Per un diritto dei beni comuni

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Per un diritto dei beni comuni
Per un diritto dei beni comuni
Maria Rosaria Marella
SOMMARIO: 1. Il comune oltre il pubblico. – 2. Le radici di un possibile statuto giuridico. – 3. Un
tentativo di tassonomia. – 4. Alla ricerca di una fisionomia comune. – 5. Le ragioni di un’indagine
allargata.
1. Il comune oltre il pubblico. I processi di privatizzazione imposti dal progressivo
smantellamento dello stato sociale e dalle politiche neoliberiste hanno accresciuto enormemente
l’interesse per i beni comuni e la loro difesa.
La battaglia contro la privatizzazione dell’acqua vinta in Italia nel giugno 2011 con uno strepitoso
esito referendario, non esaurisce la tensione politica che anima movimenti e soggettività varie
attorno all’emblema dei beni comuni: nelle mobilitazioni che hanno accompagnato l’approvazione
della c.d. riforma Gelmini dell’università e lo stesso referendum dei lavoratori dell’auto a Mirafiori
si è parlato di sapere bene comune e di lavoro bene comune.
Tuttavia la lotta per l’acqua bene comune resta centrale in questo panorama: l’acqua quale simbolo
forte di un legame stretto e imprescindibile fra risorse naturali e comunità umane, che non ammette
l’interferenza di terzi beneficiari, né di natura pubblica, né di natura privata. La vicenda italiana
della gestione delle risorse idriche, d’altra parte, simboleggia pure il fallimento di quelle politiche
che contrapponendo il privato al pubblico (così come in passato il pubblico al privato) hanno di
fatto trascurato l’interesse ultimo della collettività, vera e unica destinataria della risorsa e della sua
gestione.
Questo è dunque il punto. La lotta per i beni comuni non è semplicemente una reazione al c.d.
mercatismo in favore della restaurazione della potestà dello stato sulle risorse comuni. Essa al
contrario dà voce all’insoddisfazione e all’insofferenza per quelle politiche pubbliche che hanno
generato l’attuale crisi di fiducia nelle istituzioni e nella rappresentanza politica.
Quando si afferma il carattere di bene comune delle aree urbane, ad esempio, non ci si schiera
contro alcuna privatizzazione, intesa quale «trasferimento della proprietà di compendi produttivi
dalla sfera pubblica alla sfera privata»1, semmai contro la gestione del territorio ad opera di
amministrazioni pubbliche che hanno pianificato cementificazione, gentrification, creazione di
quartieri-ghetto, e con esse isolamento, securitarismo2, rottura dei legami sociali3, devastazione
culturale, certo a vantaggio di pochi imprenditori privati, ma usando pienamente della loro potestà
pubblica. Il ‘tramonto’ dello spazio pubblico urbano, il mutamento della morfologia stessa delle
città è, in altre parole, anche il frutto di politiche neoliberiste giocate in favore di interessi privati,
ma testimonia di una relazione pubblico/privato assai complessa4, rispetto alla quale il recupero
della centralità dello Stato o dell’autorità pubblica locale diventa un progetto inattuale e incongruo,
e forse persino irrealizzabile. Pubbliche – cioè gestite dalla mano pubblica – sono ugualmente le
politiche che segnano l’arretratezza dell’Italia nella produzione e nell’impiego di energie
rinnovabili, altro punto assai dolente nel dibattito politico recente5; ed esprime la volontà dello Stato
1
Luca Nivarra, Alcune riflessioni sul rapporto fra pubblico e comune, infra.
Roberta Pompili, Safety or security? La critica femminista alla città biopolitica e la produzione del commonfare, infra.
3
Collettivo Roma disambientata, La metropoli come dispositivo, infra.
4
Cfr. Agostino Petrillo, Ombre del comune: l’urbano fra produzione collettiva e spossessamento, infra.
5
Si veda il decreto c.d. omnibus (art. 5, commi 1 e 8, d. l. 31 marzo 2011, n. 34, convertito con modificazioni dalla
legge 26 maggio 2011, n. 75) e il tentativo del governo Berlusconi di cancellare il quesito referendario sul nucleare. La
2
e degli enti pubblici territoriali l’incredibile tolleranza italiana verso l’abusivismo edilizio, per citare
soltanto due snodi cruciali della compromissione del bene ambiente ai danni della collettività6.
La stessa gestione pubblica della ricerca fallisce la sua missione se ‘segrega’ la conoscenza, non
assicurando l’accesso e la condivisione dei saperi, così come la fallisce l’università pubblica se non
realizza il diritto allo studio, non crea mobilità sociale, non privilegia la ricerca e dissipa risorse per
alimentare l’autoreferenzialità del ceto accademico. La strisciante privatizzazione di università e
ricerca pubbliche sono dunque solo parte del problema7.
L’enfasi sul comune, infatti, non è l’auspicio di un ritorno al pubblico ai danni del privato, ma
piuttosto la tensione verso un’alternativa in termini sociali, economici ed istituzionali, che si ponga
oltre la contrapposizione pubblico/privato.
In termini politici questa tensione, e l’aspirazione alla riappropriazione del comune ad essa
inerente, trova una prima espressione nell’esigenza di assicurare la partecipazione delle comunità
alla gestione delle risorse materiali come alla fruizione della conoscenza, ciò che significa anche
recuperare legami di solidarietà sociale attualmente affievoliti o compromessi e instaurarne di
nuovi: la direzione in cui ci si muove è dunque esattamente contraria a quella percorsa dal sistema
messo in piedi dal capitalismo globalizzato.
Sullo sfondo un’idea forte, non sempre resa esplicita: l’idea che i beni comuni appartengano
originariamente alla collettività – perché conservati e custoditi dalle comunità di generazione in
generazione, perché prodotto di una creazione inevitabilmente collettiva, ecc. – e siano
costantemente riprodotti nel quadro di una cooperazione sociale che dal potere pubblico non vuole
concessioni, ma pretende riconoscimento8.
2. Le radici di un possibile statuto giuridico. La traduzione di tutto questo in termini giuridici
non è ovviamente cosa semplice. La pervasività della dicotomia pubblico/privato, tuttora struttura
portante, insieme alla dicotomia soggetto/oggetto, di un diritto che è in larga parte il prodotto del
norma, che disponeva la c.d. moratoria sulla costruzione delle centrali nucleari in Italia, è stata abrogata a seguito
della consultazione referendaria del 12 e 13 giugno 2011.
6
Con l’art. 3 del d.l. 13 maggio 2011, n. 70, «Semestre europeo. Prime disposizioni urgenti per l’economia» (c.d.
decreto Sviluppo) siamo ormai oltre la logica della sanatoria: la disposizione prevede la concessione a privati di diritti
di superficie ventennali «su aree inedificate formate da arenili» appartenenti al demanio marittimo a fini, ovviamente,
edificatori. Formalmente non siamo alla svendita dei beni pubblici ma ad una nuova modalità di gestione di beni
demaniali. La disposizione è fortunatamente caduta in sede di conversione.
Sugli intrecci fra politiche pubbliche dissennate, corruzione e degrado ambientale si vedano le puntuali critiche mosse
dalla Corte Suprema dell’India ai governi locali nella decisione pubblicata in sintesi in questo volume, parte II,
Appendice C.
7
Senza volerne tuttavia trascurarne l’impatto: ancora il decreto Sviluppo fornisce un esempio di come la ricerca
pubblica venga privatizzata surrettiziamente. L’art. 1 prevede un credito d’imposta a vantaggio delle imprese che
finanziano progetti di ricerca da svolgersi presso università e enti pubblici di ricerca. Se questo lo si legge in combinato
con le disposizioni sulla valutazione della qualità della ricerca esistenti a livello nazionale e di singolo ateneo, alla
stregua delle quali il conseguimento di brevetti o la capacità di attirare finanziamenti privati sono considerati in sé
indici di qualità, potrà facilmente concludersi che le agenzie per la valutazione del merito sono indirizzate dalle scelte
dell’imprenditoria privata e tenderanno a loro volta a premiare (e a garantire la sopravvivenza) alle strutture
finanziate dai privati.
8
Il che non significa dunque ricondurre il discorso sui beni comuni al mito delle origini né, tanto meno ad una
demonizzazione della modernità. Per una puntualizzazione del discorso cfr. Adalgiso Amendola, Il lavoro è un bene
comune?, infra.
Per un’analisi del rapporto fra comune e capitalismo contemporaneo cfr. Antonio Negri e Michael Hardt,
Commonwealth, Harvard University Press, Cambridge, MA, 2009. Di necessità di una «considerazione rinnovata del
rapporto tra il mondo delle persone e il mondo dei beni» per il tramite dei beni comuni parla Stefano Rodotà,
Editoriale, in “Rivista critica del diritto privato”, n. 1/2011, pp. 3 e ss.
pensiero liberale, rende la dimensione del comune una sorta di missing view dei sistemi giuridici.
Una dimensione occultata, appunto, ma non assente: in questo senso forse la riscrittura del comune
può trovare nel diritto una via inaspettatamente più aperta di quanto ci si potrebbe immaginare.
Se infatti è vero che le proprietà collettive tuttora presenti in molte parti d’Europa sono state
percepite dal diritto liberale come corpi estranei e in larghissima parte ridotte nell’estensione e nel
contenuto sotto la pressione della forza espansiva della proprietà privata individuale, da una parte,
della proprietà pubblica, dall’altra9, neppure può trascurarsi la presenza di altre traiettorie all’interno
del sistema10.
Non si tratta solo di valorizzare le fratture introdotte con le costituzioni del dopoguerra, che già
adottano un’idea di proprietà privata che «obbliga» e la sottopongono a politiche redistributive tali
da sottrarre utilità al singolo proprietario a vantaggio della collettività11: non sempre è possibile o
indiscusso riconoscere in questo i sintomi del superamento del dominio pubblico/privato, sebbene
la funzione sociale cui la costituzione italiana subordina la tutela della proprietà privata (art. 42
cost.) sia spesso sinonimo di tutela del comune – come nel caso ad es. dei vincoli paesaggistici che
limitano le facoltà dei proprietari in nome della tutela del paesaggio fruibile da tutti. E certamente è
significativa un’altra norma costituzionale, l’art. 43, riportata alla ribalta dalle mobilitazioni
finalizzate a ridare all’acqua lo statuto giuridico di bene comune, secondo cui imprese di
preminente interesse generale che si riferiscono a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia o a
situazioni di monopolio possono trasferirsi a comunità di lavoratori o utenti. Non enti pubblici,
dunque, ma comunità di cittadini, al di là dell’opposizione pubblico/privato, sono i potenziali
gestori di imprese d’interesse generale12.
Ma soprattutto è la stessa genealogia del diritto liberale il terreno su cui lavorare. La tradizione
giuridica europea non ha conosciuto solo le teorizzazioni di John Locke e le enclosures, né un unico
paradigma, quello della proprietà privata individuale13. Il comunitarismo – dunque l’elemento
collettivo e solidale, quali che siano le sue successive evoluzioni e degenerazioni14 – è presente
9
D’obbligo il rinvio alle ricerche di Paolo Grossi, fra le quali ricordo in particolare Assolutismo giuridico e proprietà
collettive, in “Rivista di diritto agrario”, 1991, pp. 245 ss.; Id., «Un altro modo di possedere»: l’emersione di forme
alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, Giuffrè 1977; Id., Nascita del diritto agrario come
scienza, in “Rivista di diritto agrario”, 1977, pp. 464 ss., in particolare pp. 468-469; Id., La cultura giuridica di Giovanni
Zucconi, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 1989, pp. 171 e ss., specialmente 192;
Id., Il dominio e le cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Milano, Giuffrè 1992, in particolare pp. 607608, 695 ss.; Id., L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, Laterza 2006, pp. 100 e ss.
10
Nell’ambito della tradizione filosofica occidentale le due opposte narrative della proprietà privata e del comune si
svolgono in modo parallelo: per una genealogia cfr. Lorenzo Coccoli, Idee del comune, infra. L’approccio suggerito nel
testo è condiviso, nell’analisi giuridica, da Antonello Ciervo, Ya basta! Il concetto di comune nelle costituzioni
latinoamericane, infra.
11
La formula Eigentum verpflichtet come noto è introdotta nel linguaggio costituzionale dall’art. 153 della costituzione
di Weimar del 1919. Indicativa nel senso del testo la costituzione regionale dell’Assia del 1946 su cui cfr. Alessandro
Somma, Democrazia economica e diritto privato. Contributo alla riflessione sui beni comuni, in “Materiali per una
storia della cultura giuridica”, n. 2/2011, pp. 3-36.
Sul concetto di funzione sociale fondamentale il saggio di Stefano Rodotà, Note critiche in tema di proprietà, in “Rivista
trimestrale di diritto e procedura civile”, 1960, pp. 1252 ss.
12
Anche in questo caso l’antecedente trovasi nella costituzione di Weimar, all’art. 156, ripreso nel preambolo della
costituzione francese del 1946 e nella stessa costituzione di Bonn del 1949 all’art. 15.
13
Per questa impostazione cfr. ad esempio Ugo Mattei e Laura Nader, Plunder: When the Rule of Law is Illegal, WileyBlackwell 2008.
14
Cfr. Dunkan Kennedy, Three Globalizations of Law and Legal Thought: 1850-2000, in The New Law and Economic
Development: A Critical Appraisal, 19, 20 (David M. Trubek & Alvaro Santos eds., 2006), a proposito dello sviluppo del
pensiero sociale e delle sue degenerazioni storiche in senso autoritario e fascista.
nella sua genealogia a partire da alcuni fra i suoi ‘padri fondatori’: come Friedrich Karl von
Savigny15, non solo e non tanto perché riconosce forme di proprietà comune (l’ager publicus
romano o la proprietà della corporazione) che consentono tanto il godimento comune quanto forme
di godimento individuale, ma perché, a differenza di altri suoi contemporanei, Thibaut fra loro,
rifiuta la contrapposizione fra l’idea di proprietà esclusiva che contraddistinguerebbe il dominium
del diritto romano e il regime feudale dei rapporti di appartenenza, e piuttosto sottolinea l’affinità
fra gli iura in re aliena delle fonti romane e i diritti feudali, intimamente legati all’articolazione
della società in ceti, con ciò ammettendo l’impossibilità di una cesura fra una concezione anodina
del dominium, intrinsecamente compatto e unitario, così come viene a riproporsi davanti ai suoi
occhi nella modernità, e l’esperienza della stratificazione delle situazioni di appartenenza e del
comune16. Lo stesso G.W. Friedrich Hegel, d’altra parte, col negare alla proprietà privata il carattere
prestatuale e presociale che gli attribuiva Locke, e al soggetto il carattere di autoreferenzialità che
oscura la relazione con gli altri17, apre a visioni della proprietà assai più articolate, in cui insieme al
diritto del singolo si manifesta l’elemento della responsabilità verso gli altri, la proprietà stessa si
rivela una relazione fra soggetti, emergono elementi comunitari, fino alla possibilità di far
collassare la stessa dicotomia soggetto/oggetto attraverso il superamento della dicotomia
essere/avere18.
In questa fase è dunque strategico fare emergere la tensione fra individualismo e solidarietà, fra
esclusivo e comune, che pervade l’intero sistema giuridico fin dentro alle strutture del mercato,
poiché a partire da essa è possibile sin da ora pensare la costruzione di uno statuto giuridico del
comune19. Non è irrilevante, ad esempio, che in tutta Europa siano presenti esperienze importanti di
proprietà collettive, in cui immediato è il legame fra il bene e la comunità di riferimento20. Né esse
possono considerarsi semplicemente fenomeno premoderno, destinato all’estinzione; anche quando
volessimo prendere in considerazione la giustificazione che fornisce Locke delle recinzioni, cioè la
necessità di remunerare il lavoro attraverso una forma di appartenenza esclusiva (argomentazione
da prendere peraltro molto seriamente, visto che costituisce a tutt’oggi la giustificazione più diffusa
delle recinzioni dell’immateriale, a cominciare dalla brevettazione dei geni umani21) ed in questo
15
Sulla tensione fra momento individualista e momento comunitario all’interno del diritto a lui contemporaneo si
veda il System des heutigen Römischen Rechts, Berlin, 1840 e con particolare riferimento alla contrapposizione fra
Vermögensrecht e Familienrecht cfr. l’analisi di Dunkan Kennedy, Savigny’s Family/Patrimony Distinction and its Place
in the Global Genealogy of Classical Legal Thought, in “American Journal of Comparative Law”, 58 , 2010, pp. 811 ss.
16
Mi è parso che questa conclusione sia suffragata dallo studio di Massimo Brutti, L’intuizione della proprietà nel
Sistema di Savigny, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 1976-77, pp. 41 ss.
17
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio
con le Aggiunte di Eduard Gans, Roma-Bari, Laterza 1999, spec. 51 ss.
18
Cfr. Margaret Davies, Property. Meanings, Histories, Theories, Routledge-Cavendish, 2007, pp. 96 ss.
19
Questa scelta, meramente tattica, se vogliamo, mi sembra preferibile anche sul piano dell’analisi rispetto a quelle
posizioni che focalizzandosi esclusivamente sulle enclosures e sul susseguente cambiamento di paradigma, oscurano
la complessità della modernità, quasi conducendo ad un’idealizzazione del premoderno.
D’altra parte un uso tattico del diritto nel senso suggerito nel testo, non è negato neppure da chi assume come
obiettivo strategico il superamento del diritto stesso: cfr. Antonio Negri, Rileggendo Pasukanis: note di discussione, in
Id., La formastato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, Milano, Feltrinelli 1977, p. 195.
20
Sui fondamenti storici del soggetto-comunità e l’enfatizzazione di questo da parte dei germanisti cfr. Emanuele
Conte, Beni comuni e domini collettivi tra storia e diritto, infra.
21
A partire dal celeberrimo caso Moore v. The Regents of the University of California, 793 P.2d 479 (Cal. 1990) deciso
nel 1990 dalla Corte Suprema della California. Il caso riguarda i diritti sulle cellule di John Moore, un paziente affetto
da leucemia in cura presso lo UCLA Medical Center. Nel corso delle terapie gli fu asportata la milza, da cui i ricercatori
ricavarono una linea cellulare di grande valore sul piano scientifico e commerciale. Sulla linea cellulare tratta dai
tessuti di Moore l’università della California ricavò un brevetto molto lucroso, di cui Moore stesso fu tenuto all’oscuro.
senso riducessimo il fenomeno delle proprietà collettive al godimento comune di boschi e altre
situazioni di appartenenza non accompagnate da lavoro (agricolo), ci scontreremmo con due
evidenze: i terreni su cui insistono le proprietà collettive conservano integro il loro valore
naturalistico ed economico e smentiscono l’inevitabilità della tragedia dei beni comuni in assenza di
forme di appartenenza esclusiva22; esistono proprietà collettive come le partecipanze dell’Emilia
Romagna che rappresentano una realtà agricola gestita in comune sulla base di una forma di
appartenenza collettiva, a dimostrazione della non inevitabilità dell’appartenenza esclusiva sui ‘beni
produttivi’23. D’altra parte, la stessa remunerazione del lavoro (insieme all’idea della produttività
dei beni e del loro razionale sfruttamento) incontra, nella genealogia della proprietà, letture
differenti. In una fase del liberalismo diversa da quella presente, la fase in cui l’attenzione per la
realtà sociale ha dominato la legislazione e l’opera dei giuristi, il riconoscimento del lavoro è
servito per portare a termine un’operazione di segno opposto rispetto a quella che Locke vuole
legittimare: la compressione delle facoltà del proprietario e la disaggregazione delle utilità che
discendono dal bene, in vista della scissione fra la titolarità del bene stesso e i suoi effettivi uso,
godimento e gestione24.
Sul terreno dell’immateriale, forme di resistenza all’appropriazione esclusiva, dall’accesso alle
risorse cognitive in rete25 alla tutela delle culture indigene, sono quotidianamente messe a punto con
successo, spesso facendo ricorso – in una prospettiva di commodification rovesciata26 – allo stesso
Quando finalmente ne venne a conoscenza, Moore agì in giudizio contro l’amministrazione di UCLA lamentando la
violazione della proprietà delle proprie cellule, nonché la violazione da parte dei medici dell’obbligo di ottenere il
consenso informato dal paziente, e contestualmente affermando il proprio diritto a partecipare agli utili ricavati
dall’università dalla brevettazione e commercializzazione della linea cellulare. La Corte rigettò la domanda correlata
all’azione di conversion, a tutela della proprietà, argomentando che il riconoscimento di un diritto di proprietà sulle
parti staccate del corpo a vantaggio dei pazienti farebbe venir meno l’incentivo economico a intraprendere importanti
ricerche mediche. Si riconosce d’altra parte il dovere del ricercatore di informare il paziente dei propri intendimenti
non solo terapeutici ma anche scientifici e di ricerca; ma a fronte di ciò non la proprietà sulle parti del proprio corpo,
bensì la privacy e la dignità del paziente meritano tutela. Tale conclusione giuridica è ritenuta idonea a bilanciare
l’interesse del paziente con l’esigenza di remunerare il lavoro di ricerca. Ma è altresì chiaro che la tutela di impianto
personalistico – la tutela non-proprietaria del paziente – è la soluzione maggiormente in linea con lo sviluppo
capitalistico: favorisce gli investimenti delle multinazionali (la Sandoz era fra le parti convenute da Moore) e mantiene
le parti dotate di minore potere economico e sociale in una condizione di marginalità.
22
Della arcinota tesi di Garrett Hardin (The Tragedy of the Commons, in “Science”, 1968) si veda in questo volume la
lettura critica di Lorenzo Coccoli e Giacomo Ficarelli, “The Tragedy of the Commons”. Guida a una lettura critica, infra,
nonché le osservazioni di Luca Nivarra, op. cit., e Giuseppe Dallera, La teoria economica oltre la tragedia dei beni
comuni, infra. Affronta il tema della gestione efficiente dei beni comuni sotto il profilo dello sviluppo sostenibile
Vincenzo Lauriola, Terre indigene, beni comuni, pluralismo giuridico e sostenibilità in Brasile. Riflessioni sul caso
Raposa Serra do Sol tra opportunità e rischi di etnocentrismo, in “Rivista critica del diritto privato”, n. 3/2011, pp. 425
ss.
23
Cfr. Paolo Grossi, I domini collettivi come realtà complessa nei rapporti con il diritto statuale, in “Rivista di diritto
agrario”, 1997, pp. 261 e ss.
24
Cfr. Salvatore Pugliatti, La proprietà e le proprietà (con particolare riguardo alla proprietà terriera), in Id., La
proprietà nel nuovo diritto, Milano, Giuffrè, 1954, 145.
25
Per una prima informazione cfr. Lawrence Lessig, The Future of Ideas. The Fate of the Commons in a Connected
World, Vintage Book 2002; Id., Free Culture. How Big Media Uses Technology to Lock Down Culture and Control
Creativity, The Penguin Press, 2004. Sulla tendenza dilagante all’imposizione di diritti di esclusiva su tutto ciò che è
capace di produrre profitto cfr. più in generale Michael Heller, The Gridlock Economy. How Too Much Ownership
Wrecks Markets, Stops Innovation and Costs Lives, New York, Basic Books 2008.
26
Sul complesso rapporto fra culture minoritarie e mercato cfr. Regina Austin, Kwanzaa and the Commodification of
Black Culture, in Martha M. Ertman e Joan C. Williams (eds.), Rethinking Commodification. Cases and Readings in Law
and Culture, New York University Press, New York and London, 2005, 178; Sarah K. Harding, Culture, Commodification,
and Native American Cultural Patrimony, ibidem, 137.
strumentario messo a disposizione dal diritto della proprietà intellettuale, con l’esito di far apparire
obsoleto, almeno in alcuni casi, l’uso consueto del brevetto27 e la stessa retorica dell’autore. Ci si
riferisce qui a strategie anche differenti fra loro. Messa da parte – per una scelta di politica del
diritto ampiamente condivisa28 – la proprietà sui propri geni, che pur muovendosi dentro l’ordine
proprietario avrebbe o avrebbe avuto una qualche possibilità di successo rispetto alla prospettiva di
rovesciare il rapporto medico-paziente e soprattutto la marginalità del singolo individuo fornitore di
materiale biologico/genetico di fronte al potere economico che gestisce e trae profitto dalla ricerca
più lucrosa29, il giurista può comunque muoversi in una logica trasformativa pur utilizzando gli
istituti convenzionali del diritto liberale (e le sue articolazioni neoliberiste). Le pratiche
riconducibili al c.d. copyleft (General Public License, Creative Commons, ecc.) sono alquanto
significative al riguardo: predispongono una sorta di via di fuga dalla – ovvero uno svuotamento
dall’interno della – logica del diritto d’autore, senza formalmente contestare l’esistenza della sua
disciplina.
Il progetto Creative Commons, in particolare, pur nascendo da una critica serrata al concetto di
authorship e agli effetti negativi della superprotezione garantita dalle norme sul copyright, si basa
sul riconoscimento di un diritto di esclusiva dell’autore, ma combina property rights a opzioni di
natura contrattuale consentendo infine accessibilità e riproducibilità dell’opera per scopi non
commerciali (e non solo)30. Anche nel settore della proprietà industriale, la reazione agli abusi
derivanti dall’ampliamento senza freni della brevettabilità assumono talora proprio le forme della
tutela, sia pur sui generis, della proprietà intellettuale a vantaggio delle comunità indigene (first
nations), che imprese e enti di ricerca tendono a spossessare dei saperi e delle pratiche da loro
tramandati di generazione in generazione31.
3. Un tentativo di tassonomia. Un primo problema da affrontare quando si parla di un possibile
statuto giuridico dei beni comuni è dato dall’ampiezza e varietà, diciamo pure dall’estrema
eterogeneità, delle situazioni in cui il sintagma è attualmente usato: si parla di acqua e ambiente
come beni comuni, di sapere, di conoscenza, di genoma umano beni comuni, ma anche di sanità, di
università, persino di lavoro e da ultimo di democrazia come beni comuni32. Al di là della ovvia
constatazione che un uso tanto ampio del termine può comprometterne l’efficacia espressiva e
banalizzarne il senso, è indispensabile cercare di cogliere i caratteri comuni che attraversano gli usi
27
Cfr. Simone Vezzani, I saperi tradizionali e le culture popolari alla luce del paradigma dei beni comuni, infra; Id.
Sciamani e «cacciatori di geni». Proprietà intellettuale e diritti dei popoli indigeni, in Irini Papanicopulu (a
cura di), Incontro di studio dei giovani cultori delle materie internazionalistiche, Giuffrè, Milano, 2008, 85.
28
Il dibattito è sconfinato: rinvio a Ertman e Williams (eds.), Rethinking Commodification, cit., dove le diverse posizioni
sono ampiamente rappresentate. Da noi cfr. Giorgio Resta, La disposizione del corpo. Regole di appartenenza e di
circolazione, in Stefano Rodotà e Paolo Zatti (diretto da), Trattato di Biodiritto. Il governo del corpo, tomo I, Giuffrè,
Milano, 2010, 805.
29
V. supra nota 15.
30
Per una critica ai limiti del progetto cfr. Niva Elkin-Koren, What Contracts Cannot Do: The Limits of Private Ordering
in Facilitating a Creative Commons, in “Fordham Law Review”, 74, 2005-2006, pp. 375 ss.
31
Simone Vezzani, I saperi tradizionali, cit.
32
Per Ugo Mattei (Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 54) “la fenomenologia dei beni comuni è
nettamente funzionalistica, nel senso che essi divengono rilevanti per un particolare fine sociale coerente con le
esigenze dell’ecologia politica”: sono relazioni più che oggetti, e la loro emersione è necessariamente accompagnata
da prassi di conflitto. Nella lettura di Mattei i beni comuni non hanno perciò caratteristiche ontologiche
predeterminate, poiché sono i contesti in cui divengono desiderabili a definirli. Questo spiegherebbe l’estrema
ampiezza e flessibilità della nozione.
eterogenei del termine per poi capire in che misura intorno alla definizione beni comuni sia
possibile costruire una categoria unitaria di risorse. Intanto possiamo tentarne una classificazione.
a) Si definiscono beni comuni innanzitutto beni materiali come l’acqua, le risorse naturali, e beni
che hanno un sostrato materiale ma evocano anche scenari più complessi come l’ambiente e il
patrimonio artistico e storico-culturale di un paese.
b) La categoria dei beni immateriali, motore dell’attuale fase di sviluppo capitalistico, è investita da
una tendenza fortissima all’appropriazione esclusiva e di converso se ne rivendica il carattere
comune, cosicché rappresenta oggi la categoria di commons maggiormente ampia (e in continua
espansione). Un elenco esaustivo è pressoché impossibile: si va dalle creazioni intellettuali (il
giurista municipale le chiama opere dell’ingegno) ai geni, che proprio creazioni intellettuali non
sono33, dall’immagine dei beni (di edifici pubblici o privati, di auto, cavalli da corsa, imbarcazioni
rese celebri da vittorie in competizioni sportive)34 ai saperi tradizionali e alle tradizioni popolari, i
quali peraltro possono trovare un sostrato materiale nel patrimonio artistico o nella biodiversità di
un luogo35, ecc.
c) Di recente l’espressione bene comune si trova riferito anche a istituzioni erogatrici di servizi che
sono oggetto di diritti sociali: è il caso della sanità come organizzazione pubblica strumentale alla
realizzazione del diritto fondamentale alla salute36 e dell’università37 e dell’istruzione pubblica
complessivamente intesa38, funzionali alla realizzazione del diritto allo studio.
d) Anche un luogo e in particolare la città, lo spazio urbano, è definibile come bene comune39 (un
uso del termine ormai diffuso nella pratica politica: ad es. a Roma è nato un movimento di cittadini
intitolato a «Roma bene comune»). L’espressione rinvia qui ad un complesso di piani discorsivi che
a loro volta trovano la loro ragion d’essere in forme diversificate di spossessamento: da una parte è
bene comune il territorio urbano nel suo complesso, che dev’essere preservato dalla
cementificazione e da altre forme di sfruttamento giustificate unicamente da finalità speculative,
dall’altra possono considerarsi beni comuni i quartieri cittadini, soggetti, insieme al loro specifico
culturale, a spossessamento attraverso strategie proprie del mercato immobiliare e del mercato delle
33
Si veda infatti Association for Molecular Pathology v. U.S. Patent and Trademark Office, No. 09-cv-4515, 94 USPQ2d
1683 (S.D.N.Y. March 29, 2010) in cui la corte federale americana di I grado decide per la non brevettabilità dei geni
umani: si veda infra La brevettazione del genoma umano. Il caso Myriad Genetics, parte II, App. D.
34
Cfr. Giorgio Resta, L’immagine dei beni in Cassazione, ovvero: l’insostenibile leggerezza della logica proprietaria, in
margine a Cass., 11 agosto 2009, n. 18218 in “Danno e responsabilità”, 2010, pp. 477 ss.
35
Cfr. Tullio Seppilli, Sulla questione dei beni comuni: un contributo antropologico per la costruzione di una strategia
politica, infra; Lorenza Paoloni, Land Grabbing e beni comuni, infra.
Su questi temi la letteratura è ormai amplissima. Cfr. Chidi Oguamam, International Law and Indigenous Knowledge,
Toronto, Buffalo, London, University of Toronto Press 2006, 35 ss., 145 ss.; Michael Finger and Philip Schuler (eds.),
Poor People’s Knowledge.Promoting Intellectual Property in Developing Countries, Oxford, Oxford University Press
2004; Christophe Bellmann, Graham Dutfield e Ricardo Meléndez-Ortiz (eds.), Trading in Knowledge. Development
Perspectives on TRIPS, Trade and Sustainability, London - Sterling, Earthscan Publicatios Ltd. 2003, 157 ss.; Prakruthi P.
Gowda e Ushashi Khan, Sacred but Vulnerable: A Critical Examination of the Adequacy of the Current Legal Framework
for Protection of Tribal Sacred Traditional Knowledge, in “NUJS Law Review”, 1, 2008, pp. 109 ss.; T.L. Gearhart-Sema,
Women’s Work, Women’s Knowing: Intellectual Property and the Recognition of Women’s Traditional Knowledge, in
“Yale Journal of Law & Feminism”, 21, 2009-2010, pp. 372.
36
Cfr. Tullio Seppilli (cur.), Salute e sanità come beni comuni: per un nuovo sistema sanitario, ESPS 33, 4: 369-381; R.
Avraham and K.A.D. Camara, The Tragedy of the Human Commons, «Cardozo L. Rev.», 29, 2007-2008, pp. 479 ss.
37
Cfr. Michael J. Madison, Brett M. Frischmann, Katherine J. Strandburg, The University as Constructed Cultural
Commons, in “Washington University Journal of Law & Policy”, 30, 2009, pp. 365 ss.
38
L’espressione ha ormai preso piede anche fuori dai movimenti: cfr. ASTRID (a cura di Vittorio Campione e Franco
Bassanini), Istruzione bene comune. Idee per la scuola di domani, Passigli, Firenze 2011.
39
Cfr. Agostino Petrillo, Ombre del comune: l’urbano fra produzione collettiva e spossessamento, cit.
locazioni (gentrification)40, infine l’idea del comune implica uno sguardo critico nei confronti del
fenomeno della privatizzazione dello spazio pubblico urbano, con il mall (centro commerciale) che
prende il posto della piazza e riduce gli spazi della democrazia41.
e) Da ultimo l’espressione bene comune si trova associata a «lavoro», a «informazione» (nel senso
di diritto di cronaca) e a «democrazia». Qui l’uso dell’espressione è svincolato dallo sfruttamento
e/o dalla gestione di una risorsa e evoca piuttosto complessi di istituzioni, relazioni politiche e/o
rapporti economici che hanno dignità costituzionale e funzione costituente un dato ordine sociale e
politico42.
4. Alla ricerca di una fisionomia comune. Questa approssimativa mappatura conferma
l’eterogeneità delle accezioni e dei contesti in cui l’espressione bene comune è impiegata.
Evidentemente è impossibile ricondurre alle diverse categorie uno statuto giuridico generale del
comune.
Anzi uno stesso statuto giuridico è da escludersi pure in riferimento alle prime due categorie.
L’espressione «proprietà intellettuale», comunemente usata per indicare diritti di esclusiva
sull’immateriale, infatti, non ha molto a che vedere con il diritto di proprietà, che è diritto di godere
e disporre di beni materiali43. Lo statuto giuridico del comune che emerge da questa varietà di
contesti è dunque da individuare di volta in volta, ma si può già anticipare che esso non
necessariamente si lega a forme giuridiche di appartenenza (individuale o collettiva) in senso
tecnico44.
Possiamo però individuare alcuni caratteri che queste diverse facce del comune condividono. Nel
corso di una serie di seminari che, grazie al sostegno del mio Dipartimento (un bene comune
anch’esso?), ho potuto organizzare nel passato anno accademico, abbiamo tentato di farlo
rivolgendoci soprattutto ad interlocutori provenienti da altre discipline: l’antropologia, la filosofia
politica, la sociologia, l’economia, la storia del diritto, ecc.
40
Un classico deve considerarsi Duncan Kennedy, The Effect of the Warranty of Habitability on Law Income Housing:
«Milking» and Class Violence, in “Florida State University Law Review”, 15, 1987, pp. 485 ss.; cfr. inoltre, Id., Legal
Economics of U.S. Low Income Housing in Light of «Informality Analysis», in “Journal of Law in Society”, 4, 2002, pp. 71
ss., e, fra i molti, Keith Aoki, Race, Space and Place: The Relation Between Architectural Modernism,
Postmodernism,Urban Planning, and Gentrification, in “Fordham Urban Law Journal”, 20, 1992, pp. 699 ss.
41
Cfr. Anne Bottomley, A Trip to the Mall. Revisiting the Public/Private Divide, in Hilary Lim and Anne Bottomley (eds.),
Feminist Perspectives on Land Law, Routledge Cavendish 2007, pp. 65 ss.
42
Alla questione del lavoro come bene comune è dedicata la IV parte di questo volume.
43
Cfr. Antonio Gambaro, Ontologia dei beni e jus excludendi, in “Comparazione e diritto civile”, giugno 2010 (file
reperibile all’indirizzo http://www.comparazionedirittocivile.it/prova/files/rav_gambaro_ontologia.pdf).
44
In tal senso chiare le indicazioni provenienti dalla Commissione Rodotà per la riforma della disciplina dei beni
pubblici, il cui Schema di disegno di legge delega introduce all’art. 1, comma 3, lett. c) la categoria dei beni comuni e
ne individua le caratteristiche strutturali e funzionali nello stretto legame coi diritti fondamentali delle generazioni
presenti e future, la destinazione alla fruizione collettiva, l’indifferenza rispetto alla titolarità in capo a soggetti
pubblici o privati e l’accesso di “ chiunque” alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla loro salvaguardia e
fruizione. L’articolato e una sintesi della relazione di presentazione possono leggersi infra in questo volume, parte II,
Appendice A.
L’approccio della Commissione rinvia, fra i vari profili di interesse, ad un modello di proprietà pubblica ‘debole’
inerente in origine alla demanialità così come concepita, secondo alcuni, nel Code Napoleon e nel codice italiano del
1865: cfr. sul tema Oberdan Tommaso Scozzafava, Vittorio Scialoja e la proprietà pubblica dei beni demaniali, in
“Rivista critica del diritto privato”, n.2/2007, pp. 195 ss. Una lettura dei beni demaniali (e pubblici in generale)
declinata alla luce delle esigenze dello Stato-collettività è ora fatta propria da Cass. SS.UU., 14 febbraio 2011, n. 3665,
infra, parte II, Appendice B.
i) Un primo carattere si definisce, dunque, in negativo, nella mancanza di un regime giuridico
comune ai beni che definiamo come commons. Ciò implica la diversità delle strategie da eleggere
caso per caso nell’affermare e difendere la natura di commons di una risorsa.
In alcuni casi il carattere di bene comune può trovare conferma in un regime giuridico che
semplicemente neghi la costituzione di diritti di esclusiva sul bene stesso: questo è quello che sta
accadendo (o che può accadere) per i geni, per la creazione di chimere, per alcune innovazioni
chirurgiche, ecc., rispetto a cui, dopo una prima fase di enclosures indiscriminate, comincia a
emergere un orientamento diverso45. Ma in molti altri casi questa via non è sufficiente a affermare il
carattere comune di una risorsa; e in alcuni altri, forme di esclusiva in capo ad una comunità (si
pensi a culture tradizionali ‘esotiche’, come nel caso maori, ad esempio) possono essere un utile
strumento per impedire un’indesiderata commodification di simboli, saperi, ecc., laddove un regime
di open access apre invece la strada all’appropriazione di utilità (e ad un’eventuale
commercializzazione) da parte di chiunque46.
Ciò esclude a mio avviso la possibilità di definire a priori (tutti) i commons come beni extra
commercium, riprendendo un’antica e ancora suggestiva classificazione romanistica47. Da una parte
la varietà di fisionomia e funzione dei beni potenzialmente ricompresi nella categoria, dall’altra la
pervasività del mercato come forma organizzativa dominante della società, sconsigliano a mio
avviso di assumere questo carattere fra quelli fondanti un comune statuto giuridico, pena la drastica
riduzione di estensione della categoria. La stessa vicenda dell’acqua implica una serie di questioni
inerenti al mercato – fissazione di tariffe, costi di gestione, ecc. – incompatibili con il regime delle
res extracommercium. In alcuni casi sono invece i limiti alla facoltà di disposizione, come nel caso
delle proprietà collettive, a caratterizzarne il regime giuridico; in molti altri il vincolo di
destinazione (la fruizione collettiva), che tende ad essere un carattere diffuso fra i commons,
sebbene forse con gradi di intensità diversi48. Tendenzialmente mi parrebbe un buon punto di
partenza affermare per tutti i beni comuni non l’esclusione dal mercato, quanto la sottrazione al
mercato concorrenziale e alle sue regole, prima di tutto quella del profitto49.
ii) Un tratto sicuramente condiviso da tutte le accezioni del comune prima individuate è invece il
legame fra risorsa (o servizio) e comunità50. La definizione di comune implica infatti una domanda:
comune a chi? Ora l’individuazione della comunità di riferimento, elemento chiaro ad es. nelle
proprietà collettive tuttora esistenti in molte regioni d’Italia, è un problema chiave nella definizione
di uno statuto giuridico per i beni comuni. La comunità si definisce in ragione dei legami sociali di
solidarietà che esistono o dovrebbero instaurarsi in relazione alla fruizione del bene comune: il
discorso è volutamente circolare poiché fra commons e comunità esiste una relazione per cui l’uno
risulta costitutivo dell’altra e viceversa. Inoltre i legami di solidarietà e l’individuazione della
comunità che insistono sul bene comune hanno anche una necessaria dimensione diacronica: quasi
45
V. supra, nota . Per una riflessione sul tema della brevettabilità del genoma umano ispirata alla teoria del doppio
movimento di Karl Polanyi cfr. Giorgio Resta, La privatizzazione della conoscenza e la promessa dei beni comuni:
riflessioni sul caso “Myriad Genetics”, in “Rivista critica del diritto privato”, n. 2/2011, pp. 281 ss.
46
Una “strategia antiegemonica” la definisce Simone Vezzani, I saperi tradizionali, cit., infra.
47
Vi fa cenno Antonello Ciervo, Il futuro che avevamo dimenticato, in “Parole chiave”, n. 1/2011, pag. 41 ss., cui
peraltro si deve un’interessante ricostruzione della nozione di usus facti che mostra come già nella scuola francescana,
dunque in epoca di diritto intermedio, fossero presenti entrambe le narrative, della proprietà individuale e della
proprietà collettiva.
48
V. supra, nota .
49
In tal senso mi pare si orienti Alessandro Somma, op. cit.
50
Cfr. Alberto Lucarelli, Note minime per una teoria giuridica dei beni comuni, in “Quale stato”, 2007, pp. 87 ss.
per definizione, la gestione di un bene comune deve tener conto degli interessi delle generazioni
future. Infatti il modello di comune che assumiamo dalle culture tradizionali con riguardo ad
esempio alla fruizione di una risorsa naturale (la foresta) o culturale (i saperi tradizionali di un
popolo) è appunto ritagliato sull’idea che i membri della comunità passano ma il bene comune deve
restare integro e come tale essere tramandato a chi verrà dopo, cosicché il focus si sposta dal
soggetto della relazione di appartenenza al bene stesso51.
Sennonché il punto è assolutamente problematico. In primo luogo poiché, a seconda delle risorse in
gioco, la comunità di riferimento può essere l’insieme delle persone che lavorano/studiano in una
scuola, la popolazione di un quartiere, la popolazione di una metropoli, una comunità nazionale o
l’intera umanità e non sempre ne risulta facile o incontestata l’individuazione. Per esempio Pompei
che crolla è un bene comune dell’umanità, delle italiane, o degli abitanti della zona? La risposta non
è indifferente posto che alla gestione partecipata e alla tutela del commons deve provvedere la
comunità di riferimento. Ed è dimostrato che formule di gestione comune sperimentate con
successo su una scala possono non risultare valide su un’altra scala52.
In secondo luogo, almeno in relazione ad alcune classi di beni, la definizione del comune attraverso
l’individuazione della comunità di riferimento può rivelarsi il suo punto debole, proprio con
riguardo alle sue potenzialità di trasformazione sociale, economica e politica. Infatti lo stretto
legame commons-comunità può ridurre l’affermazione del comune a fattore di conservazione dello
status quo, di enfatizzazione e rafforzamento delle caratteristiche etniche e sociali di una comunità,
o comunque renderla ininfluente rispetto all’obiettivo di una effettiva giustizia sociale,
neutralizzando le sue capacità redistributive. Il valore di un orto urbano, ad es., può non essere
troppo diverso nel quartiere residenziale alto-borghese rispetto al quartiere povero, sebbene nel
primo caso il suo significato culturale potrà assumere una venatura snob; ma non va trascurato che
le esternalità positive che eventualmente produce torneranno a vantaggio dei proprietari delle case
circostanti, aumentandone il valore, mentre esse non avranno probabilmente alcun impatto
significativo su di un piano sociale più generale. Se poi pensiamo all’università come bene comune,
allora non possiamo nasconderci che la Harvard Law School-as-commons garantisce alla comunità
di studenti, docenti e lavoratori che in essa opera ben altre utilità e opportunità rispetto a quelle
offerte alla propria comunità dalla Law School di Northeastern University, tanto per assumere come
esempio due università private che sorgono a pochi kilometri l’una dall’altra (nella area di Boston,
Massachusetts, in questo caso).
L’esempio mostra come, date determinate condizioni socio-economiche di partenza, l’affermazione
della natura di bene comune di una risorsa o istituzione non necessariamente inneschi un circuito
redistributivo rispetto alla collettività ampiamente intesa ovvero rispetto ad altre comunità di utenti
o cittadini, ma garantisca piuttosto una più equa fruizione delle utilità inerenti quel bene all’interno
della propria comunità di riferimento. Questo sembrerebbe essere ad un primo sguardo il limite
della teoria di Ostrom53.
51
Ciò giustifica il ricorso ad un paradigma olistico che vada oltre l’opposizione soggetto/oggetto propria della cultura
occidentale: in tal senso Ugo Mattei e Laura Nader, Plunder: When the Rule of Law is Illegal, cit. Ma valgono a mio
avviso le cautele espresse prima circa la percorribilità – almeno nell’immediato – di una via che rinneghi in radice la
modernità, ponendosi al di fuori delle strutture del diritto liberale in una prospettiva di rinvio o attesa sine die del
momento della trasformazione.
52
Cfr. in tema David Harvey, Il futuro dei beni comuni, in “Su la testa”, maggio 2011, pp. 48 ss.
53
Elinor Ostrom, Governare i beni collettivi. Istituzioni pubbliche e iniziative delle comunità, Venezia, Marsilio 2006.
Infine, nel pensare il diritto del comune, il riferimento alla comunità non deve ridursi all’evocazione
di un’entità astratta e idealizzata e va considerato criticamente. Mi sembra che il rapporto fra
metropoli e comune sia un passaggio fondamentale al riguardo54. Proprio l’idea di spazio urbano
come bene comune, nelle sue articolazioni, induce a rivisitare la nozione di comunità, che non può
essere intesa nel senso premoderno di comunità chiusa e statica. L’abitante della città è parte della
comunità-quartiere in cui vive, della comunità che utilizza i trasporti, della comunità-quartiere in
cui lavora e di cui utilizza i servizi, ecc. Questo serve ad una riconsiderazione dinamica del concetto
di comunità (come flusso o incrocio fra flussi), e nello stesso tempo ad una ridefinizione della
nozione di soggetto di diritto, che non scompare a causa della centralità acquisita dalla relazione
commons-comunità, ma non può più essere il soggetto del diritto liberale, cioè un’entità fissa nella
sua identità, centrata su se stessa, ponendosi in questa relazione a sua volta come punto di incrocio
di un fascio di rapporti55.
La necessità di ridefinire le nozioni di comunità e di soggettività giuridica alla luce dell’idea dello
spazio urbano-as-commons apre ad ulteriori ordini di riflessione. Da una parte la relazione soggettocomunità-comune è fondamentale rispetto alla possibilità di resistere a quelle dinamiche in virtù
delle quali lo sviluppo della metropoli, mentre si pone come principale fattore di disintegrazione dei
rapporti sociali, nel contempo costruisce e impone identità rigide e inesorabili, in senso sociale,
economico, etnico, di genere, separando sin sul piano spaziale i poveri dai ricchi (e all’interno della
classe medio-alta i colti – che privilegiano i quartieri gentrified – dagli ‘incolti’, che vivono in
suburbs, ‘residenze’, ecc.), le indigene dalle immigrate, le donne ‘al sicuro’ dalle donne ‘in
pericolo’56. La resistenza alla gentrification organizzata dagli abitanti di un quartiere, o la
conricerca realizzata nell’incontro fra donne di varia età e provenienza sul tema della sicurezza
nella propria città57, sono solo due esempi, fra i molti possibili, delle potenzialità
‘controgovernamentali’ insite nello strutturarsi di una comunità intorno ad un bene comune.
D’altra parte, la relazione soggetto-comunità-comune, si dice, può non essere emancipatoria. Si
pone dunque un problema ulteriore, un problema di potenziale frizione fra cooperazione e libertà
individuale. Il soggetto può rimanere ingabbiato nella relazione reciprocamente costitutiva fra bene
comune e comunità. È questa una preoccupazione avvertita in modo intenso in una certa letteratura
liberal nordamericana58, sulla quale credo si debba riflettere proprio a partire da un’idea
‘transitoria’ e dinamica di comunità.
iii) Si arriva così al terzo decisivo elemento di un possibile statuto giuridico dei beni comuni: la
gestione. O, più esattamente, la gestione collettiva e/o partecipata del bene comune. Diciamo subito
che, anche qui, la questione non è affatto semplice. L’idea di gestione partecipata incontra le stesse
obiezioni cui va incontro l’idea di democrazia diretta: ad es. quella di presupporre un’entità
omogenea preposta alla gestione, la comunità, che nella maggior parte dei casi non è affatto
omogenea, date le ovvie differenze culturali, sociali, di genere al suo interno (ritorna in termini
rovesciati la problematicità dell’elemento della comunità)59.
54
Cfr. Negri e Hardt, Commonwealth, cit., 153 ss.
Gerald Frug, Decentering Decentralization, in “University of Chicago Law Review”, 60, 1993, pp. 253 ss.
56
Cfr. Roberta Pompili, op.cit., infra.
57
Ibidem, infra. Un altro esempio di conricerca è illustrato in questo volume da Federico Greco - VAGI, Una mattina
davanti alle fabbriche, infra.
58
Cfr. Hanoch Dagan e Michael A. Heller, The Liberal Commons, in “Yale Law Journal”, 110, 2000-2001, pp. 549 ss.
59
Su questi problemi cfr. Tullio Seppilli, Sulla questione dei beni comuni, cit., infra.
55
D’altra parte uno strumento sia pur collaudato come quello cooperativo, ove applicabile, non
assicura affatto la gestione partecipata, dato il vizio dell’abuso di delega da cui è tendenzialmente
afflitto.
Alcuni elementi per pensare in positivo la gestione partecipata si desumono dalla regolamentazione
delle proprietà collettive ancora esistenti in Italia: innanzitutto il vincolo di destinazione sul bene,
che incide sulla gestione in funzione di limite. Se poi il carattere comune del bene si accompagna ad
una situazione di appartenenza collettiva, com’è appunto nel caso delle proprietà collettive, allora
forti limiti alla facoltà di disposizione connoteranno ovviamente l’attività di gestione.
Tuttavia la situazione di appartenenza non è carattere necessario del bene comune. Lo è certamente
invece la gestione partecipata, che quando non si esprime in forma di appartenenza deve
necessariamente manifestarsi almeno come facoltà di controllo e tutela in capo alla comunità60,
pena la riduzione del comune a pubblico e la sparizione stessa della dimensione del comune61.
Un possibile modello al riguardo si ritrova nella proposta di riforma dei beni pubblici licenziata
dalla c.d. commissione Rodotà: qui la categoria dei beni comuni è disegnata a prescindere
dall’appartenenza, cioè dalla titolarità della proprietà sul bene, che può essere pubblica o privata. Il
bene comune è piuttosto individuato in quanto necessario alla realizzazione dei diritti fondamentali
degli individui. In conseguenza di ciò ciascuno è legittimato ad agire in giudizio lamentando la
cattiva gestione del bene da parte di chi ne è formalmente titolare.
Si tratta di un modello non solo praticabile, almeno in teoria, nel sistema attuale, ma anche idoneo
ad essere accolto in modo favorevole poiché si avvale della retorica forte dei diritti fondamentali. Si
possono però muovere almeno due obiezioni di carattere politico al modello proposto: la tecnica dei
diritti fondamentali gioca sul terreno individuale e perciò occulta o trascura la dimensione collettiva
che dovrebbe invece connotare la gestione del bene comune; la dimensione individuale (ovvero
l’occultamento di quella collettiva) porta con sé a sua volta l’occultamento dei conflitti sociali e
politici che intorno ai beni comuni si agitano.
Il caso della ‘rapina’ delle risorse naturali e culturali ai danni dei popoli indigeni fornisce un
esempio dell’uno e dell’altro profilo.
Ma la relazione fra diritti fondamentali e beni comuni può forse essere guardata sotto un’altra luce.
Consideriamo il concetto di sanità come bene comune. L’idea di una gestione partecipata della
sanità impone di pensare lo stesso diritto fondamentale alla salute in un modo diverso: essa implica
un’organizzazione della sanità che sia in grado di realizzare il diritto alla salute di quella data
persona, insieme al diritto alla salute di ogni altra e ogni altro e dell’intera collettività. Ciò
comporta, ad esempio, una profonda rimeditazione dello stesso principio del consenso informato,
non più letto nella chiave individualista e gerarchica propria del rapporto contrattuale medico60
Le modalità di realizzazione di questi obiettivi – il controllo da parte della comunità e la sua tutela, ovvero una più
diretta partecipazione alla determinazione del piano di gestione – dipendono in larga misura dalle dimensioni della
comunità presa in considerazione. In tema di gestione partecipata due esperienze italiane assai recenti sono degne di
grande interesse anche in considerazione della differente dimensione delle comunità cui fanno capo, quella della c.d.
ripubblicizzazione del servizio idrico nel comune di Napoli e quella del Teatro Valle Occupato a Roma. Quanto alla
prima
si
veda
on-line
l’URL
http://femcacislarin.files.wordpress.com/2011/11/deliberazione_di_c-c-_n_32_del_26_ottobre_2011-docx.pdf.
La bozza di statuto del secondo può, invece, leggersi alla URL
http://www.dramma.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5068:bozza-statuto-nuovo-teatrovalle&catid=38:altre-notizie&Itemid=75.
61
La vicenda è peraltro ben nota storicamente: la ricostruisce assai bene Ferdinando Treggiari, Bene comune: la città
medievale, infra, a proposito della nascita e metamorfosi della polizia nelle città medievali. La stessa dinamica sta
pure dietro l’emergere del demanio pubblico (su cui v. supre, nota 45) rispetto ai beni non escludibili. La complessità
del rapporto fra comune e pubblico è peraltro resa evidente da Luca Nivarra, op. cit., infra.
paziente, ma nella prospettiva dell’incontro fra due saperi di pari dignità, entrambi fondamentali per
una gestione ‘in comune’ della sanità: il sapere tecnico-scientifico del medico e quello che proviene
dall’esperienza esistenziale del malato. In realtà, una volta assunto il diritto alla salute nella sua
dimensione concreta - dunque personale, relazionale e contestuale - la sua effettiva realizzazione
porta a conformare la stessa istituzione deputata a soddisfarlo62. Insomma l’idea è che i diritti
fondamentali possano acquistare una dimensione diversa – ed essere componente costitutiva della
gestione del bene – se visti nella prospettiva della solidarietà sociale, cioè all’interno della rete dei
legami sociali in cui sono esercitati. Analogo discorso può farsi per la città, immaginando i modi in
cui i diritti di cittadinanza (scontando per il momento l’ambiguità del termine), di libertà, di
autodeterminazione, l’aspirazione al wellness, alla democrazia, possano/debbano incidere sul suo
funzionamento, sul suo sviluppo, ecc. E lo stesso dicasi per l’istruzione e per l’università, dove il
diritto allo studio, attraverso la gestione partecipata del bene comune scuola o del bene comune
università, smette di essere semplice fruizione di servizi e di opportunità e diventa produzione
collettiva di cultura e di democrazia63. Insomma si tratta di rovesciare la logica oggi dominante in
Europa per cui il diritto ai servizi essenziali, sebbene fondamentale, è sostanzialmente visto come
oggetto di sussidi e di assistenza, in una parola come improduttivo, nient’altro che una voce di spesa
nel bilancio statale.
Resta un problema spinoso nel configurare l’esercizio dei diritti fondamentali come parte della
gestione dei beni comuni: la radice individuale dei diritti fondamentali trova conferma nella
struttura del processo, anch’essa tendenzialmente estranea alla dimensione collettiva.
Da questo scaturisce non solo la difficoltà dell’azione del singolo in termini di informazione,
iniziativa, ecc. ma anche il problema dei costi esorbitanti della giustizia che il singolo membro della
comunità può non essere in grado di sopportare64. Qui è possibile lavorare su una migliore
organizzazione e maggiore diffusione delle class actions, soprattutto superando l’idea che la class
action sia una sommatoria di pretese individuali ed esaltando invece la sua dimensione collettiva.
5. Le ragioni di un’indagine allargata. Il volume che queste pagine introducono non ha certo
l’ambizione di dettare uno statuto giuridico compiuto per i beni comuni. Cionondimeno esso
fornisce molti elementi in tale direzione e qualche utile indicazione di metodo: l’opportunità di
coltivare la ricerca sul versante giuridico con gli strumenti propri del giurista, non soltanto per
contribuire ad un dibattito che anche in Italia è ormai alquanto vivace, ma anche per individuare
soluzioni che consentano, a cominciare da singoli casi, di difendere e gestire i beni comuni qui e
ora; e l’esigenza, al tempo stesso, di farlo attraverso un fitto scambio interdisciplinare, il solo che
consente di vedere da angolazioni diverse cosa accade in una società retta da un sistema e da un
diritto nei quali la dimensione del comune è soppressa o comunque occultata.
62
Cfr. Alessandra Pioggia, Consenso informato ai trattamenti sanitari e amministrazione della salute, in “Rivista
trimestrale di diritto pubblico”, 2011, pp. 127 ss.
63
Per contro la gestione attuale del sistema dell’istruzione pubblica, che ne persegue la ‘modernizzazione’ attraverso
crescenti concessioni al privato giustificate dalla promessa della formazione professionalizzante, tende a
istituzionalizzare curiosi connubi fra istruzione propriamente detta e lavoro gratuito svolto dagli studenti. Per
un’analisi critica cfr. Giacomo Ficarelli – Gruppo con ricerca VAGI, Una panoramica sul lavoro oggi: dai tirocini al
capitalismo cognitivo, infra; Nunzia Parra, La disciplina dei tirocini formativi e d’orientamento nel tempo dell’ istruzione
messa al lavoro, infra.
64
Ugo Mattei, Providing Direct Access To Social Justice By Renewing Common Sense: The State, the Market, and some
Preliminary Question about the Commons, in http://uninomade.org/preliminary-question-about-the-commons/.
Il lavoro di ricerca interdisciplinare può inoltre aiutare a scoprire e a elaborare, per chi lo desideri,
pratiche interstiziali di affermazione – e/o di difesa dalla soppressione – del comune. Può trattarsi di
pratiche materiali come le ‘uglyfication strategies’ messe in campo in alcuni quartieri di Berlino a
rischio di gentrification65. Oppure possono essere pratiche che fanno leva sulle emergenze del
comune già presenti dentro il sistema giuridico, come nel caso dell’utilizzo in chiave antiegemonica
degli strumenti propri della proprietà intellettuale. È in ogni caso ovvio che la difesa o la
riappropriazione dei beni comuni non possono essere progettate dal giurista a tavolino, ma vanno
innanzitutto sperimentate nella prassi; nel diritto troveranno poi un momento importante di
razionalizzazione, purché il ricorso ad esso sia illuminato da una robusta analisi distributiva che
della soluzione giuridica individui le potenzialità di empowerment.
A questo proposito uno dei problemi fondamentali della gestione del comune, il problema
dell’accesso alla giustizia e dei suoi costi, potrebbe essere in parte affrontato proprio attraverso la
pratica del comune, praticando le facoltà di giurisprudenza come commons, ossia realizzando il
gratuito patrocinio attraverso quelle particolari esperienze didattiche che negli USA hanno nome di
law clinics e che consentono a studenti e docenti insieme di patrocinare cause di vario tipo a titolo
gratuito66. Dai ricorsi contro la vendita a scopo di speculazione edilizia dell’ex demanio militare in
attuazione del recente decreto sul federalismo demaniale67, alle cause contro la brevettazione di geni
che impediscono l’accesso a costi contenuti a importanti strumenti diagnostici, le possibilità di
praticare il comune a cominciare dalle nostre aule sono molte68.
***
Questo volume nasce da un ciclo di quattro seminari organizzati lo scorso anno nella facoltà
giuridica di Perugia per gli studenti del mio corso di diritto privato, e nella struttura ne rispecchia
grosso modo la sequenza.
Le prime due parti del libro hanno carattere generale. La prima parte è dedicata alla ricostruzione
della genealogia della proprietà privata, da un lato, e dei beni comuni, dall’altro, quali modelli
istituzionali contrapposti che nella tradizione occidentale si contendono il campo sul terreno del
governo delle risorse e del rapporto fra forme di appartenenza e comunità politica. È una analisi che
si avvale tanto della prospettiva filosofica, quanto di quella giuridica e economica, e si sviluppa sul
piano diacronico come su quello sincronico, mettendo in questione il dominio assoluto della
proprietà individuale.
Nella seconda parte, la riflessione antropologica mette a fuoco l’ampiezza e la complessità delle
questioni che si agitano intorno ai beni comuni e al loro governo, con ciò introducendo la
65
Con l’espressione «uglyfication» si vuole indicare un insieme di pratiche volte a tenere lontani i nuovi inquilini
borghesi: dal non riparare finestre rotte, al mettere il cibo in buste di plastica appese fuori alla finestra fingendo di non
avere il frigo, ecc. Queste pratiche vengono messe in opera dopo essere state decise collettivamente in assemblee di
quartiere.
66
Cfr. Luca Cruciani, Sperimentare il comune nelle facoltà di diritto: le law clinics, infra.
67
D.lgs. 28 maggio 2010, n. 85, «Attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio
patrimonio, in attuazione dell’articolo 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42».
68
Per un’esperienza italiana cfr. Barbara Winkler, Relazione al Seminario Imparare facendo. Cosa sono le cliniche legali
e perché vale la pena di introdurle nelle facoltà di giurisprudenza. Università degli Studi di Brescia, 13 maggio 2010,
reperibile al seguente link: HYPERLINK «http://www.adapt.it/acm-on-line/Home/.../documento7297.html»
www.adapt.it/
discussione di temi specifici, come la tutela costituzionale del diritto all’acqua, i meccanismi
giuridici che sono alla base del land grabbing, la protezione delle risorse materiali e immateriali dei
popoli indigeni. Ipotesi di resistenza contro lo spossessamento dei beni comuni sono esemplificate
nei materiali giurisprudenziali e legislativi raccolti in appendice.
La terza e la quarta parte del volume sono dedicate all’approfondimento di temi specifici. La terza
parte tratta dello spazio urbano come commons, tema che pienamente si iscrive nel dibattito attuale
sui beni comuni. A una campionatura dei principali problemi giuridici che si affollano intorno ad
una raffigurazione della città come bene comune seguono riflessioni di carattere sociologico, storico
e antropologico, che mettono al centro l’influenza dell’organizzazione dello spazio urbano sui
rapporti sociali e di genere. Il tema del controllo sulle relazioni e sui corpi tende ad emergere come
filo rosso dei contributi presentati.
La quarta e ultima parte del libro affronta la questione della qualificazione del lavoro in termini di
bene comune. La praticabilità politica di una tale soluzione è sottoposta ad analisi critica anche alla
luce delle trasformazioni che attraversano la nozione stessa di lavoro nella fase del capitalismo
cognitivo. La discussione che ne nasce è l’occasione per riflettere sulla commistione fra istruzione e
lavoro gratuito che va affermandosi nelle università italiane in ossequio all’ideologia della
formazione professionalizzante, uno fra i molti sottoprodotti della privatizzazione del comune.