Il Tempo È Essenziale

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Il Tempo È Essenziale
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Da quando l'uomo è entrato in scena, ha portato con sé delle definizioni che  forse per definizione 
richiedono un opposto. Se c'era il bene, c'era anche il male. Se c'era la luce, c'era anche l'oscurità. Se c'era
il tempo, c'era anche il non-tempo. Imponendo il sistema delle 24 ore, sostenuto da ancora un altro sistema
di zone temporali, l'uomo potrebbe aver finito col distruggere ciò che struttura il mondo nel giorno e nella
notte. O forse no. Ma Pie-IX tratta di questa possibilità. Irrazionale, illogica, e forse un po' pazza, Pie-IX
presenta una storia su un assaggio di viaggio nel tempo, alcune porzioni di torta, e l'occasionale alterazione
di genere. Vi suggeriamo di mettervi a sedere, di avere a portata di mano degli snack, e di gustarvi
quest’avventura.
Pubblicato da Shoebox Publications
Copyright © Jaida Jones & Kyla Sturgeon, 2005 – 2006
Traduzione © Serena Tardioli
Printed on line July 2007
All rights reserved under International Copyright Conventions.
Published by Shoebox Publications.
www.shoebox-project.org/pieix/
www.pie-ix.com
Pie-IX: Parte I
Il Tempo È Essenziale
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Parte I: Il Tempo è Essenziale
L’
orologio era rotto. Era rimasta solamente una lancetta, che indicava il IX. Non c’era modo di
dire se era la lancetta del secondo, del minuto o dell’ora, ma sembrava piccola. Il ragazzo diede un colpetto
con il dito del piede all’orologio, che scivolò in avanti. Al di sotto di esso, un ammasso traballante di lattine
messe lì alla rinfusa, agitate.
“Attento,” lo richiamò il suo amico. Lui non ascoltava il suo amico. Aveva le sue ragioni. Tanto per
cominciare, il suo amico era una ragazza. Inoltre, a causa di un’adolescenza capricciosa, era determinato a
fare l’opposto di qualunque cosa gli venisse consigliato di fare. Da dove era appollaiato, re del mucchio di
immondizia, persino re di tutte le discariche del mondo, la sua amica era solo una voce senza corpo. Non
doveva ascoltarla. Invece si rannicchiò tra i detriti del suo mondo quotidiano, respirando in quella massa
stantia l’odore libero dell’immondizia. La ruggine sulle lattine, l’orologio fermo, avevano qualcosa di
terribile e meraviglioso. L’orologio sembrava una faccia che scrutava da un vecchio palo, quel tipo di
orologio antico con un pendolo ponderoso che solo gli eccentrici o i ricconi possedevano. Al ragazzo
piacevano soprattutto i numeri, tutti quei I e V e X. Allungò la mano e provò a far girare la lancetta ma, o che
fosse per la forza della ruggine o per la forza dell’abitudine, era bloccata. Sotto di lui, le lattine si spostavano
come un mare di metallo corroso.
“Cosa hai trovato?” La sua amica, la ragazza, cambiò tattica.
“Un orologio.”
“Nient’altro?”
“Lattine. Un topo morto. Una scarpa.”
La sua amica, la ragazza, era l’unica persona tra i conoscenti limitati del ragazzo che non avrebbe
rabbrividito di fronte all’intricato mondo dell’immondizia, di fronte all’impresa deliziosamente sporca di
setacciare tra gli ammassi delle cose abbandonate da altre persone. Non era uno spreco biodegradabile – non
era il tipo di immondizia a cui era interessato il ragazzo. Era interessato, piuttosto, all’immondizia che non
scompariva, quella che il tempo non poteva cancellare. Quella discarica era immortale nello stesso modo in
cui un orologio fermo lo era. Da qualche parte nelle profondità, la stessa robaccia era stata la stessa robaccia
per molto più a lungo di quando il ragazzo riuscisse ad immaginare. Era veramente delizioso, da far venire i
brividi solo a pensarci.
“C’è qualcosa che vale la pena tenere?”
“L’orologio.”
“Lanciamelo.”
“Potresti farlo cadere. Potrebbe rompersi.”
“Non lo farò cadere! Non succederà. Lo prometto.”
“Lo porterò io giù.”
L’ammasso di lattine, di pezzi della struttura di un letto, di maniglie, di scalini, di lampadine e di
tutte le cose che ormai non erano più riconoscibili, grandi e piccole e spezzate, era ripido e instabile. Il
ragazzo era testardo però. Il ragazzo si sentiva più testardo di quanto l’ammasso fosse ripido. Teneva
l’orologio contro il petto e cominciò a scivolare giù sulla schiena, i piedi e il braccio libero che guidavano la
via. L’immondizia si innalzò come colline e montagne proprio sopra i cumuli delle sue ginocchia. Le lattine
e i rimasugli e le cianfrusaglie, ma soprattutto le lattine in quel mucchio, si spostavano in modo
imprevedibile sotto di lui. Poi, un terribile suono lamentoso. Un improvviso crollo fatiscente. Nella frana che
seguì, cadde un senso di pace come uno strato di polvere sopra il panico del ragazzo denso come la pece. Se
stava per essere schiacciato sotto così tanta immondizia, allora in cambio anche lui avrebbe conosciuto un
giorno i segreti immortali della robaccia. Sarebbe stato come un orologio fermo. Un giorno, qualche altro
ragazzo ignoto avrebbe potuto trovarlo, immobile nel tempo ma in qualche maniera ancora riconoscibile.
Tuttavia il ragazzo non era stato seppellito. Proprio quando una cascata di metallo aveva ostacolato
la luce del sole e il ragazzo si era rassegnato felicemente a quell’oscurità che odorava di ruggine, qualcosa lo
succhiò via attraverso la risacca mobile di metallo sia sopra che sotto di lui, verso un’altra parte. Ma non era
“l’altra parte” ma una parte completamente nuova, una che il ragazzo non si sarebbe mai aspettato. Il ragazzo
atterrò su qualcosa di nodoso e duro, come la spina di una grossa lucertola. In qualche modo aveva perso
l’orologio, l’aveva lasciato andare, per lo stupore. Imprecò nel modo in cui una volta aveva sentito suo padre
imprecare, rivolgendo una parola alla subitaneità del proprio biasimo, ma la parola con la sua voce
penetrante e stridula risultò ridicola e piccola.
Apparve il viso della ragazza.
“Ti avevo detto di lanciarmelo! Te l’avevo detto che non era sicuro!”
“Ho perso l’orologio.”
“Non essere stupido. È solo uno stupido orologio.”
“Non è vero. Era un buon orologio. Non ne sai nulla.”
“Era rotto. L’hai detto tu!”
“Non è questo il punto. Sei stupida.”
Il ragazzo si mise a sedere, strofinandosi la schiena. Quando corrugò la fronte, il suo viso smagrito di
ragazzino sembrava senza tempo. Era la sua indole che traspariva. Senza età, quel malumore oscurava i
lineamenti adolescenziali del suo viso ed ora si presentava solamente l’indole. Quando si mise a sedere, la
cosa spinosa dietro di lui gli si conficcò nelle cosce. Era un enorme ruota dentata. Il ragazzo non l’aveva
ancora vista. Si guardò intorno, e ce n’erano di più che si muovevano a tutte le velocità. Alcune si
muovevano così lentamente che a mala pena sembravano muoversi. Non facevano alcun rumore, mentre si
collegavano e giravano e si collegavano. Qualcuno deve averle oliate molto attentamente, pensò il ragazzo.
Erano di un tipo di metallo dal luccichio indistinto che il ragazzo non aveva mai visto prima, e sopra le
superfici, allo stesso tempo rotonde e nodose, venivano ogni tanto riflesse facce, mappe, corpi scintillanti
d’acqua o un labbro arricciato di una fiamma. Quando il ragazzo avvicinò la faccia ad una ruota, vide queste
cose che si agitavano sopra il suo stesso riflesso. Sulla sua guancia sinistra, qualcuno era morto.
“Non so dove siamo,” disse la ragazza. “Non sono stata io. Non penso di essere stata io. Pensavo che
stessi per morire.” La serie eccessivamente drammatica delle sue azioni giustapposte, soprattutto l’impiego
dell’ultima affermazione, fece sbuffare il ragazzo. Era proprio tipico di lei, decise. Accolse questa specie di
disprezzo senza particolare malizia. Era solo uno stato mentale che il suo grande ego maschile, fragile
com’era, richiedeva. “Comunque,” continuò la ragazza, “voglio tornare indietro.” Sembrava arrabbiata, si
rilevava una vampa di risentimento in due punti rossi sulle sue guance. “Non mi piace qui. Tu e la tua
stupida immondizia! Me ne vado a casa.” Afferrò la mano del ragazzo. Lui si tirò indietro. Le dita di lei era
sorprendentemente forti. Inciamparono insieme, e caddero insieme, in una pozzanghera nerastra d’acqua
piovana che si era formata nel cavo di un vecchio copertone e del suo coprimozzo. Accanto a loro, il
quadrante dell’orologio si era spaccato in due dove era caduto e dalla ferita, come sangue ingrandito, si versò
una collezione di ruote dentate e di ingranaggi tutti scintillanti nel pomeriggio. Il ragazzo si rese conto di che
cosa aveva visto. Erano stati all’interno di un orologio molto grosso.
***
Sono passati nove anni da allora.
Se il ragazzo avesse avuto nove anni a quel tempo, allora sarebbe passato attraverso qualche stadio
imbarazzante in più di quello attuale, e al momento stava crescendo in tutti quei posti nuovi che il suo corpo
gli offriva; stava solo iniziando a riconoscere questi posti come propri. Se fosse stato ad agio con la
lunghezza inaspettata dei propri arti, allora si sarebbe esercitato. Aveva fatto un lavoro ammirevole per
sopprimere, per esempio, gli effetti della pubertà. Solamente quell’indole si manifestava sul suo viso. Questo
era il viso con cui si svegliava quotidianamente. Almeno ci si era abituato, se non altro.
In ogni caso, era successo nove anni fa. In questo giorno, nove anni dopo, il giovane uomo, che non
era più un ragazzo del tutto, decise che sarebbe diventato un eroe. La scuola lo annoiava, era indifferente alle
persone, ma il tempo e l’immortalità ancora facevano presa sulle sue affezioni come nient’altro. Si svegliò
quel mattino e decise. Nello specchio il suo viso serio lo osservava. Erano le otto e cinquantuno. Era
puntuale.
La città, compatta e indaffarata, non si accorse di lui. Le finestre brillavano in alto, su in alto.
Quando la città non aveva più potuto espandersi esternamente, cominciò sensibilmente ad espandersi in alto.
Ai livelli più bassi c’erano le strade, i vicoli senza meta e sinistri, e vie più ampie, collocate in giro come
raggi di sole screziati. C’erano alcune finestre e una sovrabbondanza di porte. Le particolari geometrie della
città intensificavano la strada più altamente trafficata, affinché le autostrade e le superstrade si intersecassero
come equazioni algebriche, pericolose ma in qualche modo tranquille. La città, in altre parole, aveva dei
livelli. Era confinata da un perimetro circolare ed era in generale un luogo abbastanza buono dove vivere. Il
ragazzo era ambivalente. Era, pensava, distaccato dalle deviazioni, dalle eccentricità e dalle altezze
vertiginose della città; era certamente distaccato dagli angoli oscuri delle strade che portavano a casa; spesso
immaginava di essere una ruota dentata fuori uso, che ruzzolava da una fermata ad un’altra di sua spontanea
volontà.
Un uomo, mezzo nudo, si sporgeva da una finestra. Sulla strada sotto di lui, un altro uomo dava dei
calci ai raggi di una vecchia bicicletta.
“A che ora stanotte?”
“Alle nove.”
“Mi stai prendendo per il culo? Non mi merito anch’io le notti libere? Sonova – tu mi prendi per il
culo.”
“Vieni alle nove, che ti prenda o no per il culo. Alle nove stanotte. Ci siamo capiti?”
“Alle nove, alle nove. Merda.”
L’uomo tirò giù la finestra; l’altro saltò sulla bicicletta e andò via scricchiolando. Il ragazzo passò
sopra alla stessa sensazione, solo per metà spiacevole, che aveva ogni volta che qualcuno urlava il suo nome
a qualcun’altro che non era se stesso, il fascino malato che ognuno aveva con il fatto di non essere del tutto
unico. Nove era un’ora popolare, sia del mattino che della notte. Ma non era davvero un’ora divertente,
qualcosa tra il non-troppo-presto e il non-troppo-tardi.
Il ragazzo cambiò il suo percorso usuale per uno inusuale. Qualcuno provò a vendergli la colazione
fuori dalla vetrina di un negozio.
“Colazione?” La mano corpulenta di una donna gli ficcò un pancake sotto il naso. “Economico!
Caldo! Buono! Colazione?” Il ragazzo schivò il pancake e continuò a camminare. Odorava di burro.
“Colazione,” gli urlò la donna. Aveva un accento pesante che faceva sembrare la parola tragica. “I bambini
oggi non mangiano la colazione! Suvvia, comprate una piccola colazione, bambini!” il ragazzo preferiva i
pasti che non gli si rivolgevano. Il chiasso che faceva la donna lo inseguì giù per la stretta strada finché non
perse bruscamente la sua forza, e rinunciò alla caccia.
Arrivò ad una porta, familiare ad un vecchio posto dentro di lui.
Lì vicino, i suoni di un garage, i brontolii di vecchi motori, l’odore della meccanica, della gomma e
dell’olio. Il ragazzo arricciò il naso mentre bussava. Quando la ragazza aprì la porta, si presentò a lei con
un’espressione eternamente riconoscibile, il vecchio dispiacere, il cipiglio immutabile. La ragazza era
cambiata più di lui.
“Nove,” disse.
“Andiamo alla discarica,” replicò Nove.
***
“È passato un po’ di tempo, vero?”
“Un po’.”
“Sono passati degli anni.”
“Anni.”
“Cavolo, sei un sacco più alto, Nove. Esci molto? Come vanno le cose a casa?”
Nove non voleva sprecare del tempo a recuperare gli anni insieme perduti. Un gatto scarno senza
collare saettava da un’ombra all’altra davanti a lui. Evitò il gatto ed evitò di rispondere. Se avesse avuto un
aspetto abbastanza tetro, per la ragazza sarebbe stato possibile ignorarlo: così sarebbero stati pari. Tutti,
immaginò Nove, volevano tenersi alla larga dalle brutte notizie.
“Sono passati nove anni, Nove. Nove! Cavolo. Di sicuro sai come scomparire. Sembri un po’ bianco
nei contorni, Nove. Non sei uscito, vero? Vero?”
La discarica, che Nove aveva abbandonato nove anni fa, era nella parte remota della città. Nove
l’immaginò adesso: eterna, inalterabile, imperturbabile, gemente con l’età. La ragazza lo seguì nei suoi passi
e riempì i silenzi nervosi che lasciava sulla sua scia finché non stavano esplodendo dal suono. Se ascoltava
abbastanza attentamente le altre cose, i suoni che lei faceva sparivano, o scivolavano nei rumori più generali
generati dalla vita dentro la città. Erano impersonali, come una conversazione di passaggio, o il grugnito di
un motore quando si potenziava in testa. I richiami di accoppiamento dei piccioni, o un bimbo che piangeva,
un telefono che suonava, l’indistinto e costante ronzio dell’energia elettrica e delle luci, che solo per essere
su ‘on’ avevano un suono ‘on’. E anche la ragazza che parlava ora svaniva nella sinfonia più generale del
rumore costante. Più si concentrava su qualcos’altro, più riusciva a distanziarsi dal suono della sua voce, un
po’ più profonda di com’era, con un timbro da giovane ragazzo – androgino. Appena ci riusciva, però, un
sussurro di orgoglio strisciava dentro di lui, e una volta che accadeva la sua voce improvvisamente
aumentava di nuovo, distinta tra tutte le altre sillabe della città. Dopo questo non riusciva bene a renderla
astratta di nuovo. Lei continuava a parlare. Lo faceva diventare matto.
“All’inizio pensavo che sarei venuta io a trovarti invece, dopo che avevi smesso di venire – solo
allora ho pensato, e se eri tu ad essere arrabbiato con me? E se venivo a trovarti e tu eri arrabbiato con me,
sarebbe stato meglio aspettare per un po’ per farti sbollire. Ma per quanto dovevo aspettare? E allora se
avevo aspettato per troppo a lungo? Non sapevo proprio cosa fare. Ci ho pensato e ripensato ma più ci
pensavo più la cosa diventava complicata. E immagino che in quel modo, il tempo abbia continuato a
scorrere. Perché sei venuto adesso? Stamattina mi sono svegliata pensando a te – immagino fosse la prima
volta dopo un lungo tempo. Non è in questo modo che il tempo ti capita? Ho pensato stamattina, ‘cos’è
successo a quel ragazzino che conoscevo – fissato con l’immondizia, eh?’ Come se potessi dimenticarmene.
Ed ora eccoti qui. Come se ti stessi aspettando. ‘Andiamo alla discarica,’ dici – e ci andiamo! Proprio come
se non fosse passato per niente del tempo. Solo che è passato – e un sacco. Nove anni, Nove. È un periodo
lungo, e non so cosa farne.”
Il suono dei suoi stivali che strascicavano sul marciapiede sembravano prevedere pioggia. Forse era
solo il potere associativo che apparteneva agli stivali strascicanti. Nove li sentiva e pensava alla pioggia.
“Perché indossi quelle stupide cose? Non sta piovendo, no?”
“Potrebbe, però. Potrebbe.”
“Hm.”
“Non sei cambiato affatto, Nove. Mi rende un po’ contenta – non sei proprio cambiato.”
Arrivarono al ciglio della discarica. Anche Nove era contento, ma per motivi diversi. Era contento di
vedere che la distesa montuosa di immondizia era grande ed impressionante come sempre. Erano cresciuti
insieme. Per la ragazza, erano entrambi straordinariamente familiari, come se fossero stati generati da dei
patti privati con il tempo.
“Come saprai dove siamo stati – sai, l’ultima volta?”
“Lo saprò,” disse Nove.
“Cavolo,” mormorò la ragazza. “Proprio la stessa cosa. Tu e l’immondizia. Che ne dici. Cavolo.”
“Dai, Ce,” disse Nove. Andò avanti e non tenne aperto il cancello oscillante né guardò dietro di sé.
Era possibile che nemmeno la ragazza fosse cambiata affatto, perché trovò che ancora non le importava quel
tipo infido di comportamento meschino.
***
Nove esaminò con le dita le vecchie ruote dentate, le molle, gli ingranaggi. Davano la sensazione di
essere delle ossa piccole. Si sgretolò un po’ di ruggine quando strofinò il metallo e quando tolse le dita
avevano quell’odore amaro, una via di mezzo tra il sudore umano e l’intensità metallica, un odore mordace.
Si mise in tasca un po’ di quei pezzettini di ruggine. Non l’aveva fatto per una nostalgia che qualunque
essere umano aveva, erano solo pezzettini di una cosa meccanica, e quindi Nove permise a se stesso questo
gesto. Era – come se ancora sentisse in modo pungente la debolezza dell’adolescenza – eccessivamente
attento quando si trattava di gesti. Traeva un certo conforto dall’odore metallico. Era la prova di qualcosa che
non era mai stato umano, nemmeno una volta. A volte riconosceva la debolezza delle sue scuse. Tuttavia, per
la maggior parte delle volte, supportava il sistema anomalo. L’aveva progettato lui, dopotutto. Ce, la sua
amica, la ragazza, diede un calcio con lo stivale ad una lattina che saltò in avanti, venne respinta da uno
schermo offuscato di una vecchia TV, e rotolò indietro fino ai piedi di Ce.
“Sono passati nove anni,” mormorò.
“Questo è il posto.”
“Senti, riguardo a quello. Non so nemmeno cosa ho fatto. È stato un incidente. Pensavo che tutta
quella merda ti avrebbe schiacciato. Non potrei farlo di nuovo.”
“Devi pur ricordare qualcosa.” Nove contemplò l’idea di provocare una frana di cose abbandonate.
Come se fosse al corrente di una visione futura, riusciva a vedere alla luce del sole uno sprazzo di metallo
smorzato dal tempo, che si agitava e che si contorceva e che alla fine cadeva.
“Non ricordo niente. No. Nemmeno una singola cosa. Però ti aiuterò ad aggiustare l’orologio.
Possiamo persino prendercene uno nuovo. Dai. Andiamocene. Andiamo, Nove.”
Questa volta fu il ragazzo ad afferrare la mano della ragazza. La risposta era da qualche parte nella
torre pendente di immondizia. Non era strano, pensò Nove, che l’orologio fosse ancora lì? Tutti i bordi erano
stati rosi dalla ruggine, ma il IX e la lancetta erano rimasti, bloccati saldamente a vicenda. Per il centro
dell’orologio, scorreva una profonda incrinatura irregolare. Un qualcosa di quell’incrinatura dava speranza a
Nove.
“Perché lo fai?” chiese la ragazza. La sua domanda era cambiata. “Andiamo, Nove.”
Nove strinse la presa al suo polso con le dita. “No,” disse. Quando era caduto la prima volta  si
ricordava tutto troppo chiaramente  era nella pancia dell’immondizia dove per l’appunto era caduto.
Quell’“altra parte”, non l’altra parte, era ancora da qualche parte lì dentro. L’immondizia era solo una
copertura. Era lì per distrarlo da qualcosa di molto più interessante. Non era possibile che Nove avesse
passato tutto questo tempo a pensare che la sua attrazione per l’immondizia fosse in realtà un sentimento di
affinità per questo luogo segreto, una conferma del suo diritto di rivedere quelle ruote dentate? E Ce fu
quella che gli aveva reso possibile quell’opportunità. Era nello stesso tempo consapevole e diffidente delle
implicazioni. Erano pericolose. Non stava in un certo modo venendo meno alla sua prima regola di severa
indifferenza? Si sentiva di nuovo come un bambino che pensava di aver bisogno di lei.
Con quello in testa, saltò in avanti e fece crollare la frana con la spalla. Portò Ce con sé.
***
Da qualche altra parte, l’uomo nell’atrio pensava di allevare piccioni. Decise di non farlo. In
generale i piccioni non erano conosciuti per il loro opprimente senso di affetto. C’era un certo fascino
nell’allevare un intero tetto posatoio di piccioni che cagassero sulle teste delle persone che sembravano aver
fretta di arrivare da qualche parte ma, a causa di tutto quel lavoro e dell’assenza di affetto, l’uomo nell’atrio
decise che non ne valeva la pena. Era un po’ stravagante anche per i suoi gusti. Guardò l’orologio e fu
contento di notare che, alle 9:59, aveva sperperato tre minuti a pensare di allevare piccioni. Piccioni
viaggiatori, piccioni domestici, piccioni cagatori. L’atrio dava la sensazione di essere una stanza di ripiego
che aspettava di diventarne una vera. Tuttavia in giro non c’erano riviste, quei raccoglitori insufficienti di
considerazioni deficienti da intrattenimento. L’uomo fu lasciato alle proprie trovate. Essendo esausto dei
piccioni, si accalcò sul divano e immaginò che lo stesse inghiottendo. “Aiuto,” disse. Inscenò alcuni segnali
di lotta, agitando le braccia sopra la testa e calciando con i calcagni sul tappeto. “Qualcuno mi aiuti! Il
divano – mi mangerà! Fate qualcosa!”
Una donna stazionata alla porta, probabilmente una qualche specie di segretaria, lo guardò con
un’espressione appropriata considerando le circostanze. Era chiaro che pensasse che l’uomo fosse pazzo. Era
anche chiaro che fosse solita a trattare con gente pazza, e gli lanciò uno sguardo pieno di risentimento
esausto. Era vero; forse aveva cose migliori da fare con il suo tempo. L’uomo ammirò la sua forza d’animo.
Diede gli ultimi pochi calci indeboliti e spasmodici e rimase immobile, lasciando ciondolare la testa su una
spalla. La segretaria lo guardò infastidita dalla porta accanto a lei. Nonostante l’uomo fosse arrivato con
ventinove minuti di ritardo, ora erano passati altri dodici minuti. Era annoiato, non si era rasato, e voleva, più
di ogni altra cosa, non avere più appuntamenti nella sua vita, oltre a quelli con la colazione.
“Ha mai visto un divano mangiare un uomo prima d’ora?” chiese lui.
Si chiese se il silenzio della donna fosse qualcosa da metterci una pietra sopra, probabilmente non lo
era. Questo faceva sentire bene Fynn.
Passarono altri tre minuti – l’uomo contò un gregge di pecore e diede un nome ad ognuna, sia a
quelle bianche che a quelle nere, uno femminile e uno maschile per ogni lettera dell’alfabeto – prima che si
aprisse una fessura della porta, e un uomo con labbra bagnate e nervose scivolò fuori la sua testa d’anguilla.
“Signor, ah, Fynn,” disse. “Adesso possiamo riceverla.”
“Il suo divano ha cercato di mangiarmi,” gli disse Fynn. “Dovrebbe darci un’occhiata.”
“Signor Fynn.” L’uomo-anguilla si leccò le labbra. “Non so cosa dire.”
L’ufficio era tanto un ufficio quanto l’atrio era una sala d’attesa. Era stato fatto per sembrare
intimidatorio. Qualunque cosa che si sforzasse così tanto meritava pietà piuttosto che intimidazione.
Nell’angolo lontano dalla porta c’era un grosso acquario, della grandezza di uno schermo del cinema, in cui
vivevano tranquillamente dei pesci fluorescenti. Le loro bocche si aprivano e si chiudevano senza scopo.
Fynn pensò di allevare i pesci. Non erano gli animali più svegli del mondo, e il loro sistema di conversione
dell’acqua in aria attraverso le branchie l’aveva sempre infastidito, ma erano una buona distrazione. Nel loro
mondo senza gravità e ripieno di alghe, qualcuno aveva sistemato alcuni castelli. Ricordavano a Fynn le
cucce per i cani. C’era anche una statua di una sirena grande quanto un bambino che era appoggiata su una
grossa roccia a forma di cirripede; il seno della sirena si ingarbugliava eternamente nelle linee dei suoi
capelli verdi. Fynn andò verso l’acquario e si grattò un delizioso prurito nell’orecchio. “Grattarsi un buon
prurito,” disse. “Non mi importa di quello che dicono. È molto meglio del sesso.”
“Si vede che ha dormito con le persone sbagliate.” Gli disse l’eventuale datore di lavoro di Fynn.
Indossava un costoso cappotto bianco. Fynn osservò il suo riflesso confuso sul muro di vetro dell’acquario.
Fluttuava tra una coda blu e gialla ed un’enorme mascella arancione che boccheggiava in silenzio. Anche
Fynn veniva riflesso. L’illusione stava nel fatto che lui stesse con un po’ di distanza dietro la sirena.
Avvicinandosi, poteva vedere i suoi capelli statuari coprire i suoi capezzoli statuari. Fynn smise di grattarsi
l’orecchio.
“Allora qual è il suo piano? Furtarelli, ladrocini, grandiosi furti di automobili, grandiosi furti di
veicoli alternativi, lavoro bancario, omicidi di primo grado, atti violenti di terrorismo, adulterio, l’apocalisse
domani?”
“Le sue specialità?”
“Mi piace un buon lavoro bancario. Però nessuno mi ha mai assunto per l’adulterio.”
“Peccato. Penso che i suoi precedenti datori di lavoro debbano mettere in guardia tutti i potenziali
datori di lavoro sulla sua personalità.”
“Davvero? Eccellente. Cosa dicono ultimamente?”
“Che se riesci a farlo arrivare al sodo, allora ne vale tutti i soldi.”
“Che cosa noiosa.”
“Ne vale tutti i soldi, signor Fynn?”
Fynn ci pensò. Un tipo aveva un acquario nel suo ufficio privato della grandezza di un piccolissimo
appartamento, decise Fynn, e tu avresti preso i suoi soldi non importava quanto scarso fosse il suo senso
dell’umorismo. Era la grandezza dell’acquario, non la grandezza del suo senso dell’umorismo, che indicava
quanto avrebbe pagato. “Quanto,” chiese Fynn, “intende pagare?”
***
Una ragazza con una bocca di leone rosa in un vaso di plastica, il suo nome sul nastro per
mascherature avvolto intorno. La sua sorellona, due trecce, naso camuso, impaziente dietro gli occhiali. Un
giovane uomo su una bicicletta. Non molto di più. Era quel momento tranquillo in cui la maggior parte delle
famiglie si sedevano a cena e solo l’occasionale pedone, in ritardo, girovagava. O un gatto, un cane, un
rumore nel bidone dell’immondizia. Fynn stava seduto di fronte ad un ristorante economico vecchio stile,
circondato da oggetti kitsch da jukebox. Davano la sensazione sincera non di nostalgia  la nostalgia era il
sentimento più falso che ci fosse  ma piuttosto di buoni ammennicoli antiquati. Gli sgabelli erano alti, le
decorazioni un mix spiacevole di turchese e rosa pastello, e tutto emanava l’odore di un vecchio frappé.
Forse la persona preferita di Fynn al mondo era Chiamami-Solo-Jimmy, che faceva un'incredibile torta di
mele. La sua torta di pesche non era così favolosa; Fynn biasimava la cattiva qualità delle sue pesche. Era
una cena meritevole, l’unico tipo di cena per cui Fynn si degnava di scomodarsi. Chiamami-Solo-Jimmy, il
cui vero nome probabilmente non era niente del genere, gli portò un piatto di pura torta. Fynn si infilò il
fazzoletto nel collo della sua maglietta.
“Le torte come le fai tu non le fa nessuno, Chiamami-Solo-Jimmy.”
“Lo dico ogni volta, signor Fynn, chiamami solo Jimmy. È solo Jimmy. Nient’altro.”
Fynn separò il ripieno dalla crosta della torta e iniziò con la parte superiore, che era a sfoglie, ed
aveva il dolce sapore di mele. A volte, bastava solo sapere che le mele e l’impasto erano stati insieme ad un
certo punto. Mangiarli insieme non era necessario. Anche se separati, erano ancora torta. Era un’esperienza
più pura godersi ogni elemento da solo.
“Stai mangiando la mia torta nel modo sbagliato,” disse Chiamami-Solo-Jimmy. Come sempre. “Stai
mangiando la mia torta nel modo sbagliato e mi chiami anche nel modo sbagliato. È un insulto all’azienda.”
Uno di questi giorni, pensò Fynn, riuscirà a capire da dove in realtà provenisse Chiamami-SoloJimmy. Era difficile da dire ascoltando solo il suo accento. Poteva essere parte degli oggetti kitsch da
jukebox di Chiamami-Solo-Jimmy. Come per la maggior parte delle persone, c’era molto di più di quanto
sembrasse nel proprietario del ristorante economico ‘I Vecchi Tempi’. Era solo una questione di
interessamento o disinteressamento da parte di Fynn. Fin quando Chiamami-Solo-Jimmy faceva il tipo di
torta che faceva, Fynn non avrebbe pensato molto da quale luogo provenisse o a quali paesi scivolassero
nella sua voce. A Fynn piaceva pensare di sapere un po’ di cose sulle persone. Armato con quella
conoscenza, preferiva mantenere certi aspetti della sua vita semplici, complimentosi e modesti, facendolo
avanzare come se fossero ruote dentate.
Od era possibile che Fynn prestasse poca attenzione a qualsiasi cosa quando mangiava una torta.
Un ragazzo con i lacci delle scarpe sciolti. Un ragazzino con le guance rotonde e importanti come
mele. Lo stesso uomo sulla stessa bicicletta che tornava indietro nella stessa direzione. Fynn finì la sua torta
e ordinò un frappé. In una vita distinta da ripetizioni riconoscibili, in cui uomini e donne si capivano
registrando queste ripetizioni su una singola riga in quello che consideravano il loro tempo, Fynn non
mangiava mai la stessa cosa nello stesso modo due volte. Anche Fynn sapeva un po’ di cose sul tempo.
***
Non era il tipo di persona che camminava più lentamente perché stava per sorpassare una persona
disabile sulla strada, e in qualche modo si sentiva in colpa. Non soffriva per le sue superiorità perché non ne
aveva molte. Quello che aveva bastava in modo che potesse attribuirsi merito senza preoccuparsi del fatto
che avrebbe potuto dargli alla testa. Fynn non pensava a niente di ciò mentre si faceva strada in su, attraverso
la città. Gli edifici trafiggevano le nuvole e le strade si avvolgevano attorno agli edifici. Era tutto un
complicato groviglio di incroci. I pedoni si incrociavano con i veicoli. I pedoni si incrociavano con i vani
delle porte. I negozi si incrociavano con i pedoni ma un po’ meno scaltramente, spandendo quello che
avevano da offrire sulla strada. Fynn comprò una girandola e si fermò a far finta di essere interessato ad un
venditore ambulante di orsetti rosa imbottiti. Ciò che gli interessava veramente era chi comprava quegli
orsetti rosa imbottiti. Uno di loro aveva un orecchio cucito male, da dove un riccio di imbottitura tremava nel
vento. Guardando la sua faccia, Fynn quasi si sentì male per lui.
Tuttavia era solo un orsetto rosa imbottito. L’unico cuore che aveva era stato composto con velluto
rosso, e l’orsetto lo teneva tra due zampe malfatte. TI AMO, diceva il cuore.
“No, non è vero,” disse Fynn al cuore.
Il venditore ambulante non era sicuro se fosse un potenziale cliente o un fuori di testa.
“Mi sono sempre domandato a cosa servano gli orsetti rosa imbottiti al mercato in questi giorni,”
disse Fynn. “È della grandezza di un ragazzino sovrappeso, sai. Dove si potrebbe tenere un orsetto così?”
“Ah,” disse il venditore, “ma non devi dargli da mangiare.”
“E dove sarebbe il divertimento in questo?” chiese Fynn. “La parte migliore nel tenere gli animali e i
bambini è dargli da mangiare. Non lo saprei, dato che non ho mai provato, ma posso immaginarmelo.”
“Lo compri questo orsetto o no?”
“Certo che no. Ero solo curioso.”
“Fai il curioso da qualche altra parte,” suggerì il venditore.
Fynn continuò nella stessa direzione, in su. Più in alto andava più ordinati diventavano gli incroci,
più larghe le strade, più lucenti le finestre, più di classe i negozi. Viveva nell’attico di un edificio che in
origine si chiamava Pier Nove, da dove poteva quasi vedere le nuvole. Era una delusione in termini di sogni
d’infanzia. Ora che era così vicino alle nuvole, poteva vedere che non assomigliavano per niente al
marzapane, ma erano più a ciuffi come il cotone dentro un vecchio cuscino. Fynn non aveva mai voluto
mangiarsi un cuscino. Quando la prima nuvola si premette contro il vetro della finestra e si allontanò come
un triste fantasma solitario, Fynn era arrabbiato. Si era confortato con la conoscenza che la torta da questo
punto di vista non lo deludeva. Più ci si avvicinava alla torta, migliore era il suo aspetto, migliore era il suo
profumo. Da questo punto di vista la torta era una rarità. Anche la maggior parte dei cibi erano in questo
modo. Ecco perché il cibo era così confortante, così necessario, un tale piacere. Era una di quelle cose che
l’uomo poteva davvero consumare. Era una di quelle cose che l’uomo poteva convertire completamente in
una parte di se stesso. Cercava di farlo con le persone, con lo spazio, con il tempo. In genere andava incontro
al fallimento. Non era così con il cibo.
L’ascensore rotondo a lato dell’edificio Pier Nove si spostava verso l’alto scorrevolmente. Le
orecchie di Fynn schioccarono. Contrasse la mascella, odorò la torta nel suo respiro.
Nella sua stanza da letto si mise a scrivere su un vecchio blocchetto: 1. Sei stato assunto per un
sacco di soldi da un uomo arrogante. Non dimenticartelo questa volta! Poi aggiunse, 2. Appartamento in
affitto vicino al ristorante economico ‘I Vecchi Tempi’.
Nella sua cucina srotolò una mappa sul tavolo. Teneva gli orli arricciati, già macchiati con vacui
cerchi marroni, con vecchie lattine di soda. Alcune erano mezze piene, e altre erano mezze vuote. Dato che
ce n’era un numero pari, quattro, Fynn poteva essere imparziale a riguardo. Sulla mappa c’erano due punti: il
grosso ponte vecchio al confine della città e un’arenaria invecchiata, trasformata in un tranquillo museo che
puzzava di topo dove nessuno ci andava, tranne il proprietario. L’uno, doveva ammettere Fynn, era
efficacemente simile all’altro.
“Scelte,” mormorò Fynn. “Scelte.”
Se Fynn avesse avuto davvero dei piccioni, li avrebbe coinvolti nella decisione. Per come stava
messo, era tentato dal chiedere alla donna che viveva al piano di sotto, la quale guardava spesso Fynn come
se da un momento all’altro sarebbero apparsi dei ratti, e sarebbe già stata colpa sua. Fynn era più attento di
quanto lei sapesse. Fynn odiava i ratti. Se non li avesse odiati, ne avrebbe già comprati alcuni e li avrebbe
messi in libertà. Purtroppo i loro piccoli e lucenti occhi cerchiati di rosa gli davano fastidio. I loro incisi
sembravano capaci di strappare a morsi piccole dita di piede.
In ogni caso, poiché non gli importava sul serio, Fynn scelse la vecchia arenaria. Lasciando la mappa
spiegata sul tavolo e le lattine di soda che ammirevolmente mantenevano l’equilibrio tra il pessimismo e
l’ottimismo, andò ad aprire un’altra lattina di soda  fredda, la soda doveva essere fredda  e si addormentò
subito dopo sul divano.
Alle nove e diciannove del mattino, cadde dal divano, e a tal punto si spostò sul letto.
***
Precedentemente in quel giorno, la ragazza indossò gli stivali davanti alla porta principale. Era vero
che mentre si stava spazzolando i denti, aveva pensato ad un vecchio amico, uno che non vedeva da molto
tempo. Con lo spazzolino che le penzolava dall’angolo sinistro della bocca, e un puntino di dentifricio
profumato all’angolo destro, si domandò ‘Cosa sarà successo a quel ragazzino che conoscevo  adorava
rovistare tra l’immondizia, vero?’ Dopo la doccia, si asciugò i capelli davanti ad un ventilatore messo a forte
velocità. Stirò un waffle istantaneo finché non divenne croccante fuori e morbido dentro, come piaceva a lei,
e lo mangiò in un panino con una vaschetta di burro in mezzo. Era ancora presto quando finì, così decise di
fare una passeggiata. Arrivò davanti alla porta principale e ai suoi stivali. Non stava più pensando al suo
amico.
Stavano per essere le nove in punto quando Ce diede un’occhiata all’orologio, mentre stava uscendo.
Fuori i figli dei vicini si stavano preparando per la scuola. Ce salutò la loro madre, che li guardava dalla
finestra principale.
“’Giorno.”
“’Giorno!”
“Ha di nuovo problemi con i lacci delle scarpe. Poverino. Lo fa così agitare.” La madre indicò il
figlio più giovane, il quale aveva le guance gonfie e rosse per la determinazione. “Aspetta tuo fratello!” disse
la madre al più grande dei due ragazzini. Aveva un ciuffo ribelle. La famiglia aveva vissuto nella casa
accanto da due anni ma Ce, che preferiva chiamare la madre ‘la madre’, il padre ‘il padre’, e i due ragazzini
‘Ciuffo Ribelle’ e ‘Guance’, aveva dimenticato i loro nomi veri molto tempo fa.
“Datti una mossa.”
“Ci sto provando!”
Ciuffo Ribelle fece sputacchiare alla vita il motore del suo scooter, acceso e poi spento, accesso e poi
spento. Gli improvvisi borbottii di rumore servirono solo a frustare suo fratello. Alla fine, Ciuffo Ribelle
saltò sullo scooter e se andò via rombando e gridò dietro di lui, “non voglio arrivare in ritardo perché ancora
non ti sai allacciare le scarpe!” Scaaaarpe, vroom, sputacchio. Guance, con le scarpe ancora slacciate, corse
dietro il fratello con il sudore e le lacrime arrabbiate che gli rigavano il viso.
“Ragazzi,” disse la madre. “Si prenderà un raffreddore così.”
“Ci scommetto,” concordò Ce.
A Ce piacevano i bambini non perché avesse chissà quale istinto materno né perché era
particolarmente brava con loro, ma perché pensava che fossero affascinanti e misteriosi come gli insetti e
come l’intero inspiegabile processo dello schiudersi delle uova. Piuttosto, a Ce piacevano i bambini e
prestava un’attenzione extra su di loro perché non erano esattamente persone. I loro istinti operavano su una
logica tutta loro. Quando Ce cercava di rammentare quella logica infantile sulla quale anche Ce operava,
ritornava a pezzi e bocconi, una mescolanza di conoscenza. Tuttavia era certa che parti di essa fossero
rimaste in lei più delle altre persone della sua età. Quello che l’incantava di più era che, anche se il ragazzino
inciampava sui suoi lacci slacciati, Guance si riprendeva e continuava a correre, la sua testa del colore e della
forma di un pomodoro troppo maturo.
“Dove vai di bello, allora?” chiese la madre.
“A fare giardinaggio,” rispose Ce.
***
Il giardino era un progetto sponsorizzato dalla città. A dire la verità, erano dodici differenti giardini,
uno sopra l’altro, che si innalzavano come una giungla in una torre di vetro tra gli altri edifici normali della
città. Al livello inferiore c’era un freddo odore come se fosse quasi di metallo, sia metallo che l’opposto del
metallo, la bramosa preponderanza della natura e i suoi minerali. Ce voleva bene ai fiori ma amava la terra.
A Ce piacevano gli alberi ma adorava i cespugli. Nel giardino inferiore la terra era acciottolata con le
ghiande di una quercia di un livello superiore, e incinta di grassi vermi bagnati.
“’Giorno.” Il giardiniere, che si prendeva cura del posto, toccò leggermente il cappello.
“’Giorno! Hai già innaffiato?”
“Non ancora.”
“Come stanno le azalee?”
“Erano ancora azalee l’ultima volta che ho controllato.”
Ce prese il vecchio annaffiatoio  il giardiniere ha sempre detto che per i giardini qualche volta era
meglio fare le cose naturalmente  e lo immerse nell’odore delle piccole cose selvagge che crescono. Era
un’illusione fino a un certo punto. Per quanto non volesse, Ce ne era consapevole. Ogni pizzico di natura
selvaggia era stato preso da qualche altra parte e piantato qui dalle organizzazioni finanziate dalla città,
ricercando un po’ di ordine. Alle nove e quarantacinque, l’irroratore si sarebbe messo in funzione,
spruzzando una delicata e temperata imitazione di pioggia giù dal soffitto che guardava soltanto e offriva le
stesse proprietà nutritive della vera luce del sole. Tuttavia, anche se sapeva che era un’illusione, Ce fece in
modo di renderla reale. Con il suo annaffiatoio si assicurò che i fiori più piccoli, sovrastati da piante più
grandi, avessero la loro giusta porzione d’acqua. Dopodiché fu una visita davvero egoista. A quell’ora del
giorno non c’era nessun altro, a parte il giardiniere. Tutti gli altri erano a scuola, a letto, a lavoro. Ogni tanto
Ce e il giardiniere si scontravano mentre stavano innaffiando. Non c’erano azalee su questo livello del
giardino, ma le azalee era un piccolo scherzo tra di loro. A Ce piaceva il giardiniere più che altro perché era
l’unica persona che conosceva che indossava la salopette.
“Se questo fosse una fattoria ci sarebbe del granturco adesso,” le disse il giardiniere. Emerse da un
groviglio di cespugli come una ninfa degli alberi nodosi.
“E sarebbe così alto,” rispose Ce, gesticolando con l’annaffiatoio. Un mezzo arco d’acqua si versò
dal becco. La loro conversazione usuale procedeva in modo scorrevole come un copione. Dopo essersi
scambiati le loro battute, si separarono e si tuffarono in una diversa piantagione, in direzioni opposte. Il
segreto che da molto tempo il giardiniere condivideva con Ce, era la verità sui giardini inferiori: li lasciava
crescere in modo un po’ più selvaggio ogni anno. Un giorno abbastanza presto, questo livello inferiore
sarebbe diventato come una giungla, tutte radici aggrovigliate e tetti di foglie. Nessuno di quelli che
venivano a visitare i livelli superiori attentamente ordinati con i loro fiori esotici e il loro torturato taglio
ornamentale, avrebbero saputo della natura incontaminata che stava proprio sotto di loro, che cresceva in
modo sempre più ribelle contro i muri della serra.
Si incontrarono di nuovo.
“Nove e quarantaquattro. Conti di bagnarti?”
“Ho finito cinque minuti fa  che mi dici di te, huh?”
All’entrata, Ce restituì l’annaffiatoio dal lungo becco e spazzolò via la terra dalle ginocchia. Però la
lasciò sotto le unghie perché dava alle sue mani un odore strano. Sulla strada di casa inspirò l’odore
depositato insieme alla terra sotto le sue unghie. Aveva visto nove lombrichi, se contavi il mezzo lombrico
che era sparito nel terreno. Era ancora presto ed era già una bella giornata.
***
Dall’altra parte della strada di casa, c’era un’autorimessa che prometteva di riparare qualsiasi tipo di
guasto meccanico. ‘Ripariamo tutti i tipi di veicoli’, diceva l’insegna sopra la gigantesca porta
dell’autorimessa. Sopra l’autorimessa c’era un piccolo supermercato, sopra il quale c’era un caffè, sopra il
quale c’era uno di quei nuovi uffici di chiromanzia che prometteva di lavorare con la tecnologia informatica
per predire accuratamente il futuro interpretando i messaggi e gli indizi tracciati sulle linee del palmo del
cliente. Dalla tenda bianca della finestra solo a metà tirata, si poteva vedere il computer del chiromante dai
contorni smussati. Ce aveva vissuto nelle stesse stanze per tutta la vita. Non diventava mai noioso per molti
motivi, il minore dei quali era il fatto che l’edificio direttamente dall’altra parte della strada cambiasse
continuamente. La gente ci traslocava e se ne andava in rapida successione. Un anno c’era un caffè e accanto
un negozio di animali, poi un ristorante, poi un parrucchiere, e poi di nuovo un caffè con un nome diverso e
un diverso proprietario e un tipo diverso di cibo. Da dietro la finestra della sua camera Ce riusciva a vedere
direttamente dentro il secondo piano dell’edificio. Era certamente molto più divertente guardare le altre
personificazioni della stanza. Non succedeva niente di che nel piccolo supermercato.
La personificazione preferita di Ce era il negozio di riparazione degli orologi, molti anni prima del
piccolo supermercato. Ce era molto giovane a quel tempo, forse aveva sette o otto anni, quando il negozio di
riparazione degli orologi era per la prima volta apparso nel secondo piano. Per alcuni mesi, tutti i tipi di
operazioni sugli orologi avvenivano proprio dall’altra parte della strada. Ce osservava questi avvenimenti
ogni notte dal suo letto finché non si addormentava, come una ninnananna, qualche volta alle prime luci
dell’alba, o così sembrava a quel tempo. C’erano tutti i tipi di orologi e tutti i tipi di intestini degli orologi,
alcuni semplici come viti e ruote dentate e molle, altri complicati come chip di computer. Anche i quadranti
erano diversi gli uni dagli altri come le facce delle persone. Digitali, analogici; grandi, piccoli; rotondi e
grassi o rettangolari e snelli. Sempre in qualche nuovo stato di sfacelo, gli orologi apparivano come fantasmi
alla finestra quando la luce del giorno si trascinava nella notte e la luce artificiale dal negozio illuminava
questo palcoscenico di segreti orologi quadrati. Però non aveva mai visto l’uomo nel negozio se non in
controluce, e non aveva mai visto un orologio di notte in qualcosa di più riconoscibile di pezzi separati; in
qualche modo gli orologi venivano sempre riparati entro la mattinata. Quando Ce si svegliava, erano
ammassati, intatti, davanti la finestra dall’altra parte della strada. Quando socchiudeva gli occhi riusciva a
vedere le lancette che ticchettavano il confortante progresso del tempo, o il riordinamento dei numeri cubici
da un minuto all’altro. Era stato allora che Ce conobbe Nove, il ragazzino con assurdi occhi neri che
richiedevano una sorta di venerazione, di cui Ce si era rapidamente innamorata. Le venne in mente che a
Nove sarebbe potuto piacere quel negozio di riparazione degli orologi. Era “un ragazzino strano,” diceva
spesso la gente, ovviamente alle sue spalle. “Che ragazzino strano.” I bambini a scuola pensavano la stessa
cosa, solo che l’esprimevano con una manciata di sabbia e insetti nel contenitore per il pranzo. Solo Ce
sentiva la bizzarra gravità del “ragazzino strano” che la tirava dalle punte delle dita. Lo seguiva nelle
discariche e negli edifici abbandonati. Dirigere non era, però, il suo lavoro. Con il naso e gli occhi sopra il
davanzale e il resto di sé impacchettato nel letto come una lettera, decise di non condividere il segreto del
negozio di riparazione degli orologi. L’uomo che riparava gli orologi aveva un profilo netto. Sceglieva gli
strumenti e i pezzi di orologio con precisione. Ciò faceva domandare a Ce come si riparasse un orologio. Per
come la vedeva, gli orologi erano analoghi al tempo. Erano casine del tempo e da qualche parte dentro di
loro il tempo azionava il cambiamento dei numeri, il movimento delle lancette a forma di freccia. Quando un
orologio si rompeva, Ce immaginava che il tempo potesse traboccare fuori attraverso le incrinature. Se fosse
vero, allora l’uomo che riparava gli orologi non doveva solo riparare la casa del tempo, ma catturare anche il
tempo. Era un’attività sconcertante. Quando Ce faceva dei sogni a riguardo, il tempo assomigliava a delle
farfalle e gli orologi erano reti abilmente camuffate.
Il giorno in cui il negozio di riparazione degli orologi chiuse, Ce incontrò per la prima volta l’uomo
che riparava gli orologi. Era seduto davanti l’autorimessa – l’autorimessa era il fondamento dell’edificio
dall’altra parte della strada ed era sempre stata lì, immortale e dall’odore di lubrificante. Ce lo riconobbe solo
notando il suo profilo. Portava un monocolo. Per Ce, sembrava come se gli mancasse una parte degli
occhiali.
“Lei è l’uomo che ripara orologi.”
“Orologiaio.”
Ce ci pensò su. Non assomigliava a nessuna parola che lei conoscesse, quindi doveva essere un
nome. “Ce,” disse. Era solo educata.
“Un uomo che ripara orologi si chiama orologiaio.”
“E io mi chiamo Ce.”
L’uomo chiamato ‘orologiaio’ che riparava orologi fece un’espressione. Ce pensò che fosse un
sorriso. Poteva esser stato qualcos’altro, qualcosa un po’ più divertito e un po’ meno amichevole, ma poi Ce
si assicurò che era infatti un sorriso dopotutto. In ogni caso era irregolare. Ce si mise a sedere sul
marciapiede accanto a lui.
“Ha chiuso il negozio?”
“Ho chiuso il negozio.”
“Le persone sono più attente con gli orologi?”
“Non proprio. Gettano via quelli vecchi e se ne comprano di nuovi.”
“Deve essere un gran bel casino.”
“Terribile.”
Ce si grattò dietro l’orecchio. “Deve essere anche un problema per lei.”
“Ogni tanto.”
“Avere tutto quel tempo che fluttua in giro senza orologi dove vivere.” Ora Ce si mise ad esaminare
una linea di sporco sullo stivale, una smagliatura sulla calza, un filo slegato sul ginocchio dei jeans. Le
sembrava triste. Stava cercando di capirne il motivo quando si rese conto che l’uomo che riparava gli orologi
la stava osservando.
“Comunque,” disse lui, “ho fatto tutti i bagagli. Me ne andrò stanotte. Per caso eri tu quella che mi
osservava lavorare dalla finestra della camera?” Sollevò una mano, che aveva delle dita incredibilmente
lunghe ed agili, e le coprì la bocca e la mascella. “Sei tu, vero? Sembri diversa con entrambe le metà della
faccia, ma sei di sicuro tu, giusto? Osservare le persone è maleducazione.”
“Allora dovrebbe tirare le tende,” replicò Ce con tono arrabbiato.
“Hai ragione,” concordò l’uomo. “Non importa, non mi interessa. È divertente osservare le persone,
concordo con te. Fallo quanto ti pare. Vuoi un regalo?”
“Va bene. Non è una caramella, vero?”
“La mangeresti se lo fosse?”
“Probabilmente. Ha del veleno?”
“Probabilmente no. Comunque non è una caramella.”
“Cos’è allora?”
L’uomo mise la mano in una profonda tasca della giacca e frugò per alcuni minuti. Ce intravide il
suo polso. Era specialmente ossuto, ma aveva qualcos’altro di strano. Per un momento sembrava anche che
avesse una cucitura, come un tessuto, come una manica color carne. Quando Ce sbatté le palpebre, l’illusione
svanì e l’uomo le stava offrendo una chiave, piatta e color ruggine, sul suo palmo.
“Cosa apre?”
Questa volta l’uomo non stava sorridendo. Era una sfumatura timida di un sorriso, un’ombra tra le
tante dove le guance gli tiravano le labbra.
“Un orologio rotto,” disse.
***
Più tardi quel giorno l’uomo che si chiamava ‘orologiaio’ – L’Orologiaio, come se fosse la persona
migliore al mondo in quello che faceva – si imbatté in un’altra persona giovane. La giornata dell’Orologiaio
stava diventando problematica. Parlare ai ragazzini era solamente una manifestazione di questa
problematicità. Alcuni giorni facevano di tutto per infastidirlo. Altri giorni facevano di tutto per essere
piacevoli. L’Orologiaio era particolarmente paziente, sapendo che, costi quel che costi, il tempo accadeva.
Però c’era un tipo di tempo che non riusciva a farselo piacere. Quel giorno l’estate si era alla fine imposta
completamente. L’aria odorava di caldo e pioggia, e L’Orologiaio odiava l’umidità. E come se ciò non
bastasse, aveva avuto una conversazione accidentalmente intrigante con una bambina di otto anni.
L’Orologiaio infilò la mano nella tasca e controllò il suo orologio da taschino, che non aveva numeri, né
lancette, solo un quadrante bianco e vuoto. Sopra il quadrante bianco e vuoto dominava una lamina di vetro e
sopra la superficie del vetro giocavano dei riflessi miniaturizzati. Come fantasmi. Trovò quello che stava
cercando, ad ogni modo, e rimise l’orologio da taschino nella tasca. Si accorse che era diventato preda di
un’altra routine umana. Non aveva mai perso un negozio prima d’ora. Poteva essere stato il periodo, poteva
essere stato qualcosa sulla posizione dell’edificio, ma gli affari non andavano bene. Non c’era spazio nel
mondo per un abile specialista, pensò L’Orologiaio. Per fortuna non gli doveva importare.
A quel punto, si imbatté nella seconda persona giovane. Aveva tredici anni, e stava seguendo
L’Orologiaio così da vicino che quando L’Orologiaio si fermò, ci fu un piccolo incidente. Nessuno dei due
perse l’equilibrio però. L’Orologiaio ne fu leggermente impressionato.
“Perché mi stai seguendo?”
“Mi stavi conducendo la strada?”
Era, si rese conto L’Orologiaio, uno di Quei Giorni. ‘Quei Giorni’ era una categoria che aveva
chiunque, ma per chiunque implicavano qualche assortimento diverso di parametri. Per L’Orologiaio era
un’interazione estesa con persone inusuali che lo facevano sentire nostalgico per la semplice ragione che non
riusciva in effetti a sentirsi affettuoso. Il ragazzino che si era scontrato con la sua schiena aveva i capelli
color sabbia e gli occhi impertinenti. Stava probabilmente attraversando gli stadi iniziali della pubertà prima
del resto dei suoi amici e sapeva con ogni improbabile mezzo di essere molto più fico di chiunque altro,
come se fosse avvantaggiato su di loro in termini di tempo. L’Orologiaio sogghignò eccessivamente.
“Dipende da dove stai andando.”
“Dipende da dove tu stai andando.”
“A pranzo, penso.”
“Allora ti seguo di sicuro, sì.”
“Non mi piace mangiare in compagnia.”
“Non ti preoccupare, ho i soldi.”
“Non è questo il punto.” L’Orologiaio guardò dall’alto in basso questa strana creatura troppo sicura
di sé. Odorava di ragazzo in modo opprimente. Forse, quella mattina, si era dimenticato il deodorante, che
mascherava molti degli odori umani. Aveva un laccio della scarpa slacciato e lo sapeva. Probabilmente
avrebbe dovuto essere a scuola.
“Il tuo orologio da taschino,” disse il ragazzino. “È davvero forte. Non ha lancette o altro.”
“Ti va di trovare un posto dove rifocillarsi, e continuare la nostra piccola chiacchierata?”
“Ho sempre fame. Mi chiamo Fynn. Ti piace la torta? Conosco un posto grandioso.”
“No,” disse L’Orologiaio. “Scelgo io. Fa parte del patto.”
“D’accordo.”
L’Orologiaio scelse un caffè dove si erano fermati davanti per amore della convenienza. Forse,
pensò, mescolando la sua cioccolata calda con un biscotto, i bambini erano veramente il futuro. Capivano
cose sul tempo che, appena diventati adulti, prontamente dimenticavano del tutto. Riconoscevano come il
tempo si contraddiceva, erano curiosi sul perché, guardavano i quadranti vuoti e non pensavano di non farne
menzione. E, come il futuro, esistevano solo come un concetto reale nel presente. Dopodiché, sarebbero
cresciuti, avrebbero perso il loro senso dell’umorismo, e si sarebbero dimenticati del tempo, tranne quando
vedevano che erano in ritardo o gli veniva detto che stavano morendo. E poi l’avrebbero maledetto. Questo
ragazzino stava sul punto di perdere contatto con il mondo del tempo dei bambini. L’Orologiaio riusciva a
capirlo dal modo in cui mangiava la sua grossa fetta di torta. Stava imparando a gustarla invece di mettersela
tutta in bocca subito, come se da un momento all’altro il tempo potesse portarsela via.
“Da un momento all’altro,” L’Orologiaio si sentì obbligato a dirglielo, “è vero che il tempo potrebbe
portarsi via la tua torta.”
“Lo so.” Il ragazzino fece le spallucce. “Mi piacerebbe solo stare ancora a mangiare la torta quando
accadrà.”
L’Orologiaio sospirò. “Vuoi un regalo?”
“Non mi farai qualcosa di inquietante, vero?”
“Non nel senso usuale, no.”
“Va bene allora. Mi piace la roba gratis.”
Non era nella natura dell’Orologiaio dar via le cose. Nel complesso disprezzava un po’ le persone,
sebbene riuscisse sempre anche a essere divertito da loro, ma quando una di loro meritava un regalo
L’Orologiaio sentiva che fosse necessario farlo sapere. Attribuiva sempre il merito a qualcuno quando quel
merito era dovuto. Nella tasca c’erano un sacco di cose, tra cui la non meno importante era il suo orologio da
taschino. Qualcosa lo urtò sul dito e L’Orologiaio sorrise, il lungo e sottile sorriso pigro di un gatto
meschino.
“Una lancetta d’orologio?” chiese Fynn il ragazzino.
“Accessoriala,” suggerì l’Orologiaio.
***
Fortunatamente, L’Orologiaio non si imbatté in altri bambini precoci sulla strada di casa. Quasi
incontrò un ragazzino chiamato Nove, ma riuscì ad evitarlo all’ultimo minuto. Forse non era il momento
giusto per quello. Libero, L’Orologiaio ritornò a casa. In effetti la casa era un’altro negozio più grande di
riparazione degli orologi. Questa qua, tuttavia, non aveva clienti perché non voleva clienti, non aveva
bisogno di clienti e non incoraggiava i clienti. Stava dietro il quadrante dell’orologio della torre dell’orologio
della città, una torre appollaiata sopra centinaia di imprese preoccupate del tempo, con un vecchio viso come
una statua del passato, come un qualche antiquato monarca mastodontico. Al di sotto delle ponderose
lancette e dei numeri romani, c’era una serie di orologi analogici che raccontavano il tempo di tutto il
mondo. Era un posto perfetto dove vivere perché causava sempre problemi, una vecchia imposizione sopra
quelli più nuovi, una confusione di orologi. L’Orologiaio prese l’ascensore nuovo di zecca per andare al
piano più alto e salì le scale marcate da un NON ENTRARE senza essere visto. Nessuno lo vedeva. Era un
talento, un dono, una propensione utile. Nessuno si aspettava che qualcuno entrasse nel pozzo delle scale, e
in generale le persone vedevano quello che si aspettavano di vedere. Le scale erano vecchie e sembravano
lunatiche, ma non erano ancora traballanti. Conducevano verso un grosso labirinto di ruote dentate dietro il
quadrante dell’orologio. Sarebbe stato carino dire che quelle ruote dentate erano tutto ciò di cui L’Orologiaio
aveva bisogno, ma nessuno poteva dormire profondamente su una ruota dentata. C’erano due letti, un bean
bag gigantesco, un tavolo, uno specchio a tutt’altezza, una stufa e tre sedie da prato, anche uno stereo system
all’avanguardia e scaffali di musica, tutti protetti tra le ombre cigolanti di ruote dentate molto grosse.
L’assortimento rivelava che L’Orologiaio era appassionato di certe cose evidentemente umane, come la
possibilità di riposo eterno, musica rock pretenziosa e hot dog. L’Orologiaio si sbottonò la giacca e si tolse i
guanti.
“Sono tornato,” disse al Cane Da Guardia.
Essendo un cane, Il Cane Da Guardia non disse niente. Starnutì però, e leccò la punta delle dita
dell’Orologiaio alla ricerca di resti di biscotto.
“No, no,” disse L’Orologiaio, “mi sono già leccato io ben bene.” Solo perché Il Cane Da Guardia
non diceva niente non significava che non capiva tutto. Con l’eccezione sul perché le persone si facevano il
bagno regolarmente e si mettevano a dieta, Il Cane Da Guardia capiva ogni cosa.
“Fai riposare la lingua,” consigliò dall’alto il compagno di orologi dell’Orologiaio, Lo Storico. Nei
weekend si sedeva sempre in alto, su una trave, dove teneva in equilibrio un libro molto grosso. Lo Storico
non alzò lo sguardo.
“Vado a prendere la cena.”
“Bene.”
“È successo qualcosa di interessante oggi?”
“Il solito. Mi sta venendo un crampo alla mano.”
“Ti viene sempre un crampo alla mano. Non ti verrebbe comunque un crampo alla mano anche se
qualcuno iniziasse una guerra?”
“Senz’altro.”
L’Orologiaio si slacciò le scarpe. Il Cane Da Guardia, che era abbastanza intelligente a dispetto
dell’occasionale masticamento pubblico, sedeva ai suoi piedi. “Sì,” gli disse L’Orologiaio. “Tra un
momento.”
“Non dimenticare la cena. Ho fame.”
“Ritorno alle sei.”
“Cinese,” disse Lo Storico. “Voglio mangiare cinese.”
“Vuoi sempre mangiare cinese.” L’Orologiaio si soffermò dietro il quadrante dell’orologio. Era di
uno strano colore bianco sporco. L’Orologiaio non proiettava ombre attraverso esso. Se lo facesse, le persone
in strada avrebbero sospettato cose. Scroccò le nocche, si stirò la schiena, si tolse i capelli dagli occhi. Il
Cane Da Guardia abbagliava felice. Intanto la gigantesca seconda lancetta dell’orologio passava davanti a
loro, e le ruote dentate gemerono con ogni lenta frazione della rotazione dei minuti. Era scortese andare a
nuotare con i calzini indosso, L’Orologiaio lo sapeva, ma era più piacevole di bagnarsi i piedi con il tempo.
Ormai non faceva più un bel respiro profondo e non si tappava le orecchie. Senza pensare, saltò in avanti,
dentro e attraverso il quadrante dell’orologio. Non era più necessaria alcuna preparazione per scivolare tra
l’aria e la dura superficie dell’orologio.
L’Orologiaio si spostava nel fibroso e appiccicoso mare del tempo per il suo checkup quotidiano.
Il Cane Da Guardia lo seguì subito dopo.
***
Sarebbe anche stato carino dire che il tempo era come un Giardino di Polpi sotto il mare. Ma dato
che nessuno, nemmeno L’Orologiaio, riusciva a dormire su una ruota dentata, il tempo era tutto tranne che
un Giardino di Polpi sotto il mare: era come una piscina molto grande e molto popolare, con l’occasionale
medusa iridescente che scorreva tra le sue acque maligne. In quel modo L’Orologiaio poteva essere
considerato un ragazzo di piscina. Aveva altri lavori, la maggior parte dei quali coinvolgevano una
comprensione molto più superficiale del tempo e delle sue proprietà legate all’uomo. Per mantenersi le dita
dei piedi, ogni tanto L’Orologiaio andava a nuotare. Era come uno dei più comuni sogni dell’infanzia: saltare
dentro il vaso del miele o dello sciroppo d’acero, ed essere capaci di vedere, respirare, sottoporre a osmosi un
nuovo tipo viscoso d’aria. O forse ai bambini piace solo sporcarsi. Essendo qualcuno che trattava spesso con
quello che forniva un lato  il tempo dell’orologio  o l’altro  il non-tempo dell’orologio  L’Orologiaio si
rammentava quello che era davvero il tempo tra il tempo. Sentiva che le sue nuotate dimostrassero di nuovo
che la dicotomica definizione che il sistema umano aveva stabilito fin dall’inizio era un sofisma
insopportabile e un giorno sarebbe crollato con un tonfo trionfante nella gelatina del tempo. Ogni cosa, anche
il tempo, era aperto ad uno spettro di comprensioni. Generalmente le persone vedevano solo delle lancette.
Alcuni filosofeggiavano e arrivavano molto vicini alle penetrazioni temporali, ma non si sarebbero mai
gettati a capofitto nel mare del tempo o nel labirinto di ruote dentate del non-tempo.
Ad ogni modo, si trattava solamente di un balzo molto breve in avanti prima che L’Orologiaio
iniziasse a nuotare dal tempo degli orologi attraverso il tempo e raggiungesse il non-tempo degli orologi,
l’altro lato. Il Cane Da Guardia si scosse l’appiccicaticcio umido dal pelo. L’Orologiaio si pulì le orecchie. In
quel momento erano tra gli ingranaggi e le ruote dentate del non-tempo.
“Prenderò questa estremità.” L’Orologiaio gesticolò verso la lunga fila di ruote dentate, tutte quante
che giravano e giravano e giravano.
Il Cane Da Guardia concordava nello stesso modo in cui Il Cane Da Guardia sempre concordava:
facendolo. Andò giù lungo la linea di incessanti e implacabili rotazioni, e delle profonde superfici riflettenti
delle ruote dentate che si disponevano una sopra l’altra, vuote nei loro centri simili a quelli delle ciambelle.
L’Orologiaio osservò Il Cane Da Guardia andarsene, scomparendo dentro il passaggio del tempo, mentre allo
stesso tempo sia per L’Orologiaio che per Il Cane Da Guardia il tempo non trascorreva affatto. Sopra le
superfici delle ruote dentate, si spostavano facce, persone e corpi, che assomigliavano molto alle ruote stesse
da quest’angolo.
***
Sopra le superfici delle ruote dentate, si spostavano facce, persone e corpi, che assomigliavano molto
alle ruote stesse da quest’angolo. Nove era consapevole del disagio di Ce proprio dietro di lui, ma riuscì con
successo a toglierselo dalla testa. Non era tipico di lui, rammentò a se stesso, preoccuparsi di che cosa la
gente provasse o pensasse o volesse, o non volesse. Soprattutto aveva poco tempo da perdere a causa delle
ruote dentate. Ultimamente aveva cominciato a sognarle. Erano proprio come le ricordava nei suoi sogni. Le
persone e il macchinario che, rimosso dal tempo, azionava il tempo, erano fusi e inestricabili. Qui le persone
erano un mare irrequieto di ruote dentate. Si muovevano tra l’una e l’altra e morivano tra l’una e l’altra,
connettendosi in modi privi di senso o memorabili ma sempre girando e girando, senza mai fermarsi. Quando
era più giovane, non era pronto per l’impeto febbrile che ebbe la prima volta quando vide tutto questo.
L’aveva spaventato; era troppo piccolo per contenerlo tutto. Allora aveva pensato che l’avrebbe stracciato
come un cuscino imbottito fatto malamente. Ma quella era solo una paura infantile di grandezza. Nove ora
era preparato per la realtà di grandezza e per il terrore che era la natura della grandezza. Ora Nove non
doveva pensarci due volte. Era pronto e stava aspettando quella grandezza che non riuscì a sperimentare
nove anni fa. Questa cosa si era girata e rigirata dentro di lui per nove anni e alla fine si era giunti ad un
accordo. L’avrebbe usato. L’avrebbe dominato come un animale selvaggio o guidato come una vecchia auto.
Insieme sarebbero arrivati da qualche parte. Solo quando erano insieme potevano realizzare qualcosa. Nove
non voleva condividerlo con nessuno ma aveva bisogno di Ce lì in primo luogo. Non c’era altro modo e
quindi non poteva essere evitato. Di nuovo, l’ansietà di Ce si insinuò nei suoi sensi, mentre veniva
rammentato di lei o forse si rammentava perfino lui stesso di lei. Si avvicinò alla ruota dentata davanti a lui e
la fissò intensamente per distrarsi dalla sua distrazione. Sopra la superficie d’oro cristallino passavano dei
visi offuscati come se fosse una pozzanghera e le persone delle maschere di fantasmi. Era di sicuro il tempo,
decise Nove. Era il tempo per il tempo. Il tempo sarebbe dovuto essere il suo unico co-cospiratore. Sarebbe
stato molto più facile pensare e comportarsi se Ce non stesse proprio dietro di lui. Nove non riusciva a
sopportare che lei lo osservasse. L’unica cosa che a Nove piaceva fare era osservarsi. Gli occhi di Ce sempre
sulla sua schiena gli ricordavano che le cose non erano esattamente come dovevano essere, e che lui e il
tempo non erano soli.
“Senti,” disse Ce. “Non so cosa pensi di fare. Non mi dirai cosa pensi di fare?”
Nove non ci doveva veramente pensare. “No,” disse.
“Beh. D’accordo. Non lo farò di nuovo. E tu non devi sapere il perché.”
“Perché lo devi sapere?”
“Perché penso che potresti essere pazzo, ecco perché. Questo posto mi dà i brividi. Come se non
dovessimo essere qui e qualcuno ci stesse guardando. Chiunque sia  addetto di tutto questo.”
“Non c’è nessun addetto,” disse Nove, senza pensarci. “Non c’è nessun addetto  non c’è tempo.”
“Non c’è tempo per cosa?”
“Qui non c’è il Tempo.” Nove la osservava mentre Ce contemplava la sua affermazione. Non voleva
condividere il suo sospetto. Era solo una sensazione che aveva e certamente non aveva voglia di spiegarla.
Non aveva nemmeno spiegato quella sensazione di quando aveva cinque anni e si era spellato il ginocchio e
aveva detto “Ahio!” Guardava Ce in cagnesco mentre lei pensava, ma non sembrava notarlo, o non le
importava. Era esasperante. Sotto la superficie della sua pelle, Nove fremeva fastidiosamente.
“Come l’interno di un orologio,” disse Ce alla fine. “È come lo sfondo dell’interno di un orologio.”
Nove era il tipo di persona da immaginare che la sua vita sarebbe stata molto meno stancante se non
ci fosse nessun altro. Ecco perché non veniva mai invitato alle feste. Per quanto fosse disinformato riguardo
la vita e le altre persone, la disinformazione lo informava ancora del suo comportamento. “Come l’interno di
un orologio,” riuscì a dire.
“Beh che cosa ci farai. È quello che voglio sapere.”
“Stavo pensando.”
“Stai pensando con questa cosa?”
“Stavo pensando a questa cosa.”
“Quindi mi hai portato fin qua perché non lo sai ancora?” Ce sollevò tutto il suo corpo con un
profondo sospiro. “Sai, anche le altre persone hanno cose da fare. Non dovresti essere a scuola piuttosto?”
Ogni cosa stava facendo diventare Nove ansioso. Passò una mano sopra la superficie della ruota più
vicino a lui e le sue dita diventarono appiccicose e bagnate. Era come un tipo chiaro di olio per ruote dentate.
Non c’era da stupirsi se giravano così agevolmente. Quando si odorò la mano, che luccicò per un momento
come la ruota dentata lucidata, non odorava come gli oli che conosceva. La mancanza di odore lo dilettava.
“Pensi ancora?” Sentiva Ce che si avvicinava a fatica, sentiva che lo scrutava da dietro. Nove annuì.
“Ma non ci puoi fare niente. Giusto?” Nove fece le spallucce. “Beh tu devi pensare che puoi, o altrimenti
non saremmo qui.” Ce si rannicchiò proprio dietro di lui così che fosse implicato nella sfera della sua
respirazione regolare. Era una sensazione orribile, abusiva, invadente, personale. “Forse se ci pensi ad alta
voce avrà più senso. Non credi?”
“No grazie.”
“Non vuoi farlo o non sai come?” Ce lo afferrò per le orecchie. “Pensa. Dillo! O altrimenti me ne
vado come l’ultima volta, e ti porterò con me.”
Nove voleva vomitare. “Viaggio nel tempo.”
“Viaggio nel tempo?”
“Quando guardi le ruote dentate, riesci a vedere tutto quello che accade nel tempo. Ci deve essere un
modo per scegliere un evento e andare in quel tempo.”
“Roba pericolosa.” Ce fece cadere le mani sulle spalle di Nove e fissò la ruota dentata da dietro
l’orecchio sinistro di lui. Stava tamburellando le dita. A Nove dava la sensazione di un incubo sui ragni.
“Non lo so, Nove  hai mai letto un libro? Quando nei libri le persone viaggiano nel tempo fanno sempre dei
casini. E se solo ci pensassi  beh. Non è per niente una buona idea. Ma se io volessi andare in uno di quei
tempi, allora penso che andrei in uno di quei buchi al centro. Scegli qualcosa, scegli una ruota dentata e vacci
proprio in mezzo! Non credi?”
Nove ci pensò sopra. Per quanto odiasse ammetterlo, aveva un senso nel più semplice dei modi,
come se fosse stato progettato da un bambino. Tracciò con le dita la circonferenza del cerchio al centro della
ruota dentata su cui si chinò. Gli faceva solletico alle dita. Lo stesso olio venne via da sotto le sue unghie e
dal gomito della sua manica. Il buco al centro era abbastanza grande per scivolarci dentro. Sarebbe stato
abbastanza facile, con tutto quell’olio.
“Ma perché vuoi farlo?” Ce lo scosse. Il suo gomito scivolò sopra la superficie della ruota dentata e
sopra la faccia della donna che era inciampata mentre stava attraversando la strada. Il tempo e le macchine
non aspettavano la donna caduta, Nove lo capiva.
“Aspetta qui.” Disse Nove.
Saltò dentro il buco.
La voce di Ce lo richiamò “Aspetta, Nove, cosa pensi di” e poi fu inghiottito dal suono del traffico
e degli stranieri di un primo pomeriggio. Nove era stato fatto cadere nel bel mezzo della strada, disorientato,
stordito. Non c’era assolutamente tempo da perdere, non c’era tempo da perdere sul perdere. Attraversò la
strada, saltò sopra il cofano bianco lucido di un’auto veloce, afferrò la donna caduta per il braccio e la tirò
verso la sicurezza proprio mentre il camion dell’immondizia avanzava ferocemente verso di loro.
“Porca miseria, toglietevi dalla strada!” gli gridò il guidatore del camion, facendo un gesto
piacevolmente maleducato con il suo braccio libero.
“Mi hai salvato la vita,” disse la donna senza fiato.
Nove controllò il suo orologio da polso. I numeri digitali stavano lampeggiando, violentemente,
quasi con veemenza. Sentì uno strano shock elettrico che gli partiva dal polso, attraverso i vasi sanguigni
color verde chiaro. Lo shock si collocò nel suo gomito. Non sapeva cosa dire alla donna che aveva salvato,
che era quasi morta a causa di calzature improprie e della goffaggine della vita. La fissò. Aveva un aspetto
completamente normale, con un neo molto rotondo e molto piccolo sul lato destro del naso. Inoltre le aveva
ferito il polso. Era meglio che essere morti, naturalmente, ma doveva esercitarsi con la sua tecnica futura.
“Mi hai salvato la vita,” disse la donna di nuovo. Sembrava che aspettasse qualcosa.
Ora l’orologio di Nove si era azzerato con un schiocco di potere elettrico. Dopo lo sconcertato
scintillio intermittente dei numeri, un fermo 11:32 era un sollievo. Lo batté leggermente, ma non successe
niente.
“Che ore sono?” chiese Nove alla donna che aveva salvato. Lo fissò. Una folla si stava radunando.
Un piccolo bambino barcollante li indicava. Una piccola vecchia signora si avvicinava traballando,
mormorando qualcosa riguardo ad un eroe!
“Appena in tempo,” fischiò un uomo in completo.
“Fantastico.”
“Ho visto tutto quanto. È come se fosse saltato fuori dal nulla.”
“Sono le undici e trentadue,” mormorò la donna.
Nove annuì, indietreggiò furtivamente verso la strada, si voltò e corse via.
Durante la sua fuga e anche dopo la sua fuga, mentre tornava tranquillamente indietro alla discarica,
un sacco di cose gli frullavano in testa. Come prima prova, non era andato poi così male. Infatti, dato che
aveva salvato la vita della donna, era andato abbastanza bene. Aveva dato l’impressione di essere un eroe
misterioso ed imprevedibile. C’erano delle qualità piacevoli per qualcuno che intendeva salvare delle vite.
Era venuto fuori proprio al momento giusto, il che significava che aveva capito le basi. Ora tutto quello di
cui aveva bisogno era un po’ di finezza. Quella sarebbe arrivata col tempo. Più tempo passava ad infilarsi in
quelle ruote dentate a salvare le persone dal pericolo, più bravo sarebbe diventato. Dava una bella
sensazione. Dava una sensazione naturale. C’era stato un momento di panico; all’improvviso era nel bel
mezzo di un incrocio stradale occupato, dopotutto. Il dubbio momentaneo raddoppiò il suo desiderio di
riuscire come un’inaspettata nuova vita di un fuoco morente. Dall’altra parte, con la donna sbalordita e
insicura, la sicurezza ormeggiava dentro di lui. Piacevole. Nove sentiva l’inizio di un sorriso nei muscoli
della mascella e intorno alle labbra e inghiottì questa cosa prima che gli sfuggisse. Il sorriso si mise a sedere
al centro della sua pancia e sorrise e gli diede una sensazione gradevole di indigestione eccitata e trionfante.
Non c’era nessuno alla discarica. Nove intraprese lentamente la sua via attraverso le montagne di
immondizia. Era il suo momento, e lo prese. Il suo orologio doveva sparire. Doveva prendersene uno nuovo
se aveva intenzione di diventare un eroe, un orologio da taschino che poteva ispezionare per un momento di
fronte alla folla che si riuniva prima di sparire fino alla prossima volta. La superficie di una scatola
rettangolare analogica lo fissava in modo immaturo. Nove calciò una lattina di latta. Nove si tolse l’orologio
e lo lanciò contro la lattina, che risuonò dall’interno per un momento, e poi cadde in silenzio.
Nove si mise a sedere sulla familiare montagna di immondizia, lasciò riposare la testa su uno stivale,
e continuò ad inghiottire sorrisi. I sorrisi erano privati. “Ce,” disse.
Ci fu un suono come velcro. Ce  o piuttosto, la testa di Ce  apparse sopra di lui. “Sei stato quasi
investito da un camion. La prossima volta dovrai saltare un po’ prima. Cavolo, pensavo che ti avrebbe ridotto
come una frittella!” Apparvero le sue dita e la sua manica, metà dal cielo e metà dalla montagna di
immondizia. Allungò la mano verso di lui. Gliela prese. La stessa sensazione assorbente e aspirante lo
sopraffece, una momentanea cecità gorgogliante, e poi si ritrovò nella pancia della bestia, o all’interno
dell’orologio. Si spazzolò della polvere immaginaria dalla spalla.
“Non l’avevo capito che era quello che stavi pianificando,” ammise Ce.
“Cosa hai pensato?”
“Non lo so. Qualcosa di più sinistro. Sembravi così serio, pensavo che volessi uccidere qualcuno.
Però era forte.” Ce si era messa a sedere su una ruota dentata, che rotava lentamente. Quando scese da lì
barcollò, poi riacquistò l’equilibrio con un sogghigno. “Non me l’aspettavo, quello è sicuro.”
“Hai solo supposto.”
“Cosa avrei dovuto pensare? Sembravi fuori di testa.” Ce guardò Nove con gli occhi socchiusi.
“Ancora lo sembri, ma è un po’ meno intimidatorio adesso.”
“Bene.”
“Lo rifarai di nuovo, Nove?”
Nove richiamò alla mente quel fremito impossibile, un impeto di importanza e potere nelle sue vene.
Si domandò se Ce pensasse che le sue ragioni fossero benevolenti o premurose. Se aveva intenzione di
provare ad essere sincero con se stesso, doveva ammettere che erano ragioni egoistiche e nient’altro. Non
aveva provato alcuna solidarietà per quella donna, non aveva nemmeno cercato di provare alcuna solidarietà
per lei. Quella donna era convenientemente lì, sulla giusta ruota dentata al momento giusto, e niente di più di
un meccanismo nella parte che Nove voleva interpretare. Non c’era motivo nel sentirsi bene con se stesso
insieme alle altre persone. Era una salita pericolosa e inaffidabile su cui Nove non aveva voglia di scivolare.
Al diavolo l’abisso, era certo che poteva vivere senza. Se voleva sentirsi bene, doveva stare da solo; non
doveva dipendere da nessuno; doveva essere un perfetto cerchio solipsistico di prestigio personale e di
egotismo eroico. Aveva trovato la risposta ai suoi desideri nelle ruote dentate. La risposta alla domanda di Ce
era sì. Sì, lo rifarà di nuovo. Per i motivi sbagliati, non per quelli giusti, se c’erano motivi giusti. Non
importava quanto l’immaginasse, la sensazione rimaneva, terribile, singolare e soffocante, implicando
nessuno tranne lui in tutte le sue infide sfaccettature. Non importava come lo guardasse, il fremito era una
vera costante, che si spostava continuamente nel suo sangue. Nove serrò i muscoli della mascella per
nasconderlo.
“Sì.”
Ce incrociò le braccia sul petto. Nemmeno lei era cambiata molto, si rese conto Nove. C’erano
alcune persone che conoscevi da quando avevo tre anni e Ce era una di queste persone. Mentre erano
entrambi avventurosi, era stato sempre con diversi piani e diversi modi di fare. “Hai bisogno di me,” disse
Ce. “Vero?”
“Sì.”
“Me lo chiederai? Non puoi farlo senza di me. Altrimenti non saresti venuto a prendermi in primo
luogo. Staresti da solo ad arrampicarti in questo posto. Naturalmente fa una grossa differenza ora che so cosa
vuoi fare. Ma ne vale la pena, ecco la domanda  e quando inizia? Quella è un’altra domanda. Non sai
nemmeno come tutto questo funzioni. Non farai altro che saltare nelle ruote dentate, correre tra il traffico e
trascinarmi nelle discariche di rifiuti?” Ce si strofinò via dalle ginocchia l’olio delle ruote dentate. Nove
l’osservava come un gatto arrabbiato ed affamato, risentito ma dipendente. “Vuoi capire questa cosa e
continuare a salvare la gente,” concluse Ce, “me lo dovrai chiedere. Ecco tutto. Non devi neanche dire per
favore.” Si infilò le mani in due grandi tasche, diventando delle specie di tende sulle sue cosce. “È molto
semplice, Nove  tanto quanto mangiare una torta.”
Nove continuò a tenere la mascella serrata. “Domani. Ci vediamo qui.”
“Quella non è una domanda.”
“Ti va bene alle sei e mezza?”
“È abbastanza buona.”
“L’ora?”
Ce sogghignò. “Volevo dire, è abbastanza buona la domanda. Per me è meglio alle sette, preparo io
la cena.”
Ritornando a casa, Nove ripensò al successo immediato che aveva esperimentato ma tuttavia avvertì
se stesso di non pensarci troppo. C’erano ancora troppe cose che non sapeva, praticamente quasi nulla. C’era
troppo da contare, troppo da studiare, troppo da considerare. Ce lo distraeva. Non lo distraeva in nessun
modo particolare, ma erano piuttosto le altre persone, lo sforzo extra che richiedevano, che lo distraevano.
Era una distrazione generale. Desiderava saperne di più sulle ragioni dietro questo strano fenomeno. Non
sapere nulla oltre a quello che succedeva, e perfino la sua presa su tutto ciò era alla meglio inconsistente, lo
lasciava fare quello che gli piaceva di meno: indovinare. Stava indovinando nel mezzo della distrazione.
Domani alle sette avrebbe portato un quaderno e ci avrebbe scritto sopra e avrebbe capito tutto quanto.
Distrazione o no, era la sua prerogativa, il suo destino fai-da-te, capire le macchinazioni delle ruote dentate.
Ce  la distrazione  era accidentalmente necessaria, l’unico fattore sconosciuto. Se una persona potesse
essere distillata in una qualche sezione di un’equazione, Nove sarebbe stato colui che ci sarebbe riuscito.
***
Era martedì. Nove prese il suo quaderno dallo zaino nero e lo aprì. “Ce ne sono ventiquattro,” disse
Ce, mentre Nove iniziava a scrivere. “Di ruote dentate. Ci sono ventiquattro ruote dentate  le ho contate
dopo che tu, sai, ci sei balzato dentro ieri.” Fece dei segnali con le sue braccia. Nove era seccato con se
stesso per il fatto che Ce sapesse qualcosa di così vitale prima di lui, ma dopotutto lei aveva passato più
tempo nella stanza delle ruote dentate e gli andava bene, se significava che Nove era stato il primo a provare
questa cosa. Comunque anche lui aveva contato le ruote dentate. Dalla prima alla ventiquattresima. Lo
annotò nel quaderno. Ispezionò le ruote dentate più da vicino. Erano tutte di grandezza e di forma uguale,
l’una indistinguibile dall’altra, o quasi, dato che ognuna aveva inciso un numero diverso, molto piccolo,
all’interno del buco al centro. Quei numeri andavano comprensibilmente dall’uno al ventiquattro.
Vantaggiosamente o premurosamente le ruote dentate erano tutte in ordine. Nove ne abbozzò un veloce
diagramma. Tutte le ruote dentate erano in fila. Qualche volta brillavano con le facce delle stesse persone,
una dopo l’altra. Qualche volta no. C’era poco o zero ordine, sembrava, su come le facce venivano mostrate,
o sul perché, o sul quando, o su quale ruota dentata. Quella era la parte confusionaria, le più causali
intersecazioni di vite umane che si svolgevano su un meccanismo altamente strutturato di ventiquattro grandi
ruote dentate. Avrebbe potuto essere ingannevole, forse usava la casualità umana per oscurare qualche
anomalia più profonda di spontaneità e disordine. Un nonsenso potrebbe essere stato sovrapposto da un
nonsenso più importante. Nove prese nota anche di quella considerazione. Il migliore principio d’etica era,
secondo Nove, non lasciare nulla d’intentato. In questo caso, la vecchia massima si poteva facilmente
adattare in non lasciare nessuna ruota dentata d’intentato. Nel suo diagramma Nove marcò dal I all’XXIV
al centro delle ruote dentate, dato che i numeri usati erano originariamente quelli romani, come se per
rivelare che in realtà erano molto vecchie nonostante brillassero come se fossero nuove di zecca. Nove prese
nota anche dello strano materiale di cui le ruote dentate erano fatte, allo stesso tempo d’oro e di vitreo
traslucido. Riflettevano anche la loro collezione di facce tenebrose, solo leggermente distorte dalle loro
rapide rotazioni e dall’olio appiccicoso delle ruote che luccicava come un olio divino.
Nove camminava velocemente su e giù lungo la fila delle ruote dentate tante volte quanto pensava
di averne bisogno e un’altra volta in più per essere sicuri. Il più piccolo dettaglio poteva essere la chiave del
più grande mistero. L’unico problema con quel principio d’etica era che oltre al numero delle ruote, i numeri
sulle ruote, e la loro apparenza di base, non c’era niente di che da documentare. Nove voleva staccare a
morsi il cappuccio della penna. Non lo fece, ma digrignò i molari. Era inutile prendere nota di ogni faccia,
intersecazione, azione e reazione, ed era anche impossibile. Nove passò alla parte piacevole, quella che
permetteva l’atto arbitrario di scegliere la sua ruota dentata. Nove temperò l’arbitrarietà con la prevedibilità.
Scelse la ruota contrassegnata come IX.
“Vedi qualcosa che non vedo? Sono solo ruote dentate. Ruote dentate  davvero  grandi. Cosa stai
scrivendo?”
“Cose.”
“Beh, ovviamente cose. Intendevo quali cose, e tu lo sai.”
“Niente di che.”
Almeno Ce non cercava di strappargli di mano il quaderno. Invece lo fissava con scetticismo ed
anche con un po’ di curiosità. “Se non saremo partner in questa cosa,” disse, “allora non vengo più. Ma se
saremo partner, allora mi lascerai vedere cosa c’è in quel tuo quaderno.” L’aveva in pugno. Nove chiuse con
un colpo secco il quaderno, incastrò la sottile penna metallica nel laccio ad anello, e glielo diede
sgarbatamente. Mentre Ce esaminava accuratamente i suoi deboli contenuti irregolari, Nove prese il suo
posto accanto alla ruota dentata IX, incrociò le braccia sul petto, e trasudò il disappunto scontroso di un
genio offeso, o di un bambino di tre anni affamato. “Beh. Non c’è molto qui.”
“No. È quello che ho detto.”
“Non ti posso credere e basta. Non sono stupida.” Ce gli restituì il quaderno. “Ora che si fa?”
“Questa è lei.”
“Lei chi?”
“La ruota che userò.”
“Sempre?”
“Sempre.”
“Numero IX, huh.” Ci si chinarono insieme sopra per guardare sulla sua superficie. “Cosa stiamo
cercando? Qualcuno nei guai?”
“Qualcuno nel tipo giusto di guai.”
“Immagino che non potrai salvare tutti.”
“No.”
Nove non sapeva per quanto tempo aspettarono e guardarono. In questo luogo, il suo nuovissimo
orologio da taschino aveva smesso subito di funzionare. Lo strofinò pigramente. Qualche volta le persone
non avevano bisogno affatto di essere salvate e qualche volta era chiaro che non dovessero essere salvate
anche se ne avevano bisogno. Scegliere una sola ruota dentata abbassava consideratamente le limitate scelte
di Nove a qualcosa di fattibile. Per un lungo tempo, o così sembrava, non accadde niente di nota. Accanto a
lui, Ce stava osservando con un’attenzione immancabilmente estasiata. Paragonata all’intensità del paziente
interesse di lei, Nove si sentiva irrequieto. Era preparato ad aspettare per sempre, ma in qualche modo era
diventato quello irrequieto. Alla fine videro gli inizi di un incidente. All’unisono, le loro teste si voltarono
nella brillante luce del sole. In cima ad un’impalcatura malsicura, un caposquadra urlava, con le mani intorno
alla bocca. Una donna si spostò per proteggere suo figlio con la sua schiena grassottella.
Ce afferrò il quaderno e diede a Nove una spinta. “Vai, vai!”
Nove scivolò dentro.
Se doveva classificare la sensazione, quel momento di scivolamento, avrebbe dovuto dire che era un
po’ come il momento dopo essere svenuti. Non era l’inconsapevolezza, ma la consapevolezza di ritornare, la
calda increspatura pungente del cervello cotonato che stava lentamente pulsando dal corpo con la forza del
sangue che si fortificava. Mentre la sentiva, memorizzò la sensazione. Era un po’ spiacevole, ma era la parte
più veloce della scivolata. Quando finì, si trovava sotto l’impalcatura che aveva visto sul punto di crollare,
acciaio che si scuoteva e si piegava sul palcoscenico della ruota dentata. Il suo equilibrio naturale ritornò alle
sue ginocchia e al suo stomaco. Il tempo ritornò nel suo orologio da taschino. Però tutto era cambiato  nulla
era come se l’era aspettato. Corrugò le ciglia. Non c’erano la donna e il suo bambino, non c’era nessun
caposquadra che gridava; mancavano perfino la luce del sole e le accalcate facce anonime. C’era qualcosa di
sbagliato. L’impalcatura stava ancora in piedi, quindi non aveva mancato il momento del suo tragico crollo.
La ruota dentata gli aveva mentito? Ogni ruota lavorava nel suo modo peculiare? Importava quando il tempo
era tutto sbagliato e i suoi piani venivano rovinati? Nove si tirò indietro e si allontanò dal nuovo edificio, dal
labirinto di metallo che formava il suo esoscheletro, dalla collezione di utensili edili abbandonati dopo la
conclusione del lavoro. Il sole stava cominciando a tramontare. Non c’era alcun dubbio a riguardo. Era
arrivato al momento sbagliato. Non c’era alcun modo per dire, da quel poco che sapeva, quando sarebbe
stato il momento giusto. Nove decise di aspettare.
Si arrese dopo che sparirono tre ore e mezza e non era ancora successa nessuna tragedia. Alla fine,
arrabbiato, dolorante e con le dita blu a causa del gelo notturno, Nove ritornò alla discarica. Dappertutto i
mucchi di immondizia avevano un nuvoloso splendore lunare, una lucentezza rugginosa. Il sentiero stava già
diventando familiare. Nove diede un calcio ad una lattina e gridò il nome di Ce. Non ci fu risposta, a parte il
richiamo fragoroso della robaccia a sua sorella robaccia. Per quando Nove si era buttato violentemente su
metà della robaccia accumulata di fronte alla sua prima montagna di immondizia, l’intera testa di Ce spuntò
fuori dal solito posto, senza corpo e assonnata. “Ce ne hai messo di tempo,” disse. Gli afferrò i polsi e lo tirò
dentro.
“Cos’è successo?”
“Te lo stavo per chiedere io!”
“L’hai visto? Sulla ruota?”
“Ecco la cosa buffa.” Ce si strofinò gli occhi con il palmo della mano. Nove le poteva vedere lo
strappo sul gomito, un braccialetto di caramelle metà mangiate, una chiazza d’olio di ruote dentate che si
diffondeva sull’avambraccio. “Ti sarebbero dovute accadere delle cose. Stava accadendo sulla ruota, tutti che
correvano e urlavano e quell’edificio che crollava all’improvviso. Ma quando ho guardato attraverso il buco
stavi lì  potevo vederti attraverso il buco, sai  ma nessuna di quelle cose che stavano accadendo sulla
ruota, stavano accadendo a te.”
“Tutto qua?”
“Beh.” Ce morse un altro pezzo di caramella dal polso. Il succhiare la caramella rendeva il suo
discorso calunniante. “Poi mi stavo annoiando un po’ a guardare che nulla accadeva. E mi stavo anche
innervosendo. Cosa sarebbe successo se l’edificio fosse venuto giù mentre tu stavi lì? Ma non potevo farmi
un sonnellino e tutto quello che avevo era il tuo quaderno. Così ho pensato di guardarmi intorno.” Ce aprì il
quaderno e sfogliò le pagine, cercando qualcosa. Nove si sentiva stanco e infastidito, disturbato. “Comunque
se vuoi sapere cosa ho trovato.”
“Cosa?”
“Quando sono andata alla ruota ventidue, ti ho visto.”
“Attraverso il buco?”
“Sulla ruota. Sei stato lì solo per un minuto. Ti ho visto per caso, ci ero solo passata vicino. Ma stavi
lì, seduto, con un aspetto irritabile. Proprio dove l’impalcatura avrebbe dovuto cadere, ma non l’aveva ancora
fatto. Era tutto a posto.” Ce girò il quaderno, aprì una pagina dove aveva scarabocchiato Ruota Dentata
XXII, Nove in una calligrafia sinuosa. “Ho preso un appunto,” gli disse. “Tanto per seguirne le tracce. Ecco,
dacci un’occhiata.”
“Aspetta un minuto.”
“Come saprò quando scade il minuto?”
“Aspetta e basta.” Nove controllò il suo orologio da taschino. Le sue lancette era congelate proprio
dopo il numero romano IX. “Quanto tempo fa mi hai visto sulla ruota ventidue?”
“Non lo so. Mi sono addormentata dopo. Sembravi al sicuro. Non stavi facendo molto. Era noioso.”
“Se sono passato attraverso la ruota nove ma tu mi hai visto sulla ruota ventidue,” disse Nove, ma
non finì la frase. Qualunque significato avesse questo strano ed inaspettato dettaglio, la risposta al puzzle gli
sfuggiva. Frustrante. I suoi appunti non erano d’aiuto, n’era certo, poteva essere utile solo un momentaneo
flash di ispirazione che non poteva spronare o ispirare se stesso. Doveva aspettarlo. Premette le dita sul solco
della fronte, corrugata per la seccatura. Vicino a lui, Ce odorava di quel gusto caramelloso che non era uva
ma che si chiamava Uva. Nove strofinò il suo orologio da taschino. La circonferenza incisa dava la
sensazione di una scrittura straniera a braille, così che le dita inquiete di Nove cercassero di evocare il potere
di un traduttore, rivoltato sul metallo scaldato per decifrare il suo codice. Quando le sue dita scivolarono e gli
schioccarono le ossa della mano, la sua imprecazione sibilata si modificò in qualcosa di silenzioso. L’interno
del suo orologio da taschino era, per il suo guazzabuglio di meccanismi, misteriosamente simile al mondo
dove si trovava ora. Ma quando richiuse l’orologio e controllò il tempo immobile e i suoi numeri dall’I al
XII, Nove si soffermò. “Ne ha solo dodici,” disse.
“Sull’orologio?” chiese Ce. “Ho sempre pensato che fosse un modo stupido di fare le cose. Se deve
fare il giro due volte, perché non raddoppiare i numeri e fargli fare il giro una volta sola? Rende le cose più
semplici.”
“Raddoppiare i numeri. Intendi dall’uno al ventiquattro.” Nove si sentiva inusuale, come se stesse
ridendo. Quando strinse i denti contro i denti, la mascella gli fece male. “Come il numero delle ruote dentate
qui. Per esempio.”
Ce si rallegrò. “Nove.”
“La ruota nove sarebbe le nove del mattino. E la ruota ventidue sarebbe le dieci di notte. Se mi hai
visto sulla ruota ventidue, vuol dire che mi ha visto tra le dieci e le undici di notte.”
“Devi essere eccitato,” sogghignò Ce. “Stai parlando tantissimo.”
“Ogni ruota è un’ora diversa del giorno.”
“Beh quello ha senso.”
“Qualcosa deve averlo,” disse Nove.
“Quindi se vuoi lavorare attraverso la ruota notturna, devi arrivarci alle nove del mattino.”
“Alle otto,” disse Nove. Era un suggerimento, era sensibile, e non c’era niente da lasciare al caso
tranne le lenti rotazioni delle ruote dentate. “Ci vediamo domani alle otto di mattina.”
***
Oliava le stesse ruote dentate da abbastanza tempo e alla fine avevano iniziato ad essere amichevoli,
o almeno tanto amichevoli quanto potevano essere delle ruote dentate. Erano e non erano “solo” ruote
dentate. Gli orologi erano e non erano “solo” orologi. L’Orologiaio aveva sempre avuto un’affinità speciale
con queste cose. Aveva tenuto unito il tempo per le sue cuciture sempre sull’orlo di scoppiare da molti anni
ormai, e mentre il tempo era impassibile, totalmente impersonale, gli orologi non lo erano. Gli orologi e i
loro meccanismi erano il compagno umano del tempo. Ne potevano essere grati.
Ne potevano essere anche arrabbiati. Un orologio ti faceva sapere quando ci metteva troppo tempo
nel decidere che era meglio smettere di lavorare per te. Un orologio rotto era un orologio irritabile. Poi
dovevi andare lì dentro e dargli un po’ di amore riparatore e oliare le ruote dentate al punto giusto. Era come
regalare i fiori per scusarsi, e con gli orologi quel che importava era che tu sperassi di saper applicare la
formula correttamente.
L’Orologiaio stava perfezionando l’arte di scusarsi con gli orologi. C’era solo un raggio limitato di
cose che un orologio poteva fare. Lo capiva. Il tempo era una forte corrente veloce e terribile, e i
meccanismi, le ruote, le molle, il quadrante, i numeri e le lancette potevano mantenersi solo per un certo
periodo. Gli orologi erano quelli che rimanevano indietro, o che saltavano in avanti. Gli uomini avevano
provato a registrare le propulsioni delle loro vite attraverso parole come passato, presente e futuro. Era
complicato. Si rompevano spesso.
La parte importante era che nessuno lo notava.
Questo era il lavoro dell’Orologiaio. Lo faceva abbastanza bene.
Così quando c’erano dei ratti nelle attività, L’Orologiaio lo sapeva. Ratti del tempo. Pirati. Pi-ratti,
corresse la sua mente, per mantenere la rima. Non poteva dire di esserne sorpreso. Poteva quasi dire che era
colpa sua, o piuttosto che lo aveva incoraggiato. C’era sempre poco spazio per giocare. Il tempo non era
noioso  ma il tempo poteva anche essere reso più interessante. Tutto lo poteva essere.
Per tre anni c’era stato solo un ratto del tempo che si muoveva tra le ruote dentate e racimolava
quello che poteva. L’Orologiaio l’aveva incontrato una volta sola e gli aveva dato la chiave, che nel suo caso
era una lancetta d’orologio lunga, serpentina e antiquata. Quello che ci faceva dipendeva da lui, e dal caso, e
da quante cose avesse voglia di imbattersi. C’erano più di due tipi di persone al mondo, ma i due tipi più
propensi nell’invadere il tempo erano quelli per cui il tempo non aveva mai perso la sua meraviglia e quelli
per cui il tempo doveva essere conquistato. L’Orologiaio era parziale su questo acaro del tempo perché
faceva parte del primo tipo, ma lasciava la glassa e lo zucchero all’interno delle ruote dentate. Poteva anche
essere più attento.
Nell’ultima settimana c’erano due ratti del tempo che si mancavano a vicenda, tre se contava la
ragazza che aveva incontrato anche lei una volta sola, ed anche la sua presenza era colpa dell’Orologiaio, più
o meno. Il secondo era qualcuno che non conosceva affatto e così l’aveva studiato, quello che gli faceva fare
tic e quello che gli faceva fare tac. Le persone erano notevolmente come orologi: grossi e complicati
ingranaggi interni; una forma di base per contenere gli ingranaggi interni; e poi il principio su cui la forma e
gli ingranaggi erano basati, e che non avevano niente a che fare con l’un l’altro.
Quei tre avevano un nome. C’erano due ragazzi e una ragazza. Il nome della ragazza era Ce ed era il
diminutivo, L’Orologiaio lo sapeva, di Cesio. Il ragazzo più giovane si chiamava Nove; L’Orologiaio non lo
avrebbe mai scelto. Quello più vecchio  non era più un ragazzo, ma L’Orologiaio avrebbe sempre pensato
di lui come tale  si chiamava Fynn, e odorava sempre vagamente di ristorante, patatine fritte e frullati al
cioccolato.
Quei tre avevano un ottimo tempismo. Continuavano a mancarsi a vicenda.
“Guarda qua.”
Lo Storico lasciò andare la sua penna con la piuma che continuò a scrivere senza di lui.
“Cosa?”
“Quei tre.”
“Ancora?”
“Due di loro non sanno cosa fanno.” L’Orologiaio aveva l’interno del suo orologio preferito aperto.
Poteva vederli muoversi in scala ridotta attraverso gli ingranaggi. Era come avere la televisione.
“Quello lì è carino.”
Il Cane Da Guardia scodinzolava.
“Beh, sì,” concordò L’Orologiaio. “Finché non rompono qualcosa.”
***
Sotto il ponte c’era una ripida caduta di terra che arrivava in acqua e poi il piccolo sentiero di
cemento che vi si insinuava accanto. I piccioni stavano appollaiati, giacevano le loro uova, spargevano le
loro piume e cagavano e cagavano e cagavano. Era il glorioso ventre molle del mondo, dove l’oscura e
inaffidabile corrente sottomarina dell’acqua gli ricordava il senso di solitudine e di perdita che le vene della
terra stavano soffrendo per mezzo del fango. Al di sopra, la struttura scheletrica del ponte s’inarcava come
costole carbonizzate. L’intera cosa si teneva insieme per abitudine piuttosto che per sua volontà, e ora
l’abitudine e il ponte stavano cominciando ad indebolirsi. Qui era dove Fynn comprava i sacchetti di popcorn
o le tortine o i pacchetti di ciambelle o le patatine fritte o i biscotti al cioccolato con noci avvolti nella
plastica, e si leccava quell’osceno piacere dalle dita. Un sacrificio agli dei del cibo spazzatura. Poi si tolse la
giacca, le scarpe e i calzini, e si arrampicò nella pancia della bestia attraverso una falda che aveva strappato
per se stesso. Era il suo spazio strisciante per raggiungere il tempo, su uno dei grandi sostegni grigi ai piedi
del ponte.
L’aveva trovato per caso, ma amava il terrore che naturalmente provava di fronte ad una simile
casualità. Il fatto che non avrebbe potuto trovarlo così facilmente come invece l’aveva trovato, rendeva il
segreto più elettrizzante. Le possibili differenze gettavano nel sollievo la realtà della vita come la conosceva.
Era, credeva, la stessa ragione per cui i broccoli, gli spinaci e i cavolini di Bruxelles esistevano nel mondo:
per far sì che la torta avesse un gusto migliore.
Fynn si leccò dal pollice una vivida striscia arancione di formaggio sciolto. Arrotolò i calzini in due
palle e li infilò nelle scarpe da ginnastica. La lancetta d’orologio e la fantastica catena su cui era appesa
dondolava sotto il colletto, lasciando una scia fredda e rimbalzando dalla pelle alla t-shirt, pelle e t-shirt. Si
muoveva avanti e indietro come un pendolo.
Un piccione tubava.
Fynn si mise a carponi, chiuse gli occhi e pose la sua fiducia nel tempo. Era stato sempre capace di
farlo. Lavorava per uomini e donne che nemmeno si fidavano di lui, ancor meno del fatto che il tempo
potesse e avrebbe provveduto. Per ogni fetta di torta goduta nel passato ce n’era un'altra che lo aspettava nel
futuro. Fynn premette la fronte contro la base umida del sostegno. Odorava di pietra bagnata che era stata
bagnata per un lungo, lungo tempo.
“Bau, bau,” disse Fynn. Si era messo a carponi. Era solo appropriato.
Strisciò dentro.
C’era, aveva deciso Fynn finalmente, un luogo nel mezzo. Per tre anni ci aveva strisciato dentro, ma
solo ultimamente era arrivato alla conclusione che strisciava in tre luoghi distinti. C’era il tempo e la sua
vita, che si trovavano sotto il ponte. La sua destinazione era oltre il tempo, nella stanza con la fila di ruote
dentate. Ma questo era come essere due persone diverse e c’erano ancora una terza persona, in mezzo agli
altri due luoghi. Era come essere in un vaso di miele. Fynn non sapeva cos’era, ma gli lasciava uno scomodo
appiccicaticcio nelle orecchie.
La prima volta che Fynn aveva trovato la stanza delle ruote dentate non seppe cosa fare. Sperimenta,
pensò. Improvvisa. Aveva cavalcato una ruota dentata e aveva sentito agli avambracci, sulle cosce, sullo
stomaco il curioso e viscoso olio delle ruote e il ronzio con cui ruotavano e ruotavano con i loro ritmi precisi.
All’inizio pensò che dovesse solo osservare le persone, ma poi scoprì che non c’era una storia da seguire.
Piuttosto, era tutto un guazzabuglio di facce e momenti. Aveva spiato per un minuto su un museo o su un
boss della mafia, su battesimi e bagni, ma non c’era nessun uomo o donna o bambino o animale per cui
potesse coltivare una parzialità. Nessuno rimaneva a lungo protagonista sulle ruote. Erano tutte le cose della
vita che, come aveva sospettato, le persone sbagliavano. Ed ecco la prova. Invece di soccombere all’infinito
anonimato, decise di saltarci dentro e far parte della lotta senza nome. I buchi erano fatti per essere esplorati.
Qualcuno aveva fatto questi buchi, abbastanza grandi per strisciarci dentro, per una ragione ed era andarci
dentro. Fynn entrò di testa e non guardò dietro di sé.
Per alcune persone, sbagliando si imparava. A Fynn non dava fastidio questo motto, e comunque
aveva un eccellente intuito. Lo accolse come una piovra con i tentacoli, come il gelato alla vaniglia con la
torta di mele. Alla fine non era che non volesse usare la sua scoperta. Era troppo meravigliosamente bizzarra
per farne un buon uso. Doveva essere una delle tante gloriose ma prive di senso perfezioni del mondo. Però
Fynn aveva le dita appiccicose e alla fine avrebbe lasciato un’impronta.
Era arrivata una lettera a casa sua.
‘Ho sentito dire che se vuole arrivare da qualche parte dopo nessun altro può, lei è l’uomo giusto,’
diceva, con un indirizzo sul retro.
Fynn non era l’uomo giusto, o almeno non pensava di esserlo stato finora. Ma perché non avrebbe
dovuto esserlo? Se solo avesse saputo di non esserlo, non c’era stato nessuno a correggere l’errore. A causa
di un’impronta arancione lasciata all’interno di una cassaforte  un affare facile e sconsiderato, ma presto o
tardi le ruote dentate ti potevano mostrare tutto quello che volevi vedere e ti potevano portare dovunque
volessi  all’improvviso Fynn era l’uomo giusto. Fynn non lo faceva per costruirsi una reputazione. Non lo
faceva per costruirsi chissà cos’altro. Ciò che gli dava, glielo dava gratis. Non doveva persuadere, blandire,
fare qualcosa di più del lavorare con quello che gli veniva dato, o non dato  in quel modo, aveva deciso
tempo fa, niente veniva veramente portato via. Non aveva compreso ancora del tutto questa cosa, questa
spinta che sentiva di vivere solo nel presente. Era possibile che non potesse farcela. Ci stava lavorando. Nel
frattempo aveva un biglietto da visita che dava alle persone, che diceva semplicemente ‘Sì, sono l’uomo che
può!’ e sotto quello, in una dimensione più piccola, ‘Il che significa che sono costoso.’
Il tempo lo lasciava dove aveva bisogno di essere e lo riprendeva quando aveva finito. Rubava
professionalmente per l’amore non di fregare le cose ma di ridisporre le proprietà. C’era una certa libertà
nell’alleggerire i proprietari precedenti dai loro oggetti. Gioielli. Quadri. Sculture. Pezzi di museo da
comprare e vendere. Furtarelli tra i ricchi. Scherzi pratici. Lavori bancari. Qualche volta rubava qualcosa da
qualcuno solo per rubarlo di nuovo per loro. Non era un lavoro. Era un hobby. Lo sentiva così, e gli capitava
solo di essere pagato.
Finora, l’aveva sempre fatto da solo, o così supponeva, o non aveva mai avuto una buona ragione per
controllare se non era così.
Poi, quel mattino, capì che non era l’unico.
Dove la maggior parte delle persone si sarebbero infastidite o arrabbiate, Fynn era eccitato. Si tuffò
dietro la ruota dentata XXII, vicino alla quale entrava sempre, e ficcò le dita nelle orecchie per pulirle. Giù
nella fila di ruote, presso la ruota dentata IX si trovava la sua compagnia. Erano un ragazzo e una ragazza.
Sembrava pari e giusto. Riusciva a vedere i capelli rosa e gli stivali gialli della ragazza e il profilo del viso
smagrito del ragazzo.
“Sì, è quella,” disse la ragazza. La sua voce si spandeva chiara e splendente sopra le ruote. “Sembra
più carina, non so.”
“Sono allo stesso momento.”
“Beh, lo so. Ma non puoi salvare tutti. Dove ti incontro?”
“Quella.”
“Sicuro? Cavolo. Preferivo l’altra.”
“Non è questo il punto.”
“Lo so, lo so. Ti incontrerò lì. Nove?”
“Sì?”
“Mi piace guardarti lavorare, Nove.”
Il ragazzo non rispose.
La ragazza non sembrava aspettarsi una risposta. Lo salutò, morse un pezzo di caramella, e fece un
passo indietro. Il suo piede sparì per primo. Poi il resto. Il ragazzo non la salutò o si voltò o la guardò
andarsene, stava solo lì a fissare la ruota davanti a lui. A Fynn non piaceva spiare le persone. Prendergli le
cose, lasciargli sapere che stava nei paraggi e che poteva introdursi facilmente nelle loro vite, era quello che
gli piaceva fare. Fynn fece capolino da dietro la ruota XXII in un modo che, immaginò, ricordava la prima
margherita di primavera.
“Bu,” disse.
Continua…