una vita sbandata, senza casa e senza lavoro, mantenendosi per esempio con la prostituzione, a chi invece tiene, apparentemente, una condotta regolare; da chi ricade periodicamente a chi va avanti con la dose di mantenimento di metadone, con il supporto e il controllo dei servizi, a chi riesce a conciliare l’uso
della sostanza con il mantenimento di una vita sociale apparentemente
normale. Ne deriva, pertanto, una capacità genitoriale del tutto assente, oppure certo difficile ma possibile, con potenzialità di positivi sviluppi, se supportata dalle reti sociali primarie e/o dai servizi territoriali. Per riprendere
l’esempio relativo ai nati in SAN, diversa è l’assunzione di eroina durante la
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gravidanza, da una terapia metadonica seguita dal SERT. In questo caso la
gravida tossicodipendente, accettando di essere seguita, accettando i controlli e la terapia a scalare, dimostra la vicinanza mentale ed affettiva nei
confronti del bambino. Al quale ha saputo, in tal modo, garantire quell’assistenza morale e materiale nei limiti delle sue possibilità, che esclude l’abuso e l’abbandono.
Interventi e servizi
Le differenze sopra espresse richiedono la presenza di una rete di interventi, che permettano progetti e percorsi diversificati.
❖ Presa in carico fin dalla gravidanza. La principale strategia di appoggio alla genitorialità, anche al fine di garantire un intervento precoce
ed adeguato alla peculiarità della situazione specifica, è quella dell’intervento precoce, non solo ai fini strettamente sanitari (controllo
medico della gravidanza), ma soprattutto per definire per tempo il
progetto per il bambino che nascerà, per i suoi genitori, nonché per
eventuali supporti da parte di nonni o altri parenti. Sarebbe importante valutare la disponibilità e l’idoneità dei parenti quando la donna è ancora gravida, se vogliamo evitare il passaggio in comunità come oggi spesso avviene. Se vanno bene i nonni, il bambino vada subito con gli stessi, senza attendere che siano loro a farsi vivi, magari
in Appello, a seguito di un’apertura di adottabilità. A questo proposito, da anni è attivo presso l’Ospedale ostetrico-ginecologico
Sant’Anna di Torino un coordinamento tra Servizio ospedaliero di
maternità e i Sert cittadini, per la presa in carico delle donne in gravidanza con problemi di dipendenza. L’esperienza ha evidenziato
una significativa e positiva incidenza di questi interventi, anche in relazione all’attaccamento e alla futura permanenza del bambino con
la mamma.
❖ Servizi territoriali di sostegno alla famiglia. Una seconda strategia di
interventi è relativa al potenziamento della quota di aiuto sociale sul
territorio, sia durante la gravidanza, sia alla nascita e nei primi anni
di vita. In particolare, occorre potenziare i servizi sanitari distrettuali, e, all’interno degli stessi, attivare e potenziare progetti relativi alle
gravidanze «a rischio». Per quanto riguarda i servizi sociali, si può rilevare come la rete di interventi sia ormai nella Regione Piemonte, e
in particolare a Torino, ampia e capillare (servizi primari, educativa
territoriale, affidamenti diurni, assistenza domiciliare, centri diurni
ecc.). Questi servizi ed iniziative hanno negli anni agito in modo sostanzialmente soddisfacente, pur scontando alcuni limiti che ne hanno diminuito l’efficacia.
❖ Servizi esterni e/o di sostituzione della famiglia. Qualora l’aiuto sociosanitario territoriale non sia sufficiente, la terza strategia dovrebbe
essere rappresentata dalla Comunità Madre - bambino, o anche
Genitori-bambino, che deve essere proposta al più presto. Con la pre-
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sa in carico precoce, il progetto dovrebbe essere attivato durante la
gravidanza, in modo da evitare al bambino alcuni passaggi, quali la
prolungata permanenza in ospedale, l’inserimento in comunità per
minori o l’affidamento a terzi. L’inserimento in una comunità madrebambino è certamente preferibile ad altri interventi, in cui vi è la separazione del minore. Nella comunità, la madre viene osservata ed
impara ad occuparsi del bambino, l’assunzione della sostanza è sospesa, e può essere formulato un progetto di autonomia.
Alcuni dati confermano la positività di tale intervento. Dei 50 bambini
inseriti dal Comune di Torino in Comunità con la mamma con problemi di
tossicodipendenza, nel periodo 1996-1999, 23 sono rientrati a casa con il
genitore, 9 sono in comunità con la mamma, 4 affidati a parenti, gli altri
hanno avuto una collocazione eterofamiliare. La maggiore incidenza di
rientro in famiglia, nel caso di comunità madre-bambino, o comunque di
permanenza con il proprio genitore, fa supporre una soddisfacente capacità di prognosi e sostegno da parte dei servizi che inseriscono in comunità
i bambini.
Si potrebbe ipotizzare che proprio la lontananza dal figlio rende difficile
lo sviluppo di attaccamento e competenza genitoriale, e più probabile un allontanamento a lungo termine o definitivo. Al contrario, il sostegno nella
quotidianità a tali competenze, da parte di educatori specificatamente preparati, favorisce nella madre la «mentalizzazione» e l’attaccamento al proprio figlio. Qualora, per le gravi difficoltà e/o la cattiva collaborazione della
madre (o di entrambi i genitori) non siano percorribili queste strade, l’altra
strategia è l’inserimento del bambino da solo in comunità, o presso una famiglia affidataria. Queste soluzioni hanno due grandi limiti: proteggono
meno i legami dei genitori con il bambino, e i tempi di recupero degli adulti, qualora sia possibile un recupero, sono lunghi e non rispettano i tempi
dei minori. Andrebbero attuate solo quando c’è una prognosi negativa, fondata sull’assenza della famiglia estesa, e su una previsione di irrecuperabilità dei genitori.
In sintesi, il percorso di intervento dei servizi sopra delineato prevede
presa in carico e valutazione precoce delle potenzialità genitoriali e del
nucleo allargato, al fine di poter definire e attivare il più presto possibile
(fin dalla nascita) gli interventi necessari, in un ordine di priorità che comporta:
❖ sostegno domiciliare e territoriale al genitore e/o famiglia;
❖ inserimento in comunità madre-bambino;
❖ inserimento transitorio eterofamiliare (affidamento familiare /comunità);
❖ in ultimo, adozione.
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Questo percorso deve considerare la peculiarità di ogni situazione e prevedere la necessaria flessibilità, che salvaguardi, sempre e comunque, se
nell’interesse del minore, il ricongiungimento ai propri genitori. Non sono
poche le esperienze di bambini ospiti presso le comunità per minori, che
hanno raggiunto la mamma in comunità terapeutica o sono rientrati presso
il nucleo allargato.
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Aspetti di complessità.
❖ Integrazione delle culture e prassi professionali. In questi anni, l’attenzione al bambino e ai suoi bisogni da parte dei SERT e delle
Comunità terapeutiche, si è progressivamente potenziata, con l’integrazione progettuale con il Servizio Sociale, che, per compito istituzionale, deve porre specifica attenzione alla tutela del minore.
Peraltro non esiste, almeno in teoria, un conflitto di interessi tra
Servizi per adulti e il Servizio Sociale, in quanto per entrambi è importante la riabilitazione della mamma (se è vero che un bambino
«sta bene» se stanno bene i suoi genitori). Il percorso di integrazione
di culture e prassi professionali non è ancora compiuto, e sensibili
sono le differenze da Sert a Sert, e nei rapporti con i Servizi che si occupano dei minori. Si riscontra ancora, a volte, una funzione «ancillare» del Servizio Sociale, che paga il posto in comunità per il bambino ospite in attesa del completamento del percorso terapeutico della
mamma. Anche le Comunità terapeutiche, se accolgono con le mamme anche i bambini, devono avviare una riflessione sui loro modelli
organizzativi, gestionali, strutturali ed educativi. Occorre ricordarsi,
quando la madre è in comunità terapeutica, che è lì non solo per
«guarire» dalla sua tossicodipendenza, ma anche per ricostruire la
sua identità materna. L’attenzione della comunità deve quindi essere
rivolta al sostegno, aiuto e valutazione delle competenze e capacità
genitoriali, e non solo al percorso terapeutico individuale. Il bambino, necessita di specifici momenti di ascolto, aiuto, intervento per se
stesso. Chi cura il suo inserimento, chi segue i suoi bisogni, chi lo accoglie e «vicaria» o «integra» la mamma, in relazione al tempo, reale
e mentale/simbolico, che la stessa sa e può dedicare a lui?
❖ La rete familiare. Dai dati del campione esaminato, emerge l’esiguità
della rete familiare come supporto e sostegno. Dei 68 bambini inseriti soli in comunità, soltanto 6 (8,8%) sono stati alle dimissioni accolti
presso parenti. Dei 50 inseriti in comunità con la mamma, solo 4 (8%)
sono accolti alle dimissioni presso parenti. Questi dati contraddicono gli indirizzi generali di lavoro sociale, ma anche la normativa vigente che individua nelle reti familiari le prime risorse di riferimento.
Una sfiducia nei confronti dei «nonni» da parte dei Servizi e
dell’Autorità giudiziaria minorile? Oppure la difficoltà ad occuparsi
anche dei nipoti, in una situazione pesante, e a volte drammatica da
sostenere, per la condizione di tossicodipendenza dei figli?
❖ Tempi della mamma, tempi del bambino. La necessità che il minore
possa vivere o ricongiungersi con i genitori non deve pregiudicare il
sano e corretto sviluppo psicologico e della personalità del bambino,
a causa dei tempi troppo lunghi da parte del genitore per «essere
pronto» ad esercitare i propri compiti. Purtroppo, nel caso della tossicodipendenza, le «prognosi» sono spesso «riservate» nei tempi e risultati, i percorsi accidentati, con sviluppi positivi e successive ricadute. Nel caso di inserimento in comunità terapeutica, per esempio,
il percorso può essere lineare o difficoltoso. Nella migliore delle ipo-
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tesi, dura 18 mesi. Nella fase del reinserimento, la donna può farcela,
ma anche avere ricadute o crolli. Spesso ciò dipende dal partner: se è
ancora tossicodipendente, se ha disturbi del comportamento, se entra ed esce dal carcere; dal tipo di relazione che la donna ha con lo
stesso; dalla famiglia, se è accogliente o rifiuta, dal tipo di relazione
che la persona vuole avere con la sua famiglia. In ogni caso il percorso è lungo. Il bambino può aspettare? E se la donna non regge la comunità, riprende a bucarsi e a prostituirsi? Se lascia la comunità? Il
bambino viene trasferito in un’altra comunità per soli minori, forse
viene dichiarato adottabile. Ma la madre può opporsi, perché dopo
essere «sparita» per qualche tempo, ritorna al Sert, che dà l’avvio all’ennesimo scalare di metadone, e magari ad un nuovo inserimento
in comunità. E se entrambi i genitori sono tossicodipendenti, la coppia non vuole separarsi («non entro io se non entra lui») ma uno dei
due non è ancora pronto? E una volta in comunità, quali le ripercussioni, per esempio sulla donna, nel caso del fallimento del percorso
terapeutico del partner? In sintesi, la madre ha diritto a curarsi, ma i
tempi della cura sono ancora troppo poco rispettosi delle esigenze
dei bambini. Relativamente allo specifico delle tossicodipendenze, le
variabili sono davvero molteplici: percorso terapeutico non lineare
ma «altalenante» della mamma, situazione del padre, spesso anche
lui con problemi di tossicodipendenza, coinvolgimento del nucleo
allargato, carenze di organico dei servizi, difficoltà di coordinamento
tra gli stessi, difficoltà di valutazione ed intervento, complessità nelle
procedure giudiziarie.
❖ Il bambino che ancora non c’è. Il bambino (per la legge italiana dal
terzo mese di gravidanza) nella pancia è già portatore dei diritti di cui
alla citata legge 176/91? Da quando ce ne dobbiamo occupare? Forse
da prima che nasca, magari in SAN? E come? Con quali procedure e
coordinamento dei servizi, ospedalieri, sanitari territoriali, sociali?
Non casi ma persone
222
È bene terminare questa parte sulla «genitorialità difficile» per chi ha
problemi di tossicodipendenza con un cenno all’ultimo periodo della storia
vera di Marco e della sua mamma Anna (nomi di fantasia). Una storia, perché le storie sono importanti, almeno quanto, se non più, dei numeri e delle statistiche.
Marco è figlio di una tossicodipendente, anzi di una persona con problemi di tossicodipendenza. Anna è stata con Marco in Comunità terapeutica e adesso vivono insieme in un alloggio messo a disposizione dalla
Comunità. Ha un piccolo lavoro, è sostenuta dagli educatori della Comunità
e dalla Assistente Sociale del Comune per i problemi quotidiani, e per completare l’acquisizione di quelle abilità sociali e relazionali necessarie per la
completa autonomia.
Anna è lì con suo figlio, grazie a se stessa. Ha problemi, limiti, ma è attaccata a suo figlio, ne ha cura, è responsabile e attenta verso di lui. Anna e
Marco sono lì, grazie alla capacità progettuale ed operativa della Comunità.
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Marco e Anna sono lì grazie ad un Ufficio del Comune, che non sta solo dietro la scrivania, ma dialoga con il Servizio Sociale che «segue i casi», e pertanto ha inventato e reso possibili, amministrativamente e finanziariamente, quei progetti di autonomia che permettono ad Anna di abitare ed essere
aiutata nel suo piccolo alloggio. Anna e Marco sono lì, perché il Sert ha aiutato Anna a «farcela», prima e durante la permanenza in Comunità. Marco e
Anna sono lì perché l’Assistente Sociale del Servizio Sociale territoriale ha
creduto in lei, l’ha aiutata, ma soprattutto ha coordinato le risorse facendo
quel lavoro che adesso va di moda dire di «case manager».
Ho accennato alla storia di Marco e Anna, perché sarebbe bello che ogni
volta che si parla di integrazione, rete, sviluppo di comunità, case manager,
domiciliarità, genitorialità, tutela … ognuno pensasse a reali e potenziali
Marchi e Anne, e ne uscisse con più voglia di trasformare queste fredde e alla fine fastidiose parole, troppo abusate, in nomi di persone, come Marco,
Anna, Giuseppe, Piera …
6.6 Una risposta istituzionale: l’affidamento
Cos’è l’affidamento familiare
Prima dell’entrata in vigore della legge 184/83, erano diffuse nel nostro
paese forme di affidamento denominate «baliatico» e «collocamento». Il baliatico era previsto dal Regio Decreto 27 luglio 1934 n. 1265 (T.U. delle leggi
sanitarie) in alternativa all’inserimento in istituti e brefotrofi. «L’esercizio
del baliatico è subordinato all’autorizzazione del Sindaco, che viene rilasciata dopo la visita medica, la quale abbia accertato che la balia non è affetta da sifilide, tubercolosi o altra malattia diffusiva». Si può notare come la
sola preoccupazione del legislatore fosse di tipo sanitario, e ciò conferma
l’impostazione, allora dominante, di attenzione esclusiva alla salute e profilassi, presente anche nell’organizzazione sanitarizzata dei brefotrofi.
Il collocamento può essere invece definito come baliatico per un bambino non da allattare ed ha origini storiche ben lontane, trovando le sue basi nell’uso di affidare bambini, ragazzi e adolescenti a famiglie artigiane o
contadine, perché imparassero un mestiere e col proprio lavoro contribuissero al sostentamento del nucleo. Anche il collocamento era fondato su una
concezione restrittiva dei diritti del minore, intesi come interventi che lo
stesso deve «subire» per il suo bene. Mentre nel caso del baliatico l’attenzione è sulla salute fisica, nel collocamento è sull’imparare un mestiere e non
essere nel contempo di peso alla famiglia.
Il successivo istituto dell’affiliazione conferma tale impostazione. Nella
relazione di presentazione di questo istituto giuridico, si parla del diritto di
un minore illegittimo «a che sia cancellata la inferiorità familiare e sociale
che loro infligge la colpa dei genitori», ma nel contempo del «bisogno spirituale, morale e talora economico, specie in campo agricolo, delle famiglie
sterili o fornite di poca prole, di avere un focolare allietato dal sorriso del
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fanciullo e di reclutare nuove forze di aiuto e di completamento della comunità economica familiare».
Nella nostra realtà, le prime esperienze di affidamento familiare avvengono a partire dal 1971, con l’istituzione del servizio di affido della Provincia
di Torino. La deliberazione istitutiva modifica sostanzialmente l’impostazione precedente, evidenziando il ruolo dei tecnici nella promozione, gestione e supporto degli affidamenti, e la necessità di attuare tali interventi
all’interno di una rete di servizi zonali. Prevede un rimborso spese alle famiglie indipendentemente dalla loro condizione economica, ma in relazione ai bisogni e alle condizioni psico-fisiche del minore, evidenziando così il
ruolo della famiglia per l’educazione del minore. «Alla famiglia affidataria,
nel cui ambito si svolgono processi fondamentali di identificazione e quindi
di ristrutturazione della personalità disadattata, viene riconosciuto un obiettivo ruolo tecnico e pertanto essa partecipa su un piano di parità e contribuisce a tutte le principali decisioni di équipe riguardanti l’educazione e la terapia del minore affidato». Successivamente, con deliberazione del 14 settembre 1976 «Affidamenti e inserimenti attuati tramite volontari e comunità alloggio comunali», l’Amministrazione comunale di Torino istituisce l’affidamento familiare.
Queste sperimentazioni preparano e permettono la promulgazione della legge 184, «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», che
viene approvata, dopo un ampio dibattito parlamentare e una approfondita indagine conoscitiva, nel 1983. Per quanto riguarda, nello specifico, l’affido, questa legge prevede, nel caso non sia possibile la permanenza del minore nella propria famiglia ove lo stesso ha diritto di essere educato, l’affidamento in via temporanea ad altra famiglia, possibilmente con figli minori, a una persona singola, o a una comunità di tipo familiare.
L’affidamento, come già precedentemente indicato, può essere consensuale tra i genitori e parenti entro il quarto grado, oppure tra i genitori e altre persone (per non più di sei mesi, oltre i quali occorre segnalare all’Autorità giudiziaria), oppure ancora disposto, su consenso delle famiglie affidataria e affidante, dai servizi territoriali previa approvazione del giudice tutelare. L’affidamento può anche essere disposto dal Tribunale per i minorenni con specifico provvedimento, quando manca l’assenso, in applicazione
degli articoli 330 e seguenti del codice civile (articoli sulla sospensione o sulla decadenza della potestà parentale e/o di allontanamento del minore).
La legge 149 del 28/3/2001 di modifica della 184 apporta alcune significative novità rispetto all’affidamento. Il diritto del minore a crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia deve essere assicurato senza distinzione di sesso, etnia, età, lingua, religione e nel rispetto della identità
culturale del minore. Le condizioni di indigenza dei genitori non possono
essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. Lo
Stato, le Regioni e gli Enti locali devono sostenere, nell’ambito delle proprie
competenze e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei familiari a rischio, al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nella propria famiglia. Inoltre devono promuovere iniziative di
sensibilizzazione all’affido. La nuova legge innova la 184, in quanto subordina ogni altro tipo di inserimento eterofamiliare all’affido: «Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli inter-
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venti di sostegno e di aiuto disposti ai sensi dell’articolo 1, è affidato ad una
famiglia, preferibilmente con figli minori o ad una persona singola, in grado
di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno (art 2 comma 1). Ove non sia possibile l’affidamento nei termini di cui al comma 1, è consentito l’inserimento del minore in
una comunità di tipo familiare….» (art. 2 comma 2).
Al servizio sociale locale è attribuita la responsabilità del programma di
assistenza, compresa la previsione della sua durata, che deve essere rapportata al complesso degli interventi volti al recupero della famiglia di origine,
nonché la vigilanza durante l’affido. Lo stesso è tenuto a presentare per ogni
affidamento una relazione semestrale sull’andamento del programma, sulla sua presumibile ulteriore durata, e sull’evoluzione delle condizioni di difficoltà del nucleo familiare di provenienza. Tale programma prevede la partecipazione attiva della famiglia affidataria, che deve essere sentita nei procedimenti civili in materia di potestà, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato, e che esercita i poteri connessi con la potestà parentale, in relazione agli ordinari rapporti con l’istituzione scolastica e con le autorità sanitarie.
A conferma della necessità che l’affidamento sia temporaneo, e collegato ad interventi di sostegno alla famiglia di origine, la legge prevede che la
sua durata massima sia di due anni. Qualora sia necessario un prolungamento, lo stesso deve essere disposto dal tribunale per i minorenni su proposta del giudice tutelare.
Problemi dell’affidamento
Se, come la legge dispone, l’affidamento è la prima soluzione da perseguire nel caso della necessità di collocazione eterofamiliare di un minore,
esso si presenta comunque come una soluzione complessa. Le difficoltà sono molteplici, e rivestono una connotazione «sistemica».
Un primo elemento di complessità riguarda il momento dell’affido.
Spesso all’affido si arriva dopo molti tentativi di supporto del nucleo, e col
bambino ormai grandicello. Ci si chiede se l’affido non debba assumere invece una connotazione più «preventiva», oppure limitarsi alle situazioni
gravi, quando non è più possibile la permanenza in famiglia (non è casuale il fatto del continuo aumento degli affidamenti disposti dall’autorità giudiziaria).
Un secondo aspetto riguarda il tempo dell’affido. Sono sempre più frequenti gli affidamenti sine die, addirittura oltre la maggiore età, con permanenza del ragazzo presso la famiglia affidataria e successiva vita autonoma.
Si tratta di adozioni di fatto, anche se non giuridicamente sancite. Ci si chiede se sia questo il vero spirito dell’affido, oppure se non sia il caso di distinguere progettualità lunghe da quelle a breve termine, definendo anche istituti giuridici diversi. La nuova legge introduce, seppur timidamente, attraverso il meccanismo della durata dei due anni e successivo provvedimento
dell’autorità giudiziaria in caso di prosecuzione, questa distinzione.
Un terzo aspetto riguarda la doppia appartenenza del minore, che diventa particolarmente complessa nel caso di rapporti difficili o compro-
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messi con la famiglia di origine. Nelle famiglie affidatarie, vi è a volte l’idea
di poter modificare gli orientamenti del minore accolto, proponendo i propri modelli culturali, ma sottovalutando la sua difficoltà a raccordarsi con
un mondo diverso. Gli affidatari, di solito, non sono particolarmente propensi a farsi carico dei problemi della famiglia di origine, non perché considerino ciò non rilevante, ma perché ritengono di essere impotenti e inadatti, sia a livello emotivo che pratico, ad occuparsene. Non pochi definiscono
negativo il loro rapporto con la famiglia affidante, e comunque le relazioni
sono mediate attraverso il minore stesso (Garelli 2000). In effetti, proprio la
famiglia di origine sembra essere l’anello debole dell’affidamento, rimanendo sullo sfondo per gli affidatari e a volte anche per i servizi.
Tale questione richiama alla necessità di non «ideologizzare» la differenza tra affido e comunità, indicando quest’ultima sempre in subordine al primo. Infatti, se è vero che una comunità non può sostituire figure di riferimento con funzioni genitoriali di identificazione, è anche vero che in molti
casi, in particolare di preadolescenti e soprattutto adolescenti, la persona
non è preparata ad entrare in un’altra famiglia. I rapporti ambivalenti nei
confronti dei genitori, in una situazione di profonda interiorizzazione di tali figure parentali,possono portare a dei rifiuti dell’affido da parte dell’interessato; e, anche se accettati, aprono ferite profonde, difficili da gestire. In
certi casi è meglio avere accanto un fratello maggiore (vedi educatore) che
un altro genitore (vedi affidatario). In secondo luogo, l’affidamento non è un
servizio, che si attua con atto di un’amministrazione tramite appalto, accreditamento ecc; richiede invece una disponibilità volontaria, ed in molti casi
è difficile trovare famiglie disponibili ad accogliere minori con handicap, o
con gravi malattie, oppure adolescenti difficili. In questo caso è indispensabile la presenza di servizi residenziali.
Da quanto detto emerge un ulteriore aspetto di complessità. Se gli eroi e
i pionieri ci sono sempre, le disponibilità di chi eroe non è si ottiene attraverso aiuto e supporto. «Venti anni fa abbiamo accolto un ragazzo di dieci
anni, la stessa età di nostra figlia, per un affido consensuale residenziale come è stato per gli altri affidamenti successivi. Il ragazzo ha, con fatica, ma con
grande volontà terminato gli studi, ha un buon lavoro ed è felicemente sposato. Con lui come con la sorella abbiamo ottimi rapporti e ci possiamo considerare tutti come fratelli» (una affidataria). In altre parole, le famiglie affidatarie possono essere molte, a condizione che gli enti preposti non solo avviino campagne di sensibilizzazione, ma aiutino e sostengano le famiglie. La
migliore campagna è il tam tam tra le famiglie, la comunicazione dell’esperienza positiva, che quelle affidatarie portano agli altri all’interno del loro
ambiente.
Le famiglie affidatarie sono in genere soddisfatte dell’esperienza fatta.
Riconoscono la validità dell’affido nella stragrande maggioranza dei casi,
l’80% giudica positivamente la propria esperienza. Per contro, solo 1/5 delle
famiglie accetterebbe un nuovo affido subito, mentre la metà considererebbe la cosa dopo un periodo di riflessione e a determinate condizioni, quali un
maggior appoggio e sostegno dei servizi. «Non ci sono stati proposti altri affidamenti: abbiamo voluto prenderci una pausa, che è durata un anno, poi abbiamo dato la nostra nuova disponibilità ai servizi. Abbiamo quindi iniziato
un nuovo affidamento, anche perché crediamo nell’utilità ed importanza di
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questo servizio.» (un’affidataria). Il 60% ritiene che l’affidamento potrebbe essere più diffuso se le famiglie potessero contare su un maggior aiuto e su
strumenti più adeguati da parte dei servizi. (Garelli, 2000; Scheda B).
Ma il sostegno e la promozione degli affidamenti implicano investimenti di risorse e di fondi: il vero affidamento costa come una comunità, in
quanto impegna personale e risorse. Le critiche da parte delle famiglie affidatarie nei confronti dei servizi riguardano principalmente la carenza di
progettualità, la rigidità delle procedure burocratiche, la tendenza alla delega: «ci ha assicurato che per qualsiasi problema era a disposizione nel suo ufficio. Ed è stato così, in quanto quelle poche volte che abbiamo avuto bisogno
di lei l’abbiamo trovata disponibile, ma niente più» (un’affidataria). «In conclusione devo dire che il nostro primo affidamento ce lo siamo gestiti da soli
ed è merito del ragazzo se al compimento dei suoi 18 anni l’affidamento è terminato in modo positivo» (famiglia affidataria) Rapporti non idilliaci ma
nemmeno compromessi. «In questi anni di esperienza di affido il rapporto
con i servizi si è rivelato spesso deludente: se si considera a parte l’aspetto del
rapporto umano e personale, di solito abbastanza soddisfacente, la procedura di affidamento appare lacunosa soprattutto per ragioni generali e non dipendenti dai singoli operatori» (un affidatario).
Un’ulteriore questione, connessa alla precedente, riguarda il rapporto
tra famiglia affidataria e il minore che viene accolto. La capacità di gestire la
relazione con funzioni genitoriali, ma nel contempo di mantenere la «distanza», cioè non identificarsi con il ruolo di genitore (non siamo la tua
mamma e papà), nonché quella di «sostenere» il distacco nel periodo precedente alle dimissioni e in quello successivo, richiedono competenze non
indifferenti. È possibile che qualcuno le abbia «innate», o acquisite nella sua
storia di vita, ma sicuramente sostegno e formazione non possono essere
evitati. L’esigenza è avvertita da sempre più famiglie, consapevoli che l’esperienza dell’affido non si regge soltanto su forti motivazioni e capacità affettive. Ciò richiama ulteriormente alle responsabilità degli Enti pubblici.
«Abbiamo partecipato, perché siamo stati contattati dal Comune, ai gruppi
di sostegno famiglie affidatarie, che hanno operato per otto mesi; le sei famiglie che formavano il nostro gruppo avevano minori di età eterogenea e affidamenti diurni e residenziali; abbiamo lavorato in 10 incontri con l’aiuto di
due assistenti sociali, cercando insieme strategie per affrontare momenti e situazioni problematiche. In un secondo tempo il gruppo è diventato di automutuo aiuto, e anche senza la presenza dell’assistente sociale ha continuato
ad incontrarsi mensilmente» (un’affidataria).
Spesso un minore in affidamento è conosciuto e seguito da una pluralità
di operatori non sempre coordinati (assistente sociale, educatore, insegnante, neuropsichiatra infantile, psicologo, giudice, perito del tribunale,
perito di parte, avvocato ecc.). Spesso le decisioni tardano ad essere prese,
perché nessuno ha la facoltà e possibilità di decidere senza l’altro, spesso i
pareri non sono concordi. In tale quadro chi ha la titolarità del caso (cioè
molti degli attori sopra indicati) a volte non riconosce il ruolo e l’impegno
delle famiglie. Dove, come a Torino, ci sono attive organizzazioni di famiglie,
le tematiche e iniziative relative all’affidamento si sono significativamente
sviluppate. Non per questo il rapporto tra organizzazioni di tutela, advocacy
e volontariato, i gruppi di famiglie e l’ente locale, esclude il conflitto. Spesso
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l’Ente pubblico si trova, in posizione di accusato, a doversi difendere da presunte mancanze, mentre le famiglie affidatarie risultano essere le «vittime»
di tali carenze.
Le ricerche tendono a rafforzare tale approccio: si parla delle famiglie affidatarie e dei loro problemi, della loro difficoltà di ottenere ciò che chiedono dai servizi sociali e sanitari. Molto meno si parla dei problemi dei servizi
socio-sanitari nel supportare e sostenere le famiglie, dei carichi di lavoro, del
peso emotivo cui quotidianamente è sottoposto un operatore sociale, che sa
di non poter soddisfare tutte le richieste e di non sapere/poter scegliere.
In sintesi una seria politica di potenziamento dell’affidamento implica:
❖ la presenza di un forte impegno per la deistituzionalizzazione dei
minori;
❖ la consapevolezza che l’affidamento non è uno strumento adeguato
per tutti i minori che vivono in situazione di gravi difficoltà;
❖ interventi di promozione, sostegno delle famiglie affidatarie e di
quelle d’origine, nella consapevolezza che le risorse per l’affido non
sono solo delle famiglie affidatarie, e l’affido non deve essere inteso
come strumento di risparmio finanziario;
❖ il sostegno alle famiglie e ai gruppi di auto-mutuo aiuto, il riconoscimento delle organizzazioni di famiglie affidatarie e del loro diritto a
relazionarsi, come soggetto collettivo, con gli enti pubblici e con i
servizi;
❖ l’attenzione al progetto e ai relativi tempi, per evitare che l’affidamento si configuri come collocazione sine die, con prospettive incerte e lasciate al caso.
Politiche dell’affidamento a Torino
La Città di Torino ha maturato una lunga esperienza di affidamento familiare, poiché la deliberazione istitutiva del servizio risale al 1976, ben sette anni prima della legge 184. Successivi provvedimenti hanno, sulla base
dell’esperienza, apportato ulteriori specificazioni:
❖ estendendo l’affidamento ad anziani ed handicappati (Deliberazione
del Consiglio Comunale 9203354/19);
❖ prevedendo l’affidamento a parenti, in caso di gravi carenze educative, ricoveri ospedalieri, morte dei genitori;
❖ istituendo l’affidamento diurno per situazioni che necessitano di sostegno ed aiuto, senza allontanamento (Deliberazione del Consiglio
Comunale del giugno ’86 mecc. 8606570/19);
❖ prevedendo le comunità familiari quale forma di estensione dell’affido, e cioè famiglie allargate che ospitano fino a quattro bambini oltre
ai propri eventuali figli (Deliberazione Giunta Comunale del dicembre ’93, mecc. 930824/19);
228
❖ prevedendo la prosecuzione degli interventi assistenziali, e quindi
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anche l’affidamento oltre i 18 anni e fino ai 21, su progetto che rappresenti una reale necessità per la conclusione positiva dell’intervento a suo tempo deciso;
❖ attivando il Progetto Neonati (deliberazione della Giunta Comunale
del novembre 1995 mecc. 9508697/19). Questa iniziativa prevede affidamenti familiari di breve periodo, per bambini di età compresa tra
gli 0 e i 18 mesi, quale alternativa all’inserimento in comunità in attesa dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile. Dall’anno
2001 è iniziata una sperimentazione di collegamento tra una comunità alloggio a gestione diretta per bambini 0-3 anni e tale progetto:
attraverso una profonda riorganizzazione della struttura, gli educatori garantiscono l’accoglienza residenziale di un numero limitato di
minori, e il supporto alle famiglie di origine e affidatarie. Tale supporto consiste sia nel sostegno che nella osservazione della competenza genitoriale, al fine di poter nei tempi più brevi possibili fornire
al Tribunale gli elementi per una decisione (rientro in famiglia, affidamento a rischio giuridico, apertura stato adottabilità, affidamento
a medio-lungo termine);
❖ favorendo i progetti di autonomia dei giovani già in affidamento
(Deliberazione della Giunta Comunale del 18 aprile 2001 mecc.
200103392). In specifico si prevede la realizzazione di progetti rivolti
ai ragazzi per i quali, al compimento della maggiore età, non è possibile il rientro presso il nucleo di origine, ma si può avviare un percorso per l’autonomia personale, lavorativa, abitativa, con ulteriore permanenza fino ai 21 anni presso la famiglia affidataria. Ogni progetto
deve essere presentato dai servizi sociali competenti su proposta della famiglia affidataria con il consenso dell’interessato ed è gestito dalla famiglia stessa, a fronte di un contributo massimo di 10 milioni per
spese relative alla sistemazione abitativa, alla vita di relazione, alla
frequenza a corsi e scuole, compresi quelli universitari.
Gli affidamenti familiari a Torino sono aumentati progressivamente negli anni. In 25 anni di lavoro ed esperienza nel campo sono stati realizzati
quasi 5000 affidamenti, numero di gran lunga superiore a quello di qualsiasi altra Città d’Italia, in 9 casi su 10 l’affidamento riguarda i minori (Tabella 6.1).
229
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Tabella 6.1 – Affidamenti realizzati a Torino nel periodo 1993 – 2001
di cui
Anno
Interventi
1993
647
614
1994
647
624
1995
692
657
1996
785
330
277
178
741
1997
914
370
286
258
852
1998
1035
408
302
325
962
1999
1167
429
311
427
923
2000
1161
2001
1315
resid. a terzi
resid.a parenti
diurni
Minori
1006
409
240
666
1114
Secondo i dati riferiti al 1999, la modalità prevalente di affidamento dei
minori è l’affidamento non consensuale a famiglie di terzi e di parenti, che
avviene in circa il 50% dei casi. Segue l’affidamento diurno a terzi (36%) e
l’affidamento consensuale (14%) a terzi e parenti. Il ricorso alle reti di parentela per l’affidamento è in evidente contrazione.
L’andamento nel tempo degli affidamenti è stato determinato da un aumento degli affidamenti sia residenziali che diurni (aspetto positivo), e da
una lunga permanenza dei minori nelle famiglie affidatarie (aspetto di complessità, dovuto alla situazione sempre più problematica di molte famiglie,
per la condizione delle quali non è possibile attuare un rientro del minore,
ma neppure una procedura di stato di adottabilità). Peraltro, un significativo numero di minori continua a rimanere in strutture residenziali, per la difficoltà a reperire famiglie affidatarie adatte o disponibili a situazioni particolarmente difficili, per età (adolescenti), per handicap, e per problemi sanitari (hiv).
La spesa si è progressivamente incrementata, fino a raggiungere 8 miliardi annui di lire. Questa non è la reale spesa degli affidamenti, in quanto
l’intervento non si limita al solo rimborso alle famiglie, ma comprende il
tempo lavoro degli operatori, e in particolare degli assistenti sociali, che a
ciascun affido devono dedicare molto più tempo rispetto all’inserimento in
comunità.
I rimborsi previsti per ciascun minore sono i seguenti:
230
❖ affidamenti residenziali a terzi
380 euro mensili;
❖ affidamenti residenziali a parenti
266 euro mensili
❖ affidamenti diurni con pasto
266 euro mensili
❖ affidamenti diurni senza pasto
196 euro mensili
❖ progetto neonati
760 euro mensili
❖ comunità familiare
832 euro mensili
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È prevista la possibilità di aumento delle quote del 30%, per bambini con
particolari situazioni socio-ambientali e sanitarie e per adolescenti; del 60%
per handicappati e del 100% per minori riconosciuti totalmente invalidi.
Inoltre è prevista la possibilità di erogare contributi straordinari per specifici bisogni, quali acquisto occhiali, cure ortodontiche ed ortottiche, sostegno
scolastico individuale, spese per soggiorni brevi, spese per iscrizione a corsi e esigenze accessorie.
Nel ’96 è stata organizzata una prima campagna di sensibilizzazione, cui
hanno risposto più di 500 famiglie delle quali più di 200 sono diventate poi
affidatarie; attualmente ne è in corso una nuova. Al fine di sostenere le famiglie affidatarie, a partire dal ’ 95 sono stati avviati gruppi di sostegno, di
auto-mutuo aiuto e misti, tra famiglie affidatarie e persone che si avvicinano per la prima volta al tema e non hanno ancora esperienze concrete. Tali
gruppi, condotti da operatori dei servizi socio-assistenziali opportunamente formati, sono stati finora una quindicina, coinvolgendo circa duecento
nuclei di affidatari. Attualmente è in fase di avvio un gruppo di sostegno per
famiglie di origine che hanno bambini in affidamento.
È stata realizzata dalle Associazioni di famiglie affidatarie una ricerca, in
collaborazione con l’Università di Torino e con il patrocinio del Comune e
della Provincia di Torino, circa i percorsi e le problematiche nelle diverse fasi dell’affido (Garelli 2000). È in fase di predisposizione una convenzione
con le ASL cittadine relativa agli affidamenti e alle adozioni. La Città fa parte, fin dal suo inizio (’98) del Coordinamento nazionale Servizi Affidi.
Scheda B – Le famiglie affidatarie a Torino
Da una recente ricerca (Garelli 2000) emerge che il minore affidato appartiene
per lo più all’infanzia e alla prima adolescenza. La maggior parte dei minori
non presenta problemi gravi a livello personale, bensì legati alla situazione socio-familiare, Non sono rari i casi di accoglienza di bambini e ragazzi con problematiche rilevanti sia di salute che relazionali, o che provengono da istituti e
comunità. La difficoltà maggiore secondo le famiglie affidatarie è l’adattamento alle regole, il che si può anche ricondurre alla diversità culturale e sociale
con quella d’origine.
La famiglia affidataria tipo ha figli propri biologici e perciò si orienta all’affidamento non per colmare dei vuoti, ma sulla base di motivazioni positive, che
spesso derivano da un impegno sociale e vogliono essere l’espressione concreta di tale impegno. «La nostra famiglia è composta da tre persone, un papà, una
mamma e una figlia. Quando è iniziata la nostra avventura di affidatari nostra
figlia aveva 8 anni. Io ero insegnante in pensione (baby pensionata!), mio marito faceva il negoziante. Lui si è sempre occupato, con un caro amico mancato
qualche anno fa, di aiutare ragazzi disabili. Desideravamo però metterci a disposizione come famiglia. Di qui la nostra candidatura quale famiglia affidataria». Un atteggiamento di fondo laico anche dove la fede religiosa è parte rilevante della propria identità personale e sociale. «La motivazione che ci ha spinti alla nostra scelta si radica nella nostra comune aspirazione ad essere una fasegue
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miglia aperta: il mistero che da sempre avvolge l’inizio di un amore tra un uomo e una donna si è per noi in parte rivelato nella consapevolezza di dover donare la nostra gioia di innamorati al mondo che ci stava intorno… Nel nostro
comune sentimento religioso dunque ha molto peso la condivisione delle fatiche
del prossimo: non si tratta quindi tanto del bisogno di realizzare un impegno sociale fine a se stesso, quanto quello di credere che nella solidarietà, nella donazione umana reciproca, siano svelate alcune importanti risposte esistenziali».
Quella «tipo» è una famiglia di età adulta, con alle spalle anni di vita comune.
Appartiene al ceto medio con scolarità medio alta. «Siamo sposati da più di
dieci anni e abbiamo quattro figli e due bambini in affidamento. Io sono architetto e lavoro a tempo pieno, mentre mia moglie è medico e lavora a metà tempo. Entrambi siamo liberi professionisti e disponiamo quindi di una certa libertà nell’organizzazione degli impegni giornalieri». Presenta una rete parentale e di amicizie ampia e significativa. Come in ogni «normale» famiglia, il peso dell’educazione e la cura dell’affidato ricadono prevalentemente sulla donna. Gli affidatari presentano un approccio pragmatico e realistico alla situazione, si rendono disponibili ad impegni compatibili con le loro condizioni di vita. Non pretendono di «cambiare» il bambino, ma intendono offrire occasioni
di sicurezza, aiuto, conferma di sé, crescita il più possibile equilibrata.
Aspetti tecnici e organizzativi.
La gestione complessiva dell’affidamento familiare a Torino comporta
precise fasi, che richiedono ciascuna l’esercizio di attività e compiti.
❖ Campagne di sensibilizzazione: per il reperimento di potenziali famiglie affidatarie.
❖ Accoglienza: occorre una organizzazione efficace e efficiente, che accolga in tempi molto brevi la richiesta di informazioni,attraverso, per
esempio, una linea telefonica «ad hoc», colloqui individuali, serate
informative per gruppi ecc.
❖ Conoscenza/selezione. Le famiglie che intendono, dopo la fase dell’accoglienza, avviare l’esperienza dell’affido devono approfondire
con operatori dei servizi sociali e sanitari la loro motivazione e idoneità all’affido.
❖ Abbinamento. Ciascun minore, in relazione alla condizione e ai bisogni, viene abbinato con la famiglia che si ritiene più adatta.
❖ Sostegno. La fase relativa alla gestione dell’affido, può essere condotta
sia attraverso il rapporto interpersonale con operatori dei servizi sociali e sanitari, oppure con gruppi di sostegno e di auto-mutuo aiuto.
232
La Città si è dotata negli anni, ritenendola importante per assolvere a
queste funzioni, di una organizzazione per l’affidamento, che tenesse in rilevante considerazione il coinvolgimento del territorio e dei servizi decentrati. Per questo motivo non ha costituito un servizio affidi centralizzato (co-
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me altre Città italiane hanno fatto), ma ha strutturato un sistema di gestione integrata tra livello cittadino e decentrato. In specifico, con circolare del
1997, è stato definito l’assetto organizzativo, proponendo un raccordo preciso tra i diversi servizi e soggetti coinvolti. È stata prevista la figura dell’assistente sociale referente per l’affido nell’ambito territoriale di circoscrizione, come riferimento sia per le risorse (le famiglie affidatarie) sia per i bisogni (i minori in difficoltà), e occasione di collegamento costante con le altre
Circoscrizioni e con la Divisione. Tutti i referenti circoscrizionali, e due operatori della Divisione, costituiscono il gruppo cittadino con funzioni di ricerca e di studio, sede degli abbinamenti sovrazonali, luogo di coordinamento generale di tutto il lavoro sull’affido.
Il modello organizzativo adottato ha senza dubbio prodotto risultati positivi, quali vicinanza al territorio, maggiore capillarità e produzione di maggior sensibilità e cultura sull’affido, realizzazione di un lavoro di rete e collegamento fra i diversi servizi sociali di base. Ha però anche evidenziato i limiti di interventi, per tutti i livelli di cui sopra, troppo diversificati da zona a
zona, sia per modalità che tempi, e troppo legati a contingenze specifiche
(per es. in particolare la carenza di personale in un determinato Centro di
servizio sociale).
Per quanto riguarda l’accoglienza, dovendosi rivolgere ciascuna famiglia
al servizio sociale circoscrizionale, si sono riscontrate diverse modalità e
tempi nell’ascolto e nell’informazione. Anche per quanto riguarda la conoscenza/selezione, le procedure ed i tempi sono molto diversificati, dipendendo da organizzazione, priorità, lista d’attesa, sia delle singole équipe della neuropsichiatria infantile, sia dei servizi sociali decentrati. Per quanto riguarda gli abbinamenti, ogni Circoscrizione opera gli stessi nel proprio territorio (famiglie e bambini della Circoscrizione), segnalando le famiglie «libere» agli Uffici centrali. Ove non sia possibile l’abbinamento a livello circoscrizionale, il Servizio sociale territoriale si rivolge alla Divisione centrale
per il reperimento di una famiglia a livello cittadino. Negli anni si è rafforzata la tendenza ad un eccessivo «federalismo» circoscrizionale da parte dei
Servizi territoriali, che consiste nel non mettere a disposizione della Città le
«loro famiglie», tenendole in attesa di un bambino di quel territorio.
I limiti dell’assetto organizzativo sopra descritto hanno portato a nuove
modalità e procedure organizzative, necessarie per la gestione di interventi
sempre più complessi e numerosi, in concomitanza con la nuova Campagna aperta a fine anno 2000. Infatti sarebbe controproducente, per l’immagine della Città, una campagna svolta senza una efficace ed efficiente accoglienza, rapide selezioni/conoscenze e efficaci/efficienti abbinamenti su
tutta la Città. Lo stesso dicasi per il sostegno alle famiglie affidatarie, in
quanto la loro valutazione positiva dell’esperienza favorisce la disponibilità
alla continuazione, e l’allargamento ad altre famiglie attraverso la concreta
testimonianza di quelle «soddisfatte». Il nuovo assetto prevede che le attività e i compiti relativi alle fasi operative dell’affidamento di cui sopra siano
svolti a due livelli, uno cittadino e l’altro circoscrizionale.
Attività a livello cittadino. La Casa dell’Affido.
L’esperienza degli ultimi anni ha fatto emergere la necessità di un luogo
fisico quale punto di riferimento cittadino, dove raccogliere e coordinare
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tutta l’attività. La Casa dell’affido (sita in piazza della Repubblica 22) costituisce il luogo per l’esercizio a livello cittadino, al fine di garantire maggiore
efficacia ed efficienza, di specifici compiti relativamente alle funzioni/fasi
sopra indicate:
❖ per la sensibilizzazione, si struttura come polo di ricerca e di informazione (es. biblioteca, foglio informativo ecc.), di organizzazione di
campagne, generali e mirate per specifiche problematiche e fasce di
età;
❖ per l’accoglienza, costituisce il riferimento per tutte le persone, famiglie e nuclei, che intendono conoscere l’affido, e si rivolgono per la
prima volta ai servizi, attraverso un primo colloquio individuale e
con l’organizzazione di incontri informativi a cadenza mensile;
❖ per l’abbinamento, è la sede della «banca delle famiglie affidatarie» e
della «banca dei minori da affidare», ove vengono decisi gli abbinamenti a livello cittadino, per quei minori che non hanno trovato risposte adeguate nel loro territorio di residenza;
❖ per il sostegno, rappresenta il punto di riferimento per tutta l’attività
dei gruppi di sostegno e di auto-mutuo aiuto.
La Casa dell’affido è sempre aperta e viene gestita a turno dalle assistenti sociali referenti, nonché da famiglie affidatarie singole o di associazioni
allo scopo disponibili.
Attività a livello Circoscrizionale.
A questo livello, viene esercitata la funzione di «selezione/conoscenza»
delle famiglie e persone, di norma inviate, per competenza territoriale, dalla casa dell’Affido dopo la prima accoglienza ed informazione. Allo scopo
viene costituita una micro équipe circoscrizionale, composta, oltre che da
personale delle ASL, dal referente e da uno o due assistenti sociali con esperienza maturata in questa attività. Il percorso di conoscenza deve essere
concluso entro due mesi dalla prima segnalazione. In ogni circoscrizione,
opera un referente per l’affido, ossia l’assistente sociale, che gestisce con le
colleghe e con i referenti dell’affido del Settore minori tutte le attività previste nella Casa dell’Affido. Il suo impegno è quantificabile in 11 ore medie
settimanali. La referente svolge funzioni di coordinamento e consulenza, a
livello di Circoscrizione per le colleghe che seguono gli affidamenti.
I principali aspetti di complessità di questa organizzazione si possono
riscontrare nei rapporti con i servizi sanitari, e in specifico la NPI,per la costituzione e funzionamento delle micro équipe per la selezione e il sostegno;
nel conciliare gli impegni delle referenti relativi al lavoro presso il centro sociale di riferimento con quello per gli affidi; oltre che in consueti vincoli burocratici, quali la carenza di personale anche connessa alle numerose situazioni di part time, turnover ecc.. Sempre a livello circoscrizionale, viene
esercitata la funzione di sostegno all’affido, relativamente alla presa in carico individuale, con i problemi conseguenti.
234
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6.7 L’adozione
Aspetti generali
In Italia, cresce il numero delle coppie, in maggioranza senza figli biologici e con la presumibile «esigenza» di genitorialità, che fanno domanda di
adozione. Per le coppie che fanno domanda di adozione non è facile trovare una soddisfazione alle loro esigenze: non tanto perché, almeno formalmente, le norme prevedono «un genitore per il bambino e non un bambino
per il genitore», ma in quanto, a fronte dell’ aumento di richieste, il numero
dei minori in stato di adottabilità non mostra alcuna tendenza alla crescita.
Erano 1231 nel ’93, sono 1246 nel ’99, dopo aver raggiunto nel ’97 il valore
massimo di 1440. La stabilità del numero dimostra che, in Italia, i bambini
abbandonati e quelli tolti ai genitori per gravi motivi, aggiunti a quelli non
riconosciuti da entrambi i genitori naturali, rappresentano un fenomeno
quantitativamente contenuto.
Questa situazione, a fronte della crescente domanda, orienta sempre più
le coppie verso l’adozione internazionale, che presenta un bacino potenziale di minori adottabili ben più vasto. Nel periodo 1993-99, a fronte di 59 mila domande di adozione nazionale, ci sono stati 6074 decreti di adozione,
mentre nello stesso periodo alle 44 mila domande di adozione internazionale hanno corrisposto 14.607 decreti. Quindi, ogni 100 domande nazionali si hanno 10,1 decreti, ad ogni 100 domande di adozione internazionale
corrispondono 32,9 decreti. Ne deriva la maggiore probabilità di poter adottare un bambino straniero. La maggioranza proviene dall’Est (Russia, Romania e Bulgaria) con ben il 57% dei bambini, il 22% proviene da India,
Brasile e Colombia. La richiesta pare orientarsi verso paesi più poveri, ma i
cui bambini sono per tratti somatici più simili ai nostri.
Nel ’99, 615 coppie hanno presentato domanda di adozione nazionale o
dichiarazione di disponibilità per l’adozione internazionale al Tribunale per
i minorenni di Torino, di cui 133 residenti in Città. Tale numero è aumentato nel 2000 (184), mentre registra una flessione nel 2001 (158) (Tabella 6.2).
Tabella 6.2 – Disponibilità di adozione – coppie residenti a Torino per anni e tipo di
adozione
Anni
Nazionale
Internazionale
Doppia
Totale
1998
52
14
80
146
1999
41
21
71
133
2000
58
24
102
184
2001
39
25
94
158
Fonte: Comune di Torino
L’adozione internazionale in questi anni ha conosciuto un fortissimo
sviluppo. Nel 1982 le adozioni di bambini stranieri erano meno di trecento,
a fronte di più di mille nazionali. Nel 1999 a fronte, come si è detto, della stabilità di adozioni nazionali, le domande per l’internazionale sono state più
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di settemila. Questo fenomeno peraltro si riscontra in tutti i paesi economicamente sviluppati.
La normativa
L’istituto dell’adozione, dopo il precedente ordinamento sancito dalla
legge 431/67, è attualmente regolato dalla legge 184/83, modificata dalla
legge 476/98 che recepisce la Convenzione dell’Aia sull’adozione internazionale, e dalla legge 149/2001. La 184/83 così come modificata definisce le
caratteristiche generali dei procedimenti di adozione.
Requisiti per presentare domanda di adozione.
❖ La domanda è consentita ai coniugi uniti in matrimonio da almeno
tre anni, senza separazione negli ultimi tre anni, neanche di fatto.
❖ È sufficiente aver stabilmente convissuto per tre anni immediatamente prima del matrimonio, che comunque deve avvenire nel momento
di presentazione della domanda (modifica apportata dalla 149).
❖ L’età deve superare di almeno 18 e non più di 45 anni (prima della 149
erano 40) quella dell’adottato.
❖ Per casi particolari, e nell’interesse del minore, i limiti di cui sopra
possono essere derogati dal Tribunale per i minorenni (previsione
non presente nella 184/83).
I requisiti di età massima possono essere presenti in uno solo degli adottanti (modifica apportata dalla 149). I requisiti di cui sopra valgono sia per
l’adozione nazionale che internazionale.
236
Condizioni e procedure per l’idoneità all’adozione:
❖ Chi intende adottare, se in possesso dei requisiti, deve presentare domanda al Tribunale per i minorenni competente per territorio. La domanda decade dopo tre anni dalla presentazione(in precedenza due
anni) e può essere rinnovata.
❖ La legge sull’adozione internazionale, peraltro recepita dalla 184,
prevede per le coppie momenti sia di informazione che di preparazione.
❖ Il tribunale, dopo aver verificato i requisiti, dispone adeguate indagini, ricorrendo ai servizi socio-assistenziali degli enti locali, nonché
avvalendosi delle professionalità presenti nelle aziende sanitarie locali e ospedaliere. Tali indagini devono riguardare in particolare l’attitudine a educare il minore, la situazione personale ed economica, la
salute, l’ambiente familiare degli adottanti, i motivi per i quali desiderano adottare. Devono essere avviate e concludersi entro 120 giorni (in precedenza non erano previste scadenze perentorie); la previsione del periodo entro il quale devono concludersi le indagini (in caso contrario si incorre nell’omissione di atti d’ufficio) esprime l’esigenza del legislatore di favorire le famiglie che vogliono un bambino.
Tale disposizione era stata introdotta dalla legge sull’adozione inter-
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nazionale e poi, con la 149, recepita anche per la nazionale. Non si
capisce tuttavia perché la stessa previsione e obbligatorietà non sia
stata fatta dal legislatore per gli affidamenti familiari, con obbligatorietà delle campagne di sensibilizzazione, termini perentori per la selezione ecc. Da ciò deriva, per i servizi, la necessità, di dare la priorità
alle adozioni rispetto agli affidamenti, per rispettare disposizioni di
legge cogenti.
Apertura del procedimento di adottabilità
❖ Per legge sono dichiarati in stato di adottabilità dal Tribunale per i
minorenni territorialmente competente i minori di cui sia accertata
la situazione di abbandono, perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché
la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore
di carattere transitorio.
❖ Non sono considerate cause di forza maggiore quei comportamenti
che persistono a seguito anche di un rifiuto delle misure di sostegno
e di aiuto. Pertanto la povertà economica non è mai determinante in
via esclusiva per l’adozione, né lo è il ricovero in istituto, se accompagnato da un concreto interessamento nei confronti del figlio. Ciò
può spiegare, almeno in parte, il contenuto numero delle adozioni
nazionali e l’aumento degli affidamenti sine die (dove non c’è possibilità di rientro in famiglia, ma neanche stato di abbandono come
definito dalla legge).
❖ La legge prevede che il minore debba essere sentito nella varie fasi del
procedimento, se ha compiuto i dodici anni e anche se di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimento. Inoltre il
minore che abbia compiuto i 14 anni deve esprimere consenso sia all’affidamento preadottivo che all’adozione. Il procedimento di adottabilità deve svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza legale del minore e dei genitori o degli altri parenti. (È prevista anche la possibilità di
nomina di difensore d’ufficio). Tale disposizione è stata sospesa (con
decreto legge 150/2001 convertito in legge 240/2001) in attesa dell’emanazione di una specifica disciplina sulla difesa d’ufficio, e comunque non oltre il 30 giugno 2002.
Procedure per l’adozione
❖ Conosciuta una situazione di presunto abbandono (chiunque ha la
facoltà di segnalarlo e in specifico ne hanno il dovere gli incaricati di
pubblico servizio e i pubblici ufficiali) su iniziativa del Procuratore
della Repubblica il Tribunale per i Minorenni può dichiarare l’apertura dello stato di adottabilità. A ciò conseguono indagini circa l’esistenza di genitori o parenti entro il quarto grado, che con il minore
abbiano mantenuto rapporti significativi. A conclusione delle indagini e accertamenti di cui sopra, può essere pronunciato lo stato di
adottabilità dal Tribunale, se i genitori e i parenti entro il quarto grado non si sono presentati senza giustificato motivo o se l’audizione
237
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❖
❖
❖
❖
238
degli stessi «ha dimostrato il persistere della mancanza di assistenza
morale e materiale e la non disponibilità ad ovviarvi».
Prima di procedere alla dichiarazione dello stato di adottabilità devono essere sentiti anche gli operatori dei servizi, l’eventuale famiglia
affidataria e il tutore.
Fino a questo punto della procedura i provvedimenti possono essere
sospesi o revocati dal Tribunale stesso, se cambiano le condizioni che
li hanno determinati. Il provvedimento può essere impugnato in
Appello e poi in Cassazione. Durante lo stato di adottabilità è sospeso l’esercizio della potestà, e di conseguenza è nominato un tutore
provvisorio.
Il provvedimento di affidamento preadottivo è successivo a quello di
stato di adottabilità, e consiste nell’abbinamento del minore con una
famiglia. Dura un anno, durante il quale l’inserimento viene seguito
dai servizi territoriali competenti. Può essere revocato, quando vengano accertate difficoltà di idonea convivenza ritenute non superabili; può essere prorogato una sola volta.
Al termine del periodo di affido preadottivo, nel caso di esito positivo, viene pronunciato dal Tribunale il decreto di adozione. Anche in
questo caso è previsto ricorso in Appello e Cassazione. Con l’adozione, l’adottato acquista lo status di figlio assumendo e trasmettendo il
cognome della nuova famiglia; cessano i rapporti di ogni tipo con la
famiglia di origine.
Adozione internazionale
❖ Per quanto riguarda le procedure dell’adozione internazionale, il
Titolo III della legge 184, modificata dalla 149, recepisce integralmente la legge sull’adozione internazionale del ’98 già citata.
❖ Questa legge mirava a superare l’adozione internazionale «fai da te»,
come veniva comunemente indicato il sistema per il quale ognuno
poteva scegliersi liberamente il proprio «intermediario» (un legale,
una associazione di volontariato, un semplice missionario o anche
qualche «affarista», con collaboratori di fiducia all’estero). A questo
sistema era talvolta legato un «mercato» delle adozioni internazionali, in cui si potevano nascondere situazioni a rischio per le coppie
adottive e soprattutto una mancanza di tutela dei diritti dei minori.
❖ La legge, oltre agli attori già presenti (Tribunale e servizi) introduce due
nuovi soggetti (una Autorità centrale e Enti autorizzati), ne regolamenta le funzioni e i rapporti. Gli enti autorizzati devono, tra l’altro, curare
con gli enti locali l’informazione sulle procedure dell’adozione internazionale e sulle concrete prospettive; svolgere le pratiche e procedure di adozione presso le autorità del paese di origine, sia dal punto di
vista amministrativo che tecnico, fino al trasferimento in Italia del
bambino adottato; curare i rapporti con la Commissione per le Adozioni internazionali. L’Autorità centrale, denominata Commissione
per le Adozioni internazionali, ha compiti, tra l’altro, di promozione
dell’adozione internazionale; studio sulle tematiche dell’adozione;
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❖
❖
❖
❖
promozione della cooperazione internazionale in materia di autorizzazione degli enti che ne fanno richiesta; proposta di stipula di accordi bilaterali in materia, con gli Stati che non hanno firmato la convenzione internazionale; autorizzazione all’ingresso e al soggiorno permanente del minore straniero adottato, o affidato a scopo di adozione.
Gli enti locali e i servizi sanitari mantengono le attribuzioni già conferite, e possono svolgere le attività di competenza in collaborazione
con gli enti autorizzati, con esclusione della valutazione dei requisiti
della coppia. Le regioni e le province autonome hanno funzioni di
promozione della formazione, di coordinamento e messa in rete tra
servizi territoriali sociali e sanitari, enti autorizzati, Tribunale.
Possono istituire con legge propria un servizio di adozione internazionale equivalente a quello svolto dagli enti autorizzati.
Per quanto riguarda le procedure, la coppia dichiarata idonea dal Tribunale per i minorenni competente deve conferire l’incarico ad uno
degli enti autorizzati entro un anno, altrimenti l’idoneità scade e deve
essere rinnovata. L’Ente incaricato svolge le necessarie procedure, trasmettendo tutta la documentazione, compreso il provvedimento del
giudice straniero, al Tribunale per i minorenni e alla Commissione centrale. La Commissione autorizza l’ingresso su richiesta dell’ente e la residenza permanente del bambino adottato, in Italia. Il consolato, sulla
base di tale autorizzazione, fornisce il visto di ingresso.
Se all’estero è già pronunciato provvedimento di adozione, lo stesso
assume tutti gli effetti previsti nell’ordinamento italiano. Se invece la
procedura di adozione non è terminata nel paese estero, ma il bambino è affidato dal paese estero alla coppia per adozione, allora si avvia in Italia la procedura di affidamento preadottivo, con le regole
dell’adozione nazionale.
La famiglia che intende adottare un bambino straniero ha dalla legge
alcune agevolazioni, quali poter detrarre nella misura del 50% le spese sostenute per viaggio e permanenza all’estero dalla denuncia dei
redditi e ottenere per quel periodo il congedo non retribuito dal lavoro, nonché tutte le altre normali agevolazioni previste in caso di
adozione (es. astensione obbligatoria i tre mesi successivi all’ingresso del bambino in Italia).
Considerazioni sulla nuova normativa
Risulta evidente, dalle disposizioni della legge 149/2001, una estensione
della possibilità di adottare rispetto alla precedente normativa. Si ritiene che
tale estensione possa essere considerata positivamente, se permette ad un
bambino di avere una famiglia, ma sia discutibile nel momento in cui mira,
di fatto, a «permettere ad una famiglia di avere un bambino». È positiva la
deroga del limite di età, in caso di disponibilità all’adozione di bambino
handicappato o con altri gravi problemi di tipo sanitario, in assenza di altre
coppie con i requisiti richiesti. È discutibile invece l’estensione a 45 anni
della differenza di età, e la presenza di questo requisito anche solo per uno
dei coniugi, se ciò è per consentire ad un coppia non più giovanissima di
avere dei figli piccoli. Infatti non c’è assolutamente, come abbiamo eviden-
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ziato, carenza di famiglia adottive. Queste disposizioni sembrano quindi
contraddire le finalità della legge, che, per le adozioni internazionali, parla
di disponibilità all’adozione e non di domanda, quasi a voler sottolineare i
diritti superiori del bambino rispetto alle esigenze dell’adulto. La previsione
del matrimonio con precedente convivenza stabile è il risultato di un compromesso tra forze politiche, con posizioni diverse nel merito del riconoscimento o meno delle famiglie di fatto.
Per quanto concerne l’adozione internazionale, la ristrettezza dei tempi
previsti per la conoscenza della coppia aspirante da parte dei servizi pare in
contrasto con l’esigenza di rendere consapevole una scelta particolarmente
difficile e non reversibile. Inoltre l’adozione internazionale spesso viene
considerata dalle coppie una scelta surrogata, perché mancano minori dichiarati adottabili sul territorio nazionale, ma è ancor più difficile e complessa, data la situazione e storia dei bambini adottati da paesi esteri. In
tempi ristretti e cogenti, si deve fornire una valutazione di idoneità che vale
«per sempre», non considerando che di bambini spesso maltrattati e distrutti si dovranno occupare gli adottanti, e non di neonati «splendidi e sani». Il fenomeno dei fallimenti, non ancor studiato approfonditamente sia a
livello clinico che statistico e comparativo, è evento «sentinella», che deve
far riflettere, e nel caso di adozioni internazionali potrebbe assumere particolare gravità. Del resto «restituzioni» da parte della famiglia, diagnosi di patologie relazionali, gravissimi reati, atti anticonservativi, sono fenomeni che
si stanno sempre più riscontrando in preadolescenti e adolescenti adottati.
L’organizzazione degli interventi
240
La Regione Piemonte, con direttiva n. 8 del 1986, aveva dato disposizioni circa la costituzione di équipe per le adozioni, da attivare a livello di ciascuna unità sanitaria locale e composte da almeno due operatori socio-assistenziali e uno psicologo. La scelta dell’équipe era determinata dalla necessità di preparare personale con capacità specifiche che, pur non occupandosi solo di adozioni, svolgesse tale funzione in modo significativo, data la complessità dell’intervento e la necessità di mantenere rapporti costanti ed efficaci con altri interlocutori istituzionali, quali il Tribunale per i
minorenni. Venivano definiti compiti di tali équipe:
❖ indagini per la valutazione di idoneità delle famiglie, con relazione
sociale psicologica e secondo i dettami della legge;
❖ preparazione delle famiglie che aspirano all’adozione;
❖ programmazione di momenti di sensibilizzazione;
❖ conduzione di gruppi di sostegno;
❖ supporto al Tribunale per gli abbinamenti;
❖ sostegno e valutazione degli affidi preadottivi.
In attuazione della legge sulle adozioni internazionali, e cercando di
uniformare, ove possibile, interventi e procedure tra adozioni internazionali e nazionali, la Regione, con deliberazione del marzo 2001 n. 27-2549, ha
modificato la precedente direttiva. In specifico, si forniscono disposizioni
circa l’organizzazione dei servizi; si individua il percorso metodologico del
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lavoro delle équipe adozioni e degli enti autorizzati con relative interazioni;
si prevede un percorso formativo per il personale, nonché la predisposizione di un sistema informativo adeguato, utile in particolare per il monitoraggio del fenomeno, ma anche per gli abbinamenti. Si dispone la gratuità degli esami medici per accertare, come previsto dalla legge, l’idoneità fisica, si
definisce uno schema tipo per la predisposizione della relazione per il giudizio di idoneità da inviare al Tribunale.
Per quanto riguarda, in particolare, l’organizzazione si dispone entro un
anno la ridefinizione delle attuali équipe per le adozioni, con riduzione dalle attuali 70 a 22 (una per ciascuna ASL). Si definisce il numero minimo di
operatori: tre assistenti sociali dei servizi socio-assistenziali, di cui due titolari e un supplente e due (uno titolare e uno supplente) psicologi o neuropsichiatri infantili. Gli operatori delle équipe non devono essere a tempo
pieno per questa attività, considerato che a tali profili professionali sono demandate anche altre attività del progetto tutela materno-infantile. Sono definite le ore di impegno di ciascun operatore, per ogni ruolo sociale o sanitario e per ogni intervento previsto (informazione sia alla coppia che in incontri a gruppi con diversi «esperti»/fase istruttoria/fase preadottiva e adottiva). Ogni équipe deve essere dimensionata (fatti salvi i livelli minimi) in relazione al numero di domande pervenute nel 1999.
Per quanto riguarda il ruolo e i rapporti dei vari soggetti gli indirizzi forniti riguardano l’attività di preparazione/informazione rivolta alle coppie, la
valutazione di idoneità dei coniugi, la consulenza e il sostegno nella fase di
inserimento del minore nella nuova famiglia, la valutazione dell’affido preadottivo.
6.8 Valutazioni conclusive
Anche se i bambini hanno diritto a vivere e crescere nella propria famiglia, spesso sono costretti ad abitare in un’altra casa. Queste case si chiamano affidamento familiare, comunità, struttura residenziale compresi i vecchi
istituti, adozione.
Pur essendo migliorata, nel nostro paese in generale e in Piemonte, la situazione dei minori e la loro qualità della vita, si riscontra una significativa
rilevanza del fenomeno dell’allontanamento, che deriva sia da aggravate situazioni di difficoltà (aumento della forbice tra chi è socialmente incluso e i
livelli di esclusione e cronicità assistenziale), sia da maggiore sensibilità sociale ai problemi e diritti dei minori. Vi è una migliore e più capillare rete dei
servizi, che non solo intervengono, ma anche scoprono situazioni altrimenti non conosciute. Pertanto, anche se tutta la normativa indica come prioritario il mantenimento in famiglia, e i servizi si strutturano sempre più in tal
senso, non si riscontra una significativa diminuzione delle situazioni di
«abitazione in altre case». Anzi, alcuni sostengono che in famiglia a rischio
si sta troppo tempo, gli affidamenti e le comunità dovrebbero non essere
l’ultima spiaggia ma avere una funzione preventiva, e si arriva alla soluzio-
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242
ne eterofamiliare, nella preadolescenza e adolescenza, quando ormai è
troppo tardi.
Le condizioni che più richiedono l’allontanamento sono quelle relative
all’abuso e maltrattamento, all’abbandono e trascuratezza grave, allo sfruttamento nella prostituzione, alla tossicodipendenza dei genitori, alle patologie relazionali e a gravi disturbi del comportamento. Spesso tali fattori si
combinano in un quadro multiproblematico. Meno incidenti, in quanto più
aggredibili con interventi di sostegno al nucleo, il disagio, la marginalità sociale, la deprivazione socio-culturale. Gli abusi sessuali sono un fenomeno
emergente (forse anche per la maggiore sensibilità sociale e la conseguente
visibilità) che quasi sempre, specie se perpetrati in famiglia, implicano l’allontanamento. In genere, la collocazione eterofamiliare avviene in comunità, a causa della necessità di intervento immediato, e della difficoltà di trovare una idonea e disponibile famiglia affidataria. O per la inopportunità di
proporre immediatamente un’altra famiglia, e per la necessità di trovare una
risposta più «neutra», a seguito di un trauma profondo, causato proprio da
figure genitoriali. Successivamente, definito il percorso del trattamento, si
possono attivare inserimenti in famiglie affidatarie. Un secondo rilevante
fattore di rischio per gli interventi eterofamiliari, la cui incidenza pare negli
ultimi anni stabilizzata, è costituito dalla presenza di genitori tossicodipendenti di figli molto piccoli. Anche in questo caso, la soluzione più immediata è quella dell’inserimento in comunità, anche se si stanno consolidando o
sperimentando altri interventi, quali l’affidamento a brevissimo termine o
l’affidamento a «rischio giuridico» (a famiglia affidataria idonea all’adozione, nell’ipotesi di un allontanamento definitivo dal nucleo di origine).
Preoccupa l’aumento delle situazioni di gravi disturbi o patologie relazionali in preadolescenti ed adolescenti, a fronte di una assenza, almeno in
Piemonte, di interventi di tipo residenziale. Infatti, nonostante la normativa
nazionale lo preveda, non esistono comunità terapeutiche, né tantomeno
reparti o posti letto ospedalieri per il trattamento delle fasi gravi ed acute. I
minori finiscono nei repartini psichiatrici anche per mesi, secondo quanto
è previsto da una deliberazione regionale, che «tampona» una situazione ormai inaccettabile e insostenibile. Le neuropsichiatrie infantili, competenti
in materia, sono le cenerentole della sanità territoriale, che a sua volta risulta di fatto ben meno considerata, in termini di attenzione e allocazione di risorse, rispetto a quella ospedaliera. I minori «psichiatrici» finiscono per essere inseriti in strutture fuori regione o in strutture socio-assistenziali assolutamente inadeguate per affrontare i loro problemi.
A fronte di questa situazione complessiva di rischio, le risposte «consolidate» sono quelle dell’affidamento, adozione, inserimento in strutture residenziali. Gli affidamenti familiari, regolamentati da una legge dell’83 recentemente modificata, costituiscono una risposta prioritaria, ma nel contempo presentano rilevanti complessità: per i minori, che devono lasciare il
proprio nucleo e andare in un’altra famiglia spesso culturalmente distante e
con abitudini, modalità, relazioni molto diverse; per le famiglie di origine,
che possono vivere come antagoniste quelle affidatarie («se il bambino sta
bene da loro ciò significa che noi non siamo in grado di tenerli ed educarli»); per le famiglie affidatarie, cui viene richiesto di mantenere loro i rapporti con le famiglie di origine, curando la relazione con le stesse; per gli
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operatori sociali, che devono seguire il minore e le famiglie, sia di origine
che affidatarie, garantendo presenza, sostegno e supporto, e non possono
demandare gran parte del lavoro ad altri (come avviene nel caso di inserimento in comunità). Anche attraverso la collaborazione con le famiglie affidatarie e le loro associazioni, gli enti più sensibili hanno comunque potuto
e saputo attivare esperienze significative: sostegno, auto-mutuo aiuto, progetti neonati e autonomia adolescenti ecc.
Per quanto riguarda l’adozione, accanto agli aspetti positivi della legge
sull’adozione internazionale che impone, nell’interesse del minore, procedure più chiare, trasparenti e qualificate, emergono preoccupazioni circa la
maggior possibilità di adozione concessa alle famiglie, in una situazione in
cui il numero dei bambini in stato di adottabilità è di gran lunga inferiore alle domande.
Inoltre, la previsione di tempi di valutazione delle famiglie obbligatoriamente non superiori a 4 mesi, costringe i servizi a dare priorità a questo compito, tralasciando la selezione delle famiglie affidatarie, per la quale la legge
non prevede alcun termine. Forse l’adozione è più importante dell’affido?
Non sembra che l’obiettivo di garantire, in modo più ampio e in tempi più
brevi, un bambino ad una famiglia, tenda a prevalere sul compito di garantire una famiglia ad un bambino? Resta aperto il problema di come abbinare
bambini e famiglie, nel modo più rispettoso ed efficace per entrambi.
6.9 Riferimenti
Normativi
Legge 176/91
di ratifica della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata
a New York il 20 novembre 1989. All’art 34 prevede l’impegno
degli Stati contraenti alla protezione dei minori da ogni forma
di sfruttamento e violenza sessuale.
Legge 66/1996
Abroga i tre reati precedenti di violenza carnale, libidine violenta
e congiunzione carnale connessa con la qualità di pubblico
ufficiale o esercente pubblica funzione. Introduce la fattispecie
unica della violenza sessuale.
Legge 269/98
Apporta modifiche al codice penale, introducendo reati specifici
ai danni di minori e relative pene. Induzione e sfruttamento
della prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione
di materiale pornografico con minori, iniziative turistiche volte
allo sfruttamento della prostituzione minorile, tratta di minori.
243
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Bibliografici
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Zanardi Anna, Il colloquio nell’adozione: strumenti per operatori, Angeli, Milano 1999
244
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COMUNITÀ, TERRITORIO
7.1 Premessa
Le politiche sociali, e la normativa degli ultimi vent’anni, sottolineano la
necessità di deistituzionalizzazione dei minori, e l’importanza di assicurare
la crescita e sviluppo all’interno della propria famiglia quando possibile, e
con l’inserimento in altra, se necessario, ed esperiti tutti gli aiuti e supporti
per il mantenimento in quella d’origine.
Sia la legge 184/83, che la recente L. 149/01 di modifica, affermano la
priorità dell’affidamento familiare rispetto alla comunità e ad altre strutture residenziali, quali gli istituti, a cui il minore viene inviato qualora non sia
possibile l’affidamento. La legge non chiarisce ambiti e limiti di tale «non
possibilità». Si tratta per esempio di mancanza di disponibilità di famiglie, a
causa del numero limitato, o dei gravissimi problemi dei minori (es. handicap grave o problemi sanitari rilevanti), oppure di rifiuto esplicito all’affido
da parte dello stesso adolescente? Oppure ci possono essere situazioni per
le quali è preferibile, rispetto alla famiglia affidataria, una struttura residenziale di tipo comunitario? In altre parole, possono le famiglie affidatarie
sempre e comunque sostituire le comunità, rispetto alle complesse funzioni
dalle stesse esercitate?
Un minore, sia esso bambino o adolescente, che deve essere allontanato
dalla propria famiglia può avere bisogni vari e diversificati, riassumibili nelle seguenti tipologie:
❖ assistenza, cioè accudimento e custodia. È il caso dei minori che devono essere d’urgenza allontanati dalla famiglia, per trascuratezza
grave, o perché le loro famiglie li hanno di fatto abbandonati;
❖ educazione, come aiuto e sostegno allo sviluppo affettivo, cognitivo,
emotivo e relazionale;
❖ tutela. Questa funzione non si limita ad una protezione immediata e
contingente, di tipo «assistenziale», ma cura la prospettiva del futuro,
in una visione progettuale che assume il passato ed agisce nel «qui ed
ora» del presente;
❖ riparazione, qualora il danno e le «ferite» siano profonde, come nel
caso di abusi e maltrattamenti.
Spesso, tutti questi bisogni coesistono, anche se con livelli ed intensità
diversi per ogni singolo bambino o adolescente, e in relazione a periodo e
fase dello sviluppo. Possiamo pensare, all’opposto, che sempre e comunque
le famiglie affidatarie siano in grado di rispondere adeguatamente a tutte
queste funzioni? La critica ad approcci astrattamente ideologici, di tipo «familistico», a fronte di problemi estremamente complessi, non significa immaginare la comunità come alternativa alla famiglia, né non considerarne i
limiti. Per usare una metafora medica, potremmo dire che la comunità è co-
7
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me un «antibiotico», da usare per periodi limitati e in modo mirato. A queste condizioni può far bene, mentre in caso di uso prolungato abbatte «le difese naturali» e può bloccare lo sviluppo.1
7.2 Una storia plurale
La nascita delle comunità alloggio per minori è strettamente connessa
con il profondo cambiamento nelle politiche e nel sistema dei servizi, iniziato in Italia dagli anni Settanta. In particolare queste strutture si connotano come alternativa agli istituti tradizionali, coinvolti nella critica radicale
delle istituzioni totali, uno dei bersagli del «Sessantotto». Com’è noto, anche
in conseguenza dei movimenti di contestazione, in quel periodo vengono
avviati processi di riforma nell’area dei servizi sociali in generale e di quelli
assistenziali e sanitari nello specifico. Si affermano principi quali:
❖ il superamento dell’istituzionalizzazione, e la priorità per interventi
che permettano il mantenimento, l’inserimento o il reinserimento di
individui e gruppi in situazione di emarginazione, nella vita familiare, sociale, scolastica e lavorativa;
❖ la messa a disposizione dei servizi primari, l’integrazione tra gli stessi, e con il volontariato e il privato sociale;
❖ la titolarità della gestione dei servizi socio-sanitari in capo agli Enti
territoriali (in particolare i Comuni);
❖ la partecipazione dei cittadini e delle forze sociali alla determinazione di obiettivi, piani, programmi dei servizi e loro controllo.
246
La traduzione di tali principi in concrete realizzazioni operative ha portato, pur con difficoltà e contraddizioni, in particolare su iniziativa degli Enti
locali, allo sviluppo di una rete di servizi di prevenzione secondaria, all’interno della quale le comunità alloggio assumono un ruolo rilevante.
Le strutture residenziali per minori, nello specifico le comunità, si sono
connotate negli ultimi trent’anni in modo piuttosto differenziato tra loro,
sulla base dei bisogni, dei valori, delle opzioni teoriche ed operative, e delle
risorse delle varie organizzazioni che, negli anni, le hanno attivate e gestite.
Tali organizzazioni sono state, e sono, molto diverse, per origine, cultura e
sviluppo. Si pensi al passaggio dal volontariato al mondo della cooperazione sociale: le prime comunità, attualmente gestite da cooperative, nascono
come iniziative di «volontariato» di persone appartenenti ad enti pubblici o
congregazioni religiose, come, per esempio, i Focolari promossi dal Ministero di Grazia e Giustizia e dall’Associazione nazionale focolari. Si consideri anche un certo ritorno attuale a esperienze di «quasi-volontariato o quasi-servizio», quali le Case famiglia. E ancora, al «valore aggiunto» in termini
di qualità, che il volontariato offre alle comunità gestite da imprese sociali
come attività integrative (es. offerta di possibilità lavorative, famiglie affidatarie ecc.).
Si pensi alla trasformazione degli Istituti, gestiti da IPAB o Enti religiosi, in
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strutture residenziali molto simili alle comunità, con standard strutturali e
gestionali più adeguati; ma anche alla tendenza ad «appaltare», da parte di
IPAB, al privato sociale strutture residenziali storicamente gestite dalle stesse. E ancora, all’interno della cooperazione sociale, la differenza tra comunità intesa come organizzazione di impresa, che gestisce professionalmente
un servizio garantendone trasparenza e qualità, e comunità come organizzazione sociale, in cui è compresente un significativo livello, accanto a quello
professionale, di azione volontaria e promozione del community care.
Tali differenziazioni derivano dalla legittima esigenza di sperimentazione, ma anche dalle caratteristiche dei bisogni e delle situazioni sempre mutevoli. Spesso le caratteristiche delle risorse disponibili ad attivare una comunità ne hanno fortemente condizionato la tipologia e il modello. Oggi
perciò si definiscono come comunità per minori strutture tra loro molto diverse. Per esempio:
❖ istituti ristrutturati e riorganizzati in gruppi alloggio;
❖ coppie che ospitano nella propria abitazione, in affidamento, quattro
minori;
❖ coppie che gestiscono, con l’aiuto di volontari e attraverso un’associazione, case-famiglia, in cui possono essere ospitati da sei a otto
minori;
❖ alloggi in cui abitano minori ultrasedicenni, seguiti da uno o due volontari, con organizzazione a elevato livello di autogestione;
❖ strutture pubbliche o del privato sociale con educatori professionali
«turnanti».2
In una realtà in cui, a nomi diversi corrispondono realtà simili, e a nomi
simili realtà diverse (non solo nell’uso quotidiano, ma anche nelle leggi nazionali e regionali) è necessario fare chiarezza, non per cercare uniformità
fittizie, ma per facilitare confronti e comprensione. Non si tratta di scegliere
modelli, contrapponendoli in termini di migliore o peggiore, ma di contestualizzare ciascun modello, collegandone le caratteristiche a specifiche necessità e bisogni dei minori. Si ritiene inoltre opportuna la circolazione delle esperienze, per un loro scambio a scopi non solo conoscitivi, ma anche
operativi. Infine, perché la diversità sia ricchezza e non caos o arbitrio, è necessario individuare alcuni «paletti» e «regole del gioco», entro le quali agire
peculiarità e creatività di ciascuno. I paletti e le regole del gioco risultano ormai improcrastinabili, sia perché le strutture residenziali per minori e in
particolare le comunità costituiscono una parte legittima (e spesso anche la
più costosa) nella rete dei servizi, sia perché un sistema di strutture «plurali» richiede un governo dei processi.
Questi processi debbono consistere nell’affermazione di un pluralismo
di servizi residenziali, che permetta una reale risposta ai bisogni, in condizioni sempre più differenziate di minori, che hanno necessità temporanea
di protezione e tutela in un ambiente esterno alla famiglia.
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7.3 La normativa
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Le comunità per minori sono ormai ampiamente legittimate a livello
normativo, sia in ambito nazionale che regionale. La legge nazionale n.
184/83 Disciplina dell’adozione e dell’affidamento familiare e successive
modificazioni, recita all’art. 2: «Il minore che sia temporaneamente privo di
un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad un’altra famiglia… o a
una comunità di tipo familiare… Ove non sia possibile un conveniente affidamento familiare è consentito il ricovero del minore in un istituto di assistenza…». La legge esclude la possibilità di inserimento in istituto di bambini inferiori a sei anni e prevede la chiusura degli istituti entro il 2006.
Tuttavia, non chiarisce cosa si intenda per comunità di tipo familiare e per
quali caratteristiche la si distingua dall’istituto di assistenza.
La legge n. 216/91, relativa alla prevenzione e al recupero dei minori
coinvolti in attività criminose, prevede comunità di accoglienza per i minori per i quali si sia reso necessario l’allontanamento temporaneo dall’ambito familiare (art.1). L’ indeterminatezza permane nel provvedimento del 13
luglio 1995: «Documento di linee guida per la realizzazione di interventi urgenti a favore della popolazione minorile» a cura della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome. Vi si
esprime l’esigenza di definire standard di funzionamento delle «istituzioni
di accoglienza» e di promuovere le comunità di tipo familiare. Manca però
ogni riferimento a tipologie, relativamente alle quali costruire questi standard, che permettano di individuare cosa si intende con i termini adottati.
La legge 285/97 prevede, all’art. 4, interventi mirati al superamento del ricovero dei minori negli istituti educativo-assistenziali, anche attraverso l’inserimento in, non meglio definite, «comunità di accoglienza temporanea.»
La bozza di linee guida nazionali per la Qualità dei Servizi residenziali socioeducativi per minori, fornisce invece, pur nel rispetto della potestà normativa regionale, alcuni indirizzi generali e di orientamento. In particolare:
❖ definisce le tipologie consolidate di strutture (Comunità educativa;
Comunità di pronta accoglienza; Comunità di tipo familiare; Gruppo
appartamento);
❖ prevede la sperimentazione di altri modelli;
❖ indica criteri relativi agli standard strutturali, alla capacità ricettiva,
al personale e ai requisiti professionali dello stesso;
❖ prevede il progressivo superamento degli istituti;
❖ individua aspetti strategici di qualità, quali il progetto del servizio, il
piano educativo individualizzato, la partecipazione dell’accolto e
della sua famiglia ai progetti ecc.
Il progetto obiettivo materno infantile, relativo al Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000, prevede strutture semiresidenziali e residenziali ad alta valenza terapeutica per preadolescenti e adolescenti con gravi
disturbi e patologie relazionali e della personalità, indicando anche alcuni
requisiti e standard gestionali. L’atto di indirizzo e coordinamento relativo
all’integrazione socio-sanitaria (Decreto Legislativo 502/92 e successive
modificazioni), prevede strutture residenziali terapeutiche, per minori affet-
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ti da disturbi comportamentali o patologie di interesse neuropsichiatrico.
Le linee di indirizzo (D.P.C.M. 308/2001 ex L. 328/2000) relative ai requisiti
minimi strutturali e organizzativi per le strutture residenziali prevedono,
per i minori, strutture a carattere comunitario con massimo 10 posti letto,
più eventuali due di pronto intervento, oppure gruppi appartamento o comunità di tipo familiare con non più di sei posti.
Dato il quadro sopra indicato, nonché i poteri conferiti dalla recente
normativa alle Regioni, spetta alle stesse individuare con più precisione (anche in presenza di eventuali linee guida e indirizzi nazionali) tipologie, standard e norme di funzionamento delle strutture residenziali per minori. Allo
stato attuale risulta una certa differenziazione, anche terminologica, da regione e regione, con rischi di confusione ulteriormente aggravati dalla recente normativa a livello nazionale. Infatti la legge 149/2001 parla di comunità di tipo familiare e istituti, il D.P.C.M. di comunità di tipo familiare e
strutture a carattere comunitario, che comunque non possono, per le caratteristiche descritte, essere equiparate agli istituti.
Per quanto riguarda il Piemonte, con deliberazione di Giunta del 29 giugno 1992 n. 38-16335 vengono previste per i minori, quali presidi di accoglienza residenziale, le comunità alloggio socio-assistenziali (CASA) e le
strutture comunitarie a carattere educativo; riconducibili, queste ultime, ai
tradizionali istituti, opportunamente adeguati a nuovi standard. Sono invece denominate comunità familiari quelle iniziative caratterizzate dalla presenza stabile in un alloggio di una coppia, che accoglie un massimo di quattro minori soggetti a provvedimento di affidamento familiare, secondo
quanto previsto dalla legge 184/83. Riconoscendo la complessità e variabilità dei bisogni, ma anche la ricchezza delle risorse presenti sul territorio,
con deliberazione n. 24-23032 del 22 febbraio 1993 la Giunta regionale ha
previsto la possibilità che siano attivate strutture sperimentali, quali le casefamiglia, con tipologie non riconducibili a quelle precedenti.
Ad integrazione degli atti regionali di cui sopra, il Comune di Torino ha
attuato, con sue specifiche deliberazioni, un processo di accreditamento
delle strutture residenziali in cui inserisce minori di propria competenza.
Da quanto sopra descritto, emerge dunque il chiaro riconoscimento delle
comunità come strutture fondamentali di accoglienza residenziale per i minori; ma anche l’indeterminatezza normativa a livello nazionale (se pur
«mitigata» dalle linee guida, peraltro aventi potere di semplice indirizzo,
senza alcuna cogenza per le regioni), e la differenziazione tra le regioni stesse, relativamente a tipologie, organizzazione, funzionamento e standard.
7.4 Definizione e tipologie
La molteplicità delle esperienze e della normativa non esclude la possibilità di definire alcuni aspetti delle strutture residenziali per minori, relativamente a obiettivi, caratteristiche e tipologie.
Le strutture residenziali per minori offrono accoglienza, sia per soddi-
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sfare i bisogni materiali che per aiutare ad affrontare i compiti evolutivi e di
sviluppo, acquisire competenze (cognitive, relazionali, di abilità sociale, di
gestione delle incombenze quotidiane), ed elaborare progetti per il futuro.
Risulta dunque centrale in esse la presenza di figure adulte, con funzioni
educative, in grado di:
❖ sviluppare relazioni interpersonali significative a livello educativo e
affettivo, con approcci integrati di ascolto e di normatività;
❖ attivare le risorse dell’ambiente, formali ed informali, per favorire
l’autonomia e i processi di socializzazione/inserimento;
❖ promuovere la crescita individuale, all’interno dello sviluppo del
gruppo degli ospiti.
Gli obiettivi e le funzioni di cui sopra devono essere attuati con strumenti e metodologie fondate sulla progettualità, e individualizzati per ogni
singolo minore. Fondamentale, date le caratteristiche e gli obiettivi di queste strutture, è la dimensione tempo, che deve costituire parte integrante
della progettualità. In caso contrario, si rischia di non adempiere a quella
che è la principale condizione della permanenza in comunità, e cioè la temporaneità. Per quanto riguarda i requisiti generali delle strutture, gli stessi
possono articolarsi in strutturali e gestionali: i primi riguardano l’ubicazione, l’accessibilità, i locali, mentre i secondi attengono a variabili connesse
alle risorse umane e ai processi di lavoro.
Vediamo ora i principali tipi di comunità presenti nella normativa e nell’esperienza regionale.3
Comunità educativa
250
Con questo termine si intende una struttura residenziale per minori, in
cui operano educatori professionali, laici o religiosi, che esercitano la loro
opera in forma di attività lavorativa. Le funzioni proprie delle comunità sono svolte attraverso una organizzazione fondata sul lavoro di équipe. Tale
servizio può essere gestito da tutti gli operatori presenti a turno, e quindi in
modo non continuativo nella struttura; oppure caratterizzarsi come comunità «con operatori residenti» e cioè uno o più educatori che abitano nella
struttura. In ogni caso, tutti fanno équipe educativa, non costituendo la residenzialità, in questo tipo di organizzazione, un fattore determinante per
configurare una posizione di maggiore rilevanza; la residenzialità non comporta, in queste comunità, la presenza continuativa in servizio. Oltre agli
educatori professionali, è previsto personale ausiliario, e possono operare
con funzioni integrative volontari e obiettori di coscienza.
Queste comunità inseriscono minori per i quali si prevede una permanenza per tempi medio-lunghi. In tal caso gli inserimenti avvengono in modo programmato nei tempi e nelle procedure. Le comunità educative possono inserire minori anche con interventi urgenti: si tratta, in questo caso,
di minori conosciuti o seguiti dai servizi, che, per motivi contingenti, necessitano di un inserimento non programmato e per i quali si prevede una permanenza in tempi medio-lunghi.
Le comunità educative possono prevedere due posti al massimo di pron-
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to intervento. Si tratta, in questo caso, di minori non conosciuti e seguiti dai
servizi, per i quali non è possibile, al momento dell’inserimento stesso, prevedere soluzioni successive. Possono essere ospiti anche persone maggiorenni, purché già presenti durante la minore età, per i quali sia necessaria
una permanenza al fine di completare il percorso di autonomia.
Le comunità educative disponibili ad accogliere alcuni minori con handicap medio-grave e/o con problematiche/disturbi/patologie relazionali,
hanno progettualità specifiche e standard più elevati di personale, e sono
definibili come «comunità educative integrate».
Comunità terapeutiche.
Sono strutture residenziali per minori preadolescenti e adolescenti, affetti da gravi disturbi comportamentali, derivanti da patologie psichiatriche
dell’età evolutiva e in fase acuta e post-acuta. In tali strutture gli interventi
terapeutico-riabilitativi e rieducativi devono essere intensi e di periodo medio-breve. Le dimissioni comportano il rientro in famiglia, con i necessari
aiuti territoriali e domiciliari, oppure l’inserimento nelle comunità educative comprese quelle integrate. Queste strutture, assenti in Piemonte in quanto non ancora previste e normate, sono attivate in altre Regioni, con criteri,
organizzazione, modalità di funzionamento e standard molto differenziati.
Comunità di pronto intervento
Sono comunità educative che accolgono minori in situazioni di emergenza, anche accompagnati dalle Autorità di pubblica sicurezza, che hanno
bisogni urgenti di tutela e protezione, e sono in attesa di un’altra collocazione o del rientro in famiglia. Obiettivo di queste comunità è, inoltre, offrire
un sostegno ed una fase di osservazione educativa, al fine di individuare con
la rete dei servizi nel minor tempo possibile la soluzione più idonea. Di norma il tempo massimo di accoglienza è di trenta giorni, prorogabili, per casi
particolari, di altri trenta.
Per quanto riguarda i bambini da 0 a 6 anni, occorre che l’inserimento
avvenga solo se non è possibile altra soluzione; comunque deve essere contenuto per un tempo breve, in quanto è ritenuto assolutamente da privilegiare il rientro in famiglia e, se questo non è possibile, l’affidamento. Ne deriva che, per i minori di sei anni, l’inserimento in struttura residenziale non
può che essere di pronto intervento, e che per questa fascia di età debbano
essere attivate comunità specifiche. Per bambini molto piccoli, e nel caso di
attesa dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile, è possibile il
prolungamento fino a sei mesi.
Comunità di tipo familiare
Con questo termine si intende una struttura educativa residenziale che
si caratterizza per la convivenza continuativa e stabile di due adulti (di nor-
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ma coppia sposata con o senza figli) che risiede presso la struttura. Mentre
nelle comunità educative, i compiti e le responsabilità di crescita dei minori fanno capo ad un gruppo organizzato di operatori che deve lavorare in
équipe, in queste strutture i minori sono affidati a persone che assumono
un ruolo di condivisione totale di vita (spazi/casa; tempo/esperienza; coppia/riferimento genitoriale). Possono essere previste ulteriori figure di supporto, con funzioni anche educative, sia professionali e a rapporto di lavoro
che volontarie, ferma restando la «centralità» della coppia residente.
Gli obiettivi e le funzioni delle comunità di tipo familiare sono simili a
quelle educative, ma in esse assume valenza peculiare e determinante la
presenza residenziale e la condivisione continuativa della vita con i minori
ospiti. Il personale residente pertanto si caratterizza non soltanto per una
scelta professionale, ma anche per un orientamento valoriale di vita.
Una specifica articolazione della comunità familiare, che si riconduce
prevalentemente all’esperienza dell’Associazione Papa Giovanni XXIII di
Rimini, è la Casa famiglia, presente anche in Piemonte.
Struttura residenziale a carattere educativo.
Mentre le tipologie di cui sopra sono previste da tutte le Regioni, questa
tipologia è indicata nella normativa delle Regioni: Piemonte (Struttura comunitaria a carattere educativo), Lombardia (Istituto educativo-assistenziale per minori), Toscana (Comunità educativa). Si tratta, in sostanza, dei
tradizionali istituti, trasformati con standard strutturali e gestionali più
adeguati.
Tali strutture possono ospitare di norma preadolescenti e adolescenti, e
comunque minori di età non inferiore ai sei anni. Il numero di ospiti non
deve essere superiore alle 30 unità. La vita nella struttura deve essere articolata sulla base del piccolo gruppo, cui è garantita un’ampia autonomia nella gestione quotidiana (studio, riposo).
Altre tipologie
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Oltre alle tipologie standard si possono individuare tipologie non ancora diffuse e/o consolidate, relativamente a modelli e standard gestionali.
Le strutture di autonomia si configurano come opportunità per favorire e promuovere una graduale autonomia sia di persone già ospiti di altri
servizi residenziali, e prossimi alla maggiore età, sia di adolescenti per i
quali, pur essendo necessaria una collocazione eterofamiliare, non è opportuno l’inserimento in comunità. Tali strutture sono connotate con denominazioni diverse quali: pensionati giovanili, gruppi appartamento, comunità di risocializzazione/reinserimento. In alcuni casi, come per esempio nella realtà torinese, si sono sperimentati interventi e servizi «a bassa
soglia di accesso» rivolti in prevalenza a adolescenti e giovani extracomunitari anche irregolari.
Le comunità per bambini con un genitore includono:
❖ comunità per gestanti e madre con figlio, ove è necessario supporta-
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re il percorso di inserimento sociale e osservare, verificare, sostenere
la competenza genitoriale;
❖ centri di accoglienza, con caratteristiche di ospitalità prettamente di
tipo abitativo e/o di pronto intervento;
❖ comunità per bambini con genitori tossicodipendenti.
7.5 Strutture residenziali e politiche comunali
Il percorso storico
Con deliberazione del Consiglio Comunale del 14/9/76: «Affidamenti e
inserimenti attuati tramite volontari e comunità alloggio comunali.
Deliberazione istitutiva», la Città di Torino individuava le priorità relativamente agli interventi socio-assistenziali a favore di minori, anziani, handicappati. Nello specifico: messa a disposizione dei servizi primari (asili nido, scuole materne e dell’obbligo, casa, trasporti); assistenza domiciliare di
aiuto domestico ed educativa; assistenza economica; affidamenti educativi di minori; comunità alloggio. Per queste ultime, con riferimento a quelle
per minori a gestione diretta, vennero indicati alcuni criteri e standard di
funzionamento, quale il rapporto uno a due educatori/ospiti, il numero
minimo di quattro educatori, il numero degli ospiti non superiore a 10, la
presenza di almeno un educatore in turno e la compresenza in specifici periodi della giornata ecc.
Il 3/10/78 venne approvata dalla Giunta Comunale la deliberazione:
«Programma per l’istituzione di nuove Comunità alloggio per minori, anziani ed handicappati». Tale provvedimento prevede l’istituzione sul territorio torinese di 7 comunità alloggio di pronto intervento per minori di età
compresa tra 0-10 anni e quattro tra gli 11 e i 18. Vengono definite le procedure di ammissione e dimissione e, per ciascuna tipologia, indicate le
caratteristiche del personale, gli orari di servizio, il numero degli ospiti
ecc. L’adozione di tali atti favorì lo sviluppo di comunità alloggio, sia a gestione diretta (6 servizi) che attraverso affidamento a terzi, prima con trattativa privata e successivamente, dal ’94, tramite appalto concorso (15 servizi). Accanto alla gestione diretta e a quella in appalto permane, e si sviluppa, l’acquisto di «posti» presso strutture con il sistema della «presa
d’atto». In altri termini, la Città inserisce minori in servizi residenziali con
autorizzazione al funzionamento, «prendendo atto» delle condizioni dagli
stessi proposte, relativamente alle prestazioni, all’organizzazione e alle
rette praticate.
Sebbene gli inserimenti di minori dovessero prioritariamente avvenire
prima presso le strutture a gestione diretta, poi in quelle convenzionate e
solo residualmente in quelle a presa d’atto, nella realtà queste ultime hanno
ospitato, rispetto alle altre, più minori in carico al Comune di Torino. Tale
fatto è stato determinato essenzialmente da:
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❖ scarso numero delle strutture a gestione diretta (6) ed in appalto (15),
rispetto alle esigenze (nel ’99 n 690 inserimenti);
❖ presenza di bisogni e condizioni differenziate, che richiedono una
pluralità di strutture qualitativamente diverse tra loro.
Il passaggio dal semplice sistema di «presa d’atto» a quello dell’accreditamento si avvia con l’approvazione della deliberazione quadro del Consiglio Comunale del 9 dicembre 1998, relativa all’affidamento a terzi della
gestione di servizi socio-assistenziali e socio-sanitari. Tale atto individua
l’accreditamento tra le forme di gestione dei servizi affidati a terzi da parte
del Comune di Torino nel settore socio-assistenziale. Questa pratica risulta
particolarmente adatta nell’ambito delle strutture residenziali per minori,
sia in conseguenza dell’elevata presenza di fornitori privati, sia per la necessità di forte individualizzazione degli interventi, difficilmente prevedibili a priori nella loro entità e soprattutto nelle loro caratteristiche qualitative.
Il percorso di accreditamento si è svolto, ed è tuttora in fase di sviluppo
coordinato dagli Uffici del Settore Minori della Divisione Centrale, con ampio coinvolgimento dei Servizi socio-assistenziali delle Circoscrizioni.
Le dimensioni dell’accreditamento
a) Tipologie. Sono state definite 4 tipologie con standard diversi per ciascun indicatore: Comunità alloggio; Comunità alloggio con operatori residenti; Struttura comunitaria a carattere educativo; Casa famiglia.
Oltre alle tipologie di cui sopra ne sono individuate altre, relativamente
alle quali non si ritiene opportuno predefinire standard in quanto necessitano ancora di spazi di sperimentazione: Servizi residenziali per minori 0-5 anni; Accoglienze residenziali per madre con bambino;
Comunità alloggio di pronto intervento per minori 6-17 anni; Strutture
di autonomia; Case famiglia ad utenza mista; Altre strutture sperimentali. Per queste tipologie l’accreditamento avviene su approvazione dei
singoli progetti.
La deliberazione è stata preceduta da un’ampia consultazione con forze
sociali (associazioni di utenti, organizzazioni sindacali), istituzionali (IV
Commissione consiliare), fornitori (Cooperazione, IPAB, Enti religiosi).
b) Definizione di norme di qualità. È stata approvata una bozza di accordo,
sia per regolamentare i rapporti tra Comune di Torino e singolo Ente gestore, sia per definire le principali norme di qualità alle quali il servizio
residenziale si impegna di dare attuazione. Di particolare rilievo risultano i processi educativi proposti.
c) Elenco di fornitori. Con deliberazione della Giunta Comunale del 12
Dicembre ’99 è stato approvato il primo elenco di fornitori accreditati, e
riconosciute per ciascuna struttura le relative rette.
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d) Scelta del fornitore per ogni singolo inserimento. Ogni inserimento è deciso, tra i fornitori accreditati, sulla base delle tipologie, delle caratteri-
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stiche di ciascuna struttura, della condizione del singolo minore.
I criteri generali per la scelta, definiti nella deliberazione di dicembre ’99
sopra citata, sono i seguenti:
❖ specificità della struttura rispetto a condizione e bisogni del minore;
❖ necessità di vicinanza o lontananza dal nucleo familiare e dall’ambiente precedente di vita;
❖ urgenza in relazione ai posti disponibili.
Con la fine del ’99 si sono attuate tutte le fasi di cui sopra, ed è attivato
l’«Accreditamento istituzionale» inteso come creazione e gestione di un albo fornitori sulla base di requisiti e standard sia strutturali che gestionali.
A partire dal 2000 sono state avviate le successive seguenti fasi:
e) Aggiornamento degli standard e delle relative classificazioni. L’accreditamento è, per definizione, un percorso di miglioramento continuo e
non una situazione statica e definita. Ne deriva la necessità di un monitoraggio continuo dell’esperienza, finalizzato alla verifica delle tipologie, degli standard, nonché alla valutazione ed eventuale consolidamento delle tipologie sperimentali attualmente accreditate su specifico
progetto.
f) Costruzione, definizione, valutazione della qualità. L’accreditamento
non può limitarsi ai soli elementi strutturali e gestionali, traducibili in
standard quantificabili ed oggettivabili, ma richiede l’applicazione di
norme di qualità relative ad aspetti strategici, che impongono processi
di definizione, valutazione, miglioramento continuo, ma soprattutto
confronto tra tutti gli attori (Comune, Gestori, Organizzazioni di tutela,
Ospiti e loro famiglie). Allo scopo il Comune ha predisposto un
«Documento sulla qualità» a livello sperimentale in due comunità alloggio a gestione diretta e sta elaborando, di concerto con rappresentanze
dei fornitori accreditati, uno «Schema di processi della Qualità», sulla
base del quale ciascuna struttura dovrà elaborare le «procedure per la
qualità del singolo servizio» (v. par. 7.8.2)4.
7.6 Aspetti di complessità
Le considerazioni fin qui svolte richiamano aspetti di complessità relativi sia a tipologia, strutture e standard gestionali che a bisogni e problematiche delle persone accolte. Ne individuiamo alcuni.
Due tipologie di comunità.
Le tipologie sopra richiamate (comunità educative e di tipo familiare)
presentano caratteristiche strutturali e gestionali molto diverse. Infatti le
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prime sono assimilabili ai servizi professionali e formali di cura, mentre le
seconde sembrano più vicine alle iniziative di sviluppo di comunità. Le prime sono necessarie perché l’esigibilità di diritti di protezione e tutela deve
essere garantita da uno «zoccolo» di servizi, che le azioni volontarie non
possono assicurare sempre e nella stessa misura, proprio perché volontarie
e non soggette a imposizioni istituzionali. Le seconde sono importanti perché testimoniano la presenza di solidarietà sociale, mondi vitali, scelte valoriali e di vita molto significative nella relazione educativa.
Occorre rilevare che le comunità di tipo familiare non costituiscono una
forma di volontariato e solidarietà sociale «pura», ma sono piuttosto dei
«quasi servizi». Si tratta di servizi perché offrono prestazioni in gran parte simili a quelli delle comunità educative, e vengono per gli stessi remunerati.
«Quasi» perché la remunerazione è inferiore all’impegno, e quindi una significativa parte di attività risulta volontaria. Inoltre, date le caratteristiche
degli operatori, esse non sono riproducibili con un semplice atto decisionale di un ente o organizzazione. Infine, dato il fondamento di scelta motivazionale e volontaristica, legittimamente esigono autonomia progettuale ben
superiore a quella prevista per servizi a gestione diretta dell’Ente pubblico o
affidata a terzi.
Da qui le seguenti questioni:
❖ la differenza strutturale e motivazionale tra le due tipologie implica
sostanziali diversità nella gestione, organizzazione, stili educativi?
Queste differenze comportano che le une siano più valide per certi
bisogni e condizioni e le altre per altri? Si può, per esempio, affermare che la comunità di tipo familiare si rivolge a minori che necessitano della presenza di figure stabili e in numero limitato, per strutturare e consolidare il proprio «sé» attraverso processi «forti» di identificazione. Che la Casa famiglia ad utenza mista, e quindi con la presenza di adulti, risulta particolarmente adatta per situazioni (es. handicap grave e abbandono da parte della famiglia di origine) per le
quali non è prevedibile né l’inserimento in altro nucleo né progetti di
autonomia. Che la comunità educativa è adatta per preadolescenti e
adolescenti con rilevanti problematiche familiari, che nel contempo
hanno interiorizzato stabilmente i modelli genitoriali. Sono affermazioni desunte dal buonsenso e dall’esperienza. Manca invece una sistematica riflessione sulla «qualità diversa» delle varie tipologie:
«quali tipi di comunità per quali bisogni e condizioni dei minori».
Peraltro, come tesi di diploma per educatore professionale hanno fatto rilevare l’educatore residente, sempre presente nella comunità‚ è
necessario punto di riferimento organizzativo ma non necessariamente educativo-relazionale per i minori, che spesso «preferiscono»
altri componenti l’équipe (educatori turnanti, o addirittura assistenti domiciliari).
❖ La scelta motivazionale e di vita legittima da sola l’apertura di una
comunità di tipo familiare e la relativa autorizzazione? Quali le garanzie di professionalità, e di formazione iniziale e permanente?
Quali gli standard minimi di funzionamento? Il Comune di Torino, al
fine dell’accreditamento, riconoscendo la base motivazionale della
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scelta, richiede alcune garanzie: l’educatore residente deve almeno
avere il diploma di scuola media superiore, e due anni di esperienza
educativa in strutture residenziali per minori. Per la Casa famiglia occorre almeno il possesso del diploma di scuola media superiore, e
due anni di esperienza educativa in strutture per minori oppure l’idoneità all’affidamento familiare.
Problemi di utenza e inserimento
❖ Pur prevedendo, tra le tipologie, la comunità di pronto intervento,
non è ancora stata avviata una approfondita analisi su queste strutture da un lato e sull’inserimento in pronto intervento di minori nelle comunità educative.
❖ Spesso la decisione di passaggio da una comunità ad un’altra non avviene sulla base di un progetto individualizzato, ma per fattori esterni anche di tipo burocratico-amministrativo, quali per esempio la
conclusione di un ciclo scolastico. Ferma restando la necessità di comunità specifiche di pronto intervento per la fascia da zero a sei anni, occorre riflettere circa l’opportunità di utilizzare quale criterio
non quello dell’età, ma del progetto individualizzato e della compatibilità tra gli ospiti, rispetto a problemi, bisogni, possibilità di comunicare, socializzare, aiutarsi.
Nelle case famiglia, e anche in altre strutture quali le comunità per madre e bambino (comprese quelle terapeutiche per pazienti psichiatrici e tossicodipendenti), è prevista la presenza di adulti, con problemi anche gravi,
insieme ai minori. Per quanto riguarda le case famiglia, tale scelta deriva da
una opzione valoriale di solidarietà ed accoglienza che, attuata nella struttura, può diventare anche un esempio educativo per gli ospiti. È legittimo
però chiedersi quali debbano essere le condizioni e le garanzie perché la
presenza di adulti con gravi problemi non sia di ostacolo allo sviluppo del
minore ospite. Nelle comunità terapeutiche per adulti, il bambino segue il
genitore che lì si reca per curarsi. Anche qui occorre chiedersi, caso per caso, se ciò sia importante al fine di non spezzare legami significativi, o se il
bambino vada semplicemente perché è «terapeutico» per il genitore. Infatti
non si può derogare al principio che il bambino è soggetto di diritti, e non
può essere strumento per nessuno, neanche per i propri genitori. Pertanto,
anche in queste comunità, il minore deve avere le sue attenzioni e i suoi
spazi e non semplicemente vivere in funzione dell’adulto.
La condizione dei minori accolti.
Sebbene non ci siano ricerche sistematiche sull’utenza delle comunità,
è impressione diffusa che gli inserimenti siano sempre più attivati con la logica dell’ultima spiaggia. Si tratta di emergenze che costringono all’inserimento residenziale come soluzione inevitabile, o di un ultimo tentativo dopo anni di lavoro e di interventi non riusciti. Oppure di scelte residuali, perché non si sa cosa altro fare, pur riconoscendo che la comunità non potrà
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essere significativa per un’evoluzione della situazione. Tale logica risulta sostanzialmente mutata rispetto ad alcuni anni fa, quando la comunità era
percepita come condizione transitoria, per prevenire quelle situazioni che
oggi portano agli inserimenti urgenti e alla necessità degli interventi residenziali. Si ritiene, dunque, che la presenza nelle comunità di un’utenza
sempre più problematica sia dovuta ad un aggravarsi delle situazioni di difficoltà ed emarginazione.
L’elemento fondamentale che caratterizza la richiesta e l’inserimento residenziale è dato dal cambiamento del ruolo della comunità, da parte dei
servizi socio-sanitari, della scuola, delle autorità di pubblica sicurezza, dell’autorità giudiziaria minorile. Tale cambiamento deriva dalla maggiore presenza di servizi di sostegno al nucleo familiare e al minore in particolare, e
dalla nuova teoria e pratica del lavoro sociale. Risultano così in aumento gli
inserimenti di adolescenti border-line, senza diagnosi precisa, che hanno
già ricevuto moltissimi servizi, ma anche fallimenti assistenziali, compresi
numerosi soggiorni in comunità. Aumenta la richiesta di inserimento per situazioni molto difficili, per le quali non c’è possibilità di rientro in famiglia
o di autonomia personale dopo il compimento della maggiore età (ad
esempio minori con gravi disabilità, abbandonati e non adottabili). Sempre
maggiori sono gli inserimenti di minori abusati, mentre non si trovano
strutture disponibili ad accogliere adolescenti con patologie relazionali ormai strutturate, o dipendenti da sostanze stupefacenti. Molte comunità
ospitano minori extracomunitari, inseriti in ottemperanza ai compiti di protezione e tutela, ma i cui bisogni potrebbero essere soddisfatti con servizi ed
iniziative diverse.
Occorre forse accettare la sfida di trasformare anche l’ultima spiaggia in
progettualità innovative. Ma ciò comporta ulteriori aspetti di complessità,
di cui alcuni vengono accennati qui di seguito.
Le diversificazioni dei bisogni
I bisogni, sempre più differenziati, richiedono risposte diversificate. Nel
contempo il collegamento con la comunità locale e la presa in carico dei
problemi da parte della stessa risultano strategici per l’esito degli interventi. Pertanto, le comunità devono sempre più considerare la variabile relativa
agli ambiti di intervento,che si connotano relativamente all’accoglienza:
❖ dei minori di una determinata zona, indipendentemente dai bisogni
e condizioni che hanno portato alla necessità dell’inserimento (territorialità);
❖ di minori con problematiche specifiche e comportamenti patologici
già strutturati (terapeuticità);
❖ di minori con problematiche specifiche e/o comportamenti devianti
e patologici non ancora strutturati (specializzazione).
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Relativamente agli ambiti di intervento si possono così prevedere diversi tipi di comunità:
❖ territoriali. Strutture che accolgono minori della loro zona, con un
elevato livello di apertura con la rete e le risorse locali. Il cambia-
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mento dei bisogni e dell’utenza impone una riflessione sull’utilità di
tale servizio;
❖ terapeutiche. Un significativo numero di minori presenta comportamenti e patologie relazionali, o di rapporto con la sostanza già strutturate. In questo caso, un «normale» progetto educativo non innesta
cambiamenti significativi, in quanto gli stessi sono molto difficili e
profondi; è necessario un ambiente più specificatamente «terapeutico». Se questa analisi è condivisibile, occorre allora prevedere comunità «terapeutiche» per specifiche problematiche. Ciò pone alcune
questioni, come per esempio: quali le problematiche di competenza
di queste strutture? Quali gli standard e i requisiti? Chi è titolare della competenza? Chi decide gli inserimenti, con quali procedure e con
quali garanzie, per evitare accoglienze improprie e negative per lo
sviluppo del minore? Le comunità terapeutiche devono essere utilizzate per situazioni molto particolari, a condizioni e con procedure
definite e per un tempo limitato. In caso contrario si favorirebbero risposte scorrette e processi di ulteriore «stigmatizzazione», con le relative deleterie conseguenze a livello evolutivo;
❖ per specifiche situazioni e condizioni. La complessità e la diversificazione delle situazioni e dei bisogni (si pensi per esempio agli abusi)
richiede strutture preparate e competenti su determinati aspetti. Ci si
chiede quali sono gli aspetti che necessitano di competenze specifiche e su cui si potrebbero «specializzare» le varie comunità.
Il problema delle dimissioni
La permanenza in comunità deve essere limitata nel tempo per le motivazioni più volte esposte. Pertanto obiettivo dei progetti quadro e individualizzati deve essere quello di preparare le condizioni per le dimissioni:
rientro in famiglia, affidamento oppure, se si tratta di adolescenti, eventualmente l’autonomia.
Il Comune di Torino dal 1999 ha attivato un percorso di monitoraggio sui
tempi di permanenza nelle comunità. Sono stati definiti quali tempi massimi di permanenza sei mesi per i minori di anni 6, un anno per quelli di età
inferiore ai 10 e due anni per gli altri. Nel caso di «sforamento» da tali tempi
vengono attivate analisi e valutazioni, caso per caso, sulle cause, nonché
sollecitate ai servizi territoriali e supportate progettualità di dimissione. La
prima rilevazione sul fenomeno degli eccessivi tempi di permanenza nelle
strutture residenziali è del luglio 1999. Su un totale di 318 minori presenti inseriti dal Comune di Torino, ben 214 e cioè il 67% superava il limite massimo di permanenza predeterminato. Per 129 di questi era stato definito un
progetto. Per 29 era quello di rimanere nella struttura fino alla maggiore età
(si trattava di adolescenti tra i 15 e 17 anni).
La mancanza di ipotesi di dimissioni è addebitabile a problemi sanitari
gravi, non valutazione al momento delle capacità genitoriali, attesa di provvedimento dell’Autorità giudiziaria minorile, attesa risultanze C.T.U., assenza dell’assistente sociale, difficoltà di presa in carico della neuropsichiatria
infantile. La mancanza di progettualità futura aumenta con l’aumentare del-
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la fascia di età. È bassa nei bambini piccoli (0-5), mentre per la fascia 6-14 anni raggiunge il 50%. Per i bambini piccoli prevalgono le ipotesi di collocazione in altra famiglia (temporanea o a lungo termine, se non definitiva) mentre
per gli adolescenti quelle di vita autonoma e rientro in famiglia. Per l’età intermedia (6-14 anni) si punta molto sull’affidamento, mentre c’è poca considerazione per il rientro a casa. La valutazione sulle competenze genitoriali è
molto severa, in quanto ben il 50% dei genitori sono considerati assenti o «irrecuperabili» e per il 34% si è in fase di valutazione. Questi dati sembrano indicare una scarsa fiducia nella famiglia e nel suo recupero. Ciò non certo per
una posizione «ideologica», ma forse a causa delle situazioni sempre più gravi, rispetto alle quali, come già detto, si ricorre alle comunità.
Significativa, e preoccupante, è la mancanza di progettualità o l’indicazione di collocazione in affidamento (non troppo convinta) per la fascia di
età intermedia. Infatti, mentre per i piccoli è chiara la prospettiva dell’affidamento e per gli adolescenti la vita autonoma o il rientro in famiglia, per
questi bambini sembra mancare una «cultura» delle dimissioni. Pare quasi
che la permanenza segua il percorso scolastico, e che ci sia una difficoltà
culturale, professionale e operativa a progettare il rientro e il supporto alla
famiglia. L’attività di monitoraggio e supporto ha comunque portato ad un
miglioramento della situazione. Nella rilevazione del marzo 2001 gli «sforamenti» sono scesi al 40%, pur confermando, nei dati disaggregati, le informazioni e considerazioni dell’indagine precedente.
7.7 Autonomia e lavoro di rete
L’autonomia come obiettivo
260
Pur essendo l’obiettivo fondamentale del lavoro sociale e quindi anche
delle comunità, occorre rilevare come l’autonomia sia raggiunta con sempre
maggiore difficoltà. Un indicatore significativo è individuabile nell’aumento del periodo di permanenza in struttura, procrastinato, a volte, oltre i diciotto anni. Tale fenomeno, generalizzato in tutta la fascia giovanile, è certo
da attribuire alla difficoltà di reperire un’occupazione, e un’abitazione, da
parte di ragazzi che non possono appoggiarsi alla famiglia di origine.
Peraltro le difficoltà sono aggravate dalla condizione dei minori in comunità, che sempre più presentano problematiche sociali e relazionali complesse e gravi e hanno famiglie compromesse.
Questo pone alcune riflessioni relative a necessità che si presentano ormai come impellenti, soprattutto a riguardo di preadolescenti e adolescenti:
❖ attivazione di nuove strutture, con elevati livelli di autogestione. In
tali «convivenze guidate», il gruppo degli ospiti deve essere in grado
di cooperare per gestire tutte le incombenze domestiche. L’educatore
è presente in modo molto limitato e costituisce un riferimento per
eventuali problemi e un sostegno per gli aspetti relazionali e organiz-
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zativi. Accanto a strutture per l’autonomia è necessario attivare, a cura delle comunità stesse, veri e propri progetti di autonomia al di fuori della struttura, attraverso il reperimento di soluzioni abitative e lavorative;
❖ attivazione di forme diverse di residenzialità per ultrasedicenni. Per
molti adolescenti la tradizionale struttura comunitaria, articolata
con educatori sempre presenti, che turnano e hanno di fatto la responsabilità degli interventi dell’organizzazione e delle attività, finisce non solo per «stare troppo stretta», ma anche per deresponsabilizzare, mortificando le potenzialità di autonomia. In particolare,
questo fenomeno è stato osservato con i minori extracomunitari;
❖ analisi dei percorsi educativi all’autonomia. Se l’autonomia è connessa a risorse ed opportunità esterne al ragazzo e alla comunità,
troppo carente è ancora la riflessione e il monitoraggio dei percorsi
educativi all’autonomia. Va verificato se questi vengano realmente e
consapevolmente perseguiti per tutte le strutture, con quali strumenti e metodologie. Quali siano i fattori che favoriscono processi di
assistenzialismo e autoreferenzialità. Quanto sopra deriva dalla constatazione di come alcune comunità abbiano ultradiciottenni al loro
interno, mentre per altre tale fenomeno sia pressoché irrilevante.
Il sostegno alla famiglia
Il sostegno alla famiglia, finalizzato alla valorizzazione e al recupero delle competenze genitoriali, è esercitato in modo ancora insoddisfacente dai
servizi, per una serie di motivi che potrebbero essere così sintetizzati:
❖ carenza di personale dei servizi socio-sanitari territoriali che, dati i
carichi di lavoro, finiscono per «parcheggiare» i minori in comunità,
delegando tutte le competenze agli educatori che in esse operano;
❖ carenza culturale, derivata da un’idea della famiglia più come problema che come risorsa, e da politiche sociali tradizionalmente mirate ad intervenire su singoli membri, e non a favore del nucleo nel suo
complesso;
❖ insufficienza, in gran parte conseguente a quanto sopra, di strumenti teorici e operativi e relativa formazione degli operatori, per il recupero della genitorialità, delle sue risorse e competenze.
Questi fattori favoriscono la tendenza, sempre presente nelle organizzazioni e quindi anche nelle comunità, all’autoreferenzialità, al sentirsi indispensabili e a «tenersi» i minori, perché se rientrano in famiglia peggiorano
e quindi «si perde tutto il lavoro fatto».
Peraltro occorre interrogarsi se il rapporto con la famiglia, nel senso del
recupero delle funzioni genitoriali, sia competenza esclusiva dei servizi territoriali, mentre la comunità deve occuparsi del minore. Certo non è semplice lavorare con la famiglia, quando i minori arrivano in comunità con
provvedimenti per abusi, maltrattamenti ecc.; ma dove gli educatori hanno
posto come obiettivo questo impegno, i risultati spesso sono stati positivi.
Occorre fare in modo che la famiglia non senta la comunità come antagoni-
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sta. Gli educatori non sono «genitori buoni», e così non devono essere percepiti, ma dei professionisti che aiutano nelle competenze genitoriali.
Spesso gli educatori in questo percorso sono soli, perché gli altri attori hanno posizioni e progetti diversi, non si interessano, non hanno tempo. Allora
la comunità diventa il solo luogo, anche per i genitori, in cui puoi essere
ascoltato per i tuoi problemi. Ma se la comunità si accolla da sola un compito non suo, corre evidenti rischi di invasività, che la distolgono dai compiti cui deve assolvere.
L’apporto della comunità locale
Se le strutture residenziali non possono risolvere tutti i problemi, anche
il ricorso alla comunità locale e ad altre istanze e organizzazioni del sociale risulta alquanto problematico per gli operatori. Riconoscere la comunità
locale come competente ad affrontare i problemi significa riconoscere che
essa può avere rappresentazioni della realtà, obiettivi, idee di soluzioni e
intervento anche diverse dalle proprie. Significa fare un lavoro di rete che
non sia strumentale, e non credere di essere i detentori del sapere sociale,
pretendere di imporre il proprio punto di vista, voler ottenere ciò che si desidera. Implica una grande disponibilità, tutt’altro che scontata, a mettersi
in gioco.
In secondo luogo, spostare le competenze sulla comunità locale, da parte delle pubbliche amministrazioni, significa attuare azioni e volontà di valorizzazione reale e non strumentale (ad esempio, utilizzo del volontariato e
delle solidarietà sociali, per un ritiro, almeno parziale, dalle responsabilità
e/o per diminuire i costi dei servizi). In terzo luogo significa avere strumenti amministrativi e finanziari molto flessibili e «spostabili» in relazione ai bisogni e ai progetti. Come promuovere cultura e occasioni di accoglienza e
solidarietà nella società, come funzione attinente alle responsabilità politiche, amministrative e tecniche delle pubbliche amministrazioni?
Di fronte alle difficoltà di presa in carico da parte della comunità sociale, le organizzazioni che gestiscono comunità cercano di rispondere ai problemi dei minori ospiti attraverso soluzioni tutte interne all’organizzazione
stessa. Tale impegno, necessario e positivo, deve però evitare il rischio di indurre dipendenza della persona dall’organizzazione. In caso contrario, si finirebbe per ricreare lo spirito dell’istituto anche se in forme diverse, ossia di
un’organizzazione «mamma», che al suo interno tutto offre.
7.8 La qualità delle strutture residenziali
Il rapporto pubblico-privato
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Nel sistema di welfare mix che caratterizza le attuali politiche sociali, anche per le strutture residenziali risulta strategica la definizione del rapporto
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tra pubblico e privato. Attualmente i rapporti contrattuali si attuano attraverso le procedure dell’appalto o dell’acquisto di parte del servizio, con un
processo, denominato accreditamento, da rivedere alla luce della recente
normativa(Dlgs 229/99 e Legge 328/2000). Nella prima accezione, tale termine indica la possibilità di acquisto da parte di un Ente pubblico di parte
di un servizio fornito da privati iscritti ad un albo fornitori. L’iscrizione a tale albo comporta la presenza di specifici requisiti strutturali, gestionali e di
qualità. Nell’accezione più recente, per accreditamento si intende l’attestazione rilasciata da un Ente pubblico a un gestore privato di servizi sociali,
sia esso commerciale che non lucrativo; tale attestazione indica che il produttore segue le norme, gli standard e i livelli di qualità prestabiliti, per poter accedere a rapporti contrattuali con l’Ente pubblico al fine di esercitare,
su delega, pubblici servizi. È quindi condizione per la partecipazione ad appalti o per l’acquisto, da parte degli Enti pubblici, di parte del servizio.
Il rapporto pubblico-privato nella gestione dei servizi, e delle strutture
residenziali per minori in specifico, pone vari nodi di complessità, tra i quali si possono accennare i seguenti.
a) Autorizzazione al funzionamento, accreditamento e livelli di competenza. La normativa attuale nell’ambito sanitario e sociale distingue l’autorizzazione al funzionamento, quale requisito della struttura per poter
esercitare una attività sul mercato privato, dall’accreditamento che presuppone l’autorizzazione, ma richiede ulteriori requisiti, per poter accedere a contratti pubblici. La stessa normativa definisce competenza dello Stato la determinazione dei livelli e standard minimi per l’autorizzazione al funzionamento. Spetta alle Regioni la definizione di requisiti ulteriori per l’autorizzazione al funzionamento, nonché la competenza
circa i criteri per l’accreditamento (Legge 328/2000 sui servizi sociali).
Spetta ai Comuni l’autorizzazione al funzionamento delle strutture e
l’accreditamento delle stesse.
Al momento attuale, per quanto riguarda le strutture residenziali per minori, gli standard nazionali sono poco definiti e, come già detto, si limitano ad indicare il numero massimo di minori ospiti consentito o il numero di persone per camera. Nel contempo per la Regione Piemonte è
ancora in vigore una deliberazione (38/92) che definisce i requisiti strutturali e gestionali della strutture residenziali per minori, ormai assolutamente inadeguata per la realtà attuale. Non esiste inoltre alcuna indicazione di criteri per l’accreditamento da parte dei Comuni. Le stesse carenze sono da riscontrarsi nel comparto sanitario, che non prevede e
norma le comunità terapeutiche per minori, previste invece dalla normativa nazionale.
b) Accreditamento e requisiti ulteriori. La normativa nazionale, con quelle
regionali e in specifico della Regione Piemonte, non chiarisce cosa si intenda per requisiti ulteriori. Si potrebbero intendere semplicemente
standard superiori di tipo strutturale, tecnologico e gestionale (es. ampiezza locali, numero del personale, strumenti utilizzati ecc.), oppure
aspetti di qualità, quali l’applicazione di norme strategiche di qualità e
definizione delle procedure, documentazione e controlli ecc.
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c) Controllo e valutazione. Con il termine controllo si intende il processo di
verifica degli standard e degli adempimenti previsti. È evidente come il
controllo non sia sufficiente, soprattutto in servizi alla persona caratterizzati dalla fornitura di prodotti che sono strumenti per il miglior benessere possibile del cliente. Nel lavoro educativo la qualità non può
semplicemente essere ricondotta a procedure predisposte da qualche
Ente certificatore, che applica norme ISO standardizzate.5 La vera educazione, che per definizione è cambiamento nella relazione tra persone,
mal si adatta a standardizzazioni, ma richiede riflessioni ed azioni, che
considerino e sappiano convivere con la sua straordinaria complessità.
Livelli della qualità
Dal punto di vista del concetto di qualità, l’accreditamento per le strutture residenziali per minori può essere analizzato a più livelli.
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Requisiti per il funzionamento
Sulla base di criteri a livello nazionale, le Regioni indicano quali servizi
sociali devono possedere specifici requisiti, ambientali e gestionali, per il
funzionamento. La definizione si può articolare in tipologie di servizi, e per
ciascuna in indicatori e relativi standard. La funzione pubblica è di verificare la presenza di tali requisiti in sede di prima autorizzazione, e il controllo
di tipo ispettivo circa il permanere degli stessi. Con questa autorizzazione il
servizio può funzionare sul mercato privato (inserimento e pagamento da
parte di privati), non ancora su quello pubblico, che invece richiede l’accreditamento. L’autorizzazione al funzionamento pertanto non si identifica
con l’accreditamento, ma ne è un prerequisito.
Nello specifico delle strutture residenziali, abbiamo già visto come i prerequisiti siano ancora poco definiti a livello nazionale, e molto diversificati
da Regione a Regione. La determinazione e la presenza di condizioni oggettivamente definibili, e verificabili anche attraverso standard di tipo quantitativo, non garantisce la qualità, ma ne è prerequisito. Per esempio, in una
comunità alloggio per adolescenti, qualora il personale sia turnante, il numero di educatori non si ritiene possa essere inferiore a cinque, ma neanche
superiore a sette. Nel primo caso non sarebbe possibile garantire nessun tipo di serio lavoro educativo, nel secondo l’eccessivo numero di operatori
avrebbe lo stesso effetto, per l’impossibilità di instaurare rapporti interpersonali significativi.
Nel contempo la presenza di standard troppo rigidi può essere di vincolo all’esercizio della qualità: si pensi ad un requisito quale il titolo di educatore professionale per poter lavorare in una comunità alloggio, in una situazione di mercato in cui l’offerta di educatori diplomati è inferiore alla domanda. In presenza di una progettualità che prevede anche operatori residenti, e quindi una «mission» della struttura che considera fondamentale la
condivisione totale di vita con gli ospiti, ancorché temporanea. In una professione educativa, quanto il titolo di studio può, di per sé, essere considerato requisito esclusivo ed escludente chi non lo possiede, ma ha indubbie
capacità ed esperienze educative e relazionali?
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Requisiti applicativi
Per quanto riguarda lo specifico delle strutture residenziali, si ritengono
aspetti strategici di qualità i seguenti:
a) Progetto educativo generale: documento con il quale l’Ente gestore definisce il servizio che intende svolgere, in relazione alle esigenze dei fruitori reali e potenziali della struttura, alla normativa vigente, alle indicazioni degli Enti committenti e preposti alla vigilanza e valutazione.
b) Progetto quadro: riguarda il progetto generale per il minore e coinvolge quindi tutte le professionalità e i servizi che hanno in carico il caso
singolo. Tale progetto deve contenere:
❖ obiettivi specifici educativi per il minore in comunità, da attuare tramite il progetto educativo individualizzato;
❖ obiettivi del lavoro con la famiglia di origine, e/o con la famiglia affidataria e/o adottiva e/o per soluzioni di autonomia;
❖ definizione di modalità, strumenti, procedure, attività, servizi competenti, con relative fasi e tempi per l’attuazione degli obiettivi;
❖ modalità e relative fasi e tempi di verifica.
c) Progetto educativo individuale: riguarda il progetto specifico per il singolo minore, da attuarsi a cura della struttura residenziale; deve contenere:
❖ modalità, strumenti e procedure di osservazione;
❖ obiettivi generali e strumentali, e relative attività ed interventi per il
minore e il suo sviluppo evolutivo;
❖ attività ed interventi nel contesto e per la sua modifica; di particolare rilevanza risulta l’ambiente familiare qualora il progetto preveda il
rientro a casa;
❖ indicazioni delle fasi e dei tempi del progetto, con particolare attenzione alle prospettive e al piano per le dimissioni (rientro a casa, affidamento familiare, adozione, vita autonoma);
❖ modalità e procedure di autovalutazione e di valutazione, con gli
operatori dei servizi che hanno in carico il singolo minore.
Requisiti specifici
A parità di requisiti per il funzionamento e applicativi di norme di qualità, ogni servizio può possedere specificità, che lo rendono qualitativamente non migliore o peggiore, ma diverso dagli altri. Così una comunità può risultare più adatta per minori stranieri, un’altra per adolescenti abusate,
un’altra per preadolescenti «border» ecc. La «qualità diversa» può essere definita sia a livello delle varie tipologie che all’interno di ciascuna tipologia.
Le diverse tipologie comportano modelli gestionali ed organizzativi
molto differenziati, tali da renderle più o meno adatte, relativamente a specifiche condizioni, bisogni e caratteristiche dei minori. In altri termini, quale è la «qualità diversa» di una comunità di tipo familiare rispetto ad una comunità educativa o ad una comunità con educatori residenti?
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La qualità può risultare diversa anche tra servizi della stessa tipologia.
Ciò peraltro non deve essere considerato un limite, bensì una ricchezza,
data dalla differenziazione di condizioni e bisogni dei minori. Si pensi a
variabili quali: difficoltà psicologico-relazionali rilevanti (border-line);
condizioni di dipendenza da sostanze; eventi traumatici (abuso e maltrattamento); condizioni socio-culturali (nomade/straniero); fase evolutiva
(bambino, preadolescente, adolescente); genere ; condizione familiare
(presenza di genitori e progetto di rientro o necessità di inserimento in altra famiglia o di autonomia). La presenza di queste variabili implica che l’
«essere particolarmente adatti per...» non sia un presupposto, o una mera
affermazione contenuta nello statuto dell’Ente gestore,ma un compito
perseguito con metodologie e strumenti specifici, nonché valutato dalla
struttura e dal committente. In relazione alla condizione e ai bisogni del
minore, la «qualità diversa», legata alla tipologia o «all’essere particolarmente adatto per», varrà a definire la scelta di inserimento tra le diverse
strutture accreditate.
Dilemmi della qualità
Come risultato
In un processo di produzione di beni materiali, spesso il risultato si identifica con il prodotto, mentre per quelli relazionali ciò non è quasi mai possibile. Infatti nella produzione di beni relazionali ciascun prodotto è una
possibile (non sicura) precondizione per il raggiungimento di un risultato.
Per esempio, in una comunità alloggio gli educatori hanno previsto ed agito
attraverso il piano educativo individualizzato, procedure per l’acquisizione
di abilità sociali da parte dell’adolescente. Il raggiungimento di tale obiettivo è uno dei prerequisiti per il risultato dell’autonomia personale, ma può
essere vanificato dal non perseguimento di altri, non dipendenti dagli educatori stessi, quali il reperimento di un’abitazione e di un lavoro.Nel lavoro
sociale, scambiare il prodotto per il risultato può essere utile per operazioni
di immagine o di marketing, ma non riguarda l’efficacia degli interventi.
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Come cooperazione o concorrenza
Nel sistema di welfare mix che si sta sempre più consolidando nei servizi sociali, il modello prevalentemente perseguito sembra essere quello del
«mercato amministrato», fondato sulla competizione (si auspica in base alla qualità) tra fornitori di servizi e sulla scelta da parte dell’Ente pubblico di
quello più «conveniente». L’aspetto di complessità consiste nel fatto che
spesso nei servizi alla persona, per l’efficacia degli interventi è necessaria la
solidarietà e la collaborazione tra i produttori, mentre i meccanismi di competizione possono invece ridurla.
Come attuare il miglioramento della qualità in un sistema di mercato sociale che richiede nel contempo concorrenza, solidarietà e cooperazione? Nell’esperienza torinese, per esempio, si sta avviando un percorso di confronto e
concertazione sugli aspetti di qualità tra l’ente pubblico e tutti i fornitori.
Nell’ambito delle strutture per mamma-bambino, è già attivo a questo scopo
un coordinamento tra Comune di Torino, imprese sociali, volontariato.
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Come valore aggiunto.
I processi di esternalizzazione, in un sistema di mercato amministrato,
comportano contratti di scambio, e cioè corresponsioni in denaro a fronte
della fornitura di prodotti. É possibile in questa realtà pensare ad una qualità intesa come valore aggiunto, che trascende lo scambio? Una qualità che
promuova risultati in termini di cambiamento a livello simbolico/valoriale/culturale/ cognitivo, e non si limiti alla semplice erogazione di prestazioni «materiali» e produzioni di «cose»? Per esempio, relativamente ad una comunità alloggio, una qualità non monetizzata/monetizzabile potrebbe essere la capacità del servizio di realizzare una vita autonoma per un adolescente ospite o il suo inserimento in una famiglia affidataria.
Come soddisfazione
Ultima nell’elenco, ma prima per importanza, la soddisfazione del cliente rimane troppo spesso, nei servizi sociali, la «cenerentola» delle dimensioni della qualità. Peraltro essa risulta molto difficile da perseguire, non solo
per il fatto che i clienti sono diversi, e con interessi spesso diversificati e difficilmente conciliabili (es. minore, genitori, operatori, assessore, funzionari,
giudici del tribunale, avvocati di parte ecc.). Qualità, nei servizi socio-educativi, è saper convivere con i paradossi, perseguire il massimo possibile e
non quello desiderato, saper curare, non negare la sofferenza.
Queste affermazioni sono da ribadire con forza, perché a volte si ha l’impressione che dentro molti discorsi sulla qualità si insinui un tecnicismo
pervasivo (se non anche un business), che fa dimenticare gli aspetti valoriali ed esistenziali, di sapienza e non solo di sapere, che sono centrali nell’agire educativo.
7.9 Dalle strutture ai servizi
Premessa
In una comunità alloggio di preadolescenti, durante una «riunione» con
i ragazzi viene fatto un gioco: si chiede a ciascuno come vorrebbe la comunità. Il primo afferma che vorrebbe, al mattino, un educatore in livrea, che
gli porti un’abbondante colazione con diverse varietà di cibi. Un altro concorda, però aggiunge che vorrebbe all’esterno una piscina con parco, per
prendere il sole e un campo di calcetto. E così via. Alla fine, un ragazzo afferma che vorrebbe ci fosse un incendio, bruciasse tutto, per convincere il
giudice a farlo ritornare a casa.
Questa «storia» ci riporta alla questione fondamentale: tornare a casa oppure rimanerci. Gli interventi descritti, di sostituzione temporanea della famiglia, non possono prescindere né essere scollegati con quelli che mirano a
prevenire l’allontanamento e favorire il rientro. Accanto alla rete di servizi
per tutti e alla loro messa a disposizione per i minori e famiglie in difficoltà,
occorre la presenza di interventi specifici per il sostegno, l’aiuto e l’inseri-
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mento sociale. Accenniamo, di seguito, ad alcuni interventi «consolidati», e
ad altri di tipo sperimentale, evidenziando i relativi aspetti di complessità.
Servizi consolidati e progetti sperimentali
Educativa territoriale
É un’attività rivolta a minori con difficoltà familiari e di inserimento sociale che necessitano di un sostegno educativo. Si attua all’esterno delle
specifiche strutture socio-assistenziali, e privilegia la collaborazione con la
scuola, la famiglia, i laboratori artigianali, i luoghi di tempo libero, attraverso la presenza dell’educatore negli ambiti di vita della persona seguita. È attività prevista dalla Regione Piemonte tra gli interventi socio-assistenziali.6
Centri diurni
Questi servizi rispondono ad esigenze e bisogni di minori, di norma
preadolescenti e adolescenti, che si trovano in situazione di grave difficoltà
rispetto al proprio ambiente di vita, ma per i quali non è opportuno un allontanamento dal nucleo familiare. Le attività si svolgono, prevalentemente
il pomeriggio, in una sede specifica, con personale educativo.7
Affidamenti familiari diurni.
Questo tipo di affido è una forma volontaria di sostegno al minore e alla
famiglia, da parte di singoli o famiglie, e differisce dall’affidamento residenziale, in quanto non prevede la permanenza continuativa del minore con
l’affidatario. L’intervento deve avvenire su progetto specifico del servizio sociale e con verifica periodica. I criteri di idoneità dell’affidatario diurno sono simili a quelli del residenziale. Gli affidi diurni sono attivati per:
❖ minori che necessitano di essere seguiti in attività educativo-scolastiche e di inserimento sociale;
❖ situazioni in cui, per il minore, è necessario sostenere anche la famiglia;
❖ minori adolescenti a rischio grave, che rifiutano l’affido residenziale.
L’affidamento diurno può avvenire a casa del nucleo affidatario, di quello affidante e sul territorio per l’inserimento sociale. Non è previsto affidamento diurno a parenti.8
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Iniziative di tipo innovativo sono attivate in Piemonte, anche a seguito
dell’applicazione della legge 285/97, con funzioni integrative o di sperimentazione. Alcune di queste iniziative dedicano particolare attenzione all’intervento per la valorizzazione, sostegno, recupero ma anche valutazione
della genitorialità. Altre sono rivolte a chi non ha problemi (o meglio è in
grado di affrontarli), ma esprime potenzialità di aiuto. Infatti i servizi di sostegno assumono maggiore efficacia in un contesto di comunità locale attenta ai problemi; troppo spesso ci si dimentica della solidarietà diffusa, delle risorse latenti presenti in molti «che stanno bene» e della conseguente necessità di curare i «curatori naturali». Il catalogo delle iniziative sperimentali è fornito nella scheda A.
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Scheda A – Iniziative sperimentali a Torino
a) Servizio sociale presso il Tribunale ordinario sezione separazione e divorzi.
Questo Servizio, gestito in convenzione con la Provincia di Torino e il Ministero
di Grazia e Giustizia svolge compiti di raccordo e coordinamento tra Servizi sociali territoriali e Autorità giudiziaria (Tribunale Ordinario) e supporto ai Servizi
stessi, in materia di decisioni da assumersi nei provvedimenti di affidamento
dei figli nel corso delle procedure di separazione o divorzio dei genitori.
b) E.T. 0-10 anni.
Tradizionalmente l’educativa territoriale si rivolge a preadolescenti ed adolescenti con lo scopo di favorirne l’inserimento sociale. Dal ’99, attraverso uno
specifico progetto collegato alla legge 285/97, è stata avviata una sperimentazione di intervento a sostegno del nucleo familiare con bambini. Ciò ha implicato non solo una implementazione ma anche una innovazione nelle normali
attività dell’E.T.
c) Assistenza domiciliare.
Il progetto intende sperimentare il servizio relativamente ai nuclei con minori. Ha lo scopo di supportare e accompagnare nella quotidianità i genitori in situazione di particolare deprivazione socio-culturale e ambientale, ad esercitare le proprie funzioni anche di tipo pratico e materiale nei confronti dei figli. Si
è pertanto provveduto dal ’99 ad estensione di contratto in quattro lotti già appaltati di servizio domiciliare, con lo specifico obiettivo di interventi a favore
di nuclei con minori
d) Formazione assistenti domiciliari per i minori.
Al fine di sostenere la sperimentazione di cui sopra, sono stati organizzati due
corsi di formazione permanente, specifici per assistenti domiciliari dipendenti dell’Amministrazione comunale e in convenzione, che seguono o si prevede
seguiranno nuclei con minori, per un totale di circa sessanta operatori.
e) Promozione gruppi di auto-mutuo aiuto.
Il progetto prevede la formazione di «facilitatori» per la gestione di gruppi di
auto-mutuo aiuto formati da genitori e/o adolescenti e la successiva attivazione degli stessi. Nel 2000 si sono attivati, a cura di altrettante organizzazioni del
privato-sociale, 3 corsi.
f) Formazione alle problematiche dei minori.
È un progetto che mira alla sensibilizzazione e alla formazione del volontariato relativamente alle problematiche dei minori con particolare attenzione a
quelli in difficoltà socio-culturali e familiari. Tra il ’99 e il 2000 si sono attivati
14 corsi presso altrettante organizzazioni del privato sociale.
g) Luoghi neutri.
È uno spazio protetto opportunamente attrezzato in cui i minori, allontanati
dal nucleo di origine o affidati ad un solo genitore in sede di separazione, possono incontrare gli adulti significativi della propria famiglia. In questa sede
può anche aver luogo l’incontro fra figli e genitori, quando questi ultimi non
dispongono di domicilio stabile o adeguato.
È inoltre possibile condurre osservazioni su minori che necessitano di trattamenti terapeutici. Sono stati attivati 5 luoghi neutri, in collaborazione con le
ASL, gestiti da personale comunale di tipo educativo. Si prevede che seguano
più di 300 nuclei l’anno.
segue
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h) Provaci ancora SAM.
Da diversi anni la Città, in collaborazione con le Scuole, il Provveditorato, alcune associazioni e la Compagnia di San Paolo è impegnata sul tema del recupero della dispersione scolastica e della prevenzione della stessa. Tale iniziativa ha coinvolto un numero crescente di scuole e di ragazzi (126 nel 1999/2000)
con problematiche di inserimento sociale. Si articola in: conseguimento della
licenza media da parte di minori che hanno superato l’età dell’obbligo attraverso i Centri territoriali per l’educazione permanente degli adulti (ex 150 ore
- attualmente 5); recupero della licenza media per quelli nella fascia dell’obbligo; sperimentazione di un intervento preventivo nelle classi prime e seconde di una scuola media.
i) Sostegno e accompagnamento solidale.
Si tratta di un progetto mirante a promuovere una rete di persone (prevalentemente giovani) facenti parti di associazioni, disponibili alle funzioni di «tutor»
nei confronti di minori con difficoltà non gravi e temporanee di inserimento
sociale. Questo progetto, avviato nel ’99, ha visto la partecipazione di oltre 20
organizzazioni, coinvolgendo più di trecento ragazzi. Nella seconda fase di
sperimentazione si è deciso di prestare particolare attenzione a quelle proposte che prevedano sostegno e coinvolgimento della famiglia.
l) Progetti in collaborazione con le ASL.
Dal 2000, tramite specifiche convenzioni, sono avviati i seguenti progetti ed attività:
ASL 1:
• Attività di valutazione della relazione genitori-bambini soggetti a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile.
• Sensibilizzazione e informazione in materia di maltrattamenti e abuso a
danno dei minori, rivolto a personale della scuola dell’obbligo.
• Supervisione, per il Servizi sociali e sanitari, relativamente ai minori coinvolti in situazioni di abuso e maltrattamento.
ASL 2:
• Consulenza e mediazione familiare. È un servizio gestito dalle ASL 2 e 3,
con psicologi, sulla base di un rapporto convenzionale con l’Amministrazione comunale. Consiste nell’aiuto a coppie con figli che si trovino in
difficoltà nella relazione di coppia e/o che intendono separarsi. Ha lo
scopo di sostenere ed orientare la coppia nella rielaborazione delle proprie problematiche di relazione, con l’aiuto di una persona esterna ed
esperta, e favorire scelte il più possibile condivise, anche al fine di poter
meglio gestire la relazione con i figli.
• Sostegno a gravidanza e primi anni di vita per fasce a rischio.
ASL 3:
• Consulenza e mediazione familiare.
• Prevenzione dei danni psichici del maltrattamento e abuso al minore.
ASL 4:
• Sostegno alla gravidanza e alla prima infanzia nella popolazione extracomunitaria.
• Presa in carico di minori soggetti a maltrattamenti ed abusi.
I limiti dell’efficacia
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I servizi e le iniziative domiciliari e territoriali hanno negli anni agito in
modo sostanzialmente soddisfacente, pur scontando, in particolare quelli
consolidati, due limiti particolarmente significativi che ne hanno diminui-
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to l’efficacia. Il primo è quello del rischio di delega da parte della famiglia
ai servizi. I problemi relativi a uno o più figli tendono ad essere spostati e
assunti dai servizi che ne diventano quindi «titolari e responsabili», piuttosto che «aiutatori, sostenitori e facilitatori» per la soluzione. Il secondo,
causa ed effetto nel contempo del primo, è quello di una eccessiva «centratura» sulla persona problematica, piuttosto che sulla famiglia nella sua globalità e complessità. Molte energie sono «spese» per togliere il bambino/ragazzo da casa, inserendolo nelle più svariate attività di socializzazione e del tempo libero. Occorre osservare che, per i bambini, casa non significa soltanto abitazione, ma famiglia, e in particolare genitori. Quasi sempre
un bambino sta bene, nella misura in cui i genitori sono in grado di offrire
relazioni positive e significative. Relazioni che instaurino sentimenti e rappresentazioni di sicurezza, autonomia, appartenenza, stima, ascolto, affetto. A sua volta il genitore può offrire ciò che ha ricevuto e sperimentato come figlio nella relazione con i propri genitori e familiari in genere. Se questo
è vero, che senso ha chiedere ad un padre e ad una madre di dare accoglienza, sicurezza ecc., se non l’ha avuta o sperimentata da bambino? Che
senso ha chiedere di aiutare i figli a chi sta male e ha bisogno di essere ascoltato e aiutato? Ciò non significa affatto che non c’è più speranza, ma piuttosto che questi genitori devono poter sperimentare nella relazione con chi li
aiuta adesso (operatori, ma anche volontari) questi «sentimenti e rappresentazioni», per poterli poi dare anche ai propri figli.
Casa, quindi, non significa semplicemente abitazione. E la casa, di per sé,
può essere un inferno e una prigione, e ben lo sanno i bambini vittime di
abuso e violenza. Significa, per i servizi e gli operatori, soprattutto aiuto e cura di chi deve aiutare ed avere cura. Sostegno alle persone in quanto tali, con
le loro difficoltà. Per questo motivo, è strategico non tanto creare nuovi servizi, ma promuovere una riconversione, culturale e tecnico professionale, di
quelli già esistenti. Riconversione culturale, perché i concetti sopra accennati non sono nella realtà così scontati ed evidenti; riconversione tecnico professionale, perché «aiutatori familiari» non ci si improvvisa, ed è certo più
agevole aiutare la famiglia accompagnando ed inserendo il bambino in ambiti esterni alla stessa, che non aiutare i genitori ad esercitare le loro competenze e valorizzarne le risorse. Troppo spesso, le famiglie in difficoltà sono
«utenti» dei servizi senza possibilità di scelta, e l’operatore può essere per loro «incompatibile»; basti pensare a variabili quali quella dell’età e del genere.
Ricordo un signore che, dopo avermi chiesto un appuntamento, mi disse:
«l’assistente sociale potrebbe essere mia figlia. Certe cose a lei non mi sento
proprio di dirle». O quella mamma, che accettò a casa sua la presenza di una
assistente domiciliare quarantacinquenne, ma non dell’educatrice poco più
che ventenne, dalla stessa invece ritenuta adatta per far fare i compiti e portare all’oratorio i figli. La riconversione infine richiede non solo di «reperire
risorse», oltre al fare direttamente, ma anche e soprattutto di «averne cura».
Tanti servizi ed interventi (forse troppi)
Antonio è stato inserito in una comunità, come misura alternativa alla
custodia cautelare in carcere, a seguito di un presunto grave reato. Ha appe-
271
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 272
na compiuto i 14 anni (età minima per essere imputabile) ed è conosciuto e
seguito da tempo dai Servizi. Presenta una lieve insufficienza mentale, e
problematiche relazionali, con episodi di aggressività in famiglia. Dal punto
di vista della storia con i servizi, i genitori ed Antonio hanno conosciuto
molte, troppe persone, in questi quattro anni.
Si potrebbe quasi dire, che più i suoi problemi aumentavano, più aumentavano e cambiavano gli operatori. Prima una assistente sociale, poi
un’altra, che, a seguito del trasferimento, è stata seguita da una terza. Nel
contempo, l’intervento terapeutico è stato condotto da uno psicologo e successivamente, a seguito del suo trasferimento, c’è stata una significativa interruzione. È stato poi «preso in carico» da una psicologa. Nel frattempo andava a scuola, regolarmente seguito da insegnante di appoggio con «normale» turnover. Nell’ambito del territorio era seguito da un sacerdote, e poi
da un volontario in affidamento diurno. Aumentando i problemi, è stato affiancato da una educatrice di territorio, e in famiglia è stata inserita una assistente domiciliare, sostituita poi da un’altra, per trasferimento della prima
e poi da una terza. All’inizio il terapeuta aveva «lavorato» con Antonio e la
famiglia per «convincerli» ad un inserimento in comunità. La terapeuta successiva aveva tentato di supportare la mamma, nella prospettiva di una permanenza di Antonio in famiglia. Adesso, non per scelta ma per legge, è in
comunità.
La gravità dei problemi porta a progetti così «altalenanti», con effetti
spesso drammatici. Dobbiamo perciò interrogarci su quanto incidano processi di «iatrogenesi», prodotti da servizi che presentano:
❖ ampia articolazione degli interventi e difficoltà di coordinamento degli stessi;
❖ mancanza di figure unitarie e «forti», che rappresentino un riferimento principale per la famiglia e il minore in difficoltà, all’interno
della pluralità di interventi e servizi messi in atto;
❖ mancata individuazione di una regia, e di responsabilità di coordinamento e decisione.
272
A fronte di tali complessità, anche nei servizi socio-assistenziali e sanitari emerge la necessità di un approccio di «case management»,con una gestione delle singole situazioni problematiche fondata sulla connessione ed
ottimizzazione delle risorse-prestazioni provenienti da svariate fonti esterne (pubbliche e private, professionali e volontarie). Una metodologia di lavoro sul caso, attraverso la costruzione di «pacchetti di interventi e percorsi
personalizzati», che connettono più attori e risorse, in una rete di opportunità plurali per bisogni individualizzati.
Il case manager diventa quindi l’operatore perno, responsabile/titolare
del singolo caso, con funzioni di regia delle risorse, ma anche di decisione.
Se l’approccio di rete fa ormai parte della cultura dei servizi, si è invece offuscata, in nome del lavoro di équipe e della condivisione, la cultura della
decisione, posta in capo ad un professionista individuato come «titolare del
caso». E ciò anche per la presenza di operatori che, le responsabilità, talora
preferiscono distribuirle, perché non siano in carico di fatto a nessuno, e di
organizzazioni che sembrano ancora troppo orientate al compito piuttosto
che agli obiettivi.
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 273
7.10 Conclusioni
In questo capitolo sono state analizzate le strutture residenziali per minori e in particolare le comunità nei loro vari aspetti. È stata evidenziata la
loro pluralità organizzativa, gestionale, strutturale e di modelli educativi;
pluralità positiva, perché permette di rispondere a bisogni differenziati, che
non può scaturire dallo spontaneismo senza alcuna regolamentazione, ma
richiede una definizione di modelli, tipologie, indicatori e standard, gestionali, strutturali e di qualità. In tale direzione molto occorre ancora fare, per
applicare la recente normativa, che prevede competenze nel merito da parte delle regioni e dei comuni, all’interno di linee guida nazionali. Le complessità relative a tali strutture afferiscono a diversi livelli, così come molte
sono le sperimentazioni e iniziative locali volte a superarle. Basti ricordare:
❖ il raccordo tra standardizzazione di modalità gestionali-organizzative e bisogni sempre più complessi e differenziati;
❖ il rapporto tecnico-amministrativo tra enti titolari delle competenze
e privati che gestiscono le strutture, in particolare gli aspetti relativi
all’autorizzazione al funzionamento e all’accreditamento. Relativamente a quest’ultimo, è di particolare rilievo la questione della
qualità, intesa sia come prerequisiti che come applicazione di norme
strategiche e «mission» specifica;
❖ la sempre maggiore gravità della situazione dei minori inseriti, e le
difficoltà di dimissioni degli stessi, sia relativamente al ritorno in famiglia che per altre soluzioni quali l’affido o l’autonomia;
❖ la necessità di inserimenti di pronto intervento, e la difficoltà di gestione degli stessi, in un ambito educativo progettuale a medio-lungo termine per gli altri ospiti.
Gli interventi, sia consolidati che sperimentali, per dare «un’altra casa»
al bambino che non può stare nella propria, non possono essere scollegati
da quelli miranti specificatamente a prevenire l’allontanamento e favorire il
rientro. I principali interventi di questo tipo, con particolare riferimento alla realtà ed esperienza torinese, presentano aspetti di complessità, quali: la
ancora scarsa attenzione alla famiglia in quanto tale, piuttosto che al singolo soggetto con problemi; l’articolazione, spesso eccessiva, degli interventi e
degli operatori e lo scarso coordinamento; il rapporto tra servizi essenziali e
azioni di volontariato, e la definizione dei rispettivi ruoli e competenze; il
rapporto tra servizi a gestione pubblica diretta e servizi privati che assumono funzioni di rilevanza pubblica.
La rete di sostegno alla famiglia e al minore sul territorio, la sua articolazione e capillarità, ma soprattutto l’efficacia e l’efficienza che si ottiene affrontando gli aspetti di complessità sopra richiamati, sono condizioni assolutamente necessarie, se si vuole che la maggior parte dei bambini e degli
adolescenti che hanno detto «se posso sto a casa mia ma…» ci stiano nel miglior modo. E anche se si vuole che quelli per i quali il «ma..» è così forte, da
rendere necessario l’allontanamento, possano nel minor tempo possibile e
nella maggiore quantità possibile dire «adesso torno a casa».
273
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7.11 Riferimenti
Statistici
Strutture residenziali educativo-assistenziali in Italia e in Piemonte e minori ospiti
(al 30/6/1998)
in Italia
Strutture
Minori
ospiti
Minori
per strutture
Minori per
1000 abitanti
1.802
14.945
8,3
1,5
1.011
(1.123 al 31/12/99)
6,8
1,6
in Piemonte
149
Minori inseriti dal comune di Torino in strutture residenziali
Anni
Interventi
Minori
1993
682
662
1994
679
657
1995
667
633
1996
728
687
1997
685
665
1998
730
655
1999
838
713
2000
847
706
2001
898
751
Strutture residenziali nella città di Torino (al 31/12/2000)
Comunità alloggio a gestione diretta
5
Comunità alloggio gestite per conto della
Provincia di Torino
5
Comunità alloggio in appalto
1
Strutture residenziali in accreditamento
Servizi a bassa soglia
87
12 (per un totale di 113 posti)
Bibliografici
274
AA. VV., Educare in comunità. Progetto educativo e qualità dell’intervento, C.N.C.M.,
Firenze, 1992.
Barbanotti G., Iacobino P., Comunità per minori, Carrocci, Roma, 1998.
Bastianoni P., Chi vive in Comunità, un profilo dell’utenza, C.N.C.M., Firenze 1992.
Bastianoni P., Educare in comunità, la comunità nelle parole e nelle azioni degli educatori, C.N.C.M., Firenze, 1994.
Blanc V., Tosco L., Il progetto come processo educativo, «Animazione Sociale», 6-7/2000.
Bouchard M. (a cura di), Quando un bambino viene allontanato, Angeli, Milano, 1997.
Canevaro A., La formazione dell’educatore professionale, N.I.S., Roma, 1991.
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 275
Gabrielli G. (a cura di), Crescere in comunità, Comunità edizioni, Capodarco di Fermo,
1999.
Ghezzi D., Valdilonga F., La tutela del minore, Cortina, Milano, 1996.
Groppo M. (a cura di), L’educatore professionale oggi, Vita e pensiero, Milano, 1990.
Kaneklin C., Orsenigo A., Il lavoro di Comunità, N.I.S., Roma, 1992.
Macario G. (a cura di), Comunità per minori e progetto educativo, C.N.C.M., Firenze,
1992.
Miodini S., Zini M.T., L’educatore professionale, La Nuova Italia, Firenze, 1992.
Tosco L., Professione Educatore, Angeli, Milano, 1994.
Tosco L., Politiche sociali e Comunità per minori, «Animazione sociale», 10/97.
Tosco L., Intenzionalità e limite nel lavoro sociale, «Animazione sociale», 3/98.
Tosco L., Le Comunità per minori, leggere il plurale, «Animazione sociale», 10/98.
Tosco L., Le Comunità per minori, governare il plurale, «Animazione sociale», 11/98.
Tesi di diploma per educatore professionale
Bruno F., Tripodi C., Ancora assistenza?, rel. Manuela Olia, Scuola Firas.
Cerniglia M, Comitini M., Comunità con operatori turnanti e comunità con operatori residenti: due modelli a confronto, rel. Luciano Tosco, Scuola SFEP.
De Paoli G., La supervisione nelle Comunità alloggio per minori, rel. Luciano Tosco,
Scuola Firas.
Giordano P., Ingrosso L., Funzioni e professione educativa in diversi modelli di accoglienza residenziale per minori, rel. Luciano Tosco, Scuola Firas.
Lamanna G., Pisano G., Comunità per minori: Organizzazione e Qualità, rel. Cesare
Vigliani, Scuola Firas.
Leardini I., Lombardi G., Il Piano educativo individuale, la verifica e le dimissioni nella
progettazione educativa, relatore Vanda Blanc, Scuola Firas.
Magaglio D., Veglia G., «Quale Qualità». Accreditamento delle Comunità alloggio per
minori, rel. Luciano Tosco, Scuola Firas.
Sabia M., Nuovi modelli di accoglienza residenziale per minori, rel. Luciano Tosco,
Scuola Firas.
Segalin C., «Il Ponte» Una Comunità alloggio, relatore Tosco Luciano, Scuola Firas.
Note
1. Una ricerca condotta nel 1998 dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di
Torino su bambini 0-14 mesi, in due comunità alloggio della Provincia che ospitano
bambini 0-3 anni, ha valutato con vari indicatori di sviluppo (motorio, cognitivo, comunicativo, affettivo) la situazione degli ospiti, raffrontandola con quella di un «gruppo campione» che vive nella propria famiglia.Ne è emerso come, per i bimbi in comunità, lo sviluppo motorio sia inferiore; lo «stile comunicativo» diverso, e cioè più
attento a influenzare il comportamento dell’adulto per i propri scopi, ma meno nel
mantenere l’interazione sociale. Il temperamento risulta più passivo, insofferente, poco partecipativo in situazioni in cui è richiesta una prestazione specifica. Rispetto all’attaccamento, i comportamenti di «discriminazione» sono meno forti: i bimbi sorridono di più all’estraneo, ne hanno meno paura, cercano meno la persona conosciuta. Tali deficit possono essere attribuibili non semplicemente alla permanenza in comunità, ma alla situazione familiare pregressa di grave deprivazione socio-culturale
e relazionale e alla condizione del gruppo di controllo, che fa parte di livelli socioculturali più alti. In ogni caso è risultato evidente, anche sulla base delle osservazioni/rilevazioni degli educatori, come, dopo una prima fase di sviluppo a seguito dell’inserimento nella struttura (per un indubbio miglioramento della situazione), si ri-
275
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 276
2.
3.
4.
5.
6.
7.
276
scontri un periodo di «blocco», e successivamente, in genere dopo gli otto mesi di
permanenza, di regressione.
Ad oggi è ancora difficile conoscere con esattezza le dimensioni e le segmentazioni
di tale realtà. Non ci sono infatti dati precisi, e il Rapporto ministeriale del 1997 non
costituisce che una stima, relativamente ad un campione di 700 comunità. Un primo
elemento che emerge è che la maggioranza (più del 60%) si rivolge a preadolescenti ed adolescenti, forse perché è la fascia con più richiesta in quanto i problemi, intesi come comportamenti difficili, «scoppiano» spesso in tali periodi e meno sono le
risorse alternative disponibili. L’altro elemento che emerge è la notevole difformità
territoriale. Infine pare si stia affermando una gestione privata (spesso di cooperative
sociali) con motivazioni imprenditoriali/professionali e con un significativo livello di
concorrenza. Il tutto in un contesto di regole ancora poco definite, relativamente a
requisiti, standard e rapporti con gli Enti pubblici titolari delle competenze in materia di protezione e tutela dei minori. Altri dati sono forniti dal Centro nazionale di
Documentazione ed Analisi dell’Infanzia e dell’Adolescenza: delle 1802 residenze,
censite al giugno 1998, 514 sono le residenze che hanno una disponibilità di posti
superiore a 15, e 217 quelle che ospitano effettivamente più di 15 persone.
È stata presa in particolare considerazione la normativa delle Regioni:
• Emilia Romagna: D.G.R. n.1980 del 28 giugno 1977 relativa a direttive sulla vigilanza e controllo su istituti e servizi per minori e Deliberazioni del Consiglio regionale n.777 e n. 779 del 10 dicembre 1997, relative ad indirizzi per la definizione delle tipologie di intervento sociale a favore di minori nell’ambito socio-assistenziale e
direttive sui requisiti strutturali e funzionali dei presidi socio-assistenziali per minori;
• Lombardia: Legge del 7 gennaio 1986 relativa alla riorganizzazione dei servizi socio-assistenziali; Deliberazione del Consiglio regionale del 23 dicembre 1987 di
Piano regionale socio assistenziale;
• Piemonte: D.G.R. 38-16335 del 29 giugno 1992 e 24 del 1993 sui presidi socioassistenziali e su quelli sperimentali;
• Toscana: Consiglio regionale 20 marzo 1990: «Schema di regolamento per la determinazione dei requisiti di idoneità delle comunità per minori»;
e i documenti delle Associazioni:
• Coordinamento nazionale delle Comunità per minori (C.N.C.M.): Linee guida;
• Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (C.N.C.A.): Carta della qualità
per i minori.
Prime valutazioni sulla realizzazione del processo di accreditamento nell’ambito del
Comune di Torino sono forniti dall’indagine Le strutture socio-assistenziali nel Comune di Torino: il processo di accreditamento nelle valutazioni dei soggetti coinvolti, in Progetto Agopolis, Energie e spazi per rigenerare la città, Città di Torino, Forum
Terzo settore, Torino, 2001, pagg. 53-60.
Con le norme attuali, il produttore certificato ISO non riesce ad attestare la qualità sociale a cui tende il sistema qui indicato. Per questo è importante che l’Ente nazionale di normazione UNI stia emanando norme di settore, nel quadro delle ISO 9001,
specifiche per i diversi servizi del comparto sociale. In tale direzione l’UNI ha recentemente elaborato le norme specifiche per le strutture residenziali per minori. In
questo scenario, «qualora le regioni riconoscano la certificazione volontaria come un
requisito per l’accreditamento, alcuni compiti di controllo saranno affidati al sistema
privato di certificazione e l’attestato per l’accreditamento verrà rilasciato con la sola
verifica dei requisiti aggiuntivi eventualmente richiesti dalle norme regionali e nazionali». In questo caso i controlli in carico all’ente pubblico diminuiscono, permettendo allo stesso di «concentrarsi» sugli aspetti di valutazione e di qualità.
Per quanto riguarda la Città di Torino, l’Educativa territoriale è normata da una specifica deliberazione quadro del Consiglio comunale. Il servizio è gestito direttamente e tramite appalto concorso.Dal ’96 ad oggi, il servizio in appalto (13 lotti) è stato
potenziato, passando da un monte ore mensile pari a 8900 alle attuali 11.600, con
un incremento di educatori da 56 a 72. Tale incremento è stato possibile anche grazie al finanziamento della legge 285/97. Anche l’educativa territoriale a gestione diretta ha segnato un aumento di personale tramite un recente concorso.
Contestualmente è prevista una riorganizzazione del servizio, attraverso l’individuazione di compiti specifici e differenziati rispetto all’educativa in convenzione. Per
quanto riguarda gli interventi, dal ’96 ad oggi si è registrato un incremento della presa in carico dei minori di circa trecento unità (da cinquecento a ottocento circa).
A Torino, fino al ’98 i centri diurni erano 11, in appalto o «a presa d’atto». Dal ’99,
accanto ai tradizionali centri diurni educativi, sono stati attivati centri diurni aggregativi (attraverso specifico progetto e finanziamento ex lege 285/97) caratterizzati
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dall’inserimento presso realtà esistenti che perseguono finalità ed obiettivi generali di
socialità e aggregazione (polisportive, oratori ecc.).Tutti questi servizi sono privati, e
il rapporto con il Comune di Torino è regolato dal sistema dell’accreditamento in vigore dal 2000. Attualmente i Centri diurni accreditati (educativi e aggregativi) sono
21 e coprono i bisogni dell’intera Città. Il numero dei minori inseriti risulta in costante
aumento (196 nel ’99).
8. Da una analisi condotta nel 2000 gli affidamenti diurni attivati dal Comune di Torino
risultano essere 236 al giugno dello stesso anno. Possiamo distinguere quelli di tipo
educativo, mirati principalmente al sostegno del minore in prevalenza all’esterno della famiglia, e quelli che prevedono il supporto al nucleo. I primi si caratterizzano per
una prevalenza di riferimento al singolo minore, con un rapporto di tipo individualizzato. Danno la priorità all’inserimento sociale e al recupero scolastico, si svolgono in prevalenza all’esterno dell’abitazione sia dell’affidante che dell’affidatario.
Sono gestiti da volontari singoli, appartenenti a gruppi e associazioni del territorio,
nonché da studenti, in particolare delle scuole per educatori e del corso di laurea in
scienze della formazione.
I secondi si caratterizzano per un intervento di sostegno al nucleo di origine e avvengono in prevalenza presso lo stesso, oppure presso il nucleo dell’affidatario, con
il compito di sostenere il minore affettivamente e nella gestione delle incombenze
quotidiane personali, in un clima familiare, qualora non sia opportuno né possibile
la presenza presso la casa del minore stesso.
Nel 38% dei casi l’intervento avviene nella casa dell’affidatario, nel 27 % in quella
della famiglia di origine e nel 35% dei casi all’esterno. Gli affidamenti diurni sono a
singoli nel 64% dei casi, a famiglie nel 36%. Per il 61% gli affidati sono maschi di
età compresa tra i sei e i quattordici anni. La durata, al momento della rilevazione, è,
nel 40% dei casi tra sei mesi e un anno, nel 29% di più di due anni, per il 19% tra
un anno e due anni, per il 12% meno di sei mesi.
277
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IMMIGRAZIONE E MARGINALITÀ
Per minori stranieri si intendono sia i minori nati fuori d’Italia, che provengono da un’area da emigrazione esterna all’Unione Europea (Est Europa, America, Africa e Asia) talora in condizioni di clandestinità e sfruttamento,o per ricongiungimento famigliare; sia i bambini che, essendo nati in
Italia da famiglie con almeno un genitore immigrato, vivono e crescono a
Torino.1 Nella tendenza generalizzata all’incremento della presenza straniera, il Rapporto della Commissione per l’Immigrazione evidenzia come l’aumento del numero delle famiglie complete e regolari determina l’incremento dei minori «di seconda generazione», che sono nati in Italia e vengono socializzati ai modelli culturali della società italiana.
2
8.1 Minori stranieri in Piemonte e a Torino: alcuni dati
8
Per il citato Rapporto, gli stranieri soggiornanti regolarmente in Italia sono 1.490.000, di cui l’88% proveniente da paesi non comunitari. Ciò pone
l’Italia al quarto posto fra i paesi dell’Unione Europea per incidenza di cittadini stranieri sul proprio territorio. Al primo gennaio 2000, su 1.270.553 stranieri residenti in Italia (pari al 2,2% del totale della popolazione residente),
i minorenni ammontavano a 229.849 unità (pari al 18,1% del totale della popolazione straniera residente). Il Piemonte è al sesto posto tra le regioni italiane, con 92.768 cittadini stranieri residenti, di cui 46.708 in provincia di
Torino, il 35% concentrato nel capoluogo(dati ISTAT). I minori sono la componente di popolazione che registra l’incremento più marcato: solo dal 1999
al 2000 il numero dei minori stranieri è aumentato di circa 43 mila unità, di
cui 21.175 nati e quasi 22 mila nuovi immigrati, giunti in Italia attraverso il
ricongiungimento familiare. Per il Piemonte, i nuovi nati incidono per oltre
il 2% sui residenti stranieri.3
Considerando l’incidenza di stranieri per province italiane, si osserva
che in Piemonte solo la provincia di Torino figura fra le prime dieci province italiane per il numero di minori stranieri. Le prime province per numero
di minori sono Milano e Roma, ciascuna con più di 20.000 presenze; seguono Brescia e Torino con oltre 8.000, Vicenza, Firenze, Verona e Bologna con
6.000 e Treviso e Vicenza con 5.000 presenze. Risalta, in questa graduatoria,
la predominanza del Nord Est, con ben cinque province.
278
Per quanto riguarda la provincia di Torino, disponiamo dei dati relativi ai
comuni con oltre 10 mila abitanti (Tabella 8.1).
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Tabella 8.1 – Minori stranieri nella popolazione dei Comuni della provincia
di Torino (Torino città esclusa)
Pop.
totale
Di cui
Minori
Stran
Min
Min/str.
(%)
Min str./
Min.res.(%)
Alpignano
17.214
2.809
120
20
16,67
0,71
Avigliana
10.977
1.764
172
27
15,70
1,53
Beinasco
18.337
2952
165
30
18,18
1,02
Borgaro.Tse
12.660
2514
98
12
12,24
0,48
Carmagnola
24.845
4326
270
43
15,93
0,99
Caselle
15.404
2773
118
28
23,73
1,01
Chieri
32.954
5255
464
93
20,04
1,77
Chivasso
23.992
3790
294
59
20,07
1,56
Ciriè
18.412
2954
158
24
15,19
0,81
Collegno
47.702
7232
588
186
31,63
2,57
Cuorgnè
10.012
1593
164
45
27,44
2,82
Giaveno
14.473
2198
241
45
18,67
2,05
Grugliasco
39.890
6311
251
40
15,94
0,63
Ivrea
24.409
3252
415
82
19,76
2,52
Leini
12.113
2156
69
11
15,94
0,51
Moncalieri
57.024
8249
1220
264
21,64
3,20
Nichelino
47.077
7796
430
83
19,30
1,06
Orbassano
21.702
3697
149
43
28,86
1,16
Pianezza
11.387
1.832
95
9
9,47
0,49
Pinerolo
34.081
4.766
443
86
19,41
1,80
Piossasco
15.852
2356
98
12
12,24
0,51
Rivalta T.
17.776
3139
189
42
22,22
1,34
Rivarolo C.se
12.187
1939
169
45
26,63
2,32
Rivoli
51.996
8721
355
60
16,90
0,69
Santena
17.610
2865
171
18
10.53
0,63
Sanmauro T.se
10.237
1867
104
23
22,12
1,23
Settimo T.se
47.267
7764
305
46
15,08
0,59
Venaria Reale
36.038
6688
216
29
13,43
0,43
Vinovo
13.659
2304
90
15
16,67
0,65
Volpiano
13.068
2499
76
11
14,47
0,44
Totale dei 30
comuni
730.655
118.361
7697
1.531
19,89
1,29
Fonte: Provincia di Torino, Concerto 2
La popolazione minorile straniera in tutti i comuni conta 1.531 unità, di
cui 111 sono dell’Unione Europea e 1420 extracomunitari. Rispetto al 1998,
la popolazione straniera è cresciuta indistintamente in tutti i grandi comuni della provincia di Torino (eccetto Moncalieri e San Mauro), con un incre-
279
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 280
mento medio del 15%. In alcuni comuni (Moncalieri, Cuorgnè, Collegno,
Ivrea, Rivarolo) la percentuale dei minori stranieri rispetto ai minori residenti supera decisamente la media. Nel complesso, la popolazione straniera è decisamente più giovane rispetto a quella residente: mentre nella popolazione totale la percentuale di minori si attesta sul 16%, per quella straniera sfiora il 20%.
Rispetto a Torino, dove il fenomeno dell’immigrazione straniera minorile risale più addietro nel tempo ed è relativamente pìù conosciuto, nelle altre province piemontesi l’incremento registrato nella quota di minori immigrati è più recente, e alla sua emersione può avere contribuito la legge 40/98
sulla immigrazione.
Famiglie e scuola
La presenza dei minori nelle strutture familiari dipende anche dalla modalità di costruzione e gestione del percorso migratorio. Le famiglie che immigrano «come tali» sono meno frequenti rispetto alle famiglie ricongiunte,
dove l’uomo, che di norma parte per primo, organizza il ricongiungimento
dei propri famigliari; anche se ultimamente vi sono più numerose donne
che intraprendono «l’avventura migratoria», vedendo nell’Italia uno sbocco
consistente per il lavoro domestico. La tipologia più diffusa tra gli immigrati è «la famiglia nucleare di tipo tradizionale»(male bread winner), seguita
dalla famiglia nella quale entrambi i coniugi lavorano e collaborano al budget economico. In alcune comunità (ad esempio la cinese) è piuttosto frequente la famiglia comunitaria, costituita da un numero di coppie coabitanti. Il nucleo familiare composto da un solo genitore (per lo più la madre)
e da uno o più figli è la situazione più disagevole: se manca di una rete di sostegni allargati nella cerchia parentale ed etnica, espone i minori ad una peculiare fragilità.
L’inserimento dei bambini stranieri nelle scuole italiane è un indicatore
della relativa stabilità raggiunta dal progetto migratorio. Gli allievi stranieri
iscritti nelle scuole piemontesi sono stati nell’anno 96/97 5349, pari all’1 per
cento della popolazione scolastica totale. Il 49,4% era concentrato nella provincia di Torino (Tabella 8.2).
Tabella 8.2 – Allievi stranieri nelle scuole piemontesi
Scuole
materne
Scuole
elementari
Scuole
medie inf.
Scuole
medie sup.
Totale
Torino
538
1.212
579
314
2.643
Vercelli
67
110
62
17
256
Provincia
280
Novara
61
198
80
36
375
Cuneo
177
459
224
57
917
Asti
30
132
57
10
229
Alessandria
112
255
84
39
490
Biella
72
142
67
22
303
segue
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 281
Verbania
21
69
33
13
136
Piemonte
1.078
2.577
1.236
508
5.349
Tot. iscritti
96.503
169.142
110.510
162.256
538.411
% stranieri
sul totale
1.1
1.5
1.1
0.3
1.0
Fonte: Regione Piemonte
La tendenza negli ultimi cinque anni è in costante incremento: una previsione per l’anno scolastico 2001-2002 è riportata in Tabella 8.34
Tabella 8.3 – Previsione di allievi stranieri per l’a.s.2001-2
Provincia
Alessandria
N° allievi stranieri previsti
1.811
Asti
847
Biella
701
Cuneo
2.625
Novara
1.088
Torino
6.993
Verbano Cusio Ossola
Vercelli
Tot. Piemonte
289
600
14.954
Fonte: CIDISS
Questi dati, scorporati degli adulti (circa 3000), che sono attesi a frequentare i Centri territoriali per l’educazione degli adulti, indicano come il
numero degli stranieri frequentanti dalle materne alle superiori sia in cinque anni pressoché raddoppiato. A Torino si stima, con l’anno scolastico
2001-2, un totale di 8000 allievi stranieri, ed una loro distribuzione dal centro storico (dove vi sono fino al 50% di allievi stranieri in alcune prime classi elementari) nelle due direttrici verso le periferie sud e nord della città.
La scuola e le etnie
Le etnie nelle scuole della provincia di Torino sono diversamente presenti. La marocchina occupa il primo posto (pari al 25,5% sul totale degli
stranieri iscritti), con un peso particolarmente forte nella scuola dell’infanzia (32,5%). Il secondo posto viene occupato dalla Cina, con il 9% del totale
degli allievi stranieri della provincia di Torino: la presenza di alunni cinesi è
particolarmente consistente nelle scuola elementare(10,4%) e nella scuola
media (11,5%). L’Albania rappresenta l’8,9% del totale; la distribuzione degli
studenti albanesi nei diversi ordini di scuola è abbastanza omogenea (9,4%
della scuola dell’infanzia, 7,3 % delle superiori). La Romania ha una percentuale media del 7,9%, variabile a seconda dell’ordine scolastico (9,8% delle
281
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 282
elementari, 5,4% delle superiori). Il Perù ha una incidenza complessiva del
7,4 %,con una presenza nella scuola dell’infanzia piuttosto contenuta
(4,3%).
Si possono sottolineare questi ulteriori tratti differenziali tra le diverse
etnie.
❖ Cinesi. La percentuale di cinesi nella scuola dell’infanzia è piuttosto
contenuta, e il 77,6% dei bambini cinesi che la frequentano è nato in
Italia. La difficoltà dell’apprendimento della lingua italiana viene registrata in tutti gli ordini di scuola, con qualche miglioramento solo
nella scuola superiore.
❖ Albanesi. Gli studenti albanesi sono presenti nella città di Torino in
misura minore rispetto ai distretti scolastici della provincia. Solo il
38,8% dei bambini di origine albanese che frequentano la scuola dell’infanzia è nato in Italia; negli ordini scolastici successivi la presenza
di albanesi nati in Italia è praticamente nulla. Rispetto all’apprendimento della lingua italiana non hanno grossi problemi.
❖ Rumeni. È la comunità che comincia ad espandere i suoi iscritti alle
scuole materne, ma ancora l’87,5% dei bambini rumeni che vi sono
iscritti sono nati all’estero. Praticamente tutti gli studenti degli ordini
scolastici successivi hanno frequentato le scuole in Romania.
❖ Peruviani. La comunità peruviana appare concentrata sul territorio
torinese, i bambini sono meno presenti nelle scuole dell’infanzia, rispetto ai connazionali più grandi inseriti nelle scuole superiori..Non
hanno grandi problemi d’inserimento.
❖ Marocchini. La percentuale di presenza nelle scuola dell’infanzia
(32,5%) segnala che la comunità si sta stabilizzando sul territorio, con
nuclei familiari e figli nati in Italia. Nei gradi scolastici successivi incontrano problemi gli allievi venuti con il ricongiungimento familiare, dopo aver frequentato le scuole del paese d’origine con un sistema scolastico completamento diverso.La conoscenza dell’italiano
determina grande difficoltà.
Non è dato conoscere con esattezza il livello della evasione scolastica,
corrispondente alla differenza fra minori obbligati iscritti in anagrafe e
iscritti alla scuola dell’obbligo. Lo scarto attesta sia una distanza dalla istituzione scolastica (come nel caso dei Rom), sia un ingresso precoce nel mercato del lavoro; o un ritiro (più probabile per le ragazze) in una condizione
di semi-invisibilità famigliare.
Bambini stranieri nella scuola materna
282
In riferimento alla provincia di Torino, disponiamo di dati complessivi
e aggiornati fino al 1999 sui bambini stranieri nella scuola dell’infanzia.
Erano 1094 (+53% rispetto al 1997), per il 29% compresi fra i 3 e 4 anni, gli
altri di età superiore (5-6 anni), con la distribuzione per etnie riportata in
Tabella 8.4.
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Tabella 8.4 – Iscritti alle scuole materne in provincia di Torino 1997-1999
Provenienza
1997
%
1998
%
1999
%
Maghreb
210
29,4
336
37,9
397
36,3
37
5,2
40
4,5
35
3,2
4
0,6
9
1,0
8
0,7
Egitto, Libia
Libano
Israele
2
0,3
3
0,3
3
0,3
Iran, Iraq
15
2,1
10
1,1
13
1,2
Somalia
12
1,7
13
1,5
12
1,1
Nigeria, Niger
16
2,3
17
1,9
25
2,3
Altri Africa
44
6,2
67
7,6
69
6,3
Cina
50
6,9
37
4,2
58
5,3
Filippine
22
3,0
34
3,8
34
3,1
Giappone
6
0,9
5
0,6
4
0,4
Altri Asia
22
3,0
17
1,9
19
1,7
ex Yugoslavia
50
6,9
41
4,6
56
5,1
Albania
31
4,4
51
5,8
103
9,4
Romania
19
2,7
51
5,8
72
6,6
8
1,1
4
0,5
14
1,3
93
13
55
6,2
59
5,4
altri est Europa
UE- Svizzera
nord Am.Austr
17
2,4
2
0,2
8
0,7
centro/sud Am
57
7,9
75
8,5
104
9,5
Turchia
totale
0
0
19
2,1
1
0,1
715
100
886
100
1094
100
Vanno aggiunti 31 nomadi, iscritti sempre nel 1999. La distribuzione degli iscritti alle scuole materne sul territorio indica come il 69% è all’interno
della città di Torino, con punte massime nei quartieri di Barriera di Milano,
San Salvario e San Paolo. All’esterno della città, si registra una incidenza relativamente maggiore nelle zone di Piossasco -Orbassano e Moncalieri.
8.2 L’area critica: non accompagnati, male accompagnati
I «non accompagnati»
Una situazione problematica emergente e preoccupante è quella dei minori stranieri cosiddetti «non accompagnati». Il fenomeno appare in crescita, anche se in parte si tratta dell’emersione di una realtà per lungo tempo
rimasta più o meno nascosta.
Secondo i dati italiani, relativi al 31 dicembre 2000 e ai primi 5 mesi del
283
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 284
2001 forniti dal Comitato per i minori stranieri5, la provenienza dei minori
non accompagnati ricalca quella della popolazione immigrata. La graduatoria delle regioni vede nell’ordine la Lombardia (571 minori non accompagnati), la Toscana (501), il Piemonte (448), l’Emilia Romagna (424). Per provenienza geografica, per due terzi si tratta di albanesi, seguiti da marocchini, rumeni, ex-jugoslavi. A Torino «non accompagnati», in genere dai 12-13 in su,
sono albanesi, rumeni, marocchini. L’arrivo da «non accompagnati» (generalmente maschi) ricopre una diversità nei processi migratori e nei relativi
progetti individuali e famigliari. Gli albanesi, più simili agli italiani per cultura e socializzazione anticipatoria, sono mandati dai genitori a Torino con il
programma di arrangiarsi a sopravvivere senza mettersi nei guai. Provengono
da montagne poverissime, la loro famiglia si è indebitata per pagare il viaggio;
utilizzano catene migratorie pregresse nella ricerca di un lavoro.
I marocchini non accompagnati sono: ragazzi di strada cattivissimi già
in Marocco, ossia abituati a traffici illeciti, che difficilmente si recuperano o
vengono deliberatamente per delinquere; ragazzi (quando non bambini di
10-12 anni) provenienti da zone di campagna (Kourigba), ignorano tutto
della situazione che troveranno, hanno una fortissima volontà di aiutare la
famiglia rimasta al paese di origine. Le famiglie sono quasi sempre consapevoli di tale stato di cose, quando non hanno sollecitato esse stesse l’emigrazione dei propri figli.6 A volte, questi precoci immigrati compiono il viaggio per arrivare in Italia assieme ad un parente,ma una volta arrivati, rimangono da soli, o per propria scelta o perché i parenti vengono espulsi o si spostano in altre regioni per cercare lavoro. Non fanno amicizie con i bambini
italiani, si tengono a distanza della cultura italiana. Accettano vita allo sbando, precaria, carica di precoci responsabilità.
Il non accompagnamento, anche se non equivale ad uno stato di vero e
proprio abbandono7, è indice di una condizione precaria, che raccoglie e
combina molteplici elementi di vulnerabilità e rischio: quali l’obbligo del
guadagno immediato, il dovere di mandare soldi alla famiglia d’origine, la
necessità di pensare alla sopravvivenza quotidiana, l’incertezza abitativa, la
violenza fisica. I minori non accompagnati incontrano una serie di difficoltà
pratiche così forti –come la ricerca di un alloggio e l’estinzione del debito
contratto per il viaggio – che li pongono nella necessità di procurarsi in tempi molto rapidi un buon guadagno, finendo per alimentare l’area del lavoro
minorile irregolare e delinquenziale8.
Quale integrazione sociale può avere chi dorme per uno o due anni in case abbandonate, chi si espone ad una scuola continua di violenza entro bande criminali?
Piccoli marocchini
284
Fra le componenti della condizione minorile straniera a Torino, un posto
di rilievo, sia per la loro quantità e visibilità, sia per i problemi sociali che determina, è costituita dai marocchini9. Diamo alcuni «ritratti» di adolescenti
e ragazzi di età inferiore ai 14 anni, non accompagnati o «male accompagnati, in situazioni di precarietà e disagio, che è possibile riconoscere, e talora incontrare, nella realtà dell’area torinese.
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 285
Bambini segnati
Alcuni minori portano sul corpo i segni lasciati da pratiche e rituali tradizionali subite al paese d’origine. Sono stati accompagnati dalle loro mamme presso i santoni di alcuni villaggi. Rimangono per sette giorni in una
stanza buia, senza contatto con l’esterno. La mamma o uno dei servitori del
santuario deve offrire il cibo ai momenti previsti, ed osservare se un bambino è in grado di affrontare la vita con coraggio o meno. I bambini tatuati portano per tutta la vita un segno sulla nuca.
Piccoli ambulanti
Appartengono a famiglie numerose, nati nei villaggi devastati dalla siccità che sta colpendo il Marocco da decenni. Molti di loro emigrano verso le
grandi città, dove si concentrano nelle bidonvilles e lavorano come ambulanti nelle stazioni dei treni e dei pullman. I più fortunati trovano accoglienza presso piccoli artigiani, che oltre ad insegnare loro un mestiere danno un posto letto nello stesso laboratorio. Altri sono stati accompagnati da
zii,cugini o parenti, dalla città di Khouribga, nelle regioni del Nord Italia, dove iniziano il lavoro come piccoli ambulanti o lavavetri. Partono all’alba con
il treno da Torino per varie destinazioni del Piemonte. Tornano al tramonto
a Torino, dove hanno un posto letto affittato in un garage o in una soffitta.
Partecipano alla spesa quotidiana come gli adulti. Il loro interesse primario
è quello di aiutare la famiglia rimasta al paese d’origine. L’italiano di questi
ragazzi è limitato al bisogno della vendita ma, quando si esprimono nella loro lingua, emerge una maturità superiore alla loro età. Parlano il linguaggio
di persone adulte piene di responsabilità. Tuttavia, sono emarginati, sia dai
loro connazionali, che dalla maggioranza degli Italiani. Vanno in ospedale
solo se si ammalano gravemente.
Gli orfani
Ragazzi cresciuti negli istituti di orfani in Marocco. Alcuni di loro sono
scappati dalle regole rigide di questi luoghi. Altri si sono trovati in mezzo alla strada, quando le strutture di accoglienza state chiuse per problemi economici, senza trovare nessuna alternativa, mentre bastava forse un poco di
affetto e considerazione per rientrare nelle regole della vita quotidiana.
Con la sola mamma
Sono ragazzi molto voluti dagli sfruttatori, perché hanno un permesso di
soggiorno e non corrono il rischio di un eventuale rimpatrio. La mamma è
considerata di poco conto, perché non può sostituire il potere del padre.
Con grossi problemi di personalità, sono rimasti fermi all’età in cui la mamma è immigrata per preparare un ricongiungimento familiare. Il problema
del minore non è separabile dal destino della madre.
Obbligati ad emigrare
Ragazzi che sono stati strappati all’affetto della famiglia con un progetto di immigrazione deciso dal «padre padrone.» Vengono accompagnati da
adulti e venduti alle organizzazione criminali in Italia. Rimangono nelle
mani del racket, che gestisce il giro dello spaccio e della prostituzione minorile.
285
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 286
Ragazze sole
Sono ragazze che condividono il «giro» dei minori maghrebini. Il loro linguaggio è connotato di espressioni molto forti e aggressive. Oltre a spacciare, devono fare i corrieri della droga e anche le prostitute. Molte di loro sono diventate tossicodipendenti.
Soli e con esperienza di tossicodipendenza
Diversi dai Marocchini di Khouribga o dei quartieri popolari di Casablanca: sono di Tangeri, hanno fatto l’esperienza delle comunità per due anni o tre in Spagna. Sovente orfani, scappati dal Marocco nascondendosi nelle navi mercantili. Molti di loro hanno tentato più volte di nascondersi nei
containers per emigrare; scoperti dalla polizia, vengono rispediti a terra.
Alcuni di loro portano ricordi incredibili, come l’utilizzo di una miscela di
sostanze per affrontare la paura, e per saltare dalla nave. Alcuni loro amici
sono stati macinati dalle eliche della nave, altri morti annegati.
Una volta arrivati in Piemonte, trovano un mercato ben organizzato nel
giro della droga e dello sfruttamento minorile. Sono dipendenti dall’hashish, consumano sia droghe pesanti che ecstasy, diventano alcolisti.
La devianza e il controllo
Nella criminalità minorile ricorre la presenza straniera: nomadi che rubano, maghrebini che spacciano. Lo indicano inoltre le statistiche sugli ingressi e le permanenze al carcere minorile, dove la quota degli extracomunitari è ormai maggioritaria. Nel caso dei nomadi, mandare bambini di 9-10
anni a rubare è un segno di deterioramento della cultura rom e del suo tradizionale senso dell’onore. Sorpresi a rubare, i piccoli nomadi scappano, se
presi non si difendono; sono bugiardi ma non violenti. Nei marocchini, il
passaggio più rilevante dal non accompagnamento al crimine è bene esemplificato dall’intreccio fra percorsi migratori e percorsi di devianza.10
❖ Minorenni che approdano all’illegalità, perché cadono in balia di persone che approfittano di loro. I ragazzi sono vincolati ai loro sfruttatori da un aspetto di riconoscenza debitoria, per l’ospitalità ottenuta, il
cibo che si è mangiato insieme, «il sale che è stato scambiato».
❖ Minorenni che passano da attività legali a attività illegali per scelta.
Dopo una prima esperienza di vendita ambulante, si inseriscono nel
circuito illecito, per la prospettiva di un guadagno facile e immediato che consente di avere beni di consumo e inviare somme elevate
alla famiglia. Alla quale, forse, non interessa granché che la fonte
delle rimesse derivi esclusivamente da una attività lecita. I redditi
mensili degli spacciatori sono elevati, il principale problema è non
farsi prendere.
286
❖ Minorenni che giungono in Italia consapevoli dell’attività delinquenziale a cui si avvieranno. Si tratta di adolescenti che, a Casablanca o
in altre grandi città, sono stati avvicinati da personaggi già inseriti
nell’attività delinquenziale, che li avviano ad una consapevole carriera criminale.
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Va notato che sulla tendenza a delinquere agisce la propensione acquisitiva molto forte, per adolescenti che non hanno vere prospettive di inserimento lavorativo e di integrazione sociale. Il crimine è visto come un mezzo
«per avere» e poi come uno stile di vita paradossalmente interculturale.
Quando le etnie si contendono il predominio sull’illegalità, si imparano le
lingue…
Dal punto di vista del controllo, il fenomeno dei minori stranieri non accompagnati è complesso e in continua evoluzione, sia per la casistica che lo
contraddistingue che per la normativa, anche contraddittoria, cui fa riferimento: Convenzione di New York recepita dalla legge italiana (176/91) sui diritti di protezione e tutela dei minori, indipendentemente dalla loro etnia e
posizione giuridica, ma anche diritto alla propria famiglia e al ricongiungimento con la stessa; Codice Civile, che impone protezione e tutela del minore in caso di abbandono da parte dei genitori; legge 184/83 e successive modificazioni sull’affidamento e adozione; disposizioni sul rimpatrio dei minori, circolari ministeriali che dispongono per i minori irregolari il permesso di
soggiorno fino a 18 anni non rinnovabile. L’insieme di disposizioni di tutela
fino ai 18 anni senza possibilità di prosecuzione del permesso di soggiorno,
e nel contempo di rimpatrio (sulla carta) portano a lunghe permanenze in
Italia senza alcuna prospettiva per il futuro, se non quella dell’espulsione
teorica al compimento del diciottesimo anno o della permanenza nella clandestinità e nel mondo dell’illegalità e della devianza. (Scheda A).
Nei confronti del non accompagnamento e connessi problemi di devianza,
l’Autorità giudiziaria torinese ha delineato una strategia di controllo, articolata su diversi piani di intervento:
❖ valutare se la persona adulta accompagnante (diversa dal genitore)
sia in grado di assumersi la responsabilità del minore;
❖ promuovere l’eventuale procedura dell’affidamento a persone o
strutture educative, indispensabile per «bambini di età inferiore ai 12
anni bisognosi ancora d’un ambiente famigliare»;
❖ evitare il rimpatrio di ragazzi e adolescenti, di età superiore ai 12 anni, che aderiscono ai programmi di reinserimento sociale;
❖ estendere le «tutele civili» per gli adolescenti(15 -18anni) non accompagnati, che non delinquono
❖ provvedere al rimpatrio assistito.
In deroga al rimpatrio, questi minori possono ottenere un permesso fino al
compimento del 18° anno di età, a condizione di essere affidati a una famiglia o a un istituto (decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
535/1999). Un lavoro educativo può quindi essere compiuto sul minore fino
al raggiungimento della maggior età, nonostante le prospettive di una futura espulsione. Una diversa situazione si prospetta, a seguito di recenti circolari del Ministero degli Interni, che impongono la consegna dei minori irregolari all’autorità del luogo in funzione del rimpatrio. Potrebbe di conseguenza accrescersi la propensione dei minori irregolari a entrare in una relativa invisibilità sociale, che li espone maggiormente al comportamento
deviante, mentre li sottrae ad eventuali opportunità educative che potrebbero essere loro offerte.
287
paideia.doc. intero 8-01-2003 18:21 Pagina 288
Scheda A – Alcune storie di vita
MARIETA È irregolare, vive in un modesto appartamento con il figlio di sette anni e si mantiene con la prostituzione, che esercita solo durante il giorno e quando il figlio è a scuola. Edmond ormai è «italiano», ma Marieta non potrà mai regolarizzare sé e il figlio perché per un piccolo reato commesso durante il programma di protezione (che la legge prevede per chi esce dalla prostituzione) non
potrà più usufruire dei beneficio dello stesso (permesso di soggiorno anche per
il lavoro). Può ritornare col figlio nel suo paese d’origine oppure abbandonare il
figlio, che verrà protetto dai Servizi sociali, e forse poi potrà essere adottato da
una famiglia italiana; oppure ancora aspettare, da clandestina, un’espulsione
(«foglio di via» o accompagnamento alla frontiera).
Questa storia illustra la condizione di molti bambini che sono presenti irregolarmente in Italia con la propria madre. Madre spesso adeguata ma non in grado di
tenerli e seguirli per le condizioni di vita in cui vive, o di garantire loro un futuro, data la situazione di clandestinità. Bambini che finiscono per anni in comunità o in affidamento familiare. Una condizione che perdura perché l’irregolarità
della madre permane, ma nello stesso tempo non si attua il rientro nel paese d’origine né in modo volontario né coatto. Nel frattempo mamma e bambino sono
sempre più «italiani»….
288
LEONARD è uno dei tanti «minori stranieri non accompagnati» che entrano e soggiornano in Italia senza essere accompagnati da persona adulta, per loro responsabile in base alle leggi o alle consuetudini, e senza aver ottenuto le autorizzazioni necessarie a tal fine. Leonard diceva di avere 12 anni e di essere arrivato da solo in Italia quando le forze dell’ordine lo avevano fermato con degli
adulti. Al contrario di altri portati in comunità non scappa ma accetta di andare
a scuola e poi fare un tirocinio lavorativo e un corso professionale. Quanto starà
ancora in comunità? Intanto anche lui è diventato sempre più «italiano».
LILIANA Arriva nella prima comunità che l’ha accolta a 13 anni, per salutare gli
educatori. Chi non la conosce può pensare che sia una ragazza che abita in qualche alloggio del condominio. Eppure, quando la polizia l’aveva portata a seguito
della segnalazione di un «cliente» pentito o impietosito per la condizione di quella bambina, nessuno avrebbe scommesso un tale cambiamento. Adesso va a
scuola, ed è nel programma previsto dalla legge che prevede il permesso di soggiorno anche per lavoro.
Il contesto sociale e familiare dei paesi d’origine contribuisce a creare le condizioni per portare la minorenne nella prostituzione. Dai racconti delle ragazze nigeriane la figura del «fidanzato» che inganna è sconosciuta. La famiglia è per la
maggioranza dei casi consenziente, e spesso consapevole dell’attività che la figlia
farà in Italia, ma tutto viene vissuto e trasmesso alla ragazza come un compito cui
deve assolvere per il benessere della famiglia. Per le ragazze provenienti dai paesi dell’est, il contesto sociale è di grave povertà materiale e culturale. Problemi legati all’alcoolismo, assenza e inconsistenza della figura paterna, non in grado di
provvedere ai bisogni del nucleo, maltrattamenti e violenze che le ragazze a volte
subiscono, anche all’interno della famiglia stessa. La possibilità di prostituirsi è
implicitamente accettata anche se non esplicitata, perché già nel paese di origine
il loro corpo è stato usato per ottenere favori e regali o già violato all’interno della famiglia. Per le ragazze albanesi il fenomeno è parzialmente cambiato. All’inizio, le ragazze erano rapite o ingannate dai loro presunti «fidanzati» che le portavano in Italia per sfruttarle o venderle ad altri. Ora non c’è più, o meglio è residuale, la fanciulla innocente irretita ed ingannata, ma giovani donne cresciute
troppo in fretta. Ma le ragazze, anche se consenzienti, non sono veramente consapevoli di cosa significa davvero lavorare nella strada, essere considerate merci
e come tali essere trattate, vendute, sottoposte ad ogni forma di violenza fisica e
psicologica. Spesso immaginano di dover «lavorare» poco, con due o tre clienti, e
guadagnare ciò che basta per vivere bene in Italia ed aiutare la famiglia.
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8.3. Accesso ai servizi e integrazione
Passiamo ora ad una analisi più ravvicinata di come, rispetto ai problemi che i minori stranieri incontrano nella realtà torinese, il sistema delle
istituzioni e dei servizi è stato fin qui in grado di apprestare degli elementi
di risposta. Ovviamente, le differenze fra gli immigrati diretti ricongiunti ed
i bambini di seconda generazione sono rilevanti, come ancor più lo sono
quelle tra «regolari» e «non regolari».
Nascita e prima infanzia
L’8,5% delle nascite registrate a Torino in un ospedale specializzato
(Sant’Anna) sono di bambini extracomunitari: ciò significa che quasi uno su
dieci di questi nuovi nati torinesi è straniero. Oltre al dato quantitativo, il processo di gravidanza e parto espone dinamiche culturali, che mostrano la distanza intercorrente fra i temi della cultura etnica e la nostra cultura dell’assistenza. La diffusione dell’assistenza ospedaliera e l’azione dei mediatori
culturali nella struttura riducono l’impatto dei problemi di distanza. Per questi parti, è fondamentale il mediatore culturale e la partecipazione ai corsi di
preparazione dove le mamme straniere si confrontano con quelle italiane.
La nascita è senz’altro uno degli aspetti che caratterizza con maggiore
preoccupazione il corso di vita dei minori stranieri e delle loro famiglie.
Molte di esse vivono in abitazioni malsane, e non hanno piena conoscenza
dei diritti di accesso alle strutture sanitarie. La differente fruizione dei relativi servizi si riflette nella diseguale incidenza dei fenomeni di rischio e di
mortalità perinatale fra le diverse etnie.11 E ci sono anche molte mamme
straniere troppo giovani, che invece di portare avanti la loro maternità, preferiscono il ricorso all’interruzione di gravidanza.
Più forte risulta la distanza culturale, a base etnica, nei confronti del
bambino malato ed esposto a pericoli di vita. La morte del bambino piccolo viene «accettata» dalla rete famigliare etnica secondo un approccio che la
rende più simile alle nostre culture tradizionali ad elevata mortalità infantile. La morte fa parte della vita, il bambino non ha lo stesso valore di un uomo compiuto.
Bambini piccoli di madri irregolari
All’Ufficio Minori stranieri del Comune di Torino perviene una ampia
varietà di situazioni, regolari e sovente irregolari. Queste ultime richiedono
soluzioni ad hoc, consentite dalla normativa, orientate a rispondere ai più
urgenti bisogni di protezione e tutela. È questa la situazione di bambini, anche molto piccoli, che sono soggetti a provvedimenti giudiziari, perché si
trovano in situazioni di grave disagio;ad esempio bambini tra 0 e 3 anni figli
di prostitute e di ignoti padri italiani.
In taluni casi, questi bambini sono inseriti con le loro mamme in comunità di accoglienza.Il periodo di permanenza è utile anche per verificare la
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capacità genitoriale, benché il provvedimento, piuttosto che da incapacità
genitoriale, sia sovente determinato dalla mancanza di risorse economiche
o abitative, e dalla condizione irregolare della madre. In altri casi, per donne senza permesso di soggiorno, il bambino viene loro allontanato e inserito in centri di accoglienza a bassa soglia, come comunità alloggio, o residenze temporanee in strutture protette.
In generale l’irregolarità dei genitori, con i suoi vari problemi, si riflette
direttamente sulla condizione dei bambini. Per gli attori dell’intervento,
raggiungere persone in condizione irregolare, senza casa e lavoro apparente, non è cosa già di per sé agevole. Una via di recupero si apre se le donne
vengono inserite in programmi di protezione sociale (secondo quanto prevede l’art.18 della L.40/98) e iniziano di conseguenza un percorso famigliare. Oppure se bambini molto piccoli sono dichiarati adottabili. È anche possibile che il Tribunale dei Minorenni conceda (ex art.31 della L.40/98) un
permesso temporaneo di soggiorno ad uno dei genitori per «sostenere lo
sviluppo psicofisico del bambino».
L’accesso ai servizi della salute
290
Per quanto concerne l’accesso ai servizi sanitari, l’articolo 32 della legge
40/98 prevede l’obbligo dell’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale per
tutti gli immigrati in regola con il permesso di soggiorno; l’iscrizione è garantita anche ai loro familiari e a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti, che abbiano fatto richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno, per lavoro, motivi familiari e altro. Per i cittadini stranieri non in regola con la norme relative all’ingresso ed al soggiorno, l’articolo 33 della stessa legge prevede la garanzia delle cure essenziali, nelle strutture sanitarie pubbliche ed
accreditate. L’accesso a tali strutture non comporta denuncia alle autorità,
salvo nei casi in cui la legge lo preveda «a parità di condizioni con i cittadini italiani».
I dati relativi alle presenze di immigrati maghrebini negli ospedali torinesi, nel periodo compreso fra il 1995 ed 1997,12 indicano come le più frequenti, per i minori maschi fra 0 e 14 anni, fossero le patologie perinatali
(14,3%), le patologie croniche delle basse vie respiratorie (7,7%), le patologie acute delle vie aeree superiori (7,2%), ipertrofia prepuziale/fimosi
(6,6%), malattie ed infezioni intestinali (3,9%). Per le minorenni maghrebine di età compresa fra 0 e 14 anni, le patologie perinatali e le patologie delle basse vie respiratorie. Fra le donne di età superiore, risulta al primo posto
il parto, la seconda causa è la complicanza nella gravidanza, la terza l’interruzione di gravidanza. Agli irregolari resta l’alternativa tra l’ospedale – per le
urgenze – ed i servizi gestiti dal volontariato cattolico e laico, rispettivamente Sermig, nel compendio di Borgo Dora dietro il Cottolengo e ISI
(Informazione Sanità Immigrati), situato in via Bertola all’interno di una
struttura USL.
Nelle cartelle cliniche dell’ambulatorio del Sermig, sorto alla fine del
1988, il 90% degli utenti iniziali era costituito da Maghrebini: utenza totalmente maschile, in un secondo tempo anche femminile e pediatrica, a seguito dei ricongiungimenti famigliari.13 Il numero delle visite pediatriche ef-
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fettuate fra il 1989 ed il 1995 nell’ambulatorio per il 43,7% concernevano
bambini provenienti dall’area maghrebina, le cui patologie riguardavano
per lo più malattie delle vie respiratorie (il 60%), malattie cutanee, gastroenteriche ed ortopediche.
Negli ambulatori gestiti dal volontariato si registrano elevate incidenze
di alcolismo: ragazzi giunti a Torino in piena salute, forti e pieni di vita, sono ridotti quasi peggio dei vecchi barboni torinesi perché non riescono a regolarsi con l’alcool. Fra gli immigrati maghrebini, le patologie psichiche da
disagio sono conseguenti al brusco passaggio fra la vita condotta in patria
(specie per chi proviene dalle zone montane) e la situazione «ultraprecaria»
in cui molti si vengono a trovare a Torino.
Per quanto riguarda l’utilizzo dei servizi ospedalieri, la collaborazione
degli operatori sanitari con i mediatori culturali dovrebbe facilitare l’utilizzo corretto delle strutture, che esclude di accedere a richieste incompatibili
con la nostra cultura e norma giuridica (infibulazione ecc.). Un rischio diverso è dato dall’utilizzo delle strutture sanitarie in base a comportamenti
opportunistici: d’inverno, quando i bambini nomadi sono malati, le famiglie
vorrebbero lasciarli in ospedale tutto l’inverno e venirseli a riprendere in primavera. Ma in generale, come s’è detto, l’accesso all’ospedale è governato
da esigenze di assoluta necessità.
Servizi e territorio
Per quanto riguarda i servizi sociali di territorio, a cui le famiglie regolari hanno titolo di fare riferimento ed utilizzo, si osserva come bambini stranieri fino ai sei anni sono ancora scarsamente presenti, in servizi quali asili
nido e scuole materne. Anche se le loro famiglie avrebbero convenienza a ricorrervi, preferiscono tenerli in casa, e mostrano una certa resistenza ad utilizzare servizi che non rientrano nei loro modelli tradizionali di riproduzione sociale. E ciò nonostante una condizione di isolamento e assenza di legami sociali, che accresce a Torino la difficoltà di integrarsi soprattutto per
le donne e le bambine: le bambine straniere è sempre difficile capire dove sono e cosa fanno. Nelle comunità locali di provincia l’integrazione dei bambini stranieri è in apparenza più agevole, ma solo per i residenti, mentre i
bambini stranieri che non sono residenti anagrafici restano ai margini dei
processi di inclusione.
Fino all’ingresso nella scuola dell’obbligo, la condizione del bambino seduto su due sedie, con la sofferenza psichica che potrebbe associarsi alla duplicità/ambivalenza culturale, non viene esplicitamente avvertita. Tuttavia
il conflitto dei modelli culturali è latente, e con l’ingresso a scuola tende a
manifestarsi. Ad esempio, molti bambini, che hanno entrambi i genitori, si
sentono fortunati rispetto ad altri ragazzi, che sanno in stato di abbandono,
o sentono oppressi dalla grande responsabilità di mantenere la famiglia nel
paese di origine. Si sentono fieri di un padre che ce l’ha fatta, con un lavoro
sicuro ed una casa dignitosa. Hanno vicini di casa e genitori di compagni di
scuola, che portano alla loro famiglia vestiti e alimenti gratuiti. Crescono in
un ambiente del «tutto a disposizione». Ma talvolta «se lo prendono», con
piccoli furti e prepotenze.
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Informare la famiglia dei piccoli furti commessi ai danni di altri bambini richiede attenzione, poiché la tradizione maghrebina usa punire i furti
commessi dai figli, riscaldando un cucchiaio sul fuoco e bruciando la mano.
Questo comportamento, che oltre ad essere un freno verso il minore, è un
messaggio di autodifesa verso la comunità, in Italia obbliga il giudice a proteggere il figlio e punire i genitori per maltrattamento. Le violenze dei genitori verso i piccoli immigrati si scontrano con il problema di spiegare ai genitori dove comincia la sofferenza, secondo gli standard dei diritti che il giudice è tenuto a fare rispettare. Talvolta la giustizia non interviene, nell’interesse stesso del bambino, anche quando le risposte degli adulti sono giudicate,
secondo i nostri standard, poco accettabili. Un allontanamento imposto sarebbe infatti considerato dagli adulti, e indirettamente dai figli, come un segno di definitivo fallimento nell’integrazione al nuovo ambiente sociale.
L’inserimento scolastico
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L’accoglienza dei bambini stranieri nella scuola presenta alcune difficoltà generalizzate di inserimento. Per quanto concerne la necessaria conoscenza dell’italiano, i dati raccolti dal Cidiss indicano che l’11,5% dei bambini iscritti alla scuola materna a Torino e provincia non conoscono l’italiano in misura sufficiente, contro un 60% circa che ne ha una conoscenza
buona-ottima. I tassi più alti di conoscenza insufficiente si hanno fra i bambini cinesi, albanesi, maghrebini e sudamericani; la conoscenza è più elevata fra gli iscritti alla materna privata e comunale, rispetto alla materna statale. Il 60 % dei bambini che non conoscono l’italiano sono nati all’estero, il
61% di chi ha una buona conoscenza è nato in Italia(la quota sale all’82%
per chi ha una ottima conoscenza dell’italiano).
All’ingresso in un sistema scolastico culturalmente distante, si associano
fenomeni di dispersione e di esclusione, quali l’irregolarità di frequenza e la
selezione esplicita (bocciature, ripetenze, più rilevanti nella scuola media rispetto all’elementare). Un caso particolare è dato dai ragazzi nomadi, ai quali l’inprinting culturale della famiglia trasmette un certo disprezzo dei gagé
(gli italiani), nonché il rifiuto di ogni struttura di contenimento, con un conseguente difficile rapporto con gli orari e le regole istituzionali della scuola.
L’ingresso nella scuola elementare segna un momento critico per diverse ragioni. Bisogna distinguere, se il bambino straniero entra a scuola avendo già compiuto un primo percorso di socializzazione entro la cultura italiana, oppure si vi approda dopo essere giunto in Italia grazie al ricongiungimento famigliare. Questa seconda variante contiene rischi, innanzi tutto,
di ritardo: quando arrivano in Italia per ricongiungimento, perdono un anno nell’inserimento, che non avviene prima dei sette anni. Una crisi dell’immagine paterna: arrivano pensando ad un padre ricco, mentre lo trovano, in
confronto agli italiani, più povero di quanto non fosse nel paese d’origine in
confronto ai suoi connazionali. Vedono un padre degradato. La ridotta possibilità di disporre degli oggetti di consumo tipici della cultura locale aggrava la percezione di inadeguatezza dei genitori. Una componente importante delle difficoltà di integrazione sociale è la precarietà dell’abitazione(vivono in case di cui ci si vergogna, dove non possono portare amici).
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Con l’ingresso nella scuola, la tensione fra le due culture (famigliare e
scolastica) si fa più intensa. Se il problema della comunicazione fra le due
culture non viene tematizzato dalla struttura scolastica accogliente, i costi
psichici della mancata comunicazione diventano sofferenze sommerse del
bambino. Ma vi sono anche costi espliciti, quando i figli, che hanno interiorizzato per via scolastica e ambientale i valori della cultura italiana, cominciano a porre in discussione la cultura dei loro genitori. È noto, del resto, che
la seconda generazione14 si trova maggiormente esposta ad una situazione di
vulnerabilità sociale e psichica, in quanto vive la tensione fra il modello culturale della propria famiglia e quello del paese di accoglienza. Il disagio vissuto dai figli degli immigrati, e seppure in modo meno intenso dai figli di
coppie miste, dipende dal dover costruire una identità, oscillando tra i riferimenti che la famiglia trasmette e quelli offerti dalla nuova società. Con la
frequenza alla scuola dell’obbligo, la distanza dai genitori si fa più netta, e i
figli si ritrovano talvolta a svolgere il ruolo di «mediatori» tra la loro stessa famiglia e la scuola. La necessità di ridefinire un equilibrio culturale nella famiglia di origine si aggiunge allora alle difficoltà intrinseca della socializzazione e dell’apprendimento scolastico.
8.4. Tipi di risposte
Forme di affidamento
Affidamento giudiziario e tutele civili
Con l’affidamento, la giustizia minorile consegna il minore straniero alla responsabilità di una comunità o di una famiglia. L’affidamento di bambini con età superiore ai 10 anni ad una famiglia residente della loro stessa
etnia, aiuta i non accompagnati che seguono programmi di inserimento sociale e lavorativo.Si stima comunque che l’affidamento in alternativa al rimpatrio non coinvolga più del 10% dei minori oggetto di provvedimento. La
cosiddetta tutela civile comporta una responsabilità meno intensa: persone
o associazioni sono incaricate dal giudice tutelare o dalla amministrazione
comunale di seguire degli adolescenti ultraquindicenni. Finora a Torino non
ha dato grandi risultati.
Affidamento a poca distanza.
L’adozione è praticata in qualche limitato caso di abbandono o di maltrattamento, la legge araba vieta di affidare un minore a famiglie non musulmane. Si è visto, peraltro, come il tradizionale affidamento alla rete sociale allargata abbia assunto nel circuito migratorio una funzione di scambio economico fra la famiglia d’origine e i reclutatori di mano d’opera, da
impiegare nel lavoro commerciale ed eventualmente criminale.
Una modalità alternativa di intervento è stata definita dalla Associazione
Diafa(Ospitalità) come «affidamento a poca distanza». Diafa si occupa di
minori marocchini(dispone di una comunità di accoglienza a Romano
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Canavese) e interviene presso i minori «vaganti», di cui riceve segnalazione(perlopiù da italiani che notano la presenza di questi ragazzi). Li contatta, li informa sulle risorse dei servizi (sanità, assistenza, Ufficio stranieri).
Cerca notizie sui parenti e si adopera se il minore vuole tornare. Se vuole restare in Italia, lo affida ad una famiglia maghrebina disponibile(una dozzina
offrono questo servizio alla associazione). L’intervento a poca distanza ha
raggiunto finora 200 casi di minori stranieri in varie aree del Piemonte (di
cui oltre il 50% a Torino), tra 8 e 14 anni (Tabella 8.5)
Tabella 8.5. – Casi di ragazzi marocchini raggiunti dall’«affidamento a poca distanza»
Città
Torino
Ivrea
Femmine
Maschi
Totale
11
103
114
3
20
23
Vercelli
7
15
22
Carmagnola
2
17
19
Alessandria
5
10
15
Pinerolo
1
7
8
Settimo
0
3
3
Totale
29
175
204
Fonte:Istituto Hassan, 2001
Recupero da traumi e violenze.
Un progetto(sempre di Diafa), verso minori che hanno subito traumi e
violenze, ha elaborato l’uso dell’espressione artistica a scopo terapeutico,
con la collaborazioni di artisti (presentato nell’ambito della manifestazione
Big). Tra i bambini oggetto di violenza è particolarmente duro il caso dei
«piccoli assaggiatori di droga» : bambini fra i 9 ed i 12 anni, che vengono costretti a testare la purezza delle sostanze, diventando rapidamente tossicodipendenti. Occuparsi del loro rimpatrio, o dell’affidamento a famiglie,
comporta anche qualche pericolo per coloro che ne occupano.
La rete dei servizi
294
I servizi sociali territoriali
A Torino i servizi sono attrezzati ad accogliere chi si presenta loro, ma
non vanno a cercare in giro i minori stranieri, che hanno bisogno di una risposta alle loro grida (anche mute) di aiuto. Si tratta di prevedere progetti
di tutela e assistenza adeguata per chi non può contare su reti sociali di riferimento, e soprattutto di proporre figure di adulti sani verso cui i ragazzi
allo sbando possono trovare elementi di fiducia. Il principio della solidarietà intenzionale riguarda anche il rapporto fra generazioni all’interno
dell’immigrazione: l’immigrato che ha fatto grandi sacrifici per far venire i
suoi genitori non può essere lasciato ad assisterli da solo, con il rischio di
perdere occasioni già precarie di lavoro e di reddito. Ma neppure può affi-
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darli esclusivamente ai servizi socio-assistenziali, perché ciò sarebbe considerato dalle comunità come violazione di un dovere familiare assoluto.
Educativa di strada
La condizione di bambini e ragazzi precocemente resi adulti dal lavoro
irregolare e dalla clandestinità, e il tentativo di contrasto all’abbandono
educativo e famigliare, hanno aperto la via a interventi sociali – detti «di
strada» – i cui operatori sono chiamati ad entrare in contatto con minori «intermittenti». Devono guadagnarsene la fiducia, e dispongono di una sorta di
«salvacondotto», che li porta a non essere identificati con figure di polizia. Il
loro compito, nei confronti dei ragazzi stranieri, non è diverso da quello che
viene assegnato alla attività educativa territoriale per tutti i ragazzi e gli adolescenti «a rischio» della città. Ma, si osserva, l’educativa territoriale è ancora troppo formale, dipendente dai servizi, troppo poco di strada. L’attività
educativa di strada è sostanzialmente una attività di educazione alla legalità. (A Torino c’erano quattro vigili urbani che si occupavano dei bambini di
strada…).
Il coordinamento degli interventi
Torino dispone, nei confronti delle «grandi politiche» verso i minori stranieri, di una rete di intese e collaborazioni, che stringe istituzioni pubbliche,
autorità giudiziaria, aziende sanitarie, scuole, e si allarga ad abbracciare diverse forme di associazionismo e volontariato. Torino ha molte attività e interventi, ma bisognerebbe ridefinire meglio i compiti fra uffici e associazioni… Allargare la gamma delle associazioni che fruiscono degli aiuti offerti
dalle istituzioni locali attraverso i vari bandi.15 Una certa tendenza allo specialismo negli interventi e la separatezza nell’approccio ai problemi, se da
un lato consentono di sviluppare in modo controllato tutta una serie di attività significative, di per sè non bastano ad incidere nei confronti della cultura sociale diffusa.
Interventi educativi ed interculturali
Le dimensioni di una azione educativa «mirata» ai soggetti stranieri
comportano:
❖ una azione informativa sulle leggi italiane, coniugata ai valori e alle
tradizioni dei paesi di origine dell’immigrazione;
❖ una pedagogia della convivenza civile, che aiuti a rispettare le regole
della società ospitante;
❖ un ricupero della memoria e della storia, all’interno di ogni comunità
immigrata;
❖ iniziative nelle scuole per avvicinare i bambini stranieri e gli italiani e
coinvolgere soprattutto le mamme dei minori stranieri (più sensibili
rispetto ai padri)
Fra le nuove figure, di cui appare sollecitata la formazione e l’attività, il
mediatore culturale ha il compito di favorire l’accesso ai servizi sanitari e sociali di territorio; facilitare la soluzione dei conflitti educativi e culturali nel-
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le scuole; gestire i microconflitti a base territoriale. Un ruolo più ricco attribuito al mediatore culturale potrebbe farne una figura di cerniera fra le istituzioni e il campo dei bisogni. Dovrebbe seguire il ciclo di vita dei bambini e
stare vicino ai minori che vengono rimpatriati, perché anche l’impatto «di
ritorno» può avere effetti distruttivi.
Quanto all’impatto educativo esercitato dalla scuola e dalle altre istituzioni culturali della città, non è sufficiente formare i figli alla cultura e all’intercultura, ma dovrebbero convincere i padri a cambiare. Si tratta di un’impresa tutt’altro che facile, quando la resistenza deriva non soltanto dalla distanza dei rispettivi modelli culturali, ma anche dalla struttura interna di
gruppi etnici fortemente autocentrati e legati da rigidi vincoli di lavoro e obbligazioni debitorie. In altri casi, vi è interesse a mantenere tratti di cultura
tradizionale, che danno argomenti per rapporti di dominio e diseguaglianza: è la situazione di uomini immigrati, che proiettano su donne e bambini
della loro famiglia, attraverso le rigidità di una tradizione sacralizzata, anche
le frustrazioni della mobilità sociale delusa e della mancata affermazione
personale.
Se il maggior impatto culturale che può conseguire all’immigrazione è
nella voglia di libertà e di futuro, per le donne ciò significa contare di più come persone indipendenti. Per i bambini di culture diverse, la formazione tra
0 a 3 anni è l’investimento più promettente per il futuro.16
Note
296
1. Si rimanda ai dati riportati al capitolo 1.2.2 I bambini stranieri e le tendenze demografiche.
2. Il materiale di questo cap. è stato tratto dalle seguenti fonti:Dossier Immigrazione
Caritas,2001; I minori stranieri in Piemonte,Ires;Osservatorio sul mondo
giovanile,Assessorato alla Gioventù del Comune di Torino,1999;Osservatorio sui minori,Istituto Hassan II,2001; CIDISS, Allievi stranieri a scuola con noi anno 2000, a
cura di Riccardo Barbero;I minori stranieri non accompagnati, Conferenza
Internazionale sui minori,Marocco,luglio 2001. Ulteriori elementi sono stati ricavati
dalle interviste a: L.Marzin(Comune di Torino), G.Calcagno(già procuratore presso il
Tribunale per i minorenni di Torino), F.Olivero(ufficio pastorale per i migranti della
Diocesi di Torino), nell’ambito delle interviste commentate al capitolo 9.
Le parole in corsivo sono tratte dai protocolli delle interviste.
3. L’incidenza delle nascite è indicativa del diverso grado di inserimento della popolazione immigrata, nel confronto fra regioni ed anche all’interno della stessa regione.
Ad esempio, nel Trentino Alto Adige (media regionale 1,9%) la provincia di Bolzano,
dove lavorano numerosi lavoratori e lavoratrici stagionali senza famiglia, è all’1,3%,
contro il 2,6% della provincia autonoma di Trento, dove la popolazione straniera è
maggiormente integrata per lavoro, abitazione e completezza della composizione famigliare.
4. Le previsioni derivano dalle rilevazioni compiute presso tutte le istituzioni scolastiche con il sistema informatizzato, dalle ricognizioni relative alla chiusura dell’anno
scolastico 2001 e dai coefficienti di incremento definiti dall’osservatorio del CIDISS.
(V. Rapporto CIDISS citato,in http///t02000.it/provvto/files/cidiss.htm). Le previsioni
includono anche gli adulti, che frequentano i centri territoriali di educazione per gli
adulti.
5. Il Comitato per i minori stranieri è competente a occuparsi di tutti i minori non accompagnati (ai fini del rimpatrio o della permanenza in Italia). Reso operativo con de-
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6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
creto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 9 dicembre 1999, in applicazione
dell’art.35 del Testo unico sull’immigrazione.
Si segnala qui un uso «innovativo» e «perverso» del tradizionale istituto arabo dalla
qaffalah. In esso la famiglia di origine collocava un figlio presso una famiglia della rete parentale per svolgere lavoro domestico, ricevendo nel contempo mantenimento
ed educazione, prima di fare ritorno alla famiglia d’origine. Nel contesto migratorio,
il figlio viene praticamente «ceduto» a compatrioti che ne acquistano la prestazioni
in cambio di denaro versato ai genitori. Somma che il minore si impegnerà a restituire con il suo lavoro nel paese di immigrazione…
La definizione di minore non accompagnato non coincide con quella di «minore in
stato di abbandono». Il regolamento del Comitato italiano per i minori stranieri stabilisce(riprendendo sostanzialmente la risoluzione del consiglio dell’Unione Europea
del 26.6.97) che per minore straniero non accompagnato si intende «il minorenne
non avente cittadinanza italiana o di altri stati dell’Unione europea, che, non avendo presentato domanda di asilo, si trova per qualsiasi causa nel territorio dello Stato
privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano».
Una ricerca del Censis del 1999 afferma che il minore immigrato ha 72 probabilità
in più del minore italiano di entrare in prigione. La maggior parte dei minori denunciati proviene dall’area della Iugoslavia (per lo più rom), dall’Albania e, in misura minore, dal Marocco. Il reato, unitamente alla mancanza della famiglia che funga da
supporto per la concessione di misure alternative alla detenzione, spiega il numero
abbastanza elevato di minori non accompagnati presenti nelle carceri italiane.
Nella scansione tradizionale delle età, per i marocchini il passaggio all’età adulta si
pone intorno ai 14 anni,quando i padri cominciano sostanzialmente ad interessarsi
del destino dei loro figli. La maggiore età legale adesso è per i maschi a 16 anni(da
18)e per le femmine a 18(prima era a 21).
Questa tipologia è ricavata da materiali di studio congiunto fra Comune di Torino e
Tribunale dei Minorenni sui problemi dei non accompagnati.
La mortalità dei bambini stranieri nel primo anno di vita può risultare quasi doppia
rispetto ai nati da famiglie italiane, come indica una ricerca epidemiologica nella regione Lazio, che ha comparato i tassi di mortalità neonatale e perinatale fra diversi
gruppi di donne immigrate. Nel periodo 1982-1995 il tasso di mortalità per 1.000 nati vivi è stato pari a 21,9 per mille per i figli delle immigrate dell’Africa centrale, 20,8
per i neonati di madre nomade 19,7 per il Nord africa e Medio Oriente, 8,3 per i residenti italiani.
Dati ricavati dalla tesi di laurea Aspetti dell’immigrazione maghrebina a Torino, di
Daniela Cardaci, discussa nell’aa.2000-1 presso la Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università di Torino.
Il centro è dotato di un ambulatorio in funzione per cinque giorni la settimana e con
orari serali; svolge il servizio infermieristico e terapeutico.Non ha contatti con strutture pubbliche, mentre intrattiene rapporti con l’ospedale Cottolengo ed altri servizi
di volontariato.
Per la definizione datane dal Consiglio d’Europa, la seconda generazione sono «i figli di immigrati nel paese d’accoglimento, quelli che hanno seguito o raggiunto i genitori, e i figli di coppie miste».
La «cultura dei bandi» viene criticata quando sposta l’impegno delle associazioni soprattutto sulla fase progettuale rispetto alla fase operativa: «si tratta di premiare anche
chi segue i bambini e non solo i progetti».
«Il soddisfacimento di bisogni immediati di tipo assistenziale ha coinvolto una parte
minoritaria dei ragazzini immigrati. Adesso è il momento dell’investimento sui processi di inserimento sociale e culturale».Cosi’Marinella Belluati, autrice di un recente studio Vivere tra due culture.Percorsi di integrazione dei minori stranieri a Torino,
suppl. al n.1 di «Informa Giovani», I° semestre 2002.
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ANALISI E COMMENTI DEGLI
OPERATORI
9.1 Premessa
9
Dal 5 febbraio al 5 marzo 2002 sono state condotte 22 interviste, con persone dell’area torinese che hanno a che fare, a vario titolo: professionale,
scientifico e politico-organizzativo, con i problemi dei bambini. L’obiettivo
di questa serie di interviste è stato di delineare i criteri di possibili interventi, relativi a ciò che manca e a ciò che servirebbe, per migliorare la condizione dei bambini in questa area. Premessa alla definizione degli interventi è
stata una rappresentazione dei problemi dei bambini di cui il singolo intervistato si occupa, e di quelli che rileva presenti o emergenti nel contesto.
(Scheda A)
Nel seguito del capitolo, si dà conto in modo ragionato dei principali elementi emersi dalle interviste.1 Il testo intende aderire con la massima obiettività a quanto è stato presentato dagli esperti, sia separatamente, sia come
«gruppo virtuale» che si trova a dialogare, a distanza, su problemi ricorrenti. Si ripercorre il territorio dell’opinione complessiva del gruppo di competenti, ponendo attenzione soprattutto sugli elementi in cui il consenso dell’opinione è apparso evidente, non però senza rimarcare polarizzazioni nei
giudizi che esprimono posizioni differenti. Le frasi riportate in corsivo,
estratte dai protocolli delle interviste, arricchiscono il quadro delle rappresentazioni e delle proposte.
Scheda A – Traccia per le interviste
•
298
Quale definizione di «bambino».
•
Problemi dei bambini di cui si occupa.
•
Problemi presenti nella società locale:
Gravi e allarmanti.
Di salute fisica e psichica.
Di educazione e istruzione.
•
Problemi specifici nel territorio.
•
Quali interventi per la famiglia.
•
Quali interventi per i servizi:
I servizi da potenziare.
I servizi da introdurre.
•
Quali interventi per gli operatori.
•
Priorità:
Le urgenze.
I programmi significativi di medio periodo.
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9. 2 La condizione dei bambini
I confini
La prima considerazione emergente dalle interviste riguarda i confini,
biografici e cronologici, della condizione dei bambini. Chi sono i bambini,
fino a quando si è bambini? I confini e le scansioni risultano diversamente
articolati, a seconda delle competenze disciplinari e dei riferimenti professionali ed operativi degli intervistati.
Un accenno preliminare va fatto alle distinzioni che derivano dal discorso legale e si riferiscono alla condizione giuridica dei minori (minorenni): fino a 13 anni i minori non possono essere sentiti nei processi civili. La soglia
dei 14 anni consente di richiedere il loro assenso nelle cause civili, e introduce alla imputabilità penale. I 15 anni sono la barriera giuridica per l’ingresso regolare nel mercato del lavoro. La distinzione-relazione fra minori,
bambini, adolescenti appare un problema rilevante per quanto riguarda soprattutto i minori stranieri non accompagnati, e le relative politiche di controllo.
Lasciando da parte le condizioni più peculiari, che «stirano» i bordi delle distinzioni consuete, nelle interviste ricorrono due modalità tipiche di
scansione del ciclo della vita.
a) Scansioni riferite allo sviluppo psicofisico dell’individuo:
❖ Il medico riporta la seguente suddivisione come universalmente
adottata:
• Neonati:
0 - 1 mese
• Lattanti:
1 - 12 mesi
• Prima infanzia:
1 - 4 anni
• Seconda infanzia:
4 - 8 anni
• Terza infanzia:
8 - 14 anni
• Adolescenti:
14 - 16 anni
❖ Il neonatologo aggiunge, integrando, che il bambino comincia nove
mesi prima della nascita.
❖ Per lo psicologo, le fasi di evoluzione e di crescita del bambino, viste
secondo il nesso pensiero-emozioni, portano alla scansione seguente: 0 - 3 anni; 3 - 6 anni; 6 - 10/11 anni. La fase che comincia verso i
13 anni con lo sviluppo della capacità d’astrazione, è la fase del «pensar pensieri», ossia l’ingresso nell’intelligenza adulta.
❖ La pedagogista sottolinea come i ritmi dello sviluppo cognitivo ed affettivo sono accelerati dalla parte delle ragazze.
Queste diverse scansioni riconoscono come una fascia 0-5 anni sia fin
troppo lunga. Vi è necessità di separare, nell’infanzia, la fase 0-3 dalla successiva 3-5, e viene sottolineata la crucialità della primissima fase: importantissimo è il periodo 0 - 3 anni. Il bambino deve trascorrerlo a stretto contatto con la madre, la quale dovrebbe essere posta in una situazione idillica,
non dovrebbe occuparsi d’altro, ma esclusivamente della crescita del figlio. In
questa fase, occorre aiutare le mamme ad occuparsi dei loro figli con tutta
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l’intensità necessaria, e fare lavorare bene i professionisti (pediatri ecc.) che
hanno a che fare con loro e con i bambini.
C’è chi sottolinea la crucialità in chiave preventiva del primissimo anno
di vita, se non addirittura dei primi 6-7 mesi; ciò, soprattutto quando il bambino viene a trovarsi in situazioni estreme, che richiedono l’allontanamento dalla famiglia originaria: in una fase di vita dove le cure parentali sono decisive, una istituzionalizzazione anche breve(inclusa la comunità) presenta
dei rischi, che andrebbero evitati e contenuti. In generale, occorre sostenere il bambino fin dai primi giorni di vita, di fronte a pericoli seri per la sua
integrità fisica e psichica, ed è sempre presente il rischio di intervenire troppo tardi o con troppa lentezza nel decidere l’intervento.
La fase tra i sei ed i dieci-undici anni («la fanciullezza») avvia ad una fase autonoma, compresa fra gli undici ed i tredici-quattordici anni, che tende ormai a separarsi dall’infanzia vera e propria, e a definirsi come preadolescenza. I cambiamenti sociali e culturali rendono oggi particolarmente
critica tale fase, in quanto essa viene considerata come il momento conclusivo della condizione infantile, senza per altro coincidere con l’ingresso nella adolescenza vera e propria, che prepara il passaggio verso un’età più adulta. In tal modo, è stato notato, «la durata dell’infanzia si appiattisce, e i bambini sono costretti ad entrare troppo presto, intorno agli undici-dodici anni,
in una preadolescenza difficile e turbolenta» (citazione da Giovanni Bollea).
A sua volta l’adolescenza segnala l’impatto di fattori socioculturali che vanno oltre alle dinamiche dello sviluppo psicofisico, in quanto corrisponde al
rito di passaggio definitivo dall’età infantile all’età adulta.
b) Una diversa modalità di scansione utilizza i cicli della istruzione formale. L’uso della sequenza scolastica per articolare la condizione infantile è
ricorrente fra gli operatori dei servizi, gli insegnanti e le associazioni di
genitori. La scansione distingue:
❖ l’educazione famigliare e dell’asilo nido (fino a tre anni)
❖ l’educazione pre-scolare, o della scuola materna (tre-cinque)
❖ la scuola elementare (sei-undici anni, suddivisa in un primo ciclo,
sei-sette e un secondo ciclo, otto-undici)
❖ la scuola media (undici-quattordici anni).
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La scansione scolastica regola sia le attività della istruzione formale, sia
la tipologia dei progetti di educazione extrascolastica, compensativa e territoriale. È chiara la distinzione di una fascia 0-3 anni, per quanto riguarda i
servizi residenziali ed i progetti relativi agli asili nido, tradizionali e innovativi, avviati dalla legge 285. Fino ai 5 anni non possono essere offerti che spazi ludici e centri di aggregazione spontanea. I 6 anni segnano la prima reale
discontinuità, con l’ingresso nelle attività di apprendimento scolastico formalizzato. Circa le proposte di anticipazione dell’ingresso nella scuola formale ad una età inferiore ai 6 anni, si registra negli intervistati contrarietà, o
l’esigenza di un ingresso flessibile adattato allo sviluppo del bambino.
I 10 anni sono, nell’educativa territoriale a Torino, la soglia minima di
accesso al servizio. L’attuazione della L. 285/97 ha portato a distinguere meglio fra «infanzia» e «adolescenza» come bersagli di progetti educativi sepa-
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rati: si segnala, nei progetti e nei servizi della 285, una minore attenzione o
minore capacità di intercettare i problemi della fascia adolescenziale. Il passaggio dalla preadolescenza alla adolescenza «piena», visto nella prospettiva della scansione scolastica, può comportare una delocalizzazione di sede,
il cambiamento radicale delle abitudini quotidiane (orari, trasporti, ritmi di
vita), l’ingresso in problemi personali e prestazionali nuovi, di diverso segno
e spessore rispetto alla scuola dell’obbligo.
Questioni emergenti
❖ L’età media al primo parto, si attesta ormai ai 32/35 anni, con un aumento di dieci anni rispetto al passato. Questo ritardo include anche
calcoli riproduttivi razionali e ricorsi alla IVG, aumenta alcuni rischi,
e comprime la possibilità di avere un elevato numero di figli. Se la
tendenza al calo della natalità pare indicare un minore investimento
nel futuro da parte della società adulta, ultimamente si registrano alcuni segni di arresto, che non possono tuttavia far parlare di una inversione di tendenza.
❖ Il lavoro esterno della donna è un cambiamento di portata storica,
che si riflette nell’impegno all’accudimento e all’educazione dei figli.
Donne che svolgono più mestieri contemporaneamente hanno meno tempo disponibile per i figli. Ma più che la quantità di tempo, è
l’intensità dell’impegno, la qualità del tempo trascorso insieme ciò che
conta… Alla lunga la madre che lavora alleva meglio i figli: sicuramente più stressata, ma più aperta alla realtà del mondo attuale. La
disponibilità di tempo libero da parte dei genitori, e soprattutto i modi della sua gestione nei confronti dei figli, sono una variabile significativa delle relazioni famigliari e del processo educativo.
❖ Le famiglie separate, ricostituite, miste, pongono, a sé e ai figli, problemi in parte nuovi, su cui manca ancora una riflessione adeguata:
la presenza-assenza e la rilevanza delle figure adulte di riferimento,
specie paterne; l’interferenza fra modelli culturali ed educativi compresenti nel nucleo famigliare, e nei rapporti con le istituzioni sociali esterne(scuola, comunità locale).
❖ Una relazione non biunivoca collega il ciclo dello sviluppo dell’individuo e la scansione scolastica, e lascia scoperte delle esigenze che si
evidenziano soprattutto nei momenti di passaggio e di transizione. Il
passaggio da un grado all’altro della scuola va accompagnato in forme adeguate, che evitino discontinuità eccessive: avere la preoccupazione pedagogica di non scandire troppo, tenere aperti e flessibili i passaggi. Oggi è inoltre più arduo avere quella compresenza fra le diverse età infantili, che un tempo era favorita dalla presenza di più fratelli nella stessa famiglia, o dalle pluriclassi della scuola elementare presenti nelle zone marginali del territorio.
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9.3 I bambini disabili
Le tipologie dell’handicap
L’area problematica dell’handicap infantile si sta allargando, sotto l’azione congiunta di diversi fattori:
❖ l’incremento della sensibilità sociale al fenomeno (ce ne accorgiamo
di più);
❖ la maggiore sopravvivenza alla nascita (la scienza ha fatto passi grandissimi per fare sopravvivere bambini disabili alla nascita);
❖ l’alleggerimento degli handicap alla nascita, attraverso la diagnosi
prenatale e una assidua assistenza ostetrica e neonatologica;
❖ la maggiore sopravvivenza nel corso della vita, con l’allungamento
costante dell’età media delle persone down fino ai 60-70 anni, e la
conseguente diversità fra generazioni di disabili(non più soltanto
bambini disabili vs. «altri bambini», ma «disabili bambini» vs. disabili «di altre età»);
❖ i fattori traumatici sopravvenuti nel corso della vita (il caso del bambino con lesioni craniche prodotte dal trattore che l’ha schiacciato);
❖ malattie degenerative che hanno inizi precoci (es. distrofia, alzheimer in età giovanile)
Non è agevole scomporre l’effetto cumulativo e l’impatto dei diversi fattori. Una conclusione è che, con handicap, si nasce, si cresce, si diventa.
L’handicap e la famiglia.
Il verificarsi dell’handicap come «ospite imprevisto» può produrre impatti squilibranti sulla compagine famigliare. Alla nascita, l’impatto si riversa sulla famiglia con esiti talvolta distruttivi:
❖ rifiuto da parte dei genitori, con invio quasi immediato del neonato
in una struttura di accoglienza;
❖ rottura della coppia: la madre assume un ruolo diverso da quello di
moglie, il padre abbandona.
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L’adattamento delle famiglie all’handicap alla nascita, e la loro capacità
di gestione, appare più elevata quando si tratta di famiglie giovani, più informate, che conoscono le risorse pubbliche e private a cui rivolgersi. In ogni
caso, per i bambini piccoli con grave handicap mancano presidi adeguati: in
ospedale possono stare solo per un breve periodo; tornati a casa in famiglia,
questa ha bisogno di aiuto. Le normali difficoltà di gestione del primo periodo di vita risultano talvolta così esasperate, al punto da trovare genitori
che ritornano in ospedale per «riconsegnare» il bambino.
Nel prosieguo della vita, la situazione di handicap mette a prova l’unità
delle coppia, la tenuta della rete famigliare allargata(ruolo supportivo dei
nonni ecc.) e l’impegno assiduo nella cura. È un dato di esperienza che le fa-
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miglie con bambini disabili hanno una maggior attenzione di accudimento
verso questi bambini. Eventuali fratelli non disabili sono esposti alla «tentazione» di ritenere che i loro genitori(la madre in particolare) «eccedano» in
attenzioni verso il bambino disabile, riservando loro di conseguenza minore attenzione.
Se ne conclude che l’intervento appropriato varia a seconda del tipo di
handicap e del tipo di famiglia. Se il bambino «nasce» disabile, è necessario
sostenere la famiglia, se il bambino «diventa» disabile, oltre a sostenere la famiglia, occorre aiutare il bambino ad accettare la sua nuova condizione.
Sempre, la famiglia che si trova con un bambino disabile è chiamata a riprogettare la sua vita.
I servizi di territorio
I servizi formali – sanitari e socio-assistenziali – disponibili sul territorio
sono limitati per quantità, e talvolta per attenzione, verso il problema costituito dal bambino disabile.
❖ Il pediatra di base va considerato fra i primi canali di informazione e
comunicazione verso la famiglia e verso la rete dei servizi; ma la sua
attività verso le problematiche specifiche dell’handicap è ritenuta
poco incisiva.
❖ In servizi specialistici, come la logopedia e la psicomotricità, non
sempre avviene che il «caso» sia gestito per la durata e con l’intensità
occorrenti. I cicli di sedute hanno effetti di riduzione delle sintomatologie, ma non esiti risolutivi rispetto a patologie non sempre ben
analizzate.
❖ Un servizio importante sono gli interventi di recupero del sordomutismo, attraverso scuole speciali che adottano tecniche calibrate sullo sviluppo psichico e del linguaggio. Una esperienza della scuola
Lorenzo il Magnifico di Torino mostra che il linguaggio dei segni può
essere insegnato anche ai bambini udenti, e fornisce loro una base di
comunicazione «attraverso la differenza».
La connessione fra presidio ospedaliero(come nel caso Regina Margherita)e attività di controllo a domicilio e a distanza, rafforza l’ipotesi che i
disabili restino in qualche forma «a carico» della struttura che li ha visti nascere. Ciò manterrebbe all’ospedale il carattere di un luogo protetto, che
contiene l’ansia e rende più gestibile il distacco. In questo senso, il presidio
ospedaliero andrebbe rafforzato con servizi di orientamento, consulenza e
assistenza psicologica.
In generale, tra eccesso di specializzazione di carattere sanitario e clinico da un lato, ed eccesso di precarietà negli aiuti di affiancamento (educativa territoriale, insegnanti di appoggio dall’altro), vi è spazio per realizzare
iniziative sperimentali, che hanno un effetto dimostrativo circa la possibilità
di interconnettere meglio tra loro servizi, prestazioni ed operatori.
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La scuola e l’inserimento
A giudizio abbastanza condiviso dagli intervistati, le pratiche di inserimento nella scuola funzionano, con successi e con limiti. Nella scuola materna e nella elementare, l’integrazione di bambini disabili è buona, con insegnanti di supporto abbastanza preparati. Negli ordini di scuola successivi
(dalla media inferiore e oltre) molto dipende dall’insegnante di appoggio.
L’intervento di sostegno è comunque limitato, per numero di insegnanti (in
rapporto ai disabili) e di ore svolte. La funzione di insegnante di sostegno
viene conferita attraverso meccanismi di ripiego (coloro che «perdono il posto» negli altri insegnamenti), e la loro competenza è il risultato pratico di
una preparazione acquisita sul campo, senza supporti tecnici specializzati
alle spalle. Lavorare con gli insegnanti, per sviluppare competenze scolastiche verso i disabili, richiede una formazione attenta soprattutto ad accompagnare i passaggi (già il passaggio dalle elementari alla media costituisce
una soglia, e più elevata ancora è la soglia del passaggio alla scuola secondaria). I comportamenti degli altri soggetti presenti nell’ambiente scolastico mostrano come, per gli altri bambini, il grado e le forme dell’accettazione variano a seconda dei livelli scolastici. Lo stesso vale per i genitori degli
altri bambini non disabili, che possono manifestare resistenze, esplicite o
tacite, all’atto di formazione delle classi e nel corso dell’ordinaria pratica
scolastica.
Una osservazione più generale circa l’inserimento scolastico riguarda la
prevalenza degli scopi di socializzazione su quelli di apprendimento. Vi è il
rischio di promuovere una socializzazione anche gratificante, che tuttavia
non prepara a reali livelli di integrazione sociale futura. Questo rischio è negativo soprattutto per il disabile adolescente, che dovrebbe imparare qualcosa per il suo futuro, usando al meglio il tempo dell’apprendimento nella
scuola. Occorre al riguardo costruire una didattica con progetti, che riducono la componente libresca e astratta, e impiegano strumenti più vicini ai disabili(espressione corporea, teatro, ceramica ecc.). Senza che ciò precluda la
possibilità di sviluppare, in modo induttivo ed operativo, anche nozioni teoriche di carattere logico linguistico matematico, con l’ausilio di tecnologie
informatiche, che oggi sono ancora poco usate nella scuola e a maggior ragione per i disabili.
L’ascolto delle famiglie
Gli aiuti richiesti dalle famiglie sono di vari tipi:
❖ un sostegno precoce, che intercetti il primo impatto;
❖ aiuti materiali, quali indennità economiche, congedi e permessi sul
lavoro, ausili tecnologici;
❖ accesso ai servizi;
❖ sostegno reciproco e aiuto automutuo.
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In realtà non esiste una richiesta standard. È una constatazione ricorrente che, alla famiglia del disabile, quello che viene fornito(da servizi pubblici
e associazioni private) non basta mai. D’altra parte, lo «stile rivendicativo»
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con cui molte domande vengono poste, richiede a sua volta di essere compreso e interpretato: spesso la richiesta di accesso ai servizi è una occasione
per contestualizzare un problema più generale. La domanda economica (la
richiesta più frequente) rinvia a dimensioni non economiche del servizio e
dell’aiuto, che possono essere non trasparenti agli stessi genitori che avanzano tale richiesta.
Già offrire alle famiglie ascolto e attenzione richiede impegno non lieve,
a cui dovrebbe seguire orientamento e risposta. Al riguardo, è ritenuta importante la funzione del gruppo di auto e mutuo aiuto dove le persone coinvolte solidarizzano. Essendo frequente la tendenza delle famiglie a isolarsi e
trattenere su di sé il problema, occorrerebbe «obbligarle» a far parte di gruppi di auto e mutuo aiuto, gestiti da persone competenti e preparate nella
elaborazione delle emozioni.
Si pone a questo riguardo l’offerta delle associazioni, che consentono ai
genitori di socializzare i loro problemi attraverso forme di mutuo aiuto e di
consulenza individualizzata. L’esistenza di una pluralità di associazioni, che
hanno sedi nell’area torinese e raccordi a livello interregionale e nazionale,
ha determinato in passato tratti di concorrenzialità, che oggi sono in via di
superamento. Viene osservato che molte famiglie non si associano, non perché ignorino l’esistenza e l’attività delle associazioni, ma perché preferiscono «trattenere» il problema, e si rifiutano di esporlo. Emerge quindi per le
associazioni il problema di farsi conoscere dalle famiglie, e di essere da queste riconosciute come portatrici di sostegni effettivi.
Orientamento e intervento domiciliare
L’esistenza e la dispersione dei servizi esistenti sul territorio produce disinformazione e disorientamento nei potenziali utenti. Una via per ovviare
alla frammentazione degli interventi e dei servizi esistenti comporta la diffusione della informazione pertinente alle famiglie, con servizi di facile accesso e bassa soglia di complessità. Dovrebbe seguire un servizio di orientamento, con l’appoggio di consulenti specializzati, che consenta alle famiglie di compiere una azione più efficace e produttiva di scelta del care
management.
Quanto ai servizi di appoggio a domicilio, risultano esistenti soprattutto
a Torino, ma in quantità insufficiente, pressoché assenti fuori città (con la
conseguenza di sovraccaricare le associazioni di compiti di appoggio). Per lo
sgravio del carico assistenziale, e la tregua rispetto a bisogni di care continuativa, la soluzione possibile è quella di persone preparate, che aiutano la
mamma nel badare al bambino e alla casa(una «tata famigliare» per il bambino disabile).
Rispetto ai problemi assai difficoltosi del primo impatto, si potrebbe sperimentare un progetto Ritorno a casa dall’ospedale del bambino disabile, con:
❖ forme di aiuto concreto (economico, assistenziale) alla madre ed alla
famiglia;
❖ sostegni aggiuntivi di badanza, che lasciano la madre più libera, e
meno contratta in modo esclusivo sulle attività di care;
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❖ inserimento di entrambi i genitori in gruppi di autoaiuto, che consentono loro di gestire ed assorbire traumi psicologici e relazionali
associati all’evento.
Un’area critica, per molte famiglie fonte di preoccupazioni e sofferenze,
è «non sapere che cosa faranno da grandi i loro bambini disabili». Ne deriva
anche un rifiuto di socializzare con le generazioni di disabili più adulti: si
preferisce non guardare i più grandi, quasi a non vedere in loro rispecchiato
un destino che è meglio non prevedere. Ma il problema dell’incertezza continua a riproporsi.
Allargare e socializzare la cultura dell’handicap
L’esposizione della cultura sociale diffusa ai problemi delle disabilità infantili è in parte connessa alla visibilità immediata delle situazioni: il bambino down porta in faccia la sua patologia. Il che non sempre favorisce una
presa di consapevolezza matura, ma talvolta l’approccio compiacente che si
riserva a diversità graziose. La patologia «che non si vede» crea maggiori
problemi di conoscenza e relazione.
Si rilevano anche bisogni di più approfondita conoscenza, circa dimensioni, problemi e risposte sui temi dell’handicap infantile. Non si conoscono ancora con precisione i numeri esatti di certe disabilità(ad esempio i
bambini down dell’area torinese).Andrebbero studiati i percorsi longitudinali del gruppo famigliare con handicap, per comprendere come il modo di
fronteggiare l’evento disabilità condiziona, nel tempo, stabilità, impoverimento, ricupero della compagine famigliare.
In complesso, la scarsa esposizione alla cultura sociale esterna finisce
per circoscrivere i problemi dei bambini disabili entro il gruppo di coloro
che ne sono portatori, come se si trattasse di una loro questione del tutto
«privata». Ciò non manca di avere conseguenze rilevanti sul piano delle tutela e della legislazione. Ad esempio, se optare per scelte di assistenza prolungata e garantita, come vorrebbe la proposta di ottenere l’interdizione giudiziaria del disabile prima della maggiore età. Se, al contrario, favorire l’inserimento sociale e lavorativo verso l’autonomia possibile. Il processo di inserimento risulta per il disabile fisico assai meno difficoltoso rispetto al disabile psichico, e richiede una progettualità di formazione professionale più
mirata, che andrebbe preparata fin dalle fasi di scolarità obbligatoria.
9.4 La dimensione territoriale
La percezione dei problemi
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Fermo restando che ci sono mille situazioni una diversa dall’altra, la
morfologia sociale del territorio piemontese ha una certa incidenza per
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quanto riguarda sia la percezione dei problemi dei bambini, sia la dotazione e la qualità delle risposte.
Il giudizio prevalente è che le situazioni territoriali si stiano avvicinando,
se non omogeneizzando. I problemi si livellano, i modelli culturali vengono
rimescolati, a partire dalla cultura urbana che «colonizza» e assorbe culture
locali più tradizionaliste. Chi ha avuto successive esperienze professionali
con bambini in aree diverse – come Torino, Asti, Cuneo o il Canavese – constata come siano rimaste differenze limitate. Certo, vivere fuori città vuol dire vivere in una dimensione diversa, ma negli stili di vita ormai ci sono poche
differenze. In negativo, la droga è diffusa ovunque.
Nel distretto giudiziario Piemonte Valle d’Aosta, ancora fino alla metà
degli anni Ottanta i fenomeni di devianza che interessavano la procura minorile presentavano una diversità di tratti, che nel tempo si è andata restringendo. Oggi, in termini quantitativi, i casi riguardano per il 30% minori italiani di Torino città, per il 20% minori italiani di fuori Torino, per il 50%
minori stranieri.
Nel contempo, emergono alcune variazioni significative, che portano a distinguere fra la città, l’area metropolitana ed il resto del territorio regionale.
❖ La città (Torino) presenta situazioni più problematiche, e maggiori
richieste di intervento mirato, invio in comunità, allontanamento
temporaneo in contesti protetti (case famiglie, comunità di tipo famigliare ecc.) ecc.
❖ La cintura metropolitana amplifica e dilata problemi di marginalità e
nomadismo. Per i ragazzi che vivono nei comuni della cintura, la mobilità in uscita dal borgo comincia a 12 anni, le fermate del bus sono
le porte di accesso al nomadismo verso la città. Nel contesto rurale, i
problemi sono per quantità minori; la piccola dimensione sociale
tende ad assorbirli entro modalità informali di relazione, permangono, almeno nella situazione extrascolastica, abitudini e frequentazioni fra bambini di diverse età, in cui si esprime un tratto di società locale tradizionale. La microsocietà locale tuttavia incoraggia un certo
«fai da te», che esprime distanza dai servizi e scarsa propensione a ricorrervi. La conoscenza personale e diretta fra operatori e famiglie, in
contesti di piccole dimensioni, paradossalmente rende più difficile
esplicitare i problemi del bambino, renderli «pubblici».
❖ Vi sono zone particolarmente depresse, con maggiore ignoranza e
trascuratezza, dove i bambini, non per questo abusati o maltrattati,
non vengono accuditi da genitori che non sono in grado di fare i genitori. È stato fatto l’esempio di bambini che sono stati lasciati vivere
abitualmente in mezzo ai maiali. Per quanto riguarda problemi gravi
di salute, un più basso livello di scolarità e una minore consuetudine
ai servizi sanitari favoriscono una fiducia poco razionale verso terapie a base magico-tradizionale (il caso del «mago di Luserna»).
❖ La seconda cintura è meta di una recente «emigrazione» da parte di
ceti medi urbani e professionali, che cercano di usare in modo favorevole la distanza dalla città: giovani coppie che fuggono dalla città e
vanno nel piccolo centro, per potere avere un migliore controllo sulla
situazione dei propri figli e per educarli meglio.
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La morfologia delle risposte
Alla diversità dei problemi e delle loro rappresentazioni, corrisponde la
diversa capacità delle comunità sociali di organizzare sistemi di risposte. Il
quadro degli interventi e dei programmi presenta in Piemonte una eterogeneità di profili e situazioni, che non si riconducono ad un sistema omogeneo e convergente di politiche e di servizi.
La zona urbana è senza dubbio quella più ricca di risposte organizzate.
A Torino l’offerta pubblica, in particolare del Comune, è elevata per quantità
e varietà. L’area torinese ha sviluppato una rete di servizi con forme innovative di intervento e coordinamento: comunità alloggio, centri diurni, centri
di aggregazioni per minori, affidamento, servizi per disabili. Attiva è la presenza di organizzazioni del civile(associazioni ecc.); elevata l’offerta di iniziative culturali e sociali per il tempo libero, anche se spesso non sono ben
conosciute dalle famiglie. Per contro, servizi basilari per la prima infanzia(quali i nidi per 0-3 anni) sono carenti. Nelle aree suburbane, una disomogenea dotazione territoriale genera difficoltà di accesso a servizi ed opportunità che pure esistono (ad es. per chi sta in Valle di Susa la necessità di
spostarsi su Avigliana). Il disagio dei trasporti, che ancor più incide nelle
aree montane, rende difficile la scolarità a livello di scuola media, ed ha effetti negativi sulla dispersione scolastica e gli abbandoni, soprattutto nei
primi anni dopo la scuola media.
Fuori Torino si stanno attivando, da parte delle amministrazioni locali,
dei servizi innovativi, che finora non erano stati richiesti e promossi. Non
solo per carenza di risorse ma per ritardi culturali,che si vanno colmando,
mentre permane la scarsità di risorse finanziarie e umane adeguate, in
quanto la promozione di nuovi servizi a partire dalla città sviluppa spinte
emulative nelle stesse amministrazioni periferiche. La conseguente scelta
fra servizi alternativi (ad esempio, se fare i centri di incontro oppure l’educativa territoriale) discende da specifiche modalità locali nel guardare i problemi e rapportarsi alla popolazione residente, giovanile e adulta.
Si nota tuttavia come nei contesti piccoli scarseggia l’offerta formale di
servizi rivolti verso le problematiche gravi. Ai servizi NPI dell’ospedale arrivano tutte le situazioni più gravi di fuori Torino. Le risorse sociali insediate generano una maggiore capacità di gestione informale di singoli casi problematici: ad esempio è più facile rendere autonomo un ragazzino disabile in un
piccolo contesto, se ha supporti e facili punti di riferimento. In un ambiente
più povero c’è, curiosamente, una rete più larga dal punto di vista sociale, una
maggior capacità di assorbire problemi. Ma, all’inverso, la piccola dimensione produce rifiuti sociali più diretti e crudeli: il trattamento della diversità avvicina per certi aspetti il disabile al malato mentale, la patologia viene rifiutata, sulla diversità si imprime uno stigma arduo da cancellare.
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9. 5 Forme emergenti del disagio
L’abuso e il maltrattamento
Il problema più grave è quello dell’abuso e del maltrattamento. Sul problema dell’abuso è cresciuta l’attenzione e la preoccupazione sociale, anche
al di là dell’aumento oggettivo del numero dei casi. Appare più allertata l’attenzione per condotte che, in passato, erano spesso assorbite, e coperte entro contesti sociali e famigliari all’esterno poco trasparenti. Oggi le condotte di abuso e maltrattamento non sono direttamente collegate alla povertà
economica e alla mancanza di mezzi di sussistenza, ma ad una certa banalizzazione dei criteri di scelta morale: si fa del male, ma «lo fanno tutti».
L’abuso ha gravi conseguenze, in quanto stabilisce una forma di relazioni all’interno della famiglia su cui è molto difficile agire. Produce vittime
profonde entro relazioni chiuse, dominate dalla patologia dell’adulto. Tutto
questo, nei casi di bambini molto piccoli, rende assai difficile intervenire e
soprattutto individuare la patologia dell’adulto abusante.
Sul piano delle risposte, con l’aumentata attenzione verso il fenomeno
gli operatori hanno acquistato maggiore preparazione al tema. Oggi, a differenza del passato, se ne parla; gli operatori sono più disponibili a vedere e
osservare determinate situazioni, a individuare i primi segnali. Ma siamo
ancora piuttosto lontani dallo scoprire tutto ciò che è ancora nascosto. Molte
realtà di abuso vengono a conoscenza dei servizi quando i bambini non sono più tali, ad esempio per quanto riguarda l’abuso di ragazze disabili. È difficile, in complesso, per l’operatore trovare un punto di equilibrio fra il «non
saper vedere» ed il «minimizzare». Non manca neppure un certo uso strumentale delle sindromi di abuso nei conflitti fra gli adulti. L’attenzione sociale procede in modo intermittente: destata da episodi di clamore, ma anche sensibile alle determinanti sociali del fenomeno. Sembra invero più facile prestare attenzione al problema, quando si verifica nei quartieri difficili, dove si è già maggiormente predisposti ad affrontare problemi sociali.
Dove l’ambiente sociale è più elevato, è più forte il timore di affrontare il
problema: i segnali di disagio sono razionalizzati; la sensibilità non diventa
segnalazione o intervento esplicito. Tuttavia la congiura del silenzio non serve. Talvolta a sette-otto anni è già tardi. Bisogna prepararsi ad avvertire la situazione e attivare tempestivamente i circuiti di segnalazione e di recupero.
La distinzione tra abuso e maltrattamento è corretta e necessaria: l’abuso ha sulla vittima ripercussioni molto più profonde di quelle provocate da
generici maltrattamenti; il maltrattamento inoltre non impedisce comportamenti di recupero, che riguardano sia il bambino sia l’adulto. La violenza
dell’adulto sul bambino può essere contrastata e riassorbita, modificando le
situazioni reali. Una percossa pesante mostra una situazione di difficoltà dell’adulto, ma è un comportamento modificabile.
Per contro, un bambino che sia messo a rischio della sua integrità dalla
permanenza nella famiglia di origine ha diritto a ritrovare il più rapidamente possibile una famiglia accogliente (la sua stessa, oppure quella affidataria
o adottiva): l’allontanamento del bambino dalla sua famiglia deve avvenire
solamente quando la famiglia, dopo essere stata aiutata, non risulta affida-
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bile e non è in grado di cavarsela da sola. Nella necessità dell’allontanamento, ciò che conta è salvare i bambini, e prima di tutto interrompere la catena
degli abusi e dei maltrattamenti.
Famiglie multi problematiche, famiglie divise
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Di chi sono i bambini allontanati e affidati alle strutture di accoglienza?
Negli anni Sessanta le prime iniziative di aiuto sorte su base volontaristica
erano rivolte alle «ragazze madri», per evitare a loro ed ai loro figli l’istituto;
negli anni 80, per collocare bambini in via di de-istituzionalizzazione(caso
dell’ex Ipim). Oggi il problema riguarda le famiglie multiproblematiche, con
bambini che nascono in crisi di astinenza; allontanati da genitori con problemi psichiatrici, per maltrattamenti e abusi o, come talora accade, rifiutati alla nascita in quanto portatori di patologie fisiche o psichiche.
L’accoglienza nella struttura è ritenuta dagli operatori un momento transitorio di passaggio, verso un esito più stabile, se non definitivo(adozione, affidamento, rientro nella famiglia di origine). Esito peraltro previsto, ma non
immediato o certo.
Si situa qui il problema, da più parti segnalato, dalla genitorialità assente dei tossicodipendenti. Il tossicodipendente non può aderire al bambino,
ma mette avanti tutto le proprie esigenze. Nelle famiglie allargate del tossicodipendente, non esistono risorse di genitorialità su cui fare affidamento anche per breve tempo. Perciò, quando entrambi i genitori sono tossicodipendenti, soprattutto con mamme tossicodipendenti e bambini molto piccoli,
l’allontanamento risulta pressoché inevitabile. Nell’intervista svolta all’interno di una comunità dove vengono accolti bambini molto piccoli nati in
crisi di astinenza da genitori tossicodipendenti, si nota però: «i figli dei tossicodipendenti sono i casi più semplici. I bambini si recuperano benissimo. I
genitori, se vengono, possono anche essere aiutati». Come dire che si valuta la
recuperabilità non solo del bambino, ma anche della famiglia.
Fra le situazioni di gravità, per dir così ordinaria, la più frequente è la
collocazione divisa del bambino fra genitori che lo impiegano come posta
nella loro contese di separazione. La mancanza di ascolto del bambino nei
processi di rottura famigliare finisce per riflettere una violenza dei rapporti fra gli adulti, che si scarica sul bambino. Nella separazione dei genitori, il
bambino diventa l’oggetto che viene sballottato; tutti lo vogliono ma nessuno se ne cura.
Per altro, il rapporto fra famiglia divisa e sofferenza del bambino è oggetto di valutazioni non del tutto collimanti:
❖ Nella prassi ordinaria, e nella esperienza in incremento delle famiglie
divise e di quelle ricostituite, si dà per scontato che la separazione non
produca per il minore effetti lesivi, che siano meritevoli di apposita tutela (così nelle separazioni decise dal Tribunale ordinario).
❖ In sede ospedaliera: al momento dell’accettazione, immediatamente
si distingue il bambino maltrattato o il bambino con genitori separati.
❖ La separazione introduce difficoltà, soprattutto per le donne, che si
aggiungono alla «normali fatiche» necessarie a garantire una educa-
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zione dignitosa ai loro figli. Se il lavoro di allevare figli è reso particolarmente oneroso dai costi non riconosciuti e dalla scarsità di servizi
di appoggio, nel caso delle separazioni questo carico risulta aggravato: un terzo dei ragazzi oggi presenti nei in presidi socioassistenziali in
Piemonte sono figli di separati.
Come dice Bollea «la separazione è una storia d’amore che finisce, ed
una storia di soldi che comincia: i bambini si trovano spesso in questo incrocio». Un terreno di conflittualità, rilevante in sede giudiziaria, è la gestione regolare dell’assegno di mantenimento nella fase successiva alla separazione.
Il disagio sommerso
Altre forme di disagio hanno aspetti meno evidenti, più nascosti. I cambiamenti nella nostra cultura sociale riducono gli spazi della attenzione
educativa verso le nuove esigenze del bambino, e diffondono situazioni di
maltrattamento psicologico, anche in assenza di maltrattamento fisico e di
non accudimento materiale. Oggi il disadattamento è soprattutto psicologico: stanno peggio ora di venti anni fa. Stanno male, ma senza comportarsi
male o meno ancora commettere reati. L’aumento del disagio psicologico determina non comportamenti eclatanti, ma un enorme difficoltà di adattamento al contesto di vita quotidiano; alimenta una sofferenza implosiva, i
cui segnali sono più difficili da cogliere: ad esempio, nella scuola è assai più
probabile l’aiuto verso bambini che presentano esplicite difficoltà, di carattere fisico, rispetto a forme di disagio sommerso.
Le situazioni del «nuovo disagio» sono state ricondotte ad alcune situazioni tipiche, famigliari e sociali.
Depressione e disturbi relazionali
Sono tanti i bambini depressi che hanno alle spalle una famiglia nella
quale non c’è la capacità di avere delle relazioni significative… Nella fascia 613 anni aumenta l’osservazione clinica di situazioni di disagio; sovente dietro psicosi che emergono in età giovanile, vi sono situazioni che si generano
e si trascinano da età assai più precoci. Tra i comportamenti segnalatori dei
disturbi relazionali, i disordini alimentari precoci e il bisogno estremo di
movimento: più lo fanno, più si montano, non sembra che l’attività fisica li
scarichi… si muovono dovunque, in casa, a scuola, nei ristoranti, nei treni.
Comincia ad essere usata anche da noi la diagnosi di iperattività, che favorisce la somministrazione di appositi psicofarmaci.
Disagio nella scuola
Nella scuola, il disagio sommerso3 si esprime in comportamenti quali:
❖ il bullismo, praticato anche in età ed in sedi «insospettabili» (come le
scuole materne): interessa bambini di varie classi sociali, mostrando
così di non essere l’esito di deprivazione economica;
❖ problemi di balbuzie, assoluta mancanza di attenzione. Di fronte a
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una modalità tradizionale di insegnamento, un bambino che non riesce a stare attento per più di 10 minuti mostra come «la curva dell’attenzione si è contratta molto».
La famiglia noncurante
Nel processo di maturazione personale è determinante la relazione con
figure adulte di riferimento, e la dimissione dal ruolo da parte dell’adulto
può avere conseguenze alquanto negative. Figli unici senza genitori: sembra
quasi che gli adulti non vogliano vivere con i loro bambini! Che il bambino si
presenti loro come un intruso. Adulti che non condividono il piacere di stare con i loro bambini, la voglia di divertirli e, al tempo stesso, educarli. Non
cogliere e non curare i passaggi della crescita è un segnale serio di trascuratezza: i passaggi della crescita sfuggono ai genitori, che se ne accorgono soltanto quando successo qualcosa di importante, se non di grave…
Anche il tema cura-trascuratezza appare trasversale alle fasce sociali.
Tuttavia, per quanto riguarda le classi agiate, la cura dei figli è spesso delegata ad altre figure di supporto, scelte dalla famiglia stessa; le classi più povere lasciano i bambini più soli. Alla scuola si finisce allora per delegare quasi tutto.
Anaffettività e mancanza di ascolto
La competenza affettiva è il proprium che non può essere negato alla famiglia, senza negare la sua stessa realtà. Se gli aspetti educativi legati agli
apprendimenti possono essere compensati da altri soggetti e istituzioni, la
canalizzazione delle competenze affettive nella famiglia resta insostituibile.
Al tempo stesso, la disattenzione nell’ascolto è il punto di massima criticità
attuale. È diventato un problema del minore il fatto che gli adulti non lo
ascoltino.
Dietro l’assenza di ascolto si cela un conflitto relazionale: l’adulto non
ascolta, perché ha paura della sue stesse emozioni, e se ne vergogna.
Insegna così al bambino a tenere nascoste nel silenzio le sue emozioni, o
manifestarle soltanto attraverso l’aggressività.
L’assenza e la difficoltà dell’ascolto si associa con la riluttanza degli adulti di identificare il proprio ruolo come datori di regole, che fissano regole e
sanno farle rispettare. I modelli di perfezione virtuale, diffusi dai media, accrescono il senso di insignificanza delle norme gestite nel quotidiano. Una
famiglia intrappolata nel circolo vizioso della superficialità costruisce un
percorso defatigante con le istituzioni educative: a casa si demolisce l’edificio che altrove si cerca di costruire. D’altra parte la velocità del cambiamento culturale aumenta il senso delle sfide – anche per i bambini – e con esso
il senso di inadeguatezza e la vulnerabilità al fallimento. Così nella scuola
l’insegnante «ha paura» del genitore e il genitore «ha paura» del bambino.
Alla fine «comanda» l’unico che non è in grado di farlo.
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L’eccedenza di opportunità
Anche se la diffusione dei media non modifica la sostanza degli apprendimenti che hanno luogo nella scuola, la distanza e diffidenza reciproca fra i
due mondi rende arduo ai bambini rielaborare i contenuti appresi nei due
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contesti. Apre questioni di credibilità e di interferenze cognitive, che non si
possono risolvere per via di autorità.
Il caso del bambino che cambia spesso gioco, di quello fissato su uno, o
svagato su troppi, allude alla eventualità che lo zapping diventi la modalità
ordinaria di apprendimento, senza che tale apprendimento «metabolizzi»
nozioni capaci di formare. La risposta non può darla l’assorbimento eccessivo di troppe nozioni, in tempi contratti, destinate a successiva e rapida rimozione. Il fatto è che le nozioni non sono accompagnate da correlati apprendimenti emotivi, a forte carica di esperienza sensoriale: la scheda dell’albero sostituisce l’esperienza dell’albero, ma come può farlo?
Anche nelle elementari, che sono per giudizio condiviso l’area della
scuola più sintonica con i processi di sviluppo cognitivo, non è del tutto giustificabile in termini evolutivi il salto fra i primi due anni di «apprendimento sciolto» e l’esposizione (dalla terza classe in poi) al «dovere di sapere», che
passa attraverso l’apprendimento mnemonico di nozioni obbligate. Si tratta di ridurre lo spazio delle attività obbligate, per allargare quello delle attività libere, che avvicinano la scuola a misura di bambino.
Nel quotidiano, aumenta molto l’offerta di servizi di consumo, non altrettanto le occasioni per la socializzazione. La famiglia appare impegnata a
cercare delle opportunità per i figli, molto meno a intessere delle relazioni
sociali non finalizzate. Specialmente se entrambi i genitori lavorano, la famiglia richiede maggiore capacità organizzativa, per star dietro alle esigenze dei figli e gestire i loro tempi, ma non sempre dispone di competenze sufficienti o esperienze con cui confrontarsi.
Una variante di questa condizione di assenza è la situazione, solo in apparenza opposta, del bambino pressato dai troppi impegni nel tempo libero
dopo la scuola. Talvolta, è la stessa scuola che chiede troppo(anche se non è
detto che «offra» troppo). Più spesso, è il bambino che i genitori «costringono»
a moltiplicarsi nelle attività(sport, danza, lingue, ecc.); forse in tal modo gli
adulti rispondono a propri bisogni di rassicurazione ed impiego razionale del
tempo, quando non a pulsioni narcisistiche(sport agonistico precoce, ecc.).
Si osserva infine come i luoghi formali di aggregazione (oratori, associazioni ecc.) sono in ribasso, mentre l’offerta proveniente dal mercato propone opportunità di consumo e di prestazione, prevalenti rispetto alle domande di socializzazione. Conclusione: Bambini abbandonati a se stessi …
figli unici, senza animali domestici, l’unico strumento disponibile è la televisione… non hanno spazi fisici per il gioco libero, «non ci sono più i cortili di
una volta». Una scena da film dell’orrore urbano?4
9.6 Quali risposte
I servizi sanitari ospedalieri
Passiamo ora ad analizzare le risposte fornite dagli intervistati, in relazione ai dati di organizzazione, funzionamento e cultura nei servizi dell’area
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torinese che si occupano di bambini, nonché le innovazioni che propongono come desiderabili.
Nei servizi di tutela della salute, una buona collaborazione fra il sistema
ospedaliero e i servizi territoriali è ritenuta fondamentale per «medicalizzare» bene i problemi della nascita e della crescita. Occorre la volontà degli
ospedali di consentire l’evento nascita dal punto di vista il più possibile umanizzante, e medicalizzato solo nella misura del necessario.
In particolare, nel processo del parto:
❖ è importantissima la preparazione e la sicurezza (autoconfidenza),
che solo l’ospedale può dare;
❖ va favorita una prassi di rapide dimissioni, adeguatamente seguite a
domicilio (dimissioni dopo 24 ore con home care: progetto pilota del
Sant’Anna);
❖ la visita ai neonati da parte dell’assistenza sanitaria a domicilio consentirebbe la segnalazione di casi a rischio, e un intervento a ridosso
della nascita che evita traumi successivi.
Costruire una buona assistenza di base per gli eventi fisiologici della nascita e della crescita, darebbe anche modo all’ospedale di mantenere ed
adeguare la sua funzione di specializzazione. A tale proposito, sono ritenuti
rilevanti:
❖ più assidui rapporti con il pediatra di base;
❖ maggiori attività di prevenzione, da parte dei consultori e dei servizi
di igiene;
❖ la formazione delle figure di infermieri pediatrici e di «nuove» vigilatrici d’infanzia, che consentono di realizzare un intervento competente anche a domicilio.
Per quanto riguarda l’intervento su situazioni gravi, in contesto ospedaliero ne emergono principalmente due:
❖ l’intervento su malattie rare, che richiede la collaborazione fra associazioni di famigliari e le organizzazione ospedaliere e della ricerca;
❖ le patologie gravi: 120-130 diagnosi annue dell’Ospedale Regina
Margherita per leucemie ed altri tumori, a cui seguono trattamenti,
che hanno un tasso di guarigioni fino all’80%.
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La presenza della malattia grave del bambino è un evento per più versi
critico. Mette alla prova la solidità della coppia genitoriale (i genitori faticano ad accettare la situazione e spesso ritardano l’inizio delle cure quando invece la tempestività è tutto). Espone a rischi di stabilità la coppia, che è chiamata a condividere la sofferenza ed il dolore del bambino per il non breve
periodo – da 15 a 100 giorni – in cui deve stare in ospedale (tempo di grande
verifica per i genitori). Mette a rischio l’identità stessa del bambino, che appare tuttavia disposto a qualsiasi tipo di cura e di «tortura» che sa necessaria per guarire (a differenza degli adulti, il bambino accetta tutto fuorché le
bugie).
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Le risorse per una risposta più adeguata ai problemi dei bambini con
gravi patologie riguardano soprattutto:
❖ l’efficienza della rete ospedaliera specializzata (rete oncologica regionale);
❖ la collaborazione con il pediatra di famiglia;
❖ la disponibilità (decisiva) di personale infermieristico pediatrico specializzato;
❖ macchine, medicine, personale e risorse finanziarie, per realizzare
l’ospedalizzazione a domicilio, ove possibile e non controindicata.
L’ospedale a domicilio è una soluzione utile, perché mantiene il bambino nel suo habitat e risparmia viaggi e disagi, se la casa è in grado
di ospitare il bambino e gli strumenti necessari alla cura, e se la sua
presenza non urta contro la presenza di altri famigliari e fratelli (ai
quali i genitori preferiscono sottrarre la vista del malato);
❖ la formazione e preparazione, psicologica e relazionale, al rituale della malattia: esordio, accoglienza, comunicazione al bambino, ai genitori, alla rete famigliare;
❖ la gestione dei conflitti, che possono derivare, per esempio, da un contesto etnico che ha proprie regole per l’ospedalizzazione della donna
e del bambino, ed un diverso (più rassegnato-fatalistico) approccio
culturale alla malattia, ed alla eventuale morte, del bambino.
Problemi dell’affidamento
Il nostro lavoro è di richiamare l’attenzione sulla situazione dei bambini
che, a causa di motivi famigliari gravi, vivono fuori della famiglia, e sul loro
diritto a vivere in una famiglia, a crescere possibilmente in quella in cui nasce, e se questo non è possibile in una famiglia affidataria, quando i problemi sono temporanei, o adottiva, quando si verifica lo stato di abbandono.
In relazione alla destinazione «naturalmente famigliare» dei bambini,
come ridefinire i rapporti fra famiglia originaria, famiglia vicaria e servizi di
accoglienza (comunità, istituti)?
❖ L’accudimento famigliare è ritenuto fondamentale soprattutto nei
primi anni di vita, quando è importante costruire un rapporto affettivo individualizzato. Perciò il permanere in comunità di bambini
piccolissimi, anche solo per alcuni mesi, non è promettente per il loro sviluppo. Ciò vale, a maggior ragione, per una permanenza prolungata di bambini di età più elevata, essendo la maggior contraddizione nella pluralità di persone che nel servizio si muove intorno al
bambino, e il tipo di organizzazione e di vita che da ciò discendono.
❖ Varie ulteriori difficoltà sono indicate, rispetto all’obiettivo di creare le
condizioni per un affidamento precoce e tempestivo. In particolare:
• eccessiva lentezza delle decisioni della magistratura (dopo uno o
due anni, mentre i bambini in comunità non hanno delle figure di
riferimento)
• incerto status delle famiglie affidatarie: alla disponibilità a offrire
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non corrispondono servizi adeguati di sostegno durante il percorso dell’affidamento;
• sconnessione delle famiglie dai servizi e dei servizi dalla magistratura(i servizi si vengono trovare in una posizione oscillante e instabile fra famiglie e istituzione giudiziaria);
• difficoltà del rientro in famiglia dopo l’affidamento e gestione delle dimissioni (un problema analogo riguarda le comunità, per
quanto concerne gli adolescenti);
• divaricazione crescente fra affidamento come servizio e adozione
come risposta centrata soprattutto sulle esigenze degli adulti (la
nuova legge 149 del 2001, che ha elevato la differenza d’età perché
anche il cinquantenne ha diritto ad un figlio).
Quanto alle risposte possibili, appare importante fare crescere la disponibilità ed il sostegno all’affidamento famigliare attraverso campagne mirate al pubblico ed agli stessi operatori (come è stato fatto per abuso e maltrattamento). Campagne rivolte a promuovere il servizio nella sua importante funzione sociale (far capire che cosa vuol dire essere famiglia affidataria, la difficoltà estrema di questo compito, la sua «missione»).
Una via di minore impatto (che non significa di gestione più facile) è
quella di avere una famiglia affidataria di appoggio che mantenga i legami
con la famiglia di origine. Per esempio nella forma degli affidi diurni, con il
bambino consegnato al mattino, seguito durante il giorno e riconsegnato la
sera. Questa formula, se la coppia dei genitori d’origine «tiene ancora», espone a minori tensioni rispetto all’affido permanente. Con l’affidamento
famigliare diurno, il bambino non si allontana a fondo dalla propria famiglia
d’origine, fa esperienza di un nuovo modello famigliare e la famiglia affidataria funziona come una famiglia d’appoggio diurna. Per riuscire, questi affidi vanno seguiti da personale specializzato(lo psicologo, i servizi) che svolgono i necessari compiti di mediazione e convergenza fra le due famiglie.
Non andrebbe esclusa la via di aumentare i contributi alle famiglie affidatarie. A Torino questo importo, più elevato di quanto non sia in altre città
d’Italia, può ulteriormente crescere a copertura delle spese reali, purché
non sia alterato l’aspetto di volontariato altruistico che l’affidamento deve
mantenere: mamme che si prendono a cuore anche altri figli oltre ai propri.
Rispetto ai servizi, di cui viene sovente lamentata una certa distanza dalla
pratica concreta degli affidamenti in corso, si tratta di rendere la loro organizzazione funzionale al sostegno delle famiglie affidatarie, specialmente
delle famiglie che si prendono cura dei bambini piccolissimi nel primo anno di vita, e costruire degli espliciti patti di assistenza con le famiglie affidatarie.
I servizi restano tenuti a preparare le famiglie affidatarie, e quelle che
fanno richiesta di adozione soprattutto internazionale. Forme di affidamento intra ed inter-etnico, e sviluppo della mediazione culturale, allargherebbero la portata dell’affidamento famigliare verso l’obiettivo del recupero e
inserimento degli immigrati di più giovane età.
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Ripensare i servizi di accoglienza e tutela
L’accoglienza presso strutture specializzate (comunità e istituti) abbraccia fasce d’età assai diverse: da bambini piccolissimi (caso della Comunità
La Coccinella), fino ad adolescenti che hanno attraversato precedenti esperienze di comunità, affidamenti e adozioni problematiche. La struttura di
accoglienza deve consentire, al bambino e all’adolescente, di recuperare
una esperienza positiva delle relazioni interpersonali e fiducia, rispetto ad
esperienze di sofferenza e trauma che possa avere incontrato in precedenza
nella sua vita.
Alla luce della legge 328 sul nuovo sistema di interventi e servizi sociali,
le strutture di accoglienza nei confronti dei bambini e dei minori sono oggetto di un possibile ripensamento, che gli intervistati suggeriscono nelle
seguenti direzioni.
Si sottolinea la necessità di allargare il ventaglio delle attuali definizioni
tipologiche, includendovi anche le piccole comunità di tipo famigliare, che
hanno un numero limitato di figure di riferimento. Ad esempio: il piccolo
gruppo professionale che ha fatto «una scelta di vita» nell’attivare e gestire
la struttura; la coppia genitoriale con propri figli ed altre persone, accolte in
una sorta di famiglia allargata senza schematismo di organizzazione.
L’esigenza di dare alla struttura di accoglienza una impronta famigliare manifesta l’impatto di un modello (casa-famiglia) che si diversifica dal modello prevalente nell’area torinese (comunità alloggio come servizio).
Una maggior flessibilità di funzionamento consente l’utilizzo di volontari, che vengono a ricevere opportunità di formazione, e danno un contributo non professionale all’attività della struttura. Una struttura accogliente
verso coppie problematiche, che vengono a imparare a fare i genitori, consente loro di vivere in spazi più positivi, ed evita di ricorrere alla rete famigliare allargata, che molte volte è causa essa stessa di problemi e tensioni.
Un punto ben noto, ma non risolto e tuttora critico nell’attività delle
strutture di accoglienza, è dato dai problemi di uscita del bambino(e del minore in genere). Le difficoltà della dimissione, su cui è in corso una ricerca
monitoraggio promossa dalla regione Piemonte sui circa 1000 attuali ospiti
di strutture residenziali, rimandano a due fattori: resistenze «interne» alla
struttura, scarsità di efficaci «tecniche di uscita». Si tratta di delineare delle
reti di sostegno alle famiglie a cui il minore viene riconsegnato; nel caso di
adolescenti in transizione alla maggior età, di rispondere alle carenze di risorse per l’inserimento sociale, abitativo, lavorativo.
Tra sanità e assistenza
Il rarefarsi dei servizi di primo impatto sul territorio produce sconnessioni e malfunzionamenti che rendono più complicato l’accesso agli interventi socioassistenziali, togliendo loro la tempestività in taluni casi necessaria, mentre si allungano le liste di attesa per servizi sociosanitari importanti, come la NPI e i sostegni all’handicap.
Si ricorda che l’attuale organizzazione dei dipartimenti materno-infantili raccoglie neonatologia, ginecologia, pediatria e neuropsichiatria infanti-
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le. Le attività di quest’ultima si svolgono in servizi sia territoriali che ospedalieri e di day-hospital, con riferimento a problemi neurologici (epilessia,
cefalee, handicap da malformazioni), gravi disturbi del comportamento
(autismo), disordini specifici dell’apprendimento, nonché interventi in casi
di abusi e maltrattamento.
Il funzionamento dei dipartimenti materno-infantili nel quadro delle
aziende sanitarie viene indicato come una buona modalità di integrazione
fra servizi sanitari, premessa alla utile collaborazione con i servizi socioassistenziali. Per la riorganizzazione dei servizi in un ambito di welfare locale,
i principali obiettivi indicati dalle interviste sono:
❖ rafforzamento dei protocolli di intesa fra enti gestori del socioassistenziale e aziende sanitarie;
❖ potenziamento di servizi sanitari domiciliari e territoriali, che contengono la necessità del ricorso all’ospedale (rilanciare i consultori
pediatrici);
❖ istituzione di comunità di salute mentale specifiche per adolescenti
(una sola esistente a Torino);
❖ la precocità dell’intervento nella fascia 0-3 anni in funzione della prevenzione;
❖ l’integrazione fra l’intervento ambulatoriale e l’assistenza famigliare
(anche con volontari particolarmente competenti e motivati);
❖ potenziamento degli interventi di assistenza domiciliare educativa
per famiglie problematiche;
❖ diffusione di servizi educativi mirati come i centri diurni, i centri di
aggregazione, dandone una organizzazione molto più puntuale, fino
a costruire intorno ad essi delle vere e proprie microcomunità locali in
territorio urbano.
Si osserva, tuttavia, come la disponibilità alla collaborazione appare più
alta dal versante degli operatori tecnici, che non nella pratica «politica» generale delle organizzazioni e dei servizi. Anche il posto delle organizzazioni
di terzo settore è oggetto di valutazioni contrastanti. Se la cooperazione sociale osserva: «gli operatori del terzo settore sono portati ad adottare delle visuali più allargate rispetto agli operatori di aziende sanitarie, perché hanno
il problema di inserirsi nel territorio per operare al meglio», da parte pubblica persistono diffidenze e pregiudizi. Reti di collaborazione fiduciaria sono
inscritte nella cultura di interventi su situazioni estreme (ad esempio il citato progetto Coccinella per i neonati figli di tossicodipendenti), che collegano ASL, pediatria ospedaliera, cooperativa sociale, comunità di accoglienza.
Fragile tuttavia appare ancora la costruzione di partnership stabili e legittimate, fra organizzazioni ed operatori diversamente collocati (settore pubblico, terzo settore, libera professione, mondo non-profit ecc.).
Potenziare i servizi socioeducativi
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Fra ricoveri di tutela assistenziale (da contenere e al limite da abolire) ed
espansione degli interventi di aiuto declinati in senso riparativo e medica-
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lizzante, si apre quella sorta di no child’s land, che si ritiene suscettibile di ricevere un più ampio intervento socioeducativo: non è possibile lavorare con
efficacia sui bisogni conclamati, se manca un intervento diffuso sul terreno in
cui tali bisogni vengono a generarsi…
L’innovazione nei servizi che presentano una più forte qualità socioeducativa a sostegno della vita ordinaria include, innanzi tutto, i servizi per la
prima infanzia(0-3 anni), in particolare gli asili nido. Gli asili nido attuali sono carenti per posti, orari e costi; hanno liste di attesa troppo lunghe, costi
troppo elevati, orari troppo rigidi. Quanto all’alternativa dei servizi promossi dalla legge 285 (micronidi, asili di condominio, asili aziendali ecc.), il richiamo alla attivazione spontanea dei privati associati non autorizza a derogare da esigenze di qualità e controlli, che compete all’amministrazione
pubblica realizzare, per calmierare i costi, accreditare le strutture e regolare il
sistema complessivo dell’offerta.
L’area in assoluto meno presidiata riguarda i servizi per il gioco. Il venir
meno, non solo nelle città ma anche nelle realtà periferiche, degli spazi
spontanei e tradizionali per il gioco giustifica la costruzione di centri di aggregazione, ludoteche, parchi gioco, che aumentano le opportunità di tempo libero organizzato. Gli spazi per il gioco devono essere di accesso agevole e
gratuito… Sarebbe utile poter accedere facilmente alle attività di gioco in posti piacevoli… e con offerte che abbiano non solo la finalità del divertimento,
ma siano concepite per aiutare la crescita. Una differenza rilevante è che per
i bambini fino ai 5 anni sono sufficienti spazi ludici poco strutturati, per
quelli dai 6 ai 13 anni occorre pensare a laboratori, scolastici ed extrascolastici, attrezzati per varie attività (musica, sport, arte ecc.).
L’eventuale contrazione del tempo pieno scolastico apre una grossa domanda di servizi per il tempo libero, la ricreazione e la formazione extrascolastica; possono essere collocati in centri di facile accesso, con una educazione concreta, fatta di piccoli progetti, esperienze di manualità, scambi liberi; non ancorati ai modelli di una associazione, a cui si accede quando se
ne condividono i presupposti educativi.
Già esistono a Torino sette-otto punti gioco, dove i bambini possono recarsi con i genitori e con i nonni, dando agli adulti l’opportunità di «condividere in modo conversante» problemi ed esperienze educative. Per il territorio non urbano, sono da proporre iniziative che, realizzando il censimento delle risorse e degli spazi attrezzati, facilitano ai bambini e ai ragazzi l’accesso universale al «capitale ricreativo locale», in modo da superare rivalità
e frammentazioni, che separano amministrazioni, associazioni, gruppi,
parrocchie ecc.
Nei confronti degli adolescenti, l’accesso facilitato alle risorse sociali ricreative si colloca all’interno di una peculiare contraddizione tipica dell’età:
«l’adolescente sente il bisogno di avere spazi liberi non controllati o strettamente gestiti da adulti, il genitore dell’adolescente vuole soprattutto essere
tranquillo e sicuro». Da qui l’esigenza che le attività siano offerte agli adolescenti – da parte di organizzazioni pubbliche, mercantili o sociali – in modo
da recepire stimoli positivi, di formazione e ricreazione, in ambienti controllati.
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Il ruolo degli operatori
Gli operatori per l’infanzia sono figure molto diverse fra loro, tutte coinvolte nel quadro di politiche sociali e di esigenze metodologiche che le avvicinano, senza confonderle: la scuola, le ASL, i servizi sociali, la psichiatria
infantile devono collaborare e dialogare fra loro, senza sostituirsi l’uno all’altro…
Per quanto riguarda le risorse dell’intervento, vengono richiamati soprattutto i seguenti criteri.
❖ La formazione di base deve essere prolungata e arricchita, ed avere
elementi comuni di riferimento(quali la conoscenza dello sviluppo
cognitivo, i problemi della crescita, la visione della famiglia ecc.);
❖ l’operatore deve imparare a vedere la complessità delle situazioni e
dei problemi e renderne conto in adeguati modelli epistemologici (i
problemi della famiglia, non solo l’abuso o il maltrattamento…);
❖ serve un potenziamento della formazione continua (come nel progetto del Comune di Torino di una Agenzia formativa delle professioni sociali); accanto alla qualificazione professionale, è necessario coltivare l’interesse a fare della propria attività professionale una scelta
vocazionale, ed un lavoro sulla propria stessa maturazione;
❖ l’attenzione alle tematiche del conflitto e della mediazione deve collocare l’operatore come solutore di conflitti (soprattutto nell’interesse del bambino), non come «broker» delle tensioni fra adulti;
❖ in alcuni contesti (ad esempio nelle strutture di accoglienza) è inevitabile una organizzazione del lavoro di équipe, e il confronto fra modelli di intervento diversamente impostati (si impara con il dare e il
ricevere, bisogna mantenere il dialogo costante sulla pratica);
❖ l’utilizzo dei volontari richiede, da parte loro, di accettare scelte e impostazioni della struttura a cui partecipano. A sua volta la struttura,
sia nel suo funzionamento ordinario sia con momenti formali, è tenuta a dare la formazione permanente di cui i volontari necessitano.
Accade infatti che i volontari siano esposti a situazioni «disastrate»,
che richiedono loro di possedere e sviluppare una adeguata capacità
di fronteggiamento;
❖ prezioso è il ruolo delle associazioni di tutela, dei genitori ecc. Si richiede loro di lavorare con spirito di servizio e discrezione, evitando
ogni concorrenzialità, poco producente per la causa che intendono
sostenere.
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Guardando in dettaglio a singole figure di operatori, i tratti rilevati sono
i seguenti.
❖ L’assistente sociale da un lato collabora con segnalazioni e relazioni
tecniche alle attività istituzionali di tutela, dall’altro opera per migliorare la condizione di bambini e adulti, attraverso piani di intervento che configurano (o dovrebbero dare) sostegno alla vita di singole persone: è una duplicità da gestire;
❖ altra alternativa rilevante, per l’assistente sociale e l’educatore pro-
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❖
❖
❖
❖
fessionale, è fra l’orientamento verso una utenza specifica con i suoi
bisogni sempre più identificati (non solo i «bambini», ma i «bambini
stranieri», i «bambini disabili» ecc.); oppure verso un microsistema
sociale localizzato («questo territorio con i suoi bambini, bambini
stranieri, bambini disabili, gli adulti ecc.»);
gli educatori-animatori desiderabili non sono intrattenitori dei giochi o delle pratiche sportive, ma operatori tenuti a rapportarsi con
una prospettiva educativa. L’educatore «di strada» inserisce bambini
e ragazzi in progetti educativi nei quali mette tempo e capacità; è una
figura preparata metà adest e metà educatore, che affianca i genitori
nel loro compito. Ogni parrocchia dovrebbe avere un educatore retribuito, che si occupa dei ragazzi che si sentono abbandonati e si ritrovano a girovagare per le strade;
vi è carenza di figure professionali con competenze psicopedagogiche, da impiegare nelle scuole ed in servizi territoriali a bassa soglia.
Invece di ricorrere al solo servizio di NPI esterno, bisognerebbe aprire
nelle scuole degli sportelli di consulenza psicologica, ad accesso agevole, sia ai ragazzi che agli adulti. Lo sportello psicopedagogico di prevenzione, per allievi ed insegnanti, consentirebbe di immettere lo
psicologo come figura ordinaria della organizzazione scolastica;
gli insegnanti e gli altri operatori scolastici appaiono in obiettiva difficoltà nel «leggere» e segnalare problemi gravi, che richiedono interventi onerosi di recupero e controllo. Si osserva che in città come
Torino c’è una buona collaborazione fra scuola e NPI, mentre, per
fronteggiare il «normale» disagio scolastico, sarebbe necessaria una
maggiore presenza e collaborazione con i servizi specialistici. Una
importante eccezione è data dalla collaborazione per l’inserimento
scolastico dell’handicap fra insegnante di sostegno, NPI, educatore
professionale esterno alla scuola. Tutto ciò non esonera gli insegnanti dal migliorare la loro formazione carente nelle metodologie didattiche, soprattutto per quanto concerne le tecniche relazionali e di comunicazione interpersonale;
infine, sarebbe desiderabile la valorizzazione della figura del «pediatra di buon senso», che segnala agli altri servizi le situazioni (bambini, famiglie ecc.) che richiedono intervento e sostegno.
Oltre ad una cornice istituzionale che la favorisca e la solleciti, la collaborazione intersettoriale ed interprofessionale comporta un atteggiamento
di disponibilità alla interdipendenza: si tratta di abbassare i ponti levatoi fra
istituzioni i cui operatori interni hanno gradi differenti di autostima.
Più strategica sarebbe una architettura della comunicazione fra servizi,
che consenta la definizione razionale dei programmi e degli interventi.
Attivare delle «comunità di progetto», che generano cambiamenti organizzativi capaci di autosostenersi, entro una tecnologia sociale più adeguata:
anche i servizi alla persona devono fare un salto qualitativo, per razionalità
di scelte e appropriatezza degli interventi all’utenza.
321
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9.7 Scenari
La risorsa tempo
L’insieme degli intervistati converge nell’attribuire alla famiglia una posizione cruciale, e nel richiedere una attività di supporto, che consenta alla
famiglia di svolgere «al meglio» le sue funzioni.
L’aiuto di cui la famiglia abbisogna non è da intendersi esclusivamente
come consulenza psicologica e relazionale, allo scopo di rafforzarla (empowerment) nello svolgimento delle sue competenze educative e genitoriali. Fra i punti di priorità, indicati dagli intervistati, infatti figura «il sostegno
alle famiglie con bambini a rischio di marginalità sociale, e con gravi problemi di povertà». Mantengono importanza rilevante gli apporti che forniscono quei beni e risorse materiali – in primis casa e lavoro – che si suppongono tacitamente inseparabili dalla vita famigliare, mentre proprio la
loro assenza o precarietà si riflette sulla patologia delle relazioni (maltrattamenti, abusi, abbandoni). Una estensione di questo ordine di priorità in
contesto giudiziario è l’esigenza del sostegno per il patrocinio dei clienti poveri (donne soprattutto) nei casi di separazione e successivi conflitti.
Tra le risorse strutturali da rendere disponibili per la famiglia, primeggia
il tempo: ridurre il tempo obbligato e liberare tempo per i genitori, per sé e per
le loro relazioni con i bambini. Aumentare la quantità di tempo a disposizione della famiglia vuol dire darle più opportunità di riconoscersi e di organizzarsi.
❖ Nel caso delle famiglie con bambini ospedalizzati per gravi malattie,
e con decorsi che durano anni, la scarsità di tempo si riflette nella difficoltà di avere congedi per poter seguire il bambino, e nel rischio di
perdere il lavoro o subire licenziamenti, a causa delle assenze imposte dalla malattia.
❖ Il tempo irrompe nella vita ospedaliera del bambino anche nella domanda di attività ludica e attività scolastica a distanza. L’attesa di un
futuro rientro a scuola è anche un forte stimolo per la terapia e la guarigione.
❖ Il tempo come durata, prima e subito dopo la nascita. Importantissimo è il periodo della formazione pre-nascita, inteso come percorso consapevole che coinvolge entrambi i genitori. I corsi organizzati
dalla struttura ospedaliera forniscono non solo una preparazione medica al parto, ma una preparazione psicologica e culturale.
❖ Nel tempo dei primi anni (fino a due e mezzo-tre),occorre evitare
l’allontanamento precoce del bambino dalla mamma per impegni
extrafamiliari. Sostenere i giovani genitori nei primi mesi è fondamentale.
Il gruppo dei pari e l’affiancamento asimmetrico
322
Sul piano dell’aiuto relazionale, la prima modalità suggerita, che ha basso impatto intrusivo ed elevata valenza formativa, è il gruppo dei pari con fi-
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nalità di autoaiuto. Queste esperienze possono essere promosse dalle stesse
organizzazioni formali dei servizi, in una varietà di casi e situazioni:
❖ il gruppo delle partorienti, che seguono il corso di preparazione e
scambiano tra loro confidenze e sostegni fisici e psicologici;
❖ il gruppo dei genitori che hanno problemi di sussistenza economica(disoccupati in cerca di lavoro) e di gestione dei figli (madri e padri
soli, separati ecc.);
❖ genitori di famiglie adottive, affidatarie, gruppi che comprendono sia
famiglie affidatarie che originarie, per gestire meglio il momento critico del dopo-affidamento;
❖ genitori dei bambini in comunità di accoglienza: il gruppo sostiene le
situazioni problematiche che hanno portato al provvedimento di allontanamento, predispone verso gli eventuali ulteriori provvedimenti di rientro o di separazione;
❖ gruppi di genitori interessati ai problemi educativi (il «Tam Tam
Mamma», operante nella prima cintura): lo scambio informativo riguarda aspetti della crescita, quali vaccinazione, cure pediatriche,
alimentazione ecc.
Una diversa modalità relazionale è l’affiancamento: si fornisce un supporto di «pari» a famiglie che riconoscono la loro insufficienza nella gestione della vita ordinaria e nella relazione educativa. Esempi sono:
❖ la «nonna volontaria», applicata dai servizi di NPI a sostegno di genitori in difficoltà;
❖ l’aide maman o aide familial, fornito su base di vicinato o parrocchia:
la «madre esperta» affianca altri genitori nella gestione della casa e
dei figli, entro un patto mutuo che promuove anche una delicata
opera di formazione verso gli adulti «inadeguati»;
❖ l’assistenza domiciliare dei servizi pubblici;
❖ il servizio di mediazione famigliare, quando promuove una cultura
della conciliazione nelle relazioni interpersonali.
Le competenze genitoriali
Le famiglie hanno perso competenza, si sentono più inadeguate… È un paradosso storico che l’incremento complessivo della scolarità si sia accompagnato alla tendenziale riduzione della competenza educativa. Vengono meno modelli genitoriali trasmessi per via culturale, cresce un atteggiamento
simmetrico (concorrenziale) fra i due generi, un più largo scarto culturale fra
genitori e figli produce una percezione di inadeguatezza, che genera sensi di
colpa in genitori sensibili. In breve, ai neogenitori di oggi (per aiutare a fare i
genitori è inevitabile partire dalla nuove generazioni) dobbiamo offrire più
intelligenza emotiva ed una più adeguata educazione sentimentale.
La gamma degli interventi, consigliati ed in parte già sperimentati, include:
❖ messa a disposizione di servizi di consulenza psicologica, con consulenti che vanno direttamente nelle famiglie;
323
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❖ servizi di consulenza e mediazione nella scuola;
❖ centri di ascolto, che raccolgono il disagio delle famiglie, con particolare riferimento alle difficoltà relazionali e di gestione del quotidiano.
I pochi centri di ascolto con psicologi educatori o insegnanti hanno
molto successo, vengono utilizzati dai genitori per capire meglio quali
sono le esigenze dei bambini;
❖ centri di ascolto parrocchiali, a contatto con famiglie di ceto popolare
che preferiscono non rivolgersi ai servizi sociali di base e non hanno
interesse a sollevare conflitti in sede giudiziaria. Una rete di dieci centri siffatti esiste nella città di Torino; una esperienza analoga, condotta negli anni scorsi a Borgaro Torinese, ha coinvolto 80 famiglie e 130
genitori;
❖ servizi per la mediazione famigliare, sperimentati a Torino da circa
tre anni. Questi servizi sono rivolti all’«incivilimento» del contenzioso fra adulti in contesti di separazione per via giudiziaria; favoriscono la graduale ripresa di contatti fra le parti nell’interesse dei figli minori. Si sottolinea, al riguardo, anche l’esigenza di migliorare i cosiddetti luoghi neutri di incontro regolato fra adulti e minori, rendendo
le relative sedi di servizi giudiziari meno scostanti ed asettiche, più
accoglienti e umane.
Sviluppo di questo approccio è la possibile costituzione di appositi
Centri per la famiglia, già presenti in alcune regioni; il Piemonte potrebbe
elaborare un suo modello. Diversi da consultori e da servizi di mediazione,
questi centri dovrebbero essere ad accesso facile, aperti ai genitori «quando
non sono già in crisi», capaci di dare consigli e risorse per la genitorialità, la
vita quotidiana, i bilanci famigliari, la scelta dei servizi sanitari e sociali ecc.
Centri che non presentano carattere assistenziale o precettorale, e non
«lavorano» sui sensi di colpa per l’impreparazione a grandi rischi(come nelle iniziative che «allertano» sui rischi di abuso o maltrattamento): case aperte a cui i genitori «normali» si possano rivolgere senza sentirsi per forza inadeguati, per esplorare i possibili aspetti del loro rapporto con i bambini. Non
luoghi per ricevere una assistenza psicologica, ma dove portare e ricevere
esperienze di rapporti. Tali Centri per le Famiglie – istituiti dal settore pubblico, oppure da istituzioni a vocazione privato-sociale – sono adatti a promuovere spazi e gruppi di discussione, fuori di un contesto di aiuto diretto,
per esplorare questioni generali partendo da esperienze concrete. Anche la
scuola potrebbe mettere a disposizione, dei genitori che lo desiderano, sedi
e facilitatori di discussione. Serve dunque una risposta a quella scarsità di
spazi pubblici, dove sia semplice discutere di un problema (l’educazione) a
cui nessuno può dirsi estraneo.
La cultura sociale
324
Guardiamo infine ai modi per sviluppare interessi culturali verso i problemi dei bambini, nell’ambito della cultura sociale in senso ampio. Come
vi è una esigenza di ascolto a livello micro relazionale, così nella cultura sociale occorre comprendere meglio il mutamento avvenuto nella condizione
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infantile, e darne una rappresentazione adeguata, anche per investire in
progetti dotati di senso e di efficacia.
La stessa sequenza delle interviste realizzate ha comportato una attività
di ascolto orientata in questa direzione, ed ha consentito di raccogliere un
catalogo di criteri di azione, che si possono disporre nella seguente sequenza di priorità.
❖ Continuare negli interventi mirati a gruppi e condizioni altamente
problematici: in particolare, dare sostegno alle famiglie che hanno
problemi gravi (povertà, salute, disabilità); limitare il ricovero in istituti e strutture protette; incrementare l’adozione e l’affidamento;
contrastare l’esclusione scolastica precoce.
❖ Incrementare per quantità e qualità i servizi per la prima infanzia (03 anni); aumentare l’offerta di figure di supporto famigliare ad accesso semplice; realizzare interventi di educazione e consulenza «a domicilio».
❖ Aumentare l’interesse e la discussione pubblica sui processi educativi:
attività in comune fra genitori (neomamme), fra genitori e insegnanti, centri di consulenza psicologica e relazionale, servizi di mediazione e di ascolto, a sostegno di ruoli e modelli genitoriali, centri per le
famiglie.
Accanto ad azioni che hanno un contenuto definito(ancorché non sempre puntualmente prevedibile), le interviste sollecitano di attrezzare la cultura sociale diffusa ad un miglior orientamento complessivo verso le problematiche dell’infanzia e dell’adolescenza:
❖ Sensibilizzare sulla persistenza delle tradizioni custodialistiche tuttora
incidenti in Italia (almeno diecimila minori ricoverati in istituto) e sul
carattere alternativo di affidamenti, adozioni, strutture di accoglienza;
❖ Promuovere un senso più positivo della genitorialità oltre i confini
della famiglia «puerocentrica»; l’attenzione al bambino interpella la
condizione adulta in termini di responsabilità e di voglia di crescere
insieme con loro.
È interessante osservare, nelle più giovani generazioni di studenti universitari e di operatori sociali, la ripresa di interesse teorico e professionale
per l’azione verso i bambini. Ciò avviene in un momento storico in cui i
bambini sono sempre di meno, e le risorse della politica sociale sembrano
privilegiare altri gruppi (come gli anziani) e altri obiettivi(come la mobilità
degli adulti sul mercato del lavoro).
9.8 Questioni di diritti
Da ultimo e sullo sfondo si pone una insorgente questione di diritti. La
qualificazione generica di «minori» appare sempre meno adeguata, quando
ci si pone fuori di un definito contesto giuridico di tutela, a coprire un ven-
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taglio di condizioni, distinte per età, problemi e situazioni di vita quotidiana, che appaiono portatrici di specifici e differenziati diritti. Diritti la cui definizione si è fatta negli ultimi tempi più esplicita e puntuale.
Basti ricordare che nel testo della Costituzione italiana (1948) figurano:
«cittadini», «famiglie» (art. 29), «famiglie numerose» (art. 31); «figli» (art.
30)», «minori che lavorano» (art. 37). Non «bambini», ancorché l’art. 31/2
faccia riferimento alla «protezione della maternità, infanzia e gioventù». Il
bambino viene citato al solo art. 37, ma in riferimento alla «madre lavoratrice», ed alle condizioni di lavoro che «devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare». Il principio della conciliazione fra interessi familiari e di lavoro sarà ripreso nel 1957 dal Trattato di Roma.
La Carta ONU dell’89 ha dato una nuova apertura verso un senso più generale dei diritti del bambino e dell’adolescente. Su un aspetto specifico (i
diritti del bambino ricoverato in ospedale), la sensibilità emerge in precedenza, visto che è del 1976 la proposta italiana di una Carta dei diritti del
bambino ricoverato in ospedale, del 1986 la Carta europea dei bambini degenti in ospedale. Un aspetto ulteriore – la partecipazione alla vita pubblica
– è oggetto della Carta Europea della partecipazione dei giovani alla vita comunale e regionale, elaborata dal Consiglio d’Europa nel 1990.
La Carta dei diritti dell’Unione Europea approvata a Nizza nel dicembre
2000 ha compiuto un ulteriore passo in direzione dei «diritti del bambino».
Con un articolo (il 24) che prevede:
❖ diritto alla protezione ed alle cure necessarie per il loro (dei bambini)
benessere;
❖ libertà di esprimere la propria opinione; questa «viene presa in considerazione sulle questioni che li (bambini) riguardano, in funzione
della loro età e della loro maturità»;
❖ preminenza dell’«interesse superiore del bambino» negli atti compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private;
❖ diritto di intrattenere relazioni personali e contatti diretti con i due
genitori «qualora ciò non sia contrario al suo interesse».
326
La rigidità di ogni formulazione normativa appare, su questo terreno,
particolarmente evidente. Se si pensa come il «superiore interesse del bambino» sia oggetto di difformi interpretazioni in sede giudiziaria e politicoamministrativa, e soprattutto se si considera l’ovvia differenza che separa il
diritto a esprimersi e la capacità effettiva di «essere ascoltati».
Comunque, un più saldo e condiviso riferimento ai diritti potrebbe «colorare» quella pedagogia positiva, che oggi, in una situazione complicata di
transizione e difficoltà sia per bambini sia per gli adulti, avverte della necessità di percorsi di effettiva inclusione. Di una «pedagogia nera» parla Alice
Miller nella sua analisi sulla persecuzione del bambino alle radici della violenza (Miller, 1987, ed.or.1980).Le sofferenze e le umiliazioni, subite nell’infanzia, diventano la «ragione» per infliggere ad altri sofferenza ed umiliazione, poiché «ogni comportamento assurdo trova le sue radici nella storia della prima infanzia». Nel contempo vi è una evidenza insormontabile nel fatto che nessuno può cambiare (dopo) il destino della propria infanzia.
Di questo impatto, decisivo per l’intera vita, si ricordano tanto i classici
della letteratura infantile come alcuni scrittori contemporanei: dal «piccolo
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in coma» di Raymond Carver al bambino «che non ha paura» di Nicolò
Ammaniti, e perfino quei «Certi bambini» di Diego da Silva, che sono costretti a prendere i malavitosi del loro ambiente a modelli di comportamento e sopravvivenza. Là dove l’infanzia viene scempiata senza rispetto, prende più forza il monito che «nell’interesse dell’umanità intera non si potrà
giustificare in alcun modo la mancanza di diritti del bambino» (Miller,
op.cit. p. 195). Un monito che è anche un dovere, perché nessuno può dirsi,
o chiamarsi, fuori da questo interesse.
Note
1. Gli intervistati nell’ordine sono stati:
Sergio LA TERRA MAGGIORE (settore programmazione dell’Assessorato ai servizi sociali della Regione Piemonte).
Anna Maria COLELLA (funzionaria Regione Piemonte e docente diritto della famiglia)
Silvia TOSCO(responsabile per i programmi legge 285 presso la Provincia di Torino)
Frida TONIZZO(assistente sociale presso ANFAA).
Giuseppina GANIO MEGO (responsabile dei Centri di Incontro Caritas Torino).
Laura MARZIN(responsabile ufficio minori stranieri del Comune di Toron).
Graziana CALCAGNO (già procuratore presso il Tribunale dei Minorenni di Torino e
docente di diritto della famiglia).
Guido GENINATTI (responsabile cooperativa sociale Esserci e comunità di accoglienza La Coccinella).
Ivana CONTERNO(dell’Associazione Papa Giovanni XXIII di Fossano).
Marilena DELLAVALLE(docente di metodi del servizio sociale. giudice onorario presso il Tribunale dei Minorenni di Torino).
Fredo OLIVERO(responsabile pastorale dei migranti Diocesi di Torino).
Rita TURINO(dirigente ufficio programmazione assessorato ai servizi sociali del
Comune di Torino).
Claudio FABRIS(primario di neonatologia dell’Ospedale Sant’Anna di Torino).
Enrico MADON(primario oncologia pediatrica dell’Ospedale Regina Margherita di
Torino).
Rosalba GIUGNI(responsabile della struttura di accoglienza Casa dei Bimbi Giovanni
XXIII di Torino).
Chiara MUTTINI(docente di pedagogia speciale Università di Torino).
Gianna RECCHI(responsabile associazione AREA).
Paola ALPHANDERY (psicologa consulente scolastica).
Antonina SCOLARO(avvocato civilista. segretaria della sezione piemontese Associazione Italiana Avvocati di Famiglia).
Fede CHICCO(psicologa presso Associazione Down).
Mirella FLECCHIA (vicepresidente Associazione CePiM).
Paola STRADONI (primario di NPI Azienda sanitaria locale 4 di Torino).
2. Le informazioni riguardanti i bambini stranieri sono state commentate nel precedente capitolo 8
3. Da non confondere con il disadattamento ambientale o culturale (per provenienza etnica: bambini marocchini. rom). Tipico il caso del bambino rom che non conosce
orario. Il disadattamento ambientale comporta una reazione istituzionale, attraverso
processi di esclusione o evasione, che non riguardano la sfera dei disturbi di personalità.
4. Viene a proposito quanto osserva Elisabetta Forni autrice del recente La città di
Batman, Torino, 2001: «mancano studi ampi sul rapporto fra qualità della vita urbana e scelta di fare o non fare dei figli, ma è chiaro che le nostre città si identificano
sempre di più come luoghi più adatti a singoli o coppie che non hanno figli, o hanno rinviato la decisione di averli».
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PROSPETTIVE
10.1 Il disagio dell’infanzia: osservazioni e piani
d’azione nazionali
Solo da alcuni anni, l’infanzia è oggetto di adeguate attenzioni da parte
delle istituzioni nazionali e locali. A livello istituzionale, infatti, solo nel 1997
si arriva ad avere il primo Piano nazionale sull’infanzia e l’adolescenza,1 costruito dal Ministero per gli Affari sociali, a cui è seguito nel 2000 il secondo
Piano nazionale.2
Il primo Piano indicava le priorità su cui intervenire a breve e medio termine. Una parte significativa del documento è occupata dalle politiche preventive, intese sia in una prospettiva generale (prevenzione del disagio nei
minori e promozione dell’agio) sia in una prospettiva specifica (ad es. prevenzione degli abusi, ecc.). Il primo «Piano d’azione» nasceva sulla scia della cultura e delle strategie messe a punto dal «Rapporto sulla condizione dei
minori in Italia»3, curato dal Centro Nazionale di documentazione per l’infanzia del Dipartimento per gli Affari Sociali. Tre le questioni fondamentali,
sulle quali si articolava il Rapporto:
❖ cosa è la qualità della vita dell’infanzia e dell’adolescenza?
❖ come devono collocarsi le relative politiche, nel contesto più ampio
delle politiche sociali?
❖ che ruolo ha il territorio, nei processi di sviluppo dei soggetti in età
evolutiva?
10
328
A livello nazionale è da sottolineare come sia il Piano Sanitario 19982000, sia lo Schema di Piano Sanitario 2002-2004 rivestono elevato interesse; in entrambi i Piani sanitari, infatti, una sezione è dedicata all’età evolutiva, ed in particolare ai primi anni di vita.
Nel Piano Sanitario nazionale 1998-2000 si indicano quali obiettivi prioritari:
❖ ridurre la mortalità perinatale e infantile almeno all’8 per mille in tutte le regioni;
❖ prevenire i comportamenti a rischio in età pre-adolescenziale e adolescenziale, con riferimento alle lesioni accidentali gravi, alle autolesioni e alla dipendenza;
❖ prevenire le cause di disabilità mentale, sensoriale e plurima;
❖ prevenire i casi di disagio psichico e sociale, dovuto a problematiche
scolastiche, familiari e relazionali, anche in riferimento ad abusi e
maltrattamenti;
❖ promuovere la procreazione cosciente e responsabile, tutelando le
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gravidanze a rischio e fornendo un adeguato sostegno alle famiglie;
❖ favorire programmi di prevenzione e controllo delle malattie genetiche;
❖ monitorare lo stato di salute dell’infanzia, della pre-adolescenza e
dell’adolescenza nella dimensione fisica, psichica e sociale, anche
avvalendosi dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia.
Tra le azioni ipotizzate per raggiungere gli obiettivi vi sono:
❖ assicurare interventi preventivi e diagnostici di provata efficacia in
epoca pre e perinatale;
❖ attuare interventi per la promozione della salute in età pre-adolescenziale e adolescenziale;
❖ razionalizzare l’ospedalizzazione in età pediatrica, tenendo conto
delle particolari esigenze della fascia di età cui si rivolge, coordinando e integrando l’assistenza con l’offerta di servizi distrettuali, e valorizzando il pediatra di famiglia;
❖ potenziare i servizi extraospedalieri, specie quelli a ciclo diurno, preposti al recupero dei disturbi neuropsicopatologici e delle limitazioni funzionali;
❖ migliorare la qualità umana dei servizi rivolti all’infanzia anche mediante l’utilizzo appropriato di tecnologie biomediche;
❖ predisporre Linee guida per la gravidanza, il parto, le cure ospedaliere pediatriche, la pediatria di famiglia e di comunità;
❖ integrare i servizi materno-infantili con quelli socio-assistenziali ed
educativi, anche tenendo conto di quanto previsto nel Piano nazionale per l’infanzia e l’adolescenza.
Nel Piano 2002-2004 si indicano, invece, quali obiettivi prioritari:
❖ pianificare l’assistenza perinatale attraverso la centralizzazione delle
gravidanze a rischio in Ospedali dotati di Terapia Intensiva Neonatale;
❖ attivare il Servizio di trasporto di emergenza neonatale in ogni
Regione;
❖ ridurre il tasso di ospedalizzazione con l’obiettivo di ridurlo del 10‰
per anno;
❖ incrementare l’adozione di strutture socio-sanitarie alternative, quali l’ospedalità a domicilio ed in strutture residenziali funzionalmente
collegate con gli Ospedali;
❖ articolare gli interventi di Guardia Pediatrica e di Pronto Soccorso, secondo un modello interdisciplinare, che sia in grado di differenziare il
luogo della accoglienza e della assistenza all’utenza da quello di ricovero, mediante la creazione, in ogni unità operativa pediatrica, di un’area di osservazione temporanea, opportunamente regolamentata;
❖ diminuire la frequenza dei parti per taglio cesareo, e ridurre le forti
differenze regionali attualmente esistenti, arrivando entro il triennio
ad un valore nazionale pari al 20%, in linea con valori medi degli altri
Paesi europei, anche tramite una revisione del DRG relativi;
329
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❖ rendere disponibile in almeno parte delle strutture il cosiddetto parto indolore;
❖ ottimizzare il numero di punti nascita, riducendone il numero ed incrementandone la qualità.
10.2 La 285/97: prima e dopo
330
Nel 1997 è stata approvata la legge 285/97 «Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza»: una risposta,
non l’unica e neanche la principale, a questi interrogativi. È una risposta,
che, pur considerata la ridotta dotazione economica, ha creato movimento,
entusiasmi e speranze nuove, in contesti caratterizzati da stagnazione o residualità delle azioni a sostegno dell’infanzia; e nuove prospettive di sperimentazione e sviluppo, laddove da anni si è lavorato a favore di bambini e
famiglie, nell’ambito dei servizi educativi, sociali e culturali.
Per quanto riguarda la regione Piemonte, occorre rilevare come la Legge
n. 285/97 ha completato un quadro di riferimento di politiche a favore dell’infanzia, che già si caratterizzava per ampiezza e sviluppo.
Di rilievo è stata, nel corso degli anni Novanta, l’attività del Consiglio regionale dei minori, istituito con la Legge regionale 31 agosto 1989, n. 55
«Istituzione del Consiglio regionale sui problemi dei minori e sostegno di iniziative per la tutela dei minori», allo scopo di realizzare e promuovere attività di conoscenza ed indagine; elaborare e promuovere progetti sperimentali ed innovativi; favorire il collegamento tra i vari enti ed organismi impegnati nel settore della tutela dei minori; fornire documentazione e supporti
informativi ai soggetti pubblici e privati che operano con finalità rivolte ai
problemi dei minori.
Il CRM ha dato vita, per diversi anni, ad un’intensa attività promozionale, basata sugli stessi presupposti della legge 285: sviluppo di servizi, iniziative e progetti a favore dell’infanzia, in una prospettiva di integrazione dell’azione degli enti locali, delle istituzioni sanitarie e scolastiche, delle realtà
sociali organizzate e delle famiglie.
L’attività del CRM si è concentrata, per i primi anni, sulla predisposizione di un concorso per progetti che ha permesso di premiare alcune delle più
interessanti ed originali iniziative a livello regionale, molte delle quali nel
territorio dell’area metropolitana torinese.5 Di notevole rilievo, più recentemente, sono:
❖ la stipula del Protocollo di intesa, nel febbraio 1999, per la diffusione
a livello regionale delle azioni di mediazione e riparazione nel settore penale minorile, su proposta del Settore Minori della Commissione regionale tecnico-consultiva Disadattamento, devianza e criminalità;
❖ la produzione – prima regione in Italia – di Linee guida per la segnala-
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zione e la presa in carico dei casi di abuso sessuale e maltrattamento ai
danni di minori da parte dei servizi-socio assistenziali e sanitari6;
❖ la promozione, nel 1999, sul territorio piemontese di attività di informazione e sostegno alla maternità e di prevenzione dell’abbandono
di neonati, alla luce dei risultati ottenuti dal Servizio «SOS Donna»,
realizzato dalla provincia di Torino;
❖ diverse campagne promozionali ed informative sull’affido familiare.
A livello di area metropolitana torinese è doveroso segnalare la costruzione ed approvazione da parte della Provincia – Settore Programmazione
Solidarietà sociale – dei due Piani triennali attuativi della legge 285/97, entrambi denominati «Concerto», in quanto sono stati costruiti nella prospettiva di attivazione di tutte le realtà territoriali a livello provinciale, promuovendo, in modo particolare, la concertazione sia a livello micro-locale (nell’ottica della sovra-comunalità), sia a livello provinciale tra i diversi progetti
locali.7
Ritornando a livello nazionale, con riferimento al versante della conoscenza, nel 1997 è approvata anche la legge n. 451 del 23.12.1997 «Istituzione
della Commissione Parlamentare per l’infanzia e dell’Osservatorio nazionale
per l’infanzia», con la quale il legislatore ha ritenuto opportuno dotare il
paese di strumenti per monitorare la situazione dell’infanzia e dell’adolescenza, comprendere in itinere i problemi, i bisogni, le esigenze, e delineare linee e priorità di indirizzo operativo.
Il secondo Piano di azione è stato costruito, infatti, dall’Osservatorio nazionale, che ha curato altresì la predisposizione sia del Rapporto 2000 sull’infanzia8 sia del Rapporto all’ONU sullo stato dell’infanzia in Italia.9 A differenza di quanto avvenuto per la legge 285/97, l’attuazione di questa legge
è stata più difficile, non tanto per la parte di attività previste a livello nazionale (sia la Commissione Parlamentare sia l’Osservatorio sono stati regolarmente istituiti ed attivati nella legislatura precedente ed in quella in corso),
quanto per la parte di competenza delle regioni, che hanno operato in tempi e forme alquanto differenti. Ad oggi solo alcune regioni hanno attivato il
loro Osservatorio sull’infanzia (con la produzione dei primi rapporti10 sullo
stato dell’infanzia); alcune lo hanno in corso di attivazione, in altre la situazione è al momento di stasi. In Piemonte l’Osservatorio sull’infanzia è ancora in fase di attivazione, in coordinamento con l’attività delle province
(anche in base alle nuove competenze loro assegnate).
Da parte di soggetti non istituzionali vi sono diverse iniziative di rilievo
da segnalare:
❖ l’Associazione Telefono Azzurro in collaborazione con l’Eurispes, ha
prodotto due Rapporti sulla condizione dell’infanzia in Italia11;
❖ l’UNICEF ha prodotto diversi Rapporti sullo stato dell’infanzia, senza, però, un particolare approfondimento della realtà italiana;
❖ il Gruppo di lavoro per la convenzione sui diritti del fanciullo, che
riunisce una serie di organizzazioni del Terzo Settore, ha prodotto un
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Rapporto integrativo alle Nazioni Unite sullo stato dei diritti dell’infanzia in Italia12;
❖ la Caritas Nazionale insieme alla Fondazione Zancan di Padova hanno prodotto sinora tre Rapporti sull’emarginazione e l’esclusione sociale, dei quali il terzo è interamente dedicato al disagio connesso ai
contesti familiari13.
Il quadro dell’analisi delle condizioni di vita dell’infanzia si presenta,
quindi, ricco di soggetti e di punti di vista differenti, dai quali si osservano
l’infanzia e le sue problematiche. Ovviamente ciascuno dei soggetti ha posto l’accento su alcune tematiche in particolare, o su alcune fasce d’età. Tutti
questi Rapporti propongono analisi riferite generalmente al quadro nazionale, con rari approfondimenti a livelli territoriali più limitati.14
10.3 Disagi tradizionali e risposte innovative
332
Insieme ai molti aspetti positivi e di sviluppo sociale ed economico che
il Paese evidenzia crescono e si modificano i problemi sociali: a quelli tradizionali (povertà, disoccupazione, mancanza di case, malattie, tossicodipendenza, alcoolismo, criminalità), si aggiungono nuove problematiche, che
presentano, sovente, una dimensione di ambivalenza.
Alcuni esempi: l’aumento di separazioni tra coniugi o conviventi, sovente conflittuali; l’aumento di popolazione straniera con la difficoltà di integrazione culturale e sociale; il diffondersi di nuove malattie (l’AIDS); l’invecchiamento e la denatalità; lo spostamento delle famiglie alla ricerca di
contesti di vita più adeguati e il conseguente aumento del traffico da e per
la città.
Sono problematiche che, sempre più, accomunano le città, di là della
posizione geografica, della grandezza, delle specifiche condizioni economico-sociali. Non sorprende che in un periodo di globalizzazione, economica
e culturale, anche le problematiche sociali tendano a diventare comuni e
condivise. Sempre più, infatti, i piccoli centri vivono problematiche similari
a quelle delle grandi città e sempre più le realtà territoriali si assomigliano: i
confini, sotto questo profilo, riescono poco a separare, e preservare, ambienti e culture.
Tutti i mutamenti e le problematiche, cui si è accennato, riguardano gli
adulti, ma quando essi vivono in una famiglia, e con loro vivono dei bambini, questi ultimi sono i soggetti su cui i mutamenti sociali producono immediati effetti, sovente senza possibilità di adeguate «difese». Pur senza volerlo, una famiglia povera, con adulti che vivono il problema delle dipendenze, o costantemente alla ricerca di lavoro, o nella quale uno o più dei
suoi componenti sono malati da curare, incide in modo forte sulla qualità
della vita dei propri bambini: diminuzione delle attenzioni e cure, aumento
dei conflitti, calo della serenità, diminuzione della capacità di far fronte ad
eventi critici, aumento dei maltrattamenti, ecc. Il disagio dei bambini – a
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sua volta - provoca ulteriori fatiche alla famiglia, che già vive una situazione
di disagio, rende critici i rapporti con il mondo esterno e modifica le dinamiche intra-familiari.
A fianco dei disagi tradizionali, connessi alle deboli e fragili condizioni
sociali ed economiche del nucleo familiare od alla multiproblematicità delle famiglie, oggi vanno emergendo nuovi disagi nei bambini: stress da situazioni familiari sempre più complesse, stress da sostituzione delle figure genitoriali assenti, da sovraccarico di impegni, solitudine per il tanto tempo
trascorso in casa da soli, esagerate forme di consumismo, ecc.
I contesti che maggiormente sono investiti dei disagi, vecchi e nuovi dei
bambini, sono la scuola ed i servizi sociali.
La scuola si confronta per prima (sin dall’asilo nido) con bambini in cui
il disagio determina maggiori difficoltà di apprendimento, socializzazione,
relazione, con la scuola, gli insegnanti, le regole. Il disagio dei bambini comporta sovente anche maggiori difficoltà nelle relazioni tra genitori e insegnanti: incomprensioni, conflitti, scarsa comunicazione, accuse, sono all’ordine del giorno.
Anche sui Servizi sociali ricadono gli effetti dei mutamenti, nella forma
di problemi a cui essi debbono dare risposta (o, perlomeno, dai quali le famiglie si attendono una risposta, spesso risolutiva): sussidi economici per
sopravvivere, operatori e servizi presso cui appoggiarsi, cure adeguate per i
propri figli, ecc. Il sistema dei servizi sociali ed educativi, in altri termini, dovrebbe essere in grado di rispondere ad una gamma estremamente variegata di situazioni problematiche vissute dai bambini, in tempi sempre più brevi e nelle forme più diverse. Al sistema dei servizi sociali sono richieste flessibilità, intuizione, creatività, capacità di adattamento, innovazione, qualità,
ecc. Inoltre la capacità di lavorare in rete in modo integrato, al fine di sviluppare nel migliore dei modi la funzione di osservazione e diagnosi precoce dei disagi nell’infanzia, valorizzare le competenze e le risorse di ciascuna
istituzione e organizzazione sociale operante nel contesto.
Una risposta alle difficoltà crescenti del vivere di famiglie e bambini è richiesta anche a soggetti non istituzionali, quali le associazioni, le cooperative, le fondazioni, ecc. Per quanto riguarda le cooperative sociali il riferimento è quasi sempre a politiche pubbliche, con servizi gestiti in regime di
esternalizzazione. Diversa è la situazione delle associazioni, che si rapportano a problemi e bisogni sociali nuovi, con interventi rapidi e flessibili. La
gamma di esperienze associative è andata progressivamente ampliandosi,
al punto che molto spesso esse anticipano le risposte delle istituzioni, più
lente a muoversi e a diversificare il proprio agire.
Anche per quanto riguarda le problematiche dell’infanzia, l’associazionismo volontario è uno dei modi più diffusi di risposta: si pensi alle molte
associazioni che si costituiscono dall’emergere e diffondersi di una malattia
infantile, più o meno rara, piuttosto che dall’emergere di bisogni di cura, o
legati al tempo libero. Al mondo delle associazioni oggi si guarda come ad
una grande opportunità di sviluppo delle politiche sociali, soprattutto
quando ad entrare in campo sono le stesse famiglie. Alle associazioni si
chiede di saper intervenire in modo rapido ed innovativo, ma anche di fornire quei servizi e prestazioni che il sistema dei servizi pubblici non riesce
pienamente a garantire.
333
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10.4 La realtà torinese
Nel panorama italiano e piemontese il lavoro di ricerca promosso dalla
Fondazione Paideia di Torino costituisce, quindi, un’esperienza originale,
sia per il contenuto sia per le modalità di ricerca utilizzate:
❖ lo studio riguarda non tanto la condizione dell’infanzia e dell’adolescenza nel suo complesso, ma le tematiche del disagio che emergono
per la fascia infantile e adolescenziale, con riferimento alla realtà della città di Torino e dell’area metropolitana torinese;
❖ sul piano metodologico, il lavoro di ricerca è stato condotto essenzialmente dal punto di vista degli operatori dei servizi, chiamati a
raccogliere e ordinare dati, e ad esprimere il proprio punto di vista,
analitico e progettuale.
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È difficile rispondere all’interrogativo di quanto la situazione dell’infanzia torinese sia simile o meno a quella di altre città di grandi dimensioni ed
aree metropolitane: ricerche comparabili non esistono. Vi sono alcuni lavori, a Roma, Milano, Napoli o Genova, che prendono in esame il tema del disagio, soprattutto in riferimento alla fascia adolescenziale o giovanile, o su
aspetti specifici, quali l’abuso, il maltrattamento, le dipendenze, ecc.
Una possibilità di procedere nella direzione di uno sguardo complessivo
come quello adottato nella ricerca Paideia dovrebbe, nei prossimi anni, essere assicurata nelle grandi città (le quattordici città riservatarie previste
nella legge n. 285/97) dall’attivazione di Osservatori sull’infanzia, come è già
avvenuto nella città di Roma.15 Le Province piemontesi hanno raccolto dati
in vista della costruzione del secondo Piano triennale l. 285/97, con attenzione alla condizione di tutta la fascia minorile 0-17 anni.16 Tra questi lavori emerge lo studio realizzato dalla Provincia di Torino17, che riguarda esclusivamente la situazione dei minori in provincia, e non considera la situazione della città di Torino.
Il Rapporto di Paideia sull’area torinese mette in luce un «volto» nascosto dell’infanzia, usualmente non preso in grande considerazione, se non
nei casi eclatanti su cui i mass media concentrano le loro attenzioni: il volto dei bambini malati, poveri, abusati, maltrattati, violenti, abbandonati. È
il volto di una sofferenza, che matura, come viene sottolineato, sovente per
cause del tutto indipendenti dalla volontà dei bambini stessi. La gamma di
modalità con cui il disagio si esprime è ampia, e le problematiche si presentano con livelli diversi di gravità; ogni forma del disagio contiene elementi
di specificità ma, come la rilevazione ha permesso di cogliere, vi sono anche
trasversalità e connessioni fra i diversi ambiti di vita (la famiglia, la scuola,
la salute, il territorio, l’immigrazione).
Il Rapporto, inoltre, offre dati ed analisi anche sul sistema dei servizi, descritto con puntigliosa precisione, soprattutto per quanto riguarda la differenziata tipologia degli interventi. Anche sotto questo profilo, emerge un’estrema varietà di soggetti in gioco, istituzionali e non, che operano nel territorio torinese, per prevenire, curare, riabilitare, sostenere i bambini che soffrono esperienze di disagio e le loro famiglie. Questi dati confermano due
aspetti di fondo del «Laboratorio aperto torinese».
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❖ La città e l’area metropolitana hanno vissuto un’evoluzione di tipo
economico-sociale e culturale, che ha sempre avuto conseguenze sulla genesi e sviluppo di situazioni di disagio. La città e l’area metropolitana sono attraversate da profonde tensioni, che portano ad immaginare una città molto diversa da quella storicamente conosciuta, ma,
al contempo, fanno emergere nuovi problemi e bisogni, mentre alcuni problemi e bisogni vecchi si modificano e trovano nuove espressioni. Ovviamente, nell’area minorile sono evidenti – anche per quanto il
Rapporto mette in luce – le ricadute sull’infanzia dei problemi connessi alle nuove povertà economiche e sociali. L’attenzione deve essere concentrata, ad esempio: a) sulle famiglie multiproblematiche e sui
minori stranieri, sui problemi connessi allo sfaldamento dei nuclei familiari (notevole il dato di un terzo dei minori a carico dei presidi socio-assistenziali, che sono figli di genitori separati); b) sui problemi
connessi al diffondersi delle dipendenze tra gli adulti, e tra i giovani in
specifico (tendenza condivisa sostanzialmente a livello europeo18),
con le ricadute sull’infanzia in fase neonatale (nascite in Sindrome di
astinenza, provvedimenti di apertura dello stato di adottabilità, allontanamento e affidamento); c) sui problemi connessi all’abuso ed al
maltrattamento intra ed extrafamiliare; d) sul problema della pedofilia (anche con le connessioni relative alle nuove tecnologie); e) sul
problema dell’uso sempre più frequente della violenza, come «strumento» per risolvere conflitti e affermarsi.
❖ La città e l’area metropolitana hanno svolto in Italia un costante riferimento per le politiche sociali a favore dell’infanzia. Sono molte, infatti, le modalità di risposta oggi diffuse in molte città italiane, che a
Torino hanno visto la loro nascita e consolidamento, così come molte sono le intuizioni in ordine a nuovi bisogni sociali, rispetto ai quali la città ha cercato di intervenire. Il Rapporto permette di cogliere la
consistente dimensione del sistema dei servizi e interventi a favore
dell’infanzia in situazione di disagio, che denotano una capacità di
investimento a favore dell’infanzia di notevole portata, sia in riferimento all’impegno diretto delle amministrazioni sia in riferimento
all’impegno delle reti di solidarietà sociale. Rare risultano, infatti, le
situazioni infantili «problematiche», che appaiono «scoperte», cioè
senza servizi od iniziative, pubbliche e private, che provano a dare risposte a bambini e famiglie.
10.5 Scenari in evoluzione
La famiglia, l’infanzia ed il sistema dei servizi sociali e scolastici sono interessati, dalla fine degli anni novanta, da profonde modificazioni del sistema normativo tuttora in corso.
Oltre alle leggi, già menzionate, occorre ricordare:
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❖ la Legge quadro sull’handicap n. 104/1992, e le successive modifiche,
con la Legge 162/98 e 17/99;
❖ la Legge n. 269, del 3.8.1998 «Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno dei minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù»;
❖ la riforma dell’adozione internazionale, con la Legge 31 dicembre
1998, n. 476;
❖ la Legge 9/99 di elevamento dell’obbligo scolastico;
❖ la Legge 53/00 Disposizioni per il sostegno alla maternità ed alla paternità;
❖ la riforma dei servizi sociali, con la Legge 8 novembre 2000, n. 328
«Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali», che deve ancora trovare piena realizzazione in tutte le
regioni con le leggi di recepimento e programmazione;
❖ la riforma dell’adozione e dell’affidamento, con la Legge n. 149/2001;
❖ la sperimentazione del reddito minimo di inserimento previsto dal
D.Lgs. n. 237/9819;
❖ la riforma della scuola con il passaggio ad un regime di autonomia.
Per sottolineare l’attivismo legislativo del periodo, occorre anche considerare altre riforme in cantiere, attualmente in fase di discussione parlamentare, che investono il settore delle politiche sociali, educative, scolastiche e socio-economiche:
❖ la riforma dei nidi;
❖ la riforma scolastica, per quanto riguarda l’età di ingresso a scuola, la
costituzione dei cicli scolastici, i passaggi tra cicli;
❖ la nuova Legge sull’immigrazione;
❖ la nuova Legge sulle separazioni, per quanto riguarda l’affidamento
dei figli (che dovrebbe essere congiunto, salvo casi particolari);
❖ la riforma della giustizia minorile, con l’ipotesi di passaggio di tutte le
competenze dell’attuale Tribunale per i minorenni a sezioni specializzate del Tribunale Ordinario.
336
Inevitabili conseguenze sui minori avranno anche, per tutte le famiglie e
soprattutto per quelle caratterizzate da povertà (ad esempio con uno o più
adulti in situazione di disoccupazione cronica o improvvisa), la riforma del
mercato del lavoro, per quanto riguarda il sistema degli ammortizzatori sociali, e la riforma fiscale, con la rideterminazione delle aliquote.
Le enunciazioni recenti del Ministero del Welfare confermano il fatto che
la dimensione famigliare è posta al centro delle politiche sociali: sono state
annunciate, infatti, le ipotesi di costituire un network nazionale, per la creazione di una rete di rilevamento dei bisogni delle famiglie; di ripartire fondi
per la creazione di asili nido; di predisporre un Piano di sostegno alla famiglia, soprattutto alle giovani coppie sposate, con incentivi per favorire l’acquisto della prima casa, ma anche la natalità.
Nella sostanza, il quadro complessivo delle politiche sociali è in profon-
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do mutamento, e nell’arco dei prossimi anni dovrebbe completarsi soprattutto a livello delle singole regioni, le quali si trovano oggi di fronte alla possibilità – conseguente alle modifiche al Capo V della Costituzione che hanno ridefinito i poteri tra gli organi ed i livelli dello Stato, riconoscendo il
principio di sussidiarietà come principio base – di proporsi seriamente con
una politica sociale frutto delle proprie analisi, scelte, e risorse.
Due sono le preoccupazioni che attualmente si segnalano.
In primo luogo, che lo sviluppo di un assetto più federale determini
maggiori squilibri sul territorio nazionale, negli assetti delle politiche sociali e dei servizi a favore delle famiglie e dei bambini. In altri termini, si teme
di arrivare a situazioni regionali caratterizzate da forti investimenti nei settori sociali, educativi e culturali, e altre regioni caratterizzate da scarsi investimenti. In questo modo, verrebbero meno le possibilità di tutelare i diritti
di tutti i bambini su una base di cittadinanza sociale nazionale.
In secondo luogo, cresce la preoccupazione per uno sviluppo disorganico nel campo delle politiche a favore delle famiglie e dell’infanzia. I provvedimenti assunti nella precedente legislatura, che hanno caratterizzato per la
prima volta nel nostro paese una reale attenzione alle problematiche familiari, andrebbero completati da altri provvedimenti coerenti con i primi. Il
rischio, invece, è di scelte legislative, che in parte garantiscono continuità,
ed in parte introducono elementi di discontinuità e rottura in un orientamento appena avviato.
10.6 Dall’analisi alla progettazione:
esigenze di sviluppo
Nelle singole aree tematiche del Rapporto, nell’analisi delle interviste a
testimoni significativi e nel contributo conclusivo, sono evidenziate le esigenze di sviluppo, sul piano quantitativo e qualitativo, dell’offerta del sistema dei servizi.
In questa parte le idee e le suggestioni raccolte sono ripresentate da una
diversa prospettiva: l’attenzione è posta alle diverse fasce d’età dei soggetti
ed ai diversi contesti. In particolare le proposte sono articolate in riferimento alla prima infanzia, alla fase prescolare e scolare, alla famiglia, e al contesto territoriale nel suo complesso, con riferimento ad obiettivi di miglioramento del sistema.
Area prima infanzia
La dimensione principale, che emerge in tutti i contributi, è la necessità,
che, alla luce delle tendenze demografiche ormai ampiamente note appare
sempre più rilevante e consapevole, di dover sostenere le famiglie nel primo
periodo di vita dei figli (o del figlio).
L’innalzamento culturale delle più giovani generazioni, unitamente al
fatto che il primo figlio è generato ad un’età non più giovanissima dei genitori (più vicina ai trenta che ai venti), dovrebbero permettere di immagina-
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re un maggior grado di maturità ed equilibrio dei genitori, ed una maggior
capacità di reggere le criticità della cura e della crescita. In realtà, se è vero
che questi elementi sono ormai abbastanza consolidati, è vero anche che
per molte famiglie si è progressivamente ridotto l’apporto della rete familiare naturale (a causa, ad esempio, della separazione dai propri nuclei d’origine e delle distanze rilevanti dall’abitazione dei propri genitori o di altri familiari). Inoltre, in molti contesti territoriali, è sempre più forte la tendenza
a fare a meno dell’apporto della propria famiglia d’origine.
Nella sostanza, salvo quelle situazioni nelle quali rimane stretto il rapporto con la/le propria/e famiglia/e d’origine (che, spesso, è anche generatrice di problemi, quali la dipendenza dai nonni, il conflitto educativo genitori/nonni, l’intromissione nella propria vita di coppia...), molte giovani
coppie vivono senza supporti l’esperienza della genitorialità.
In una situazione di questo tipo ogni problema diventa grande, ogni difficoltà s’ingigantisce e, quanto più mancano i supporti, tanto più si tende a
ricorrere alle poche opportunità esistenti nel territorio. È il caso ad esempio,
evidenziato nel Rapporto, dell’uso improprio del Pronto soccorso nel primo
anno di vita dei bambini.
Le difficoltà, tendenzialmente, aumentano laddove s’incontrano alcune
tipologie di famiglia:
❖ la situazione di famiglia monogenitoriale (quasi sempre la situazione
è madre-figlio/i), indubbiamente determina, per l’unico genitore,
l’impossibilità di condividere un carico di responsabilità e preoccupazioni a cui si deve far fronte da soli;
❖ la situazione di famiglia «normalmente» costituita, nella quale, per
scelta o per necessità, entrambi i genitori lavorano, pone l’inevitabile esigenza di sostegno alle cure primarie, principalmente l’esigenza
di accudimento del/i figlio/i nell’orario di lavoro dei genitori, che
non sempre è soddisfatta da servizi pubblici, vista la cronica mancanza di nidi ed i costi elevati degli stessi;
❖ la situazione di famiglie variamente costituite a seguito di separazioni dei nuclei primari, determina presenze diverse dei genitori, con ricadute sulla cura dei figli, che hanno le stesse caratteristiche evidenziate per le prime due tipologie. Ad esempio la famiglia ricostituita,
nella quale la coppia adulta non convive, ma ciascuno dei due mantiene la propria abitazione ed i propri ritmi di vita; oppure la famiglia
ricostituita, con ciascuno dei due adulti che porta figli della/e precedente/i esperienze familiari, sovente di età diverse, ecc.
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Sono queste ragioni che possono spiegare le forti richieste, contenute in
diversi passaggi del Rapporto, di aumentare le attività di sostegno alla famiglia che genera figli, soprattutto nei loro primi anni di vita. In particolare, le
esigenze emerse sono di:
❖ accrescere la disponibilità e l’accessibilità di interventi educativi nella prima infanzia, sia nella forma dei nidi sia di strutture alternative
ai nidi tradizionali (baby parking, nidi condominiali, nidi nei posti di
lavoro, ecc.);
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❖ accrescere la competenza dei genitori rispetto alla cura dei figli piccoli, investendo sull’educazione sanitaria, per ridurre la quantità di
richieste improprie al servizio sanitario, soprattutto nel primo anno
di vita dei bambini;
❖ accrescere la dotazione di punti di riferimento e sostegno, anche in
forme nuove (ad es. gruppi di genitori, sostegni individualizzati tra
famiglie, linee telefoniche, siti internet, ecc.), al fine di permettere ai
genitori di condividere preoccupazioni, dubbi e incertezze legate alla cura dei figli;
❖ accrescere gli interventi di sostegno e cura a domicilio, nei primi anni di vita, sia sul versante sociale sia sanitario. In una prospettiva di
aiuto concreto specialistico, laddove malattie od handicap determinano già un disagio del bambino e della famiglia. In una prospettiva
preventiva: per garantire diagnosi precoci di disturbi o disagi, sostenere i genitori nel loro compito e creare un rapporto di fiducia in operatori e servizi, che potranno essere riconosciuti come riferimento
anche in anni successivi, qualora emergano ulteriori criticità o necessità, relative alla salute e all’educazione dei figli;
❖ accrescere e qualificare la funzione dei pediatri e dei consultori, in
una prospettiva di rete con gli altri servizi, al fine di incentivare lo sviluppo di una funzione diagnostica e preventiva (rispetto ad abusi,
maltrattamenti o disagi in generale dei bambini).
Area prescolare e di scolarizzazione di base
Per quanto riguarda la fascia d’età dai quattro ai dieci anni, gli elementi
raccolti indicano una forte presenza della scuola (sia essa materna o elementare) nella vita dei bambini e delle famiglie. Centralità che non attiene
solamente agli aspetti didattici: nella scuola infatti le famiglie trovano un interlocutore che sovente è in grado di dialogare, in ordine alle esigenze di crescita dei bambini, e in ordine alle problematiche che essi vivono.
La scuola rappresenta, anche, uno dei principali luoghi di prevenzione:
può svolgere in modo adeguato una funzione di osservazione dei segnali
di disagio, e può svolgere una funzione di sostegno educativo al ruolo della famiglia.
Un secondo ambito relazionale, che comincia a crescere d’importanza
in questa fascia d’età, è quello del tempo libero, rispetto al quale sovente è
segnalata l’assenza di proposte adeguate e serie di tipo pubblico. La conseguenza è che le famiglie sono lasciate a scegliere fra innumerevoli proposte
del privato, non profit o di mercato. L’assenza, in molti paesi, di biblioteche
specializzate per bambini, di ludoteche, di spazi di gioco libero, o semplicemente per fare festa, riducono notevolmente gli spazi di crescita e socializzazione dei bambini. In ordine a ciò, un’alleanza tra scuole e territorio è
sempre più auspicata, al fine di garantire un pieno utilizzo delle strutture
scolastiche anche nel tempo di extrascuola, e garantire opportunità di socializzazione e educazione, utili ad integrare il tempo scuola.
Nell’ambito dei servizi socio-sanitari, le indicazioni raccolte evidenziano tre necessità in modo rilevante:
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❖ attivare opportunità di sostegno psicologico, continuative nel tempo,
per genitori di bambini con malattie croniche, sia in ospedale sia fuori dall’ospedale;
❖ attivare opportunità di integrazione nel tempo libero per i bambini
disabili, in modo da evitare che l’integrazione avvenga solo nelle aule di scuola;
❖ migliorare la capacità della scuola di diagnosticare situazioni di possibile disagio nei bambini sino a dieci anni, e migliorare la qualità dell’integrazione tra scuola, servizio sociale di base e servizi specialistici
(NPI). Così da poter considerare attentamente i segnali raccolti e costruire azioni efficaci di supporto al minore ed alla sua famiglia, con
interventi a domicilio, e con interventi specialistici presso servizi territoriali, nonché per valutare le situazioni da segnalare alla Procura
della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni (quelle in cui il livello di disagio richiede interventi espliciti a tutela del minore).
Famiglia
La famiglia è al centro delle analisi compiute nel Rapporto, sia quando è
intesa come contesto in cui cresce e si sviluppa il disagio del bambino, sia
quando è intesa come soggetto che si fa carico in modo rilevante del disagio
o del malessere fisico del proprio figlio.
In entrambe le situazioni, la famiglia resta sovente sola, di fronte alle difficoltà, e alle crisi che si trova a vivere. Va detto che sovente la famiglia non
è preparata a comprendere ed accettare il disagio nei propri figli e questo
porta, a volte, a comportamenti di rifiuto ed opposizione, verso i servizi, e
anche verso la scuola, quando gli insegnanti «si permettono» di segnalare
difficoltà od esigenze particolari del bambino.
Nel complesso, tutto il Rapporto evidenzia la necessità di considerare la
famiglia come il principale destinatario delle politiche di prevenzione del
disagio minorile, e di sostegno laddove il disagio già si è espresso in qualche
forma. Contestualmente all’intervento psicologico, educativo o sanitario
verso il bambino malato, sempre più si evidenzia la necessità di un lavoro
con i genitori, per renderli, in ogni caso, parte integrante dell’intervento.
Da ultimo si evidenzia la necessità che la famiglia non sia solo soggetto
destinatario degli interventi, ma sempre più protagonista. In questa direzione può essere utile sollecitare, promuovere e valorizzare le forme di associazionismo familiare, così come in diverse regioni sta avvenendo, anche con
l’adozione di provvedimenti normativi specifici.20
Più in dettaglio, le esigenze emerse sono le seguenti:
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❖ promuovere e sviluppare la domiciliarità, come strategia centrale
dell’intervento sociale in età infantile;
❖ promuovere ed attivare la costruzione di gruppi di auto-aiuto tra genitori (ad esempio di genitori con figli in affido), per incentivare il sostegno tra pari;
❖ promuovere lo sviluppo di centri per le famiglie, in grado di interagire con le famiglie;
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❖ promuovere forme di reciprocità di vicinato, in modo da ridurre la dimensione di solitudine vissuta da molte famiglie, soprattutto con figli piccoli;
❖ promuovere lo sviluppo di interventi di sollievo nei confronti di famiglie con figli disabili o con malattie croniche, che permettano loro
di «riprendere il fiato» e allentare la tensione della cura costante che
deve essere assicurata ai figli;
❖ promuovere opportunità di formazione all’educazione sin dalla gravidanza, in modo da accrescere il livello di consapevolezza sul ruolo
e le funzioni educative, e rendere possibile il confronto tra famiglie
sui piccoli problemi della vita quotidiana;
❖ promuovere ed incentivare l’attivazione di luoghi e spazi di mediazione familiare, sia quando è in corso una separazione e anche quando non è in corso.
Territorio e comunità: istituzioni, terzo settore e famiglie
Molti sono gli aspetti problematici su cui istituzioni e soggetti del territorio sono chiamati ad esercitare attenzione, al fine di attuare le indicazioni
precedentemente espresse.
Un punto centrale, come già evidenziato, è costituito dalla nuova programmazione regionale e locale. Nelle legislazioni regionali, attuative della
legge n. 328, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, ogni regione indica i propri principi guida ed i criteri
regolativi delle proprie politiche sociali, nonché dell’integrazione tra sociale e sanitario.
La costruzione dei Piani di zona, in questa prospettiva, diventa momento centrale di sviluppo di tutta la politica sociale, per quanto riguarda l’individuazione delle esigenze della popolazione e la scelta delle priorità su cui
operare; per quanto riguarda lo sviluppo dell’integrazione tra istituzioni, e
per il reale coinvolgimento di soggetti della società civile (volontariato, associazionismo sociale, associazionismo familiare, associazionismo di utenti, ecc.).
Le proposte che seguono si collocano nello scenario di costruzione dei
Piani di zona, e avanzano ipotesi di confronto e scambio, tra amministrazioni locali, istituzioni pubbliche e soggetti della società civile, che possono
affiancare il momento specifico della programmazione sociale triennale.
Con una annotazione necessaria: i dati raccolti nel Rapporto Paideia sul disagio dei bambini spaziano dal comparto sanitario a quello sociale a quello
scolastico-formativo. Ugualmente, le proposte si muovono in tutte queste
tre direzioni, evidenziando la necessità, ancora una volta, di promuovere
una stretta interrelazione tra le programmazioni in questi tre ambiti.
In specifico le raccomandazioni circa possibili strategie di intervento e
orientamento operativo sono le seguenti:
❖ attivare un osservatorio sul disagio infantile a livello metropolitano,
valorizzando e costruendo reti tra le esperienze di «osservatori» già
operanti nel territorio;
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❖ attivare iniziative di carattere informativo e sensibilizzativo sulla disabilità, in modo da rendere meno difficile l’integrazione;
❖ promuovere campagne tra i pediatri, e negli ospedali, per ridurre il ricorso incongruo al pronto soccorso, e per incentivare l’utilizzo di diagnostica a livello di servizi territoriali, invece che tramite ricovero
ospedaliero;
❖ migliorare l’integrazione tra aziende sanitarie ed amministrazioni
comunali, in modo da rendere coerente l’azione a favore delle famiglie e dei minori;
❖ promuovere campagne di informazione e sensibilizzazione, per favorire la nascita dei primi figli all’interno di famiglie mediamente più
giovani;
❖ ripensare, con il coinvolgimento dei servizi territoriali, delle ASL, del
Tribunale per i minorenni e delle organizzazioni sociali e familiari, i
servizi di tutela; per come essi oggi possono svilupparsi, e soprattutto per come possono garantire il diritto del minore a vivere nella propria famiglia, o a ritornarvi a vivere, dopo un eventuale periodo di allontanamento;
❖ ripensare i rapporti tra servizi e Autorità giudiziaria minorile in modo da rendere la giustizia minorile vicina alle famiglie, sia territorialmente, sia nei tempi delle decisioni;
❖ sviluppare, a livello metropolitano, una riflessione sugli strumenti
per fronteggiare la povertà, e verificare la possibilità di costruire un
patto territoriale di lotta alla povertà, con l’intento di rendere più
coerenti gli strumenti adottati, per ridurre in estensione e in gravità
lo stato di povertà delle famiglie e dei minori;
❖ coinvolgere nella costruzione dei piani di zona soggetti economici e
non profit, non solo per accrescere le risorse a disposizione, ma per
costruire alleanze e sinergie tra soggetti diversi intorno all’obiettivo
comune: il benessere, la salute e la sicurezza dei bambini e delle famiglie.
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Note
1. Presidenza del Consiglio Dipartimento affari sociali (1997), Piano d’azione per l’infanzia e l’adolescenza 1997-1998, Roma.
2. Presidenza del Consiglio Dipartimento affari sociali – Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza (2000), Piano nazionale d’azione e di interventi per la tutela
dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva 2000-2001, Roma.
3. Presidenza del Consiglio dei Ministeri, Dipartimento per gli affari sociali (1997), Un
volto o una maschera? I percorsi di costruzione dell’identità. Rapporto 1997 sulla
condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, Firenze.
4. Informazioni sullo stato di attuazione della legge sono reperibili nei seguenti testi:
-ASTER-X (1999), Primo Rapporto sullo stato della progettualità della legge 285.
Analisi dei Piani territoriali di intervento per la realizzazione dei diritti dell’infanzia, Bologna.
– ASTER-X (2000), Secondo Rapporto ASTER-X. La pianificazione territoriale integrata: nodi critici e soluzioni individuate nella fase di avvio della legge, Bologna.
– Centro nazionale di documentazione e analisi sull’infanzia e l’adolescenza (2000),
Quindici città in gioco, Istituto degli Innocenti, Firenze.
– Centro nazionale di documentazione e analisi sull’infanzia e l’adolescenza (2001),
I progetti nel 2000. Lo stato di attuazione della legge 285/97, Istituto degli
Innocenti, Firenze.
– Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per gli Affari Sociali (1999),
Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge n. 285/97 – Anno
1999, Roma.
5. Cfr. AA.VV., Prevenzione e promozione in Piemonte. Due volumi, Regione Piemonte,
Torino 2002. Su una esperienza pilota, v. Giulio Ameglio, Claudio Caffarena, I
Consigli comunali dei ragazzi. Come stimolare la partecipazione dei giovani,
Erickson, Trento, 2002.
6. Deliberazione della Giunta regionale 2 maggio 2000, n. 42 - 29997
7. Cfr. Provincia di Torino, Concerto Primo Piano territoriale per l’infanzia e l’adolescenza e Secondo Piano territoriale per l’infanzia e l’adolescenza. Materiali di questi
Piani sono disponibili nel sito www.provincia.torino.it
8. Centro nazionale di documentazione e analisi sull’infanzia e l’adolescenza (2001),
Non solo sfruttati o violenti. Rapporto sulla condizione dell’infanzia in Italia, Istituto
degli Innocenti, Firenze.
9. Cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministeri, Dipartimento per gli affari sociali
Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza (1999), I diritti attuati. Rapporto alle
Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, Roma.
10. A questo proposito si possono consultare i primi rapporti delle Regioni Umbria
(Infanzia in Umbria 2002), Friuli Venezia Giulia (Rapporto sulla condizione dell’infanzia e adolescenza 2000), Veneto (Il minore tutelato 2000), Toscana (La condizione dei minori in Toscana 2001), Marche (L’infanzia e adolescenza nelle Marche
2001), Lazio (Rapporto su infanzia e adolescenza 2001) ed Abruzzo (I servizi per l’infanzia e l’adolescenza 2001; Un sistema che cresce 2002).
11. Eurispes Telefono azzurro, 1° Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e
della preadolescenza, Roma 1999; Eurispes Telefono azzurro, 2° Rapporto sulla condizione dell’infanzia, della preadolescenza e dell’adolescenza, Roma 2001.
12. Gruppo di lavoro per la convenzione sui diritti del fanciullo, I diritti dell’infanzia e
dell’adolescenza in Italia. La prospettiva del terzo settore. Rapporto supplementare
alle Nazioni Unite, Roma 2001
13. Caritas Italiana e Fondazione Zancan, La rete spezzata. Rapporto su emarginazione e
disagio nei contesti familiari, Feltrinelli, Milano 2000.
14. In questa sede non sono prese in esame iniziative di analisi e ricerca sulla condizione di vita dell’infanzia e dell’adolescenza a livello locale, di singoli comuni o distretti
sociali, che in questi ultimi anni, anche grazie alla legge 285/97, hanno visto un notevole sviluppo. Informazioni su questo tipo di documentazione è possibile reperirle
nella Banca dati del Centro nazionale di documentazione per l’infanzia e l’adolescenza, con possibilità di consultazione online, al sito www.minori.it. Due sole segnalazioni di ricerche condotte in aree del Piemonte per l’ampiezza dei dati (quantitativi e qualitativi) che mettono a disposizione: B. Guglielminotti (2001), In salita da
subito. Rischi di disagio nella prima infanzia. Due ricerche tra le insegnanti delle
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scuole per l’infanzia e tra genitori dei bambini in età prescolare, Provincia di Biella
Servizio solidarietà sociale; R. Maurizio (2002), Ti ho cercato per mari e per monti.
Un percorso di ricerca-intervento su infanzia e adolescenza, Consorzio intercomunale per i servizi, Cirié.
Comune di Roma, InfanziaRoma 2000, Osservatorio comunale sull’infanzia. Rapporto 1999-2000 disponibile nel sito www.comune.roma.it
Questi studi sono contenuti nei Piani provinciali di attuazione della legge 285 per il
triennio 2001-2003.
Provincia di Torino, Primi elementi relativi all’analisi della situazione dei minori che
sarà presentata unitamente al Piano territoriale di Intervento 2000-2002, 2001.
Ministero della Salute, Relazione di attività nel settore delle tossicodipendenze. Anno
2000, Roma 2001; Eurispes, 2000; Osservatorio permanente sui giovani e l’alcool,
2001; Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, Relazione annuale sull’evoluzione del fenomeno della droga nell’Unione Europea, 2001.
Decreto Legislativo 18 giugno 1998, n. 237 «Disciplina dell’introduzione in via sperimentale, in talune aree, dell’istituto del reddito minimo di inserimento, a norma dell’articolo 59, commi 47 e 48, della legge 27 dicembre 1997, n. 449».
L’esperienza più interessante è, sicuramente, quella della legge n. 23/2001 della
Regione Lombardia, per la promozione di forme di associazionismo familiare, e di
progetti di intervento sociale, promossi dalle stesse forme aggregate di famiglie.
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INDICE
Presentazione
............................................................................7
1. IL QUADRO DI RIFERIMENTO
1.1 Bambini e problemi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
1.2 Bambini in Piemonte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13
1.3 La protezione della vita e il sistema delle tutele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16
1.4 I servizi sanitari e sociali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
1.5 I servizi socioassistenziali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20
1.6 Innovazioni e progetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
1.7 Nuove domande e prospettive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27
2. BAMBINI E POVERTÀ
2.1 Dimensioni e problemi della povertà economica dei minori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32
2.2 I minori nel sistema di assistenza sociale in Piemonte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38
2.3 La complessità delle risposte possibili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
3. L’ESPERIENZA DELLA MALATTIA
3.1 Non c’è fatalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.2 ASO e ASL: la rete dei servizi sanitari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.3 L’informazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.4 L’uso dell’ospedalizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.5 Due casi esemplari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.6 Struttura ospedaliera e umanizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.7 La scuola in Ospedale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.8 Il Terzo Settore e l’offerta di sostegno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.9 La comunicazione tra diversi soggetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
59
64
70
71
75
78
80
82
84
4. IL DISAGIO NELLA SCUOLA
4.1 Di cosa stiamo parlando? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87
4.2 Di chi stiamo parlando? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95
4.3 Ciò che preoccupa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99
4.4 La scuola del disagio «normale» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 110
4.5 Linee di risposta istituzionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114
4.6 Lavori in corso, strategie possibili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123
5. BAMBINI DISABILI
5.1 Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5.2 Problemi di classificazione e definizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5.3 Le competenze e gli interventi del settore pubblico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5.4 I servizi socio assistenziali locali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5.5 L’apporto del terzo settore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5.6 Nodi e problemi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5.7 Riferimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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6. VIVERE IN UN’ALTRA FAMIGLIA
6.1 Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6.2 Aspetti di contesto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6.3 L’allontanamento della famiglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6.4 Abusi e violenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6.5 I genitori tossicodipendenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6.6 Una risposta istituzionale: l’affidamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6.7 L’adozione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6.8 Valutazioni conclusive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6.9 Riferimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
201
201
203
207
217
223
235
241
243
7. COMUNITÀ, TERRITORIO
7.1 Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.2 Una storia plurale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.3 La normativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.4 Definizione e tipologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.5 Strutture residenziali e politiche comunali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.6 Aspetti di complessità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.7 Autonomia e lavoro di rete . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.8 La qualità delle strutture residenziali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.9 Dalle strutture ai servizi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.10 Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.11 Riferimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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249
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260
262
267
273
274
8. IMMIGRAZIONE E MARGINALITÀ
8.1 Minori stranieri in Piemonte e a Torino: alcuni dati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
8.2 L’area critica: non accompagnati, male accompagnati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
8.3 Accesso ai servizi e integrazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
8.4 Tipi di risposte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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283
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9. ANALISI E COMMENTI DEGLI OPERATORI
9.1 Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9.2 La condizione dei bambini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9.3 I bambini disabili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9.4 La dimensione territoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9.5 Forme emergenti del disagio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9.6 Quali risposte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9.7 Scenari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9.8 Questione di diritti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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10. PROSPETTIVE
10.1 Il disagio dell’infanzia: osservazioni e piani d’azione nazionale . . . . . . . . . . . . .
10.2 La 285/97: prima e dopo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
10.3 Disagi tradizionali e risposte innovative . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
10.4 La realtà torinese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
10.5 Scenari in evoluzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
10.6 Dall’analisi alla progettazione: esigenze di sviluppo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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