Il giornale di Socrate al caffè n. 71
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Il giornale di Socrate al caffè n. 71
N u m e r o s e t t a n t u n o - N ov e m b r e 2 0 1 1 I ’A P Sisto Capra T u conoscono Roberto Vec‐ chioni cantautore. La canzo‐ ne “Chiamami ancora amore”, con cui ha stravinto il Fes val di Sanremo 2011 e che dà il tolo al suo ul mo album, non è che l’en‐ nesimo coronamento di una carriera quaran‐ tennale costellata di grandi successi. Canzo‐ ni come “Luci a San Siro”, “L’uomo che si gioca il cielo a dadi”, “Il re non si diverte”, “Samarcanda”, “Voglio una don‐ na” sono celeberrime. Ma Vec‐ chioni è anche professore e scri ore di successo. Pavia lo conosce pure come docente del‐ la sua Università. Dopo aver in‐ segnato la no e greco per oltre trent’anni nei licei, Vecchioni con nua la sua a vità di inse‐ gnante presso svariate universi‐ tà italiane e straniere. Dal 2006 ene a Pavia il corso “Forme di poesia in musica”. Analoghi corsi ha tenuto presso la facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Torino dal 2001 al 2003 e all’Università di Teramo nel 2004‐2005. Abbiamo assis to alla lezione inaugurale del suo corso, l’11 o obre scor‐ so, presso il CIM (Comunicazione, Innovazione, Mul medialità) dell’Università di Pavia. Il corso di quest’anno, che si ar cola in due lezioni se manali, è dedicato alla can‐ zone di protesta. Nell’occasione Vecchioni ha rilasciato al “Giornale di Socrate al caffè” l’intervista che segue. rofessor Vecchioni, che cosa rappresenta la canzone di protesta oggi in Italia? a canzone di protesta ha un excursus storico lunghissimo. C’è sempre stata, perché c’è sempre stata protesta nel mon‐ do, perché le ingius zie sono la coloritura nega va, purtroppo, di tu a l’esistenza e la canzone è il mezzo più rapido, più veloce e, direi, anche più popolare e più a vo per poter dimostrare que‐ sto dissenso nel mondo. Oggi la canzone di protesta è fervente; ma noi qui, in questo corso all’U‐ niversità di Pavia, non s amo a fare né ribalderia poli ca né rivo‐ luzione in aula. Non è questo che mi interessa. Io voglio soltanto fare un lavoro quasi scien fico, quasi illuminis co. Ci facciamo, sì, prendere dalle emozioni, dai sen men e dal desiderio di esprimere la bellezza e la giustez‐ za della canzone di protesta, ma sopra u o esaminiamo dal pun‐ to di vista metodologico quali pi di proteste esistano, a quali livelli arrivino e di quale bellezza e in‐ tensità siano. La gamma è vasta: si va dalle proteste più dozzinali, di tu i giorni, a quelle più evolu‐ te, più giovanili e più for . uali pi di protesta ci sono oggi? e ne sono varie forme. Una è quella esistenziale, che non ha niente a che vedere con il vi‐ vere, con la poli ca, con gli uomi‐ ni e con il potere. La protesta per come sono io, per le sofferenze che devo subire, per il male, il dolore, l’ingius zia. Una protesta, quindi, metafisica. L’abbiamo già discussa nel corso dell’anno acca‐ Q C Pagina 11 te e ci sfugge dall’altra. Ed è una protesta contro la miseria, le di‐ scriminazioni sociali, la disegua‐ glianza non solo di diri ma an‐ che di capacità e possibilità di essere ascolta , di contare e di valere. E poi c’è la protesta con‐ tro il lavoro che manca, contro le ca ve poli che, contro cer gruppi is tuzionalizza come la mafia, il bandi smo, certe se e che perseguono interessi priva contro quelli pubblici. La protesta contro chi è an democra co. Bisogna definire esa amente che cosa è la democrazia. Bisogna P L nestrare tu o ciò che è sbagliato e opprimente per la gente. ggi non si riesce a prendere la società per il verso giu‐ sto. Viviamo immersi in questa crisi che non sappiamo nemme‐ no definire. E non siamo in gra‐ do di uscirne. La crisi è globale, investe l’Italia, l’Europa, il mon‐ do. E poi abbiamo l’enorme con‐ traddizione tra l’area del benes‐ sere e l’area della povertà, che cresce sempre di più e rischia di travolgerci. Come ne usciremo? O Q demico scorso, ma la rivediamo anche quest’anno. Poi c’è la pro‐ testa vera e propria per il non riuscire a vivere, a sopportare, a capirsi con i propri simili. Una protesta, questa, che deriva da un potere che subiamo e che non possiamo, né vogliamo né dob‐ biamo subire. Questo potere è insinuante, malefico, può essere in una persona determinata, e allora è più facile, quando lo ab‐ biamo scoperto, indirizzare i no‐ stri strali. O può essere qualcosa di più indeterminato che non sappiamo cos’è, che serpeggia nella società e non sappiamo as‐ solutamente andare a colpire, perché lo prendiamo da una par‐ contrastarne la degenerazione, ogni volta che dietro la parola democrazia si cela è qualcosa che non è per il popolo e del popolo. Non si de a una democrazia al popolo: è il popolo che la de a a sé stesso. Poi non si parla solo di protesta, ma anche di dissenso generale e di speranza. Bisogna infa guardare anche alla parte posi va della protesta: in molte canzoni si sente un’aria nuova, che qualcosa sta cambiando in Italia. Il male del passato viene digerito, metabolizzato e scartato dai giovani. Il problema è riuscire a capire che cosa significhi stare dalla parte del giusto e s gma z‐ zare, incolpare, accusare e defe‐ «V uesto non lo so. Io non so‐ no un teorico delle uscite, e nemmeno un pra co. Posso essere un teorico delle entrate, posso leggere abbastanza bene perché siamo arriva a questo punto. Assis amo all’involuzione normale di un mondo. Penso ai privilegi che ci sono sempre sta : i momen di grande pace comu‐ ne, di affratellamento, sono brevi; poi riprende a comandare chi ha più voce, è più forte, è più ricco. Questo è avvenuto in tu i mo‐ men post‐rivoluzionari. Purtrop‐ po è un vezzo dell’umanità torna‐ re sempre al principio, alla situa‐ zione per cui lassù uno comanda e gli altri giù obbediscono, anche per una debolezza congenita, per carenza e povertà di mezzi, ma pure per l’arroganza e la capacità di rica o da parte di chi sta so‐ » pra. Oggi il fenomeno è al massi‐ mo. A furia di fare, siamo arriva a un mondo in cui il ven per cen‐ to dell’umanità possiede tu o e l’altro o anta non ha nulla. Così è, e siamo colpevoli, tu quan . Colpevoli di non aver messo a fru o gli orrori delle due guerre mondia‐ li, delle terrifican guerre in Vietnam, nel resto dell’Asia, in Medio Oriente, in Africa, delle inimicizie e incomprensioni tra i popoli. Colpevoli per non aver voluto rinunciare a parte delle proprie idee, per non aver saputo abbassarci, sacrificarci, per non essere sta pazien con gli altri. L’altra cosa dramma ca della ci‐ viltà è la fre a. Noi corriamo più lentamente di quanto corra il pro‐ gresso. Noi costruiamo con nua‐ mente cose che spesso non sap‐ piamo usare; mezzi anche straor‐ dinari che ci consentono di arriva‐ re in un secondo in ogni parte del mondo. La globalizzazione è que‐ sto: produrre, produrre, produrre un’infinità di cose che non riu‐ sciamo nemmeno a consumare. Abbiamo addosso una sorta di dramma co mito dell’apprendi‐ sta stregone: dobbiamo con ‐ nuamente mol plicare le cose, ci crediamo un po’ Dio, di essere dei piccoli dei, mentre il novanta per cento dell’umanità non riesce a tenere dietro a ciò che s amo esageratamente costruendo. In questa società ci vorrebbe meno fre a, più tranquillità, più sereni‐ tà e più capacità di aspe are co‐ loro che sono dietro, in ritardo e non ce la fanno a reggere il ritmo che crediamo di imporre loro. er la società italiana, per lo Stato, per l’Italia che cosa si aspe a, quali sono le sue previ‐ sioni? ull’onda di quest’anno sono abbastanza o mista. Si è vista una bella onda democra ca. Si è vista alle elezioni amministra‐ ve, ai referendum. Si è vista la novità degli studen che hanno più coscienza, più consapevolezza di ciò che hanno davan , del dramma del proprio futuro. Si sono vis i movimen femminili, importan ssimi. Insomma, di fi‐ ducia ne ho tan ssima. Ma il pro‐ blema è vedere se tu o questo durerà. Uno dei limi dei demo‐ cra ci è l’eccesso di cri ca. Anche le persone di centrosinistra sono affli e dal problema della fre a spaventosa che questa democra‐ zia sia subito operante. Appena si verifica un errore, subito cri ca‐ no. Sono meno cri ci, invece, coloro che a destra seguono co‐ mandi precisi, sono più arrende‐ voli, stanno di più al gioco. Il no‐ stro dramma di democra ci è proprio la nostra intelligenza, l’ipercri cità. Speriamo di domi‐ narlo. P S Pagina 12 Pç½®«®ÃÊ çÄ ÝãÙããÊ ½ ÊÙÝÊ “FÊÙà ® ÖÊÝ® ®Ä ÃçÝ®”, ãÄçãÊ RÊÙãÊ V«®ÊÄ® ½ CIM ½½’UÄ®òÙݮ㠮 Pò® ÖÙã®Ù ½½’11 ÊããÊÙ 2011. “ Cantare contro” nasce da un senso di innata giustizia svilito, di fronte al quale l’anima non si sente più rappresentata dalla realtà che la circonda e la imbeve: una scommessa, dunque, e nemmeno tanto ipotetica, contro il disagio di sentirsi quasi sempre perdenti, confusi, smarriti, ai margini della struttura sociale così attanagliata al profitto e all’interesse, al guadagno e al sopruso, in una parola al potere inteso come complesso di contorsioni e aggiustamenti a uso privato di tutto ciò che dovrebbe essere pubblico, di tutti. La storia dell’umanità è una lunga lenta battaglia tesa a eliminare a uno a uno il maggior numero possibile di “non è giusto”, “non è giusto che la ruota non giri”, “non è giusto che gli uomini si uccidano”, “non è giusto che non siano tutti uguali”: questa è stata la forza dirompente attraverso i secoli, la luce inestinguibile che sommerge solitudini, fallimenti e disperazioni, assumendo di volta in volta nomi di ogni genere (idealismo, utopia, carità, fratellanza, rivoluzione), spesso rappresentativi di fedi e speranze che partono da basi completamente diverse, ma alla fin fine convergono su una medesima meta. “Essere contro” significa quindi innanzitutto “essere in”, “farsi” mondo, trasmettersi, cercare armonie e regole, convocarsi e battersi in prima persona, dichiarando il proprio diritto a una felicità di base che altri, pochi ma potentissimi, ci costringono a cercare non nelle idee ma nelle cose, nell’effimero, nel “mordi e fuggi”, perché così conviene loro. (…) Cambiare il mondo con una canzone P uò una canzone cambiare il mondo? Anzi, partiamo ancora da più lontano: può l’arte, in qualsiasi sua espressione, risvegliare a tal punto la coscienza mondiale da costringerla a un “mea culpa” planetario che va dalla distruzione delle foreste fino alla favola infinita della notte di mezza estate di Shakespeare? La risposta è in- discutibilmente no. “Nessuna poesia mi ridarà mio padre o il mio amore perso in una notte, nessuna canzone batterà mai il dolore”, scriveva Juan Gelman, poeta argentino. E non lontani sono il verso di Fortini sui partigiani perduti per sempre o il cuore di Ungaretti che è “il cimitero più grande”. D’altronde non erano riusciti né Gilgamesh né Orfeo a vincere la morte. La nostra, quella che l’arte combatte, certo è una morte simbolica (“La morte si sconta vivendo”), è la morte della giustizia e della verità, qui sulla terra, ma poco cambia. (…) L’arte non batte il progresso, al massimo gli si accosta e lo estetizza (architettura, design) o lo comprime e stigmatizza (pittura, cinema), con l’estensione “dechappante” di un lamento o al massimo di un pernacchio. Ma accettandone i luoghi e i costi l’arte si fa comunque complice del progresso. L’arte non batte la scienza, asservita all’utile, al guadagno, agli interessi di giganti industriali. E non batte quelle strategie divinizzate dal vivere che si chiamano economia e finanza, dove il petrolio non ascolta musica e i numeri delle Borse non conoscono parole. ROBERTO VECCHIONI DURANTE DEL SUO CORSO NELL’AULA 5 D A DESTRA, CON SISTO CAPRA, N L’arte non fa legge l’arte salva vita I n questo panorama l’arte consola o incita, tutt’al più ci incolpa per non essere riusciti a seguirla e ascoltarla. Ma se l’arte vincesse su tutto questo, come ci troveremmo? Io penso che un mondo totalmente governato dai sentimenti e dalla bellezza si sfalderebbe e si perderebbe. L’arte non fa legge, l’arte salva la vita. La nostra commozione davanti a un film, la nostra rabbia al teorema angosciante di un popolo sottomesso, le nostre lacrime per un verso bellissimo corrono su una parallela che insegue all’infinito quell’altra linea, quella della realtà, della civiltà incivile, dei parametri ribaltati. (…) L’arte non cambia il mondo perché il mondo era ma non è più arte. Stabilito che l’arte non organizza il mondo, perché non può e non sa farlo, perché non sa darci meraviglie economiche, perché non si può dormire sui quadri o mangiare la musica, tutti noi dobbiamo “essere contro” e “cantare contro”. L’arte deve “essere contro”, la canzone deve esserlo, perché nella sua a volte folle interpretazione della vita non può concedere vittorie alla mediocrità, al caso, alle piccole volpi roditrici infami o alle grandi balene padrone degli oceani. (…) Roberto V Cantare contro è cantare per “ Cantare contro” è in realtà “cantare per”: non partiremo per una crociata pseudofilosofica aggrappandoci ai massimi sistemi di concelebrati pensatori, né ci lasceremo ingannare da “tutti” i “cantare contro”, perché ce ne sono anche di velleitari, inutili, dettati da personali rabbie trattenute o malcelate invidie. In un mondo che ha cambiato il “credo quindi agisco” dei grandi ideali nati nel Settecento in un “ho bisogno quindi agisco”, bisogna stare attentissimi prima di partire per la tangente del “tutti hanno ragione”: frignare senza controllo dando sempre la colpa a qualcun altro non è quasi mai “cantare contro”. (…) La musica popolare è country non scritto come sapete, non è Q uesto, un corso di musica popolare (POP è un’altra cosa). Come ho più volte spiegato, la musica popolare (e regionale), che mi piace chiamare “naturale”, è spontanea manifestazione “country”, spesso non scritta e solo tramandata a voce, della storia vista per lo più dal contado e dal proletariato: immenso patrimonio di cui altri ben più accreditati di me si occupano. Il mio, il vostro corso, da sempre si attiene invece alle trasforma- zioni imposte alla canzone dalla “cultura”, intesa come ripensamento, classificazione e reazione ai fenomeni (coppia, società, interrelazioni, valori nuovi e disvalori) che il progresso, il vivere urbano, la massificazione ci hanno imposto. Quindi, come già nel corso su Dio e i cantautori, noi indagheremo il pensiero comune e perfino gli stereotipi avvalendoci non solo di brani pensosi e particolari, ma anche di alcune cosiddette “canzonette”, che sono lo specchio più immediato del disagio generale, il riflesso senza fronzoli di una protesta attuale e in linea coi tempi. Siur parùn da li beli braghi bianchi I n altre parole, ciò che poteva essere una volta “Sciur parùn da li beli braghi bianchi” o “Il treno per Reggio Calabria” è oggi ravvisabile in altre forme cantate di indignazione e speranza, perché la trasformazione (progresso?) culturale ha creato nuove icone di potere e sopraffazione, in linea col mutato concetto di lavori, integrazione, persino fede; e la canzone oggi fa da contro-coro a questo nuovo che avanza e ci comprime: altro è il padrone che non paga il bracciante, altro una scuola intasata che non trova posto per i precari. L’ingiustizia ingiustizia resta, ma cambia volto, si fa malattia infettiva e, se una volta bastava scalzare il padrone, ora le cose sono molto più complicate, perché è il vivere tutti insieme che si è dannatamente ingarbugliato. Archiloco contro il disagio politico C hiariti gli intenti del corso, resta comunque arduo compilare un prospetto universale o quanto meno nazionale del “controcanto”. (…) Società, ruoli, inganni, ipocrisie, mezzucci, odi, avversioni già ci indicano che l’intruppamento in una sola polis o città provoca sconquassi a iosa e germinazioni di fazioni e tribù, interessi privati o di clan, discriminazioni a non finire. Archiloco, giambografo e lirico greco vissuto nel 7° secolo avanti Cristo, è il primo vero musicista cantore del disagio politico. Ne ha per tutti, amici compresi. È con lui che nasce la formula di aggregazione artistica destinata ad avere immensa fortuna nei secoli a venire: il simposio (che significa “bere insieme” e quindi frequentarsi) è il luogoevento tipico della gaudente e contestante Grecia aristocratica, una specie di caveau o cafè conc francese ante-litteram, dove gli intellettuali, i cialtroni, i dissidenti, gli scazzati in generale si danno appuntamento esibendosi ciascuno in ciò che gli è più consono: dalle tirate moralistiche agli sfottò per gli avversari, ai canti di rabbia e protesta contro un singolo o Pagina 13 alla prima grande canzone d’autore francese. Più di tutti lasceranno il segno George Brassens, Leo Ferrè, Jacques Brel. Il primo sbeffeggerà le paturnie borghesi in ballate di grande finezza sarcastica, che saranno riprese in Italia da De Andrè, Lauzi e Nanni Svampa (in milanese). (…) “Essere contro” non è sinonimo di distruggere, ma di farla finita, ricominciare, senza illudersi di aver risolto tutto. (…) E LA LEZIONE INAUGURALE DI SCIENZE POLITICHE. NEL CORSO DELL’INTERVISTA. I Cantacronache aprono la strada E Vecchioni una fazione. Con Archiloco l’ “io” irrompe per la prima volta nella poesia occidentale. (…) Con lui l’arte comincia ad accorgersi che “il mondo va male”, che “il mondo è una battaglia” e abbiamo il dovere di alzare la voce e gridare il nostro scontento. (…) Egli è dunque il primo a illuminare i due obiettivi fondamentali del “canto contro”: il cielo e gli uomini, che hanno in comune il potere, al quale rispondiamo in maniera generalmente velleitaria ed episodica (scherzi, rimbrotti, borbottii, “piove governo ladro”). È al tramontare del “mythos” e con l’avvento del “logos” (la ragione) che il canto si fa coscienza, da vaga intuizione che era. Con la coscienza il fiume degli eventi può essere arginato, incanalato in un altro letto e ci si può opporre al sopruso. (…) Nei caveaux francesi del Settecento U no dei serbatoi più carichi di indignazione è certamente quello della canzone francese dall’età moderna in poi. Dal Settecento in poi c’è in Francia un’originale mescolanza di arti della parola e loro cultori: chansonniers e poeti, insomma, andavano volentieri a braccetto scambiandosi note e versi. E questo in almeno tre periodi: prima della Rivoluzione, ai tempi della Comune di Parigi e alla nascita dell’espres- sionismo. La canzone francese moderna nasce nei caveaux, sorta di cantine in cui si riunivano già dal 1729 dilettanti e professionisti per improvvisare ballate via via sempre più provocatorie, tanto da essere chiuse cinquant’anni dopo per riaprire solo a fine secolo, ma senza il mordente originario che avevano manifestato chansonniers come Gallet, Panard o Crebillon. Ben più toste e organizzate sono le “gaugettes” del primo Ottocento, dove si esibiscono poeti vagamente epicurei e vagamente incazzati contro la Restaurazione, la Chiesa, il governo e la politica tutta. Capo spirituale di questa masnada di anarchici è il grandissimo Pierre Jean de Berarger, amico di Flaubert, Marx e Victor Hugo che lo considera il suo unico rivale, nonché di Chateaubriand, Mallarmè e Lamartine. Accolto nella società dei caveux nel 1813, fa appena in tempo a pubblicare due raccolte di canzoni che viene subito arrestato. Berarger è un idolo della gioventù liberale, una vera spina nel fianco dei Borboni e del loro assolutismo, capace di essere pungente e distruttivo nelle ballate politiche quanto scultoreo e intrigante nelle 44 canzoni erotiche. Lo imiteranno un po’ tutti e fonderanno compagnie dai nomi più bizzarri e scalcinati: gli Idiopatici, gli Incoerenti, i Monsignor Villani (cioè i ricchi pezzenti con la ricchezza dentro). (…) “Le chat noir” e il cabaret I l passo immediatamente successivo è la nascita de “Le chat noir” e del cabaret in generale, che rappresentano la spettacolarizzazione di ciò che all’origine rimaneva chiuso nelle cantine e per pochi. Il cafè conc e il successivo cafè chantant sono rappresentativi di un’età spensierata e gioiosa, la Belle Epoque, prima di intristirsi nel decadente tabarin, frutto della depressione e delle ansie causate dalla prima guerra mondiale. Il dissenso, lo straniamento, la fuga dall’ovvio, la perorazione politica, l’inclinazione al diverso e al nuovo, la sperimentazione artistica, cioè il “ controcanto” verranno sempre espressi dal cabaret, sorta di palestra intellettuale a tutto tondo, che terrà a battesimo i più significativi momenti del Novecento, dal dadaismo all’espressionismo, al surrealismo di Eluard e Breton, partendo dal centro comune quale il Cabaret Voltaire zurighese. Quando poi la Francia esprimerà l’angoscia e l’alienazione di un’umanità fermentata dal dubbio attraverso Sartre, Camus, Maritain, ecco apparire nel secondo dopoguerra quella generazione di cantanti e chansonniers che coinvolgeranno Parigi e l’amore, l’assurdità del vivere e la luce intermittente della speranza: Edith Piaf, Yves Montand, Juliette Greco. Saranno loro a spianare la strada passiamo alla canzone popolare di protesta nell’Italia di oggi. L’esperienza di gran lunga più coraggiosa per riportare in auge i valori e le tematiche della canzone popolare è senza dubbio quella dei Cantacronache, un gruppo di musicisti e letterati nato a Torino nel 1957 per opera di Sergio Liberovici e Michele Straniero. Il principio informatore, a dir poco rivoluzionario, è quello di creare una nuova canzone che contrasti con quella di “consumo”, sulle orme dell’improvvisazione popolare, proletaria, degli chansonniers francesi di prima generazione, di Bertolt Brecht e Kurt Weill. (…) Calvino, Fortini, Eco in un quinquennio lavorarono con Liberovici e Amodei per servire a interpreti come Edmonda Aldini, Glauco Mari e altri inedito materiale (Per i morti di Reggio Emilia, Oltre il ponte, la zolfara eccetera). Questo, oltre al recupero della canzoni della Resistenza e di tutta la tradizione anarcosocialista (non solo italiana), costituì un immenso sforzo per non dimenticare e unire ciò che era disperso e testimoniare la nostra storia, varia ma unitaria. Sforzo che comunque non sortì l’effetto desiderato e si affermò solo in ristretti ambienti politicizzati, dovendo fare i conti con i vari Celentano, Morandi, Modugno, nonché con la nascente canzone d’autore italiana. L’eredità dei Cantacronache fu raccolta a Milano da altri intellettuali e musicisti che nel 1962 fondarono il Nuovo Canzoniere Italiano. Anime dell’iniziativa furono il musicologo Roberto Leydi e Sandra Mantovani che, avvalendosi di autori come Ivan della Mea, Giovanna Marini, Caterina Bueno e gli stessi Amodei e Straniero, intensificarono lo sforzo di produzione e propaganda creando la celebre collana dei “dischi del sole”. Sulla scorta di questo lavorìo, altri gruppi crebbero regione per regione e presero a valorizzare le proprie tradizioni musicali, come Il Canzoniere del Lazio, La Nuova Compagnia di Canto Popolare, Napoli Centrale e singole voci come Teresa De L Ù®ò®Ä®ã ½½’IÊ. L’ÝÖÙ®Äþ ½½ FÙÄ®. I ¥ÙÃÄã® ®Ä Iã½®. Sio, Eugenio Bennato, Trincale e così via. Senza la loro propaganda oggi probabilmente non accorrerebbe da tutt’Italia mezzo milione di persone per assistere a feste popolari come La Notte della Pizzica in Puglia. (…) L’invenzione del rap A parte il rock, esiste un altro genere quasi totalmente votato al “controcanto”, essenzialmente attuale, moderno, urbano, cittadino, intento alla protesta dura e alla dissacrazione e che ha ormai assunto una sua fisionomia nazionale evidente, liberandosi dall’obbligatoria iniziale imitazione nei confronti dell’America: il rap. Il rap è essenzialmente basato su una sequenza di versi fortemente accentati, di gran rigore metrico, dove la forza non sta nelle note e ancor meno in una melodia inesistente, ma nell’accavallarsi, frangersi, urtarsi in perfetta continuità ritmica delle parole dette, recitate, non cantate ma espresse con una tale forza ammaliante che il messaggio arriva istantaneo. (…) Il rap arriva in Italia nei primi anni Ottanta e resta per molto tempo un genere u n d e r ground. I primi tentativi (Jovanotti, per esempio) risultano uguali al rap originale solo per l’incalzare delle parole, ma lontanissime sono le tematiche e le esternazioni. Poi lentamente s o r g o n o gruppi consistenti con ben altro piglio programmatico, ad esempio quelli delle Posse, attivisti nel campo politico-sociale e di rivendicazione dei diritti, che si esibiscono soprattutto in fabbriche e centri sociali. Il rap suburbano, che non strizza l’occhio a facili compromessi, matura sempre più la ricerca di uno o diversi stili, sperimenta, diffonde e mette a fuoco i contenuti, tanto che a fine anni Novanta escono prodotti considerati come pietre miliari come “Fastidio” di Kaos, “ Novecinquanta” di Fritz Da Cat, “Neffa e i messaggeri della Dopa” di Neffa; si fanno conoscere personaggi come i Gemelli Diversi. (…)