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Concerti
2012/2013
Grigory Sokolov
Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, 2012
A cura dell’Area Comunicazione
Citazioni a cura di Giulia Bassi
Fonti delle citazioni:
Denis Diderot, Il nipote di Rameau, Milano, Rizzoli, 1998; Sergio Sablich, Conferenza del
giorno 11 maggio 1999, Associazione Mozart Italia, Brescia, I Martedì – Quaderni; Maynard Solomon, Il diario di Beethoven, Milano, Mursia, 1992; Stendhal, Vita di Mozart,
Firenze, Passigli, 1998.
L’editore si dichiara pienamente disponibile a regolare le eventuali spettanze relative a diritti
di riproduzione per le immagini e i testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte.
12 dicembre 2012 ore 20.30
Teatro Municipale Valli
Jean-Philippe Rameau
Suite in re
Les Tendres Plaintes. Rondeau (I teneri lamenti)
Les Niais de Sologne (I semplicioni di Sologne)
- 1er Double des Niais (Prima variazione)
- 2d Double des Niais (Seconda variazione)
Les Soupirs (I sospiri)
La Joyeuse. Rondeau (La gioiosa)
La Follette. Rondeau (La giocherellona)
L’Entretien des Muses (La conversazione delle Muse)
Les Tourbillons. Rondeau (I turbini)
Les Cyclopes. Rondeau (I Ciclopi)
Le Lardon. Menuet (Il lardo)
La Boiteuse (La zoppa)
Wolfgang Amadeus Mozart
Sonata in la minore KV 310 (300d)
Allegro maestoso
Andante cantabile con espressione
Presto
Ludwig van Beethoven
Sonate n. 29 op. 106 “Große Sonate für das Hammerklavier”
Allegro
Scherzo. Assai vivace
Adagio sostenuto. Appassionato e con molto sentimento
Largo. Allegro risoluto. Fuga a tre voci, con alcune licenze
Grigory Sokolov pianoforte
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Un saggio
di Roberto Favaro
Benché non paragonabile per quantità alla ciclopica produzione
di François Couperin, l’opera clavicembalistica di Jean-Philippe Rameau rappresenta un patrimonio di inestimabile valore
sia per la specifica letteratura di questo strumento a tastiera, sia
per i più generali sviluppi della storia musicale francese. Limitata a una sessantina di lavori creati nell’arco di circa quarant’anni, la musica per clavicembalo di Rameau è sostanzialmente
racchiusa nelle tre raccolte pubblicate rispettivamente nel 1706,
con il titolo di Premier livre de Pièces de clavecin, nel 1724, con
il titolo di Pièces de clavecin avec une table pour les agrémens,
e nel 1728, con il titolo di Nouvelles Suites de pièces de clavecin.
Oltre questi tre Libri, si contano una manciata d’altri lavori: cinque brani trascritti per clavicembalo solo e tratti dai Pièces de
clavecin en concerts apparsi nel 1741, e l’isolato La Dauphine,
del 1747, scritto in onore del matrimonio tra il Delfino, padre del
futuro Luigi XVI e Maria Giuseppina di Sassonia. Vale la pena di
notare che l’opera clavicembalistica vede la luce, e si concentra
sostanzialmente, nella fase giovanile della vita artistica di Rameau, anticipando persino la produzione di Couperin, benché
quest’ultimo sia di quindici anni più vecchio: la prima raccolta
esce come detto nel 1706, mentre il Premier Livre de Pièces de
clavecin di Couperin appare nel 1713. In linea generale, questi
due giganti dell’arte musicale francese del ‘700 si distinguono
radicalmente per temperatura e stile, per impostazione tecnica
e per sostanza fonica, restituendo, nel loro avvicinamento comparativo, il senso stesso della molteplicità compositiva d’oltralpe nel secolo dei lumi. La Suite in re, che qui viene proposta,
appartiene alla seconda raccolta e viene dunque edita nel 1724,
insieme ad altre composizioni ordinate in base alla tonalità, ma
anche insieme, come detto, a una tavola degli abbellimenti, ol7
Rameau
Quando mi accorsi che era inutile aver pietà di lui per il fatto che la suonata
sul violino lo aveva immerso in un lago di sudore, presi il partito di lasciarlo
fare. Eccolo dunque seduto al clavicembalo, con le gambe piegate, la testa
volta al soffitto dove si sarebbe detto che vedesse le note di uno spartito,
cantare, preludiare, eseguire un pezzo dell’Alberti o del Galluppi, non so
quale dei due. La sua voce andava come il vento, e le dita volteggiavano sui
tasti, ora lasciando gli acuti per i bassi, ora abbandonando l’accompagnamento per tornare agli acuti.
Denis Diderot
Rameau!... È il nipote di quel celebre musicista che ci ha liberati dal canto
di chiesa del Lulli che noi salmodiavamo da più di cento anni, che nei suoi
scritti ha esposto tante visioni inintelligibili e verità apocalittiche sulla teoria della musica, di cui né lui né nessuno ha mai capito nulla, e del quale
ancora restano un certo numero di opere che contengono armonie, spunti
di canto, idee scucite, fracasso, voli, trionfi, lance, glorie, sussurri, vittorie
da restar senza fiato, arie di danza che rimarranno eterne. Egli ha sepolto il
maestro fiorentino ma poi a sua volta sarà sepolto dai virtuosi italiani, cosa
che presagiva, e che lo rendeva malinconico, nervoso, triste, insocievole.
Denis Diderot
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tre che a un Menuet in Rondeau e a un metodo intitolato De
la méchanique des doigts sur le clavessin. Emerge qui limpido,
inconfondibile, lo stile di Rameau, il suo classicismo rigoroso
e potente, innervato di austera e raffinatissima magniloquenza, ma anche di chiaroscuri delicati, di atmosfere struggenti e
malinconiche, di ambientazioni luminose e insieme più contemplative e sfumate. I brani, organizzati nella forma della Suite,
non rimandano tuttavia ai tradizionali titoli di danza, bensì a
nomi caratteristici (tra gli altri I teneri lamenti, I semplicioni
di Sologne, I Sospiri, La giocherellona, I turbini, La zoppa), richiamando non solo la titolazione descrittiva di molti lavori di
Couperin, ma vere e proprie ambientazioni “reali”, riconducibili
in pittura, anche per una analoga strategia di colore, luce e intimità, all’opera di Jean-Baptiste Chardin. Ma si tratta, in questo
Rameau, di una pittoricità bifronte, votata comunque al gesto
esplorativo: la Suite in re offre infatti all’ascoltatore, attraverso il
pretesto descrittivo dei titoli, il vasto campionario tecnico della
manualità applicata alla tastiera e della raffinatezza decorativa
degli abbellimenti e delle forme sonore; ma al tempo stesso usa
il pretesto tecnico per condurre l’ascoltatore all’interno dei fascinosi ambienti della fantasia.
La Sonata per pianoforte K 310 è, insieme alla Sonata K 457,
una delle sole due scritte da Wolfgang Amadeus Mozart in
tonalità minore. Viene composta a Parigi nell’estate del 1778, nel
corso dunque del difficile e doloroso viaggio intrapreso l’anno
precedente, dopo l’abbandono del servizio presso l’arcivescovo Colloredo a Salisburgo, e che lo aveva portato a fare tappa a
Mannheim prima di raggiungere la capitale francese con l’obiettivo, si sa, di ottenere magari un nuovo impiego. Nascono in
questo stesso lasso di tempo, ma scritte precedentemente, durante la lunga sosta invernale a Mannheim, le Sonate K 309 e
311. Il periodo parigino, sappiamo, è tra quelli più drammatici
dell’intera vita di Mozart: è infatti proprio nell’estate del ’78 (il
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3 luglio, per l’esattezza) che la madre, in viaggio con il giovane
Amadeus, muore dopo una breve malattia. Questo doloroso, tragico dato biografico appare, all’ascolto della Sonata in la minore,
molto più che una coincidenza: non è solo la tonalità minore,
utilizzata come si diceva solo in un’altra Sonata pianistica, a
dare un’inclinazione particolare alla composizione, ma l’intera
atmosfera emotiva, lo spazio più profondo della comunicazione
psicologica, il colore, la luce, la risonanza drammatica che pervade trasversalmente quest’opera. Oltre al dato biografico, però,
occorre cercare le ragioni di questa nuova tensione espressiva
anche nel contesto più specifico del gusto e della sensibilità del
pubblico parigino, abituato a certe narrazioni sonore di forte impronta Sturm und Drang, come quelle proposte sulla tastiera,
nei decenni precedenti, da un musicista così sturmisch, e peraltro ben noto a Mozart fin dall’infanzia, come Johann Schobert.
A ciò si aggiunga, come elemento di ulteriore incidenza stilistica
e di contenuto, l’ormai matura consapevolezza di Mozart delle
enormi potenzialità del pianoforte proprio sul piano fonico, cioè
sul piano delle nuove possibilità offerte dalla tastiera di esplorare e restituire sonoramente nuovi spazi espressivi oltre che
tecnico-formali. Nel viaggio di avvicinamento a Parigi, facendo
tappa ad Augusta, come sappiamo Mozart prova e apprezza la
tecnologia avanzata dei pianoforti Stein: non è un caso che le tre
Sonate (K 309, 311 e 310) nate dopo questo “incontro”, segnino
una evidente soglia di maturazione e di padronanza nell’uso dello strumento a martelli e delle sue smisurate potenzialità. Maturazione e padronanza che si percepiscono con massima evidenza
nel tessuto complessivo di questa meravigliosa Sonata che non
appare più come un componimento da offrire alle ambizioni
dilettantistiche dell’aristocrazia europea (questo, crediamo, il
senso di molte pagine pianistiche del primo Mozart), e nemmeno l’espressione tangibile delle doti “prodigiose” di un giovane
fanciullo precocemente dotato, ma già la manifestazione di una
sensibilità pienamente matura anche sul piano dei contenuti più
profondi e delle modalità compositive adatte a renderli udibili.
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Mozart
Il suo corpo era scosso da un perenne movimento; giocava incessantemente con le mani, oppure batteva il piede per terra. Quelle mani, che egli
tormenta incessantemente, sono però anche il suo cruccio. Esse avevano
un’inclinazione così forte per la tastiera da renderlo assai poco abile in
qualunque altra cosa. A tavola non tagliava mai le pietanze o, se tentava
quest’operazione, se la cavava a fatica e goffamente. Solitamente pregava
sua moglie di farlo per lui.
Stendhal
Fu sempre incostante nel modo di lavorare. Quando era ispirato, nessuno
sarebbe riuscito a strapparlo alla sua creazione. Se lo distoglievano dal pianoforte, componeva in mezzo agli amici, e finiva per passare notti intere
con la penna in mano. In altri periodi, la sua anima era così ribelle all’applicazione che Mozart non riusciva a ultimare un pezzo se non nel momento
stesso in cui era costretto a eseguirlo.
Stendhal
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L’ascoltatore troverà questo clima e questi traguardi seguendo il
percorso mozartiano fin dal primo movimento (“Allegro maestoso”, in forma-sonata) il contrasto tematico, l’incipit dissonante,
la ripresa con il secondo tema declinato in tonalità minore, per
ripiegare poi nell’“Andante cantabile con espressione” in una
solo apparente restaurazione di modi graziosamente decorativi,
perturbati in realtà nella zona centrale da obliquità dissonanti
sottilmente drammatiche. Così, nel terzo e conclusivo movimento (“Presto”), si ritorna all’atmosfera iniziale, con una forma di
Rondò che sapientemente rimarca, con il suo ciclico ritornello,
la chiave espressiva dell’intera composizione.
Appare compito arduo – se non impossibile – riuscire a racchiudere in così poche righe e poche frasi esplicative l’immensa complessità e grandezza di un’opera come la Sonata “Hammerklavier” in si bemolle maggiore op. 106 di Ludwig van Beethoven,
portata a termine e pubblicata nel 1819 con dedica all’arciduca
Rodolfo d’Austria. Tuttavia vorrei cercare di indicare almeno gli
aspetti salienti e più utili alla comprensione di tanta grandezza
compositiva. Dopo l’ascolto dei pur straordinari capolavori di
Rameau e Mozart, ci si trova qui immersi in un mondo nuovo, in
un paesaggio sonoro inedito, o meglio inaudito, nel vero senso
della parola: cioè mai conosciuto, mai udito prima, innanzitutto
per la vastità della durata di almeno tre dei quattro movimenti
(lo Scherzo, sorprendentemente, si contiene invece entro i 3 minuti; ma la Sonata misura oltre 1200 battute complessivamente:
la più lunga scritta dal musicista di Bonn), e dunque per la scala
di proporzione in cui si espande la pur tradizionale sequenza dei
quattro tempi e i modelli formali classici che ancora, nonostante tutto, vengono qui adottati; e poi per l’estensione gigantesca
dei gradi di difficoltà (o complessità) tecnico-esecutiva, ancorché compositiva e procedurale, per la sotterranea unità organica
dell’opera, per la irraggiungibile elevazione sovrastorica dello
stile e dei riferimenti estetici; inoltre, o soprattutto, o forse proprio a derivare dai precedenti aspetti, per l’immensità profonda e
insieme elevata degli scenari poetici, psicologici, emotivi che Beethoven ci porta qui a intravedere, a conoscere, ad attraversare.
La titolazione “Hammerklavier”, pretesa da Beethoven in vece
dell’abituale “sonata per forte-piano” e già usata nella Sonata
op. 101, rimarca l’eccezionalità anche energetica, la sconvolgente onda d’urto, la violenza fonica perfino, che la “tastiera con i
martelli” produce fin dall’esordio del primo movimento, in cui i
materiali tematici si moltiplicano e soprattutto vengono trattati
polifonicamente e contrappuntisticamente fin dall’esposizione e
non solo nel territorio consueto dello sviluppo. Lo Scherzo lascia
poi stupefatti per l’improvvisa concisione e concentrazione musicale che perturba rispetto proprio all’ampiezza dell’Allegro, ma
anche per il colore “spettrale” e inquietante creato dal ritmo sincopato e da certe accentuazioni timbriche ed armoniche che congedano definitivamente qualsiasi parvenza di piacevolezza. Ma
ancor di più questo rapido squarcio assume densità preparatoria
se misurato con la sconfinata, sconcertante lunghezza e intensità
del terzo movimento, l’Adagio sostenuto, una delle pagine più
alte e meravigliose (se posso permettermi questo giudizio estremo) di tutta la letteratura pianistica, “un monumento”, come
scriverà Wilhelm von Lenz, “del dolore umano”. L’ascolto, ogni
volta, rivela pieghe e zone insospettate delle diverse gradazioni
del dolore universale e insieme delle più stringenti dimensioni
umane, qui difficilmente riassumibili. Si ricordi però di concentrarsi, all’inizio, su quelle due note d’apertura, aggiunte da Beethoven un anno dopo la realizzazione dell’opera e poco prima di
andare in stampa: precedono l’inizio originario, lo illuminano di
una luce speciale, e ci ricordano quanto decisivo sia, almeno da
Beethoven in poi ma solo in composizioni così speciali, l’inizio
di una musica, il momento in cui il primo suono ci separa da ciò
che era prima della musica e ci fa entrare nel suo speciale spazio
temporale. Il movimento finale, per concludere, esordisce con
un Largo originalissimo, attraversato da silenzi, pause e interrogativi che rendono questa pagina di incredibile modernità, cui
segue il celebre fugato (la “Fuga a tre voci, con alcune licenze”),
Beethoven
Divinità! Tu guardi nel mio intimo, tu conosci il mio cuore; tu sai che vi
abitano l’amore per l’umanità, l’inclinazione a far del bene. O uomini, se
un giorno leggerete queste mie parole, pensate che mi avete fatto torto,
e l’infelice si consoli trovando un infelice come lui che, malgrado tutti gli
ostacoli della natura, ha fatto tutto ciò che era in suo potere per essere accolto nella cerchia degli artisti e degli uomini degni.
Beethoven
Beethoven ha rappresentato nella storia della musica l’irruzione di una logica compositiva nella quale tutto si svolge in modo necessario e razionale,
per deduzione e sviluppo. Il modo di pensare di Beethoven è un pensiero
forte che si realizza attraverso lo sviluppo assolutamente logico e razionalmente conseguente di una forma organica: un organismo vivente, completo
in ogni sua parte, in cui ogni parte è in rapporto con il tutto. Forse solo
Bach, tra i musicisti dell’epoca moderna, aveva rappresentato qualcosa di
simile: l’assoluta organicità di un metodo per cui il processo compositivo si
svolge con coerenza strutturale necessaria, necessaria e interna, assolutamente interna, assolutamente connessa con il linguaggio, al punto che questo linguaggio determina esso stesso i suoi contenuti e le sue forme. Direi
però che Beethoven va oltre: Beethoven crea questa necessità stabilendo
per gradi le sue funzioni fino a farla apparire logica e razionale, addirittura
immodificabile anche nelle sue novità. Non è che tutto questo si svolga senza sorprese, come qualcosa di predeterminato; ma anche le sorprese non
sono tanto effetti emotivi devianti quanto snodi di un processo. In realtà
la sorpresa sta nella fondazione del sistema, nel creare la necessità e nel
farla apparire, appunto, conseguente, razionale, logica, immodificabile: un
dover essere assoluto.
Sergio Sablich
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talmente riconvertito e piegato alle ragioni espressive oltre che
drammatiche di Beethoven da far dire a Thomas Mann, nella
celebre pagina del suo Doktor Faustus, che qui il musicista tedesco esprime per l’antica forma della fuga “quasi un odio e un
desiderio di violentarla”. Con l’esito sconvolgente e meraviglioso
che tutti possiamo sentire.
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Interpreti
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Grigory Sokolov è oggi considerato uno dei massimi pianisti viventi.
I suoi recital ricevono ovunque trionfali accoglienze. La critica esalta
la serietà e la profondità del suo pensiero musicale, l’originalità interpretativa e l’infinito dominio tecnico. Sokolov è uno di quei pianisti
che ogni volta che lo si riascolta, conquista all’istante e lo fa con mezzi
squisitamente musicali. Anti divo per eccellenza, schivo e colto, ascetico, intimista, Sokolov ha un repertorio tra i più vasti che si possano
immaginare. In pubblico ha suonato dalla musica di Perotinus fino ai
compositori contemporanei.
Nato a Leningrado, Grigory Sokolov ha intrapreso gli studi musicali
all’età di cinque anni e a sedici, ancora studente, ha raggiunto fama
mondiale vincendo il Primo Premio al Concorso Tchaikovsky di Mosca.
Nella sua carriera Grigory Sokolov ha suonato in tutte le più importanti sale da concerto del mondo e ha collaborato con orchestre quali la
Philharmonia di Londra, il Concertgebouw di Amsterdam, la New York
Philharmonic, i Münchner Philharmoniker, i Wiener Symphoniker, la
Montreal Symphony, l’Orchestra del Teatro alla Scala, le Filarmoniche
di Mosca e di San Pietroburgo. Più di duecento sono i direttori con i
quali ha condiviso il palcoscenico e tra questi Myung-Whung Chung,
Valery Gergiev, Herbert Blomstedt, Neeme Järvi, Sakari Oramo, Trevor
Pinnock, Andrew Litton, Walter Weller, Moshe Atzmon, e molti altri.
Già da qualche anno a questa parte, Sokolov ha deciso di dedicare la
sua attività concertistica esclusivamente al recital per pianoforte solo,
ed è uno dei pochi pianisti ad essere presente nelle più importanti sale
da concerto europee con un recital ogni anno. Nella stagione 2012-13
il pubblico europeo lo potrà ascoltare alla Konzerthaus di Vienna, alla
Philharmonie di Berlino, al Théâtre des Champs-Elysées di Parigi, al
Concertgebouw di Amsterdam, alla Tonhalle di Zurigo, alla Filarmonica di Varsavia, all’Auditorium National de Madrid, al Conservatorio di
Milano, a Santa Cecilia a Roma e ancora a Monaco, Amburgo, Barcellona, Stoccolma, Helsinki, Lisbona, Lussemburgo, al Klavier Festival
Ruhr, al Festival de Colmar e al Festival de La Roque d’Anthéron.
Le principali date italiane includono, oltre a Reggio Emilia, recital a
Roma per l’Accademia di Santa Cecilia, a Milano per la Società dei Concerti, a Genova per la GOG, al Festival di Brescia e Bergamo, all’Unione
Musicale di Torino, agli Amici della Musica di Perugia, di Mestre, a
Varese e al Teatro La Fenice.
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GRUPPO BPER
Le attività di spettacolo e tutte le iniziative per i giovani e le scuole sono
realizzate con il contributo e la collaborazione della Fondazione Manodori
Benemeriti dei Teatri
Vanna Belfiore, Deanna Ferretti Veroni, Corrado Spaggiari, Vando Veroni
Annalisa Pellini
Luigi Bartoli, Paola Benedetti Spaggiari, Bluezone Piscine, Franco Boni, Achille Corradini, Donata Davoli Barbieri,
Anna Fontana Boni, Mirella Gualerzi, Insieme per il Teatro, Paola Scaltriti, Gigliola Zecchi Balsamo
Davide Addona, Carlo Artioli, Maurizio Bonnici, Gianni Borghi, Andrea Capelli, Umberto Cicero, Francesca
Codeluppi, Giuseppe Cupello, Emilia Giulia Di Fava, Ennio Ferrarini, Milva Fornaciari, Giovanni Fracasso, Alice
Gherpelli, Marica Gherpelli, Silvia Grandi, Claudio Iemmi, Luigi Lanzi, Paolo Lusenti, Franca Manenti Valli, Silvana
Manfredini, Graziano Mazza, Clizia Meglioli, Ramona Perrone, Francesca Procaccia, Teresa Salvino, Viviana Sassi,
Fulvio Staccia, Alberto Vaccari
Stampa Grafiche San Benedetto, Castrocielo (FR)
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