I giovani di seconda generazione tra famiglia, scuola e lavoro: reti

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I giovani di seconda generazione tra famiglia, scuola e lavoro: reti
I giovani di seconda generazione tra famiglia, scuola e
lavoro: reti sociali e processi di selezione
di
Enrico Allasino
Maria Perino
Paper for the Espanet Conference
“Risposte alla crisi. Esperienze, proposte e politiche di welfare in Italia e in Europa”
Roma, 20 - 22 Settembre 2012
Enrico Allasino, Ires Piemonte, [email protected]
Maria Perino, Università del Piemonte Orientale, [email protected]
1. Oltre la prospettiva nazional-culturale
Presentando alcuni risultati, preliminari e parziali, della ricerca Second generations: migration
processes and mechanisms of integration among foreigners and Italians, 1950-2010 (Secondgen) 1,
si tenterà di abbozzare un’analisi del modo in cui le carriere dei figli di immigrati portano a certe
collocazioni nel sistema di stratificazione sociale. L’attenzione ai “fattori di rischio di esclusione”
dei giovani di origine immigrata non è una novità nell’ambito della ricerca e delle politiche. Le
cause che possono produrre percorsi di integrazione “verso il basso” sono ampiamente discusse e
generalmente condivise, tuttavia le indagini in merito presentano frequentemente due limiti
fondamentali. Si ricorre spesso a una spiegazione culturalista e non si spiegano concretamente il
processo di selezione e i meccanismi sociali che lo caratterizzano. E’ infatti facile constatare che la
ricerca frequentemente considera lo svantaggio etnico, costituito dall’origine nazionale, dalla
religione, o da tratti somatici, come chiave esplicativa dei percorsi, soffermandosi quindi su
elementi dati, ascritti, assunti in modo non problematico come scontati, piuttosto che
sull’interazione e sulla azione delle persone.
Poca attenzione viene rivolta alla posizione e al percorso fatto di azioni e interazioni nella società
di arrivo e determinato dalle risorse relazionali, dai tempi sociali, dalle caratteristiche e dai
mutamenti che incidono sulla famiglia immigrata. Questi aspetti del processo migratorio possono
essere utili strumenti interpretativi per comprendere le “carriere” dei giovani di seconda
generazioni, più che l’appartenenza e l’identità culturale, sia essa “fluida e meticcia”.
Riteniamo infatti che il processo migratorio abbia in se stesso un ruolo nella costruzione della
stratificazione sociale. Nella scuola e nel mercato del lavoro i giovani di origine immigrata si
inseriscono in determinate posizioni non tanto per le loro origini nazionali e le loro specificità
culturali, ma per altre specificità delle reti sociali, del mercato del lavoro, dei quartieri e della
famiglia (Eve e Perino, 2011). Allo stesso tempo è importante affiancare a tali spiegazioni altri
elementi in riferimento al clima relazionale della classe, al rapporto con i compagni e gli
insegnanti, agli stili di insegnamento, alla tendenza al “ribasso” delle azioni di orientamento della
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L’obiettivo scientifico fondamentale della ricerca, finanziata dalla Regione Piemonte e coordinata dall'Università
del Piemonte Orientale, è la comparazione sistematica tra le migrazioni interne di massa del passato e le
migrazioni internazionali contemporanee in Piemonte, al fine di comprendere alcuni meccanismi dei processi di
integrazione delle famiglie migranti, in riferimento in particolare alle “seconde generazioni” e si compone delle
seguenti unità di lavoro: 1) Analisi comparata delle migrazioni interne e internazionali. Ricostruzione dei contesti di
arrivo e delle modalità di stabilizzazione; politiche e forme di integrazione, 2) Le migrazioni interne. Raccolta,
organizzazione e analisi di dati statistici sulla popolazione migrante degli anni ’60, 3) Le migrazioni interne.
Interviste volte a ricostruire le carriere formative e occupazionali, le scelte e le reti sociali, 4) Carriere e svantaggi
delle seconde generazioni. Analisi di dati quantitativi originali e interviste in profondità rivolte a giovani e alle loro
famiglie, 5) Giovani, strade, quartieri. Osservazione etnografica e partecipazione alle dinamiche di gruppo. La
conclusione della ricerca è prevista nel 2013.
scuola nei confronti di molti alunni di origine straniera, al “passaparola” tra i giovani rispetto alla
scuola in cui hanno trovato accoglienza rispetto ad altre.
Le specificità sociali generate dalla migrazione e le caratteristiche delle strutture e dei meccanismi
di inserimento e di socializzazione da esse generati sono cruciali nella determinazione delle
traiettorie.
2. La scelta scolastica: le informazioni contano
Dalle nostre interviste si intravedono diverse traiettorie dei giovani di origine straniera: se ci sono
accenni alla costituzione di un ceto medio di origine immigrata (Allasino e Eve, 2008), abbiamo
evidenti e molto numerosi percorsi incerti e disorganizzati, concentrati nell’istruzione
professionale, dalla quale spesso si esce e si entra inseguendo corsi senza sviluppi in una carriera
lavorativa, o bloccati nella posizione di chi né studia né lavora, se non occasionalmente e in nero.
Tuttavia, pochi intervistati dicono di aver lasciato o di volere lasciare presto la scuola per motivi
economici, o perché le famiglie orientano a un inserimento precoce nel mondo del lavoro.
Le famiglie, nella quasi totalità, anche nei casi di madri sole, sostengono e appoggiano la scelta di
studiare - talvolta come alternativa al “non fare niente” e sono disposte ad affrontare difficoltà
economiche ritenendo che le spese per l’istruzione, secondaria e in alcuni casi universitaria, siano
una priorità. Persino alcuni tra coloro che hanno carriere ai margini o nell’illegalità sono iscritti a
scuola, ed è per questa sua pervasività che è necessario conoscerne la struttura, la funzione
rispetto al futuro e le relazioni che in essa si sviluppano.
Uno dei cambiamenti più netti tra l’esperienza dei figli degli immigrati stranieri contemporanei
rispetto ai figli degli immigrati regionali del passato riguarda la centralità della scuola: la
partecipazione di massa e l’aumento della durata media della scolarità fanno sì che le competenze
nell’orientarsi in un sistema, che nel frattempo è diventato più vario e complesso, siano
determinanti per le carriere. Nella scuola, e ancor prima, nelle modalità di scelta dell’indirizzo,
della sezione, si producono processi di selezione che occorre analizzare nel dettaglio poiché
condizionano i percorsi successivi.
Un’attenzione particolare va pertanto posta ai meccanismi della scelta al termine del ciclo della
scuola secondaria di primo grado nel tentativo di individuare che cosa influenza le scelte
scolastiche, come avvengono, come intervengono i genitori, il valore percepito della scuola intesa
come struttura che ha una funzione rispetto al futuro, e come ambiente nel quale si sviluppano
relazioni e interazioni. Sono emersi elementi ricorrenti i quali confermano il ruolo cruciale che
questa istituzione gioca nella riproduzione e produzione delle disuguaglianze sociali e come i
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processi di selezione possano essere innescati da pratiche e interazioni quotidiane che interessano
alunni italiani e stranieri e questi ultimi con delle particolarità specifiche.
Consideriamo innanzitutto i criteri di scelta. Un aspetto fondamentale è costituito dalle
informazioni adeguate possedute.
Nel caso dei giovani di origine straniera arrivati nel momento dell’iscrizione all’istruzione
superiore, le difficoltà a orientarsi in un’offerta formativa molto differenziata e varia si accentuano
a causa delle specificità legate alla migrazione famigliare, rispetto ai coetanei italiani: “un info
point se non mi sbaglio, forse c’è ancora adesso, dove appunto ti guidavano. Tipo Informagiovani?
Ma sì, quella roba lì, quegli uffici lì e quindi lì ho scelto di fare ragioneria, poi disperato come ero:
ero già in ritardo, le scuole erano già iniziate capisci che non è che potevo fare tante smorfie…
prendevo un po’ quello che mi offrivano“ (intervista 86).
I genitori non sono informati bene sul funzionamento della scuola consapevoli che non basta
sapere quali indirizzi e corsi sono offerti, quindi molto spesso il fratello, la sorella maggiori o altri
parenti guidano nella scelta oppure si rivolgono a figure esterne alla famiglia, ai datori di lavoro, a
un conoscente che diventa modello per il lavoro che svolge, a un insegnante che sembra
particolarmente degno di fiducia, a una persona amica di famiglia, al materiale pubblicitario delle
scuole verso il quale tuttavia ci può essere diffidenza: “sono tutte pubblicità, siamo tutti bravi a
scrivere, poi alla fine non fanno nulla di ciò che dicono”. Il caso di Juan2 è una sintesi esemplare di
fattori che hanno determinato un percorso che si rivela come scelta sbagliata. “Per me è stato un
casino, perché io avevo sbagliato la scelta. Io volevo fare il meccanico, ma il meccanico d’auto
volevo fare. Perché mi piacevano e mi piacciono ancora le macchine, aggiustare le macchine e così.
Però ho scelto 'operatore meccanico' che era tutta un’altra cosa. Ci hai messo tre anni per capirlo?
Eh sì, perché io da solo… cioè mia madre mi seguiva a scuola, però non è che lei col lavoro che fa,
sempre al lavoro sempre al lavoro ha tutto il tempo per sapere che meccanica è, se manco io me
ne sono accorto. Poi quando sono arrivato in terza mi sono accorto che non era la meccanica che
io volevo, ho voluto cambiare scuola, però mia madre mi ha detto “Ormai sei in terza…”. Poi anche
ha me era iniziato a piacere, ho iniziato a farlo sono arrivato fino in quinta e ho fatto l’esame di
maturità e poi… niente. Disgrazia mia sono uscito col diploma di maturità a cercar lavoro, però era
già iniziata la crisi, quindi… soprattutto in questo settore qua della meccanica qua a Torino sono
andato a cercare lavoro ma non c’era. [...] Cioè mi avevano detto 'Tu vedi di scegliere cosa ti piace,
liceo artistico, liceo linguistico…' ma io non ne capivo bene allora, non sapevo bene cos’era un liceo
artistico o linguistico, non sapevo nemmeno la differenza tra un liceo e un istituto tecnico… non la
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I nomi sono di fantasia.
sapevo. Io son andato lì, uno perché era vicino a casa mia e due perché, siccome era meccanica, io
volevo fare il meccanico” (int. 5).
Qui vari elementi sembrano intrecciati. Innanzitutto il non sapere, che non è solo mancanza di
informazioni ma soprattutto estraneità al sistema scolastico italiano pur avendolo frequentato fin
dalla quinta elementare. Questo elemento evidenzia che il tempo di permanenza in Italia non
significa una lineare e progressiva integrazione 3 ma che contano gli ambienti in cui si producono
pratiche e atteggiamenti e che l’assimilazione non è generica né nelle forme né nei tempi.
Nel racconto di Juan emergono anche ulteriori fattori che condizionano il percorso scuola – lavoro:
i timori della madre per un cambio di scuola (altri genitori, invece, sembrano non turbati dai
passaggi da una scuola all’altra e da un indirizzo a un altro. Bisognerà approfondire che cosa fa la
differenza), la vicinanza a casa come elemento a favore di una certa scuola, la valutazione, in base
alle esperienze di alcuni amici, che il diploma quinquennale non solo non dà opportunità di lavoro,
ma rappresenta uno svantaggio in momenti di crisi economica.
Anche in molti altri casi la scelta è il risultato di mancanza di informazioni. Dice con molto
rammarico Alì: “Ecco, questo è il grosso errore che ho fatto, avendo dei genitori che non hanno
studiato, qua in Italia, non sanno come funzionava la scuola italiana, io ero uscito con 'distinto'
dalle medie e mio papà, così per sentito dire, io volevo fare magari geometra perché mi piaceva
molto disegno tecnico o liceo scientifico, mio papà ha detto: ma no, vai a far e un istituto
professionale che ti insegna un mestiere per andare a lavorare. Ed è stato il più grosso errore della
mia vita che ho fatto. Anche i professori... non mi hanno indirizzato... io ero uscito benissimo e loro
mi hanno detto: vai a fare l’istituto professionale; non capisco il perché; anche mio papà ha
insistito per questa cosa qua che poi ti trovi un lavoro, un mestiere, io allora pensavo che le scuole
fossero uguali, cambiava solo l’indirizzo, non riuscivo a visualizzare questa cosa del liceo, istituto
tecnico, professionale” (int. 64).
Entrano in gioco anche la casualità, il “sentito dire”, malintesi su che cosa significhi un corso,
conformità al percorso dei fratelli maggiori, assenza del sostegno della famiglia che in molti casi,
diversamente dal padre di Alì, esercita una pressione generica a continuare gli studi e lasciano
scegliere. “fai quello che vuoi tu”, “fai quello che ti piace”, “basta che ti impegni” sono frasi
frequenti nelle interviste che denotano incompetenza nell’affrontare l’istituzione scolastica più
che una particolare fiducia nelle capacità decisionali dei figli.
Le famiglie istruite insistono di più per continuare gli studi e discutono, si informano e valutano
diverse possibilità. Anche tra gli italiani accade che nelle famiglie più istruite si insista di più per
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Questo aspetto emerge chiaramente dall’esame dei dati di un’indagine a questionario (N = 2114), Giovani e
territorio, svolta nelle scuole superiori di tre province piemontesi (Bonapace et al., 2009).
continuare gli studi e si mettano in atto energie e strategie per acquisire informazioni sulle scuole.
Tuttavia, gli immigrati, comprese le famiglie dotate di elevato capitale umano, con progetti
migratori centrati sul futuro dei figli, devono affrontare specifici problemi: la lingua,
l’impoverimento della rete sociale e la maggiore difficoltà ad avere informazioni su determinati
indirizzi scolastici e sulla reputazione di alcuni istituti, l’orientamento al ribasso della scuola, che
lascia poco tempo per acquisire padronanza nella lingua italiana, e che utilizza questo limite come
motivo per evitare il liceo. L’orientamento non è indicato sistematicamente nelle interviste come
attività che è stata svolta nelle scuole, e non sono dettagliate la modalità con cui è avvenuto (la
vaghezza del ricordo potrebbe essere di per sé significativa). Ma è ricorrente il riferimento al
semplice consiglio degli insegnanti che orientano verso corsi di modesto prestigio.
In quali casi le indicazioni date non sono seguite? Alcuni giovani motivano con una distinzione tra
scuole di centro/ scuole di periferia, sostenendo che in queste ultime ci sono molti stranieri. Si
tratta di un elemento ricorrente, che talvolta proviene dall’ambiente dei datori di lavoro dei
genitori, per distinguere scuole che funzionano e scuole problematiche. Oppure si rifiuta ciò che la
scuola propone perché la famiglia, o un genitore, ha una tradizione di studi che non si vuole
interrompere. In altri casi la famiglia è culturalmente attrezzata per porre attenzione alle
attitudini. Una ragazza alla fine della seconda superiore cambierà sezione per andare in una
migliore: “In seconda invece ho cambiato classe: [...] con quella di scienze non facevamo niente,
ascoltavamo la musica; quello di arte dava sempre dei voti bassissimi a tutti e quella di italiano
invece era l'unica tosta, quindi facevamo bene solo italiano e invece a me interessavano più le altre
materie” (int. 80). Frequentando quella scuola ha compreso le differenze e le gerarchie interne. I
figli dei genitori istruiti, o di madri particolarmente determinate al successo scolastico, hanno
maggiori possibilità di contestare le indicazioni e i comportamenti degli insegnanti 4.
Tuttavia possono intervenire anche delle forme di “adattamento” alla realtà sociale e scolastica, la
percezione, plasmata dalla stessa scuola, delle opportunità a cui si può realisticamente accedere,
cosicché certe possibilità non sono neppure prese in considerazione. Alcune domande erano
orientate a capire se certe scuole o certi indirizzi non erano stati presi in considerazione e perché. I
racconti non sempre sono espliciti, alcune risposte sono molto brevi e generiche, altre sono molto
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In Italia, dove il sistema scolastico si contraddistingue per la varianza tra indirizzi e la varianza interna nelle scuole,
con conseguenze sull’efficacia e sulla equità della formazione (Oecd, 2010), alcune specifiche ricerche (Checchi,
2008 e 2009) confermano che il processo di orientamento scolastico è caratterizzato dall’interazione tra
apprendimenti effettivi, risultati scolastici in termini di votazioni ottenute, aspettative familiari e proposte
orientative, non solo sulla base dei risultati di apprendimento, ma anche sulla base di quello che gli insegnanti
percepiscono essere il sostegno familiare, correlato all’istruzione e al reddito familiare. Risulta frequente inoltre
una revisione delle scelte (tra preiscrizione ed iscrizione finale effettiva) governata dallo status sociale della
famiglia di provenienza: genitori laureati tendono a non seguire indicazioni orientative rivolte alla formazione
professionale, così come genitori poco istruiti rendono meno probabile l’iscrizione agli indirizzi liceali, nonostante
orientamento in tale senso degli insegnanti.
più articolate e denotano una complessa analisi delle opzioni. Forse la scelta o non scelta
scolastica hanno a che fare anche con aspetti impliciti e ignoranza delle opportunità che non
emergono nelle interviste, tuttavia è evidente che il numero delle alternative prese in
considerazione è normalmente ridotto. Molti giovani delle famiglie meno istruite accolgono il
criterio dalla scuola che orienta i ragazzi di origine straniera a indirizzi più facili e più brevi, quelli
invece che provengono da famiglie più istruite non vedono un ostacolo nella difficoltà e nella
lunghezza di un indirizzo, anzi, queste esprimono una gerarchia scolastica nella quale si vogliono
occupare le posizioni più prestigiose.
François Dubet (2008) sostiene che la scuola di massa, di principio fondata sull’uguaglianza delle
opportunità, dovrebbe mirare a un insegnamento secondario che riduca al massimo gli effetti
delle disuguaglianze sociali nei percorsi scolastici. Tuttavia, secondo l’autore 5, tale apertura, e le
ambizioni di cui essa è caricata, fanno di questo tipo di scuola un agente di disuguaglianze, se non
la loro causa. Infatti, la massificazione ha rafforzato la partecipazione promuovendo lunghi
percorsi di scolarità e selezioni tardive e progressive lungo il corso degli studi, ma non ha
sensibilmente accresciuto l’uguaglianza a causa del permanere dell’effetto scuola, dell’effetto
insegnanti e, come si vede anche dalle interviste di Secondgen, dell’importanza che viene ad avere
la capacità di orientarsi nel sistema. Le filiere restano, restano i frazionamenti gerarchizzati delle
qualifiche scolastiche ma sono cambiati i meccanismi della selezione: questa oggi si situa durante il
percorso scolastico, con l’orientamento. Tutti entrano ma poi prendono direzioni diverse che
gerarchizzano e selezionano gli allievi. Gli allievi inoltre possono essere orientati a scuole che non
desiderano, o ripiegare per un corso a causa della disoccupazione, per “passare il tempo”, in un
contesto i cui individui ritenuti uguali sono impegnati in una competizione continua (analoga a
quella sportiva) ma spostata nel tempo, si gioca sempre più tardi e i posti offerti “in alto” sono
sempre meno.
3. Sense of entitlement e sense of constraint
Le proposte della scuola6 sembrano accettate da quegli studenti di origine straniera che si
percepiscono come poco adatti allo studio e che quindi accolgono l’indicazione a inserirsi in
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Al centro dell’interesse dell’indagine ci sono da una parte l’organizzazione, le pratiche, i progetti scolastici e
dall’altra le soggettività – allievi e insegnanti – che vivono la scuola e agiscono in essa. Dubet ritiene infatti che per
comprendere il mondo della scuola sia necessario interessarsi direttamente delle esperienze di distanza tra cultura
scolastica e cultura giovanile; di tutta la questione della socializzazione scolastica e delle contraddizioni interne alla
scuola di massa. La ricerca deve studiare i curricula, che cosa e come si insegna, come funziona la scuola, come si
prendono le decisioni di politica scolastica.
percorsi con sbocchi professionali modesti o molto modesti, nei quali la socializzazione avverrà
con ragazzi italiani che vi sono approdati non per scelta ma a causa di un passato scolastico
fallimentare e che hanno una collocazione specifica nella gerarchia sociale.
Dove esiste una relativa continuità tra la cultura familiare e la cultura scolastica è possibile per gli
studenti passare abbastanza agevolmente da un registro all’altro, specialmente se la scuola sa
integrare, sa costruire prossimità tra allievi e insegnanti, solidarietà di gruppo, uno “spirito” della
scuola. La distanza tra vita scolastica e cultura giovanile si riduce, una si integra nell’altra e gli
allievi percepiscono l’utilità sociale della loro formazione. Invece è diverso per quelle forme di
socializzazione contro la scuola, caratterizzate dallo scontro tra cultura giovanile e mondo
scolastico che appare estraneo e senza interesse. Lo studio, in questa prospettiva, serve a niente e
la scuola si presenta di massa e selettiva allo stesso tempo: in essa sono presenti allievi che
studiano solo per stare lì, perché non hanno altro da fare, e allievi ribelli, conflittuali. Ovviamente
tra queste due categorie di giovani ci sono molte oscillazioni, in ogni caso tuttavia, la scuola
secondo Dubet tende a trasformare questi problemi, che sono sociali, in problemi di personalità
dello studente (Dubet, 2008: 44-45) o, per quanto riguarda le seconde generazioni, in questioni
culturali dipendenti dall’origine nazionale.
Più che le differenze “etniche”, entrano in gioco i meccanismi di classe e le risorse relazionali della
famiglia immigrata che si manifestano nei microinterventi quotidiani, nelle interazioni con la
scuola e le istituzioni, e che influenzano i percorsi scolastici dei figli.
Nelle interviste realizzate si riscontrano i due approcci educativi, della classe media e della classe
operaia, che Lareau (2011) ha descritto: la concerted cultivation e l’accomplishment of natural
growth.
Si tratta di logiche educative che si esprimono nell’organizzazione della vita quotidiana, nell’uso
del linguaggio, e nei comportamenti più o meno direttivi, nella maggiore o minore disponibilità alla
negoziazione tra genitori e figli, nella capacità dei genitori di acquisire informazioni, di accedere
alle “informazioni informali” e alla complessità delle opzioni del sistema scolastico, di intervenire e
criticare le istituzioni, in particolare la scuola, a vantaggio dei propri figli che in tal modo
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Secondo l’analisi condotta nella terza indagine Iard 2010, a cura di Cavalli e Argentin, gli ambiti in cui si fanno
maggiormente sentire le lacune della formazione professionale degli insegnanti riguardano la valutazione degli
apprendimenti e le strategie didattiche con gli studenti immigrati o figli di immigrati, visti come ”fardello
ingombrante” o come “opportunità di crescita”. In ogni caso non sono effettuate modifiche sostanziali ai modi e
strumenti di insegnamento (soprattutto nei Tecnici e nei Professionali); piuttosto, si adottano criteri di valutazione
più morbidi e modifiche dei programmi. “Ci si adatta al mutamento cercando di ridurre le tensioni, riducendo la
qualità, abbassando le aspettative”, diventando “più comprensivi” (p. 392 -394).
apprendono gradualmente a interagire con gli adulti nelle situazioni organizzate e strutturate,
mentre i ragazzi e le famiglie della working class vivono spesso un senso di frustrazione e di
impotenza rispetto alle istituzioni e alla burocrazia. Il lavoro di Lareau non solo coglie la
correlazione tra pratiche educative e classe sociale ma ne sottolinea gli effetti nelle interazioni a
scuola e nella carriera scolastica. L’ambiente scolastico non è neutrale, esprime prevalentemente
le pratiche culturali e il modello educativo della classe media 7 condizionando lo sviluppo nei
giovani e nei loro genitori di un sense of entitlement oppure un di sense of constraint, e la
gerarchizzazione degli indirizzi scolastici.
L’importanza delle informazioni utili, della capacità di relazionarsi con le istituzioni e di “navigare”
la complessità del sistema educativo permane nel tempo, manifestandosi nei passaggi da un
ordine di scuola a un altro, fino al college8 e costituendo una forma di ”capitale culturale”
chiaramente correlato con le persistenze a lungo temine delle disuguaglianze di classe (Lareau e
Conley, 2008: 142 -143).
L’analisi del materiale empirico di Secondgen mediante le categorie concettuali di Lareau da una
parte conferma la relazione, anche tra i giovani di origine immigrata, tra classe sociale e logiche
educative e le conseguenze che ne derivano nelle traiettorie scolastiche e nell’accesso a differenti
opportunità, d’altra parte evidenzia ulteriormente l’intreccio tra migrazioni e struttura di classe.
Infatti tutte le famiglie immigrate, anche quelle di classe media o che hanno subito nella
migrazione una mobilità occupazionale discendente ma sono dotate di elevato capitale culturale e
nelle quali si potrebbe rintracciare la cosiddetta acculturazione consonante, patiscono le
specifiche penalità legate al processo migratorio - debolezza delle reti, debolezza delle
informazioni, tempi sociali non corrispondenti con quelli della scuola - nello sviluppare il sense of
entitlement. Alcuni intervistati che hanno avuto un percorso scolastico regolare, esitanti rispetto
alla scelta universitaria, dicono infatti che si sono rivolti a corsi professionali post diploma perché
non sanno dove andare, perché cercano un “ponte” per il mondo del lavoro, in mancanza di reti e
informazioni adeguate le prospettive si fanno confuse.
L’indagine richiede certamente degli approfondimenti ma tale orientamento di ricerca sembra
promettente per la comprensione delle pratiche, anche minute, che producono disuguaglianze e
indirizzano i processi di integrazione, e in generale per una discussione critica della nozione stessa
di integrazione.
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Cfr. Le vestali della classe media, Barbagli, Dei 1969, per un’analisi, all’indomani della riforma della scuola media in
Italia, delle funzioni di selezione e di “socializzazione alla subordinazione” svolte dagli insegnanti.
Lareau ha osservato le stesse famiglie quando i figli avevano 10 anni e dieci anni dopo.
Molti racconti degli intervistati testimoniano la forza dell’intreccio tra “debolezze” delle famiglie e
“debolezze” di certe scuole, tra elementi contestuali e individuali in un momento specifico e in una
situazione specifica, nel determinare in modi “complessi ma non caotici” (Portes e Rumbaud,
2001: 268) i risultati e le carriere dei giovani di origine straniera. E’ su queste “debolezze”, sugli
ambienti e sugli assetti istituzionali generali che le generano, che occorre approfondire l’analisi e
vederne gli effetti diversi sui giovani delle famiglie italiane e sui giovani delle famiglie immigrate,
nella prospettiva che la specificità di queste ultime non dipende dall’origine culturale ma, come
detto, dagli effetti sociali della migrazione.
4. Entrare in una comunità di pratica
Uno degli obiettivi generali della nostra ricerca, come abbiamo detto, è quella di proporre una
prospettiva che non vede le carriere dei figli degli immigrati determinate solo o in prevalenza
dall'identità culturale e dalle reazioni dei locali a tale identità, ma da una più complessa
articolazione di relazioni e di rapporti in cui l’esperienza migratoria di per sé è un fattore rilevante.
Quando un giovane di origine immigrata si iscrive a una scuola media superiore, per scelta o per
caso, informato o mal consigliato, che cosa significa la sua “integrazione” a scuola in questa
prospettiva?
Anche negli anni delle scuole superiori le famiglie - i parenti emigrati e quelli che vivono in altri
paesi, con le loro reti di relazioni più o meno frammentate e limitate - continuano a influenzare il
percorso dei giovani. In questa fase però cresce la rilevanza delle reti che il soggetto stesso riesce a
costruire: con amici, compagni di scuola, colleghi di lavoro. L’influenza delle persone che
compongono queste reti si esercita su un attore sociale calato in un sistema (scolastico) in cui esso
compie scelte e trova vincoli o risorse. Il gruppo di pari che costruisce una alternativa antagonista
alla scuola (Willis, 1977) o al contrario gli amici che aiutano a superare le difficoltà nello studio, il
parente che presenta a un potenziale datore di lavoro agiscono su attori sociali calati in una
esperienza formativa che ha proprie logiche, che vanno comprese. Il processo migratorio a sua
volta continua a porre limiti e condizionamenti, accanto a qualche opportunità, ma in
configurazioni complesse che vanno indagate nella loro costruzione entro il sistema scolastico.
L’integrazione fra le ricerche sulle seconde generazione di immigrati e le ricerche sulla scuola può
diventare più sistematico e proficuo. La selezione degli immigrati e dei loro discendenti è parte del
processo di classificazione e discriminazione generale attuato dal sistema scolastico e formativo e
integrare l'analisi di due aspetti contribuisce a comprendere almeno come limitarne gli effetti
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negativi più pesanti, per non limitarsi a considerare la scuola come una scatola nera che restituisce
semplicemente diversità e difficoltà che si generano e riproducono altrove. Abbiamo quindi
tentato una indagine più interna al sistema formativo stesso, che tenesse conto sia delle reti di
relazioni familiari e amicali dei giovani di origine immigrata e di come esse possano favorire, o
osteggiare, la permanenza nella scuola e infine l’iscrizione all’università o la ricerca di un lavoro,
sia dell’interazione, osservata direttamente, con compagni e docenti nel sistema scolastico.
Seguendo una consolidata prospettiva di indagine sui processi formativi 9, apprendere non significa
interiorizzare un sistema di nozioni, di informazioni o di schemi comportamentali, ma entrare
gradualmente in una relazione sociale complessa nel corso della quale avviene una integrazione in
una comunità di pratica e una costruzione dell'identità.
L'apprendista, il novizio, la matricola apprendono a muoversi in una rete di relazioni, a rispettare
le gerarchie e le prassi, a fare propria la cultura del gruppo e a riprodurla (ma introducendo
variazioni di generazione in generazione). Questo processo avviene tramite procedure interattive,
negoziali, anche conflittuali fra gli attori: nel caso della scuola insegnanti e discenti, vecchi e nuovi
allievi, genitori, dirigenti, personale non docente, compagni, professionisti esterni. Una delle
dimensioni fondamentali di questo processo di partecipazione è l'interiorizzazione dei processi di
distinzione sociale e culturale (Bourdieu e Passeron, 1964). Si apprende la distinzione fra cultura
alta e bassa, l'ordinamento gerarchico dei saperi e delle competenze e la capacità di mantenere e
creare distanza.
E’ probabile che, se si instaurano tensioni nel rapporto fra membri della comunità di pratica,
queste si accentuino quando si presentano outsider: donne, ceti subalterni, stranieri, minoranze
etniche e razziali. La soluzione più frequente era (ed è ancora in molti casi) che a costoro sia
semplicemente negata la possibilità di diventare legitimate peripheral participants: ad esempio le
donne non sono ammesse nei seminari cattolici. Se invece l’ammissione è formalmente possibile,
questi outsider possono essere sottoposti a una serie di prove, di procedure, di selezioni che,
anche solo come effetto indiretto, ne riducono il numero o ne limitano l'accesso alle posizioni
centrali e più prestigiose. Il problema è mostrare come ciò avvenga esattamente in istituzioni la cui
ideologia ufficiale vuole che si selezioni sulla base di doti individuali e non ascritte. Ancor più
problematico considerando che le dimensioni di classe sociale e di origine nazionale risultano di
fatto strettamente intrecciate.
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Abbiamo ecletticamente tratto ipotesi e suggestioni da alcune indagini sui processi formativi, fra le quali ci sono
sembrate particolarmente ricche di stimoli quella sugli studenti di medicina di Becker, Geer, Hughes e Strauss
(1961) e la proposta più teorica di Lave e Wenger (1991) basata sui concetti di legitimate peripheral participation e
di community of practice.
Occorre precisare che la comunità di pratica a cui si accede nel caso delle scuole, anche di quelle
professionali da noi studiate, non è quella delle professioni a cui lo studente dovrebbe essere
formato, ma quella della scuola stessa. Come già avevano individuato Becker, Geer, Hughes e
Strauss (1961), le matricole devono imparare a essere buoni studenti, non professionisti in erba.
Lo studente deve apprendere le nozioni che servono a superare gli esami, deve districarsi fra le
discipline scolastiche e rispondere alle richieste dei docenti. Essi non sono ancora in grado di
conoscere la professione, ma devono accettare le regole e le logiche dell'istituto di istruzione.
Cercare di anticipare il giudizio su che cosa serva o non serva per il lavoro può essere fuorviante e
condurre a insuccessi scolastici. Anche quando sono previste ore di lezione pratiche, tirocini e,
comunque, molti studenti svolgono attività lavorative più o meno coerenti con il corso di studi, le
due sfere restano concettualmente distinte, sono piani separati, anche se, talora, si
sovrappongono nel tempo.
D’altra parte l’integrazione in una comunità di pratica non ha implicazioni solo positive perché
essa può divenire un ghetto (ma in certi casi anche una “torre d’avorio”) in cui ci si trova rinchiusi
perdendo la capacità di comprendere e avere relazioni con altre comunità, di modificare la propria
identità professionale o di trasferire competenze relazionali 10.
5. I giovani di origine immigrata negli istituti professionali: un approfondimento
Abbiamo studiato in particolare alcuni istituti di istruzione a forte contenuto professionalizzante 11,
intervistando gli alunni di origine immigrata, singolarmente e in piccoli gruppi, discutendo con
insegnanti e dirigenti e assistendo a diverse ore di lezione 12.
10
Infatti Wenger ha in seguito accantonato il concetto di legitimate peripheral participation sviluppando una
prospettiva più centrata sulle possibilità di sviluppare in senso creativo le comunità di pratica negli ambienti di
lavoro (Wenger, 1998).
11
“Dalla comparazione tra le scelte scolastiche di italiani e stranieri (...), emergono notevoli differenze nelle
preferenze, le quali rendono ancora più evidente il fenomeno della canalizzazione formativa degli stranieri. Questi,
infatti, si concentrano negli istituti professionali (40,4%) e negli istituti tecnici (38,0%), seguiti a distanza dai licei
(18,7%). Gli italiani prediligono, invece, i licei (43,9%) e gli istituti tecnici (33,2%) e, in misura minore, gli istituti
professionali (19,2%).” (Miur-Ismu, 2011: 13) La scelta degli istituti professionali è dovuta non solo alla oggettiva
concentrazione di giovani immigrati in queste scuole, in alcuni casi dopo che i licei li hanno respinti, ma anche
all’intenzione di affrontare in modo diretto la questione degli sbocchi occupazionali.
12
Ringraziamo dirigenti, docenti e studenti degli istituti a indirizzo alberghiero “Bobbio” di Carignano, “Colombatto”
e “Beccari” di Torino, “Prever” di Pinerolo e nell'istituto professionale per l'industria e l'artigianato (odontotecnici
e manutentori) “Plana” di Torino. L'osservazione diretta di alcune lezioni pratiche e teoriche è stata realizzata in
alcune classi degli indirizzi alberghieri al “Bobbio” e al “Colombatto”.
12
Come abbiamo detto, i giovani immigrati che si iscrivono a una scuola media superiore e arrivano
agli ultimi anni di corso sono passati attraverso un lungo processo di selezione. Per alcuni non
traumatico, persino segnato da positive esperienze di comprensione e collaborazione. Come
Younes, figlio di genitori poveri e senza titoli di studio, che ora fa il liceo e ricorda di essere stato
sostenuto e incoraggiato a proseguire gli studi sin dalle medie inferiori: gli è sempre stata data
fiducia dagli insegnanti: “Mi hanno messo subito in seconda elementare, non ho perso anni, come
alcuni miei amici che sono più grandi di me e ora addirittura fanno una classe in meno. Invece a
me hanno inserito subito in seconda e hanno fatto bene, anche se sono arrivato gli ultimi due mesi
di scuola. In quella classe mi sono trovato molto bene, soprattutto ho avuto delle maestre che non
ho mai avuto persone così... mi hanno aiutato tanto. [Alle medie]: Professori sempre ottimi, ho
avuto tra l'altro un professore in terza media, che è stato davvero straordinario, forse il migliore
che ho mai avuto, ci faceva lavorare abbastanza, pretendeva ma dava anche... insomma un vero
prof. [...] Ho sempre incontrato delle ottime persone, preparate, che mi han sempre lasciato
qualcosa. (int. 128).
Molti altri invece serbano ancora il ricordo traumatico di bocciature, di anni persi, di pressanti
consigli a preferire corsi “facili”. Non pochi, infatti, si erano inizialmente iscritti nei licei o in altri
istituti superiori, da cui però sono stati respinti o in cui “non si sono trovati bene” con gli
insegnanti, con alcune materie di studio o con i compagni: indicazioni generiche che andrebbero
approfondite e interpretate. I licei restano in ogni modo una roccaforte difficile da espugnare: le
lingue, l'italiano ma anche il latino o la lingua straniera, hanno impedito a più di uno studente di
proseguire, anche quando aveva un buon profitto in altre discipline. Molto sovente essi avvertono
questi episodi come torti subiti, come ingiustizie ormai senza rimedio. Sembra in effetti che molte
scuole non adottino i pur previsti protocolli (ossia procedure di inserimento basate su criteri
oggettivi, trasparenti e condivisi) nei confronti degli studenti provenienti dall'estero e continuino a
iscriverli in classi di livello inferiore a quello già ultimato in patria o a proporre ripetizioni di anni in
funzione dell'apprendimento dell'italiano. Quanto meno, al di là dei giudizi sui casi singoli, non
sembrano in grado di dare un senso accettabile per lo studente a queste scelte. Persino alcuni
insegnanti di lettere concordano sulla apparente assurdità di bloccare l’accesso a un indirizzo
scolastico per la necessità di apprendere meglio la lingua, cosa che normalmente avviene con una
certa rapidità. E’ probabile che la soluzione vada trovata non invocando comprensione o
clemenza, ma rinforzando i corsi di sostegno e prevedendo un diverso sistema di debiti formativi.
Un effetto oggettivo di questi inserimenti in classi inferiori è che molti studenti di origine straniera
sono più vecchi dei loro compagni e si trovano ancora a scuola a oltre venti anni, anche quando
non sono mai stati formalmente respinti.
13
La xenofobia estende un'altra ombra sul percorso dei giovani immigrati. Non è un problema che
venga sollevato in prima istanza, in genere prevale una giudizio positivo sui rapporti con i
compagni, ma risulta nelle interviste che quasi tutti sono passati attraverso episodi e situazioni più
o meno sgradevoli. Al di là delle ragioni per cui sono avvenuti questi episodi, il risultato pratico è
ancora una volta che essi hanno dovuto rendersi conto della non totale equiparazione agli altri, di
una minore legittimità della loro presenza, di un rischio latente che occorre sempre saper
fronteggiare.
Negli anni di corso prosegue la selezione: chi non si adatta alla scuola e non ne accetta la logica
viene rapidamente eliminato. Gli istituti professionali offrono, almeno sino al momento in cui
abbiamo realizzato la ricerca, la possibilità di conseguire un diploma professionale al terzo anno.
Alcuni studenti colgono questa occasione per concludere il ciclo formativo con un titolo e cercare
lavoro, ma per altri avere comunque raggiunto questo obiettivo è un incoraggiamento a
proseguire verso il diploma di maturità: in qualche modo la disponibilità di una “via di fuga” dalla
scuola in caso di difficoltà potrebbe contrastare la dispersione scolastica 13.
In questa fase l’intervento dei genitori sembra poco incisivo: quasi nessuno spinge a lasciare la
scuola per il lavoro, anche perché l’alternativa non si pone più in termini così netti di fronte a
lavori precari e incerti, e prevale, come abbiamo visto, l’incoraggiamento generico a proseguire gli
studi. Ma i parenti non sembrano in grado di valutare le conseguenze delle scelte di indirizzo, non
più che della scelta della scuola a cui iscriversi, né di trovare contatti e informazioni per gli stage o
per i primi passi verso una professione. Anche quando i genitori hanno studiato, le loro
conoscenze sono obsolete, fanno riferimento a un mercato del lavoro ormai cambiato e a
esperienze didattiche del passato, che possono persino risultare controproducenti nei rapporti con
la scuola dei figli (Delay, 2011). Il loro attuale inserimento lavorativo in Italia non consente, di
solito, di aggiornare le loro informazioni e di avere legami con settori innovativi e in sviluppo. In
qualche caso possono supplire fratelli e sorelle maggiori, che intervengono direttamente per
orientare o sostenere nel percorso scolastico. Dalle interviste risultano poche significative
discussioni con fratelli e sorelle sul tema della scuola, in qualche caso si prendono persino le
distanze da essi, ma forse questa apparente assenza indica semplicemente che i giovani non fanno
discussioni formali sul tema delle scelte scolastiche con fratelli e parenti, ma di fatto hanno ben
presente l’esempio e le indicazioni informali da questi fornite.
13
14
Andrebbe approfondita l’analisi degli effetti sull’eguaglianza di opportunità tra figli di immigrati e autoctoni della
numerosità (e della moltiplicazione) degli indirizzi di studio, della posizione dei corsi di formazione professionale
rispetto al sistema scolastico, della possibilità di ottenere diplomi intermedi nel corso degli studi. Interessanti
risultati comparati sui sistemi formativi di alcuni paesi europei sono pubblicati sul sito del progetto “Bridge –
Percorsi di successo per le seconde generazioni di migranti”: http://www.bridge2g.eu/index.php
Gli studenti seguono il percorso già descritto da Becker e colleghi che porta gradualmente a
considerare la professione da un punto di vista interno – almeno per quanto possibile a uno
studente – abbandonando la visione esterna dei profani. Non solo apprendono a usare un
linguaggio tecnico, ma parlano poco di argomenti che interessano i dilettanti e vedono aspetti
positivi e negativi delle diverse attività e opportunità lavorative in termini di contenuto
professionale, di prospettive di sviluppo e di carriera, di arricchimento delle competenze. D’altra
parte molti figli di immigrati iscritti agli istituti alberghieri conoscono la cucina del paese di origine,
ma la scelta tra le diverse cucine nazionali resta sul piano tecnico, non dà luogo a particolari
considerazioni culturali o affettive nelle interviste. Queste valutazioni sono segno di integrazione
nella comunità di pratica.
La scuola è noiosa. Ma non è facile. Bisogna districarsi fra lezioni pratiche, ove si lavora
manualmente, lezioni teoriche in cui si deve invece ascoltare e l'insegnante mantiene
strettamente la disciplina e ore in cui si attende il trascorrere del tempo mentre nessuno sembra
prestare attenzione alla cattedra. Questa potrebbe essere un'ulteriore difficoltà, per tutti, ma in
particolare per i giovani immigrati: imparare a organizzarsi e dare senso a questo alternarsi di
situazioni eterogenee e contraddittorie che pure sono tutte parte integrante del loro essere
studenti.
Ma c'è anche chi invece capisce perfettamente la situazione e riesce a utilizzare la scuola senza
credere ai suoi riti. E' il caso di Mun, ventenne di famiglia povera. Si iscrive a un istituto
alberghiero, ma dopo pochi mesi il padre perde il lavoro e non può più pagare neppure la tassa di
iscrizione. Allora inizia a lavorare nelle cucine di alcuni locali, grazie alla presentazione di un
insegnante. Accetta orari gravosi e appare molto determinato: riesce per anni a mantenere se
stesso e a inviare denaro ai genitori in Marocco. Frequenta alcuni corsi di formazione brevi, legati
alla ristorazione: mentre per altri questi corsi appaiono come inutili tentativi di migliorare le scarse
possibilità di impiego, nel suo caso ne rinforzano il profilo professionale. Ora è cuoco in un
ristorante e gode di buona reputazione, ma si è nuovamente iscritto al terzo anno di un istituto
alberghiero, dopo aver recuperato anni da privatista, perché vuole irrobustire il suo curricolo “e
poi per farmi più cultura, cioè ingrandirmi in questo lavoro, saperne di più.” Lavorare e studiare è
molto gravoso per lui, vorrebbe fare quarta e quinta in un anno solo, ma gli sono chiari i
meccanismi scolastici: “Ho fatto la richiesta ma penso di non farcela perché poi trovarmi a fare la
maturità di fronte, mi sono informato, di fronte alla commissione che guarda il tuo curriculum
scolastico dice: questo com'è che ha fatto cinque anni in due anni? Ti tartassano e magari non
passi” (int. 127). In un certo senso egli ha già superato la comunità scolastica, ne ha compreso
logiche e limiti e sa utilizzarle in modo strategico, senza farsi illusioni sulla possibilità di ignorare le
15
regole del sistema e di far valere le proprie competenze professionali direttamente nella sfera
scolastica.
Nelle ore di lezione in classe a cui abbiamo potuto assistere si notava la costanza con la quale gli
studenti si sentono valutare negativamente: il loro rendimento è scarso, il comportamento
scorretto, i risultati finali dubbi e soggetti alla necessità di sempre nuovi sforzi. Non mancano
riferimenti ad altre classi o istituti in cui i risultati sono migliori e la presenza di stranieri è
segnalata come una possibile fonte di problemi. E' quella chaîne du mépris di cui parlano Dubet e
Martuccelli (1996: 250). Non si tratta di accusare gli insegnanti di insensibilità: è una questione
strutturale, la scuola si propone anche negli anni terminali di istituti non particolarmente
problematici dal punto di vista sociale come una struttura di sorveglianza, disciplinamento e
punizione. Sarebbe necessaria una osservazione più lunga e sistematica per valutare se questa
pressione si eserciti in modi o quantità differenti sugli alunni stranieri 14 ma l'effetto di un
trattamento eguale su giovani di origine immigrata che hanno già fronteggiato difficoltà di
inserimento ed episodi di discriminazione può essere comunque più negativo. Anche se gli
studenti sembrano indifferenti a queste valutazioni negative, è difficile pensare che esse abbiano il
solo effetto positivo di spingerli a migliorare. Piuttosto possono confermare il loro scarso valore
come studenti, l’inutilità della scuola e dell’investimento in essa, l’ineluttabilità di una integrazione
subalterna. Un ragazzo rumeno si è fatto fama di ribelle scomparendo semplicemente un giorno
dal liceo, mentre veniva accompagnato a un corso di italiano. “Non avevo neanche capito cosa
volessero” sostiene. Ora è iscritto all'alberghiero, è all'ultimo anno. Non si può dire un caso di
dispersione scolastica o di insuccesso, ma durante le lezioni il suo sguardo è assente, sembra
considerare dall’esterno le piccole vicissitudini della classe. Pochi riescono a invertire questa
logica: come Anka (int. 118) che ha un lavoro, studia a casa e viene a scuola solo per superare le
interrogazioni, opponendo il suo ottimo profitto ai rimproveri per le numerose assenze e alla
richiesta di recuperare le lezioni perse. Come Norman (int. 123) che supera le interrogazioni e
l’esame di maturità grazie alla sua abilità dialettica pur avendo fama di alunno distratto e
indisciplinato.
L'altro elemento che abbiamo notato nelle ore di osservazione diretta, abbondantemente descritto in letteratura (Geer, 1968), è la continua negoziazione dell'ordine in classe. Vi è una costante
trattativa sui comportamenti, a partire dalle ripetute richieste di poter uscire dall’aula, ai richiami
agli alunni indisciplinati, ma anche un frequente ricorso all'umorismo e alle battute 15.
14
16
Ma alcune indagini empiriche recenti confermano, nei casi studiati, che questa differenza esiste, anche se può
intrecciarsi alla dimensione di classe sociale (Rapari, 2007; Delay, 2011).
I figli di immigrati, ancora una volta, non si distinguono in modo evidente in questa negoziazione, o
almeno non sulla base di una breve osservazione. Alcuni sembrano perfettamente in grado di
apprendere e applicare le regole del gioco. Altri sembrano invece ai margini, taciturni e
indifferenti. Andrebbe valutato quanto la negoziazione e gli scherzi possano apparire loro estranei,
forse pericolosi (la battuta xenofoba è sempre possibile), forse infantili.
6. Impara l'arte e mettila da parte, perché non serve?
Gli istituti da noi studiati prevedono nei loro programmi sia lezioni pratiche, sia stage presso
imprese. L'esperienza del lavoro – quello a cui dovrebbe prioritariamente destinare il corso – è
quindi parte integrante del curricolo scolastico. Qui avviene, ma non per tutti e non nello steso
modo, il primo contatto con una nuova comunità di pratiche, con i professionisti. Le lezioni di
cucina e sala degli istituti alberghieri non sono simulazioni: già al primo anno gli alunni preparano
e servono i pasti che vengo consumati nelle mense dell'istituto. Non è sempre ovvio,
all'osservatore esterno, quali siano le dinamiche: vi sono relativamente poche istruzioni verbali,
lunghi minuti di apparente inattività, in cui gli studenti parlano fra loro o osservano altri che
manipolano cibi e attrezzature, si alternano a momenti di lavoro frenetico in cui ognuno trova il
proprio posto. Gli alunni stranieri non sembrano essere trattati in modo diverso dagli altri, ma in
generale è evidente che alcuni studenti si muovono con maggiore abilità e sicurezza. Gli
insegnanti, che circolano fra i gruppi di lavoro e partecipano alla preparazione, non esercitano un
controllo visivo “panoptico” su tutto il gruppo, come nelle lezioni frontali in classe. Confermano
però di saper valutare rapidamente gli studenti. Questa valutazione – basata presumibilmente sul
comportamento, sull’attenzione, sulla abilità manuale – sembra alla base di una doppia selezione.
Anche le discipline pratiche sono selettive e alcuni studenti sono respinti. Ma avviene una ulteriore
valutazione: i docenti di materie tecniche individuano fra gli allievi quelli che sembrano possedere
competenze e interesse per diventare professionisti, per poi segnarli ai locali più interessanti per
qualità del lavoro e prospettive di carriera, giocando così un ruolo rilevante nell’integrazione
lavorativa.
15
17
I motti di spirito e gli scherzi verbali hanno un ruolo significativo nell'interazione fa allievi e insegnanti e tra gli stu denti. Questo comportamento può essere analizzato nei termini del joking behaviour di Radcliffe-Brown: il joking
behaviour è tipico di strutture di relazione fra persone tra le quali vi è al contempo legame e separazione. In questi
casi si può avere sia rispetto esagerato, sia burla. Sono modi alternativi di mantenere una particolare relazione che
l’antropologo britannico definisce di consociation in cui vi è una tensione non risolvibile tra le parti, che deve essere controllata per non esplodere in conflitto (Radcliffe-Brown, 1940). E' anche una “tecnica di sopravvivenza” degli
insegnanti per controllare il conflitto, che pure adombra una potenziale aggressività (Woods, 1977).
Con gli stage in azienda gli studenti entrano in contato con il mondo del lavoro. Nel caso di istituti
industriali o per odontotecnici, il giudizio degli studenti è che si tratti di una esperienza poco utile.
Materiali e macchinari sono costosi e delicati e le imprese non vogliono rischiare errori o guasti: gli
stagisti lamentano di essere utilizzati per fare pulizie o per altre attività marginali. L'eccezione in
questo caso è uno studente di origine cilena che invece è riuscito a farsi presentare a un
laboratorio odontotecnico e da alcuni anni fa pratica regolarmente. Egli conferma però l’idea,
condivisa dai compagni, che vi sia una distanza notevole fra le tecnologie insegnate dalla scuola,
che considera limitate e antiquate, e il ben più complesso e aggiornato lavoro richiesto nei
laboratori (int. 91). L'istituto alberghiero, a detta anche dei dirigenti, soffre meno di questo gap
tecnologico. Interrogati sulle loro impressioni, praticamente tutti gli stagisti di questi istituti dicono
che la maggiore differenza sono i ritmi e i carichi di lavoro. A scuola si ha molto tempo a
disposizione per preparazioni programmate, il personale è sovrabbondante e c'è modo di
rimediare agli errori. Sul posto di lavoro si deve reggere un ritmo molto intenso e per un lungo
tempo. Ancora una volta invece i contenuti tecnici del lavoro sembrano meno problematici: anche
se lo stile di servizio o il tipo di cucina variano molto fra un hotel di lusso e una pizzeria di
quartiere, ci sia adatta rapidamente alle richieste (ma forse i meno abili non verranno inviati ai
locali più esigenti). Sembra più una questione di relazioni con i colleghi e i proprietari che di
tecniche apprese da mettere in pratica. I buoni rapporti dichiarati con i datori di lavoro possono, in
certi casi, celare una divisione di ruoli che non esclude tensioni e ostilità (Perrotta, 2011): il “buon
padrone” è semplicemente colui che non si comporta peggio di quanto ci si aspetti. In genere però
i giovani intervistati sembrano apprezzare la possibilità di lavorare con colleghi o con chef
relativamente giovani che hanno con loro un rapporto collaborativo e che non esercitano su di
loro un controllo scolastico.
Gli orari di lavoro risultano presto un punto cruciale, confermato anche dai docenti dell'istituto e
dalla letteratura sociologica sulle attività di ristorazione (White, 1949; Fine, 1996; 2003). Le ore di
lavoro contrattuali sono sovente superate – dovendo restare nel locale dopo la partenza degli
ultimi clienti, per riordinare e pulire anche sino a notte fonda. Il tempo di lavoro poi coincide con
quello in cui normalmente si frequentano amici e si ha una vita familiare: le ore dei pasti e le
festività. Questo fa sì che i professionisti finiscano per avere una scarsa vita di relazioni, se non con
colleghi di lavoro e che il lavoro possa interferire con la vita familiare. Alcune attività poi sono
possibili solo da giovani: è difficile trovare lavoro come cameriera o reggere certi ritmi nei locali
notturni dopo una certa età.
D'altra parte è necessario crearsi progressivamente una buona reputazione prima con gli
insegnanti di materie pratiche, poi con i datori di lavoro, i maître o gli chef de cuisine per poter
18
trovare nuove occupazioni (o migliorarle): i legami, anche deboli, con amici e colleghi di lavoro
possono a loro volta servire per trovare e impieghi più o meno occasionali anche al di fuori del
circuito strettamente professionale. Nella costruzione di questa rete di relazioni possono pesare
molti fattori, dalla abilità professionale alla capacità relazionale, alla disponibilità ad accettare
proposte senza preavviso e in condizioni non ottimali, ovviamente. Ma contano anche situazioni di
fatto e propensioni personali: Ana, (int. 115), diplomata con buoni voti all'alberghiero e con
esperienza di sala e bar, non può accettare lavori nei locali che chiudono a notte fonda perché non
può usare l'auto del padre16 e non osa rientrare a casa da sola. Questo le preclude una serie di
possibili impieghi. Norman (int. 123) invece si è diplomato in un istituto professionale per grafici,
ma lavora da tempo nelle birrerie, ove è apprezzato il fatto che sia anglofono: il lavoro di notte in
questi locali affollati si concilia con le sue reti di amicizie personali e con il desiderio di fare nuove
conoscenze, ed è uno stile di vita che gli è congeniale, anche se non esente da rischi.
Molti studenti hanno esperienze di lavoro anche al di fuori degli stage. Alcuni sono figli di
ristoratori. Sono pochi fra gli immigrati e la scelta è meno ovvia del previsto: Manuele, studente
dell'alberghiero di Pinerolo è figlio del proprietario di un ristorante cinese. Ma quando gli viene
chiesto se pensa di continuare l'attività di famiglia, dice che hanno ceduto il ristorante da qualche
anno e ora gestiscono un negozio di abbigliamento. Anche il fratello studente universitario lavora
in un negozio (int. 15). Quello che conta è la redditività, non una inesistente tradizione familiare.
Altri svolgono attività occasionali. In alcuni casi esse hanno poco o nulla a che fare con il corso di
studi (assistente domiciliare, pulizie domestiche, baby sitter; all'istituto industriale alcuni hanno
lavorato in fabbrica, ma con mansioni non attinenti al corso di studi). Molti lavorano come
camerieri o aiuto cuoco. In questo caso il problema per gli studenti degli istituti alberghieri può
derivare dal trovarsi a lavorare con altre persone che non hanno alcuna formazione o hanno
seguito solo brevi corsi. Gli studenti intervistati da un lato accolgono la visione ufficiale degli
istituti: che essi hanno un potenziale patrimonio di competenze in igiene, economia, lingue che li
prepara ad assumere maggiori responsabilità in futuro. Dall'altro l'atteggiamento verso il lavoro
occasionale sembra molto pragmatico: serve a guadagnare, può servire a conoscere e farsi
conoscere, ma non è il luogo per rivendicare maggior prestigio rispetto ai colleghi non qualificati.
Quando si entra invece in una comunità di lavoro professionale, la relazione fra compenso, compiti
e posizione nella gerarchia interna contano molto.
L’approssimarsi dell’esame di maturità ripropone il problema della scelta. Molti escludono di
proseguire all'università: una delle ragioni più spesso addotte è l'età, come già ricordato. Dopo
16
19
La vecchia automobile del padre, infatti, ha una cilindrata superiore a quella che la giovane neopatentata può
guidare: una norma pensata per impedire l’utilizzo di potenti automobili da parte di giovani presumibilmente
benestanti ha l’effetto di limitare le possibilità di occupazione per altri giovani con redditi familiari modesti.
anni persi per ripetenze o inserimenti in classi di età inferiori, a oltre venti anni si desidera uscire
da un ormai lungo percorso scolastico. L’università appare a molti più la prosecuzione del
precedente percorso scolastico, con i suoi limiti e le sue incertezze, che l’accesso a una formazione
che garantirà un futuro lavorativo migliore e più sicuro. Ma anche la presenza di corsi universitari a
numero chiuso scoraggia: l'idea di investire tempo ed energie per una prova che si ritiene molto
improbabile superare (e che si sospetta viziata da favoritismi) fa sì che molti iscritti a
odontotecnica non pensino di tentare il corso universitario coerente. Qualche studente
dell’alberghiero pensa comunque di iscriversi a scienze dell'alimentazione o a economia. La
presenza di sbarramenti iniziali ai corsi universitari a numero chiuso sembra avere l'effetto (si
spera non voluto) di scoraggiare in partenza questi studenti, non meno preparati dei loro
compagni italiani, ma su cui hanno già gravato difficoltà varie – ritardi, ostilità, famiglie con redditi
bassi – facendo loro rinunciare a tentare. Con un sistema più aperto forse alcuni avrebbero
comunque abbandonato nei primi anni, ma avrebbero avuto almeno la possibilità di mettersi alla
prova.
Per quasi tutti comunque la fine della scuola non è attesa come il passaggio netto al lavoro, ma in
qualche modo come la continuazione di attività incerte, precarie e frammentate che si erano già
sperimentate negli anni precedenti. Lo status giuridico non sembra la prima preoccupazione dei
giovani di origine straniera, come si poteva immaginare: molti hanno la carta di soggiorno, se non
la cittadinanza italiana, e gli altri ritengono comunque di poter far fronte al rischio del rinnovo del
permesso di soggiorno, se troveranno una qualunque occupazione.
Più preoccupante sembra il fatto che la aspirazione a lavori “non da immigrato”, alla mobilità
sociale ascendente rispetto ai genitori, sovente indicata come una caratteristica di questi giovani,
si scontri con un mercato del lavoro che continua a offrire occupazioni poco qualificate e precarie
per tutti e costringe, realisticamente, ad accettare queste opportunità. Se per i figli degli immigrati
meridionali a Torino negli anni sessanta e settanta ottenere un diploma significava quasi sempre
poter abbandonare il lavoro manuale (sovente per le donne come casalinga) dei genitori, per
questi giovani immigrati la situazione è più complessa: i cattivi lavori, il precariato, le attività senza
prospettive di sviluppo si possono annidare ovunque. Non è possibile per essi tracciare un solco
netto con l’esperienza dei genitori.
Vi sono possibili e significative eccezioni: in particolare alcuni hanno parenti nei paesi di origine o
in altri paesi di emigrazione che si sono offerti di aiutarli a trovare lavoro o almeno di assisterli in
una nuova migrazione. E' difficile dire se queste reti transnazionali siano davvero in grado di offrire
alternative o se restino una speranza, un sogno nel cassetto: nella crisi attuale questa potrebbe già
essere per essi una risorsa.
20
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