Umanizzazione delle cure
Transcript
Umanizzazione delle cure
Anno 17, numero 4 – ottobre-dicembre 2012 CORP-1066312-0000-EMD-NL-12/2014 Poste italiane S.p.a. Sped. abb. postale - 70% - DCB - Roma Colloquia 4/12 Umanizzazione delle cure 22 Notti di guardia 28 ONCOMovies: dal cinema alle storie vere dei pazienti 3 Colloquia Anno 17 | N. 4 | ottobre-dicembre 2012 Periodico trimestrale riservato alla classe medica edito in collaborazione con Indice FOCUS UMANIZZAZIONE DELLE CURE L’altra metà del cielo 3 Manuela Campanelli Assistere le persone con condizioni croniche 5 Gavino Maciocco Il Progetto HuCare 8 (Humanization of Cancer Care in Italy) Intervista a Rodolfo Passalacqua, Caterina Caminiti Le cure psichiatriche: 10 consenso e alleanza terapeutica Luigi Ferrannini, Paolo F. Peloso Tre parole della sanità: 12 debole, fragile, vulnerabile Marco Geddes da Filicaia Quando comunicare è difficile. 14 Dal trattamento oncologico alle cure palliative Enrico Aitini, Luciano Orsi, Pier Paolo Vescovi Visto dal paziente. 16 Sulla comunicazione diseguale Lucia Fontanella LA MEDICINA E LE ARTI Notti di guardia 22 A cura di Giuseppe Naretto, Mauro Medaglia LA MSD SI RACCONTA ONCOMovies: dal cinema 28 alle storie vere dei pazienti A cura del Team Oncology, MSD Nausea e vomito da chemioterapia Intervista a Domenica Lorusso 29 LE RUBRICHE SALUTE ED ECONOMIA di Federico Spandonaro Le recenti manovre economiche e l’evoluzione del SSN 20 A cura di Daniela d’Angela, Cristina Giordani, Barbara Polistena SECONDO ME... di Giacomo Milillo Umano, troppo umano 18 A cura di Giacomo Milillo, Giuliano Bono A DIRE IL VERO di Tullio De Mauro Chimicità 27 L’ULTIMA PAROLA di Giuseppe De Rita L’esplosione della soggettività del paziente 31 Via Vitorchiano 151 – 00189 Roma Tel 06 36 19 11 – Fax 06 36 380 311 www.univadis.it Numero verde 800 23 99 89 Ogni farmaco menzionato deve essere usato in accordo con il relativo riassunto delle caratteristiche del prodotto fornito dalla ditta produttrice. Anno 17 N. 4 – ottobre-dicembre 2012 ISSN 1124-3805 Registrazione del Tribunale di Roma n. 244 del 16.05.1996 Il Pensiero Scientifico Editore Via San Giovanni Valdarno 8 – 00138 Roma Tel 06 862 821 – Fax 06 862 82 250 Internet: www.pensiero.it Stampa: Arti Grafiche Tris, Roma – gennaio 2013 Direttore responsabile: Giovanni Luca De Fiore Redazione: Manuela Baroncini Progetto grafico: Antonella Mion Prezzo: Fascicolo singolo €15,00 I contenuti pubblicati dalla rivista rispecchiano le opinioni degli Autori e non necessariamente quelle dell’Editore o della MSD Italia S.r.l. Contattando la redazione, è possibile richiedere le bibliografie relative ai singoli articoli. Le immagini: Alice Neel (1900-1984) In copertina: The Family (John Gruen, Jane Wilson and Julia), 1970 Pag. 3 Richard, 1969 Pag. 4 Nancy, 1980 Pag. 5 The Soyer Brothers, 1973 Pag. 8 Franck O’Hara, 1960 Pag. 10 David Bourdon and Gregory Battcock, 1970 Pag. 12 Isabel Bishop, 1974 Pag. 15 Portrait of Sam, 1958 Pag. 16 Elenka, 1936 Georg Baselitz (1938) Pag. 18 Wir daheim, 1996 Yves Laloy (1920-1999) Pag. 31 Tête à la Spirale L’Editore rimane a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni sulla riproduzione delle immagini pubblicate. Il contributo di G. Maciocco è apparso il 23 giugno 2011 su Salute Internazionale. L’intervista a R. Passalacqua e Caterina Caminiti è stata pubblicata su CASCO – Current Advances in Supportive Care in Oncology, n. 2:2011. Il testo di L. Ferrannini e Paolo F. Peloso è un estratto dall’articolo “I trattamenti senza consenso in psichiatria e in medicina tra norme, culture e pratiche. Appunti per una discussione”, pubblicato su Noos 1:2012. Il contributo di M. Geddes è apparso su Ricerca&Pratica 5:2012 nella rubrica Le parole della sanità, a cura dello stesso Geddes. L’articolo di E. Aitini, L. Orsi e P.P. Vescovi è stato pubblicato su Recenti Progressi in Medicina 2:2012. Il contributo di L. Fontanella è un estratto dal volume La comunicazione diseguale. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2011. focus Umanizzazione delle cure L’altra metà del cielo Passare dal “fare” all’”essere” sembra un controsenso per velocizzare un salto culturale che riporti la persona in primo piano rispetto alla malattia di cui soffre. Eppure solo esercitando le proprie capacità di farsi prossimo si diventa più sensibili ai bisogni degli altri. E il cammino verso una sanità più umana si accorcia. MANUELA CAMPANELLI* U na volta fare il medico era senz’altro più semplice di quanto lo possa essere oggi. Molti ostacoli, dettati dal rapporto con il paziente, venivano superati con la sapiente arte del non dire, soprattutto se si trattava di un tumore maligno. Piuttosto che comunicarlo all’interessato si preferiva adottare la strategia del glissare, dello sfumare o del nascondere la realtà. Malati eccellenti che non seppero di avere il cancro infatti non mancano. Uno di questi è stato Papa Giovanni XXIII. Secondo alcune fonti glielo dissero due giorni prima di morire. Per l’opinione pubblica soffriva di “gastropatia”, che non era certo una diagnosi precisa. Erano tempi diversi. Oggi c’è una legge da rispettare che obbliga a dare risposte precise al malato che domanda lo stato della propria salute: chi mente, o comunica in modo consapevole una diagnosi errata, va incontro a un’omissione o rifiuto d’ufficio. In altre parole è perseguibile legalmente. Ma c’è di più. Alla terza riga del decreto è specificato che “il paziente ha diritto all’informazione, che costituisce un’integrazione alla prestazione sanitaria”. La terapia non è dunque fatta solo di farmaci, ma anche di parole messe sapientemente insieme in un adeguato colloquio. La cura per farsi “umana” ha dunque bisogno della comunicazione, cioè di un “tempo di mezzo”, di un momento dedicato che si fa largo tra il frastuono della vita di chi la dà e di chi la riceve. Per metterla in pratica a regola d’arte il medico dovrebbe sedersi, ascoltare il suo assistito, fargli percepire la sua partecipazione per l’accaduto e parlargli più volte e a più riprese con cognizione di causa man mano che gli esami mettono in evidenza il problema. In questo modo il paziente capirebbe da solo di avere una neoplasia, una demenza, una malattia neurodegenerativa senza circoscrivere questa conoscenza a un momento preciso. Parlargli in seguito di tumore, Alzheimer o Parkinson sarebbe normale. Ma quante volte il dialogo diventa un’intesa reciproca che metta medico e paziente a proprio agio? Ancora troppo poche. La letteratura dimostra che un malato oncologico su tre ha un disagio psicologico che non trova un interlocutore. Chi è stato medico ed è diventato paziente per via di una seria malattia che l’ha catapultato all’improvviso dall’altra parte della barricata non ha dubbi: il tono e le parole con cui si conduce oggi il colloquio sono ancora spesso lasciate all’istintiva sensibilità del medico. E questo non basta. Per traghettare verso una medicina diversa che promuova l’idea che non c’è solo un corpo che soffre e che ha bisogno di cure, ma anche una mente e un cuore da prendere in carico, diverse teorie sono state pensate. Gianni Bonadonna, il famoso oncologo dell’Istituto dei Tumori di Milano colpito da ictus, ha per esempio chiesto per mezzo del suo libro “Medici umani, pazienti guerrieri” (2008, Baldini, Castoldi e Dalai), un COLLOQUIA 3 Focus Umanizzazione delle cure | L’altra metà del cielo Il Progetto HuCare (HUmanization in CAncer caRE), terminato a settembre di quest’anno, ha previsto per esempio di affidare a ogni paziente oncologico un infermiere di riferimento: nelle 29 strutture oncologiche che hanno adottato questo nuovo modello di assistenza l’incidenza del disagio psico-sociale dei malati ricoverati o in chemioterapia è sceso dal 34 al 10%. nuovo esame per i giovani medici: quello di umanità. Lui e altri due primari-malati, Sandro Bartoccioni e Francesco Sartori, autori tutti e tre del libro “Dall’altra parte” (2006, Bur), hanno invocato una rivoluzione in Medicina per promuovere la “cultura del conforto” che dà ai bisogni umani del paziente pari dignità e importanza del sapere scientifico. Il riportare l’attenzione sulla persona nella sua totalità (la medicina classica e medioevale si avvaleva già di un approccio olistico, come testimoniano gli scritti d’Ippocrate e di Ildegarda di Bingen proclamata quest’anno Dottore della Chiesa Universale da Papa Benedetto XVI) è diventato dunque un tema di grande attualità. Il Progetto HuCare (HUmanization in CAncer caRE), terminato a settembre di quest’anno, ha previsto per esempio di affidare a ogni paziente oncologico un infermiere di riferimento: nelle 29 strutture oncologiche che hanno adottato questo nuovo modello di assistenza l’incidenza del disagio psico-sociale dei malati ricoverati o in chemioterapia è sceso dal 34 al 10%. La legge sulle cure palliative e la terapia del dolore, varata il 15 marzo 2010, ha finalmente riconosciuto il dolore cronico come una vera e propria malattia e sancito il diritto di ogni cittadino a essere curato da esso, indipendentemente da età, tipo di malattia, luogo di nascita e ceto sociale. Nella maggior parte delle Terapie Intensive regionali è inoltre in corso un graduale processo di apertura ai famigliari, che allarga le fasce orarie di visita e abolisce l’uso di camici, cuffie e soprascarpe. La nuova branca della medicina di Genere cerca di assicurare all’uomo e alla donna farmaci adeguati alle loro caratteristiche: l’umanizzazione delle cure passa infatti anche attraverso la personalizzazione delle terapie. Iniziative importanti che, sebbene spesso frenate nella loro attuazione dai limiti attuali di spesa e dai risicati budget di cui si dispone, hanno dato al tema di una medicina più a misura d’uomo una dimensione collettiva. Ciononostante il giro di boa che ribalti una volta per tutte il circolo vizioso, dettato da un sistema sanitario e sociale che fa adeguare la persona alla sua offerta piuttosto che modularsi sui suoi bisogni, si fa attendere. I nuovi media, da Internet ai tablet, agli smartphone e ai social network, potrebbero velocizzare una maggior presa di coscienza? Forse solo in parte. Il giornalismo oggi va di corsa e sembra non avere tempo di fermarsi per approfondire tematiche complesse come l’umanizzazione delle cure. Le innovative tecnologie lo hanno fatto diventare senz’altro più fruibile (gli internauti in Italia sono aumentati in tre anni di oltre il 25%, passando da 16 a 20 milioni) ma al contempo lo hanno reso più frenetico penalizzandone in parte la qualità e la continuità dei contenuti. Se la comunicazione si è fatta da un lato più versatile, dall’altro è diventata più breve, istantanea, frammentata. Prendiamo per esempio Twitter: i suoi messaggi sintetici composti al massimo di 140 caratteri possono aiutare, secondo voi, i cittadini a sapere e a capire le problematiche che si celano dietro l’umanizzazione delle cure? La cultura del sollievo, dell’aiuto, del conforto dovrebbe in realtà avvalersi di un percorso interiore che porti ognuno di noi, compresi i pazienti, gli operatori sanitari e i rappresentanti delle Istituzioni, a pensare non solo alla vita ma anche un po’ alla sua fine. Sigmund Freud diceva che la vita senza la morte è come un film americano, cioè insipido, insignificante. E non gli si può certo dare torto. Oggi si consumano i propri giorni senza mai occuparsi del morire: ci si danna per pianificare ogni cosa tranne ciò che ci metterà di più alla prova. Ecco, prima di cimentarsi nell’esercizio di riumanizzare la medicina varrebbe forse la pena di passare dal “fare” all’”essere” per creare i presupposti di relazioni personali più autentiche. Il resto verrebbe più facilmente da sé. *Giornalista scientifico. La nuova branca della medicina di Genere cerca di assicurare all’uomo e alla donna farmaci adeguati alle loro caratteristiche: l’umanizzazione delle cure passa infatti anche attraverso la personalizzazione delle terapie. 4 COLLOQUIA focus Umanizzazione delle cure Assistere le persone con condizioni croniche Sta emergendo un generale consenso internazionale sul fatto che per migliorare l’assistenza alle persone con condizioni croniche è necessario un approccio più ampio. È necessario sollevare l’orizzonte del sistema sanitario dalla malattia alla persona e alla popolazione. GAVINO MACIOCCO* Modelli assistenziali innovativi in un documento canadese L’approccio focalizzato sulla persona (person-focused care) Il documento del Canadian Academy of Health Sciences, “Transforming care for Canadians with chronic health conditions”1, rappresenta un contributo importante e originale nella letteratura scientifica interessata alla gestione delle malattie croniche. Per tre motivi. 1. Per un motivo (apparentemente) lessicale. Nel titolo infatti il focus non sono, come abitualmente avviene, le malattie ma le persone (“Canadians”) e lo stesso termine “malattia” (“disease”) è sostituito da un più generico “chronic health conditions”. In realtà non è questione di lessico: il documento infatti sposa l’approccio focalizzato sulla persona (person-focused), rispetto all’approccio dominante focalizzato sulla malattia (disease-focused). 2. Altro elemento di grande “richiamo” è la composizione del panel di esperti incaricati di fornire al governo canadese le raccomandazioni sul tema: oltre a un nutrito e qualificato gruppo di esponenti canadesi, figurano nel panel i più importanti innovatori nel campo delle cure primarie: da Ed Wagner (MacColl Institute for Healthcare Innovation) a Raymond J. Baxter (Kaiser Permanente), con un contributo speciale di Barbara Starfield. 3. Il documento mette a disposizione dei lettori una bibliografia completa e veramente esauriente, presentata in modo organico e ragionato. Per chi è interessato ad approfondire il tema una vera miniera, da non perdere. Il documento tratta una molteplicità di questioni dalla definizione di “chronic health conditions” all’impatto di queste sull’economia e sulla sostenibilità di un sistema sanitario pubblico (come quello canadese), dal concetto di “personfocused care” alla necessità che questo concetto si incardini nelle politiche dei sistemi sanitari (non solo quello canadese). Tratteremo qui solo un aspetto, peraltro uno dei più approfonditi: quello dei modelli assistenziali innovativi. Il punto di partenza è il seguente: sta emergendo un generale consenso internazionale sul fatto che per migliorare l’assistenza alle persone con condizioni croniche è necessario un approccio più ampio (a more comprehensive approach). “È necessario sollevare l’orizzonte del sistema sanitario dalla malattia alla persona e alla popolazione”. I modelli assistenziali innovativi Chronic Care Model Il Chronic Care Model (CCM) (figura 1), capostipite dei modelli innovativi, elaborato da Ed Wagner, si basa su sei fondamentali elementi2,3. 1. Le risorse della comunità. Per migliorare l’assistenza ai pazienti cronici le organizzazioni sanitarie devono stabilire solidi collegamenti con le risorse della comunità: gruppi di volontariato, gruppi di auto aiuto, centri per anziani autogestiti. COLLOQUIA 5 Focus Umanizzazione delle cure | Assistere le persone con condizioni croniche Figura 1. Chronic Care Model. Informed, activated patient Productive interactions Prepared, proactive practice team Improved outcomes 2. Le organizzazioni sanitarie. Una nuova gestione delle malattie croniche dovrebbe entrare a far parte delle priorità degli erogatori e dei finanziatori dell’assistenza sanitaria. Se ciò non avviene difficilmente saranno introdotte innovazioni nei processi assistenziali e ancora più difficilmente sarà premiata la qualità dell’assistenza. 3. Il supporto all’auto-cura. Nelle malattie croniche il paziente diventa il protagonista attivo dei processi assistenziali. Il paziente vive con la sua malattia per molti anni; la gestione di queste malattie può essere insegnata alla maggior parte dei pazienti e un rilevante segmento di questa gestione – la dieta, l’esercizio fisico, il monitoraggio (della pressione, del glucosio, del peso corporeo, ecc.), l’uso dei farmaci – può essere trasferito sotto il loro diretto controllo. Il supporto all’auto-cura significa aiutare i pazienti e le loro famiglie ad acquisire abilità e fiducia nella gestione della malattia, procurando gli strumenti necessari e valutando regolarmente i risultati e i problemi. 4. L’organizzazione del team. La struttura del team assistenziale (medici di famiglia, infermieri, educatori) deve essere profondamente modificata, introducendo una chiara divisione del lavoro e separando l’assistenza ai pazienti acuti dalla gestione programmata ai pazienti cronici. I medici trattano i pazienti acuti, intervengono nei casi cronici difficili e complicati, e formano il personale del team. Il personale non medico è formato per supportare l’auto-cura dei pazienti, per svolgere alcune specifiche funzioni (test di laboratorio per i pazienti diabetici, esame del piede, ecc.) e assicurare la programmazione e lo svolgimento del follow-up dei pazienti. Le visite programmate sono uno degli aspetti più significativi del nuovo disegno organizzativo del team. 5. Il supporto alle decisioni. L’adozione di linee guida basate sull’evidenza forniscono al team gli standard per fornire un’assistenza ottimale ai pazienti cronici. Le linee guida sono rinforzate da un’attività di sessioni di aggiornamento per tutti i componenti del team. 6. I sistemi informativi. I sistemi informativi computerizzati svolgono tre importanti funzioni: 1) come sistema di allerta che aiuta i team delle cure primarie ad attenersi alle linee guida; 2) come feedback per i medici, mostrando i loro livelli di performance nei confronti degli indicatori delle malattie 6 COLLOQUIA Le sei componenti del CCM sono interdipendenti, costruite l’una sull’altra. Le risorse della comunità – per esempio le attività di una palestra – aiutano i pazienti ad acquisire abilità nell’auto-gestione. La divisione del lavoro all’interno del team favorisce lo sviluppo delle capacità di addestramento dei pazienti all’auto-cura da parte degli infermieri. L’adozione di linee guida non sarebbe attuabile senza un potente sistema informativo che funziona da allerta e da feedback dei dati. Come obiettivo finale Il CCM vede un paziente informato che interagisce con un team preparato e proattivo, con lo scopo di ottenere cure primarie di alta qualità, un’utenza soddisfatta e miglioramenti nello stato di salute della popolazione. Il CCM è stato adottato dall’OMS e largamente introdotto nelle strategie d’intervento dei sistemi sanitari di diversi paesi, dal Canada all’Olanda, dalla Germania al Regno Unito. Il Regno Unito, adottando integralmente il modello, ne ha modificato l’impianto grafico4 (figura 2). Expanded Chronic Care Model Un gruppo di ricercatori canadesi ha proposto una versione allargata (“expanded”) del CCM, dove gli aspetti clinici sono integrati da quelli di sanità pubblica, quali la prevenzione primaria collettiva e l’attenzione ai determinanti della salute; gli outcome non riguardano solo i pazienti ma le comunità e l’intera popolazione5. Kaiser Permanente’s risk stratification model Kaiser Permanente ha integrato il modello di Ed Wagner con una particolare attenzione alla stratificazione del rischio e una Figura 2. National Health Service Social Care and Chronic Disease Management Model. Delivery system Infrastructure Case management Better outcomes Community resources Decision support tools and clinical information system Desease management Supported self care Health and social care system environment Promoting better health Creating Health system Supporting Community Resources Health care organization and Policies Self-management Delivery Decision Clinical support system support infprmation design systems croniche, come i livelli di emoglobina A1c e di lipidi; 3) come registri di patologia per pianificare la cura individuale dei pazienti e per amministrare un’assistenza “population-based”. I registri di patologia – una delle caratteristiche centrali del CCM – sono liste di tutti i pazienti con una determinata condizione cronica in carico a un team di cure primarie. Empowered and informed patients Prepared and proactive health and social care teams Focus Umanizzazione delle cure | Assistere le persone con condizioni croniche Figura 3. Kaiser Permanente’s risk stratification model. Population management More than care and care management Deciding the right approach Level 3 As people develop more one chronic condition (co-morbidities), It is important to have their care becomes disproportionately more complex and difficult the information and knowledge for them, or the health and social care system, to manage. to be able to carry out Level 3 This calls for case management – with a key worker (often a nurse) a risk-stratification on local actively managing and joining up care for these people. Highly complex populations to identify those patients who are most at risk. Case Management Level 2 High risk patients Care Management Level 1 70-80% of a Chronic Care Management population Level 2 Disease/care management, in which multidisciplinary teams provide high quality evidence based care to patients, is appropriate for the majority of people at this level. This means proactive management of care, following agreed protocols and pathways for managing specific diseases. It is underspinned by good information systems – patient registries, care planning, shared electronic health records. Level 1 With the right support many people can learn to be active participants in their own care, living with and managing their conditions. This can help them to prevent complications, slow down deterioration, and avoid getting further conditions. The majority of people with chronic conditions fall into this category – so even small improvements can have a huge impact. Health promotion differenziazione delle strategie d’intervento in relazione ai differenti livelli di rischio (figura 3). Patient Centered Medical Home Il modello si basa sul fatto che la persona ha un medico di riferimento che si fa carico dei suoi problemi di salute, garantendo il coordinamento, la continuità e la globalità degli interventi; la persona ha accesso a un team assistenziale interprofessionale che dispone di avanzati strumenti informativi; il miglioramento della qualità del servizio e la sicurezza del paziente sono gli obiettivi-chiave del team6. Questi modelli assistenziali hanno in comune molti elementi che qui elenchiamo. 1. Il passaggio da un’assistenza “reattiva” a un’assistenza “proattiva”. 2. Un’assistenza basata sulla popolazione, sulla stratificazione del rischio e su differenti livelli di intensità assistenziale. 3. Il riconoscimento che le cure primarie devono essere il punto centrale (Hub) dei processi assistenziali con forti collegamenti con il resto del sistema. 4. L’erogazione di un’assistenza focalizzata sui bisogni individuali della persona, nel suo specifico contesto sociale. 5. La presenza di sistemi informativi evoluti. 6. Poter far leva sulla partecipazione comunitaria. 7. Investire sull’auto-gestione dei pazienti e dei caregivers. 8. Disporre di linee guida in grado di tener conto della comorbilità. 9. Basarsi su team multiprofessionali che puntano al miglioramento continuo. Bibliografia 1. Nasmith L, Ballem P, Baxter R, et al. Transforming care for Canadians with chronic health conditions: Put people first, expect the best, manage for results. Ottawa, ON, Canada: Canadian Academy of Health Sciences, 2010. 2. Wagner EH. Chronic disease management: what will it take to improve care for chronic illness? Eff Clin Pract 1998; 1: 2-4. 3. Bodenheimer T, Wagner EH, Grumbach K. Improving primary care for patients with chronic illness. JAMA 2002; 288: 1775-9. 4. From An NHS and Social Care Model for Improving Care for People with Long Term Conditions (The NHS and Social Care Long Term Conditions Model section, 1) by the Department of Health, 2010. 5. Barr VJ, Robinson S, Marin-Link B, et al. The expanded chronic care model: an integration of concepts and strategies from Population Health Promotion and the Chronic Care Model. Healthc Q 2003; 7: 73-82. 6. American College of Physicians. The Advanced Medical Home: A Patient-Centered, Physician-Guided Model of Health Care. January 22, 2006. *Dipartimento di Sanità Pubblica, Università di Firenze; promotore e coordinatore del progetto Salute Internazionale, www.saluteinternazionale.info COLLOQUIA 7 focus Umanizzazione delle cure Il Progetto HuCare (Humanization of Cancer Care in Italy) Quando parliamo di cure più umane ci riferiamo in buona parte anche a terapie di supporto. Molte delle cure psicosociali sono di “supporto” alle cure tradizionali antineoplastiche. Basti pensare al sostegno psicologico per ridurre l’ansia e la depressione, ma anche al ruolo chiave dell’informazione e dell’educazione dei malati e dei familiari. Intervista a RODOLFO PASSALACQUA*, CATERINA CAMINITI** L a maggior parte dei malati di cancro soffre di disagio psicologico e di problemi sociali che rendono più difficile affrontare la malattia e aderire ai trattamenti. Numerosi studi forniscono raccomandazioni basate su evidenze per aiutare il personale sanitario a identificare i malati più vulnerabili, così da offrire loro un appropriato supporto psicosociale. Malgrado le raccomandazioni scientifiche, circa il 30-40% dei pazienti non riceve cure basate su evidenze. Da qui la necessità di individuare strategie che favoriscano la traduzione dei risultati della ricerca in pratica clinica. Negli ultimi 10 anni sono stati condotti diversi studi per individuare strategie volte a favorire il cambiamento del comportamento professionale, ma una metanalisi ha evidenziato che anche il contesto sociale, organizzativo ed economico è un importante ostacolo all’adozione di interventi basati su prove3. Con “contesto” si intende, tra l’altro: • mancato supporto da parte della Direzione; • disaccordo all’interno dell’équipe; • ambiente sfavorevole all’apprendimento; • carico di lavoro eccessivo; • non consapevolezza dei problemi; • assenza di procedure, risorse e spazi adeguati. 8 COLLOQUIA Come nasce e perché il progetto HuCare? Il progetto HuCare, Humanization in Cancer Care, vuole promuovere la umanizzazione dell’assistenza offerta ai pazienti oncologici in Italia. La letteratura dimostra che una proporzione considerevole di pazienti con cancro sviluppa disagio psicologico (ansia e/o depressione) in conseguenza della malattia o delle cure, che spesso i pazienti non ricevono informazioni sufficienti circa i diversi aspetti della loro malattia e delle cure per una impreparazione dei sanitari a comunicare in modo efficace. Inoltre, i malati e le loro famiglie si trovano ad affrontare difficoltà di natura sociale che richiedono supporti specifici (es. alloggio, trasporto, intervento dell’assistente sociale), problemi essenziali che però frequentemente rimangono irrisolti, anche perché raramente segnalati dagli utenti stessi. La dimensione psicosociale della malattia risulta strettamente correlata alla dimensione medica: di fatti, è stato dimostrato che influenza molteplici aspetti quali i sintomi, la capacità di affrontare la malattia, il coinvolgimento decisionale del paziente, il suo grado di soddisfazione e l’adesione terapeutica. Quali sono gli obiettivi e come si sviluppa il progetto? Il progetto intende migliorare lo stato psicosociale dei pazienti attraverso l’implementazione negli ospedali di interventi di dimostrata efficacia, selezionati già da una task-force dell’AIOM sin dal 2006. Le tre grandi aree su cui si è interviene sono: il miglioramento della comunicazione e della relazione tra paziente e operatori sanitari, la soddisfazione dei bisogni informativi dei malati, il rilevamento tempestivo e routinario del disagio psicologico e dei bisogni sociali, un nuovo ruolo degli infermieri di oncologia. Lo studio, che si è appena concluso, ha avuto la durata di tre anni, e ha visto la partecipazione di 33 oncologie situate prevalentemente in Lombardia. La metodologia seguita è quella descritta in letteratura per gli studi di implementazione, in cui fondamentalmente si attua un’attenta Focus Umanizzazione delle cure analisi del contesto di ogni centro e un diretto coinvolgimento di tutti gli operatori, al fine di identificare le barriere all’introduzione degli interventi previsti e condividere le possibili soluzioni da adottare. Durante l’attuazione dello studio sono stati forniti ai centri diversi tipi di supporto da parte di infermieri, psicologi e sociologi del Gruppo di Coordinamento del progetto e strumenti di lavoro indispensabili per favorire il cambiamento. Per i centri partecipanti, il progetto ha rappresentato una grande opportunità di intraprendere un processo di miglioramento verso l’umanizzazione dell’assistenza, ponendo al centro anche i bisogni informativi e psicosociali dei pazienti. Relativamente alla prima grande area, in che modo il progetto HuCare vuole favorire la comunicazione medico-paziente? Fondamentalmente attraverso due interventi di dimostrata efficacia: la formazione alla comunicazione per gli oncologi e per gli infermieri e la lista di domande per i pazienti. La letteratura dimostra che le abilità comunicative dei | Il Progetto HuCare (Humanization of Cancer Care in Italy) Una ulteriore area critica sembra essere, come dicevate, quella dell’informazione al paziente e della sua educazione... Nonostante la maggior parte dei pazienti oncologici desideri ricevere informazioni accurate sui diversi aspetti dalle malattia, troppo spesso questo bisogno rimane inascoltato. Si sa che le informazioni devono essere date non solo dal medico ma anche dall’infermiere che è spesso anche la figura più vicina al malato. Il progetto mira a garantire la corretta informazione ed educazione dei pazienti tramite l’attuazione di un percorso fatto da tre interventi specifici: 1. l’infermiere di riferimento, incaricato di accogliere il paziente in reparto, analizzare e rispondere al suo bisogno, orientarlo e assicurare che segua tutte le procedure previste dal protocollo; 2. l’istituzione del PIS (Punto Informativo e di Supporto), ossia uno spazio fisico gestito da personale infermieristico specializzato al quale deve essere garantito l’accesso a tutti i nuovi pazienti almeno per un primo colloquio; Le tre grandi aree su cui si è interviene sono: il miglioramento della comunicazione e della relazione tra paziente e operatori sanitari, la soddisfazione dei bisogni informativi dei malati, il rilevamento tempestivo e routinario del disagio psicologico e dei bisogni sociali, un nuovo ruolo degli infermieri di oncologia. professionisti sanitari possono essere apprese, e che l’effetto della formazione perdura nel tempo. Il progetto ha previsto un corso di formazione per oncologi finalizzato al miglioramento delle loro competenze comunicative. Per quanto riguarda invece la lista di domande, bisogna considerare che i pazienti sono spesso reticenti a fare domande al medico. È stato dimostrato che l’uso di una lista di possibili domande consegnata al paziente prima della visita con l’oncologo porta a un miglioramento della comunicazione secondo indicatori oggettivi e soggettivi. Il progetto ha previsto l’uso presso tutti i centri di una lista di domande validata in Italia secondo le indicazioni della letteratura. 3. la formazione per infermieri ossia l’attuazione di un programma formativo rivolto agli infermieri dei centri aderenti al fine di migliorare la relazione col paziente e la gestione dei bisogni informativi. Che ruolo hanno le terapie di supporto nel contesto di una cura più umana alla persona sofferente di tumore? Quando parliamo di cure più umane ci riferiamo in buona parte anche a terapie di supporto. Molte delle cure psicosociali sono di “supporto” alle cure tradizionali antineoplastiche. Basti pensare al sostegno psicologico per ridurre l’ansia e la depressione, ma anche al ruolo chiave del’informazione e dell’educazione dei malati e dei familiari. Un malato istruito e adeguatamente informato è in grado di gestire molto meglio gli effetti collaterali della terapia: dalla nausea/vomito alle complicanze intestinali (talora molto gravi e pericolose per la vita) a quelle infettive. Ma non solo, come riportato in vari studi, l’informazione ha anche lo scopo di preparare i pazienti al loro percorso di cura, favorire l’adesione terapeutica, aiutarli ad adeguarsi alla nuova situazione e ove possibile facilitare la guarigione. Per tale motivo, nel nostro progetto HuCare è stata introdotta la figura del l’infermiere di riferimento, che fornisce indicazioni e consigli, soprattutto riguardo aspetti attinenti alla vita quotidiana, come i sintomi, la gestione degli effetti collaterali del trattamento, le questioni familiari, ecc., dedicando al paziente il tempo necessario e utilizzando un linguaggio appropriato alle sue capacità di comprensione, contribuendo così anche a rinforzare e chiarire quanto riferito dall’oncologo durante la visita. Nella vostra esperienza, con quale frequenza il malato soffre disagi evitabili per la mancata somministrazione di terapie specifiche? Almeno 1/3 dei pazienti con cancro ha disagi che potrebbero essere evitabili o nettamente ridotti nelle loro conseguenze se adeguatamente trattati. Quello che rileviamo più spesso è la mancata educazione dei malati e dei caregiver alla prevenzione e gestione delle complicanze. Faccio due esempi: un malato che arriva in ospedale dopo 3-4 giorni di diarrea e stomatite da chemioterapia, con grave disidratazione e squilibrio elettrolitico oppure un altro caso in cui insorge febbre dopo 8-10 giorni dalla terapia (dovuta al calo dei globuli bianchi), senza aver iniziato cure tempestive. Le conseguenze spesso gravissime di entrambe queste situazioni (purtroppo frequenti nella pratica clinica) sarebbero ridotte o annullate solo con una migliore informazione e comunicazione fra sanitari e fra loro e i pazienti. *Oncologia Medica, Istituti Ospitalieri di Cremona; **Ricerca e Innovazione, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma. COLLOQUIA 9 focus Umanizzazione delle cure Le cure psichiatriche: consenso e alleanza terapeutica Lavorare dentro il mondo interno del paziente, dentro il contesto e dentro il sistema curante vuol dire aprire spazi di senso e di speranza per la cura e nella cura. LUIGI FERRANNINI*, PAOLO F. PELOSO* Trattamento senza consenso e malattia mentale La libertà di cura – hanno scritto recentemente Ciliberti e Alfano1 – “rappresenta una dimensione cruciale della medicina e, in generale, di una società democratica, e certamente non può configurarsi un consenso responsabile avulso da una dimensione di libertà, benché non sia facile analizzare la complessa e varia modulazione in cui avviene la scelta della cura, particolarmente in pazienti che abbiano condizioni di grave prostrazione e siano contrassegnati dall’angoscia, dall’inquietudine, dalla disperazione o anche da una consapevolezza intermittente”. Nuove e più differenziate forme di “non consenso/rifiuto del trattamento” rappresentano oggi l’aspetto più movimentato della psichiatria sotto il profilo culturale, tecnico e – forse – legislativo, attraverso il riferimento e la legittimazione di nuovi strumenti e procedure, basate sul principio di autodeterminazione (l’”adulto competente” può decidere di non curarsi) e di beneficialità (il soggetto ha il diritto di decidere, ma anche di avere accesso alle cure, e di sapere che le cure che gli vengono proposte sono di comprovata efficacia), nella cui ottica bisognerebbe sviluppare ricerche in tema di outcome a lungo termine dei trattamenti prolungati senza consenso, e di qualsiasi altra forma di obbligatorietà di cura. Si tratta dello spostamento delle relazioni di cura da un rapporto paternalistico a uno contrattualistico, con 10 COLLOQUIA la centralità di aspetti multifattoriali (relazionale/psicologico, influenza della cultura, della spiritualità, dei fattori di contesto). Si innesta, per questa via, il ridimensionamento della “lettura psicopatologica” del rifiuto delle cure come caso specifico e da dimostrare, e non come cornice onnicomprensiva, attraverso una nuova visione dei disturbi psichiatrici e del rapporto tra psicopatologia e persona. Una nuova attenzione a questi problemi apre inoltre la tematica del rifiuto al trattamento ad un approccio multidisciplinare e multiprofessionale, consentendo un intreccio, una integrazione e il confronto con le altre discipline (psicologia, antropologia, etica, sociologia, diritto, ecc.) e le altre “specialità” mediche (neurologia, geriatria, oncologia, nefrologia, cure palliative, ecc.). I paradigmi portanti si complessizzano e si intrecciano: la malattia mentale (“ti devi curare perché non capisci che ti serve”), ma anche la malattia infettiva (“ti devi curare per non danneggiare gli altri”), la malattia oncologica, nefrologica, endocrino-metabolica (“ti devi curare altrimenti muori”), la Focus Umanizzazione delle cure malattia degenerativa (“ti curiamo per il tuo bene, anche se tu non ne sei consapevole”) ed altro ancora. Il punto centrale resta quello di raccogliere per quanto possibile la volontà del soggetto, connessa tuttavia alla sua capacità (reale o presunta) di valutare correttamente le necessità ed i rischi, a tutela della sua salute ma anche di quella di soggetti terzi. Non a caso, in questo quadro ha avuto una scarsa influenza il paradigma della tossicodipendenza (per una connotazione di vizio, prima che di malattia), affrontata attraverso forme soft di costrizione al trattamento spesso attivate dall’evento reato e da misure di tipo amministrativo (vedi Legge 485/75 e successiva legislazione specifica); senza dimenticare alcune recenti forme soft di accertamento sanitario obbligatorio (ASO), come il controllo dell’alcolemia con l’etilometro e la visita specialistica sul posto in riferimento a problemi di guida. Quindi si conferma la centralità del paradigma dell’”adulto competente” (sa quello che vuole e fa quello che deve… ma allora come ci comportiamo con i minori?), mentre restano ambiguità sul processo decisionale: chi decide? Quando decide? Con chi decide? Per cosa decide? Si apre, per questa via, una nuova riflessione per la costruzione di una “clinica del rifiuto/non consenso/non adesione al trattamento” in ogni tipo di malattia che riguarda, infatti, il 70% dei trattamenti sanitari, assumendo come punto di partenza i limiti e i bias della clinica – dalla diagnosi ai trattamenti –, sempre in bilico tra onnipotenza ed impotenza, e lavorando per rendere possibile – non solo formalmente – il passaggio dalla non coscienza della malattia alla consapevolezza, che è dimensione al contempo razionale ed emotiva. Consenso informato, relazione, empatia In questa prospettiva la questione del consenso informato, in particolare nel contesto della cura dei soggetti “deboli” sul piano della possibilità decisionale, si intreccia in modo complesso con nuove dimensioni della relazione di aiuto: dall’empatia al tema del controtransfert come capacità di comprendere cosa si muove dentro il medico di fronte al rifiuto | Le cure psichiatriche: consenso e alleanza terapeutica di un trattamento da parte del paziente. Si comprende quindi come il problema del rifiuto dei trattamenti non possa mai essere affrontato soltanto come una questione di carattere burocratico e giuridico2. Antonio Maria Ferro, nell’affrontare recentemente il tema del consenso alle cure3, ha fatto riferimento alla “clinica del rifiuto” contrapponendola alla “clinica dell’oggettivazione” per sottolineare come questo aspetto – certo uno dei più complessi – del nostro lavoro richieda “abilità e competenze cliniche da un lato e dall’altro un assetto psichico dell’operatore e/o dell’équipe abbastanza sicuri e ben curati” perché, come il paziente, “anche noi potremmo rischiare di restare chiusi, estranei, inospitali in modo irritante o addirittura violento. In realtà, per ospitare in noi questi pazienti, così refrattari a condividere lo spazio per una relazione d’aiuto, è necessario prima di tutto rendere possibile in noi lo spazio dell’ospitalità e per questo occorre una cultura della psichiatria rispettosa e curiosa per l’altro da noi, anche nelle sue irriducibili differenze e talvolta incomprensibilità”. “Spero di riuscire a trasmettere” – prosegue – “come sia complesso questo lavoro verso l’alleanza terapeutica: talvolta parte della stessa terapia verte proprio su questo percorso che non può esaurirsi con un atto come l’eventuale TSO (…). La clinica del rifiuto non riguarda solamente la capacità di comprendere la sofferenza psichica e la sua gravità, come la sofferenza espressa dall’ambiente/entourage del paziente, ma anche la capacità di comprendere cosa si muova dentro di noi e come tolleriamo questa grave frustrazione al nostro desiderio di aiutare, curare”. Lavorare dentro il mondo interno del paziente, dentro il contesto e dentro il sistema curante vuol dire, quindi, aprire spazi di senso e di speranza per la cura e nella cura. Alcuni bioeticisti, come Francesco D’Agostino, intervenendo al Congresso della Società Italiana di Psichiatria (SIP) di Roma del 2009 hanno segnalato con forza il rischio di una scissione, proprio in merito al consenso ai trattamenti sanitari, tra il piano giuridico e il piano etico del problema. Il primo muove a partire da una dilatazione interpretativa dell’art. 32 della Costituzione sui principi di autodeterminazione, di dignità e rispetto della persona, e di libertà di cura pur senza risolvere alcuni nodi – divenuti oggi centrali – come quello di chi e come deve valutare l’autodeterminazione, e quindi la competenza, della persona, a maggior ragione in situazioni di limite delle capacità mentali (anche se non di totale sospensione/soppressione), che stanno aprendo un nuovo orizzonte giuridico, normativo ed applicativo (il diritto dal basso e l’ampliamento della dimensione del sostegno nella concezione di Paolo Cendon4). Il secondo ruota intorno a una questione di fondo: tra diritto ed etica chi ha il primato? Cioè: l’etica deve appiattirsi sul diritto e quindi è il diritto che definisce spazi, confini e contenuti della dimensione etica, oppure l’etica è indipendente dal diritto e può (o deve?) antagonizzare la prospettiva giuridica, aprendo spazi autonomi? Malattie quindi, ma anche storie, contesti, funzionamento di personalità e persone con caratteristiche non omogenee sotto il profilo clinico ed esistenziale. Il problema centrale sembra in questo caso quello di lasciare aperti spazi di attenzione sul singolo caso, di valorizzare le specificità (il diritto “leggero” di cui parla ancora Cendon) senza rinunciare all’equità e alla certezza dei diritti e delle garanzie (“uguali per tutti”); garanzie imprescindibili per un quadro normativo coerente. Bibliografia 1. Ciliberti R, Alfano L. Il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari tra esigenze di controllo e istanze di libertà, abstract del XIII Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria Forense, Alghero, 28-30 maggio 2010; pp. 64-6. 2. Soricelli E (ed). Il consenso informato nelle situazioni d’urgenza psichiatrica. Genova: ERGA Edizioni, 2000. 3. Ferro AM. Le cure senza consenso nei DCA: la “clinica del rifiuto”. Psichiatri Oggi 2010; 12: 5-7. 4. Cendon P. Un altro diritto per i soggetti deboli, l’amministrazione di sostegno e la vita di tutti i giorni. In: Ferrando G (ed). L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione per i soggetti deboli. Milano: Giuffrè Editore, 2005; pp. 21-68. *Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze, ASL 3 “Genovese”. COLLOQUIA 11 focus Umanizzazione delle cure Tre parole della sanità: debole, fragile, vulnerabile Un servizio sanitario, in cui sia stata sviluppata la capacità di ascolto, la cultura della narrazione e del dialogo, la capacità di osservazione, ha la potenzialità di identificare il soggetto vulnerabile e di predisporre quindi un percorso appropriato. MARCO GEDDES DA FILICAIA* I l termine debole, deriva dal latino debilis, con un ‘de’ sottrattivo + un secondo elemento che deriverebbe da bálam (forza – in sanscrito), da cui il significato “privo di forza”. Plauto e Cicerone lo usano in senso di menomato nel fisico, mutilato, invalido; significati che ora si sono attenuati. Da debole deriva, ovviamente, debilitato, che ha come primo significato proprio la mancanza di forza fisica, e il medico latino Aulo Cornelio Celso scriveva, nel De Medicina “… nelle articolazioni… se sono sezionati i nervi… ne consegue una debilitas”. Debole è largamente in uso nella sanità dell’Otto e Novecento, con molteplici accezioni. Un inno mariano, assai diffuso anche negli anni Cinquanta recitava “… per i miseri implora perdono, per i deboli implora pietà!”. Non sono sicuro che i miseri fossero coloro che si comportavano in modo spregevole o semplicemente gli indigenti (di ciò colpevoli?), mentre con il termine 12 COLLOQUIA debole ci si riferiva al carattere o forse alla salute. Debole, nella medicina ottocentesca, si riferisce non solo alla persona, ma anche all’organismo o a una sua parte. La debolezza viene così a caratterizzare non tanto il sintomo, ma acquisisce lo status nosologico di una vera e propria patologia. Vi è la debolezza di stomaco; si supponeva che consistesse in un rilassamento della tunica muscolare che porta ad una diminuzione dell’attività di quest’organo che dura per mesi ed anni, senza pericolo, ma con rari e oscillanti sintomi1. In sostanza si tratta di stomaci “svogliati” per i quali Pellegrino Artusi consigliava un cibreo, che è “un intingolo semplice, ma delicato e gentile, opportuno alle signore di stomaco svogliato e ai convalescenti”2. La debolezza coinvolge anche le capacità mentali; il debole di mente è – affermava il clinico francese Charcot – una forma meno accentuata di imbecillità e sotto tale classificazione potevano rientrare i bambini che “… vanno a scuola a malincuore: si fanno notare specialmente per la debolezza della memoria… specialmente debole è la facoltà di giudizio; essi sono l’eco automatico delle idee, delle opinioni che sentono dire intorno a sé, ma sono poi incapaci di apprezzarle ragionatamente per loro conto”3. Per tale debolezza un libro di rimedi sanitari domestici consigliava “Ogni mezz’ora due sorsi di tè d’assenzio, oppure tintura d’assenzio (per giorno 6 cucchiaini). Vino di rosmarino o vino vermut due bicchieri al giorno”4. Tutto ciò non va confuso – ovviamente – con il “pensiero debole”, che si presenta come una forma particolare di nichilismo, introdotto in filosofia da Gianni Vattimo! Vi è poi il debole di cuore. Tale era, ad esempio, Eleonora di Toledo, moglie del Granduca di Toscana Cosimo I, come si può apprezzare salendo uno degli scaloni di Palazzo Vecchio a Firenze, la cui andatura è particolarmente dolce – nel senso che l’altezza degli scalini è assai ridotta – proprio perché riservata alla granduchessa affetta da tale debolezza. Si trattava di insufficienza cardiaca, una sindrome per la quale un noto cardiologo dava consigli sul Corriere della Sera di vari anni fa (11 novembre 1996) sotto il titolo, appunto, di… “Qualche suggerimento per chi è debole di cuore”. Ormai desueto il termine debole nelle accezioni finalizzate a definire una specifica patologia, resta ovviamente quale aggettivazione di un sintomo: ha il polso debole, ha il respiro debole… Tuttavia la disponibilità di strumenti che rilevano i diversi parametri ha reso meno comune questa terminologia qualitativa, riducendo spesso anche la capacità di osservazione e ascolto del medico, a favore della registrazione di quanto gli strumenti rilevano. Fragile è invece un termine attualmente assai diffuso. Il termine “fragile” assume molteplici significati, sia nella lingua italiana sia nei percorsi sociali e assistenziali. Fragile deriva dal latino Focus Umanizzazione delle cure fragilis, da frangere e significa delicato, debole, friabile, frangibile; il contrario di robusto, durevole, resistente. Il dizionario indica come primo significato: facile a rompersi, e porta due esempi: il vetro è un materiale fragile; l’ossatura delle persone anziane è molto fragile. Vi è una fragilità sociale e una fragilità biologica; nell’ambito assistenziale entrambe concorrono, spesso in misura sinergica, a definire le problematiche della persona che si rivolge al servizio sanitario. La fragilità sociale è frequente nella popolazione in povertà, ma non coincide totalmente con tale categoria. La povertà fa riferimento a una condizione di privazione economica e mancanza di risorse materiali. La fragilità sociale sottende anche l’esclusione da benefici e servizi cui normalmente le persone e le famiglie hanno accesso; dà quindi rilievo e valore alla rete di relazioni che la persona sviluppa intorno a sé e al rischio di intraprendere, anche a seguito delle problematiche di salute, un percorso di impoverimento e di rottura dei legami sociali. La fragilità biologica è una sindrome fisiologica caratterizzata da ridotta riserva funzionale e resistenza agli stress, provocata da un declino di più sistemi fisiologici, perdita di omeostasi e conseguente instabilità clinica e tendenza a manifestazioni peggiorative di salute. Il termine “fragile” (in inglese frailty) è mutuato dalla geriatria e delinea tale condizione, anche attraverso specifici biomarcatori, in particolare della struttura e della forza muscolare (citochine, indici di infiammazione, ecc.). Tuttavia nella pratica clinica si fa riferimento ad una serie di parametri quali: perdita di peso (circa 4,5 kg in un anno); affaticamento in almeno 3 giorni la settimana; riduzione della forza muscolare; ridotta attività fisica; riduzione della velocità del cammino (più di 7 secondi a percorrere 4 metri e mezzo), stato cognitivo. La possibilità di rilevare tali parametri, da parte del curante, è affidata ad una capacità di ascolto e di osservazione del paziente stesso. A conferma di una maggiore sensibilità agli stress e di una ridotta omeostasi, recenti studi rilevano che i | soggetti fragili sono maggiormente influenzati dagli inquinanti atmosferici, con una più marcata riduzione della funzionalità respiratoria, a confronto di soggetti di uguale sesso ed età5. Tuttavia è in occasione di un ricovero, per il riacutizzarsi di una malattia cronica o per un evento accidentale, che il paziente fragile rischia di diventare vulnerabile. Il termine vulnerabile deriva dal latino vulnus (ferita), e significa quindi feribile, danneggiabile, indifeso. È evidente che un soggetto fragile è vulnerabile, ma anche un soggetto “forte” può essere vulnerabile, come appare evidente dall’esempio che fornisce il dizionario: Achille era vulnerabile solo nel tallone. Tre parole della sanità: debole, fragile, vulnerabile individuare le problematiche complessive della persona ricoverata, rapportandosi con i familiari e i servizi territoriali, trasformando il ricovero da momento di rischio a occasione di opportunità per invertire o rallentare il percorso verso l’accentuazione della fragilità. William Osler, il grande clinico autore del più diffuso testo di medicina dell’epoca moderna, sollecitava i medici a concentrare la loro attenzione, la loro capacità di introspezione, sulle caratteristiche complessive del paziente, poiché, « […] it is more important to know what sort of patient has a disease than to know what sort of disease a patient has»6. Un soggetto fragile, anche in occasione di un ricovero ospedaliero, potrebbe trovare l’opportunità della messa a punto di una serie di strategie volte a contenere o far regredire, seppure parzialmente, lo stato di fragilità; strategie che si attuano e si sviluppano nell’ambito della successiva assistenza extra ospedaliera. Con ciò vogliamo richiamare l’attenzione sul fatto che anche un paziente non anziano, che non è definibile fragile, può essere vulnerabile dalle prestazioni ospedaliere; la comparsa di delirium acuto in un paziente con deficit cognitivi subclinici; un farmaco in un paziente con allergie; una diagnosi invasiva in paziente in trattamento con anticoagulanti; un ricovero di paziente immunodepresso; una poliprescrizione farmacologica in un paziente con insufficienza d’organo, ecc. Un servizio sanitario, in cui sia stata sviluppata la capacità di ascolto, la cultura della narrazione e del dialogo, la capacità di osservazione, ha la potenzialità di identificare il soggetto vulnerabile e di predisporre quindi un percorso appropriato. Un soggetto fragile, anche in occasione di un ricovero ospedaliero, potrebbe trovare l’opportunità della messa a punto di una serie di strategie volte a contenere o far regredire, seppure parzialmente, lo stato di fragilità; strategie che si attuano e si sviluppano nell’ambito della successiva assistenza extra ospedaliera. Queste strategie sono possibili se nel corso di ricovero si ha la capacità di Bibliografia 1. Reissing C. Il libro d’oro della salute. Milano: Vallardi, 1908. 2. Artusi P. La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene; pei tipi dell’Editore Landi, 1891. 3. Charcot J-M. Trattato di Medicina. Torino: UTET, 1897. 4. La medichessa di casa. Dr.ssa Jenny Springer. Casa editrice Triestina, 1933. 5. Società italiana di Gerontologia e Geriatria. Forum sulla fragilità dell’anziano. G Gerontol 2006; 54: 260-70. 6. Fried LP, Ferrucci L, Darer J, Williamson JD, Anderson G. Untangling the concepts of disability, frailty, and comorbility: implication for improved targeting and care. J Gerontol A Biol Sci Med Sci 2004; 59: 255-63. 7. Fried LP, Tangen CM, Walston J, et al. Frailty in older adults: evidence for a phenotype. J Gerontol A Biol Sci Med Sci 2001; 56: M146-M56. 8. Eckel SP, Louis TA, Chaves PH, et al. Modification of the association between ambient air pollution and lung function by frailty status among older adults in the cardiovascular health study. Am J Epidemiol 2012; 176: 214-33. 9. Osler W. Remark on specialism. Boston Med Surg J 1892; 126: 457-9. *Medico di Sanità Pubblica. COLLOQUIA 13 focus Umanizzazione delle cure Quando comunicare è difficile Dal trattamento oncologico alle cure palliative Generalmente, quando il medico comunica una cattiva notizia cerca di rendere il paziente emozionalmente partecipe di una dimensione più attiva e progettuale: tenta un atteggiamento propositivo, lo aiuta a proseguire il dialogo, prospettando il più realisticamente possibile pur parziali aspettative terapeutiche, alternative che consentano una convivenza con la malattia che, anche se faticosa, riceva la consolazione della speranza. ENRICO AITINI*, LUCIANO ORSI**, PIER PAOLO VESCOVI*** L a valutazione della qualità di vita di un paziente affetto da patologie gravi ed invalidanti è un obiettivo abituale nell’ambito di studi clinici controllati, così come nella pratica medica quotidiana. Di tale valutazione anche la relazione medico-paziente è divenuta parte integrante. Da alcuni anni, in particolare, la stretta collaborazione tra l’oncologo medico ed il medico palliativista in una filosofia di presa in carico simultanea (“the simultaneous care” degli autori anglosassoni) ha portato a maturare un rapporto con il paziente neoplastico caratterizzato da una visione globale del bisogno di cura: accanto all’identificazione dei bisogni clinici, l’attenzione si è concentrata non solo sulle modalità della comunicazione e sulle esigenze relazionali, ma anche su quelle sociali, sugli aspetti etici, sulle istanze della spiritualità; in una parola: sulla “biografia” della persona malata1-4. Si configura una relazione di cura continuativa che accompagni il paziente durante tutta la malattia e lo affianchi ancor più intensamente nelle fasi critiche in cui si aggravano problemi non solo di natura sanitaria, ma anche psicologica, familiare e sociale, nonché di adattamento allo stress e alle mutevoli condizioni cliniche. Le diverse fasi della malattia costituiscono un banco di prova difficile 14 COLLOQUIA sia clinico che comunicativo: il paziente si trova ad affrontare all’inizio un impatto particolarmente angosciante al momento della diagnosi, impatto che lo diventa ancor di più nel caso di recidiva o di progressione e può assumere toni drammatici allorché si evidenzia l’impossibilità di proseguire trattamenti specifici. Sono fasi che non trovano una soluzione preconfezionata; ogni comportamento deve essere modellato sul singolo paziente alla luce degli effetti sia fisici sia psicologici. Le difficoltà sono anche del medico, che ha maturato attenzione e sensibilità nella comunicazione di una cattiva notizia nell’odierno contesto culturale: un contesto che presenta impreviste oscillazioni tra un’apodittica fede nel potere della medicina e un mai risolto terrore di quello che molti, ancor oggi, definiscono «male incurabile». Medici, psicologi, sociologi, filosofi hanno evidenziato come la rimozione del pensiero della morte porti con sé l’impossibilità di restituire dignità ad un evento che fino ai primi decenni del secolo scorso era in genere percepito nella sua naturalità come parte integrante della vita. Per poter sostenere una comunicazione leale con il paziente che versa in gravi condizioni, il medico deve far sua la consapevolezza della propria finitudine, della necessità di relazionarvisi, intendendola non solo come evento biologico, ma anche esistenziale. Purtroppo questa consapevolezza tende ad essere patrimonio dimenticato da un mondo irretito dalla tentazione di esiliare la fine dell’esistenza dietro le quinte della vita sociale. Generalmente, quando il medico comunica una cattiva notizia cerca di rendere il paziente emozionalmente partecipe di una dimensione più attiva e progettuale: tenta un atteggiamento propositivo, lo aiuta a proseguire il dialogo, prospettando il più realisticamente possibile pur parziali aspettative terapeutiche, alternative che consentano una convivenza con la malattia che, anche se faticosa, riceva la consolazione della speranza. Tuttavia, i medici mostrano non di rado serie difficoltà e una non celata riluttanza nel parlare con i loro pazienti della fase conclusiva della vita, là dove, invece, dovrebbero essere consapevoli che loro compito è anche quello di aiutare il malato a non farsi sopraffare dall’angoscia della finitudine5. Il livello di istruzione dei pazienti è oggi generalmente incrementato dall’utilizzo di mezzi informatici, di internet e dalla diffusione attraverso i mass-media di informazioni relative a molte malattie, utilizzo che ha consentito un accesso molto più ampio, anche se a volte impreciso, ad informazioni riservate in passato alla sola arte medica. Il malato è oggi in grado di percepire l’opportunità del trattamento palliativo, ma se il passaggio a questa fase non è sorvegliato da particolare attenzione, egli diviene preda dell’angosciante pensiero che la qualità della sua vita sia ormai irrimediabilmente compromessa; angoscia non di rado amplificata dal nucleo familiare. A rendere più drammatica e difficile questa fase contribuisce l’inevitabile distacco da Focus Umanizzazione delle cure alcune figure professionali che hanno accompagnato il malato durante la storia clinica: non saranno loro a prendersi cura di lui in quest’ultima fase. Nel paziente e nella sua famiglia sopravviene un sospetto di “abbandono terapeutico”: reazione conseguente è spesso quella di un rifiuto ad accedere in strutture dedicate, non di rado temute come luoghi di ghettizzazione. Il tempo della vita che, anche nelle fasi gravi di malattia, è percepito come tendenzialmente privo di limiti, appare in questi momenti senza appello concluso, trasformandosi in una sentenza di fine imminente. Di fronte al rifiuto del paziente e della famiglia, l’oncologo può trovarsi spesso disarmato, sorpreso da una complessità emozionale che coinvolge più persone; e alle irrazionali aspettative del malato e dei parenti può sentire forte la tentazione di rispondere abbandonando un dialogo che soffre come irrealistico. Per la stessa ragione a volte tende erroneamente ad alimentare impossibili recuperi terapeutici ed infondate speranze (il che può in parte spiegare l’incremento di richieste per ulteriori trattamenti francamente illusori, nella fase conclusiva della vita6-8). | Quando comunicare è difficile (Sorge, tuttavia, un interrogativo: possiamo noi arrogarci il diritto di togliere l’ultima speranza a chi vuol mantenerla quale unico, sottile filo di conforto esistenziale? Se la stessa Costituzione della Repubblica e i codici deontologici hanno attribuito al paziente il diritto di decidere se accettare o meno una terapia, perché non dovrebbe essergli concesso, dopo aver offerto una informazione realistica, il diritto di “sperare nell’insperabile”, di privilegiare un’illusione consolatrice piuttosto che un doloroso realismo?). Se, da un lato, le attuali possibilità terapeutiche hanno raggiunto livelli impensabili fino a qualche decennio fa, a tal punto da allontanare sempre più l’ombra della fine – misura dell’umano limite – d’altro canto, esse hanno contribuito a modificare i modi, le forme e il significato individuale e sociale del morire. Là dove – nel momento della non-speranza – a volte anche una semplice carezza, una parola, un silenzio d’ascolto possono essere in grado di ridimensionare la solitudine di un’esistenza che si conclude. Bibliografia 1. Maguire P, Pitceathly C. Key communication skills and how to acquire them. B Med J 2002; 325: 697-700. 2. Fallowfield L, Jenkins V. Communicating sad, bad, and difficult news in medicine. Lancet 2004; 363: 312-9. 3. Aitini E, Aleotti P. Breaking bad news in oncology: like a walk in the twilight? Ann Oncol 2006; 17: 359-60. 4. Aitini E. Breaking bad news in oncohematology: new hope, new words? Leuk Lymphoma 2011; 53: 328-9. 5. Aitini E, Cetto GL. A good death for cancer patients: still a dream? Ann Oncol 2006; 17: 733-4. 6. Snow A, Warner J, Zilberfein F. The increase of treatment options at the end of life: impact on the social work role in an inpatient hospital setting. Soc Work Health Care 2008; 47: 376-91. 7. Giorgi F, Bascioni R. Another infusion of hope. J Clin Oncol 2009; 27: 1722-3. 8. Aitini E, Adami F, Cetto GL. End of life in cancer patients: drugs or words? Ann Oncol 2010; 21: 914-5. *Struttura Complessa di Oncologia Medica ed Ematologia; **Struttura Complessa di Cure Palliative; ***Dipartimento Medico; Ospedale Carlo Poma, Mantova. COLLOQUIA 15 focus Umanizzazione delle cure Visto dal paziente. Sulla comunicazione diseguale “L ungamente richiesto…”, così iniziano molti testi, soprattutto in certe epoche. È un esordio strategico, perché ti solleva da tante responsabilità. Io sarei tentata di dire qualcosa di simile, perché è proprio dall’interesse e dalla sollecitazione di un medico, e poi di più medici e infermieri, che mi sono messa a raccontare esperienze e riflessioni professionali. Sono medici e infermieri che non solo ti curano e ti salvano, ma che si chiedono anche se lo hanno fatto nel modo migliore possibile. E per avere una risposta servono davvero anche i racconti dei loro pazienti e un po’ di analisi dei fatti. Chi lavora con un pubblico dovrebbe unire alla competenza specifica del Io, malato, ho il diritto di essere ben accudito, e medici e infermieri hanno il dovere di farlo, se poi guarisco prima o dopo è affar mio. LUCIA FONTANELLA* proprio lavoro la capacità di controllare, sempre, il modo in cui lavora. Un pubblico fragile, vulnerabile, come quello dei malati merita, più ancora di altri, attenzioni particolari, che molto spesso mancano. Guariremmo anche meglio e più in fretta se fossimo meglio accuditi? Per molti il nodo è lì, e certo è una questione fondamentale, ma io che ho un brutto carattere ne faccio prima di tutto una questione di diritti: io, malato, ho il diritto di essere ben accudito, e medici e infermieri hanno il dovere di farlo, se poi guarisco prima o dopo è affar mio. Detto questo è difficile che una degenza all’insegna dell’attenzione e della gentilezza rallenti o intralci una guarigione. Al Pronto Soccorso, per prudenza… Sono andata al Pronto Soccorso perché il mal di pancia era bruttissimo, strano. A quasi sessant’anni uno di mal di pancia ne ha avuti, di vario genere, compresi i figli. E non si sbaglia. Erano le nove del mattino. Non ho dovuto aspettare molto. Il medico avvicinandosi mi ha detto che c’era molta influenza intestinale in giro, ma gli ho detto che non poteva essere. Poi ho capito che voleva tastarmi la pancia e gli ho bloccato le mani. “Mi fa troppo male”. “Se non le va, poteva starsene a casa”. Ha riprovato, ma senza volere gliele ho di nuovo bloccate. Se ne è tornato alla scrivania e mi ha mandata a fare una radiografia, mi pare. Doveva essere un ottimista, perché sulla cartella ha scritto “netto miglioramento della sintomatologia” (10:39), e vi assicuro che non gliel’ho suggerito io. Al ritorno mi ha detto che andando di corpo avrei risolto il problema e dunque purga e clistere. “Il clistere no!” ha suggerito il mio buon senso (leggo con attenzione Salute). “Allora se ne torni a casa”. La purga, un liquido arancione, l’ho posata sotto il letto, ma al clistere non sono sfuggita (lui però è sfuggito alla cartella clinica). “Si trattenga più che può. Il bagno è là”. Focus Umanizzazione delle cure Immaginate di avere un male che vi toglie il fiato e le forze, di sospettare che non vi stiano curando come devono, ma di essere più ancora preoccupati di come fare a trascinarvi fino in bagno. Dopo tre faticosissimi e inutili trasferimenti in bagno ho chiamato un’infermiera. “Sono passate due ore e non succede niente. Non è che fra un po’ esce tutto dalle orecchie?”. L’ironia in ospedale funziona raramente, il messaggio è caduto nel vuoto. Io sono contraria alle raccomandazioni. È una questione di principio. Se avessi detto di essere la zia del dottor …, sono certa che non sarebbe finita così (l’esperienza però mi ha insegnato che non devono essere considerate “raccomandazioni”, ma semplici e utili “segnalazioni”, del tutto lecite). Fortunatamente il buon senso, di nuovo, mi ha suggerito di chiedere a mio marito di farlo avvertire, quel mio nipote. Ma non era in ospedale e non si riusciva a trovarlo. È arrivato alle cinque, mi ha visto e ha capito che le cose andavano molto male. Con garbo, per non urtare il collega, ha | operarti subito”. L’avevo detto io che quello che era entrato con il clistere stava per uscire dalle orecchie! Avevo un male indicibile e ho chiesto che mi tagliassero la camicia da notte, senza farmi muovere di un centimetro. Un infermiere si è messo al lavoro e ha fatto tanti pezzi. Lo vedevo sezionare gli orsetti della mia camicia con grande cura, senza farmi spostare. L’anestesista si è presentata e mi ha fatto delle domande. Come peso mi sono tolta 10 chili, non so perché; per il resto scuotevo la testa perché stavo davvero per non capire più niente. Ho firmato un consenso totalmente disinformato, ma non mi interessava per niente. Ho sentito ancora il chirurgo che chiedeva 10 litri di … e ho pensato “vorrà mica farmeli bere, questo qui”. Poi mio nipote si è messo a parlare di una partita con qualcun altro e io ho pensato che non l’avrebbe mai fatto se io fossi stata davvero mezza morta, e mi sono rasserenata. Mi ha chiesto il permesso di assistere all’operazione. I linguisti la chiamano comunicazione diseguale. Si trova soprattutto in certi ambienti: l’ospedale, la scuola, il tribunale (la caserma…). Ma anche in tante famiglie in cui le cose non vanno come dovrebbero. Diseguale perché in quegli ambienti le persone non hanno lo stesso potere, e tutto ciò che accade ne risente. Anche quello che viene detto. E fatto. chiesto una TAC. “Beva questa” mi ha detto un’infermiera porgendomi una bottiglia d’acqua da un litro e mezzo. “Mi sa che sto per morire. Credo che non la berrò”. “Scenda e salga lì”. “Le ho detto che sto per morire…”. Mi hanno issato di malavoglia (ho capito perché molto tempo dopo, anche se la spiegazione è semplice: spostare i malati spacca la schiena e soprattutto le donne di una certa età, con la schiena già rotta, fanno davvero molta fatica. Perché glielo fanno fare?). Al ritorno al Pronto Soccorso ho trovato tanta gente gentile e premurosa: mio nipote, un chirurgo, un’anestesista, diversi infermieri. “Ti si è perforato l’intestino. Devono La comunicazione diseguale I linguisti la chiamano comunicazione diseguale. Si trova soprattutto in certi ambienti: l’ospedale, la scuola, il tribunale (la caserma…).Ma anche in tante famiglie in cui le cose non vanno come dovrebbero. Diseguale perché in quegli ambienti le persone non hanno lo stesso potere, e tutto ciò che accade ne risente. Anche quello che viene detto. E fatto. È per questo che quando il medico per due volte mi ha detto che se non mi andava così potevo tornarmene a casa io non gli ho detto di vergognarsi, non ho chiamato il primario, altri medici, gli alpini, o che so io. Non l’ho fatto perché stavo male, perché ero preoccupata, impaurita, perché c’era un’infermiera disadatta come il medico, che non è Visto dal paziente. Sulla comunicazione diseguale intervenuta e si è fatta gli affari suoi, regola d’oro ovunque. Ero, come quasi tutti i malati, in una situazione di grande svantaggio. Questa è la comunicazione diseguale. Come può succedere una cosa del genere, e in posti così importanti per la nostra società? È molto semplice. Prendiamo l’ospedale. Alcuni ci lavorano, magari da tanto tempo, e più il tempo passa e più pensano davvero che quel posto sia loro, che quella gente che arriva lì per essere visitata e curata sarebbe anche una bella cosa che non arrivasse per niente. Intanto sono troppi, poi sono dei perfetti estranei, hanno i parenti, vogliono ciò che non si può o non si vuole fare. Invadono uno spazio non loro. Ma il mondo dell’ospedale (come quello della scuola) ha imparato a difendersi: lo spazio lo presidia, il tempo te lo concede quando e come vuole, ti parla quando e come vuole. Nella comunicazione diseguale si riscontra in particolare uno sbilanciamento nel possesso dello spazio, del tempo, della lingua. Le altre cause di diseguaglianza sono banali: tu, medico o infermiere, stai bene, hai il camice e ti muovi in uno spazio che conosci bene, io sto male, anche molto male, sono solo, e non soltanto non ho il camice, ma per forza di cose mi hanno tolto anche i vestiti, tutto mi è estraneo e mi spaventa. Tu puoi muoverti, e mi giri attorno guardandomi dall’alto, e io sto qua, distesa, e ti guardo dal basso in alto, come il più derelitto dei bambini. Sono spaventato, confuso. Puoi farmi quello che vuoi. Attore comunicativo passivo, debole, soggetto a pressione psicologica. Ma come può succedere una cosa del genere? L’ospedale non è di tutti? Un luogo pubblico in cui ciascuno ha un ruolo di reciproca utilità, nel pieno rispetto di tutti? Io, malato, non sono forse la vostra ragione d’essere, caro dottore e caro infermiere? *Si è occupata, durante i suoi anni di lavoro all’Università di Torino, di materie filologiche e linguistiche, in particolare per quanto riguarda la formazione degli insegnanti. Autrice di “La comunicazione diseguale”. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, da cui questo contributo è estratto. COLLOQUIA 17 SECONDO ME... di Giacomo Milillo* Umano, troppo umano… La medicina non è solo scienza, ma anche necessità di dare risposte, persino quando queste non sono chiarite dalla scienza. È relazione tra persone in un sistema di valori, in un contesto sociale dato dall’ambiente in cui il soggetto vive, ha esperienze e credenze. A cura di GIACOMO MILILLO*, GIULIANO BONO** D al momento che per natura siamo umani, se si pone il problema dell’umanizzazione significa che qualcuno ci ha disumanizzato, che qualcuno ha fatto sì che la cura prestata all’individuo malato fosse disumanizzante, cioè non adatta ad un essere umano. Si accusa il progresso scientifico che, avendo messo a disposizione terapie sempre più efficaci, avrebbe fatto venir meno il bisogno di cura: come se la diffusione delle automobili avesse provocato il massacro dei cavalli. Come è possibile che la produzione di farmaci, come gli antibiotici, che negli anni Cinquanta ha portato ad una svolta mai vista nell’aspettativa di vita degli esseri umani sconfiggendo le malattie 18 COLLOQUIA infettive, abbia cambiato anche il paradigma del rapporto tra malato è curante ? È come se le automobili fossero state usate per mettere sotto i cavalli, e non per migliorare la nostra possibilità di spostamento. In realtà la progressiva spersonalizzazione della relazione di cura è stata dovuta all’uso della tecnica, e il progresso scientifico non ha colpe. È come se l’invenzione della lampadina dovesse essere considerata deleteria, perché qualcuno ci obbliga a tenerle accese sempre, con l’insonnia generalizzata che ne consegue. Gli antibiotici non sono dannosi, è l’uso dissennato, cioè privo di senso, smoderato, inappropriato, che ha fatto sì che, già a pochi anni dalla loro commercializzazione, comparissero resistenze batteriche. Il nodo sta nella nostra struttura economico-sociale, per cui un’invenzione, per essere buona, deve essere duplicata ancora e ancora all’infinito, senza senso. E se viene prodotta deve essere consumata. E su questo i medici non ci possono far nulla, semmai possono intervenire come cittadini. Negli anni ‘70 si teorizza il superamento del medico tradizionale, egli diventa un “tecnico della salute”: la conoscenza tecnica delle malattie e dei farmaci adatti prevale sull’attenzione per il malato. Si utilizza il paradigma delle malattie infettive ( se c’è in corso una epidemia ciò che è necessario è avere a disposizione e distribuire rapidamente l’antidoto) per ogni malessere. Piuttosto i medici sono stati attratti dalla facilità di apprendimento e di utilizzazione del progresso tecnico e scientifico: paradossalmente ciò che sembra difficile, l’apprendimento e l’insegnamento del risultato scientifico, è molto più facile della formazione di un professionista competente e capace di prendersi cura dell’altro che soffre. Insegnare il sapere sembra sempre più difficile, mentre è più difficile formare al saper essere. Il sapere medico viene ridotto interamente alla oggettività, alla misurabilità dei fenomeni, alla ricerca del determinismo delle cause, come se la medicina fosse una scienza esatta, e non l’applicazione della scienza ad un soggetto, con tutta l’incertezza che la pratica clinica sempre si porta dietro, con una fallibilità ineliminabile. La responsabilità dei medici viene tirata in campo dalla medicalizzazione della società, cioè la convinzione che esista un rimedio per ogni stato di malessere, insoddisfazione o disagio. Certo che su questo versante è intervenuta pesantemente l’industria che per la vendita pubblicizza prodotti che dovrebbero avere un impatto sulla salute, ma ci stanno anche le esagerate promesse di clinici e ricercatori che enfatizzano risultati e osservazioni preliminari e propongono da giornali di divulgazioni e talk show televisivi, con sorrisi accattivanti e sicurezza onnipotente, “una pillola per ogni problema”. Se c’è una pillola per ogni problema, il problema diventa una malattia, non serve alcuna attenzione per Secondo me... il soggetto che presenta il problema, basta avere un bagaglio sempre più ampio di pillole. Un’altra conseguenza della medicalizzazione sta nell’abbassare la soglia del rischio, senza sapere se ciò si tradurrà in un vantaggio per il paziente. Ad esempio val la pena di trattare una modesta ipertensione, quella che supera di poco il valore di 140/90? Sarebbe certamente utile se permettesse di ridurre la probabilità di avere un ictus, ma una recente revisione sistematica del Cochrane Center ci informa che anche se si controlla l’ipertensione lieve non cambiano la mortalità, l’incidenza di malattie coronariche o di ictus. Bisogna intervenire sugli stili di vita, molto più difficile che distribuire pillole. L’umanizzazione è la risposta alla progressiva spersonalizzazione del rapporto terapeutico all’interno di una medicina che si vorrebbe sempre più tecnologica e scientifica. Pensiamo che sia perdente pensare l’umanizzazione come un insegnamento a latere delle altre discipline, creando un’altra figura di specialista esperto di umanizzazione. Non basta essere gentili, educati, buonisti per risultare automaticamente più umani. È un problema di metodo nella formazione dei medici, quelli esistenti e quelli futuri: accanto alla competenza tecnica e scientifica (se non c’è competenza non c’è professionista) è necessaria una preparazione culturale all’ascolto, alla relazione, alla comunicazione, alla “attenzione antropologica” come dice Ivan Cavicchi. I bisogni primari dell’uomo sono sempre stati il sollievo dal dolore o dal sentirsi male, controllo della paura della morte, che ogni malessere evoca, desiderio di allontanarla. Si chiede aiuto al medico (un’altra persona, non un tecnico) quando non ci si sente più in grado di prendersi cura da soli della propria persona. Quindi per aiutarsi tra persone umane occorre capirsi, creare relazioni. La relazione medico-paziente è un modo di conoscere il malato e i suoi problemi. La medicina non è solo scienza, ma anche necessità di dare risposte, persino quando queste non sono chiarite dalla scienza. È relazione tra persone in un sistema di valori, in un contesto sociale dato dall’ambiente in cui il soggetto vive, ha esperienze e credenze. Il professionista della salute deve imparare a distinguere il sé dall’altro: molte cose che si attribuiscono al malato appartengono spesso alle convinzioni, agli automatismi di chi lo sta osservando. Solo l’ascolto empatico permette di uscire dal sé e avvicinarsi all’altro. Empatia è la capacità di mettersi nei panni dell’altro, senza provare le stesse emozioni, la comprensione di ciò che l’altro sta sentendo e che fa fatica ad esprimere, l’accettazione senza giudizio. L’empatia è una abilità che si può imparare. Così come si può imparare a comunicare. La comunicazione della diagnosi è già terapia, è il presupposto dell’alleanza per curare: se capisco il mio stato, accetterò le terapie, sarò in grado di | Umano, troppo umano a fianco dei cittadini che ossequioso verso le regole dettate da protocolli e da percorsi diagnostici-terapeutici, utili ma concepiti nell’astratto bisogno di metterci dentro tutte le possibilità, obbligato ad una osservazione globale della persona. Per questo può risultare più umano, se rifiuta la sudditanza ad una scienza che si vorrebbe esatta, ma che esatta non può essere, se è consapevole che la sua professione è un’altra medicina una disciplina legata alla scienza sì, ma necessariamente e oggettivamente diversa dalla cardiologia ospedaliera, dalla gastroenterologia ospedaliera, dalla pneumologia ospedaliera e da tutte le altre. Il sapere medico viene ridotto interamente alla oggettività, alla misurabilità dei fenomeni, alla ricerca del determinismo delle cause, come se la medicina fosse una scienza esatta, e non l’applicazione della scienza ad un soggetto, con tutta l’incertezza che la pratica clinica sempre si porta dietro, con una fallibilità ineliminabile. decidere quali terapie scegliere (diritto inalienabile di ogni cittadino). La comunicazione crea un ponte tra le persone e permette a chi soffre di uscire dalla solitudine, di controllare l’angoscia di sentirsi male senza rimedio: la comunicazione mi fa sentire curato, non solo la prescrizione di un farmaco. Tra il benessere clinico, che il medico presuppone per il paziente, e il benessere che solo il paziente conosce ed è in grado di accettare, far suo, esiste uno spazio, talora divergente, che va riempito col dialogo. Il medico è un interprete e un traduttore delle potenzialità della medicina. La tecnica ci aiuta a fare diagnosi di malattia, ma soltanto un medico come persona può darci la diagnosi del malato. Al di fuori della traumatologia e delle emergenze, la malattia non è una entità concreta esistente al di fuori e al di sopra dell’ammalato. La medicina generale o di famiglia da sempre privilegia la persona rispetto alla malattia e pone al centro la relazione medico-paziente non solo nei proclami deontologici e nei convegni, ma anche nell’attività clinica quotidiana. Il medico di medicina generale vive nel territorio, lo stesso dei suoi assistiti, è abituato di fatto a risolvere problemi e non solo malattie, più Il nostro sistema sanitario riconosciuto dagli organismi internazionali uno dei migliori al mondo è stato costituito proprio secondo principi di universalità, di bene comune e le unità sanitarie erano predisposte a produrre cure, terapie, assistenza, ma anche giustizia, uguaglianza, rispetto, umanità, non un’impresa, copiata dal mondo manifatturiero, ma un servizio. Le leggi di riforma degli anni ‘90 le hanno trasformate in aziende con scopi di risparmio economico, con l’obiettivo di produrre dei beni economici: spese e costi. Quindi l’oggettivazione più assoluta, dove è più facile tagliare gli operatori di salute (medici e infermieri), che sprechi e abusi, dovuti alla medicalizzazione della società e a interessi di lobby che nulla hanno a che vedere col benessere dei cittadini. Uno strumento in più e quaranta infermieri in meno: quale umanizzazione può favorire una nuova Risonanza Magnetica Nucleare? Ben sapendo, come affermato dalla Società Italiana di Radiologia recentemente, che circa la metà degli esami fatti è inutile? *Segretario Generale Nazionale della Federazione Nazionale Medici di medicina generale (Fimmg); **medico di medicina generale, Fimmg, Torino. COLLOQUIA 19 SALUTE ED ECONOMIA di Federico Spandonaro* Le recenti manovre economiche e l’evoluzione del SSN Nonostante esistano numerose inefficienze allocative, il sistema sanitario italiano si dimostra decisamente “sobrio”, e questo andrebbe maggiormente riconosciuto. (...) A cura di DANIELA D’ANGELA**, CRISTINA GIORDANI***, BARBARA POLISTENA** Il contesto economico-finanziario La crisi economica che si è palesata nel 2011, ma che è nata in precedenza ed è tuttora in corso, non ha risparmiato la Sanità. Il gap in termini di spesa sanitaria totale italiana rispetto all’Europa è evidente, e tende a crescere: 26,1% (16,9% nel 1990) rispetto agli altri Paesi di EU6 (Belgio, Germania, Francia, Lussemburgo e Paesi Bassi), 18,7% (+4,1% nel 1990) rispetto a EU12. Va peggio sul versante della spesa pubblica: -25,9% (-10,2% nel 1990) rispetto a EU6, -17,9% (+10,9% nel 1990) rispetto a EU12 (figura 1). In Italia la spesa sanitaria rappresenta il 9,6% del PIL nel 2009, quota inferiore rispetto alla media dei Paesi OECD: ma il dato sul PIL dice poco, se non che ogni Paese può permettersi di allocare sulla Sanità una quota simile di risorse. Il vero problema del nostro Paese è, in effetti, la stagnazione economica, perché più prolungata e profonda che negli altri Paesi europei: il gap del PIL italiano rispetto a EU12, che era positivo (+2,3%) nel 1990, è arrivato ad essere del -5,6% nel 2010 (-9,9% rispetto ad EU6); stagnazione peraltro aggravata dal forte debito pubblico, che toglie risorse che potrebbero invece sostenere un rilancio dell’economia necessario al mantenimento dei livelli di assistenza attuali. Secondo le stime dell’VIII Rapporto Sanità del CEIS, nel prossimo triennio la quota di spesa pubblica ex post non si modificherà significativamente, attestandosi al 7,3-7,5% del PIL. Questo anche perché la crisi si è dimostrata molto più grave del previsto e quindi sarà il PIL a non 20 COLLOQUIA raggiungere i valori preventivati. Per far fronte alla crisi, già durante l’estate del 2011 il Governo era intervenuto con la manovra finanziaria (D.L. n. 98/2011), programmando di fatto un arretramento dell’intervento pubblico in Sanità di quasi mezzo punto percentuale di PIL; in pratica circa € 8 mld. in meno sui finanziamenti da erogare nel triennio 2012-2014. Da una simulazione effettuata dal CEIS Sanità sull’effetto della manovra sui bilanci delle famiglie, in particolare quello dovuto all’inasprimento dei ticket (stimato in € 2 mld.), emerge che si creerebbero oltre 42.000 nuove famiglie impoverite per le spese sanitarie; per contenere l’iniquità dell’impatto, è stata ipotizzata una applicazione progressiva dei ticket, con un inasprimento del 5% per le famiglie più povere (lasciando esenti solo quelle povere), fino ad arrivare al 30% per le più ricche: in tal caso, le nuove famiglie impoverite si ridurrebbero a 7.500. I dati disponibili riferiti al 2009, anno della prima crisi finanziaria, evidenziano che, a fronte di una riduzione del PIL del 3% rispetto all’anno precedente, si è determinata una riduzione dei consumi delle famiglie più che proporzionale (-6,8%) e una riduzione ancora maggiore della spesa sanitaria privata out of pocket delle famiglie (-7,6%). A dimostrazione della difficoltà in cui si imbattono le famiglie, si è anche riscontrata una riduzione del numero di famiglie che hanno sostenuto spese sanitarie: circa 102.000 in meno. Il Documento di Economia e Finanza (DEF) del 2012 e successivamente il D.L. n. 95/2012 (c.d. Spending Review) e il D.L. n. 158/2012 (Patto di stabilità) hanno comunque programmato a partire dal 2012 e fino al 2014 ulteriori tagli progressivi alle spese sanitarie. In particolare, i tagli riguardano la voce ‘beni e servizi’, con una riduzione del 5% (circa € 1,5 mld. in meno rispetto al 2011), degli oneri dei contratti di fornitura (ad esclusione dei farmaci), una Figura 1. Differenziali di spesa e PIL, Italia vs. Europa, anno 2009. Italia vs EU6 Italia vs EU12 0,0% -5,0% -10,0% -15,0% -20,0% -25,0% -30,0% PIL pro-capite Spesa sanitaria totale pro-capite Spesa sanitaria pubblica pro-capite Fonte: VIII Rapporto Sanità CEIS. Salute ed Economia riduzione di acquisto di prestazioni di ricovero ed ambulatoriali dai privati accreditati, dello -0,5%, -1,0% e -2,0%, rispettivamente nel 2012, 2013 e 2014; ancora tagli sulla spesa per farmaci e dispositivi medici: è prevista un’ulteriore riduzione dei tetti di spesa per la farmaceutica, ospedaliera e territoriale, nonostante il nostro Paese abbia un valore di spesa farmaceutica pro capite inferiore del 20% rispetto alla media dei Paesi OECD, e del 17% rispetto a quella media europea; anche per i dispositivi medici, per i quali, con la manovra finanziaria del 2011, era stato introdotto per la prima volta un tetto di spesa (pari al 5,0% del FSR), è stata prevista un’ulteriore riduzione con un abbassamento della soglia al 4,9% nel 2013 e al 4,8% nel 2014. Alla luce delle misure previste dagli ultimi provvedimenti legislativi, nel 2013, avremo quindi € 17 mld. in meno di risorse (-13%) per il SSN, rispetto a quanto previsto nel DPEF del 2008 (figura 2). A questo punto si pone il problema della sostenibilità futura dei costi sanitari, derivanti dall’invecchiamento della popolazione. Il tema è sempre al centro del dibattito, alimentato da previsioni sostanzialmente catastrofiche, soprattutto da parte di organismi internazionali. La popolazione invecchierà per effetto della scarsa fecondità ma anche dell’allungamento della vita media, ma ciò non comporterà necessariamente un problema di sostenibilità; infatti, le evidenze disponibili mostrano una progressiva | Le recenti manovre economiche e l’evoluzione del SSN posticipazione dell’insorgenza delle malattie, con la conseguenza che il periodo di “assorbimento delle risorse” rimane sostanzialmente invariato. Inoltre, come evidente dalle recenti scelte in tema di requisiti pensionistici, si allunga la vita lavorativa, il che comporta un “guadagno netto” per l’individuo e quindi la Società. Va comunque considerato che l’allungamento della vita può aumentare il numero di eventi acuti, e che alcune patologie croniche dipendono dagli stili di vita errati (obesità e diabete, patologie cardiovascolari) che si manifestano sempre più precocemente. Inoltre, grazie alle innovazioni e alle maggiori aspettative della popolazione, l’assistenza costa sempre di più. Conclusioni Le differenze evidenziate in termini di spesa sanitaria totale e di PIL tra l’Italia e la media EU6 e EU12 sono eclatanti e dato che lo stato di salute della popolazione italiana è quanto meno non secondo a quello medio europeo, è difficile pensare che sull’assistenza sanitaria italiana gravi un tasso di inefficienza economica rilevante, che giustifichi le ulteriori riduzioni di spesa previste dagli ultimi provvedimenti legislativi. Nonostante esistano numerose inefficienze allocative, il sistema sanitario italiano si dimostra decisamente “sobrio”, e questo andrebbe maggiormente riconosciuto. Sembra invece che il dibattito sulla Sanità italiana sia viziato da un ideologismo che, non considerando Bibliografia 1. Spandonaro F. Executive summary. VIII Rapporto Sanità CEIS Opzioni di Welfare e integrazione delle politiche, 2012. 2. Polistena B. La spesa sanitaria: comparazioni internazionali, previsioni ed efficienza. VIII Rapporto Sanità CEIS, 2012. 3. d’Angela D. Indicatori di performance: aggiornamenti sull’impatto equitativo della crisi finanziaria. VIII Rapporto Sanità CEIS, 2012. 4. Giordani C. Il finanziamento della sanità: comparazioni internazionali, investimenti in conto capitale ed effetti della crisi finanziaria. VIII Rapporto Sanità CEIS, 2012. Figura 2. I tagli alle risorse per la Sanità nel triennio 2012-2014. 135.000 5. Corte dei Conti, Rapporto 2012 sul coordinamento della finanza pubblica, Maggio 2012. 130.000 125.000 120.000 -1,8 mld € -2,0 mld € 115.000 110.000 -0,9 mld € -0,6 mld € -1,0 mld € 105.000 100.000 95.000 l’evidenza numerica dei fenomeni, ritiene inefficiente la Pubblica Amministrazione e, di conseguenza, la Sanità pubblica e in generale il sistema di welfare. Il sistema pare abbia sinora tenuto, sia razionalizzandosi, sia attuando la leva dell’amministrazione dei prezzi; ma questa strada non è percorribile all’infinito, anzi, potrebbe avere effetti indesiderati in settori economici che avrebbero, invece, la potenzialità per contribuire al rilancio dell’economia del Paese, quali ad esempio l’industria farmaceutica e dei dispositivi medici. Quindi in questo periodo di scelte necessarie non si può più rimandare una chiara decisione su quali siano i settori strategici per il rilancio dell’economia del Paese e in particolare se quello sanitario sia uno di questi. Resta fondamentale la valutazione: nessuna programmazione e nessuna organizzazione può raggiungere i suoi risultati senza un’adeguata accountability. 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 ─ DPEF 2008 ─ DPEF 2009 ─ DEF 2012 ─ D.L. n.95/2012 (Spending Review) ─ D.L. n.95/2012 (Spending Review) Fonte: rielaborazione dati Corte dei Conti. 6. D.L. n. 95. Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, Luglio 2012. 7. D.L. n. 158. Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute, Settembre 2012. *Università di Roma Tor Vergata; **CEIS Sanità, Università di Roma Tor Vergata e 4 Health Innovation; ***CEIS Sanità, Università di Roma Tor Vergata. COLLOQUIA 21 La Medicina e le Arti Notti di guardia Il blog nottidiguardia.it è nato nell’agosto del 2008 dal bisogno di alcuni operatori sanitari di condividere storie, immagini, emozioni che avessero come centro il lavoro in ospedale. Un lavoro che non conosce orari, che non si adatta ai calendari e che si trascina con ostinata continuità tra reparti, corridoi, sale d’aspetto, sale operatorie, pronto soccorso. Le poche decine di lettori del blog si sono rapidamente moltiplicati. Molti lettori sono diventati autori, e i racconti hanno presto tracimato i confini dell’ospedale per arrivare sulla strada, negli hospice, in case di riposo, nei paesi di guerra. Le notti di guardia non sono solo più quelle degli operatori, ma sono diventate anche quelle dei pazienti, che quotidianamente devono fare i conti con la malattia. Ad oggi le visite al blog arrivano a 15.000 passaggi al mese, gli autori sono quasi un centinaio, ma lo spirito è rimasto sempre lo stesso, e cioè quello di raccogliere esperienze di vita, di lavoro, di malattia, e nella condivisione dar loro spessore. A cura di GIUSEPPE NARETTO* e MAURO MEDAGLIA* 22 COLLOQUIA La Medicina e le Arti Solo di notte Scritto da massimolegnani il 01 Dicembre, 2012 Di giorno si balbetta, ma le parole nella notte si fanno tonde e calde, piccole pagnotte dal buon odore alle narici, pietre di fiume smussate all’acqua e tiepide di sole da tenere in mano e da sgranare come grani di rosario, bocce di ferro che rotolano precise sul liscio della terra dietro l’osteria fino a raggiungere il pallino. Di notte le parole ci fanno tutti complici, amici solidali, quasi amanti per quanto sconosciuti. Siamo le talpe semicieche che trovano nel buio sorrisi e gesti dove non potevano sapere finché c’era la luce a nascondere emozione. (…) Nella penombra delle stanze ti è più facile essere sereno sedendoti sul bordo di un letto sfatto di paura. Guardi negli occhi gonfi che non vedi questa mamma che boccheggia sotto il macigno di una diagnosi. Lei tace accarezzando lenta il suo bambino che finalmente dorme, miniera inesaurita di dolore, tu usi silenzio e vicinanza, parli, poco, stai in ascolto anche se tutto apparentemente tace. E con questi due strumenti che possono sembrare miseri, poco più che due cucchiai di fronte a una montagna, scavi un cunicolo fino al cuore della donna, che almeno possa respirare. E col respiro il pianto che assecondi muto, perché occorre dare il tempo giusto ad ogni lacrima, che lenta cada come sangue sporco di terra da una ferita aperta che non devi avere fretta di richiudere. E dopo parli in bisbiglio caldo, divaghi, infili qualche fesseria accettando il rischio di essere frainteso, e infine torni al sodo, che è quello il punto da smussare. Tu non sei giudice che possa fare sconti sulla pena, ma la pena la puoi dividere per due. (…) Così per qualche ora oscura e chiara diventi il Cristo minimo che allevia la comunanza del dolore e riaddormenta con le dita sulla fronte. Poi torna la luce e con la luce i capi e i bravi e i belli, quelli con il sapere in tasca e le parole in bocca da utilizzare in giro per tenere le distanze e accrescere la gloria. “Notte tranquilla, nulla di nuovo” dici, che tanto a certa gente è inutile spiegare. Ma mentre te ne vai, vedi una mamma sul limitare della stanza che incomincia con te a tessere la tela di sorrisi e di fiducia, da non disfare nella notte. massimolegnani Notte in Hospice Scritto da TNT69 il 06 Aprile, 2012 Silenzio, luci soffuse, il rumore del condizionamento. Dopo aver finito il giro ci si sofferma davanti al computer, si abbassano le luci. Ci si scalda con un the caldo, ci si racconta un po’, la vita, le esperienze, ci si conosce o si discute degli eventi lavorativi. A volte si ricordano pazienti particolari, quelli che ci hanno insegnato qualcosa, ognuno ne ha uno diverso. Poi si gira per vedere se tutti riposano, chi dorme, chi è sedato. In qualche stanza qualche parente si ferma a fare compagnia al proprio caro. Nel corridoio si mischiano i differenti respiri, come una musica. Poi un silenzio strano, lieve, un senso di pace. | Notti di guardia È tangibile, nessun campanello che suona, tutti dormono come non volessero disturbare o farsi sentire. Una presenza palpabile. È la Morte che aleggia, si aggira nel reparto, è tangibile, ma non fa paura, allevia le sofferenze, e sai dove potrebbe andare e vai dove pensi di trovarla. (…) Assistere una persona che muore è come assistere ad un parto, testimoni di un passaggio, la fine di una vita terrena e l’inizio di qualcos’altro, ignoto, ma non temuto. Un mistero, un dono. Grazie a voi che ho accompagnato in questi dieci anni di Hospice. TNT69 Non lo so Scritto da Bruno il 25 Aprile, 2012 emozioni / 5 Commenti Non è molto che lavoro in terapia intensiva ed ancora non riesco, e non so se ci riuscirò mai, a mantenere una certa distanza da te, che dall’altra parte del letto dove abbiamo messo tua moglie mi subissi di domande a cui non so dare risposte. Non riesco a darti risposte, (…) non perché non conosca i meccanismi che A destra Blue walk, Giuseppe Naretto, Ospedale San Giovanni Bosco, Torino A sinistra Notti, Marco Vergano, Ospedale San Giovanni Bosco, Torino. COLLOQUIA 23 La Medicina e le Arti | Notti di guardiaLa Medicina e le Arti hanno portato tua moglie da una banale febbre alla morte cerebrale, passando attraverso una meningite fulminante; non riesco a darti risposte perché tu e tua moglie avete la mia età ed è difficile capire e farti capire come si possa morire per una febbre a trent’anni. (…) Forse il mio guscio è ancora troppo morbido, ma 5 minuti dopo le tue parole mi sommergono come un fiume giallo e denso nel quale non riesco a stare a galla, ma solo ad affondare sempre di più. Ed il tuo dolore diventa anche mio, in un secondo i corsi su comunicazione diagnosi infauste, supporto ai parenti, distacco professionale, vengono cancellati come petali di ciliegio da un colpo più forte di vento. Non riesco a guardarti negli occhi mi vergogno troppo. Non posso neanche immaginare quanto tu stia male. (…) Mi chiedi cosa ne sarà della tua vita di domani, come farai col vostro figlio di 4 anni, a cosa starà pensando tua moglie in questo momento, se può sentire la tua voce, se può percepire il tuo bacio sulla fronte. Non lo so. Mi dispiace. (…) Esco dalla stanza, ma non riesco a smettere di pensare a quanto fragile sia il filo che tiene due persone che si amano insieme. Finisco la guardia, tu hai deciso con un gesto di infinito amore di far vivere tua moglie nel corpo di altre persone che stanno male. (…) Sento qualcosa dentro che non sarà più come prima, come se tu avessi scritto direttamente sulla mia anima. Bruno Tra Me e T(h)e Scritto da Bellerophontes il 26 Giugno, 2012 Ci sono momenti, camminando per il girone infernale (…) del pronto soccorso di un grande ospedale in cui, uscendo per la tua meritata e nociva sigaretta delle tre del mattino, un attimo prima dell’alba, ma ancora troppo vicino alla notte, la scienza si arrende all’umanità, alla paura di chi soffre, segretamente intersecata alla tua di fallire. C’era V. Siriano, lineamenti nobili, antichi, gentile nel parlare, seguito dai servizi psichiatrici. (…) La sua bottiglietta di the era caduta nel canale e lui a ruota per recuperarla, fa caldo hai sete e l’acqua serve due volte quando cammini in un paese che non conosci, di cui non conosci la lingua, e dove molte persone avranno approfittato della tua situazione per toglierti quella già poca fiducia, incarcerati dai buoni, sfruttati dagli stronzi. V. voleva solo la sua bottiglietta di the; quando i pompieri lo hanno estratto dal canale la brandiva come un trofeo. (…) Io e te, V., condividiamo più del 99,5% dei nostri geni, delle nostre vie biochimiche, della nostra fisiopatologia. A sinistra Passi, Giuseppe Naretto, Ospedale San Giovanni Bosco, Torino. A fronte L’anestesista, Dan Barbu, Ospedale San Giovanni Bosco, Torino 24 COLLOQUIA Lo condividiamo anche con il povero vecchio dall’ospizio col suo bel tappeto di batteri nelle urine, con il professore con la colica renale, con il tossico che ha bisogno di un po’ di metadone, morfina, contramal, tachidol, che comunque non gli daremo. Ma tu non hai bisogno di questo: una coperta di lana, i vestiti in sala lavaggio e, meglio del diazepam, qualcuno che si siede al tuo letto ed è disposto ad ascoltarti, instaurare un rapporto umano semplicemente dandoti di che coprirti ed un the caldo, come solo le infermiere dolci e bellissime di certi ps sanno fare. Dormi V., io sto smontando dalla notte, un tuo ultimo sguardo, lungo, silenzioso, il tuo sorriso ha il sapore della gratitudine, il mio… beh il mio non lo so, dimmelo tu. Bellerophontes Come dire Scritto da Herbert Asch il 22 Gennaio, 2009 (…) Tutto quel che hanno detto dal 118 è che arriva un trauma da un grosso incidente. (…) È una donna giovane tutta confezionata a puntino, sulla tavola spinale con la metallina dorata e le cinghie che la fasciano, monitorizzata, intubata, sedata, ventilata. Il collega che l’accompagna (…) mi lascia le consegne: grosso incidente, scontro tra auto e furgone, più altri veicoli coinvolti. (…) Mi dice anche che vicino a lei, nel prato, c’era un bambino 4-6 anni, morto, che viaggiava con lei. (…) Due ore dopo suonano alla porta, un magrebino piccino, dimesso, la camicia abbottonata senza cravatta, una giacca modesta. Gli chiedo chi è, chi cerca, ma già sospetto. – Mia moglie è qui? Mi hanno detto che l’hanno portata qui, ha avuto un incidente. L’italiano è incerto, parlo lentamente cercando di capire se riesce a comprendere. Gli spiego che c’è una signora, ma non siamo proprio sicuri di chi sia, non La Medicina e le Arti dovrebbe avere grosse cose, abbiamo fatto degli esami, però è meglio per sorvegliarla, aspettiamo che si svegli. Lui dice se può vederla che può riconoscerla. Lo faccio passare, poi si volta e mi fa la domanda che non volevo sentire: – e mio figlio? … Anche lui è qui? Nicchio che non so, che hanno portato solo lei, ma lui è ancora più inquieto: – allora dov’è, dove l’hanno portato?! Dico che mi sarei informato, che intanto se voleva vedere la signora… Lui va avanti, io passo al bancone, telefono in centrale 118 per sapere il bambino dove l’han portato. Mi dicono che è nelle camere mortuarie dell’ospedale vicino al luogo dell’incidente, a una cinquantina di chilometri da noi. Intanto il nostro ha riconosciuto la moglie. (…) Lo rassicuriamo che tra poco pensiamo di svegliarla, la teniamo lì per sicurezza, per sorvegliarla meglio. – E mio figlio? – Mi hanno detto che lo hanno portato all’ospedale vicino al posto dove hanno avuto l’incidente. (…) Lui si avvia verso la porta, dove lo aspetta un altro parente o un amico. Poi mi richiamano. Vado alla porta – Ma mio figlio come sta? – Non so, non mi hanno detto, forse è meglio che chieda laggiù. Non me la sento di essere io a dare la notizia, non voglio essere io accidenti! Parlano ancora tra loro. – L’ospedale è distante e adesso non abbiamo la macchina: ci sono autobus per arrivare là? – Non saprei, credo sia lunga… Non so cosa dire e capisco il dramma che sta vivendo questo poveretto. Non voglio neanche che, nell’incertezza delle condizioni si precipiti magari su un taxi, nella nebbia, per una situazione che, ormai, non ha più nessuna urgenza. – Vuole che proviamo di nuovo a telefonare? – Lei può? – Venga dentro. Proviamo. Tiro in lungo, ma non so cosa fare. Telefono al Pronto Soccorso dell’altro ospedale, mi informo sui feriti, e se ci sia effettivamente anche un bambino di sei anni morto. Mi confermano… L’omino è di fronte a me, e scruta il mio volto in attesa di notizie. Ovviamente della telefonata non ha | Notti di guardia capito un accidente, sono stato volutamente scarno di parole. Metto giù. Gli sguardi si incrociano. Lui parte per primo, ma ha cominciato a capire: – Ma… è morto? Stringo la bocca con una smorfia e COLLOQUIA 25 La Medicina e le Arti Dall’alto La mano che cura, Giuseppe Naretto, Marco Vergano Ospedale San Giovanni Bosco, Torino; Luci e ombre, Giuseppe Naretto, Marco Vergano Ospedale San Giovanni Bosco, Torino. 26 COLLOQUIA | Notti di guardia La Medicina e le Arti accenno appena con la testa. Adesso ha capito anche lui, senza errore. Ed io preferirei essere, di gran lunga, improvvisamente nella melma più fonda per un’intubazione difficile, un paziente instabile, una diagnosi insidiosa o impossibile ecc. ecc. ecc. Herbert Asch La fine del mondo Scritto da il guardiano il 04 Ottobre, 2008 Il giovane dottore arrivò in pronto soccorso che il consulto era già cominciato. Il medico di guardia, il radiologo, il chirurgo vascolare erano tutti davanti alla TAC. Il referto era chiaro: aneurisma dell’aorta addominale in fase di rottura. Il giovane dottore chiese se si andava in sala. La risposta arrivò secca dal chirurgo. Ovviamente si andava in sala. Ma nessuno si muoveva da lì. Il fatto è che la signora sapeva dell’aneurisma, e 2 anni prima aveva rifiutato l’intervento. La signora aveva dei problemi? chiese il giovane dottore. Era depressa? Demente? O cosa? No, niente. 84 anni, senza parenti. Bisognava solo convincerla. Mancava il consenso firmato. La paziente era in sala emergenze. (…) Tranquilla, respirava bene, la pressione era stabile. Una nonnina dagli occhi vivaci, un po’ sofferenti. Il giovane dottore la salutò, lei rispose. Le chiese come stava. Aveva male alla pancia. Il giovane dottore le somministrò un analgesico, lei ringraziò. Poi dopo qualche minuto di silenzio iniziarono a parlare. La nonnina era ben conscia di quanto era successo. Sapeva che l’aneurisma prima o poi si sarebbe rotto, ma lei non aveva voluto farsi operare. Non voleva morire in ospedale. Tutti le avevano detto che se si rompeva sarebbe morta, lì, su due piedi, senza neanche accorgersene. E questo in fondo la tranquillizzava. Così quando le era venuto quel mal di pancia terribile, mai più pensava all’aneurisma. Se avesse sospettato che era quello, se ne sarebbe stata a casa, così nessuno l’avrebbe operata. Ma | Notti di guardia quei dottori là volevano operarla a tutti i costi. E lei non voleva farli arrabbiare. Il giovane dottore la rassicurò sul fatto che se lei era contraria all’intervento, nessuno avrebbe potuto operarla. Se voleva poteva anche ritornarsene a casa. A queste parole lo sguardo della nonnina si accese di una nuova luce. Davvero poteva tornarsene a casa? E morire nel suo letto? E vedere per l’ultima volta le sue amiche? Certamente. Non era una cosa semplicissima, bisognava organizzarsi, ma era assolutamente possibile. Quando il giovane dottore tornò dai suoi colleghi, e spiegò la situazione, nessuno lo prese sul serio. Nessuno pensò che era ragionevole lasciare perdere e fare in modo che la nonnina se ne tornasse a casa a morire nel suo letto. Ma il giovane dottore rimase fermo nella sua posizione: lui non avrebbe mai addormentato una persona perfettamente sana di mente, orientata nel tempo e nello spazio, che rifiutava, in maniera del tutto ragionevole, un intervento che, in quelle condizioni, ha una mortalità elevatissima, e un rischio altrettanto elevato di complicanze future. (…) Con il cellulare (…) la nonnina chiamò due sue amiche (…) e un vicino di casa. (…) Raccontò loro tutto quello che era successo e invitò tutti a casa sua per un’ultima partita a carte. Poi firmò i fogli. Il giovane dottore aspettò che la caricassero sull’ambulanza. (…) Ho pensato un sacco di volte al giovane dottore e alla nonnina. Ho pensato a queste due persone che percorrono un tratto di strada insieme. Quella strada che porta all’orizzonte. Un giovane, figlio di tutti i figli, e una vecchia, madre di tutte le madri, che arrivati là dove il mondo finisce, di fronte al buio cosmico, si salutano. Lei per continuare, mite e coraggiosa, il suo cammino verso l’infinito, lui per tornare, chino e impotente sui suoi passi, e negli occhi le tracce di un nuovo stupore. il guardiano *Medici anestesisti rianimatori, Ospedale San Giovanni Bosco, Torino. A DIRE IL VERO di Tullio De Mauro* Chimicità ambiamenti in atto in varie tecnologie e nelle applicazioni che hanno sul nostro vivere fanno affiorare nell’orizzonte del parlare una nuova parola, chimicità in italiano, chemicity in inglese. La si cerca per ora invano nei dizionari su carta, anche aggiornati. La Princeton University però si incarica di pescare nella rete le parole più nuove, i neologismi, e generosamente le offre cercando anche di darne una prima sistemazione e definizione. E così nel suo Big dictionary on line registra la parola, la qualifica come “medical” e la definisce in modo molto generale: “lo stato di possedere proprietà chimiche”. Intesa così, la chimicità sarebbe qualcosa che appartiene a ogni atomo, molecola, aggregato di molecole nel vasto cosmo. L’uso che però si fa della parola sembra leggermente diverso. Dalla cosmesi al trattamento di materiali la parola appare per indicare non le proprietà chimiche di ciò che si trova in natura, un organismo vivente, il corpo umano, la pelle oppure un legname, ma per indicare piuttosto e più restrittivamente solo le proprietà chimiche di additivi, sostanze, medicamenti che si aggiungono a ciò che si trova in natura. Quest’uso ristretto appare in molte pagine in rete e così di recente (10 dicembre 2012) ha adoperato la parola un mobiliere di Cantù nella trasmissione televisiva di Corrado Augias Le Storie. Diario italiano dicendo che il legno dei suoi mobili “non ha chimicità”, è cioè utilizzato così come natura lo offre senza trattamenti aggiuntivi. C *Già Ordinario di Linguistica generale, Università “La Sapienza”, Roma; autore di “Grande dizionario italiano dell’uso”. 2a ed. riveduta e ampliata, 8 voll. con docking station, Torino: UTET. “Grande dizionario italiano dei sinonimi e contrari”, 2 voll., Torino: UTET, 2010. COLLOQUIA 27 La MSD si racconta ONCOMovies: dal cinema alle storie vere dei pazienti Da “paziente” a “persona”: lo sguardo della macchina da presa può cambiare la comunicazione in oncologia. A cura di TEAM ONCOLOGY, MSD O NCOMovies® è un progetto ideato con l’obiettivo di richiamare l’attenzione dei medici oncologi e dei pazienti sull’importanza della Qualità di Vita durante la chemioterapia, utilizzando la forza del linguaggio cinematografico, catalizzatore da sempre di emozioni. Negli ultimi 60 anni della storia del cinema, oltre 80 film si sono occupati di cancro: l’idea portante di ONCOMovies® è quella di valorizzare questo grande patrimonio di immagini e di storie per illustrare la vita reale del paziente in terapia, quello che accade oltre e al di fuori delle porte dell’ospedale, così da cogliere tutti gli aspetti che la persona con tumore affronta durante il percorso di cura e che possono sfuggire all’osservazione del medico. ONCOMovies® si sviluppa parallelamente su due filoni: uno dedicato all’oncologo e l’altro al paziente. L’oncologo, attraverso il sito www.oncovip.it, ha la possibilità di vedere quattro trailer contenenti scene di film famosi che affrontano le tematiche della Qualità di Vita dei pazienti oncologici durante la terapia, commentati dagli specialisti. I video vogliono richiamare l’attenzione del medico su quattro tematiche specifiche: ‘Sessualità e Tumore’, ‘Nausea e Vomito’, ‘Buona e cattiva comunicazione’, ‘Il senso della vita’, problematiche molto sentite ma spesso sottaciute dai pazienti. Anche il paziente, tramite il sito www.nonausea.it, ha a disposizione un trailer a lui dedicato. Scene tratte da film memorabili, anch’esse commentate da 28 COLLOQUIA un board interdisciplinare, hanno l’obiettivo di accrescerne la consapevolezza sull’importanza di un dialogo aperto con il proprio oncologo, per la corretta gestione degli effetti collaterali della chemioterapia che impattano la propria Qualità di Vita. Con ONCOMovies®, inoltre, i pazienti da protagonisti in classici del cinema diventano autori di nuove storie: le loro. Fino al 30 gennaio 2013, i pazienti potranno inviare al sito www.nonausea.it le loro testimonianze, che diventeranno lo spunto narrativo per la realizzazione di un corto cinematografico. Il cortometraggio, promosso da Salute Donna e SIPO, sarà realizzato, con il supporto di MSD, in collaborazione con il Festival Internazionale del Cortometraggio di Roma e presentato nel corso dell’edizione 2013 del Festival. La MSD si racconta Nausea e vomito da chemioterapia Le terapie di supporto coerenti alle linee guida migliorano sensibilmente la Qualità di Vita dei pazienti. Intervista a DOMENICA LORUSSO* Il cinema ci ha aiutato a vedere due tra i più temuti effetti collaterali della chemioterapia: nausea e vomito. Sappiamo che questo aspetto riguarda dal 30% a oltre il 90% dei pazienti. Quando e con che frequenza si manifestano? Che impatto hanno sulla loro Qualità di Vita? La nausea e il vomito sono alcuni tra gli effetti collaterali più temuti e patiti dalle pazienti, al pari e spesso peggio della caduta dei capelli. Rispetto alla Qualità di Vita, gli studi ormai sono molto chiari: ripetute evidenze scientifiche ci dicono che il vomito da chemioterapia è il sintomo che ha il più alto grado d’impatto sulla Qualità di Vita delle pazienti affette da cancro e sullo svolgimento delle loro attività quotidiane. L’effetto è molto dipendente non solo dal tipo di chemioterapia utilizzato, perché non tutti i farmaci hanno lo stesso potenziale emetogeno, ma anche da altre caratteristiche personali come lo stato emotivo, il sesso femminile e storie precedenti di emesi durante la gravidanza. Il vomito detto acuto può insorgere in modo acuto durante la somministrazione del trattamento chemioterapico o entro le successive 24 ore; il vomito detto ritardato si manifesta a distanza di più di 24 ore dalla chemioterapia; in tal caso è più difficile da gestire perché la paziente è nella maggior parte dei casi a casa, e spesso la nausea è tale da impedirle di alimentarsi e bere e assumere compresse per bocca. Il terzo tipo di vomito è definito anticipatorio poiché insorge prima dell’inizio dei cicli successivi di chemioterapia e sembra manifestarsi su base psicogena, è cioè legato al ricordo che l’inconscio trattiene del malessere legato al precedente ciclo di chemioterapia, spesso stimolato dal setting in cui la paziente si ritrova. Oggi sappiamo che se agiamo bene sul vomito acuto, con le terapie adeguate, otteniamo risultati anche contro il vomito tardivo e psicogeno. Nella sua esperienza, in che misura le terapie di supporto per nausea e vomito aiutano l’oncologo nella gestione del protocollo terapeutico? L’applicazione delle terapie di supporto secondo linee guida è molto Tabella riassuntiva delle raccomandazioni delle principali linee guida nazionali ed internazionali (ASCO, MASCC-ESMO, NCCN, AIOM) per il trattamento della nausea e vomito sulla base della chemioterapia somministrata. HEC AC CINV Acuta MEC CINV Acuta CINV Ritardata CINV Ritardata CINV Acuta CINV Ritardata MASCCESMO1 Aprepitant + setron + dex Aprepitant + dex Aprepitant + setron + dex Aprepitant palonosetron + dex dex ASCO2 Aprepitant + setron + dex Aprepitant + dex Aprepitant + setron + dex Aprepitant + dex palonosetron + dex dex NCCN3 Aprepitant + setron + dex ± lorazepam Aprepitant + dex ± lorazepam Aprepitant + setron + dex ± lorazepam Aprepitant + dex ± lorazepam setron + dex ± lorazepam (Aprepitant in pzz. selezionati) setron o dex o Aprepitant ± lorazepam AIOM4 Aprepitant + setron + dex Aprepitant (o setron o metoclopramide + dex Aprepitant + setron + dex Aprepitant palonosetron + dex dex COLLOQUIA 29 La MSD si racconta | Nausea e vomito da chemioterapia importante, non solo ai fini del miglioramento della Qualità di Vita della paziente, cosa peraltro fondamentale, ma anche rispetto alla possibilità dell’oncologo di gestire al meglio il protocollo terapeutico. Una nausea di grado 3 impone, infatti, la riduzione di dose della successiva chemioterapia, con le conseguenze che un non mantenimento dell’intensità di dose potrebbe avere sull’outcome oncologico. Inoltre, una paziente che vomita per giorni a casa deve spesso, durante l’episodio acuto, essere ricoverata per la necessaria idratazione; se poi gli episodi si ripetono, a lungo termine possono provocare un peggioramento delle condizioni cliniche generali che rendono molto difficile e spesso impossibile la prosecuzione della terapia. Da un sondaggio di Salute Donna onlus e SIPO tra più di 850 persone affette da tumore emerge che a circa il 92% è stata prescritta una terapia contro nausea e vomito, ma più del 65% degli intervistati riferisce che la nausea permane come l’effetto A lmeno 2.300.000 italiani oggi convivono con una diagnosi di tumore, e circa due terzi dei pazienti soffrono degli effetti collaterali associati alla chemioterapia, vomito e nausea, non adeguatamente contrastati con terapie di supporto. A raccontare le difficoltà e i problemi dei pazienti in terapia è la ricerca ‘L’impatto dei trattamenti oncologici sulla qualità di vita dei pazienti’, condotta su oltre 850 pazienti e promossa da Salute Donna Onlus (www.salutedonnaweb.it) e dalla Società Italiana di PsicoOncologia (www.siponazionale.it) nell’ambito del progetto ONCOMovies®. L’indagine nasce con l’obiettivo di valutare, in modo dettagliato, l’impatto dei trattamenti chemioterapici sulla Qualità di Vita 30 COLLOQUIA collaterale maggiormente percepito. Può spiegarci questa discrepanza? Il sondaggio coglie una problematica che è determinante per aiutare davvero le persone con tumore a gestire e controllare al meglio gli effetti collaterali della chemioterapia, tra i quali la nausea è quello che maggiormente deteriora la loro Qualità di Vita. Indica cioè che alle persone in cura che riferiscono di soffrire di nausea pur avendo ricevuto terapie di supporto contro questo effetto collaterale non sono stati prescritti farmaci coerenti con le linee guida aggiornate. È infatti fondamentale per il buon esito delle terapie di supporto che esse siano quelle indicate dalle linee guida, scelte cioè attraverso il rigoroso vaglio di studi clinici, e che dunque siano prescritti quei farmaci, e non altri, che sono stati in grado di dimostrare la loro efficacia. È stato recentemente pubblicato uno studio osservazionale (PEER) che ha valutato la risposta di 1128 pazienti in chemioterapia che seguono o meno la profilassi antiemetica coerente con le linee dei pazienti e sulle loro attività quotidiane, la frequenza d’uso delle terapie di supporto e le modalità di comunicazione tra oncologi e pazienti su questi aspetti determinanti per un percorso terapeutico ottimale. Il quadro che emerge dalla voce dei pazienti è chiaro: i trattamenti per le malattie oncologiche incidono negativamente sulla Qualità di Vita, già messa a dura prova dalla malattia. Gli effetti collaterali più devastanti sono nausea e vomito. Dalla stessa indagine sembra emergere che non sempre ai pazienti siano somministrate le terapie di supprto indicate dalle linee guida: infatti gli oncologi prescrivono un trattamento antiemetico nel 91,8% dei casi, ma, nonostante ciò, il 65,4% dei guida (GCCP), basata su antiemetici di nuova generazione, come aprepitant: può illustrarci i risultati? Dallo studio sono emersi due dati molto importanti: il primo è che l’applicazione delle linee guida nel controllo della nausea e del vomito da chemioterapia avviene solo nel 55% per la fase di emesi acuta, nel 46% per il vomito tardivo e nel 29% in tutto lo studio. Un dato sconcertante, perché ci dice che ancora oggi gli oncologi non sono sufficientemente sensibilizzati al controllo di questo tipo di tossicità. L’altro dato importante dello studio è che, confrontando il gruppo di pazienti sottoposti all’appropriata profilassi antiemetica secondo linee guida con il gruppo cui non era somministrata la terapia antiemetica adeguata, si assisteva a una significativa riduzione della nausea e del vomito nel primo gruppo, che si traduceva in una riduzione del numero di accessi e visite specialistiche ospedaliere nei 5 giorni successivi alla somministrazione della chemioterapia. *Dirigente Medico I livello Unità Operativa di Oncologia ginecologica, Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori di Milano. pazienti continua a soffrire dei debilitanti e mortificanti effetti di nausea e vomito. Questi risultati, del resto, sono confermati da quanto emerge dall’ampio studio osservazionale prospettico PEER (Pan European Emesis Registry), che ha arruolato 1128 pazienti in 8 Paesi europei, compresa l’Italia. Lo studio ha comparato i risultati ottenuti impostando la profilassi per nausea e vomito da chemioterapia secondo linee guida, con quelli ottenuti dalla somministrazione di una terapia non coerente con esse: nella fase di emesi acuta la somministrazione dei farmaci antinausea e vomito coerenti con le linee guida avviene solo nel 55% dei casi. La voce dei pazienti, così come emersa dall’indagine, chiede che la cura della malattia si focalizzi in maniera integrata su due aspetti: il prolungamento della sopravvivenza e il miglioramento della Qualità di Vita. Da ciò deriva l’auspicio che il trattamento oncologico ottimale preveda l’associazione della migliore chemioterapia, con le migliori terapie di supporto disponibili. • L’ULTIMA PAROLA di Giuseppe De Rita* L’esplosione della soggettività del paziente Non si può dimenticare che la società moderna, valorizzando l’idea del “il corpo è mio”, induce il paziente ad essere partecipe o almeno cosciente di quel che nel corpo avviene e del modo in cui il suo corpo è trattato. quasi banale, in questi ultimi anni, È constatare il profondo cambiamento della figura del paziente; e verificare quanto egli si stia trasformando in soggetto del rapporto di cura, lontano da quella configurazione un po’ passiva e quindi fragile che per secoli gli era stata propria. L’esplosione della soggettività del paziente è infatti il fenomeno più impressivo (e anche più sostanziale) di questi decenni. Non è comunque fenomeno puramente settoriale, visto che tutta la società moderna è segnata da un riferimento quasi ossessivo al primato della coscienza individuale, della libertà personale, del “diritto di essere se stessi”. Con una diffusa propensione a riferire ogni componente della vita al “foro interno”: la vita è mia, il lavoro è mio, l’azienda è mia, il tempo è mio, il figlio è mio, il corpo è mio. Anche il corpo, perché (come ha spiegato più volte Umberto Galimberti) quello che è veramente nostro è solo e solamente il corpo; perché quello che possiamo o vogliamo esprimere passa tutto attraverso il corpo; perché quello che siamo, nelle gioie e nei dolori, si esprime nel corpo. La alta soggettività del sistema sociale trova in altre parole il suo campo di forza non tanto negli spazi intellettuali e coscienziali, ma specialmente nella consapevolezza e gestione del nostro corpo. Si capiscono allora i fenomeni di soggettività sanitaria da più parti segnalati, come la propensione a “farsi in proprio una prima diagnosi”; la tendenza a prescriversi autonomamente un farmaco (lo fa quasi il 40% degli italiani); la propensione a divorare ogni strumento di comunicazione (televisivo, giornalistico, editoriale) che porti il singolo a conoscere e capire i propri disagi e anche le proprie eventuali malattie; l’abitudine a consultare sempre più spesso i social network e il web, per avere o prime informazioni sui propri sintomi o immediata conferma delle diagnosi del proprio medico; la diffusa rincorsa a cure e medicine alternative, espressamente calibrate su logiche ampiamente personalizzate; la sperimentazione del fitness per garantirsi personale qualità della vita e prevenzione da varie patologie; l’attenzione agli stili di vita come veri cardini della salute fisica individuale. Possiamo avere qualche dubbio sulla correttezza di alcune di queste scelte, ma esse sono nei fatti, e occupano uno spazio crescente, a conferma ed articolazione concreta del soggettivismo con cui oggi gli uomini guardano alla propria salute. Un soggettivismo che in più porta spesso i pazienti a ragionare non tanto in termini di “bisogno” di cura quanto in termini di “desiderio” di star bene o di guarire rapidamente. La psiche e il linguaggio segnano già con tale passaggio un implicito cambiamento di paradigma. Quanto giuoca questo crescente soggettivismo del paziente nel rapporto con il proprio medico e con il sistema sanitario? È ancora possibile parlare del paziente come oggetto fragile nella dinamica sanitaria, dove egli porta spesso una intensa carica di desideri, di domande squisitamente soggettive, di attese? La fragilità è, per lunga storia della salute, una componente essenziale di ogni uomo nel momento in cui gli arrivano addosso sintomi negativi, malanni e paure. E di fronte a tale fragilità tutto l’orgoglio alimentato dalla alta soggettività è destinato ad incrinarsi. Ma non si può dimenticare che comunque la società moderna, valorizzando l’idea del “il corpo è mio”, induce il paziente ad essere partecipe o almeno cosciente di quel che nel corpo avviene e del modo in cui il suo corpo è trattato. Ne deriva una doppia conseguenza: una torsione “olistica” della medicina moderna, e un rapporto tendenzialmente bi-direzionale fra medico e paziente. Da un lato infatti il paziente vuole essere guardato nella sua complessa unitarietà, come un caso particolare e specifico, quasi unico, rifiutando di essere visto come portatore di una pura ripetizione di una patologia di massa; e vuole quindi un riferimento del suo stato di malattia alla sua più generale struttura e congiuntura della sua personalità e della sua vita (nelle quali si intrecciano fattori diversi: da quelli psicologici, a quelli alimentari, di stile di vita, di stress, ecc.). Per strade impreviste il soggettivismo ha avuto come contropartita lo sviluppo di un approccio olistico. Ed è a questa evoluzione della cultura medica che si collega l’altro tema oggi all’onor del mondo: la tensione ad un rapporto tendenzialmente bi-direzionale fra medico e paziente. Per carità, nessuno può mettere in dubbio la inevitabile asimmetria che rende distinti il sapere e l’esperienza del medico dalla generica cultura del paziente; ma non c’è dubbio che oggi i loro rapporti non sono più di dipendenza psicologica. Sono volti a capire insieme, a dialogare sulle cose da fare, a scambiare opinioni sui risultati via via conseguiti. È questa la vera e profonda umanizzazione delle cure, lontano da paternalismi e buona volontà di ogni tipo; ed è un processo che a quel che è dato di capire, non si ferma qui. *Segretario Generale Fondazione Censis. COLLOQUIA 31 APPASSIONATI ALLA VITA CI SONO MOMENTI CHE VALGONO ANNI DI RICERCA. Ogni giorno portiamo la passione per la vita nei nostri laboratori, nei nostri uffici, negli ospedali, nelle vostre case. Lavoriamo per migliorare la salute attraverso la ricerca e lo sviluppo di farmaci e vaccini innovativi. Il nostro impegno raggiunge tutti, anche attraverso programmi umanitari di donazione e distribuzione di farmaci. Per assicurare ad ogni singola persona un futuro migliore. www.univadis.it www.contattamsd.it [email protected] www.msd-italia.it 09-13-MSD-2011-IT5849-J Be well.