Politiche attive del Lavoro Modelli e realtà a

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Politiche attive del Lavoro Modelli e realtà a
Rapporto di ricerca
Politiche attive del Lavoro
Modelli e realtà a confronto
(a cura di) Luigi Salesi, Marcella Piras e Giovanni Poggiu
Indice
INTRODUZIONE ......................................................................................................................3
Perché un manuale? ................................................................................................................3
LE POLITICHE ATTIVE DEL LAVORO IN EUROPA ..........................................................4
Azioni interne e comunitarie di politica attiva del lavoro ......................................................7
Fattori di successo ..................................................................................................................8
Caso italiano ...........................................................................................................................9
Quadro Europeo....................................................................................................................11
LA SARDEGNA ......................................................................................................................14
La Programmazione e la Concertazione in Sardegna...........................................................15
Lo stato della programmazione regionale ............................................................................16
I soggetti dello sviluppo .......................................................................................................18
Coinvolgimento dei partner socio-economici ed istituzionali..............................................18
La sperimentazione dei PIT e la Progettazione Integrata .....................................................19
Il Partenariato .......................................................................................................................22
Bilancio delle esperienze pregresse di sviluppo dal basso e progettazione..........................23
Il modello di gestione ...........................................................................................................24
I PIT IN SARDEGNA..............................................................................................................26
La progettazione integrata in Sardegna ................................................................................26
Le caratteristiche dei PIT Sardegna......................................................................................27
Stato di attuazione e punti di criticità del PIT Sardegna ......................................................30
LA PROGETTAZIONE ...........................................................................................................33
Il modello del Project cycle management.............................................................................33
Le fasi ...................................................................................................................................33
Gli attori del PCM ................................................................................................................35
Il PCM e la metodologia tradizionale a confronto ...............................................................35
Elementi guida del PCM.......................................................................................................35
Le caratteristiche essenziali dei progetti realizzati attraverso il PCM..................................36
Il Quadro Logico ..................................................................................................................37
L’albero dei problemi ...........................................................................................................40
IL MONITORAGGIO..............................................................................................................41
Strumenti di monitoraggio delle politiche del lavoro per le donne ......................................42
Gli indicatori di monitoraggio ..............................................................................................43
LA VALUTAZIONE ...............................................................................................................44
Stralcio del Regolamento UE 1260/ 99 ................................................................................46
COSA SONO LE BUONE PRASSI: TEORIA O REALTA’?................................................49
IL MAINSTREAMING ...........................................................................................................52
Definizione ...........................................................................................................................52
LE POLITICHE PER LE PARI OPPORTUNITÀ ..................................................................53
Modelli di intervento per le PO in alcuni paesi europei .......................................................54
I risultati degli studi di valutazione ......................................................................................55
Il processo di valutazione: un esempio concreto nel settore delle pari opportunità .............56
BIBLIOGRAFIA ......................................................................................................................58
INTRODUZIONE
Perché un manuale?
Si parla sempre più frequentemente di progettazione, monitoraggio, valutazione, buone prassi, modelli, ma se
ne parla spesso in maniera poco precisa e circostanziata.
Il presente manuale nasce, pertanto dall’esigenza di fotografare l’esistente in un ambito ampio qual è quello dei
progetti comunitari per definire e circoscrivere l’ambito d’azione del Progetto EDA e per fissare dei parametri che siano
di riferimento sia per la Fase di Creazione del modello sia per la Fase di Sperimentazione dello stesso.
Nelle pagine a seguire si tentato di definire i principali temi legati alla progettazione comunitaria e non,
tentando anche di far riferimento a standard comunitari individuati che possono autorevolmente rappresentare un reale
comune denominatore per gli operatori del settore.
Oggetto della ricerca finalizzata alla realizzazione del manuale, sono stati i modelli di progettazione e di
gestione operativa delle politiche attive del lavoro già sperimentate.
Nella prima fase della ricerca, si è scelto di non porre particolari confini alle attività di indagine:
a) raccolta dati relativa a esperienze di politiche attive, già sperimentate anche in altri paesi, dalle quali siano
emerse esperienze significative rispetto alle modalità utilizzate nella progettazione e nella gestione nonché la rilevanza e
l’impatto che queste hanno avuto nei contesti di riferimento;
b) esplorazione della letteratura e della documentazione presente in rete e sistematizzazione della
documentazione. Il lavoro di ricerca si è basato sostanzialmente sulla letteratura e documentazione disponibile sul web.
Tale modalità di ricerca è sembrata la più indicata rispetto al materiale a stampa, vista l’attualità della documentazione
suscettibile di continue trasformazioni.
c) i parametri di valutazione e monitoraggio dell’efficacia degli strumenti utilizzati.
Solo dopo una prima fase di raccolta generica di dati ed esperienze realizzate in altri paesi, con condizioni e
contesti anche molto differenti da quelle locali, si è provveduto ad una selezione degli elementi da approfondire.
Relativamente alla valutazione, la ricerca si è concentrata soprattutto sulla documentazione prodotta a partire
da una decina di anni ad oggi in quanto gran parte della produzione al riguardo risale alla seconda metà degli anni
novanta, in coincidenza dei P.O.R. 1994-1999, periodo nel quale si sono realizzate le prime importanti iniziative.
La ricerca ha individuato alcuni problemi riconducibili:
1.
alla debolezza della cultura della diffusione dei risultati e ai limiti di pubblicizzazione e diffusione di
taluni materiali
2.
al fatto che le tematiche della valutazione delle politiche attive sono ancora poco approfondite.
LE POLITICHE ATTIVE DEL LAVORO IN EUROPA1
L’osservatorio previsionale sulle politiche del lavoro istituito da Italia Lavoro, ERGON, ha trattato tra i temi
dell’edizione 2003 la convergenza, la coesione e lo sviluppo delle politiche attive del lavoro.
Ergon 2003 ha ampliato il proprio raggio di azione e l’indagine per la prima volta ha potuto avvalersi del
contributo di prestigiosi esperti stranieri. I quesiti posti ai nove esperti, su base previsionale, esplorano le trasformazioni
nel mercato del lavoro e nelle politiche del lavoro dell’Italia e dell’Europa da qui al 2007:
1.
l’evoluzione dell’Unione europea,
2.
l’integrazione delle politiche del lavoro,
3.
il confronto sociale sul lavoro,
4.
i principali contenuti delle politiche europee nazionali e regionali,
5.
la riduzione dei divari occupazionali,
6.
le misure adottate a sostegno dei soggetti deboli,
7.
gli attori delle politiche per il lavoro,
8.
le politiche del lavoro e lo Stato sociale,
9.
le prospettive dei servizi per l’impiego,
10. l’efficacia delle politiche del lavoro.
Quando si parla di politiche del lavoro si intendono quegli interventi che, oltre ad agire direttamente nel
mercato del lavoro, siano anche selettivi verso individui con particolari esigenze e difficoltà.
Le politiche per il lavoro si distinguono in:
a)
politiche passive per lenire il disagio sociale creato dalla disoccupazione (sussidi di disoccupazione,
ammortizzatori sociali, prepensionamento)
b) politiche attive per incidere sulle opportunità occupazionali degli individui, specie dei soggetti a
rischio (orientamento, sostegno alla ricerca di lavoro, servizi pubblici per l’impiego, incentivi
all’assunzione, spese in formazione, job creation nel settore pubblico)
Politiche attive e passive interagiscono secondo diversi modelli in Europa.
Nei paesi nordici i lavoratori sono tutelati “nel mercato”, con vincoli ridotti al licenziamento ma sussidi
generosi ai disoccupati e sforzo nelle politiche attive.
Nell’area mediterranea la tutela è attuata soprattutto nel posto di lavoro, restringendo le possibilità di
licenziamento, ma con scarsi sussidi di disoccupazione e scarso ricorso alle politiche attive.
1
Tratto dal Rapporto Ergon 2003 a cura di Italia Lavoro S.p.A.
Le politiche attive in Europa si muovono su tre modelli prevalenti di intervento, legati anche a trasferimenti
della spesa a particolari categorie:
1.
la formazione (paesi nordici e Regno Unito). Le spese sono in genere trasferite a strutture che
forniscono servizi reali.
2.
gli incentivi all’occupazione (Italia, Spagna). Le imprese sono le principali destinatarie della spesa,
anche nel caso dell’apprendistato.
3.
la creazione diretta di posti di lavoro nel settore pubblico (Francia, Germania, Belgio, Olanda,
Irlanda). La spesa è in genere trasferita agli individui, con interventi sulle retribuzioni e sugli oneri
contributivi.
Il modello italiano è centrato sugli incentivi all’impiego a beneficio delle imprese, con poca sollecitazione
degli individui e scarsa fornitura di servizi reali. Gli interventi italiani sono inoltre rivolti a platee ampie e relativamente
poco selezionate. Le politiche passive sono profondamente legate ai sistemi di welfare: esiste una differenza tra paesi
con orientamento lavoristico nella protezione sociale (paesi nordici, Olanda) e paesi in cui la crescita della spesa sociale
è associata a una riduzione dell’orientamento lavoristico (Italia).
L’Italia e in generale i paesi mediterranei fanno poco ricorso alle politiche passive del lavoro, ma hanno anche
una ridotta presenza di politiche assistenziali (manca, ad esempio, uno strumento di assistenza ‘di ultima istanza’). La
proporzione tra investimenti in politica del lavoro e destinatari dell’intervento va valutata attentamente. Se si
concentrano molte risorse su pochi individui, si va incontro a rischi di iniquità, ma anche a disincentivi per l’eccessiva
generosità.
Viceversa, raggiungere molti soggetti con poco investimento può portare a finanziamenti ‘a pioggia’ e a
intervenire su categorie su cui la politica non è efficace. In Italia, la principale platea a cui si rivolgono le politiche
attive e in particolare gli incentivi all’occupazione (compreso l’apprendistato) sono i giovani. C’è quindi un marcato
svantaggio per i lavoratori anziani, ma anche disuguaglianze a sfavore del sud del paese e delle donne. Un differenziale
che però si attenua guardando ai nuovi occupati, in prevalenza donne e del Mezzogiorno.
Le politiche passive (inclusi i lavori socialmente utili) hanno in generale una bassa copertura dovuta soprattutto
al fatto che molti occupati non hanno i requisiti contributivi richiesti per i trattamenti (anche qui con una differenza a
sfavore delle donne e del Sud, ma anche a vantaggio di alcuni settori come l’industria).
In Italia, la spesa in politiche del lavoro è tra le più basse e il suo aumento, in un orizzonte ventennale, è andato
di pari passo con la riduzione dell’orientamento lavoristico. Il modello, basato su incentivi automatici scarsamente
selettivi, presenta anche uno scarso ricorso all’erogazione di servizi reali attraverso i servizi pubblici per l’impiego.
Dal ’97, quando è nata la Strategia Europea per l’Occupazione, si sono affermate alcune tendenze comuni ai
paesi europei:
o
l’aumento della partecipazione attiva dei beneficiari di sussidi passivi l’allargamento dei confini delle
tradizionali politiche del lavoro
o
l’uso di logiche di mercato nell’implementazione delle politiche pubbliche, in particolare per i servizi
pubblici per l’impiego.
Rispetto al modello italiano, sembra necessario per il futuro assicurare la congruenza tra politiche del lavoro e
sistema di welfare. Un mercato del lavoro più flessibile deve inoltre coniugarsi con un maggior sforzo in politiche del
lavoro e, in generale, spostare le tutele dal posto di lavoro al mercato. E’ necessario rafforzare le misure verso
disoccupati e fasce deboli tenendo anche conto dei disincentivi al lavoro e dell’importanza di rafforzare i servizi per
l’impiego per il controllo e l’attivazione dei percettori di sussidi. Alla luce delle differenziazioni geografiche del nostro
mercato del lavoro è anche opportuno favorire una determinazione più decentrata dei salari. Infine, in una logica di
apertura del mercato dei servizi all’impiego ad attori privati e locali, è necessario distinguere tra obiettivi della politica
pubblica e ruolo dell’operatore pubblico.
Azioni interne e comunitarie di politica attiva del lavoro
Definizione
Una prima definizione di “politiche attive per il lavoro” (cui spesso si fa riferimento anche con l’acronimo
ALMP, Active Labor Market Policies) non può che essere ampia e generale, così da ricomprendere impostazioni,
misure e strumenti anche molto diversi tra loro: con questo termine si può in senso lato fare riferimento a tutti i
provvedimenti, che comportano una spesa pubblica, volti a rendere più efficiente il funzionamento del mercato del
lavoro adeguando le caratteristiche professionali dell’offerta alle richieste della domanda. Esse mirano a favorire
l’incontro tra domanda e offerta e a migliorare le possibilità di accesso all’occupazione per le categorie più
svantaggiate.
Uno schema classificatorio più analitico è stato poi elaborato dall’Eurostat, che, con il Modulo LMP (Labour
Market Policies), propone sette tipologie di interventi accomunati dall’obiettivo di attivare o riattivare nel mercato del
lavoro soggetti che si trovino ai margini:
1) Supporto e orientamento personalizzati a favore di chi cerca lavoro da parte dei servizi pubblici
dell’impiego,
2) Formazione e addestramento,
3) Schemi di suddivisione del lavoro (job sharing),
4) Incentivi all’occupazione,
5) Politiche di inserimento lavorativo dei disabili,
6) Creazione diretta, nel settore pubblico in senso lato, di posti di lavoro,
7) Incentivi alle nuove attività di impresa.
Le politiche attive del lavoro si differenziano da quelle passive perché, mentre queste ultime hanno la finalità
di lenire il disagio sociale connesso con la disoccupazione, quelle attive mirano invece a integrare (o reintegrare) nel
mercato del lavoro coloro che si trovano ai margini di esso, vicini e prossimi all’uscita. Quando si parla di obiettivi
delle politiche attive, infatti, ci si sofferma spesso sul ruolo che esse hanno nel reintegrare nel mercato del lavoro i
disoccupati di lunga durata, impedendo che il prolungarsi della disoccupazione li scoraggi dalla ricerca attiva di lavoro
e ne riduca così il capitale umano.
Soprattutto nel contesto europeo si può dire che negli ultimi anni l’ottica delle politiche attive è più di tipo
preventivo, d’intervento su chi possa divenire un disoccupato di lungo periodo.
Va precisato che lo schema LMP, nato come classificazione di tutte le politiche del lavoro, comprende anche
due tipologie di politiche passive: tutela economica dei disoccupati e schemi di pensionamento anticipato.
Tali politiche possono concretizzarsi con la fornitura di servizi reali, come il supporto nella ricerca di lavoro o
la partecipazione ad attività formative, o con l’inserimento lavorativo vero e proprio, favorito dalla presenza di
incentivi, nel settore privato (sgravi fiscali e formazione fornita) o nel settore pubblico (tramite schemi temporanei di
lavori pubblici).
Fattori di successo
Dopo questa introduzione definitoria e prima di descrivere nel dettaglio i contesti italiano ed europeo, è
opportuno soffermarsi sulle caratteristiche generali delle politiche attive e sui fattori che contribuiscono a determinarne
il successo o il fallimento.
La prima questione fondamentale è legata al trade-off tra equità ed efficienza. Gli obiettivi di equità sociale
(assicurare migliori opportunità anche alle fasce più deboli tra la popolazione con problemi occupazionali), infatti, non
sono sempre compatibili con quelli di efficienza economica (ottenere la migliore rispondenza in termini lordi, anche
concentrandosi solo sui soggetti meno problematici). Questo è uno dei motivi principali per la giustificazione
dell’intervento pubblico in materia: mentre il privato, inevitabilmente, è più attento alla dimensione dell’efficienza e si
rivolge ai soggetti relativamente più “forti” in termini di motivazione e capacità/competenze (ad esempio i giovani con
discreti livelli di istruzione), le istituzioni dovrebbero intervenire anche rispetto allo “zoccolo duro” della
disoccupazione, rappresentato da adulti poco scolarizzati, poco motivati e per i quali sono necessari strumenti molto
specifici. Sarebbe dunque opportuno organizzare i servizi pubblici per l’impiego come un’agenzia integrata, in grado di
combinare le funzioni collocamento, pagamento dei sussidi e avviamento ai programmi.
Anche riuscendo a bilanciare queste tensioni, la valutazione dal punto di vista macroeconomico del successo o
dell’insuccesso complessivi delle misure di politica attiva rimane difficile, essendo necessario capire se i soggetti
interessati dalla singola politica abbiamo migliorato o meno le proprie chances occupazionali e reddituali (a fronte dei
costi sostenuti per quella data politica).
In generale, quando si valuta una politica attiva per il lavoro, possiamo dire che si deve tenere conto di tre
distorsioni: l’effetto “spreco”, l’effetto “sostituzione” e l’effetto “spiazzamento”. Nel primo caso si valuta se le imprese
avrebbero assunto comunque i lavoratori che hanno partecipato ai programmi di inserimento; nel secondo caso si
guarda se i destinatari delle politiche avrebbero trovato un impiego in altre aziende e quindi se le aziende gli hanno
scelti solo perché la loro assunzione riduce i costi della manodopera.
Infine l’effetto “spiazzamento” fa riferimento al fatto che le imprese e i settori che utilizzano i lavoratori
coinvolti nel progetti di politiche attive possano espandersi, a svantaggio di altre imprese e altri lavoratori, grazie ai
minori costi sopportati. Quello che qui si vuole sottolineare è che le politiche attive possono avere anche degli effetti
negativi sull’economia, favorendo solo alcune imprese e alcuni lavoratori. Per misurare l’utilità di una politica si
dovrebbero confrontare gli esiti dei soggetti “trattati” e quelli di altri soggetti con, simili ai primi, ma che non siano
sottoposti allo specifico “trattamento”, questo ovviamente è molto difficile e pertanto difficile misurare gli effetti che le
politiche hanno sull’economia e in particolare sul mercato del lavoro.
Queste difficoltà di misurazione non impediscono tuttavia di evidenziare alcuni fattori che in linea generale
contribuiscono in modo determinante all’efficacia delle politiche attive. In primo luogo è fondamentale che vi sia un
ottimo livello di coordinamento: le ALMP devono innanzitutto rapportarsi alle altre politiche economiche, sia a livello
locale che nazionale, perché la loro funzione può essere solo quella di migliorare la risposta dell’occupazione alla
crescita economica, non quella di creare direttamente nuovi posti di lavoro. Il coordinamento dovrebbe essere
ugualmente forte sia con le politiche passive del lavoro (erogazione di sussidi a fronte di una ricerca attiva del nuovo
impiego e della partecipazione a progetti di ALMP) che con le altre tipologie di politiche pubbliche operanti a livello
territoriale: le ALMP tendono ad essere più efficaci se sono ben inserite nella realtà di riferimento, se coinvolgono gli
attori sociali, se rientrano in piani più ampi. Non va poi trascurata l’importanza del coordinamento nell’organizzazione:
le diverse misure dovrebbero avere un’impostazione e una gestione coerente; anche per questo potrebbe risultare utile,
come si è già avuto modo di sottolineare, delegare la materia nella sua interezza ad un’agenzia pubblica integrata, che
possa allo stesso tempo adottare gli strumenti più opportuni e occuparsi dei sussidi. Il raggio d’azione di una simile
agenzia dovrebbe tuttavia rimanere limitato: politiche “calate” dall’alto e non pensate per un contesto specifico
rischiano di trasformarsi in uno strumento di propaganda politica e in uno spreco di risorse, mentre le iniziative mirate
si dimostrano più incisive. A livello centrale dovrebbero però rimanere i poteri di indirizzo generale e di verifica dei
risultati.
L’ultimo “requisito” essenziale per l’efficacia delle ALMP è la qualità degli operatori, che necessitano di
un’apposita preparazione e di un approccio poco burocratico e improntato al problem solving.
In altri termini è possibile individuare, sia pure in termini generali, un modello di riferimento “ottimo” per le
politiche attive del lavoro, caratterizzato da:
o
Decentramento territoriale, sia dal punto di vista politico che amministrativo e di gestione delle
risorse, che consenta il coinvolgimento delle parti sociali sia nella fase di progettazione che di
attuazione;
o
Integrazione delle diverse funzioni, accompagnata però dalla separazione netta tra definizione degli
obiettivi (momento politico) e implementazione delle politiche (momento gestionale-amministrativo);
o
Qualificazione degli operatori;
o
Qualità dei progetti, che devono essere mirati (ossia pensati per contesti specifici), selettivi (ossia
destinati a gruppi precisi e limitati di individui) e adeguatamente finanziati.
Caso italiano
Pur senza dimenticare le differenze sostanziali tra i diversi paesi europei e le inevitabili generalizzazioni che
caratterizzano classificazioni di questa portata, si può affermare che questa traccia rappresenti il modello europeo di
ALMP. Il caso italiano si distanzia sotto molti aspetti dallo schema appena tratteggiato, ma, prima di descriverne le
caratteristiche attuali, può essere utile un accenno alla sua evoluzione nel tempo. Fino alla metà degli anni 90 le
politiche attive per il lavoro nel nostro paese sono state improntate a:
o
Forte accentramento formale, cui si accompagnava un diffuso “sommerso” locale, sia in seno alle
amministrazioni pubbliche sia promosso dai privati,
o
Disintegrazione delle funzioni, affidate a strutture diverse senza alcun raccordo,
o
Separatezza istituzionale, che spesso raggiungeva il conflitto,
o
Approccio organizzativo molto burocratico, privo di capacità promozionali e di competenze
professionali specifiche,
o
Scarso coinvolgimento dei soggetti presenti nelle diverse realtà socioeconomiche,
o
Interventi tendenzialmente “a pioggia”, destinati alla generalità dei disoccupati, senza grosse
distinzioni nemmeno dal punto di vista territoriale.
Le pressioni dell’Unione Europea, la consapevolezza dei limiti radicali di un’impostazione come questa, la
crisi sempre più drammatica del sistema politico e la concreta scarsità di risorse hanno portato alla radicale riforma del
1997, il Decreto Montecchi, che ha letteralmente stravolto l’impostazione delle ALMP italiane.
Le competenze in materia di organizzazione del mercato del lavoro, politiche attive e sostegno all’occupazione
sono state affidate in toto alle regioni, affidando al Ministero del Lavoro solo il compito di verifica dei risultati (da
sottolineare che anche la progettazione degli obiettivi e la definizione degli standard minimi vengono demandate alle
regioni).
Questa riforma, a tutt’oggi non completamente a regime sia per quanto riguarda il previsto trasferimento del
personale del Ministero alle regioni, sia per rispetto al passaggio di competenza delle risorse, ha legittimato le profonde
differenze esistenti a livello territoriale; l’unico tentativo di arginare questo eccessivo decentramento si è avuto in sede
di Conferenza Stato – Regioni, dove sono stati definiti standard e protocolli minimi comuni, seppure con una scarsa
valenza prescrittiva.
Va però precisato che, nonostante la marcata autonomia normativa, a livello locale si riscontrano tendenze
simili, tra cui delega funzionale alle province, scarso coinvolgimento degli attori sociali, centralità delle attività di
incontro domanda – offerta.
Più nel dettaglio gli interventi tipici di politica attiva del lavoro nel nostro paese sono i seguenti:
1) Promozione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Si tratta di fatto di diminuire i tempi di
disoccupazione diffondendo informazioni, agevolando concretamente i contatti tra lavoratori e datori. A questo devono
affiancarsi la comprensione delle esigenze delle imprese (comprensione che può non essere così semplice e immediata,
considerata la dimensione medio-piccola delle aziende italiane), la ricerca del prestatore più adatto a quelle stesse
esigenze (anche questa attività può non essere facile, considerato che può anche richiedere la revisione delle aspettative
del prestatore e l’adeguamento delle sue caratteristiche professionali).
2) L’informazione e l’orientamento professionale, con l’obiettivo di migliorare le capacità di scelta autonome
degli individui, la loro informazione circa le caratteristiche del mercato e la loro consapevolezza relativamente alle loro
capacità e possibilità.
3) Sostegno dell’inserimento lavorativo dei disoccupati, dei lavoratori cassaintegrati o in mobilità e degli
inoccupati di lunga durata. In questa categoria rientrano tipicamente i corsi di formazione, ma bisogna ricordare che
esiste una sorta di processo cumulativo della formazione stessa: sono solitamente più adatti a riqualificarsi attraverso
queste strategie coloro che hanno già un buon livello di istruzione e capacità professionale piuttosto che i soggetti
relativamente più svantaggiati, gli adulti poco secolarizzati. Per questo motivo possono rivelarsi utili ed efficaci
politiche che prevedano stage e tirocini d’inserimento, soprattutto se accompagnate ad incentivi monetari all’assunzione
per le imprese.
4) I lavori socialmente utili. Questa ALMP deve restare un’assoluta eccezione rispetto alle altre tipologie di
intervento, destinata a tamponare emergenze sociali più che occupazionali. Il suo obiettivo non deve quindi essere la
garanzia di un reddito fisso al disoccupato di lungo periodo, ma il miglioramento delle sue prospettive occupazionali
future, della sua rete di relazioni personali e della sua affidabilità sociale. Limitare le prospettive di stabilizzazione è
inoltre fondamentale per non spiazzare né le imprese (evitare che parte della forza lavoro che potrebbe essere assunta
dalle aziende si dedichi ai lavori socialmente utili) né la pubblica amministrazione (impedire che i lavori socialmente
utili si sovrappongano o si sostituiscano alla pubblica amministrazione nella produzione e nell’offerta di determinati
beni e, soprattutto, servizi).
5) La promozione dell’occupazione femminile. Questo significa sicuramente elaborare strategie che riducano
la segregazione nel mercato del lavoro, diminuiscano le differenze salariali a parità di mansioni, riequilibrino la
gerarchia delle imprese e aumentino il tasso di occupazione, ma significa anche, più semplicemente, considerare le
specificità femminili nell’attuazione delle politiche descritte in precedenza. In tale contesto possiamo ricordare le due
misure principali attuate a livello nazionale per finanziare lo sviluppo dell’occupazione e delle pari opportunità: la legge
per l’imprenditoria femminile (legge 125/91) e a legge per le pari opportunità (legge 125/91)
6) L’inserimento dei portatori di handicap attraverso schemi premiali e promozionali più che come semplice
obbligo a carico delle aziende.
Prima di discutere brevemente alcuni dati quantitativi circa le politiche attive in Italia, è opportuno sottolineare
come il Decreto Legislativo 276/03, attuativo della Legge Delega 30/03 di riforma del mercato del lavoro, sia
intervenuto a ridefinire almeno in parte le priorità in materia. Il Decreto si propone, tra l’altro, di “realizzare un sistema
efficace e coerente di strumenti intesi a garantire trasparenza ed efficienza del mercato del lavoro e migliorare le
capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di una prima occupazione, con particolare
riferimento alle fasce deboli del mercato del lavoro.” Lo strumento principale per raggiungere questo obiettivo è la
Borsa Continua Nazionale del Lavoro, intesa come una raccolta on-line di dati e informazioni relativi a domanda e
offerta di lavoro che dovrebbe agevolare il contatto tra lavoratori e imprese.
Il Decreto assegna poi al Ministero delle Politiche Sociali il compito di redigere degli indicatori per misurare
l’efficacia e il successo delle politiche del lavoro in generale e delle innovazioni della riforma in particolare e di riferire
annualmente in Parlamento relativamente alle dinamiche del mercato.
In particolare i finanziamenti in Italia investiti nelle politiche del lavoro sono stati diretti a finanziare attività
con finalità formative (circa il 51% delle risorse investite per gli incentivi lavorativi hanno finanziato la formazione
professionale, soprattutto destinata ai lavoratori svantaggiati) e ai contratti cosiddetti di “causa mista”: apprendistato e
formazione-lavoro, che per molti aspetti sono misure d’incentivazione all’occupazione. Tuttavia come modalità di
erogazione prevalente delle politiche attive rimane, in Italia, quello dello sgravio contributivo per le imprese che
assumono i lavoratori “svantaggiati” o il credito d’imposta per le nuove attività di impresa.
Dal punto di vista territoriale le politiche attive si sviluppano in maniera diversa a seconda della zona in cui
vanno ad operare. I lavori socialmente utili,ad esempio, si concentrano per l’80,2% nel Mezzogiorno, esattamente il
contrario avviene per i contratti a causa mista, di cui il 78,8% nel centro-nord ed il restante 21,2% al sud. Nell’ambito
dei contratti misti si evidenzia, inoltre, una graduale sostituzione dei contratti di formazione -lavoro con quelli di
apprendistato. Per quanto riguarda gli interventi di formazione in senso stretto, nel nostro paese alla fine degli anni
novanta più di 800 mila persone sono state coinvolte in tali programmi. Si tratta di interventi diversi tra loro che vanno
dalle work experiences (tirocini formativi, piani di inserimento professionale e borse di lavoro) all’educazione degli
adulti (centri territoriali e scuole serali) sostenuta dai progetti del ministero della Pubblica Istruzione, alla formazione
professionale regionale.
Gli interventi di politica attiva si differenziano anche a seconda della fascia di età a cui appartengono gli
interessati. Fino ai 20 anni di fatto l’unico intervento attuato è quello dell’apprendistato, le politiche che si rivolgono
agli adulti invece ( dai 45 anni in poi) sono solo il 6% del totale degli interventi nonostante questa classe rappresenti
circa il 14% di coloro in cerca di un lavoro. Il ruolo predominante è occupato dai lavori socialmente utili (il 25,8% di
questi incentivi è diretto agli ultra 45enni). Per concludere possiamo dire che gli interventi di politica attiva in Italia si
rivolgono soprattutto ai giovani, nel Mezzogiorno troviamo qualche eccezione, qui sono prevalenti gli interventi a
favore dei lavoratori più adulti, interessati sia da incentivi all’occupazione sia da schemi di creazione diretta di posti di
lavoro nel settore pubblico.
Quadro Europeo
Nella definizione degli obiettivi di tutti questi strumenti risulta comunque centrale il ruolo dell’Unione
Europea, che con il Consiglio Europeo di Lussemburgo del 1997 ha stabilito la Strategia Europea per l’Occupazione, la
cui priorità è quella di arrivare ad un tasso di occupazione del 70% per la popolazione totale e del 60% per la
popolazione femminile entro il 2010. Questi risultati dovrebbero essere raggiunti attraverso la progressiva convergenza
delle politiche del lavoro rispetto alle linee guida definite dalla Commissione e approvate dal Consiglio, convergenza da
realizzarsi però attraverso un approccio di coordinamento aperto, che orienta le scelte dei singoli stati lasciando loro
piena libertà circa le modalità di attuazione. Concretamente ogni stato membro deve approvare annualmente il NAP
(National Action Plan), un documento che descrive la performance degli interventi in atto e i progetti futuri e che deve,
ovviamente, rispondere agli indirizzi indicati nelle linee guida.
Il NAP viene poi valutato dalla Commissione, con il duplice scopo di individuare e diffondere le strategie di
maggiore successo da un lato e di richiamare gli stati meno efficienti in materia di ALMP (ai giudizi negativi non segue
però alcuna sanzione).
Le linee guida vengono riformulate ogni anno, ma si fondano sempre su quattro pilastri:
1.
Occupabilità. Si tratta di migliorare le capacità di inserimento professionale dei gruppi sociali più
svantaggiati, ad esempio offrendo almeno un’occasione di lavoro o di formazione ogni sei mesi ai
giovani disoccupati, agevolando la transizione scuola – lavoro, incentivando la mobilità geografica,
oppure ancora, organizzando politiche di invecchiamento attivo per i prestatori più anziani e
combattendo ogni tipo di discriminazione.
2.
Sviluppo dell’imprenditorialità e incentivo alla creazione di nuovi posti di lavoro. I meccanismi più
efficaci per raggiungere questo obiettivo sono la semplificazione amministrativa e la riduzione del
carico fiscale per le aziende, i progetti di emersione dal sommerso e lo sviluppo dei servizi alle
imprese.
3.
Incoraggiare le capacità di adattamento di datori e lavoratori attraverso pratiche di concertazione,
incentivo al dialogo sociale e coinvolgimento di tutti i soggetti operanti sul territorio (lavoratori,
aziende, sindacati, istituzioni, società civile..) nell’elaborazione e nell’implementazione delle
politiche, anche considerando il dialogo in sé come un obiettivo degno di essere perseguito.
4.
Rafforzare le politiche per le pari opportunità.
Un bilancio articolato della Strategia Europea per l’Occupazione non può essere di certo compiuto in questa
scheda informativa, ma possono comunque esserne sottolineati alcuni elementi positivi e negativi: i suoi pregi sono
senza dubbio la progettualità, la disponibilità di risorse e strumenti (si pensi ad esempio al Fondo Sociale Europeo) e
l’attivazione di circoli virtuosi per quanto riguarda la visibilità delle iniziative e la nascita di un dialogo ampio in
materia. I suoi difetti sono fondamentalmente legati allo scarso coordinamento con le altre politiche economiche, alla
proposta di soluzioni tendenzialmente simili per problemi in realtà molto diversi da paese a paese e la non
considerazione degli squilibri territoriali che possono aversi anche all’interno di una singola nazione. Questi problemi
sono peraltro di difficile soluzione, considerato che non tutte le politiche economiche sono di competenza dell’Unione
(la politica monetaria è affidata alla BCE, ma le politiche fiscali, ad esempio, sono gestite a livello nazionale), che la
considerazione delle differenze nazionali si scontra con la necessità di un’impostazione unitaria delle ALMP e che le
disparità territoriali all’interno delle nazioni singoli non potrebbero a loro volta essere affrontate con un unico
approccio.
In linea generale si può dire però che la culla delle politiche attive del lavoro è nei generosi sistemi di welfare
dei paesi scandinavi.
LA SARDEGNA2
La Regione Sardegna, ancora per il periodo di programmazione 2000-2006, è risultata fra le aree europee
dell’Obiettivo 1, quelle in ritardo di sviluppo. Vi è da sottolineare che le recenti dinamiche del reddito pro-capite, non
consentiranno il permanere della RAS in seno al gruppo delle regioni svantaggiate, né il mantenimento dello status che
le avrebbe permesso di essere destinataria nel periodo successivo della stessa quantità di fondi europei ricevuti fino ad
oggi.
La programmazione dei fondi del QCS in Sardegna, continua a rimanere carente, a livello regionale, in quanto
la strumentazione programmatica generale che dovrebbe guidare strategicamente ogni territorio nelle scelte di utilizzo
dei fondi pare ignorarne le specificità e l’identità.
A ciò deve aggiungersi il permanere di alcuni elementi critici quali l'incertezza sull'effettiva dotazione
finanziaria nazionale destinata ai programmi di intervento oggetto di programmazione negoziata; l'incerta integrazione
tra le procedure della programmazione negoziata e la normazione di settore; la sovrapposizione tra procedure di
attuazione, e, soprattutto, una eccessiva proceduralizzazione dei meccanismi che impediscono una rapida spesa dei
fondi.
Le evidenti opportunità della programmazione negoziata, anche al fine del rispetto della tempistica stabilita per
l’impegno e la spesa dei fondi per lo sviluppo, non possono celare le perplessità nei confronti delle procedure e della
qualità della “programmazione negoziata”. Le difficoltà di risultato di strumenti come i Patti territoriali, la non sempre
adeguata interpretazione da parte dei soggetti responsabili del complesso sistema della concertazione qualche volta
svilita al rango di semplice intermediazione, unite alla necessità di chiudere il progetto, per via del ritardo con cui si è
soliti programmare e progettare gli interventi, compongono un quadro che sembrerebbe non favorevole alla
programmazione negoziata.
Vale però la pena di ricordare che l’elemento che distingue questa strumentazione è rappresentato dal fatto che
il suo obiettivo non è soltanto quello di puntare ad una crescita delle imprese beneficiate. L’obiettivo non è il nuovo
investimento inteso in modo isolato, ma piuttosto lo sviluppo del territorio su cui l’impresa opera, l’aumento delle sue
capacità di “fare sistema”, lo sviluppo della sua capacità di competere, la valorizzazione delle risorse in esso presenti.
In molte realtà locali una semplice azione di incentivazione a favore delle imprese non è sufficiente ad avviare
nuovi processi di sviluppo locale. Le recenti esperienze indicano come i nuovi fenomeni di crescita economica siano
fortemente correlati con la capacità di esprimersi di contesti locali responsabilizzati, frutto della cooperazione tra
impresa, sindacato, amministrazioni locali, autonomie funzionali, associazionismo, saperi locali. In questi contesti le
variabili istituzionali, le scelte infrastrutturali, il piano regolatore dei comuni, il piano di sviluppo provinciale, la
programmazione regionale, assumono grande rilievo ai fini dello sviluppo, al pari delle variabili finanziarie, di quelle
tecnologiche, di quelle legate allo sviluppo del capitale umano.
E’ necessario un rafforzamento, in linea con quanto sta accadendo nella maggior parte dei paesi OCSE, della
programmazione concertata e delle logiche alla base dello sviluppo locale.
La Regione non può permettersi di esaurire la propria funzione di motore a favore dello sviluppo con la
semplice gestione degli incentivi automatici, si pensi alla regionalizzazione della legge 488, poiché l’individuazione di
2
Tratto da La programmazione regionale nel Mezzogiorno Rapporto CNEL – SUDGEST - Assemblea, 28 novembre 2002
percorsi autonomi, la valorizzazione delle proprie peculiarità e delle proprie risorse fisiche e umane, implicano il ricorso
ad un forte impegno di programmazione, che non può limitarsi alla frenetica spesa dei fondi allo scadere dei termini.
Di conseguenza, è d’obbligo la condivisione degli obiettivi tra le Comunità locali e i diversi livelli istituzionali.
Una sintesi delle esperienze a livello comunitario dimostra che questo sforzo è sufficientemente generalizzato.
Nei due decenni passati molti Paesi hanno completamente modificato le loro politiche territoriali ponendo una nuova
attenzione alla “competitività” delle regioni, alla comprensione degli elementi chiave che differenziano i vari tipi di
regione e, all’interno di essi, alle specifiche buone prassi.
Le scelte istituzionali sembrano inequivocabilmente indicare nel livello regionale quello più adatto al
coordinamento delle politiche territoriali e di sviluppo. Tuttavia anche le Regioni devono dimostrare di sapersi dotare
delle competenze necessarie a tale ruolo, nonché di riuscire ad attuare una efficace politica di concertazione territoriale
con gli enti locali e le parti sociali a livello locale.
Il potenziamento tecnico, amministrativo ed istituzionale, delle capacità gestionali delle regioni, Sardegna
inclusa, pare essere l’unica strada da percorrere nel conseguimento di una vera responsabilizzazione programmatica e
per impiegare razionalmente la totalità dei fondi a disposizione.
La Programmazione e la Concertazione in Sardegna
Per il raggiungimento degli obiettivi indicati in sede di programmazione delle risorse comunitarie Qcs 2000 –
2006, la maggior parte delle Regioni meridionali Obiettivo 1 ha adottato misure innovative, di natura legislativa,
necessarie alla semplificazione dei procedimenti e all’innovazione anche organizzativa delle strutture amministrative
preposte alla progettazione, attuazione, valutazione e monitoraggio degli interventi.
L’azione dei governi regionali siciliano e sardo si ispira in particolare ad alcune linee che risultano più
interessanti per le realtà produttive locali:
o
emersione dell’economia sommersa attraverso meccanismi incentivanti di natura fiscale e contributivi;
o
incentivi fiscali per gli investimenti (in particolare il provvedimento, che risulta ormai noto come
“Tremonti bis”)
o
legge “obiettivo”.
Il DPEF 2002 – 2004 della Sardegna punta in particolare, su un cambiamento di rotta nell’approccio ai temi del
lavoro, dell’impresa, del rilancio dei territori, che conduca ad un maggior ricorso agli incentivi automatici.
Il ripensamento delle politiche regionali per il lavoro ha, tuttavia, condotto, da un lato al potenziamento degli
strumenti di incentivazione automatica (anche attraverso gli aiuti regionali), dall’altro all’irrobustimento della
metodologia di elaborazione dei progetti di sviluppo locale, cogliendo l’opportunità dei PIT, che possono produrre
occupazione non assistenziale, affidandola con bandi ai partenariati pubblici e privati più attivi nel territorio e
promuovendola con interventi di animazione nelle aree meno attive.
Un altro fronte critico su cui la Regione indirizza le proprie strategie è quello fiscale. In continuità con il DPEF
2001-2003, il governo regionale è orientato a spostare il baricentro della politica d’intervento a favore delle aree
arretrate dalle incentivazioni finanziarie verso quelle fiscali.
Un elemento di debolezza del quadro programmatorio sardo è dato dallo stato di salute del bilancio, che può
sintetizzarsi nel risultato negativo di amministrazione che la Regione Sardegna ha registrato, a chiusura dell’anno 2000,
per un disavanzo pari a ben 4.468 miliardi di lire (oltre 2.300 milioni di euro). Tale elemento impone, per il
conseguimento dell’obiettivo di riduzione dell’indebitamento, un’azione costante di contenimento e di
razionalizzazione della spesa.
Lo stato della programmazione regionale
L’ultimo ciclo dei fondi comunitari è stato avviato sulla base di un quadro programmatorio regionale definito
dalla legge regionale 9 giugno 1999, n. 23, “Modifiche e integrazioni alla legge regionale 5 maggio 1983, n. 11, relativa
a norme in materia di bilancio e contabilità della Regione e successive modifiche”.
In particolare, con tale provvedimento sono stati adottati i seguenti strumenti di programmazione economicofinanziaria:
a) il Piano generale di sviluppo
b) il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (D.P.E.F.)
c) la legge finanziaria
d) il bilancio pluriennale
e) il bilancio di previsione annuale
f) il rendiconto generale della Regione.
Il Piano Regionale di Sviluppo non è stato approvato.
Il DPEF 2002-2004, approvato dal Consiglio Regionale sardo nel gennaio 2002, rappresenta, in assenza del
Piano di sviluppo, il quadro programmatico di riferimento della politica regionale di sostegno dello sviluppo. Nel
maggio 2002 è stato approvato dalla Giunta Regionale, il DPEF 2003 – 2005, che è attualmente è all’esame delle
Commissioni consiliari.
Il DPEF 2002-2004 è orientato a perseguire tre obiettivi prioritari:
o
potenziare i contenuti dei DPEF precedenti introducendo, al tempo stesso, un’azione di feed–back, sulla base
di una articolata riflessione sui risultati della programmazione attuata, in direzione di un cambiamento di rotta
nell’approccio ai temi del lavoro, dell’impresa, del rilancio dei territori, che conduca ad un maggior ricorso
agli incentivi automatici;
o
consentire il decollo di strumenti programmatici e finanziari cruciali quali il POR 2000-2006 e l’Intesa
Istituzionale di Programma
o
avviare e portare a compimento la riforma degli assetti organizzativi e gestionali dell’Ente Regione.
Il ripensamento delle politiche regionali per il lavoro ha condotto, da un lato al potenziamento degli strumenti
di incentivazione automatica, dall’altro all’irrobustimento della metodologia di elaborazione dei progetti di sviluppo
locale che possono produrre occupazione non assistenziale, affidandola con bandi ai partenariati pubblici e privati più
attivi nel territorio e promuovendola con interventi di animazione nelle aree meno attive.
E’ questa la strada che la Regione Sardegna ha intrapreso, nell’ambito di una più ampia strategia comunitaria,
attraverso la definizione della metodologia dei PIT (Progetti Integrati Territoriali), che vedono l’avvio parallelamente al
DPEF.
Gli elevati tassi di disoccupazione dell’isola, in ogni caso, non consentono di abbandonare quegli interventi di
sostegno al lavoro temporaneo che assumono valenza sociale e di sussidio al reddito in aree di particolare disagio.
Un altro fronte critico su cui la Regione indirizza le proprie strategie, è quello fiscale. In continuità con il
DPEF 2001-2003, il Governo regionale è orientato a spostare il baricentro della politica d’intervento a favore delle aree
arretrate dalle incentivazioni finanziarie verso quelle fiscali.
Attraverso questa filosofia di intervento il governo regionale mira ad ottenere, nel triennio 2002-2004, un
incremento degli occupati stimato in almeno 15 mila unità stabili, sulla base dell’attuazione dei programmi e progetti
del POR e della politica di rilancio delle infrastrutture, cui si sommano almeno altre 5 mila unità stabili a seguito degli
effetti degli sgravi contributivi sulle future assunzioni di cui alla L.R. 36/98 e delle nuove norme sull’apprendistato, con
una riduzione del tasso di disoccupazione di almeno 1,5 punti, calcolata in costanza di forza lavoro.
Per quanto riguarda la crescita economica, obiettivo della Regione è la riduzione del divario del reddito pro
capite rispetto alla media nazionale, accelerando il trend in atto negli ultimi anni (riferito ai dati ufficiali ad oggi
definitivi, che hanno visto una maggiore dinamica di crescita dell’economia regionale rispetto a quella nazionale), con
la contestuale adozione di misure tese alla riduzione della dipendenza economica dell’isola.
Va sottolineato come il livello di benessere medio (nei consumi) della popolazione regionale sia pari a circa il
90% del corrispondente livello medio nazionale, nonostante il reddito medio regionale corrisponda solo ai tre quarti di
quello medio nazionale. Ciò è dovuto al meccanismo dei trasferimenti di reddito dalle regioni più sviluppate a quelle
meno sviluppate, in gran parte attraverso la redistribuzione del reddito operata dalla pubblica amministrazione per il
tramite della spesa pubblica.
Nel breve e medio periodo tale meccanismo è destinato ad alimentare gli investimenti in modo esogeno, anche
con il concorso dei fondi comunitari: ma l’azione del governo regionale dovrà essere orientata ad incrementare il
potenziale endogeno dell’economia regionale, a partire dal versante imprenditoriale, per un effettivo recupero
dell’handicap strutturale della dipendenza economica.
In tale direzione, il governo sardo, intende puntare:
o
sulla conferma dei regimi di agevolazione ai piani imprenditoriali notificati ed approvati dalla
Commissione Europea, quale quello della L.R. 15/94
o
su una efficace azione di “regionalizzazione” della L. 488/92 ai fini di un maggior controllo ed
integrazione regionale degli incentivi. Al riguardo, sono state approvate, nel dicembre 2001, le proposte
formulate da Regioni e Province autonome per la concessione delle agevolazioni previste dalla legge
488/1992 a favore delle imprese che operano nel settore del commercio. Chiamata a costituire riserve di
spesa per aree geografiche o aree d’intervento, ritenute prioritarie per la realizzazione del programma
488, la Regione Sardegna ha confermato, come del resto le altre Regioni, le proposte indicate nel bando
2000 ed ha, quindi, riservato, il 50% delle risorse ad aree di intervento “a rischio” del settore
commercio
o
sull’utilizzo dei fondi del POR, attraverso i PIT, per moltiplicare gli strumenti regionali che consentono
lo sviluppo im prenditoriale congiunto ed integrato, attraverso la previsione di Contratti di Programma e
Patti Territoriali Regionali.
Infine, nell’ambito temporale del DPEF 2002-2004, il governo regionale è chiamato a realizzare la
riorganizzazione degli uffici dell’amministrazione regionale e delle competenze secondo criteri di più marcata
simmetria con l’organizzazione dei programmi e dei progetti, portando a compimento la riforma del bilancio verso una
piena coerenza delle UPB (Unità Previsionali di Base) con gli effettivi incarichi di elaborazione ed attuazione dei
progetti di sviluppo ed attuazione dei servizi, ovvero con quelle “funzioni-obiettivo” che esprimono la missione
istituzionale della R.A.S., secondo quanto da tempo previsto dal quadro normativo nazionale e regionale.
I soggetti dello sviluppo
La Sardegna è tra le poche Regioni a non aver istituito uno strumento di concertazione istituzionale
permanente, in attuazione della legge n. 59/1997.
Ad oggi,è stato approvato dalla Giunta regionale, e trasmesso al Consiglio per l’approvazione, un disegno di
legge concernente “Conferenza Regione- Autonomie locali”.
Il governo regionale ha comunque attivato, attraverso l’introduzione nell’ordinamento regionale del CREL
(Consiglio Regionale Economia e Lavoro, avvenuta con legge regionale 3 novembre 2000, n. 19, un tavolo di
concertazione che consente alle rappresentanze sindacali, a quelle del mondo industriale, della cooperazione, degli
agricoltori, degli artigiani, dei commercianti, del terzo settore e delle donne, di concorrere alla programmazione e agli
indirizzi di sviluppo economico-sociale e culturale, attraverso la formulazione di pareri e proposte anche ai fini della
predisposizione di iniziative legislative e di atti concernenti materie economiche, sociali e finanziarie.
Il CREL è chiamato ad esprimere pareri sulle questioni attinenti alla programmazione e allo sviluppo
economico, sociale e culturale ad esso sottoposte e formula, sulle medesime materie, proposte di propria iniziativa.
In particolare, il nuovo organismo:
o
esprime parere sui documenti della programmazione regionale
o
esamina la relazione annuale sulle modalità e sui tempi di attuazione degli atti della programmazione e
formula su di essa le proprie osservazioni
o
analizza gli stati di attuazione dei programmi annuali al fine di fornire eventuali suggerimenti
o
elabora, in appositi rapporti alla Giunta regionale, proposte in ordine ai tempi e agli indirizzi dello
sviluppo economico-sociale della Regione
o
formula, su richiesta della Giunta regionale, osservazioni sulle iniziative legislative e sugli altri atti di
contenuto generale concernenti materie economiche, finanziarie e sociali.
Al marzo 2002, il Governo regionale non ha ancora insediato il CREL.
Coinvolgimento dei partner socio-economici ed istituzionali
Con la costituzione del Tavolo regionale per la programmazione dei fondi strutturali europei per il periodo
2000 – 2006, insediatosi presso la Presidenza della Giunta Regionale in data 22 febbraio 1998, si è avviato il processo
di concertazione con i soggetti istituzionali e con le parti economiche e sociali di livello regionale per identificare e
selezionare le priorità e gli interventi che consentano alla Sardegna di realizzare l’obiettivo della coesione economica e
sociale in ambito europeo.
Al Tavolo hanno partecipato ampie rappresentanze degli Enti locali, delle parti economiche e sociali e del terzo
settore. Alle Province, in particolare, è stato demandato il compito di promuovere, nel loro ambito di competenza
territoriale, l’attività di concertazione con i soggetti di livello locale, per acquisire una connotazione più precisa dei
fabbisogni espressi a livello territoriale e per rappresentare in modo adeguato le soluzioni da adottare. I periodici
incontri hanno consentito di realizzare un confronto preventivo sulle linee strategiche del Programma operativo
regionale; organizzare, a livello regionale, e, per il tramite delle Province, in sede locale, l’attività di informazione per i
potenziali beneficiari finali delle azioni che verranno attivate dal Programma operativo; acquisire i contributi delle parti
economiche e sociali e delle Organizzazioni non governative; impostare le modalità di valutazione partecipata degli
interventi in grado anche di agevolare la fase attuativa del Programma.
Il Tavolo regionale ha proseguito l’attività per tutta la fase di attuazione del Por, trovando ulteriore impulso
operativo nella implementazione dei programmi. In particolare:
l’Autorità di gestione è impegnata ad una periodica informazione alle autonomie locali e alle parti economiche
e sociali, onde ricevere osservazioni e proposte da utilizzare per l’efficace attuazione del POR;
nella fase di predisposizione del Complemento di Programmazione, il Tavolo regionale ha sviluppato la
propria attività in forma settoriale e trasversale per contribuire a definire i criteri, le modalità e le procedure più idonei
per dare tempistica ed efficace attuazione alle singole misure programmate.
Sempre relativamente ai processi di concertazione e partenariato attivati dalla programmazione delle risorse
comunitarie, il Comitato di Sorveglianza, insediato in data 5 dicembre 2000, ha previsto, quale strumento di
coordinamento e di approfondimento di tematiche specifiche e in relazione a specifiche esigenze tecnico-gestionali,
l’istituzione, da parte dell'Autorità di gestione, di gruppi di lavoro settoriali e tematici, territoriali che si riuniscono a
date regolari e riferiscono al Comitato stesso.
I gruppi di lavoro sono presieduti dall'Autorità di gestione o, in sua assenza da un suo delegato.
E' prevista la possibilità, in relazione a tematiche specifiche, di estendere la partecipazione ai Gruppi di lavoro
a rappresentanti di Amministrazioni, Enti e soggetti anche non direttamente coinvolti nell'attuazione del POR, oltre che
ad esperti di settore, che operano a supporto dell'Amministrazione designata.
Le attività di supporto tecnico, che comportano la predisposizione dei documenti e delle relazioni attinenti ai
lavori dei Gruppi, sono assicurate a cura della Presidenza dei Gruppi. Per la trasmissione delle relazioni al Comitato di
Sorveglianza del QCS, i Gruppi fanno capo alla Segreteria Tecnica del Comitato di Sorveglianza, rendendo disponibili
le relazioni che formano oggetto di discussione almeno venti giorni lavorativi antecedenti la data prevista per la
riunione del Comitato.
I Gruppi di lavoro svolgono la loro attività su specifico mandato del Comitato di Sorveglianza del POR, si
riuniscono con cadenza almeno semestrale e riferiscono al Comitato di Sorveglianza del POR secondo le modalità
previste dal relativo mandato almeno una volta l'anno.
Il Comitato, su proposta dell'Autorità di Gestione del QCS, può richiedere la modifica o l'integrazione del
mandato di un Gruppo di lavoro.
La sperimentazione dei PIT e la Progettazione Integrata
L’esperienza di progettazione integrata nelle aree Obiettivo 1 ha messo in evidenza come le sei Regioni
esaminate abbiano elaborato ipotesi di partenza ed intrapreso percorsi di attuazione dei PIT molto originali, almeno
rispetto alle principali indicazioni contenute nel Quadro Comunitario di Sostegno, adottando modelli diversi tra loro,
difficilmente riconducibili a tipologie d’intervento.
Un primo, significativo elemento di analisi riguarda il percorso di impostazione dei PIT: nell’interpretazione
dei POR e dei Complementi di Programmazione e nelle stesse modalità di attuazione di tali strumenti ha prevalso, nella
maggior parte dei casi, la logica della diffusione sul territorio dei progetti, piuttosto che la scelta di destinare risorse a
specifiche potenzialità di crescita – i luoghi cruciali dello sviluppo indicati negli “Orientamenti”.
Si è, quindi, manifestata una forte propensione a coprire diffusamente il territorio con gli interventi della
progettazione integrata, anziché applicare un principio di concentrazione.
Operativamente, il punto di partenza non è stato il momento ideativo, l’elaborazione “dell’idea forza”, indicata
nel QCS quale elemento propulsivo della progettazione integrata, quanto piuttosto le scelte di territorializzazione dei
progetti operate dalle Regioni, sia attraverso un’impostazione tipica della programmazione d’area (Basilicata e Puglia),
sia attraverso il ricorso ad un modello funzionalistico (Sardegna e Sicilia) orientato a privilegiare la domanda locale e
non necessariamente agganciato all'organizzazione istituzionale dei territori sia, infine, attraverso percorsi negoziati di
capillarizzazione dei PIT sul territorio (Calabria e Campania).
Tali impostazioni hanno condotto alla prefigurazione, almeno fino ad oggi di:
10 PIT in Basilicata,
23 aree PIT in Calabria,
45 PIT attivati in Campania;
10 PIT in Puglia,
19 aree PIT in Sardegna (ad oggi sono stati approvati 13 Progetti integrati)
28 PIT (su 35 candidature) ammessi alla selezione finale in Sicilia.
A questi 140 “pezzetti” di articolazione territoriale del Mezzogiorno, occorre aggiungere le altre tipologie di
Progetti Integrati attivate a livello regionale (PIS, PIF, PIAR) e ad oggi non quantificabili.
Se si fa ricorso ad una lettura sovrapposta degli strumenti di programmazione concertata presenti nelle diverse
aree territoriali (Patti Territoriali, Contratti d’Area, Gruppi di Azione Locale – GAL), si fa presto a vedere come in
talune zone siano presenti più di 5 strumenti per lo “sviluppo dal basso”, già scarsamente coordinati tra loro sul
territorio dall’azione regionale e oggettivamente, difficilmente integrabili in un’area limitata, attraverso il “collante”
PIT, secondo quanto espressamente indicato in tutti Complementi delle Regioni Obiettivo 1
(Basti pensare che in Campania, ad esempio, sono stati attivati 45 Progetti integrati, che si affiancano ad altri
43 strumenti per lo sviluppo di natura concertata, di cui 39 Patti Territoriali e 4 Contratti d’Area).
Com’è noto, tali strumenti rispondono a logiche organizzative, procedurali, finanziarie e di intervento “rigide”
e, soprattutto, sono scarsamente monitorati e valutati, nella validità delle strategie e nei risultati.
La natura fortemente concentrata della progettazione integrata territoriale intorno alle potenzialità di sviluppo
era chiara nel documento di Orientamento per la formulazione del Programma di Sviluppo. «Le ragioni di questa scelta
[per la progettazione integrata] - si diceva negli Orientamenti - sono due: più i progetti di investimento saranno
concentrati sui luoghi ritenuti cruciali per lo sviluppo, maggiore sarà la probabilità di ottenere effetti incisivi
dall’impiego dei fondi strutturali, ossia un maggior livello di efficacia. [Inoltre], più i progetti saranno assimilabili a
pacchetti di azioni aventi una loro specifica identità (un nome - come si è detto - e un’articolazione definita), più facile
sarà contrastare le spinte alla destrutturazione dei progetti, alla sostituzione non coerente degli interventi o alla loro
parcellizzazione in una serie di iniziative “a pioggia ”. […]
Non sfugge naturalmente alle Regioni che la scelta di procedere per progetti integrati concentrati non è ovvia
né facile. Significa scegliere fra aree, decidere di puntare sulla crescita di alcuni contesti ritenuti promettenti a scapito di
una distribuzione di risorse che accontenti un po’ tutti».
Nella stessa prospettiva si muove il documento dell’Unità di valutazione degli investimenti pubblici del
Dipartimento delle Politiche di Sviluppo dell’attuale Ministero dell’Economia, quando riconosce che il riferimento
territoriale del PIT non va inteso semplicemente in rapporto ai luoghi verso cui è destinata l’azione di sviluppo, ma
soprattutto in ragione del contesto territoriale in cui si esprimono le potenzialità oggetto di valorizzazione.
Questa logica progettuale appare nella grande maggioranza dei casi disattesa nei fatti: nell’impostare i PIT, le
Regioni hanno, infatti, privilegiato, in un modo o nell’altro, la scala territoriale, piuttosto che partire dall’ideazione e
dalla valorizzazione della progettualità, secondo criteri di applicazione che assecondassero il principio della
concentrazione.
Se è vero che il cambiamento di “logica di costruzione” del PIT si è rivelato rispondente alle esigenze
programmatorie delle Regioni, tuttavia, tale impostazione “personalizzata” ha finito per complicare la vita al percorso
attuativo dei PIT, favorendo, sul territorio:
o la diffusione capillare di progetti poco integrati tra loro attorno ad un’idea forza scarsamente definita e
“operativa”, la cui elaborazione è stata resa difficile dall’inquadramento del PIT in confini amministrativi così stringenti
(in alcuni casi non vengono ammessi Progetti che interessano aree di diverse province) da rappresentare un vincolo
rigido per Progetti la cui natura e portata può essere contraddetta da un dimensionamento territoriale inadeguato o la
“complicazione” del ruolo di coordinamento della Regione:
moltiplicandosi, le aree PIT hanno di fatto ampliato in modo spropositato i tavoli del partenariato, accrescendo
le difficoltà ad esercitare un monitoraggio ed un coordinamento efficace o l’esposizione, di tutte le diverse porzioni di
territorio regionale, ai rischi (elevati) di complesse operazioni di coordinamento ed integrazione (attraverso
l’enucleazione dell’idea forza) con le numerose esperienze di programmazione concertata (Patti Territoriali, Contratti
d’Area, Gal, etc.) presenti sul territorio, piuttosto che la valorizzazione delle esperienze di programmazione negoziata
(o, comunque, concertata) che avevano espresso potenzialità di sviluppo e progettualità elevate nei luoghi ritenuti
“promettenti” o “cruciali”.
Operando attraverso una ripartizione territoriale sostanzialmente di tipo amministrativo (in particolare
Sardegna e Sicilia), in assenza di un quadro programmatorio regionale definito o comunque in via di definizione (è
questo il caso soprattutto delle Regioni Calabria, Sardegna e Sicilia), orientato a prevedere misure di coordinamento o
di armonizzazione delle diverse azioni per lo sviluppo, è facile immaginare come sia difficile assicurare, in ogni area
PIT, l’obiettivo di portare ad unitarietà programmatica e gestionale le molteplici esperienze di sviluppo locale che
hanno visto la luce negli anni ’90.
Il rischio che gli interessi locali più forti, politico-istituzionali o privati, riescano a catturare e piegare il PIT o
in direzione di piani di opere pubbliche o di interventi produttivi giustapposti, è piuttosto alto.
Si ha, in definitiva, l’impressione che ai PIT sia stato assegnato non solo il compito di integrare,
valorizzandole, le progettualità esistenti sul territorio, quanto piuttosto di funzionare, su scala territoriale e con poteri
insufficienti, come strumento di coordinamento delle azioni (e delle idee) per lo sviluppo, supplendo alle carenze degli
indirizzi programmatici regionali e a fronte dell’incertezza che ancora oggi regna sul destino degli strumenti di
programmazione negoziata.
L’avvio sperimentale dei PIT non raccoglie, però, solo risultati negativi, tenuto conto che:
la maggior parte delle Regioni sta accelerando i tempi di attuazione, talvolta anche ricorrendo a nuove
procedure semplificate (in Puglia e Basilicata, dove ora sono previsti progetti di “rapido avvio”), per dare operatività ai
PIT e, soprattutto, per presentarsi con le carte in regola all’appuntamento del 31 dicembre 2002 con il sistema della
premialità
Le Autorità di gestione avevano già previsto un rodaggio lento dei PIT, provvedendo ad impiegare, nel primo
triennio 2000-2003, sperimentale per la progettazione integrata, generalmente circa un terzo delle risorse finalizzate a
tali strumenti (che, a loro volta, ammontano in media al 30% delle risorse totali a valere sui POR), assicurandosi, in tal
modo, ottime possibilità di non rimanere escluse dai meccanismi della premialità (solo la Regione Sicilia, che ha
destinato ben 1,4 miliardi di euro alla prima fase di attuazione della progettazione integrata, rischia di non cogliere in
pieno il risultato atteso per il dicembre 2002)
la sperimentazione è, evidentemente, finalizzata a processi di riprogrammazione, volti a incrementare
l’efficacia sociale dei PIT: in particolare, a giudicare dalle caratteristiche degli interventi “riparatori” o di supporto alla
progettazione locale, messi a punto praticamente da tutte le Regioni, si ha l’impressione che tale processo di feed-back
sia anche finalizzato a reindirizzare la strategia PIT – soprattutto in prospettiva della seconda fase – in coerenza con una
più corretta applicazione dei tre principi codificati della progettazione integrata di marca comunitaria: l’integrazione, la
concentrazione delle risorse finanziarie, la concertazione.
Tra le misure adottate dalle diverse Regioni per migliorare la qualità e le possibilità di successo dei PIT, si
sottolineano i tentativi di re-impiantare su solide basi il partenariato e l’iter della progettazione.
In particolare, si è lavorato sul "partenariato di progetto", che rappresenta un terreno che produce risultati
apprezzabili, superando anche i limiti delle esperienze dei Patti Territoriali e supportando la gestione dei tavoli di
partenariato istituzionale e socio-economico, anche attraverso la realizzazione di azioni di animazione territoriale per
orientare, individuare le idee forza, ricondurre a sintesi gli apporti e i contributi dei diversi attori
sull’assistenza alla
fase di progettazione, soprattutto per quanto riguarda il coinvolgimento di soggetti privati in grado di contribuire con
capitali propri e sull’intervento di ricognizione della progettazione territoriale.
Il Partenariato
L’impressione prevalente che si ha dall’esame dalle modalità regionali di attivazione dei Tavoli di partenariato,
è che le Regioni abbiano colto l’occasione dei PIT soprattutto per rafforzare ruolo e capacità di governo locale degli
Enti locali, anche in coerenza con i processi di decentramento amministrativo in corso (leggi “Bassanini”) e con il
percorso di riforma costituzionale.
Alcune Regioni (la Basilicata puntando sulle Comunità Montane, la Sardegna valorizzando, invece, le
Province) hanno, peraltro, adottato criteri di territorializzazione dei PIT che mirano a privilegiare la variabile della
coesione istituzionale rispetto a quella economico-produttiva.
A livello locale si sono costituite le Partnership locali istituzionali (PLI), formate tra le amministrazioni
pubbliche ricadenti all’interno delle singole aree PIT con la funzione di:
o
sovrintendere al processo di concertazione che si sviluppa sul territorio
o
individuare l’amministrazione capofila quale soggetto responsabile della gestione e dell’attuazione del
PIT
o
partecipare alla costituzione del tavolo di concertazione locale
o
promuovere le azioni di coordinamento delle strategie di sviluppo formulate nel PIT.
I rappresentanti degli interessi collettivi sociali ed economici presenti ed operanti all’interno delle singole aree
PIT stanno, in questo periodo, costituendo, invece, la Partnership concertativa locale che è chiamata a:
o
segnalare fabbisogni sociali e istanze presenti sul territorio
o
formulare indicazioni, orientamenti in merito ai contenuti della proposta progettuale ed esprimere
osservazioni sulla stessa
o
vigilare sul processo attuativo del PIT.
Un primo esame degli schemi e delle proposte PIT (le considerazioni si riferiscono ad un buon numero di
schede relative alle esperienze di Sicilia, Calabria e Sardegna) mostra di frequente partenariati generici,
sovradimensionati, i cui membri hanno sovente compiti vaghi o comunque non strettamente pertinenti alla progettualità.
In Sardegna, dove la Regione ha utilizzato la procedura del bando per la selezione dei PIT, i tempi a
disposizione per la predisposizione dei Progetti sono stati molto ristretti. Il partenariato istituzionale e socia le locale ha
avviato la concertazione sulla base di un Complemento di Programmazione che presentava diversi vincoli e alcuni
limiti, di cui spesso i soggetti proponenti non hanno tenuto conto in fase di predisposizione dei PIT.
Il ruolo del soggetto proponente il PIT non sempre è stato svolto dagli Enti locali o dalle strutture di
partenariato locale, secondo il principio che è dal «basso» che ci si aspetta possano venire le migliori intuizioni per
progetti integrati. Le scelte operate dalla Regione Puglia, se messe a confronto con quelle delle altre regioni del
Mezzogiorno, sembrano ispirate più da una logica top down, dal momento che i documenti di programmazione indicano
non soltanto i riferimenti territoriali dei PIT ma anche le idee forza di ciascuno di essi e individuano, inoltre, le
Amministrazioni pubbliche e gli altri soggetti interessati.
Nella fase di ideazione e progettazione le Regioni hanno messo in campo numerose misure di assistenza e di
formazione al fine di incrementare le capacità di progettazione e di integrazione degli interventi degli attori locali.
Anche alla luce di queste brevi considerazioni, appare opportuno, già a partire dall’esperienza in corso e, in
prospettiva, nel prossimo triennio, individuare più specificamente le funzioni operative del partenariato, prestando una
maggiore attenzione alla predisposizione di procedure di concertazione rapide e snelle, anche al fine di formalizzare
nuove procedure e contenuti operativi nel previsto Accordo di Programma.
Bilancio delle esperienze pregresse di sviluppo dal basso e progettazione
Nei progetti preliminari, spesso non viene sviluppata una riflessione critica sui risultati raggiunti (o mancati)
delle attività di progettazione e pianificazione precedente né ci si pone la questione della continuità o discontinuità del
PIT rispetto alle esperienze già fatte.
Diviene necessario, pertanto, approfondire gli elementi di discontinuità, rispetto agli elementi di criticità
rilevati, sui quali interviene la strategia individuata. In particolare, appare opportuno attivare una discussione critica dei
risultati raggiunti e una revisione delle strategie in relazione a quelli mancati e porre in evidenza la funzionalità delle
esperienze e degli interventi pregressi rispetto al quadro di quelli che si intendono realizzare.
Tutti i PIT si propongono obiettivi di crescita economica, tuttavia in pochi sviluppano una riflessione critica e
strategica sui mercati di riferimento.
Si è, inoltre, rilevata una carenza nella formulazione delle strategie della maggior parte dei PIT (in particolare
in Sicilia e Sardegna), tanto che in alcuni casi la proposta di Progetto contiene una sommatoria di interventi
infrastrutturali e produttivi.
In diversi casi, il percorso “strategico” non è articolato per fasi e non è orientato a ricondurre l’idea forza ad
“un tema, oggetto o risorsa”, e a motivare sufficientemente le scelte del comparto o del tessuto imprenditoriale su cui si
intende far leva. Nello stesso tempo è evidente, sul fronte della progettazione, lo scarso coinvolgimento di soggetti
privati “nuovi” - estranei ai processi di sviluppo dal basso (soprattutto in Puglia) già attivati dagli strumenti di
programmazione concertata attivi sul territorio (alcuni dei quali non rispondenti a criteri di efficacia sociale ed
efficienza) - in grado di contribuire con capitali propri. Al contrario è alto il rischio di “riciclo” di residui di progetti di
investimento non finanziati in altre occasioni (patti, legge 488/92, ecc.).
Occorre, però, considerare che la stima degli interventi che utilizzano regimi di aiuto è necessariamente
approssimativa nella fase preliminare del progetto.
Si è riscontrata, talvolta, una sproporzione nel rapporto tra Obiettivi e Risorse, che si sostanzia in alcuni casi in
obiettivi troppo ambiziosi rispetto alle risorse e in altri nella genericità o incapacità di sviluppare correttamente la
riflessione sulle variabili di rottura. Il concetto di integrazione è evidentemente centrale ma nei Progetti compare
raramente una dimostrazione dell’integrazione funzionale ed effettiva tra interventi, attori e processi.
I progetti pubblici di interventi infrastrutturali dovranno essere auspicabilmente rafforzati, accompagnandoli
con analisi di carattere finanziario che ne chiariscano il quadro sotto questo profilo e che offrano garanzie sulla futura
gestione, in particolare in Sicilia.
Al fine di garantire una valutazione corretta dei singoli interventi, sia da parte dei proponenti i PIT sia da parte
dell’Autorità di gestione, le Regioni hanno già predisposto l’organizzazione di una serie di interventi formativi e
informativi inerenti autorizzazioni, iter amministrativi, aspetti tecnici.
Tuttavia, nella maggior parte dei progetti, gli interventi formativi vengono descritti troppo sommariamente.
Il modello di gestione
Il modello di gestione dei PIT dovrebbe essere caratterizzato, per quanto possibile, da semplicità, duttilità
organizzativa, basso costo di gestione.
Occorre però, distinguere tra modelli che assicurano un mero coordinamento delle azioni dei partecipanti e
quelli che, invece, tentano un passo in avanti, con la riunificazione delle competenze in un unico modulo organizzatorio,
interamente responsabile (nell'ambito dei poteri gestionali veri e propri) dell'attuazione del PIT.
Nell’ottica degli interventi previsti dal Progetto Integrato, appare preferibile la soluzione adottata per modelli
che si indirizzino alla definizione di poteri e responsabilità uniche di attuazione, i quali, rappresenterebbero quel valore
aggiunto di innovazione, integrazione e preparazione di sistemi di sviluppo a dimensione adeguata che il PIT può
apportare.
La soluzione tecnica sembra preferibile nei casi di gestione e attuazione delle azioni programmate, mentre alle
strutture esistenti è accordata una fiducia minore. Per integrare questo discorso, di non facile soluzione, si riporta una
parte delle indicazioni del documento “Orientamenti” che a tale proposito sostiene che «il PIT […] non comporta
necessariamente la costituzione di un nuovo soggetto né tanto meno un istituto di natura negoziale. Questi istituti (come
i Patti Territoriali) possono rappresentare una modalità di attuazione del PIT che rientra all’interno delle scelte della
programmazione operativa di cui è titolare la Regione».
Nei documenti ufficiali, le Regioni non sempre hanno mantenuto sul territorio le responsabilità gestionali: così
facendo, Basilicata, Sardegna, e Calabria si sono assicurate una gestione unitaria degli interventi a livello regionale,
mostrando di prestare una maggiore attenzione al raggiungimento dell’obiettivo (quantitativo) di realizzazione della
spesa, piuttosto che all’obiettivo di responsabilizzazione dei soggetti dello sviluppo locale.
In Basilicata e Sardegna sono stati costituiti appositi comitati – rispettivamente il Comitato di Pilotaggio e il
Gruppo di Coordinamento – chiamati ad assicurare la regia dei PIT. In Sardegna, in particolare, ciascun PIT è
coordinato, a livello regionale, dal coordinatore del PIT, nominato dal Presidente della Giunta Regionale su proposta
dell’Assessore alla Programmazione di concerto con il Presidente della Provincia.
La specificità del modello lucano di PIT consiste nell’aver assicurato alla Regione la gran parte delle
responsabilità gestionali ed attuative degli interventi.
Dal punto di vista organizzativo è stato costituito il Comitato di Pilotaggio, composto dall’Autorità di gestione
del POR, dai responsabili dei fondi FESR, FEOGA, FSE, da rappresentanti delle due Province, da un rappresentante
dell’Azienda Luca di Sviluppo e Innovazione in Agricoltura (ALSIA), da un rappresentante dell’Azienda di
Promozione turistica, dal Sovrintendente Regionale del Ministero dei Beni Culturali e da un rappresentante del
Ministero degli Interni. Compito del Comitato di Pilotaggio è:
assicurare la regia del processo di implementazione dei PIT
o

o
sovrintendere la costituzione dei tavoli di concertazione
o
curare i rapporti con le Partnership Locali Istituzionali e con le Partnership Concertative Locali
o
coordinare le azioni di sistema e di accompagnamento per l’attivazione dei PIT
o
formulare osservazioni e pareri in merito alle strategie di sviluppo dei PIT
o
assistere la regione e le partnership locali nella sottoscrizione di accordi e intese.
In Sardegna, nel Protocollo d’Intesa di ciascun PIT è stato individuato un soggetto, rappresentativo degli
interessi di tutti gli attori del PIT, Responsabile unico nei confronti della Regione e di ogni altro interlocutore pubblico
e privato. La messa a punto dei capitolati tecnici, la gestione dei bandi, la valutazione delle proposte di investimento ed
il coordinamento regionale, fanno capo ad una struttura appositamente costituita ed identificata nel Gruppo regionale di
coordinamento dei PIT (GRC).
Il GRC rappresenta la struttura per la regia regionale del sistema dei PIT che sovrintende a tutte le fasi relative
alla promozione e realizzazione dei Progetti Integrati, fornendo ai soggetti locali un servizio di promozione, consulenza
e assistenza tecnica per supportare il processo di identificazione, progettazione, approvazione e attuazione degli
strumenti di progettazione integrata.
La Regione Calabria ha mantenuto la gestione finanziaria diretta dei PIT responsabilizzando i soggetti locali
sulla progettualità e sulla realizzazione.
In Sicilia la gestione dei PIT è affidata ai territori. Secondo le indicazioni del CdP Il soggetto responsabile del
PIT, oltre a rappresentare in modo unitario gli interessi dei soggetti sottoscrittori, deve essere messo in grado di poter
provvedere ad attivare tutte le risorse finanziarie per consentire il cofinanziamento di tutti i contributi statali, regionali e
comunitari e di disporre e coordinare le risorse tecniche ed organizzative necessarie, oltre ad assicurare il monitoraggio
e la verifica dei risultati, consentendo i controlli della Regione secondo gli schemi, i tempi e le procedure definite per
ciascuna misura attivata nel PIT e nell’accordo di programma che determina il progetto.
I PIT IN SARDEGNA
La progettazione integrata in Sardegna
In Sardegna il processo di territorializzazione dei Progetti integrati muove dall’esperienza di programmazione
integrata attuata attraverso il Programma Integrato d’Area (PIA), istituito con L.R. 26 febbraio 1996, n. 14, modificata e
integrata con L.R. 37/1996 e L.R. 6/1997: anche a seguito di una approfondita ricognizione sulla esperienza del PIA ha
poi intrapreso un percorso autonomo, in direzione dell’apertura di un nuovo ciclo della programmazione regionale.
Il bilancio dell’esperienza dei 38 PIA approvati in Sardegna a partire dal 1997 – il primo modello di
programmazione d’area definito a livello regionale – ha messo in evidenza alcuni, significativi, punti di criticità.
Ad oggi nessun programma è stato concluso: l’unico PIA con uno stato d’avanzamento lavori quasi completo
risulta il Programma SS02 – Predda Niedda; circa la metà dei Programmi si trova in una fase di difficile attuazione, con
scarse possibilità di venire ultimati.
All’origine dei ritardi e delle difficoltà di realizzazione dei PIA hanno agito, in particolare:
o
la inadeguatezza, sul piano progettuale, degli interventi infrastrutturali degli Enti pubblici
o
la complicazione procedurale, derivante soprattutto dalla presenza di vincoli urbanistici, archeologici e
naturalistici nelle aree previste per gli interventi
o
il mancato finanziamento delle iniziative private dovuto al blocco della L.R. 28/1984.
Sulla base di questi risultati disattesi, il Governo regionale ha rielaborato la strategia dello sviluppo locale
attorno a due nuove linee guida:
1. dal momento che nel mettere a punto le procedure per la predisposizione dei Progetti Integrati Territoriali,
non si è provveduto a fissare criteri o principi di armonizzazione dei PIT con i PIA e con gli interventi previsti dalla
programmazione negoziata - Patti Territoriali, Contratti d’area e Contratti di Programma- le nuove scelte
programmatico-territoriali della Regione riconoscono, in sede di Complemento di Programmazione, un ruolo strategico
ai Progetti Integrati Territoriali di attuazione del POR. Nella normativa di riferimento dei PIT è indicata, peraltro, la
L.R. 14/1996 (di istituzione dei Programmi d’area) che potrà “essere aggiornata ai fini della omogeneità metodologica e
procedurale con il CdP”
2. in occasione dell’elaborazione dei PIT sono state adeguate metodologie e strumentazione della
programmazione d’area, coinvolgendo in particolare, in sede partenariale, le Province, gli altri soggetti istituzionali e le
parti economiche e sociali degli ambiti territoriali interessati. Operando un cambiamento di rotta rispetto ai vecchi
programmi d’area – che erano stati disegnati sulla base di criteri di omogeneità dei sistemi produttivi locali – il governo
regionale sardo, analogamente a quanto realizzato in Basilicata, Calabria e Campania, ha puntato, nella fase di
elaborazione della strategia PIT, sul potenziamento della coesione istituzionale e della capacità di governo locale,
piuttosto che sulla variabile economico-produttiva, quale criterio guida della zonizzazione regionale.
L’obiettivo della Regione è di mettere in atto sistemi di governance in grado di guidare le complesse
dinamiche che fanno capo ai diversi filoni di sviluppo locale attivati negli ultimi anni (Patti Territoriali, contratti d’area,
programmi Leader e altri progetti per lo sviluppo negoziato).
Nei documenti ufficiali, soprattutto in fase di impostazione dei PIT, alle Province è espressamente ritagliato un
ruolo strategico, in coerenza con i nuovi compiti di coordinamento del territorio e di promozione dello sviluppo ad esse
assegnato dal d. lgs. 267/2000. In quest’ottica, le Amministrazioni provinciali sono state attive, come previsto dal
Complemento di Programmazione, nella fase di animazione e concertazione con il partenariato istituzionale e sociale,
che ha costituito la base per la preparazione del documento definitivo della Regione, per l’approvazione della proposta
di zonizzazione (19 aree) collegata a precisi temi da sviluppare tramite PIT.
In coerenza con le linee guida adottate, l’esperienza di attivazione dei PIT (peraltro non ancora conclusa)
condotta in Sardegna, si distingue, per alcune peculiarità, dalle metodologie PIT messe a punto dalle altre Regioni del
Mezzogiorno:
o
la Sardegna è l’unica Regione dell’Obiettivo 1 ad aver aperto il confronto con il partenariato istituzionale e
sociale per la territorializzazione dei Progetti integrati, senza avanzare una proposta di partenza ben definita
o
la Sardegna è, insieme alla Sicilia, l’unica Regione ad aver fatto ricorso al bando come strumento di selezione
dei PIT: tale scelta, nelle intenzioni della programmazione regionale avrebbe dovuto attivare un processo di
competizione nei territori, per la valorizzazione delle migliori capacità di governo locale e di progettazione e
gestione degli interventi integrati
o
in stretto raccordo con il punto precedente, è particolare la scelta regionale di non individuare a priori aree
omogenee come ambito territoriale di riferimento dei PIT.
Proprio per le peculiarità mostrate, si può valutare come la proposta PIT della Sardegna si ponga a metà a
strada tra le due principali ispirazioni sulla progettazione integrata territoriale: l'una più strettamente legata alla
programmazione d'area, in cui il progetto integrato territoriale è un programma in nuce, riferito ad una porzione di
territorio regionale, caratterizzato da specifiche problematiche e vocazioni; l'altra invece più funzionalistica, rispetto alle
domande locali, secondo la quale i progetti territoriali sono “progetti in senso stretto” e si formano su idee originali di
sviluppo e di valorizzazione, e non necessariamente collegata all'organizzazione istituzionale dei territori.
Le caratteristiche dei PIT Sardegna
Il POR della Sardegna, pur non dedicando uno specifico paragrafo ai PIT, tratta il tema della concentrazione e
dell'integrazione degli interventi in ambito territoriale in numerosi punti della descrizione delle strategie di asse.
Il Complemento di Programmazione del POR Sardegna è stato adeguato ed integrato con uno specifico
paragrafo, 1.8 - Progetti Integrati Territoriali, inserito nella parte generale del documento e con la misura 4.4 – Sviluppo
integrato d’area, dell’Asse IV – Sviluppo Locale.
La Misura 4.4 - Sviluppo integrato d’area, in particolare, specifica l’iter amministrativo e temporale perché la
metodologia programmatica che sottende ai PIT sia resa pienamente operativa.
I Progetti Integrati sono inseriti nella strategia Regionale delle linee di intervento (territoriali, settoriali e di
filiera) e dei metodi (concertazione, collaborazione pubblico-privato) esplicitati nel Programma Operativo Regionale.
Al fine di evitare che le nuove forme di progettazione integrata territoriale divengano strumenti giustapposti e
separati dalle altre forme di intervento per lo sviluppo locale, è previsto che i soggetti proponenti operino il
collegamento, il reinquadramento e la connessione delle esperienze di programmazione locale in atto (Patti Territoriali,
Contratti d’area, Contratti di Programma, Leader, PRUSST, PIA, ecc.) in una prospettiva di piena integrazione e
coerenza di obiettivi, di strategie, di soggetti e di finanziamenti.
Il CdP prevede che la realizzazione di tale integrazione debba tenere conto del ruolo svolto dalle Province nei
processi di programmazione negoziata e successivamente sancito dal Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli
Enti locali (art. 20 D.Lgs. n.267/2000), ove è detto che «La Provincia raccoglie e coordina le proposte avanzate dai
Comuni, ai fini della programmazione economica, territoriale ed ambientale della Regione, concorre alla formazione del
Programma Regionale di Sviluppo e degli altri programmi e piani regionali...».
Nelle specificità degli assetti territoriali esistenti e delle opzioni regionali (nell’ambito del turismo,
dell’ambiente, del settore agro-alimentare, di alcune filiere produttive locali), le proposte PIT sono, inoltre, chiamate a
prestare particolare attenzione al Programma delle Isole Minori (PIST) e ad alcune problematiche emergenti nelle aree
urbane e nelle zone interne, con particolare riguardo alla promozione di azioni e servizi per favorire la conciliazione fra
la vita familiare e professionale, al fine di incrementare l’occupazione femminile.
In quest’ottica, devono essere valorizzate le aree minerarie dismesse del Sulcis-Iglesiente e si è ritenuto
opportuno sperimentare la metodologia PIT in ambiti territoriali ristretti, attraverso uno specifico progetto pilota
denominato “PIT Carloforte”.
Ciascun PIT deve dare, inoltre, particolare risalto alle azioni relative alle risorse umane ed alla formazione, a
valere sul FSE.
Tutti gli Assi del POR Sardegna sono potenzialmente interessati dai PIT. È opportuno ricordare che il POR ha
già individuato delle Misure la cui attuazione può avvenire solo tramite Progetti Integrati ed in queste vi sono anche
indicazioni territoriali vincolanti. Le misure sono: 1.5, 2.1, 2.2, 2.3, 4.4 (include il sistema di gestione di tutti i PIT), 4.5,
5.1
In ciascun PIT dovrà essere dato particolare risalto alle azioni relative alle risorse umane ed alla formazione, a
valere sul FSE.
Ai Progetti Integrati Territoriali sono destinate almeno il 40% delle risorse finanziarie assegnate al POR.
Considerando l’obiettivo di destinare ai PIT una quantità di risorse elevate e la necessità di prevedere una fase
sperimentale, al primo bando è stato destinato il 10% delle risorse, pari a 389.245.800 Euro.
I Progetti Integrati Territoriali sono attuati mediante la stipula di appositi accordi di programma ai sensi
dell’art. 34 del D.Lgs n. 267 del 18 agosto 2000 e successive modificazioni.
Nel Protocollo d’Intesa di ciascun PIT è stato individuato un soggetto, rappresentativo degli interessi di tutti gli
attori del PIT, Responsabile unico nei confronti della Regione e di ogni altro interlocutore pubblico e privato.
A livello regionale, per ciascun PIT è previsto un coordinatore, nominato dal Presidente della Giunta
Regionale, su proposta dell’Assessore alla Programmazione, di concerto con il Presidente della Provincia nel cui
territorio ricade il PIT. Questo coordinatore riferisce al Gruppo Regionale di Coordinamento (GRC) e comunica con i
responsabili di procedimento delle amministrazioni pubbliche interessate e con i soggetti privati.
Il GRC è una struttura operativa dell’Autorità di gestione che sovrintende a tutte le fasi di promozione e
realizzazione dei Progetti Integrati, collaborando con i soggetti locali nella promozione e fornendo consulenza e
assistenza tecnica a sostegno del processo di identificazione, progettazione, approvazione e attuazione degli strumenti di
progettazione integrata.
L’Autorità di gestione, tramite il GRC, verifica l’efficienza e l’efficacia dell’organizzazione che presiede
l’attuazione dei PIT adottando e/o promovendo i provvedimenti necessari. In particolare:
a) procede alla verifica dei requisiti formali dei PIT, prima della valutazione di merito
b) effettua l’ istruttoria e la valutazione sul PIT
c) determina la graduatoria di merito regionale provvisoria e il cronogramma delle singole operazioni
compatibile con la procedura comunitaria
d) propone i PIT all’attenzione dell’Assessore della Programmazione per la successiva approvazione della
Giunta Regionale.
La selezione dei Progetti Integrati Territoriali si articola in due fasi:
o
ammissibilità
o
istruttoria, valutazione e selezione dei PIT prioritari.
I PIT devono rispondere, in particolar modo, ai seguenti requisiti (criteri di ammissibilità e di selezione):
o
le azioni previste devono essere cofinanziate da almeno due fondi strutturali e fare riferimento ad
almeno due Assi del POR
o
la quota di cofinanziamento dei soggetti privati non deve essere inferiore al 10% del costo
complessivo del PIT
o
deve essere presente una quota di cofinanziamento dei soggetti pubblici
o
devono essere indicati gli obiettivi di metà percorso per l’applicazione dei criteri di premialità
o
deve essere allegato un dettagliato piano finanziario articolato per misura, per anno e per Fondo, con
l’indicazione della quota relativa ai privati ed ai diversi soggetti pubblici
o
deve essere esposta la fattibilità del PIT con relativo cronogramma e la previsione dello stato di
avanzamento delle azioni immateriali e dei progetti
o
ogni Comune può partecipare ad un solo PIT, la localizzazione degli interventi previsti deve fare
riferimento a Comuni racchiusi in un’area di intervento unica, continua (salvo il caso in cui gli aspetti
tematici, da motivare adeguatamente nell’illustrazione del PIT, siano così forti da prevalere sulla
territorialità) ed omogenea.
o
il territorio del PIT deve comprendere almeno 10 Comuni o popolazione totale residente (ultimo
censimento ISTAT) non inferiore a 30.000 abitanti
o
la localizzazione degli interventi deve fare riferimento a territori di Comuni che hanno sottoscritto un
Protocollo d’Intesa
o
ogni PIT deve avere chiaramente individuato un tema specifico di sviluppo (idea forza) ed evidenziata
la sua coerenza con le politiche regionali e le variabili di rottura individuate nel POR
o
ogni PIT deve verificare la coerenza tra gli obiettivi specifici indicati dal PIT rispetto a quelli previsti
nelle misure di riferimento del POR e verifica dei criteri di ammissibilità indicati dal Complemento di
Programmazione per le singole misure ed operazioni indicate nel PIT
o
la completezza dell’informazione a livello di ciascuna operazione componente il PIT, come richiesto
dalla scheda annessa al Bando.
I PIT, definiti in sede di partenariato istituzionale ed economico e sociale, devono essere promossi da operatori
locali pubblici e privati secondo metodologie e direttive generali definite in sede regionale. Le Province esercitano
funzioni di promozione, filtro e coordinamento dei PIT interessanti i rispettivi territori, operando in stretto raccordo con
la Regione nell’ambito del Gruppo Regionale di Coordinamento (GRC).
Nello specifico, le proposte, accompagnate da un Protocollo d’Intesa tra i diversi attori locali interessati
(Comuni, Comunità Montane, associazioni imprenditoriali e di categoria, Enti pubblici, organizzazioni sindacali,
organismi finanziari, imprese, consorzi, associazioni e realtà non profit) che possono assimilare i contenuti di iniziative
di sviluppo d’area in atto (PIA, PRUSST, programmazione negoziata nazionale) o in progetto, vengono inviate alle
Province di pertinenza e da queste trasmesse all’Assessorato della Programmazione - Centro Regionale di
Programmazione.
Il Protocollo d’Intesa deve attestare il metodo della concertazione, definire i ruoli del partenariato e rendere
esplicito l’impegno dei diversi soggetti in ordine alla progettazione, al concorso di risorse finanziarie e organizzative e
all’attivazione delle procedure coordinate di attuazione, di controllo e di sostituzione. Deve, inoltre, contenere
l’indicazione del Responsabile unico del PIT, scelto tra gli Enti Locali del territorio interessato.
Sono ammesse alla successiva fase di valutazione le proposte PIT che hanno superato la fase di ammissibilità.
La valutazione dei PIT avviene attraverso un percorso logico tracciato dalle schede tipo per la presentazione
delle proposte e si conclude con la formulazione di una graduatoria finale regionale che individua in ordine prioritario i
PIT da finanziare.
Il Gruppo regionale di coordinamento (GRC) provvede all’istruttoria ed alla valutazione dei PIT, determina la
graduatoria di merito regionale provvisoria, il cronogramma delle singole operazioni compatibile con le procedure
comunitarie circa i termini perentori di spesa, il cui mancato rispetto, da verificare in fase di monitoraggio delle
operazioni, determina la decadenza automatica del finanziamento e l’eventuale sostituzione dei responsabili di
procedimento da parte della Regione.
Stato di attuazione e punti di criticità del PIT Sardegna
A seguito degli incontri di partenariato istituzionale ed economico-sociale promossi dalla Regione con le
Province, sono stati individuati i principali temi o specificità che possono costituire generali obiettivi di sviluppo dei
territori provinciali o sub-provinciali.
Si è pervenuti pertanto alla definizione di una proposta di zonizzazione collegata a precisi temi da sviluppare
tramite PIT.
Questa prima fase di concertazione preliminare e di animazione ha consentito dunque di focalizzare l’analisi
territoriale a livello provinciale e sub-provinciale e di definire indirizzi metodologici e procedurali per la
predisposizione del 1° bando.
Il documento consente di evidenziare, in linea con quanto previsto dal POR:
o
una mappa indicativa di distribuzione territoriale dei temi, valida per inquadrare le proposte di PIT,
con l’esplicitazione dei temi da affrontare con un forte approccio integrato e degli ambiti territoriali
(tendenzialmente subprovinciali) associabili a ciascuno dei temi in base ai loro caratteri consolidati,
alle vocazioni emergenti, alle tendenze evolutive
o
alcune ipotesi di integrazione, attraverso il collegamento di interventi materiali ed immateriali, la
realizzazione di infrastrutture ambientali con infrastrutture al servizio del sistema produttivo, azioni di
riqualificazione urbana o di difesa del suolo, azioni di formazione e di promozione d’impresa.
Occorre sottolineare come molte delle proposte presentate rappresentino vere e proprie “raccolte” di iniziative
spesso incoerenti sia con il POR sia con il Complemento di Programmazione.
Ciononostante, il lavoro svolto si è basato sulla progettualità locale e con un ruolo attivo del partenariato
istituzionale e sociale.
Da questo punto di vista, occorre considerare che:
a) il primo bando per il PIT Sardegna è stato emanato a fronte di una modalità di spesa del tutto sperimentale
b) i tempi a disposizione, in particolare per la predisposizione dei PIT, sono stati molto ristretti
c) nell'ambito dei PIT, pur essendo previste opportunità di finanziamento per i piani di investimento delle
imprese, non sono ancora chiare le modalità di attuazione dei suddetti interventi
d) il partenariato istituzionale e sociale locale ha avviato la concertazione sulla base di un Complemento di
Programmazione che presentava diversi vincoli e alcuni limiti,il più delle volte poco noti alla stessa programmazione
regionale, di cui spesso i soggetti proponenti non hanno tenuto conto in fase di predisposizione dei PIT.
A tale proposito, per la Regione Sardegna, l’attività di definizione del Complemento di Programmazione è
risultata particolarmente prolungata e laboriosa, tanto da impegnare buona parte del tempo e delle risorse umane
disponibili nel progressivo assestamento del documento.
Difficoltà gestionali ed organizzative hanno condizionato lo sviluppo di questo processo, protrattosi lungo tutto
il 2001 e finalizzato, in primo luogo, a rimuovere gli elementi di incoerenza rispetto al POR ed assicurare la conformità
alle disposizioni pertinenti. Ciò ha comportato alcuni ritardi nell’attivazione di talune misure e nella predisposizione di
procedure chiare per la realizzazione dei PIT.
In particolare, al momento della predisposizione del bando PIT e, ancora fino al febbraio 2002:
o
per un numero significativo di misure del Complemento di Programmazione al POR Sardegna 20002006 ed in particolare per l’Asse IV "Sistemi locali di sviluppo", parte degli interventi previsti non
sono stati compresi nel campo di applicazione delle leggi regionali di settore, di incentivazione delle
imprese
o
la gran parte degli interventi programmati nelle misure del Complemento di Programmazione,
funzionali sia al raggiungimento degli obiettivi, generali e specifici, del POR Sardegna sia ad un
impatto significativo sulle variabili di rottura del Quadro Comunitario di sostegno, erano sprovvisti di
una procedura di attuazione che permettesse la spendita delle risorse comunitarie assegnate alla
Sardegna
o
nelle procedure di attuazione delle misure finanziarie dal Fondo FSE pubblicate nel supplemento
straordinario al BURAS n. 29 del 28 settembre 2001, è identificata una priorità per le azioni formative
inerenti ai PIT, mentre per analoghe procedure di attuazione, già oggetto di pubblicazione, facenti
riferimento ad importanti misure del Complemento di Programmazione (misure 4.1C - 4.9 - 4.10 4.11 e 4.21) non si dà alcuna priorità agli interventi ricompresi nei PIT
o
il contenuto del Complemento di Programmazione al POR Sardegna è stato oggetto di sostanziale
modifica con delibera della Giunta regionale n° 27/72 del 7 agosto 2001, nonostante il bando sui PIT
fosse da tempo pubblicato sul BURAS e non ancora scaduto, creando ulteriori disagi e
disorientamento tra i possibili beneficiari alla ricerca di una corretta collocazione degli interventi
proposti nelle relative misure del Complemento di Programmazione
o
non è stata attivata la Misura 4.1 linea A per le attività di animazione economica ed informazione,
mentre gli interventi di sostengo allo sviluppo, programmati nel Complemento di Programmazione
sono già in parte avviati.
L’attività svolta dal Gruppo di Coordinamento Regionale, sia nella fase di verifica dell’ammissibilità che di
valutazione dei PIT, ha consentito di approfondire molti aspetti organizzativi e metodologici utili per impostare i
successivi bandi.
Da un punto di vista strettamente valutativo della politica di sviluppo locale PIT, i difetti maggiori si
riscontrano da un lato nel protrarsi dei processi decisionali che hanno caratterizzato la programmazione dei P.I.A, basati
sul lobbying pubblico e privato. Tale pratica, unita al rigore formale delle procedure, ha prodotto un sentimento di forte
sfiducia nei confronti dell’intervento pubblico, dall’altro nel netto scollamento fra le attese di riequilibrio dei territori
interni dell’Isola e l’attuazione della politica di sviluppo PIT. E’ opinione comune in tali aree che l’attuazione dei PIT
abbia provocato forti sperequazioni dovute alla procedura di assegnazione dei finanziamenti fondata su un bando.
Quest’ultimo poneva, infatti, sullo stesso piano competitivo territori profondamente differenti dell’Isola – città e coste
in sensibile sviluppo demografico, economico e culturale e aree interne in fase di spopolamento, invecchiamento, crisi
culturale ed identitaria - portatori non solo di diversa attrattività per i finanziamenti pubblici e privati, ma anche di un
peso molto differente in termini di lobbying. A ciò va aggiunta la rivendicazione delle aree interne di essere state
artefici, con il loro ritardo di sviluppo, della permanenza della Sardegna nell’ambito dell’Obiettivo 1, cui conseguirebbe
una loro prelazione nell’attribuzione dei fondi. Ciò ha condotto, ad esempio, alcuni territori a ricorrere alla giurisdizione
amministrativa.
In sostanza, il processo decisionale caotico, a “cestino dei rifiuti” che caratterizza molte delle decisioni
regionali in materia di programmazione – non esclusi i PIT – conferma negli attori locali pubblici e privati un
sentimento di scarsa fiducia nell’intervento pubblico ed innesca sul territorio comportamenti opportunistici, vale a dire,
quelli meno coerenti con l’obiettivo dello sviluppo locale.
LA PROGETTAZIONE
Il modello del Project cycle management
In questi ultimi anni i programmi sostenuti dalla Commissione Europea hanno rappresentato la principale fonte
di accesso ai finanziamenti pubblici per diversi tipi di enti e organizzazioni. Molti di questi programmi richiedono che
la proposta progettuale sia ideata e portata avanti da un partenariato di soggetti e che vengano utilizzati strumenti di
impostazione progettuale di tipo strutturato e dal significato condiviso (Quadro Logico - QL).
La metodologia di progettazione basata sul Quadro Logico è il GOPP (Goal Oriented Project Planning). Il
metodo GOPP assicura una progettazione efficace sia in gruppo sia a livello individuale. Il GOPP è una metodologia
strutturata che permette, a partire da una analisi esaustiva della situazione, la definizione chiara, precisa e coerente di
obiettivi, risultati e attività di un progetto.
Questi strumenti e concetti costituiscono, insieme ad altri, l’approccio integrato denominato Project Cycle
Management, adottato da numerosi organismi internazionali (fra cui la Commissione Europea) per una migliore
gestione dei programmi e per sostenere e indirizzare l'attività degli attori dello sviluppo locale nella progettazione e
nella gestione degli interventi. Tale metodologia ha riscosso un’efficacia in seno ai paesi dell’UE per la sua versatilità
rispetto a progetti di natura differente.
Partendo dalla definizione di progetto, un insieme di azioni coordinate, ideate per ottenere un determinato
obiettivo, usando un budget specifico, in un intervallo temporale definito, il PCM è uno strumento tecnico basato sul
metodo di analisi del quadro logico (logical framework) adottato dall’UE per elaborare, gestire, valutare un progetto:
Nel ciclo di progetto, la valutazione dell’iniziativa realizzata permette di costruire la programmazione futura in
quanto il ciclo di progetto definisce le decisioni chiave, le informazioni necessarie e le responsabilità.
Si può altresì affermare che il PCM è applicabile per procedere a qualsiasi tipo di scelta nella risoluzione di un
problema. E’ un modello di problem solving applicato alla progettazione e rappresenta in tal caso una sequenza di
passaggi utili da rispettare e seguire per rispondere efficientemente ad un bando.
La metodologia del PCM, se applicata in Sardegna consentirebbe di migliorare la qualità della documentazione
sia sull’attività sia sulla partecipazione al progetto che deriverebbe da una richiesta forte da parte del territorio, di una
componente sociale, di una categoria, etc.
Le fasi
Le fasi del PCM sono, in ordine progressivo:
1.
Programmazione (programming): identificazione del progetto;
2. Identificazione (identification): pre-fattibilità e creazione di partnership;
3. Stima/valutazione (appraisal): attraverso lo studio di fattibilità vengono messe assieme le risorse e si procede
alla redazione del progetto;
4.
Finanziamento (financing): il progetto viene approvato
5.
Implementazione (implementation): realizzazione del progetto
6.
Valutazione (evaluation/monitoring): monitoraggio e valutazione
1.
Programmazione: in questa fase viene analizzata la situazione del contesto in esame (locale, regionale,
nazionale) per individuare quali siano i problemi, i vincoli e le opportunità che offre. Sulla scorta dei risultati
di tale analisi verranno scelte le priorità che entreranno nella programmazione per il periodo successivo.
2.
Identificazione: vengono passate in rassegna le idee, le proposte di progetti e si avviano delle consultazioni tra
soggetti proponenti e beneficiari dopodiché si decide il progetto su cui lavorare. Ma perché il progetto possa
essere efficace occorrerà creare partnership locali che si esprimono attraverso lettere di appoggio o per mezzo
di contratti di partnership soprattutto per fondare i presupposti dell’attività in maniera chiara e netta in fase
preliminare.
Nel momento in cui il progetto verrà approvato, non dovranno esservi dubbi relativamente:
o
alla capacità di fare (chi fa che cosa)
o
a quali siano gli obiettivi (devono essere chiari e condivisi in partenza)
o
a quali debbano essere le risorse umane da mettere in campo
o
a quanto ammontino le sufficienti risorse finanziari per la realizzazione del progetto
o
a quali e in che misura per i singoli partner debbano essere le risorse finanziarie
o
al fatto che si debbano fissare tempi d’azione sufficientemente lunghi
o
alla capacità di rischio (economico, sociale, politico) sia del progetto sia della partnership
Se non si parte dall’analisi delle necessità, la soluzione non è una soluzione e non si è individuato alcun reale
problema.
3.
Formulazione e redazione: viene realizzato uno studio approfondito sulla fattibilità dell’iniziativa, prendendo
in considerazione opportunità, vincoli, risorse esistenti, risorse da reperire, rischi, risultati. In tale fase di studio
e formulazione occorre prendere in considerazione almeno due valide alternative a quella principale.
Successivamente, i risultati dello studio di fattibilità vengono organizzati e presentati secondo il formato
utilizzato dall’agenzia cui si intende richiedere il finanziamento. Occorre in sostanza individuare i punti di
forza sfruttando le opportunità, prevenendo i rischi e riducendo la “zavorra” dei punti deboli.
4.
Finanziamento: L’ente finanziatore decide, tra tutti quelli che sono stati presentati, l’approvazione del o dei
progetti meritevoli.
5.
Implementazione/Realizzazione: il progetto viene realizzato sulla base del cronogramma e del piano di spesa.
Il PCM richiede che il percorso inizialmente definito venga continuamente messo a confronto con il concreto
sviluppo delle attività in maniera che lo staff di progetto valuti tempestivamente le eventuali necessità di
rettifica e adeguamento. Fondamentale in tale fase è la cura del rapporto diretto tra staff, beneficiari e
stakeholder. Il PCM richiede che il progetto venga valutato e monitorato costantemente, in maniera specifica
sia internamente sia esternamente. Valutare significa verificare gli obiettivi oggettivamente raggiunti durante il
periodo in cui si svolge il progetto: prima, durante e dopo. Monitorare significa, invece verificare gli stati di
avanzamento di un progetto, e l’attività si conduce durante il periodo di svolgimento, a tempi scadenzati.
Pertanto la valutazione e il monitoraggio continuo e specifico, interno ed esterno, sono da impiegare come
strumenti di crescita e di verifica attraverso la definizione di indicatori oggettivamente verificabili (IOV),
qualitativi e quantitativi.
6.
Valutazione finale: l’ente esecutore e l’agenzia finanziatrice valutano i risultati del progetto e ne traggono
insegnamenti per iniziative future. La prova del nove sarà rappresentata dalla valutazione ex post che
consentirà la verifica:
o
delle scelte strategiche
o
degli obiettivi prospettati – confronto obiettivi/risultati
o
delle metodologie adottate
o
delle sequenze cronologiche delle azioni
o
degli indicatori per consentire in un’iniziativa successiva valutazioni ex ante che consentano una migliore
applicazione del PCM sulla scorta delle esperienze pregresse.
Gli attori del PCM
Sulla scena del PCM operano diversi attori ciascuno con la propria funzione.
o
I beneficiari diretti sono coloro ai quali il progetto è rivolto. Possono essere settori di popolazione, può essere
un settore economico, un comparto produttivo, etc.);
o
L’intermediario locale è invece la struttura pubblica o privata che avendo interpretato i bisogni del
beneficiario ha proposto il progetto; è il proponente che percepisce il problema e lo interpreta effettuando
un’analisi SWOT.
o
Il finanziatore è il soggetto esterno che eroga i fondi ai progetti approvati;
o
L’esecutore è l’agenzia esterna che ha la titolarità del finanziamento ed è quindi responsabile del progetto.
Il PCM e la metodologia tradizionale a confronto
La metodologia tradizionale
Il project Cycle Management
Quadro strategico poco definito
Approccio settoriale
Progetti guidati dall’offerta
Soluzioni a partire dalla domanda
Scarsa analisi della situazione
Analisi approfondita (es. SWOT)
Programmazione basata sulle attività
Programmazione orientata agli obiettivi
Impatto non verificabile
Impatto misurabile e verificabile
Pressione per l’erogazione
Accento sulla qualità
Visione a breve termine
Attenzione alla vitalità (quanto è possibile replicare)
Documenti di progetto imprecisi
Format standardizzati
Elementi guida del PCM
Come già sottolineato, il Project Cycle Management si articola per fasi progressive poiché il processo
decisionale deve avvenire in modo strutturato e sulla base di una razionale valutazione delle informazioni: alla base di
ogni singolo progetto deve esserci un approfondito studio della situazione nella quale si andrà ad intervenire, studio che
deve:
−
rilevare le cause della richiesta;
−
valutare l’impatto sociale e ambientale;
−
definire delle strategie di risposta (come, dove, quando, perché);
−
analizzare il rapporto costi/benefici;
−
analizzare bibliografie e/o ricerche già svolte e i dati degli organi ufficiali;
Nelle fasi chiave del PCM, segnatamente in quella della formulazione, si devono coinvolgere tutti i gruppi
interessati, attraverso metodologie partecipative ciò perché il progetto deve definire i costi e i vantaggi chiaramente e in
maniera condivisa e altresì verificare i bisogni degli utenti finali (end users) e dei beneficiari diretti (stakeholders),
secondo il principio del client-orienting.
La programmazione del progetto viene condotta attraverso un quadro logico di obiettivi e strumenti. Viene
utilizzata la matrice del Quadro Logico (Logical Framework Matrix – LF) per garantire un approccio analitico ma non
sintetico, coerente al disegno e alla gestione dello stesso.
Un altro elemento alla base del PCM e la sostenibilità/vitalità in quanto devono essere analizzate le possibilità
di sopravvivenza del progetto una volta che si esaurirà il sostegno esterno. In previsione di ciò, dovranno essere
introdotti meccanismi per rafforzare e garantire la sostenibilità del progetto nel tempo.
A tale riguardo, è d’obbligo tentare, per quanto possibile, l’approccio integrato tentando di inserire il progetto
all’interno di un contesto più ampio di interventi sia pubblici sia privati facendo riferimento a linee di finanziamento
interagenti con il progetto in esame La vitalità può essere considerata come un insieme costituito da sostenibilità
politica, economica, finanziaria, culturale, cioè, l’intervento deve essere percepito come utile e condiviso Infine, un
elemento che la Commissione Europea richiede, è il massimo della visibilità: ogni fase del progetto deve essere
opportunamente pubblicizzata. E’ pertanto auspicabile approntare una strategia di comunicazione e marketing del
progetto stesso, mentre ex post, è obbligatoria la disseminazione visibile dei dati. Il PCM, inoltre richiede al progetto la
cosiddetta CAPACITY BUILDING vale a dire: esso deve contribuire ad accrescere le competenze in loco, non solo a
svolgere le attività previste; il progetto deve contribuire a formare dei tecnici in grado di scriverlo e di farne altri,
attraverso, se necessario, iniziative di formazione ad hoc.
L’impatto di un progetto non può essere misurato alla sua conclusione, ma ad esempio, dopo due anni, quando
è possibile misurare le modifiche strutturali che il progetto-intervento ha generato sulle abitudini della popolazione o
più in generale del gruppo bersaglio.
Le caratteristiche essenziali dei progetti realizzati attraverso il PCM
Un progetto PCM deve necessariamente avere le seguenti caratteristiche:
¾
Adeguatezza: quando è coerente con le priorità definite dalle amministrazioni locali, regionali e nazionali;
quando i diretti beneficiari sono, sin dall’inizio, coinvolti nel processo di pianificazione; quando l’analisi dei
problemi viene svolta a 360° (Es. Valutare l’impatto delle Borse di studio Marie Curie su chi ne ha usufruito e
su chi non l’ha conseguita); quando gli obiettivi, il cambiamento previsto, sono chiaramente previsti, definiti in
termini di benefici per i gruppi-meta (Es. la costruzione di una scuola non è un obiettivo che è invece
rappresentato dall’inalzamento del grado di istruzione. La costruzione della scuola è uno strumento).
Un progetto si ritiene altresì adeguato quando ha in sé anche l’elemento della pertinenza e
rispondenza rispetto alla soluzione dei problemi individuati. Deve esserci il bisogno di una soluzione, se ve ne
è il bisogno ci sarà un problema che deve essere individuato e analizzato e per il quale andrà individuata una
soluzione. Non ultimo l’elemento dell’impatto vale a dire la capacità del progetto di determinare mutamenti
stabili nel tempo.
¾
Fattibilità: il progetto è fattibile quando gli obiettivi possono essere realisticamente raggiunti, tenendo conto
del contesto e delle capacità del proponente. Tali obiettivi devono essere misurabili e nel loro perseguimento
devono essere debitamente considerati sia i rischi sia le opportunità.
¾
Vitalità: tale elemento fa si che i fattori che potrebbero mettere a repentaglio la sostenibilità vengano
considerati e affondati nella fase di progettazione e quando nella fase di valutazione si traggono insegnamenti
validi per la realizzazione di progetti successivi.
Il Quadro Logico
L’approccio del Quadro Logico (LFA), è lo strumento centrale nelle fasi del ciclo di progetto di identificazione
e formulazione.
FASI DEL PCM
fase 2 - Identificazione
STEP DEL LFA
I) Analisi
analisi dei problemi (chi sono i gruppi interessati, che
problemi hanno, qual è l’analisi SWOT rispetto ad essi,
eventuali risorse nascoste)
analisi degli obiettivi
analisi delle strategia possibili
II) Progettazione
pre-fattibilità
fase 3 - Formulazione
costruzione del quadro logico (progettista)
studio di fattibilità (tecnico)
definizione di tempi, attività e risorse
Step 1 Analisi
Analisi dei
problemi
Chi sono gli
interessati
Analisi degli
obiettivi
Analisi della strategia e
Individuare
le
strategie
possibili
Definire gli obiettivi a
partire dai problemi
Che problemi
hanno
Punti di forza e
debolezza
Albero dei problemi
t
Documento
i
STEP 2
Step 2
Progettazione
Pre-fattibilità
Fattibilità
Programmazione
delle risorse
Chi sono gli
interessati
Trasformare l’idea in
progetto
risorse
Struttura progetto
per obiettivi e attività
Definizione attività
Indicazione tempi
Condizioni
esterne e punti critici
Risorse
necessarie
Quadro Logico
t
Documento
i
REDAZIONE
L’albero dei problemi
L’albero dei problemi è una struttura grafica, una metodologia di rappresentazione che mette in relazione
effetti e cause.
o
Se il problema è una causa, va collocato al livello inferiore;
o
Se il problema è un effetto va collocato al livello superiore;
o
Se non è né causa né effetto, va collocato allo stesso livello.
Nella costruzione dell’albero dei problemi vi è il rischio di incorrere facilmente in due errori. Il primo è
costituito dalla insufficiente specificazione del problema (es. scarse capacità del management può significare scarso
controllo finanziario, ritardo nell’erogazione dei servizi, mancato controllo sulla qualità dei servizi erogati, scarsa
comunicazione tra settori o tra vertici e base, etc.); il secondo, invece, è rappresentato dall’indicazione del problema
come assenza della soluzione anziché come situazione negativa (es. mancanza di partecipanti alle attività formative
anziché scarsa pubblicizzazione degli interventi.).
Occorre essere sintetici ma chiari.
I problemi a questo punto devono essere trasformati in obiettivi: si inizia così a progettare. Una volta costruito
l’albero dei problemi è opportuno individuare una strategia da perseguire. La strategia a sua volta deve divenire il
quadro logico che descrive la struttura del progetto (attività, risultati, obiettivi) collegandola ai rischi e alle condizioni
esterne che ne possono favorire o ostacolare la realizzazione. In tale fase è utile riconoscere la propria parzialità, che se
viene evidenziata diverrà un punto di forza, se tenuta nascosta diverrà un punto debole; è importante decidere cosa si
intende fare e non celare quanto non si vuole o può fare.
Il Quadro Logico
Strategia
Descrizione
Indicatori
Mezzi
di
Condizioni esterne
verifica
Obiettivo
generale
Obiettivi
specifici
Risultati attesi
Attività
Mezzi
Costi
Pre-condizioni
Obiettivo generale: è la finalità del progetto. È rappresentato da benefici a lungo e termine per i destinatari
diretti e anche per altri gruppi. In genere l’obiettivo generale non può essere raggiunto attraverso un unico progetto, ma
richiede la convergenza di diversi progetti e programmi.
Obiettivo specifico: è l’impatto successivo alla conclusione del progetto, impatto che andrebbe verificato dopo
che l’attuatore è uscito di scena. E’ il mutamento strutturale nella qualità della vita dei beneficiari, derivanti dall’utilizzo
dei servizi forniti dal progetto.
L’obiettivo del progetto deve permanere alla conclusione dello stesso.
Risultati attesi: i servizi prodotti da progetto (know-how, tecniche, linee di credito, etc.) che verranno lasciati
a disposizione dei beneficiari. Il risultato è una potenzialità che prima era assente sul territorio e che adesso vi è.
Attività: Le iniziative concrete (es. la costruzione di un ospedale, etc.) che costituiscono l’ossatura di un
progetto. Le attività possono anche essere definite come le modalità attraverso le quali i servizi previsti sono predisposti
ed erogati. Es. Voglio costruire una scuola per secolarizzare un’area (obiettivo specifico); compro libri e organizzo
seminari per sensibilizzare le famiglie (attività). Alla fine del progetto lascio al territorio i seguenti servizi: a) una scuola
operativa; b) una popolazione sensibilizzata alla scolarizzazione; c) servizi che agevolino il raggiungimento della
scuola.
Risorse: rappresentano la base su cui il progetto viene fondato e possono essere di differente natura: risorse
umane, attrezzature e materiale di consumo, risorse per la formazione, fondi di gestione e risorse finanziarie.
Indicatori: l’indicatore ha senso se rapportato ad una situazione precedente, alla situazione iniziale ed è
sempre un numero relativo, è la soglia con cui confrontarsi. Gli indicatori sono numeri che esprimono i progressi
ottenuti nel corso del progetto e alla sua conclusione. Devono essere oggettivamente verificabili in modo che
misurazioni effettuate da persone differenti forniscano sempre lo stesso risultato.
Mezzi di verifica: sono gli strumenti in grado di offrire la misura relativa all’indicatore: possono essere
documenti, apparecchi, metodi di rilevamento diretto, etc.
Condizoni esterne: sono i fattori politici, sociali, ambientali, finanziari e comunque al di là della portata dello
staff direttivo del progetto, ma tali da influenzare il progetto stesso in modo determinante.
Pre-condizioni: sono requisiti che collegano le risorse alle attività, cioè che permettono l’avvio del progetto.
Perché l’iniziativa possa avere inizio è necessario che tutte le pre-condizioni si verifichino.
IL MONITORAGGIO
Nell'ambito dei Fondi strutturali il monitoraggio assicura all'Autorità di gestione e alla Commissione un'informativa
ampia e puntuale sulla realizzazione dei programmi e dei progetti e sui loro effetti.
Tali informazioni permettono di acquisire elementi conoscitivi puntuali al fine di procedere, se necessario, ad una
modifica delle strategie di intervento per assicurare il raggiungimento degli obiettivi programmati.
Il modello di monitoraggio indicato nel nuovo regolamento dei Fondi strutturali si compone di tre distinte tipologie di
attività, in relazione al risultato specifico che si intende raggiungere: monitoraggio di realizzazione finanziaria;
monitoraggio procedurale; monitoraggio fisico.
Il monitoraggio è strumento informativo e funzione del processo di programmazione, gestione e valutazione
delle politiche (programmi e progetti).
Esso consiste nella costante verifica della realizzazione degli interventi e di alcuni effetti.
Il monitoraggio dei Fondi strutturali, a livello Comunitario, è stato introdotto con la programmazione 1994/99;
tale innovazione ha reso possibile la definizione di un quadro unico di riferimento sull'andamento finanziario delle
politiche cofinanziate nell'Unione.
Con la programmazione 2000-2006 la rilevanza del monitoraggio è indubbiamente cresciuta, come si evince
dalla previsione di adempimenti dettagliati e scadenzati, relativamente all'elaborazione dei sistemi di monitoraggio e
alla comunicazione dei dati alla Commissione. Tali adempimenti impongono di fatto uno stretto e continuo confronto
tra quanto immaginato in fase di programmazione e pianificazione e quanto realizzato: ciò implica l'ottimizzazione dei
processi informativi e decisionali interni alle Amministrazioni titolari di Intervento.
Il Regolamento quadro n. 1260/1999 dei Fondi strutturali per il periodo 2000-2006 rafforza la base normativa e
le funzioni di monitoraggio e valutazione.
l sistema di monitoraggio finanziario e fisico, regionale e nazionale, è responsabile della raccolta e
dell'elaborazione degli indicatori di avanzamento finanziario e degli indicatori comuni di realizzazione a livello
europeo, di Q.C.S. e P.O.
In Italia, anche per questo nuovo ciclo programmatorio, la competenza di attivazione e gestione del
monitoraggio nazionale è affidata al Dipartimento della ragioneria generale dello Stato - Igrue, le cui attività sono
rivolte alla verifica dello stato di avanzamento finanziario e fisico degli interventi cofinanziati, mediante la
centralizzazione della raccolta dei dati e la divulgazione degli stessi presso gli organismi interessati.
Il monitoraggio nazionale è alimentato dalle Amministrazioni titolari delle singole forme di intervento
(Programmi operativi regionali, Programma operativi nazionali) con la trasmissione dei dati raccolti dai rispettivi
sistemi di monitoraggio nei quali confluiscono le informazioni fornite dai soggetti attuatori delle attività. I titolari delle
singole forme di intervento sono competenti dei propri sistemi di monitoraggio.
Gli indicatori di realizzazione fisica verranno rilevati su base annuale ed integrati, sempre su base annuale,
laddove possibile, con gli indicatori finanziari.
Strumenti di monitoraggio delle politiche del lavoro per le donne
Per monitoraggio si intende la raccolta continuativa delle informazioni necessarie alla costruzione di indicatori che
descrivano:
• la popolazione coinvolta negli interventi,
• le modalità di realizzazione e gestione degli interventi,
• i costi ed i risultati diretti degli interventi
in modo che si possa rispondere alle seguenti domande:
1.
E’ stata raggiunta la popolazione che si voleva raggiungere?
2.
Quali sono stati i risultati diretti e indiretti dell’intervento?
3.
La gestione dell’intervento è efficiente?
L’obiettivo di un sistema di monitoraggio è quello di fornire indicatori da utilizzare in modo sistematico nel
processo decisionale, per consentire di correggere eventuali errori di programmazione ed indirizzare le politiche da
attivare.
E’ inoltre necessario, per ciascun intervento, raccogliere le informazioni relative ai seguenti aspetti:
1.
il grado di diffusione ed il processo di (auto)selezione dei soggetti che beneficiano dell’intervento (tasso di
utilizzo);
2.
Le caratteristiche degli utenti rispetto alla popolazione di riferimento;
3.
Le modalità effettive di erogazione dell’intervento;
4.
La situazione degli utenti dopo un certo periodo di tempo dalla fine dell'intervento, con particolare attenzione
alla posizione sul mercato del lavoro (occupazione/ disoccupazione/uscita dalle forze di lavoro; tipo di
contratto e qualifica; azioni di ricerca compiute e durata della disoccupazione) ed il grado di soddisfazione dei
servizi offerti;
5.
I costi dell'intervento.
Gli indicatori di monitoraggio
L’attività di monitoraggio prevede l’ elaborazione di una serie di indicatori quantitativi (sullo stato di
avanzamento, sui prodotti e sulla performance delle azioni attivate) e di indicatori sul grado di soddisfazione degli
utenti.
L’attività di monitoraggio delle politiche del lavoro è cruciale e pertanto deve essere potenziata. Ma in che
modo?
Innanzitutto è necessario che l’istituzione locale chiarisca quali sono gli obiettivi del monitoraggio e le
specifiche risorse (finanziarie ed umane) che ad esso può dedicare; il sistema di monitoraggio deve porre attenzione alle
informazioni sui partecipanti agli interventi, costruendo indicatori disaggregati per genere. I risultati ottenuti vanno
costantemente raffrontati al contesto nel quale gli interventi vengono attuati, evidenziando, se e come, tali interventi
hanno raggiunto la popolazione-obiettivo da essi prevista; sarebbe altresì utile effettuare un benchmarking con altre
realtà locali, al fine di evidenziare eventuali casi di successo ed esempi di buona prassi replicabili, una volta
opportunamente adattati al contesto regionale.
Gli indicatori di monitoraggio possono in generale essere classificati in:
Indicatori quantitativi:
1.
Indicatori di stato di avanzamento (flussi di spesa programmata/effettiva; flussi di utenza, ecc.);
2.
Indicatori relativi al processo di gestione degli interventi (indicatori di processo) (l’efficacia gestionale degli
interventi, grado di utilizzo, tempestività di risposta, selezione dei partecipanti,..);
3.
Indicatori di contesto (contesto socio-economico in cui opera la politica);
4.
Indicatori di output (caratteristiche azioni/utenti, output formativi,…);
5.
Indicatori di risultato (in relazione agli obiettivi e agli effetti sul benessere individuale o collettivo:
occupazione creata,…);
6.
Indicatori di costo (costi unitari della politica).
Indicatori qualitativi:
1.
Grado di soddisfazione dell’utenza
2.
Grado di soddisfazione degli operatori
3.
Qualità del servizio erogato
La selezione degli indicatori di base deve rispondere ai seguenti criteri:
• il loro numero deve essere limitato;
• gli indicatori selezionati devono essere i più significativi per la variabile di riferimento, di facile lettura e
congruenti tra loro;
• gli indicatori selezionati devono poter essere considerati in relazione ad altri indicatori economici e sviluppati
progressivamente.
Perché il sistema di monitoraggio sia efficace come input nel processo di definizione e di gestione delle politiche
del lavoro sono necessari alcuni prerequisiti:
1.
che siano dedicate sufficienti risorse a questa attività;
2.
che già nel processo di formulazione e programmazione degli interventi si individuino chiaramente gli obiettivi
specifici di ciascuna misura e gli aspetti da monitorare durante le gestione degli interventi;
3.
che vengano individuati indicatori sintetici che permettano di misurare lo stato di avanzamento dell'intervento,
le modalità di gestione ed il grado di raggiungimento degli obiettivi;
4.
che venga sviluppata una base informativa adeguata attraverso l’integrazione delle informazioni già esistenti
con la raccolta regolare e periodica di informazioni e dati (principalmente di natura quantitativa, ma anche di
tipo qualitativo);
5.
che venga instaurato un processo di feed-back tra i risultati del monitoraggio e le varie fasi (progettazione,
implementazione, etc.) di realizzazione del programma.
Le basi informative
• fonti amministrative e indagini pre-esistenti;
• sistema informativo ad hoc di rilevazione delle informazioni necessarie al monitoraggio di ciascun intervento
che includa dati di flusso e di stock.
LA VALUTAZIONE
Definizione3:
La valutazione è un processo analitico per il disegno, la programmazione-riprogrammazione e la gestione delle
politiche e degli interventi cofinanziati dai Fondi Strutturali.
Per valutare l'efficacia degli interventi strutturali, l'azione comunitaria è infatti oggetto di una valutazione
cosiddetta 'ex ante', di una 'intermedia' e di una valutazione 'ex post', finalizzate nell'insieme a determinare l'impatto di
tali interventi rispetto agli obiettivi dei Fondi strutturali e ad analizzarne le incidenze nei confronti di specifiche
problematiche. In particolare, la valutazione ex ante costituisce la base per la preparazione dei piani, degli interventi e
del complemento di programmazione, dei quali è parte integrante; essa rientra nelle competenze delle singole Autorità
di gestione e riguarda per lo più l'analisi dei punti di forza e di debolezza, nonché delle potenzialità dello Stato membro,
della regione o del settore preso in considerazione.
La valutazione intermedia, prende le mosse da quella ex ante e rivolge l'attenzione ai primi risultati degli
interventi, alla loro pertinenza e al grado di conseguimento degli obiettivi posti. Attraverso di essa viene inoltre valutato
l'impiego dei fondi e lo svolgimento della sorveglianza.
La valutazione intermedia viene effettuata da un valutatore indipendente, sotto la responsabilità dell'Autorità di
gestione in collaborazione con la Commissione e lo Stato membro, ed i suoi esiti vengono condivisi in occasione del
Comitato di Sorveglianza del QCS e poi trasmessi alla Commissione, non oltre il 31 dicembre 2003. Sulla base di tale
valutazione, la Commissione può decidere le modalità di revisione dell'intervento esaminato e l'assegnazione della
riserva finanziaria di efficacia ed efficienza.
3
Normativa di riferimento: artt. 40, 41, 42, 43 del Reg. (CE) n 1260/ 99 e Reg. 445/2002
La valutazione ex-post, infine, rende conto dell'impiego delle risorse, dell'efficacia e dell'efficienza degli
interventi e del loro impatto. Tale valutazione, realizzata da valutatori indipendenti ed ultimata entro tre anni dalla fine
del periodo di programmazione, rientra nelle responsabilità della Commissione, in collaborazione con lo Stato membro
e l'Autorità di gestione.
La valutazione è strumento analitico per il disegno, la programmazione, la riprogrammazione e la gestione
delle politiche e degli interventi cofinanziati nell’Unione Europea.
I riferimenti istituzionali per la valutazione del FSE 2000-2006 sono costituiti da tre tipi di documenti:
•
i Regolamenti del Consiglio europeo n. 1260/1999 recante “disposizioni generali sui Fondi strutturali” e n.
1784/1999 relativo al Fondo sociale europeo;
•
le Linee guida elaborate dalla Commissione europea ed aventi a riferimento, rispettivamente, il monitoraggio e
la valutazione dei Fondi strutturali nel periodo 2000-2006 ed il monitoraggio/valutazione del Fse ;
•
i Quadri comunitari di sostegno degli Obiettivi 3 e 1 2000-2006 e i singoli Programmi operativi.
Tutti i livelli di programmazione devono essere adeguatamente monitorati e valutati, in particolare:
•
ogni programma, sia il Q.C.S. sia i Programmi operativi regionali (P.O.R.) e il Programma operativo nazionale
(P.O.N.), deve essere analizzato in maniera esaustiva attraverso un preciso sistema di indicatori;
•
ogni misura sarà monitorata ed un numero selezionato di misure e di tipologie di azione verrà sottoposto a
valutazione.
La valutazione si articola in tre fasi principali:
•
Valutazione ex ante del Piano nazionale Obiettivo 3 e dei PO4
•
Valutazione di medio termine e finale5
•
Valutazione ex post6
In coerenza con la struttura logica della programmazione, gli indicatori sono così classificati:
•
indicatori finanziari di input (risorse allocate sui programmi, per asse prioritario e misura);
•
indicatori finanziari e fisici di realizzazione;
•
indicatori fisici di risultato;
•
indicatori fisici di impatto.
La valutazione assume un approccio dinamico di osservazione e analisi della molteplicità di relazioni e
trasformazioni che intercorrono nel processo di implementazione e realizzazione del Q.C.S. e dei P.O. e di analisi
dell'impatto del FSE, non solo sugli obiettivi generali, specifici e sui beneficiari delle politiche, ma anche sui
cambiamenti intervenuti nei sistemi delle politiche attive del lavoro e nel loro governo.
4
Valutazione ex ante: del Piano nazionale Obiettivo 3 e dei PO: di competenza dello Stato membro, essa è stata realizzata e presentata con il Piano
nazionale e i PO.
5
Valutazione di medio termine e finale: è effettuata sotto la responsabilità dell'Autorità di gestione in collaborazione con la Commissione e con lo
Stato membro. Essa verte sul Qcs e sui singoli interventi. Accompagnerà tutto il periodo di gestione dei programmi e produrrà le analisi rilevanti
all'attuazione degli stessi. La valutazione di medio termine sarà anche funzionale all'allocazione della riserva di performance. La valutazione di medio
termine verrà realizzata entro il 31 dicembre 2003, la valutazione finale verrà realizzata alla fine del periodo di programmazione e dovrà essere
disponibile per la programmazione post-2006.
6
Valutazione ex post: è di responsabilità della Commissione europea in collaborazione con lo Stato membro e l'Autorità di gestione. Essa mira " a
rendere conto, sulla base dei risultati della valutazione già disponibili, dell'impiego delle risorse, dell'efficacia e dell'efficienza degli interventi e del
loro impatto e a consentire di ricavarne insegnamenti per la politica di coesione economica e sociale. Essa verte sui fattori di successo o insuccesso
registrati nel corso dell'attuazione, nonché sulle realizzazioni e sui risultati, compresa la loro prevedibile durata". Verrà ultimata entro tre anni dalla
fine del periodo di programmazione ed eseguita da valutatori indipendenti.
Le analisi valutative integrano sia gli aspetti quantitativi, che quelli qualitativi, e non si limitano all'approccio
obiettivi/risultati, ma analizzano il processo di implementazione.
La Struttura nazionale di valutazione dell'Isfol coordina a livello nazionale le attività di valutazione del Fse
2000-2006 ed è incaricata di realizzare la valutazione del Q.C.S. Ob. 3. Nell'ambito delle sue attività, la Struttura è
impegnata nella costruzione e diffusione della cultura valutativa:
•
Metodologie per la valutazione
•
Pubblicazioni
•
Papers
•
Rapporto di valutazione intermedia del Qcs 2000-2006 Ob. 3
•
Letteratura grigia
La valutazione mira a identificare il valore aggiunto degli interventi cofinanziati, valore aggiunto che si esplica
sia nel raggiungimento degli obiettivi specifici (sempre inteso in una logica dinamica e di processo), sia nella relazione
fra interventi cofinanziati e quelli nazionali/regionali. Essa cerca inoltre di analizzare l'apporto del FSE ai NAP.
L'analisi riguarda effetti e processi e si basa sui seguenti criteri:
•
Rilevanza
•
Consistenza
•
Efficienza
•
Efficacia
•
Impatto
Il processo di valutazione delle politiche è fondamentale poiché consente di:
o
migliorare la capacità di intervento;
o
l’analisi dei risultati della valutazione consente il confronto e la riflessione sulle esperienze per
orientare la scelta degli strumenti di intervento;
o
il processo valutativo obbliga a chiarire il nesso tra obiettivi-strumenti- risultati –costi;
o
focalizzare il punto di partenza per interventi successivi che non devono tradursi in repliche sostanziali
del pregresso.
A riguardo è altresì di fondamentale importanza chiarirsi a priori perché e per chi valutare (a quali domande si
vuole rispondere) poiché ciò consente di individuare cosa e come valutare: gli strumenti ed il processo di valutazione
più adatti a rispondere alle domande.
Si può decidere di valutare la congruenza tra obiettivi e strumenti utilizzati (POLICY EVALUATION), il modo in cui
l’intervento è realizzato (PROCESS EVALUATION), dei risultati e dell’impatto.
Stralcio del Regolamento UE 1260/ 99
CAPO III - VALUTAZIONE
Articolo 40
Disposizioni generali
1. Per valutare l'efficacia degli interventi strutturali, l'azione comunitaria e oggetto di una valutazione ex ante,
di una valutazione intermedia e di una valutazione ex post, volte a determinarne l'impatto rispetto agli obiettivi di cui
all'articolo 1 e ad analizzarne le incidenze su problemi strutturali specifici.
2. L'efficacia dell'azione dei Fondi viene valutata in funzione dei criteri seguenti:
a) impatto globale sul conseguimento degli obiettivi di cui all'articolo 158 del trattato e segnatamente sul
rafforzamento della coesione economica e sociale della Comunità ,
b) impatto delle priorità proposte nei piani e degli assi prioritari previsti in ciascun quadro comunitario di
sostegno e in ciascun intervento.
3. Le autorità competenti degli singoli Stati membri e la Commissione si dotano dei mezzi appropriati e
raccolgono i dati necessari affinché la valutazione possa svolgersi nel modo più efficace possibile. La valutazione
ricorre in tale contesto ai vari elementi che possono essere forniti dal sistema di sorveglianza, completati se del caso
dalla raccolta di informazioni intese a migliorarne la pertinenza.
Su iniziativa degli Stati membri o della Commissione, previa informazione dello Stato membro interessato,
possono essere avviate forme di valutazione complete. 26.6.1999 L 161/33 Gazzetta ufficiale delle Comunità europee
IT mentare, se del caso tematiche, per identificare esperienze trasferibili.
4. I risultati della valutazione sono messi, su richiesta, a disposizione del pubblico. Per quanto riguarda i
risultati della valutazione di cui all'articolo 42, e necessario l'accordo del comitato di sorveglianza secondo le
disposizioni istituzionali di ciascuno Stato membro.
5. Le modalità di valutazione sono precisate nei quadri comunitari di sostegno e negli interventi.
Articolo 41
Valutazione ex ante
1. La valutazione ex ante serve di base alla preparazione dei piani, degli interventi e del complemento di
programmazione dei quali e parte integrante.
La valutazione ex ante rientra nella responsabilità delle autorità competenti per la preparazione dei piani,degli
interventi e del complemento di programmazione.
2. All'atto della preparazione dei piani e degli interventi la valutazione ex ante riguarda l'analisi dei punti di
forza e di debolezza e delle potenzialità dello Stato membro, della regione o del settore considerato. Essa valuta, sulla
base dei criteri elencati nell'articolo 40, paragrafo 2, lettera a), la coerenza della strategia e degli obiettivi prescelti con
le caratteristiche delle regioni o zone interessate, compresa la loro evoluzione demografica, nonché l'impatto atteso delle
priorità d'azione previste, quantificandone, se la loro natura lo consente, gli obiettivi specifici rispetto alla situazione di
partenza.
La valutazione ex ante tiene conto in particolar modo della situazione in materia di competitività e di
innovazione, di piccole e medie imprese, di occupazione nonché di mercato del lavoro rispetto alla strategia europea per
l'occupazione, di ambiente e di parità fra uomini e donne e comprende in particolar modo quanto segue:
a) una valutazione ex ante della situazione socioeconomica, principalmente delle tendenze del mercato del
lavoro, anche nelle regioni che hanno problemi particolari in materia di occupazione, e della strategia globale nel settore
dello sviluppo delle risorse umane, nonché del modo in cui tale strategia e¡ collegata alla strategia nazionale per
l'occupazione quale descritta nei piani d'azione nazionali;
b) una valutazione ex ante della situazione ambientale della regione considerata, segnatamente per i settori
ambientali sui quali presumibilmente l'intervento avrà un impatto notevole; delle disposizioni volte ad integrare l'aspetto
ambientale nell'intervento, nonché della coerenza fra le prime e gli obiettivi a breve e lungo termine fissati a livello
nazionale, regionale e locale (ad esempio, piani di gestione dell'ambiente); delle disposizioni intese ad assicurare il
rispetto della normativa comunitaria in materia di ambiente. La valutazione ex ante fornisce una descrizione,
quantificata nella misura del possibile, della situazione ambientale attuale e una stima dell'impatto atteso della strategia
e degli interventi sulla situazione ambientale;
c) una valutazione ex ante della situazione in termini di parità tra uomini e donne per quanto riguarda le
opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro, inclusi gli obblighi specifici di ciascun gruppo; una
stima dell'impatto atteso della strategia e degli interventi, in special modo per l'integrazione delle donne e degli uomini
nel mercato del lavoro, per l'istruzione e la formazione professionale, per l'attività imprenditoriale delle donne e per la
conciliazione tra vita familiare e vita professionale.
La valutazione ex ante verifica la pertinenza delle modalità di attuazione e di sorveglianza previste nonché la
coerenza con le politiche comunitarie e la presa in conto degli orientamenti indicativi di cui all'articolo 10, paragrafo 3.
Essa prende in considerazione i risultati delle valutazioni relative ai periodi di programmazione precedenti.
3. La valutazione delle misure previste nel complemento di programmazione mira a comprovarne la coerenza
con gli obiettivi degli assi prioritari corrispondenti, a quantificarne gli obiettivi specifici, nella misura in cui la loro
natura lo consenta, ed inoltre, come previsto all'articolo 35, paragrafo 3, lettera b), a verificare la pertinenza dei criteri di
selezione.
Articolo 42
Valutazione intermedia
1. La valutazione intermedia prende in considerazione, tenendo conto della valutazione ex ante, i primi risultati
degli interventi, la loro pertinenza e il grado di conseguimento degli obiettivi. Valuta altresì l'impiego dei fondi, nonché
lo svolgimento della sorveglianza e della realizzazione. L 161/34 26.6.1999 Gazzetta ufficiale delle Comunità europee
IT
2. La valutazione intermedia è effettuata sotto la responsabilità di gestione, in collaborazione con la
Commissione e con lo Stato membro. Essa verte sui singoli quadri comunitari di sostegno e sui singoli interventi. È
effettuata da un valutatore indipendente, presentata al comitato di sorveglianza del quadro comunitario di sostegno o
dell'intervento, ai sensi dell'articolo 35, paragrafo 3 e successivamente e trasmessa alla Commissione, in linea generale
tre anni dopo l'approvazione del quadro comunitario di sostegno o dell'intervento e al più tardi il 31 dicembre 2003, per
la revisione di cui all'articolo 14, paragrafo 2.
3. Sulla base di criteri previamente definiti di comune accordo tra la Commissione e lo Stato membro, la
Commissione esamina la pertinenza e la qualità della valutazione, in vista della revisione dell'intervento e
dell'assegnazione della riserva di cui all'articolo 44.
4. Nel prosieguo della valutazione intermedia, è effettuato un suo aggiornamento per ciascun quadro
comunitario di sostegno e ciascun intervento. Essa è conclusa entro il 31 dicembre 2005 onde preparare gli interventi
successivi.
Articolo 43
Valutazione ex post
1. La valutazione ex post mira a rendere conto, sulla base dei risultati della valutazione già disponibili,
dell'impiego delle risorse, dell'efficacia e dell'efficienza degli interventi e del loro impatto e a consentire di ricavarne
insegnamenti per la politica di coesione economica e sociale. Essa verte sui fattori di successo o insuccesso registrati nel
corso dell'attuazione, nonché sulle realizzazioni e sui risultati, compresa la loro prevedibile durata.
2. La valutazione ex post ricade nelle responsabilità della Commissione, in collaborazione con lo Stato
membro e l'autorità di gestione. Essa verte sugli interventi ed è eseguita da valutatori indipendenti. È ultimata entro tre
anni dalla fine del periodo di programmazione.
CAPO IV - RISERVA DI EFFICACIA ED EFFICIENZA
Articolo 44
Assegnazione della riserva di efficacia ed efficienza
1. Ciascuno Stato membro, in stretta concertazione con la Commissione, valuta per ogni obiettivo e non oltre il
31 dicembre 2003, l'efficacia e l'efficienza di ognuno dei programmi operativi o documenti unici di programmazione
sulla base di un numero limitato di indicatori di sorveglianza che riflettono l'efficacia, la gestione e l'attuazione
finanziaria e che misurano i risultati a metà percorso in relazione ai loro obiettivi specifici iniziali.
Detti indicatori sono definiti dallo Stato membro, stretta concertazione con la Commissione, tenendo conto in
tutto o in parte di una lista indicativa di indicatori proposta dalla Commissione, e sono quantificati nei vari rapporti
annuali di esecuzione esistenti, nonché nel rapporto di valutazione intermedia. Lo Stato membro è responsabile
dell'applicazione di tali indicatori.
2. A metà percorso e non oltre il 31 marzo 2004, la Commissione assegna, in stretta concertazione con lo Stato
membro interessato, per ogni obiettivo, sulla base di proposte di ciascuno Stato membro, tenendo conto delle sue
caratteristiche istituzionali specifiche e della corrispondente sua programmazione, gli stanziamenti d'impegno di cui
all'articolo 7, paragrafo 5 ai programmi operativi o ai documenti unici di programmazione o alle loro assi prioritarie che
sono considerati efficaci ed efficienti. I programmi operativi o documenti unici di programmazione sono adattati
conformemente agli articoli 14 e 15. 26.6.1999 L 161/35 Gazzetta ufficiale delle Comunità europee IT.
COSA SONO LE BUONE PRASSI: TEORIA O REALTA’?
Negli ultimi anni, nell’ambito delle politiche attive del lavoro, si è notevolmente diffusa la cultura delle buone
prassi come effetto della crescente attenzione al tema della qualità dei processi che regolano gli interventi rivolti allo
sviluppo delle risorse umane.
L’approccio delle buone prassi è associato al concetto di miglioramento continuo delle politiche, dei processi,
dei progetti e quindi alle strategie più opportune da mettere in atto per promuoverli e gestirli.
Per buona prassi si intende, infatti un’esperienza di eccellenza nello sviluppo e nella gestione di un progetto,
che possa fungere da paradigma e/o modello esemplare, trasferibile e ripetibile in contesti diversificati.
L’importanza attribuita alle buone prassi deriva dal valore che esse detengono in termini di potenzialità di
produrre effetti culturali e processi innovativi che si riflettono sulla qualità della prestazione e della conduzione
operativa che hanno effetti sugli orientamenti e sulla programmazione delle P:A., sulle azioni dei soggetti attuatori.7
Va sottolineato, tuttavia, che nell’ambito delle politiche per lo sviluppo delle risorse umane, in linea con le
indicazioni della SEO (Strategia Europea per l’Occupazione) non vi sono, attualmente, modalità codificate di
individuazione di buone prassi (che garantiscano la presenza e il rispetto di condizioni e strumenti per la verifica
scientifica), mentre è più diffuso l’approccio dei cosiddetti casi di eccellenza indicati come ottimi esempi di
raggiungimento di determinati risultati.
7
Monica Andrioli, “Scheda per la rilevazione di buone prassi formative”
Caratteristiche essenziali delle buone prassi sono la trasferibilità e la ripetibilità, due macro-elementi che
qualificano e unificano i casi di eccellenza e, prendendo spunto dalle diverse esperienze maturate in Italia e all’estero
(proprio perché l’essere o meno in presenza di una buona pratica dipende da fattori tangibili e intangibili connessi
all’esperienza), si possono individuare i seguenti elementi rappresentativi:
1.
L’integrazione, elemento caratterizzante delle buone prassi, si concretizza su differenti piani e fasi a
seconda dello stadio di attuazione delle iniziative. Può, pertanto esservi: un’integrazione di tipo formale,
dove i diversi sistemi interessati non hanno sostanzialmente interagito, ma hanno svolto percorsi paralleli per
il raggiungimento dei medesimi obiettivi; una integrazione di tipo funzionale, connotata dal coinvolgimento
dei diversi soggetti nella fase di progettazione, realizzazione e valutazione degli interventi; da una corretta
identificazione dei ruoli; dal funzionamento di team integrati; una effettiva integrazione dei fattori tangibili e
intangibili accompagnata da una modificazione degli approcci caratterizzanti i diversi sistemi e una
contaminazione delle metodologie e delle ottiche.
2.
Il secondo elemento è il valore di sistema degli interventi che si dimostrano capaci di divenire parte
integrante del più generale impianto delle politiche attive rivolte alle risorse umane attuate a livello regionale
o sovraregionale e di autoriprodursi;
3.
Il terzo elemento è rappresentato dalla rilevanza-numerosità dei partecipanti e dei soggetti coinvolti e
quindi dalla capacità di colpire fenomeni di ampia portata, anche stratificati nel tempo attraverso un sistema
di interazione o una vera a propria rete preesistente o di nuova costituzione di attori pubblici e privati.
4.
Il quarto elemento è costituito dalla disseminazione: attraverso questo processo si intende, infatti,
promuovere, in un’ottica di trasferibilità e ripetibilità, l’utilizzazione dei risultati e delle esperienze con
l’auspicio di produrre cambiamenti e influenze sul sistema territoriale di riferimento.
In linea con l’orientamento del FSE, gli elementi di cui si è deciso di tenere conto, nella progettazione e nella
gestione operativa del progetto EDA, per l’evidenziazione delle buone prassi sono:
•
presenza di ricerche ad hoc (quali-quantitative) sul contesto di riferimento, e se necessario implementazione
delle stesse;
•
presenza di accordi formalizzati e/o da formalizzare con soggetti istituzionali (Servizi per l’impiego,
Province, Comuni, Comunità Montane), sociali (associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori,
enti bilaterali, ordini professionali, associazioni non profit, associazioni operanti nel Terzo Settore) e con il
sistema scolastico e universitario e le imprese;
•
sperimentazione e modellizzazione di dispositivi, procedure e strumenti da implementare nei sistemi di
riferimento per rispondere a problematiche differenziate (nello specifico si è scelto di utilizzare il modello
della Network Analisys con la finalità di individuare una strategia occupazionale caratterizzata dalla
condivisione e dalla pluralità dei contributi che ciascuno dei soggetti coinvolti (o da coinvolgere) nel
progetto possono apportare per la migliore riuscita del progetto);
•
attenzione dell’intervento al raccordo con gli attori e con le peculiarità dello sviluppo economico e sociale
locale;
•
coinvolgimento di ampie fasce di utenza, anche in fase sperimentale, rappresentative dei target delle
politiche.
La scelta operata risponde all’esigenza di mettere a frutto dispositivi strategici per affrontare alcune
problematiche significative nel mercato del lavoro di riferimento e/o di ostacolo alla partecipazione attiva della
popolazione.
Confronto e disseminazione permetteranno di creare una rete tra gli operatori (decisore politico e gestori di
progetti con finalità analoghe a quelle del progetto EDA) che possa offrire loro l’opportunità di essere fruitori e
diffusori non solo di nuovi dati e informazioni ma anche e soprattutto di una specifica sensibilità sui temi oggetto delle
politiche attive al fine di ragionare in termini di confronto a livello locale, nazionale e internazionale.
I vantaggi addizionali derivanti dall’approccio sistematico alla disseminazione sono:
•
mettere a punto un’immagine complessiva del progetto che ci permetta: a) di avere un’idea circa il lavoro, i
prodotti ed i servizi da sviluppare; b) chiarire l’importanza del progetto e il possibile interessamento di altri
rispetto ai suoi risultati, gli effetti del progetto su individui, comunità e sul sistema;
•
imparare dalle esperienze dei propri partner: la condivisione delle esperienze del processo lavorativo
amplifica le opportunità di apprendimento reciproco dalle diverse esperienze di lavoro e di disseminazione;
•
networking: risulta utile in virtù della capacità dei soggetti coinvolti di condividere interattivamente
conoscenze, esperienze e metodi di lavoro;
Nella gestione del Progetto EDA, sempre in merito alle buone prassi, si è inoltre tenuto conto dell'attuale stato
di avanzamento degli interventi Equal e delle nuove posizioni della CE.
Nell’ambito Equal, la Commissione Europea ha ritenuto opportuno utilizzare l'espressione Promising Practice
anziché Best Practice, volendo in tal modo indicare il potenziale dei progetti, misurabile sulla base degli indicatori
summenzionati ma differente.
Per Buone Prassi si intende una "modalità di sviluppo dell'esperienza formativa e di inserimento sociolavorativo che, per l'efficacia dei risultati, per le caratteristiche di qualità interna e per il contributo offerto alla soluzione
di particolari problemi, risponde a una serie di fabbisogni".
In altre parole, si può identificare come buona prassi ogni aspetto progettuale che ha contribuito a risolvere uno
o più problemi di discriminazione presenti sul mercato del lavoro affrontati dall'intervento.
Indicatori di Buone Prassi sono: la rilevanza della strategia adottata, la rilevanza politica, l'innovatività, la
sostenibilità, la trasferibilità (in contesti analoghi) e la riproducibilità (in contesti diversi).
Le Promising Practice sono evidentemente delle Best Practice in pectore, che non è detto vengano realizzate.
Rappresentano gli intenti positivi del singolo progetto volti a costruire realtà positive permanenti che diverranno Best
Practice solo al termine del progetto, a distanza di almeno due anni, quando l’integrazione, il valore di sistema, la
rilevanza/numerosità e la ripetibilità saranno concretamente constatabili e misurabili.
Il monitoraggio qualitativo dei progetti Equal, svolto dalla SNS EQUAL ISFOL, si fonda su un complesso di
procedure, tecniche e attività finalizzate alla rilevazione dello stato di attuazione dell'Iniziativa. Consente l'analisi e la
modellizzazione delle buone prassi sperimentate dalle PS negli interventi progettuali, al fine di favorire l'impatto dei
risultati in un'ottica di mainstreaming.
Da un lato ha l'obiettivo di sostenere l'Autorità di Gestione e gli altri attori istituzionali nell'analisi delle
esperienze realizzate e nella identificazione delle strategie di mainstreaming da diffondere e trasferire negli altri contesti
territoriali.
Dall'altro, è finalizzato al sostegno delle PS e al miglioramento della qualità dei contenuti delle azioni
attraverso l'identificazione dei punti di forza e di debolezza degli interventi stessi.
I risultati emersi dalle rilevazioni di monitoraggio svolte tra marzo e luglio 2003 attraverso la
somministrazione alle PS di un questionario telematico e la realizzazione, da parte dei tutor della SNS EQUAL ISFOL,
di visite in loco presso i progetti sono raccolti nel documento "Monitoraggio Qualitativo – Rapporto Intermedio".
Sulla base dei risultati emersi dall'attività di monitoraggio a cura della SNS EQUAL, nel documento si
avanzano alcune considerazioni di carattere qualitativo:
•
In relazione alla composizione delle PS si rileva che, nella maggior parte dei casi, è stata data attuazione al
principio della partecipazione mista, per cui i Partenariati risultano composti da soggetti diversi e
complementari per natura giuridica e mission; inoltre, le PS sembrano essere più efficaci laddove i componenti
abbiano già maturato una precedente esperienza nella gestione di Programmi e Iniziative comunitarie o
laddove operino in aree interessate da patti territoriali o altre forme di sviluppo e programmazione negoziata;
•
un aspetto innovativo trasversale a tutti gli interventi risulta essere quello della concertazione tra soggetti
diversi e talvolta "concorrenti" tra loro sul territorio, attraverso lo sviluppo di una cultura di rete e la
condivisione di linguaggi e metodologie; in particolare, la logica del partenariato ha innescato significativi
processi di apprendimento per gli enti pubblici in cui spesso non si rinviene una consuetudine al lavoro in team
e su progetto;
•
la logica multiattore ha consentito di progettare interventi multidimensionali in grado di affrontare i problemi
di esclusione dal mercato del lavoro dalle diverse prospettive degli stakeholder (sociale, occupazionale,
economico, ecc.);
•
altri elementi di innovazione rinvenibili in misura diversa nei vari territori riguardano: la valorizzazione delle
vocazioni territoriali puntando sui nuovi bacini di impiego per la creazione di nuova occupazione; la
definizione di nuovi profili professionali ad essi associata; il coinvolgimento di "nuove" categorie deboli e a
rischio di esclusione sociale e lavorativa; la strategica "alleanza" tra servizi pubblici e privati tesa a creare
sportelli e centri servizi territoriali finalizzati ad avvicinare, ad accorciare le distanze tra domanda e offerta;
nuove metodologie formative e di organizzazione del lavoro;
•
sull'attività transnazionale si rileva un buono stato di avanzamento dei programmi di lavoro. Soprattutto, nelle
regioni in cui le PS registrano maggiori criticità nello svolgimento dei lavori per il ritardo nella firma delle
convenzioni e nell'erogazione dei contributi, la collaborazione transnazionale ha svolto una funzione trainante;
•
lo stato di avanzamento relativamente modesto rilevato sul fronte del mainstreaming è ascrivibile in larga
misura al ciclo di vita degli interventi che si trovano mediamente in uno stadio iniziale; tuttavia, non solo
questo non si discosta significativamente dall'andamento negli altri Stati membri, ma le sperimentazioni
complessivamente mostrano promettenti potenzialità di trasferimento verso i sistemi della formazione e del
lavoro.
IL MAINSTREAMING
Definizione
Il mainstreaming è "la sistematica integrazione delle rispettive situazioni, priorità e bisogni di donne e uomini
in tutte le politiche, mobilitando tutte le politiche generali e le misure specifiche per la promozione della parità fra
donne e uomini con l'obiettivo di raggiungere l'eguaglianza in tutte le sfere di attività pubblica e privata, attraverso la
presa in considerazione attiva ed aperta degli effetti sulle rispettive situazioni delle donne e degli uomini".
"La sistematica considerazione delle differenze tra le condizioni, le situazioni, i bisogni di donne e uomini in
tutte le politiche e azioni comunitarie: questa è la principale caratteristica del principio di mainstreaming, che la
Commissione ha adottato. Questo non significa solamente rendere i programmi o le risorse della Comunità più
accessibili alle donne, ma piuttosto la simultanea mobilitazione di strumenti legali, risorse finanziarie e capacità
analitiche e organizzative della Comunità al fine di introdurre in tutte le aree la volontà di costruire una relazione
equilibrata tra donne e uomini. A questo proposito è necessario e importante basare la politica di uguaglianza tra uomini
e donne su una solida analisi statistica della situazione delle donne e degli uomini nei vari settori della vita e i
cambiamenti che si stanno verificando nella società".
Pertanto si può affermare che il concetto di mainstreaming fa riferimento al processo attraverso il quale le
innovazioni sperimentate in un ambito circoscritto (sociale, economico ed istituzionale) vengono trasposte a livello di
sistema.
Si tratta di un percorso di acquisizione, da parte delle politiche e delle normative locali, nazionali e
comunitarie, delle buone prassi sperimentate a livello di singolo progetto pilota, ovvero delle innovazioni che hanno
dimostrato la loro efficacia.
LE POLITICHE PER LE PARI OPPORTUNITÀ
Considerato che:
ƒ
si rileva una significativa debolezza della posizione femminile nel mercato del lavoro dei paesi UE e in
particolare in Italia;
ƒ
il tasso di partecipazione femminile rimane molto inferiore a quello maschile, soprattutto nei paesi
dell’Europa Meridionale;
ƒ
la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è in crescita anche se assume un profilo per età sempre
più simile a quello maschile;
ƒ
l’occupazione femminile è cresciuta quattro volte più velocemente di quella maschile dal 1994;
ƒ
i tassi di occupazione femminili sono molto inferiori a quelli maschili, soprattutto nei paesi dell’Europa
Meridionale;
ƒ
continua ad essere elevata la segregazione occupazionale;
ƒ
l’occupazione femminile è concentrata nei servizi, nelle posizioni medio-basse, nei contratti atipici;
ƒ
permane un significativo divario di genere nella disoccupazione poiché i tassi di disoccupazione femminile
continuano ad essere più alti di quelli maschili;
ƒ
vi è una sostanziale scarsa disponibilità di servizi di cura che facilitano la partecipazione al lavoro;
ƒ
nella maggior parte dei paesi europei le condizioni familiari influenzano molto il tasso di partecipazione e di
occupazione delle donne in età centrale, infatti dove i servizi di cura per i familiari sono più diffusi e
accessibili la partecipazione e l’occupazione delle donne è maggiore;
è chiaro perché vi sia la necessità di sostenere le politiche per le pari opportunità.
Tali politiche devono sostenere:
o
la scelta di partecipazione delle donne al mercato del lavoro;
o
l’accesso ed il mantenimento del posto di lavoro;
o
lo sviluppo professionale e di carriera
ma devono anche:
o
ridurre la segregazione occupazionale sia orizzontale sia verticale;
o
distinguere tra i bisogni di diverse fasce di popolazione femminile (politiche differenziate a seconda del
target di utenza).
Pertanto le politiche per le pari opportunità nel mercato del lavoro devono tenere conto delle variabili che
caratterizzano la presenza femminile in seno allo stesso e quindi delle variabili di natura economica, sociale e culturale
che influenzano i comportamenti della domanda e dell’offerta di lavoro femminile.
Tali politiche possono essere classificate nel seguente modo:
−
−
politiche di sostegno alla partecipazione al mercato del lavoro
a)
che conciliano il lavoro professionale e la vita famigliare;
b)
di sostegno all’investimento in istruzione e formazione;
c)
di informazione, orientamento e sostegno alla ricerca di lavoro;
d)
di sostegno al rientro nel mercato del lavoro;
e)
di incentivo alla partecipazione (fiscali e sociali).
politiche di sostegno all’accesso al lavoro
a)
volte a rafforzare l’offerta di lavoro femminile (orientamento, formazione e riqualificazione
professionale, formazione continua);
b) volte a incentivare la domanda di lavoro femminile (valorizzazione delle risorse umane femminili,
sussidi all’occupazione, sostegno all’incontro domanda e offerta di lavoro).
−
politiche di sostegno alle pari opportunità sui luoghi di lavoro e alla permanenza nel lavoro:
a)
azioni positive;
b) promozione dell’occupazione in settori e professioni dove le donne sono sottorappresentate;
c)
promozione di interventi sull’orario di lavoro e l’organizzazione del lavoro nei luoghi di lavoro;
d) promozione di interventi di sostegno all’imprenditoria femminile etc.
Modelli di intervento per le PO in alcuni paesi europei
MODELLO SCANDINAVO:
inclusione sociale attraverso il lavoro. Politiche di conciliazione tra il lavoro per il
mercato e il lavoro per la famiglia, incentivi a lavoro part-time. Tassi di partecipazione e occupazione femminili
più elevati della media europea. Il problema che rimane è quello della segregazione settoriale (donne concentrate
nel pubblico impiego).
MODELLO ANGLOSASSONE:
inclusione attraverso i diritti individuali, civili e politici, con mercato del lavoro non
regolato. Politiche per PO soprattutto attraverso azioni positive e politiche anti-discriminatorie, pochi i servizi di
sostegno a partecipazione e occupazione femminile. Differenziali di genere tassi occupazione e disoccupazione
più bassi della media UE, ma elevata segregazione occupazionale e differenziali salariali di genere.
MODELLO EUROPA CONTINENTALE E MERIDIONALE: esclusione delle donne dal mercato del lavoro. Politiche
del lavoro e politiche di welfare centrate su protezione uomini capofamiglia (male breadwinner model):
disincentivo partecipazione e occupazione femminile. Differenziali di genere nei tassi di partecipazione,
occupazione e disoccupazione tra i più elevati in Europa.
L’ITALIA è una latecomer nel campo delle politiche per le PO, anche se le politiche di parità formale sono ben
radicate nella normativa italiana. Solo dal 1991 politiche per le PO nel lavoro (L. 125) e di sostegno
imprenditoria femminile (L. 215). Negli ultimi anni colmato il divario con altri paesi europei nel campo delle
politiche di conciliazione (congedi parentali). Uno dei pochi paesi con Ministero per le PO.
Dal 1997 gli approcci stanno cambiano, sotto la spinta della SEO (Strategia europea per l’occupazione) che
incentiva un approccio comune basato su:
o
Mainstreaming: approccio integrato alle PO, trasversale a tutte le politiche pubbliche. Linee di intervento
specifiche per categorie più deboli delle donne. Ciò richiede di considerare l’impatto di genere delle
politiche pubbliche e quindi lo sviluppo di un sistema informativo disaggregato per genere;
o
Decentramento del processo di attuazione delle politiche per tenere conto dei bisogni specifici espressi dai
contesti locali.
I risultati degli studi di valutazione
Dall’attenta analisi delle quattro macroaree di seguito descritte, sono emersi dei risultati che suggeriscono di
attivare particolari politiche a sostegno delle Pari Opportunità.
Vediamo innanzitutto quali sono le 4 macroaree:
•
Le politiche di conciliazione tra lavoro di cura e per il mercato (congedi parentali, flessibilità orari di lavoro,
servizi di cura, sussidi) sono efficaci sia per partecipazione sia per l’occupazione femminile.
Congedi parentali devono però essere flessibili (si possono usare anche parzialmente per periodi estesi) e
devono incentivare il congedo dei padri e non solo delle madri.
Servizi di cura devono essere non razionati e con orari e calendario flessibile, oltre che non troppo
costosi; tra l’altro aumentano direttamente l’occupazione femminile.
Part-time è correlato positivamente con partecipazione e occupazione femminile, ma va sostenuta la
possibilità di passaggio al tempo pieno, la formazione sul lavoro ed i percorsi di carriera. Rischi per le
donne meno istruite e per chi ha part-time corti o temporanei.
•
Sistema di Welfare: i sistemi di tassazione (meglio separato che congiunto), sistema di sussidi basato su
trasferimenti di reddito in proporzione al reddito familiare (che comporta una trappola della povertà) o su
rapporti familiari (come gli assegni famigliari) o basati su storia e anzianità lavorativa (come CIG, sussidi di
disoccupazione o pensioni). Centrare di più il sistema di welfare sul sostegno ai servizi per le famiglie, meno
su prepensionamento e sussidi basati sull’uscita dal mercato del lavoro.
•
Politiche attive del lavoro: in genere più efficaci per le donne, soprattutto formazione e servizi per l’impiego,
ma devono essere più orientati all’utenza femminile e tenere conto delle diversità di condizioni.
•
Pari opportunità nel lavoro: risultati inferiori alle attese. Bisogna agire sul sistema di contrattazione salariale
e delle condizioni di lavoro in modo più diffuso. Leggi sulla parità di trattamento sembra abbiano migliorato la
condizione femminile in settori a salari elevati e peggiorato quelle in settori a basso salario. Azioni positive
possono essere efficaci nel ridurre la discriminazione statistica (aumenta la disponibilità delle imprese ad
assumere donne e minoranze).
Le politiche attivabili, sulla base della valutazione appena descritta sono:
•
Politiche specifiche e diversificate, data l’eterogeneità di condizione delle donne: l’impatto delle politiche è
spesso diverso per diverse categorie di utenza (livelli di scolarizzazione/qualificazione; condizioni familiari,
età ecc.);
•
Politiche integrate che tengano conto del complesso contesto di relazioni in cui le donne agiscono ed in
particolare della stretta interazione tra decisioni professionali e familiari (famiglia/lavoro);
•
Politiche intensive e continue nel tempo (sostegno al mantenimento del lavoro e sviluppo sul lavoro, oltre
che all’inserimento nel lavoro);
•
Politiche che agiscano sull’offerta, ma anche sulla domanda di lavoro.
Di fondamentale importanza è la modalità attraverso cui tali politiche vengono poste in
essere affinché raggiungano anche le fasce più deboli della popolazione femminile e le
metodologie di verifica dell’impatto di genere di qualsiasi politica (mainstreaming).
Le principali criticità delle politiche per le pari opportunità, nel mercato del lavoro,
riguardano:
•
L’assenza di una valutazione dell’impatto di genere delle politiche pubbliche;
•
la scarsità di risorse sia finanziarie sia di strutture;
•
l’assenza
di
analisi
specifiche
sui
bisogni
che
emergono
nel
contesto
nazionale/regionale/locale e sulle diversità di condizione di diverse tipologie di donne;
•
la carenza di azioni di orientamento verso percorsi non tradizionalmente offerti alle
donne;
•
l’utilizzo di metodologie e approcci che non sembrano rispondere alle esigenze e
caratteristiche specifiche della popolazione femminile;
•
la carenza di azioni rivolte alle imprese e alla creazione di servizi di sostegno e di
accompagnamento all’inserimento lavorativo e al mantenimento del lavoro.
A ciò si aggiungano:
•
la mancanza di dati disaggregati per genere e di monitoraggio delle politiche;
•
la mancanza di coordinamento tra i diversi interventi realizzati e tra gli enti istituzionali
coinvolti;
•
la difficoltà di individuare e raggiungere la popolazione obiettivo (soprattutto le donne più
deboli sul mercato del lavoro: quelle meno giovani e meno scolarizzate).
Il processo di valutazione: un esempio concreto nel settore delle pari
opportunità
Step 1. Classificazione del progetto e punteggio (valutazione ex-ante)
-
neutrale rispetto alle PO
-
orientato alle PO, ma senza effetti rilevanti
-
effetti rilevanti sulle PO
Step 2. Selezione dei progetti e monitoraggio in itinere per verificare capacità di
-
realizzazione ed effetti in itinere
Step 3. Feed-back agli attuatori
-
per eventuali interventi di aggiustamento
Step 4. Monitoraggio dei risultati
-
(outcome e output)
Step 5. Eventuale valutazione di impatto
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