Le crisi di mortalità e la trasmissione della disuguaglianza in Italia

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Le crisi di mortalità e la trasmissione della disuguaglianza in Italia
Guido Alfani
Università “L. Bocconi”, Milano
Le crisi di mortalità e la trasmissione della disuguaglianza in Italia tra Medioevo ed Età
moderna
Il recente ritorno d'interesse per le conseguenze economico-sociali di lungo periodo delle crisi di
mortalità, e in particolare delle principali pestilenze del tardo Medioevo e dell'Età moderna, ha
sinora privilegiato l'ampia scala d'osservazione ma si è raramente spinto al livello di singole
comunità (e tanto meno di singole famiglie o individui)1. Tra le poche significative eccezioni
figurano gli studi sulle conseguenze che le crisi di mortalità ebbero sulla distribuzione della
ricchezza e del reddito - studi che per loro natura richiedono informazioni a livello di famiglie o
"fuochi" -. Questo saggio intende fare il punto su tali sviluppi recenti, avvalendosi dei dati raccolti
dal progetto EINITE-Economic Inequality across Italy and Europe, 1300-1800, così come da studi
precedenti relativi in particolare all'Italia nord-occidentale (Piemonte). Il saggio confronta le
conseguenze della Peste Nera del XIV secolo con quelle delle ultime grandi pestilenze italiane nel
XVII - e in particolare la peste del 1629-30, che colpì quasi tutto il Nord della penisola. Tali eventi
ebbero conseguenze di medio e lungo periodo assai diverse: la Peste Nera innescò una fase secolare
di riduzione della disuguaglianza economica, mentre le pestilenze successive sembrano aver
rapidamente perso tale capacità. Le ragioni sono probabilmente da ricercare, da un lato,
nell’adattamento istituzionale occorso nei secoli successivi alla Peste Nera, e dall’altro lato nella
diversa reazione alla crisi di popolazioni divenute consapevoli del fatto che il verificarsi di una
pestilenza di vaste proporzioni era una possibilità concreta.
Lo shock imprevisto e imprevedibile: la Peste Nera
Nel 1347 la peste fece ritorno in Europa, da cui era stata assente per molti secoli2. Galere genovesi
in fuga da Caffa in Crimea, dopo aver infettato Costantinopoli trasmisero il contagio alla Sicilia (da
cui si diffuse subito a parte della Calabria), alla Sardegna, alla Corsica e, probabilmente, a Genova e
a Marsiglia. Da questi focolai iniziali, la malattia si sarebbe diffusa assai rapidamente nel continente
europeo. Entro la fine del 1348, essa aveva coperto quasi interamente la penisola italiana.
Soltanto in Europa e nel bacino del Mediterraneo la Peste Nera avrebbe ucciso almeno cinquanta
milioni di persone e in effetti, se teniamo conto delle dimensioni stimate della popolazione
dell'epoca e se ragioniamo nei termini dei tassi di mortalità (il rapporto tra il numero di vittime e la
popolazione esistente all'inizio del contagio) questa pandemia fu con ogni probabilità la peggiore
1
La ricerca che ha condotto ai risultati qui presentati ha usufruito del finanziamento dello European Research Council,
Settimo Programma Quadro dell’Unione Europea (FP7/2007-2013) / ERC Grant agreement n° 283802, EINITEEconomic Inequality across Italy and Europe, 1300-1800
2
L’ultima grave pestilenza precedente pare essere stata la peste detta “di Giustiniano” nel 541-544 d.C.
1
nella storia del continente: avendo eliminato nel giro di pochi anni, e considerate le stime minima e
massima, tra il 33 e il 60% dell'intera popolazione europea. In Italia, ad esempio, se crediamo ai
cronisti dell'epoca il tasso di mortalità sarebbe stato pari al 60% a Firenze e a Siena, al 50% a
Orvieto e al 45% a Prato e a Bologna, mentre le stime per l'intera penisola vanno da un minimo del
30% a un massimo del 50-60%3, sostanzialmente in linea con la media europea.
Una simile catastrofe non poteva non causare un profondo sconvolgimento delle vite degli uomini,
specie considerato che nessun intervento, tra quelli che poterono essere messi in atto per limitare la
diffusione del contagio o per curare gli ammalati, pareva efficace. La più celebre descrizione di
questa situazione di sconcerto rimane quella offertaci da Giovanni Boccaccio nel Decameron:
«[Nell’anno milletrecentoquarantotto] pervenne [a Firenze] la mortifera pestilenza, la quale o per operazion de’corpi
superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali (…). Ed in quella
non valendo alcun senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da uficiali
sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazione della sanità, né
ancora umili supplicazioni non una volta ma molte ed in processioni ordinate ed in altre guise a Dio fatte dalle divote
persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, ed in
miracolosa maniera, a dimostrare.
(…)
Dalle quali cose (…) nacquero diverse paure ed imaginazioni in quelli che rimanevano vivi; e tutti quasi ad un fine
tiravano assai crudele, ciò era di schifare e sfuggire gl’infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno a se
medesimo salute acquistare. Ed erano alcuni, li quali avvisavano che il viver modestamente ed il guardarsi da ogni
superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere (…). Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano il bere assai
ed il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando ed il sodisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse, e di ciò che
avveniva ridersi e beffarsi, essere medicina certissima a tanto male (…). Ed in tanta afflizione e miseria della nostra
città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri ed
esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi (...); per la qual cosa era a ciascuno
licito quanto a grado gli era, d’adoperare.
(…)
E lasciamo stare che l’un cittadino l’altro schifasse, e quasi niun vicino avesse dell’altro cura, ed i parenti insieme rade
volte o non mai si visitassero e di lontano; era con un sì fatto spavento questa tribolazione entrata ne’ petti degli uomini
e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, ed il zio il nepote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il
suo marito, e (che maggior cosa è e quasi non credibile) li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare
e di servire schifavano.»4
Firenze, al pari della gran parte delle città dell’Italia e dell’Europa, aveva ricevuto notizia della
nuova malattia ben prima di risultarne contagiata. Il tipo di interventi messi allora in atto (invano)
per prevenire l’epidemia, quali la pulizia della città o le restrizioni alla circolazione degli uomini,
rappresentano il prototipo di strumenti di sanità pubblica che sarebbero stati affinati nel corso dei
secoli successivi5. Una volta che la peste ebbe fatto il suo ingresso in Firenze, però, le capacità
d’intervento e controllo delle autorità cittadine si rivelarono del tutto inadeguate a mantenere la
calma e l’ordine. Boccaccio descrive il rapido degradarsi non solo delle attività umane (con
l’arresto di ogni attività economica), ma anche dei rapporti sociali: fino all’estremo, vale a dire alla
rottura dei legami familiari più intimi.
D’allora in poi, il timore che lo svilupparsi di un’epidemia tanto contagiosa quanto la peste (che
sarebbe rimasta, per molte generazioni, parte dell’esperienza degli abitanti della penisola) potesse
determinare il completo tracollo delle società urbane sarebbe stato acutamente presente alle autorità
di governo, il cui primo obiettivo non era preservare la città da calamità “naturali” (o
“sovrannaturali”, se lette, come si fece all’epoca della Peste Nera, quali castigo divino), epidemie e
carestie in primis, bensì mantenere l’ordine pubblico durante episodi che, per quanto terribili,
3
L. Del Panta, Le epidemie nella storia demografica italiana, Loescher, Torino 1980; O.J. Benedictow, The Black
Death 1346-1353. The Complete History, Boydell, Woodbridge 2004; G. Alfani, Le pandemie, passate e presenti:
effetti demografici, sociali ed economici, in Ambiente e Società, aggiornamento a Grande Dizionario enciclopedico
Utet, a crua di T. Pievani UTET, Torino 2015, pp. 250-273.
4
Giovanni Boccaccio, Decameron (ed. Rizzoli, Milano 2001, pp. 10-13).
5
G. Alfani, A. Melegaro, Pandemie d’Italia. Dalla peste nera all’influenza suina: l’impatto sulla società, Egea, Milano
2010; G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, nuova edizione, Laterza, Bari 2005.
2
venivano considerati dalla popolazione un fatto della vita6. Dato che la rivolta non era mai ‘contro
la peste’ né ‘contro la fame’, bensì contro i governanti medesimi qualora essi apparissero inattivi,
incapaci d’intervenire, o addirittura dessero l’impressione d’approfittare della crisi per perseguire il
proprio tornaconto personale, ne consegue che le autorità urbane dovevano mostrarsi impegnate a
fare tutto il possibile, e questo indipendentemente dai risultati concreti del loro intervento.
Da questo punto di vista, la Peste Nera segnò senz’altro un fallimento per numerose
amministrazioni della penisola, che non poterono frenare i comportamenti inusitati di cui
Boccaccio, al pari di molti altri, fu testimone. Tali comportamenti tendevano a rendere la situazione
ingestibile e, in definitiva, aggravavano i danni (umani, ma anche materiali) causati dal contagio.
Questa radicale alterazione dei comportamenti quotidiani caratterizza le prime epidemie di peste del
Medioevo (circostanza che possiamo leggere alla luce della sorpresa della popolazione per un
morbo terribile quanto sconosciuto) distinguendole, almeno fino a un certo punto, dalle successive,
quando la reazione umana fu più ordinata sia per la conoscenza della malattia, sia per il progressivo
rafforzamento delle capacità d’intervento pubblico.
L’adattamento istituzionale al mutare dell’ambiente umano sarà sinteticamente ripercorso nella
prossima sezione. Qui vale la pena sottolineare alcuni altri aspetti significativi del modo con cui la
Peste Nera fu capace di alterare i comportamenti individuali. Un primo punto, evidenziato anche da
Boccaccio, è la crisi spirituale innescata dalla pandemia trecentesca e destinata a durare per svariati
decenni. Interpretata come castigo divino inflitto agli uomini, la peste non poteva non indurre una
riflessione su quali fossero le colpe da espiare. All’epoca della Peste Nera, così come nei decenni
successivi durante i quali il morbo si presentò ripetutamente, ma anche in occasione delle ultime
grandi epidemie del Seicento, riscontriamo un vistoso incremento delle donazioni alla Chiesa, al
fine di garantirsi la salvezza (in cielo o in terra). L’epidemia ridiede anche forza al movimento dei
flagellanti, i quali cercavano di perseguire il medesimo obiettivo (la salvezza) tramite la
mortificazione della carne. In molte regioni d’Europa (Germania, Francia, Spagna, Paesi Bassi), i
flagellanti furono responsabili di gravi violenze contro le comunità ebraiche, che spesso
culminarono in roghi di massa nonostante l’esplicita condanna delle persecuzioni giunta dalle
massime autorità religiose7. I flagellanti e i loro sostenitori ritenevano che gli ebrei fossero non solo
responsabili indiretti della punizione inflitta da Dio alle comunità cristiane, ree di aver permesso il
radicarsi nel loro seno d’un corpo estraneo, ma anche agenti attivi del contagio, in veste di untori o
avvelenatori di pozzi. L’Italia pare sia rimasta in larga parte immune da questa follia collettiva,
anche se sappiamo che alcune comunità ebraiche, ad esempio quelle di Parma e di Mantova,
subirono attacchi.
Un altro segno del travaglio spirituale innescato dalla Peste Nera fu la vasta diffusione di
rappresentazioni iconografiche quali trionfi della morte e danze macabre. In tali rappresentazioni, i
ricchi figurano tra le vittime al pari dei poveri e i religiosi al pari dei laici: a sottolineare la caducità
della vita umana, la totale imponderabilità della sopravvivenza individuale di fronte a quello che era
(ma, come si vedrà, non sarebbe stato per sempre) un contagio universale, e anche un declino nella
fiducia dell’uomo nella propria capacità di dominare l’ambiente e di essere pieno padrone della
propria esistenza. Nei decenni successivi alla Peste Nera, poi, si diffuse un altro segno caratteristico
della religiosità dell’età della peste: il culto di San Rocco, protettore degli appestati8, cui vennero
6
Da questo punto di vista, va sottolineata la differenza tra la Peste Nera del 1347-49 (che colse la popolazione di
sorpresa) e le pestilenze successive: divenute sempre più ‘abituali’ per società che impararono a scontarne e tollerarne
gli effetti.
7
Fin dal 1348, papa Clemente VI, con la bolla Sicut Judeis, aveva sottolineato il fatto che gli ebrei erano vittime del
contagio al pari dei cristiani e non ne potevano essere incolpati. Nel 1349, inoltre, egli dichiarò eretico il movimento dei
flagellanti.
8
San Rocco della Croce, di Montpellier, sarebbe rimasto contagiato dalla Peste Nera, cui sopravvisse con l’aiuto di un
cane che gli recò nutrimento durante la malattia e fu l’unico ad occuparsi di lui. Una volta guarito, Rocco si sarebbe
dedicato a curare gli appestati, rivelando poteri taumaturgici. Il culto di questo nuovo santo, la cui adorazione era
3
dedicate innumerevoli chiese e cappelle oggetto di ampliamento, restauro e rinnovo ad ogni
epidemia, nonché meta di processioni e atti di devozione collettiva in tempo di peste.
Se la dottrina e la pratica religiosa furono segnate profondamente dalla Peste Nera, parimenti
vistose furono le sue conseguenze economiche. Durante l’epidemia e negli anni immediatamente
successivi, la normale attività economica fu gravemente perturbata. Conseguenza inevitabile del
crollo della popolazione, e del ristagno demografico che le seguì e si protrasse per circa un secolo
(la popolazione italiana avrebbe ripreso a crescere solo a partire dalla seconda metà del
Quattrocento), fu una netta contrazione del prodotto complessivo. Oggi, però, si tendono a
sottolineare piuttosto i risvolti positivi d’una calamità che avrebbe avuto (per i superstiti) la
conseguenza di re-bilanciare un rapporto tra uomini e risorse naturali divenuto precario. Ne
sarebbero conseguiti standard di vita più elevati per larghi strati della popolazione, mentre i salari
più alti spuntati dagli operai urbani, tali da mantenere durevolmente le loro condizioni al di sopra
del livello di sussistenza, sarebbero stati determinanti nel favorire lo sviluppo economico
dell’Europa – tanto che, secondo una tesi oggi abbastanza in voga tra gli storici economici9, le
differenti conseguenze della Peste Nera in Europa e Cina sarebbero all’origine della crescente
“divergenza” tra le due aree, con l’Europa che andò acquisendo un’inedita posizione di supremazia.
In questa sede, ci concentreremo in particolare sul modo in cui la Peste Nera pare essere stata
capace di alterare, nel breve periodo, la distribuzione della proprietà fino a condizionare, nel mediolungo periodo, le modalità “ordinarie” di trasmissione della ricchezza. Abbiamo già rilevato come
la Peste Nera abbia risolto una situazione di precario equilibrio tra uomo e risorse, ed in effetti è
stata interpretata da molti quale un evento di tipo ‘malthusiano’ in qualche modo legato a un
eccessivo carico demografico10. I superstiti, una volta superato lo shock psicologico e culturale
causato dalla pandemia, si trovarono di fronte a un’imprevista condizione di risorse abbondanti, e in
particolare di più terra di quanta non ne potessero coltivare. Per giunta la mortalità catastrofica, in
combinazione con i sistemi ereditari di tipo egalitario che erano consueti in Italia, determinò da un
lato la dispersione tra più eredi di molti grandi patrimoni, e dell’altro la frammentazione di molte
medie e piccole proprietà al di sotto del livello necessario per uno sfruttamento efficiente. Da
ultimo, la situazione psicologica delle popolazioni colpite dalla Peste Nera non poteva non
influenzare le dinamiche del mercato della terra – in particolare, la situazione di confusione e
disorientamento in cui versavano grandi e piccoli possidenti (spesso trovatisi solo di recente a
ereditare i beni di genitori o parenti morti di peste) avrebbe consentito a pochi individui dotati dei
mezzi e della volontà, nonostante tutto, di acquistare (mentre i più, incerti del proprio futuro, erano
maggiormente propensi a vendere: un classico buyer’s market), di accumulare ricchezza
immobiliare. Alle condizioni eccezionali dal lato dell’offerta corrispondevano condizioni altrettanto
eccezionali da quello della domanda: visto che la peste innescò un processo di crescita dei salari
reali, più o meno intenso a seconda delle aree, ma che in generale parrebbe aver dato a una parte
della popolazione assai maggiore che in precedenza i mezzi per accedere alla proprietà11.
Il ragionamento appena ripercorso non rappresenta un “a priori” derivato da un qualche modello
economico – ma piuttosto una ragionevole spiegazione dell’evidenza empirica recentemente
ritenuta efficace nel favorire la guarigione dalla malattia, svolse, tra Medioevo ed Età moderna, una funzione similare a
quella che, ai tempi della Peste di Giustiniano, aveva avuto il culto di San Sebastiano.
9
N. Voigtländer, H.J. Voth, «The Three Horsemen of Riches: Plague, War and Urbanization in Early Modern Europe»,
in Review of Economic Studies, 80, 2, 774-811; G. Clark, A Farewell to Alms, Princeton University Press, Princeton
2007.
10
Alfani, G. and Ó Gráda, C. (a cura di), Famine in European History, Cambridge University Press, Cambridge
2016, in corsa di pubblicazione.
11
Riguardo alla crescita dei salari reali a seguito della Peste Nera, si vedano S. Pamuk, «The Black Death and the
origins of the 'Great Divergence' across Europe, 1300-1600», European Review of Economic History, 11 (2007), 3, pp.
289-317; S.K. Cohn, «After the Black Death: labour legislation and attitudes towards labour in late-medieval western
Europe», Economic History Review, 60 (2007), 3, pp. 486-512.
4
prodotta, per alcune aree d’Italia (in particolare, Piemonte e Toscana), dal progetto EINITE
dedicato proprio allo studio delle dinamiche di lungo e lunghissimo periodo della disuguaglianza
economica – e per giunta, tale evidenza ha ribaltato una tesi contraria, originariamente formulata da
David Herlihy sulla base di studi limitati a un paio di comunità toscane (Santa Maria Impruneta e
Piuvica), secondo il quale la Peste Nera avrebbe determinato una concentrazione, e non già una più
equa distribuzione, della proprietà12. Di fatto, sui cinque secoli circa coperti da EINITE (13001800), il secolo o secolo e mezzo successivo alla Peste Nera pare essere l’unico caratterizzato da
una significativa e pressoché generalizzata riduzione della disuguaglianza economica (in
particolare, di ricchezza). I grafici 1 e 2 riportano i dati relativi alle comunità piemontesi e toscane
per le quali sono disponibili informazioni sul periodo precedente e successivo l’epidemia,
sintetizzati attraverso il noto indice di concentrazione di Gini, il cui valore varia tra zero (perfetta
uguaglianza: tutti possiedono lo stesso ammontare di beni) e 1 (perfetta disuguaglianza: un solo
individuo possiede tutto). Le tendenze riportate dai grafici sono chiare: in tutte le comunità
considerate, la Peste Nera determinò un processo generale di distribuzione della proprietà in senso
egalitario – i cui effetti paiono essere stati un po’ più duraturi in Piemonte rispetto alla Toscana,
senza che però questo cambi in modo significativo il quadro generale. Tale risultato fu possibile
essenzialmente per lo stato di impreparazione – psicologica e istituzionale – in cui la peste aveva
colto la popolazione dell’Italia medievale. Tale situazione sarebbe progressivamente mutata nei
secoli successivi13.
Graf. 1. La concentrazione della ricchezza in Piemonte, 1300-1700 (indici di Gini)
1
0.9
0.8
0.7
0.6
0.5
0.4
0.3
1300
1350
1400
1450
Cherasco
1500
1550
Chieri
1600
1650
1700
1750
1800
Moncalieri
12
D. Herlihy, Medieval and Renaissance Pistoia. The Social History of an Italian Town, Yale University Press, New
Haven, London 1967; Id., HERLIHY, D., Santa Maria Impruneta: a rural commune in the late Middle Ages, in
Florentine Studies. Politics and Society in Renaissance Forence, a cura di N. Rubinstein (a cura di), Faber & Faber,
London 1968, pp. 242-276.
13
G. Alfani, «Economic Inequality in Northwestern Italy: a Long-Term View (Fourteenth to Eighteenth centuries)»,
Journal of Economic History, 75 (2015), 4, 1058-1096; G. Alfani e F. Ammannati, Economic Inequality and Poverty in
the Very Long Run: The Case of the Florentine State (late Thirteenth-Early Nineteenth Centuries), Dondena Working
Papers, 70 (2014).
5
Graf. 2. La concentrazione della ricchezza in Toscana, 1300-1800 (indici di Gini)
1
0.9
0.8
0.7
0.6
0.5
0.4
0.3
0.2
0.1
0
1300
1350
Arezzo
1400
1450
1500
Prato
1550
1600
1650
1700
1750
1800
San Gimignano (con contado)
Il progressivo adattamento a un ambiente mutato
Se la Peste Nera aveva colto interamente alla sprovvista le popolazioni europee così come le loro
amministrazioni (in particolare urbane), che sostanzialmente fallirono sia nel tentativo di impedire o
moderare il contagio, sia nello sforzo di frenare i comportamenti inusitati diffusisi in una
popolazione in preda al panico, la situazione tese rapidamente a mutare in occasione delle
pestilenze successive. Di fatto, il ritorno della peste in Europa aveva segnato un mutamento
duraturo nell'ambiente biologico (la malattia divenne endemica in tutta l’area colpita dalla Peste
Nera). Come consueto per tutte le specie, il mutamento ambientale innescò un processo di
adattamento, a molti livelli diversi: psicologico-culturale, istituzionale, e forse anche fisiologico.
Dal punto di vista psicologico, nelle pestilenze successive alla Peste Nera la popolazione non si
trovò più di fronte un nemico sconosciuto – ma qualcosa di noto e familiare, benché terribile. Per
giunta, le pestilenze successive alla Peste Nera furono caratterizzate da livelli di mortalità molto
inferiori e tesero a concentrarsi in modo sempre più marcato su specifiche porzioni della
popolazione, perdendo quindi quella caratteristica di “contagio universale” che rappresenta uno dei
tratti distintivi della pandemia di metà Trecento14. Complessivamente, ne risultò che la reazione
individuale si fece progressivamente più rassegnata, ordinata e sostanzialmente più “razionale” – vi
tornerò in seguito. D’altra parte, anche la medicina compì progressi non trascurabili, sviluppando
tecniche terapeutiche (in particolare, l’incisione e il trattamento dei bubboni) che pare abbiano
avuto efficacia non trascurabile, per quanto complessivamente limitata: tanto che i medici della
prima Età moderna potevano sostenere di aver appreso a curare la malattia, e addirittura
rivendicavano, sotto questo profilo, una superiorità rispetto ai grandi del mondo antico15.
I successi più notevoli, tuttavia, furono compiuti sotto il profilo dello sviluppo di pratiche e
istituzioni atte a organizzare un’efficace opera di prevenzione o almeno di contenimento della
malattia. Sotto questo profilo, la Peste Nera segna un fondamentale punto di discontinuità nella
14
In particolare, a partire dal Quattrocento la malattia acquisì una precisa connotazione sociale, divenendo
tendenzialmente “peste dei poveri” e concentrandosi sugli strati più umili e meno qualificati. S. K. Cohn,
«Epidemiology of the Black Death and Successive Waves of Plague», in Medical history, Supplement no. 27, ed.
Vivian Nutton, 2008, pp. 74-100.
15
S.K. Cohn, Cultures of Plague. Medical Thinking at the End of the Renaissance, Oxford University Press, Oxford
2009.
6
storia della medicina: l’esigenza di rispondere a una sfida inusitata produsse, infatti, una marcata
accelerazione nel processo di sviluppo di istituzioni di sanità pubblica.
Come già rilevato, per prepararsi all'arrivo della peste le autorità trecentesche ricorsero
essenzialmente a interventi igienici e di restrizione alla circolazione degli uomini. Per quanto
riguarda la prima tipologia, nei secoli successivi la crescente familiarità con la peste portò al
perfezionamento e consistente ampliamento degli interventi: a partire dalla semplice eliminazione
fisica delle lordure (rimozione dei rifiuti, spurgo dei pozzi) si sarebbe arrivati al trattamento
sistematico di un'ampia gamma di beni (e di esseri viventi) considerati capaci di trattenere un “male
attaccaticcio” diffuso da esalazioni dei corpi infetti come, sulla base della teoria miasmatica, si
credeva essere la peste16. Tessuti, indumenti e “piume” (cuscini e materassi) venivano bruciati o
mondati tramite bollitura o fumigagioni; molti animali domestici erano soppressi o allontanati;
perfino una parte della popolazione, in particolare poveri e mendicanti, ritenuta particolarmente
suscettibile di ricevere e trasmettere la malattia, veniva sistematicamente espulsa dalle mura o
rinchiusa in apposite strutture. Per quanto riguarda l'altra tipologia, vale a dire il controllo degli
spostamenti degli uomini, i progressi compiuti nei secoli successivi alla Peste Nera furono enormi.
A partire dai rudimentali strumenti disponibili alle autorità cittadine trecentesche, a distanza di un
paio di secoli troviamo pienamente delineata una rosa assai più ampia d'interventi, che
comprendevano, al livello più elevato, i controlli ai valichi, ai porti fluviali e marittimi e alle
frontiere politiche; a un livello intermedio, il controllo entro ogni singolo Stato delle comunità
infette, “poste al bando” e di fatto isolate dalle altre per mezzo di cordoni sanitari; infine, al livello
più basso o locale, entro ogni comunità infetta si tentava di limitare il più possibile il contatto tra gli
esseri umani per mezzo di quarantene e varie limitazioni alla libertà di movimento, e gli appestati
venivano isolati in strutture specifiche (i lazzaretti) costruite a una certa distanza dagli abitati17. Un
ultimo aspetto essenziale è l'introduzione, tra la fine del Tre e il primo Quattrocento, di commissioni
di sanità permanenti capaci d’agire ben più rapidamente rispetto alle commissioni nominate
d’urgenza nel 1348 e i cui membri potevano accumulare, nel corso della loro carriera, considerevoli
competenze nella lotta alle epidemie18.
Questi nuovi strumenti per contrastare la peste furono sviluppati inizialmente in Italia: ad esempio,
la prima quarantena per sospetti di peste sarebbe stata introdotta nel 1374 a Reggio Emilia (subito
imitata, lo stesso anno, da Genova e Venezia), mentre il primo lazzaretto permanente di cui
abbiamo certezza fu edificato nel 1423 su un'isola della laguna veneziana. L'eccellenza delle
istituzioni di sanità pubblica dell'Italia tardo-medievale e della prima Età moderna è riflessa nel
fatto che funsero da modello per il resto del continente europeo. Tali istituzioni, inoltre, per
funzionare correttamente richiedevano un sofisticato livello di coordinamento tra Stati e l'instaurarsi
di pratiche consolidate di collaborazione sovra-nazionale in campo sanitario, oltre all'esigenza di
disporre di istituzioni di sanità pubblica permanenti (vi si è già accennato), capaci di monitorare la
situazione internazionale anche in assenza di rischi conclamati - e fornire, così come oggi si
propone di fare l'Organizzazione Mondiale della Sanità alla scala globale, quell'early warning che è
indispensabile a consentire alle autorità locali di porre in atto misure efficaci.
L'avvio di un processo di costruzione di istituzioni pubbliche finalizzate alla tutela della salute non
fu l'unico effetto di lungo periodo della Peste Nera. Dal punto di vista specificamente istituzionale,
il processo di adattamento al mutamento ambientale fu assai più pervasivo. In particolare, per
quanto è qui di interesse, studi recenti hanno messo in luce come, nei secoli successivi alla Peste
Nera, le famiglie italiane – perlomeno quelle non sprovviste di beni – abbiano iniziato a usare in
modo sempre più sistematico istituzioni sociali e giuridiche finalizzate a prevenire la
16
G. Alfani e A. Melegaro, Pandemie d’Italia, cit.
G. Alfani, Il Grand Tour dei Cavalieri dell’Apocalisse. Economia, Popolazione e Calamità nell’Italia del
Cinquecento, Marsilio,Venezia 2010, p. 150
18
G. Cosmacini, Storia della medicina, cit.
17
7
frammentazione dei patrimoni a seguito della trasmissione ereditaria. D’altra parte, in un contesto di
alta mortalità in cui la sopravvivenza dei singoli individui era incerta, la preservazione del
patrimonio non poteva non essere percepita come coincidente con la preservazione della famiglia,
alla quale proprio il patrimonio conferiva solidità attraverso i secoli: Familia id est substantia,
affermavano i giuristi italiani del XV secolo19.
Tra le istituzioni progressivamente introdotte a difesa dei patrimoni, il fedecommesso è
probabilmente la più comune. I beni (di solito proprietà immobiliari) oggetto del fedecommesso non
potevano essere alienati, donati, o ridotti in alcun modo, eccezion fatta per circostanze eccezionali,
e dovevano essere trasmessi inalterati da una generazione all’altra20. Già alla fine del XV secolo, i
fedecommessi erano divenuti prassi piuttosto comune per le grandi famiglie, con la tendenza a
divenire sempre più frequenti. Anche la diffusione del maggiorasco, che prevedeva quote
inegalitarie di eredità per i diversi componenti di una fratria (con uno dei discendenti maschi,
solitamente il primogenito, in posizione di favore), rispondeva all’esigenza di proteggere il
patrimonio familiare. Altri meccanismi istituzionali, su base più volontaria, potevano sortire risultati
analoghi dal punto di vista distributivo: ad esempio, i patrizi veneziani aderivano a pratiche
consuetudinarie di “matrimonio limitato”, che consentivano, in ogni generazione, a solo uno o due
dei figli maschi di sposarsi, così che le quote dell’eredità di spettanza dei loro fratelli sarebbero
comunque tornate a far parte dell’asse principale, con la ricostituzione del patrimonio originario21.
Oppure, come era consueto a Ivrea in Piemonte tra Cinque e Seicento, i patrimoni ereditati
potevano rimanere volontariamente indivisi tra i fratelli (l’eredità in solido poteva anche risultare
automaticamente dalla minore età degli eredi. In questo caso, un tutore avrebbe amministrato i beni
fino alla loro maggiore età, quando sarebbe stato applicato il testamento – se esistente – oppure il
principio di eredità egalitaria vigente in Piemonte così come altrove in Italia).
Se la diffusione, soprattutto a partire dal XV secolo, di questi e altri strumenti atti a preservare
l’integrità dei grandi patrimoni va senz’altro messa in relazione anche (e forse principalmente) al
mutamento dell’ambiente biologico determinato dal ritorno della peste in Europa, è parimenti
possibile che la crescita della disuguaglianza osservabile a partire dalla metà circa del XV secolo (si
veda il grafico 1) sia dovuta almeno in parte al mutamento nel contesto istituzionale determinato
proprio dalla diffusione di tali strumenti. Per quanto si tratti un tema che richiede senz’altro ulteriori
studi ed approfondimenti, pare certo che nel XVII secolo, quando l’Italia fu colpita dalle peggiori
pestilenze occorse dai tempi della Peste Nera, proprio l’esistenza ex-ante di tali istituzioni prevenne
il verificarsi della “deriva egalitaria” (senz’altro sgradita alle grandi famiglie, in quanto determinata
da una dispersione dei patrimoni) osservato a seguito della Peste Nera.
La crisi gestita: la peste del 1629-30
La pretesa di medici e ufficiali di sanità italiani di avere in qualche misura domato la peste sarebbe
apparsa vana in occasione delle due grandi epidemie che colpirono la penisola nel Seicento: durante
le quali la malattia tornò ad acquisire, in larga parte, le caratteristiche antiche di contagio universale.
La prima pestilenza, che aveva avuto probabilmente inizio nella Francia settentrionale già nel 1623
diffondendosi poi a un’ampia parte dell’Europa, entro il 1628-29 assediava di fatto l'Italia
settentrionale in quanto tutti i territori posti immediatamente oltre le Alpi erano infetti. La
19
F. Leverotti, Famiglia e istituzioni nel Medioevo italiano dal tardo antico al rinascimento, Carocci, Roma 2005, p.
165.
20
P. Lanaro, Familia est substantia: la trasmissione dei beni nella famiglia patrizia, in Edilizia privata nella Verona
rinascimentale, a cura di P. Lanaro, P. Marini e G.M. Varanini, Electa, Milano 2000, pp. 98-117; F. Leverotti, Famiglia
e istituzioni, cit; Id., Uomini e donne di fronte all'eredità: il caso italiano, in Aragòn en la Edad Media, Universidad de
Zaragoza, Zaragoza 2007, pp. 39-52.
21
P. Lanaro, La crisi della proprietà nobiliare veneziana e veneta nel XVIII secolo, in Il mercato della terra. Secc. XIIIXVIII, a cura di S. Cavaciocchi, Atti della Trentacinquesima Settimana di Studi "F. Datini" (Prato, 5-9 maggio 2003),
Le Monnier, Firenze 2003, pp. 431-444; Chauvard, J.F., La circulation des biens à Venise. Stratégies patrimoniales et
marché immobilier (1600-1750), École Française de Rome, Rome 2005.
8
concomitanza con la Guerra dei Trent'anni fece sì che ogni mezzo precauzionale posto in atto dagli
Stati italiani preoccupati del contagio risultasse inefficace: nell'ottobre 1629, truppe francesi e
spagnole varcarono le Alpi per partecipare agli scontri legati alla successione ai ducati di Mantova e
del Monferrato. Nella primavera del 1630 il contagio iniziò ad allargarsi a macchia d’olio sull’Italia
settentrionale, colpendo tanto le città quanto le campagne e di fatto risparmiando solo parte del
Friuli, del Piemonte occidentale e quasi tutta la Liguria. Nei mesi estivi l’epidemia raggiunse anche
la Toscana infettando Firenze e quasi tutte le altre principali città. La seconda pestilenza ebbe
origine invece in Spagna: l'Andalusia, le Baleari e il resto del Mediterraneo spagnolo erano infetti
già nel 1647. Nel 1652 la peste raggiunse la Sardegna, affliggendola per più anni - e riuscendo solo
nel 1656 a traghettare verso l'Italia, colpendo Napoli e di lì diffondendosi al resto del Sud, con
l'eccezione della Sicilia e di parte della Calabria e della Puglia. Verso Nord, la malattia raggiunse
Roma e si diffuse alla gran parte dell'Italia centrale, risparmiando però il Granducato di Toscana
che era già stato colpito dalla pestilenza precedente. Infettò anche la Liguria, colpendo esattamente
le aree risparmiate nel 1629-30.
Nelle aree coinvolte, le epidemie secentesche ebbero conseguenze demografiche assai gravi, su una
scala comparabile alla Peste Nera. Nel 1629-30, la stima più recente colloca al 30-35% la mortalità
complessiva in Italia settentrionale (la Toscana, colpita in modo più lieve, è esclusa dal conteggio),
mentre nel 1656-57 la mortalità nel Regno di Napoli sarebbe stata del 30-43%22. Secondo ipotesi
avanzate di recente, queste due epidemie, che a differenza della Peste Nera colpirono
“selettivamente” aree delimitate del continente europeo (l'Italia in primo luogo, ma anche buona
parte della Spagna), avrebbero avuto un effetto di spiazzamento per le principali economie italiane,
fino ad allora ancora al centro della scena europea, dando l'avvio - in un contesto di crescente
competizione internazionale, e considerato il modo in cui l'apertura delle vie commerciali
transoceaniche andava alterando lo scenario economico e geopolitico - al processo di relativo
declino dell'intera Penisola23.
Per quanto è qui d’interesse, le pestilenze secentesche possono essere considerate le più prossime
alla Peste Nera per gravità – risulta quindi interessante analizzare il modo in cui esse furono
“gestite” dalla popolazione, sia sotto il profilo psicologico sia sotto quello istituzionale. Per quanto
riguarda il primo aspetto (che sarebbe senz’altro meritevole di studi più puntuali e approfonditi),
vale la pena sottolineare come una malattia nota, la cui occorrenza era considerata possibile e parte
dell’ordine naturale delle cose (al pari dell’occorrenza di una carestia) generava reazioni
profondamente diverse nella popolazione che, per quanto ovviamente potesse sempre cedere al
panico, tendeva comunque a darne una lettura più “razionale”. Prendiamo ad esempio il resoconto
di fra’ Antero Maria di San Bonaventura che, nel 1658, così commentava la pestilenza che nei due
anni precedenti aveva colpito duramente la sua città (Genova):
«Che sarebbe del mondo, se Dio tal volta non lo toccasse con la peste? Come potrebbe alimentare tanta generatione?
Nuovi mondi sarebbe necessario fossero creati da Dio, solo destinati alla provisione di questo […]. Era tanto cresciuta
Genova, che non pareva più una gran città, ma un formicaio, né potevasi passeggiare senz’urtarsi gl’uni con gl’altri,
n’era possibile far oratione in chiesa per la moltitudine dei poveri, che vi stuzzicavano non volendo permettere foste
ascoltati da Dio se prima non erano ascoltati ed esauditi essi […] Onde necessariamente s’ha da confessare che il
contagio sia effetto della providenza divina, per il buon governo dell’universo […] [Altrimenti] sarebbe di necessità
[…] decimasse [le città] con la guerra o con la fame, o almeno, con farci di natura impassibili, ci facesse insieme
compagni de spiriti aerei, talmente ch’avessimo possibilità non meno di volar per l’aria che di spasseggiar per la terra»
(Antero Maria di San Bonaventura 1658).
22
G. Alfani, «Plague in Seventeenth Century Europe and the Decline of Italy: an Epidemiological Hypothesis», in
European Review of Economic History, 17 (2013), 408-430; I. Fusco, «La peste del 1656-58 nel Regno di Napoli:
diffusione e mortalità», in Popolazione e Storia, 1/2009, pp. 115-138.
23
G. Alfani, Plague in Seventeenth Century Europe, cit.; G. Alfani e M. Percoco, Plague and Long-Term Development:
the Lasting Effects of the 1629-30 Epidemic on the Italian Cities, IGIER Working Paper, n. 508, 2014.
9
Questo testo, ben noto alla storiografia economico-sociale quale esempio perfetto di ideologia
“malthusiana” (o addirittura post-malthusiana) ante-litteram24, propone una lettura della peste non
già quale castigo divino o risultato di un allineamento degli astri eccezionalmente infausto (come
era il caso del passo di Boccaccio riportato in precedenza), bensì come parte di un preciso disegno
divino, volto a evitare l’eccessivo sovrappopolamento delle comunità umane. Il testo sarebbe
ovviamente meritevole di un’analisi più dettagliata, che tenga conto anche di ulteriore
documentazione, alla quale però non è possibile procedere in questa sede.
Sottolineeremo invece un altro aspetto. Nonostante le istituzioni sanitarie abbiano fallito, nel corso
delle epidemie secentesche, nel loro obiettivo di tenere la peste fuori dai confini dei rispettivi Stati
(peraltro, specialmente nel caso della pestilenza del 1629-30, va detto che nessun sistema di
cordonatura sanitaria può arrestare un esercito in transito), la peste secentesca risultò decisamente
meglio “gestita”. Si è già accennato agli aspetti psicologici. Circa quelli istituzionali, il processo di
adattamento dei sistemi ereditari – egalitari in linea di principio, ma ormai fortemente corretti da
istituti volti a proteggere molti dei principali patrimoni dal rischio di dispersione – fece sì che, dal
punto di vista del possibile impatto redistributivo della ricchezza, le pestilenze secentesche abbiano
sortito effetti profondamente diversi dalla Peste Nera. Mi soffermerò in particolare sulla peste del
1630, ed inizierò dall’analisi delle possibili conseguenze della peste nei termini di mutamento della
disuguaglianza complessiva così come possiamo misurarlo con il consueto strumento degli indici di
Gini. A tal fine, utilizzerò in particolare dati relativi al Piemonte (grafico 3).
Graf. 3. L’impatto della peste del 1630 sulla disuguaglianza (Piemonte, indici di Gini)
0,9
0,8
0,7
0,6
0,5
0,4
0,3
0,2
0,1
0
1600
1650
Ivrea
Cherasco
Chieri
1700
Saluzzo
In tre città piemontesi colpite dalla peste del 1630 (Ivrea, Chieri e Saluzzo), la disuguaglianza a una
ventina d’anni di distanza dalla peste era superiore rispetto a quella riscontrata negli anni
precedenti. In altre parole, il consistente e duraturo declino della disuguaglianza osservato dopo la
Peste Nera non pare essersi verificato dopo le grandi pestilenze del Seicento. Avvenne per caso il
contrario? In altre parole, la peste “causò” o almeno contribuì a un incremento della disuguaglianza
nel corso del secolo? Il caso di Cherasco, che fu tra le pochissime città piemontesi risparmiate dal
contagio ma dove la disuguaglianza crebbe in modo continuativo tra 1600 e 1700, suggerisce che la
tendenza complessiva fosse già orientata alla crescita della disuguaglianza, indipendentemente dalla
24
C.M. Cipolla, La peste e i precursori di Malthus, in Saggi di storia economica e sociale, Il Mulino, Bologna 1988,
pp. 299-305; G. Alfani, «Crisi demografiche, politiche di popolazione e mortalità differenziale (ca. 1400-1630)», in
Popolazione e Storia, 1/2009, pp. 57-76.
10
peste. Tale conclusione è ulteriormente rafforzata dal fatto che, nel corso del Seicento, la
disuguaglianza crebbe anche in aree italiane colpite in modo relativamente lieve dal contagio, come
la Toscana, così come in aree d’Europa dove il contesto epidemiologico era interamente differente,
ad esempio i Paesi Bassi25.
Il fatto che la peste secentesca non abbia potuto invertire una tendenza già in atto, non significa però
che non abbia avuto alcun effetto su di essa. Il caso di Ivrea, per la quale l’esistenza di fonti
eccezionali ha consentito un’analisi assai dettagliata delle dinamiche occorse negli anni a cavallo
della peste (analisi che non sarebbe possibile per le altre comunità sopra menzionate per la semplice
carenza di documentazione), permette di rilevare come la peste abbia avuto in effetti un impatto
redistributivo di tipo egalitario – esauritosi però interamente nel breve periodo (grafico 3).
Graf. 3. La disuguaglianza a Ivrea, 1620-49 (indici di Gini)
A Ivrea, nel decennio precedente la peste del 1630 la disuguaglianza si mantenne stabilmente
attorno a un valore di Gini di circa 0,68. Come mostrato dal grafico, la peste contribuì a un declino
di breve periodo che aveva anche altre cause26. Dopo la peste, la disuguaglianza tornò rapidamente
a crescere, superando perfino il livello precedentemente raggiunto e attestandosi su un valore di
Gini di poco inferiore a 0,7. Nel breve periodo, il rapido recupero della disuguaglianza va posto in
relazione con il ripartire dell’attività notarile e la conseguente riorganizzazione dei patrimoni a
seguito della morte di molti proprietari. Nel medio e lungo periodo, la peste causò un mutamento
strutturale nella distribuzione della proprietà: negli estimi appaiono molti nuovi proprietari, che non
provenivano da famiglie locali ma dall’esterno, di solito immigrati originari delle aree rurali del
distretto di Ivrea che approfittavano delle opportunità create dalla peste, nei termini sia del maggior
numero di proprietà che venivano offerte sul mercato, sia della semplice disponibilità di spazi fisici
entro le mura cittadine, spazi che rendevano più facile e attraente l’immigrazione27.
25
G. Alfani e F. Ammannati, Economic Inequality and Poverty, cit.; G. Alfani e W. Ryckbosch, Was there a ‘Little
Convergence’ in inequality? Italy and the Low Countries compared, ca. 1500-1800, IGIER Working Paper n. 557,
2015; J.L. Van Zanden, «Tracing the beginning of the Kuznets curve: western Europe during the early modern period»,
in The Economic History Review, 48 (1995), 4, pp. 643-664.
26
G. Alfani, «Wealth Inequalities and Population Dynamics in Northern Italy during the Early Modern Period», in
Journal of Interdisciplinary History 40 (2010), 4, pp. 513-549; Id., «The effects of plague on the distribution of
property: Ivrea, Northern Italy 1630», in Population Studies, 64 (2010), 1, pp. 61-75; Id., Fiscality and territory. Ivrea
and Piedmont between the Fifteenth and Seventeenth Centuries, in Sabaudian Studies. Political Culture, Dynasty, &
Territory 1400-1700, a cura di M. Vester, Truman State University Press, Kirksville 2013, pp. 213-239
27
G. Alfani, The effects of plague, cit.
11
Se, come pare plausibile, il caso di Ivrea è rappresentativo di quanto accadde in altre città
piemontesi (e non solo) affette dalla peste del 1630, dovremmo concludere che l’epidemia ebbe un
qualche impatto sulla disuguaglianza complessiva – ma uno sostanzialmente più limitato e,
soprattutto, tale da rinforzare semplicemente un trend pre-esistente. L’analisi delle dinamiche dei
singoli patrimoni condotta per Ivrea in altra sede28 consente di mettere bene in luce il ruolo
fondamentale svolto dalle istituzioni atte a preservare l’integrità patrimoniale diffusesi dopo la Peste
Nera. In altre parole, tali istituzioni miravano a garantire, nonostante uno shock quale quello
determinato da una grave crisi di mortalità, la trasmissione della disuguaglianza da una generazione
all’altra – contribuendo quindi a limitare le conseguenze dello shock medesimo, a renderlo in
qualche modo meno sconcertante e sostanzialmente a meglio gestirlo – nonostante l’elevata
mortalità.
Conclusioni
Questo saggio ha inteso mostrare come la Peste Nera abbia avuto conseguenze traumatiche per le
popolazioni italiane ed europee, sia sotto il profilo psicologico sia sotto quello delle strutture
economiche, essenzialmente perché costituì una minaccia nuova e inusitata. Negli anni successivi a
tale pandemia, quando la peste divenne un fatto relativamente “normale” ed iniziò a essere
percepita quale una occorrenza possibile, ebbe inizio un progressivo processo di adattamento – sia
psicologico sia, e forse principalmente, istituzionale – mirato a moderarne l’impatto demografico
(sviluppo delle istituzioni sanitarie) così come quello sulle strutture economiche (si è qui
sottolineato in particolare l’adattamento dei sistemi ereditari). L’adattamento istituzionale, di per sé,
contribuì anche a razionalizzare la risposta alla minaccia e la sua gestione, in definitiva rendendo la
crisi più sopportabile sia per gli individui, sia per la società nel suo complesso.
Tali sviluppi emergono chiaramente dal confronto tra la Peste Nera e le peggiori pestilenze che la
seguirono – in particolare quelle del 1629-30 e del 1656-57 che eliminarono, nelle aree colpite, oltre
un terzo della popolazione complessiva. Così, se la Peste Nera fu percepita dai contemporanei quale
un castigo divino dalla portata inusitata, le pestilenze secentesche furono oggetto di letture assai
diverse – alcuni le videro addirittura, in positivo, quale strumento della provvidenza divina.
Analogamente, se la Peste Nera aveva determinato un rilevante processo di distribuzione della
ricchezza e un relativo livellamento economico della popolazione, le istituzioni introdotte a
protezione dei patrimoni e precedenti le pestilenze secentesche fecero sì che il loro impatto fosse
piuttosto limitato nel breve periodo, venendo poi completamente riassorbito nel medio-lungo e forse
addirittura contribuendo a rafforzare un generale processo di concentrazione della proprietà e,
conseguentemente, di incremento della disuguaglianza economica.
28
G. Alfani, Wealth inequalities, cit.
12