Forse un drago nascerà - Centro di Documentazione Pier Vittorio

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Forse un drago nascerà - Centro di Documentazione Pier Vittorio
“Forse un drago nascerà”: il ’77 di Tondelli attraverso Giuliano Scabia
di Gianni Cimador
È suggestivo pensare che il 10 febbraio 1977 nel corteo di “indiani metropolitani” che attraversò
Bologna e che fece esplodere il “Movimento” nella città emiliana, ci fossero anche Giuliano Scabia e Pier
Vittorio Tondelli: i loro percorsi non si intrecciano solo nell’ambito di quello straordinario laboratorio di
creatività che fu il DAMS nel corso degli anni Settanta, perché le “pratiche” teatrali di Scabia, emblematiche
delle tensioni ideali che furono alla base del Movimento del ’77, hanno avuto una risonanza significativa sulla
“pratica” di scrittura e soprattutto sulle prime opere di Tondelli, anche se lo scrittore di Correggio ha
documentato già il riflusso delle esperienze che caratterizzarono gli anni della sua formazione e non è stato
certo in prima linea nel “movimentismo” di quegli anni, rivelando di aver vissuto quella stagione “in modo più
culturale che politico, nella sua ricchezza creativa”1 e riconoscendo, a quasi quindici anni di distanza, di essere
ancora uno “spaurito studente” che “sente la propria separatezza dalle ragioni e dalle lotte degli altri come
una condanna inappellabile”2.
Scabia aveva iniziato a insegnare all’Università di Bologna nell’autunno del 1972, con il corso di
Drammaturgia 2, ed era già un esponente tra i più significativi del “Nuovo Teatro” italiano, affermatosi nella
seconda metà degli anni sessanta: dopo testi sperimentali e neo-avanguardisti come All’improvviso e Zip
(entrambi del 1965), estremamente critici verso la società dei consumi, nel 1969, subito dopo l’ “autunno
caldo”, aveva organizzato le prime “azioni a partecipazione” nei quartieri periferici di Torino, poi ribattezzate
col nome di “teatro nello spazio degli scontri”, inaugurando il metodo del “Teatro vagante” e anticipando le
modalità di generalizzazione quotidiana dei conflitti politici e culturali in tutti i luoghi del sociale, che
sarebbero state tipiche della prassi del movimento settantasettino.
Al “Teatro vagante” si collegano, tra il 1972 e il 1975, le esperienze di Forse un drago nascerà,
Marco Cavallo, Il Gorilla quadrumano e di Il Teatro vagante alla ricerca della vera storia, nelle quali viene
sperimentato un lavoro laboratoriale a partire da uno schema vuoto iniziale e vengono scelti contesti
“periferici” come l’Abruzzo, l’ospedale psichiatrico di Trieste, le montagne dell’Appennino emiliano e il
centro di Mira: in tutti questi casi, gli elementi caratterizzanti sono la narrazione partecipata, il coinvolgimento
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Cfr. Fausto Pezzato, Ragazzacci di un’Emilia americana, in “Il Resto del Carlino”, 16 febbraio 1980.
Cfr. Pier Vittorio Tondelli, La Pantera (1990), in Un weekend postmoderno, ora in Opere. Cronache, saggi,
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Seminario Tondelli, decima edizione, Correggio, Palazzo dei Principi, 12 dicembre 2009.
Intervento di Gianni Cimador :”Forse un drago nascerà: il ’77 di Tondelli attraverso Giuliano Scabia”.
della dimensione del corpo, la destrutturazione dello spazio teatrale tradizionale attraverso un oggetto gigante
dalle profonde valenze simbolico-metaforiche e il magnetismo che esso crea intorno a sé, la fantasia come
costruzione collettiva.
Il nucleo del “teatro vagante”, così come si è definito nell’esperienza abruzzese di Forse un drago
nascerà (1972), è un “furgone mascherato” con un castelletto praticabile sul tetto per le azioni all’aperto e,
all’interno, “gli oggetti con cui i ragazzi lavoreranno (colori, pennelli, carte e plastiche colorate, collanti,
forbici, cucitrici, macchina per scrivere, ciclostile, magnetofono portatile, tubi e giunti modulari per
costruzioni, scale, pedane, elementi per il drago, teatrini per burattini, maschere, costumi, etc.)”3: si tratta di un
corredo che farà esplodere la creatività dei ragazzi e che ritroveremo tra le strade e sotto i portici di Bologna
nel “fatidico” 1977.
L’idea di un laboratorio aperto, nel quale convergono una pratica partecipativa e una vigile
consapevolezza metateatrale, diventa lo strumento indispensabile per pensare una rifondazione del linguaggio
teatrale e per portare il teatro fuori dalle secche della sua ritualità convenzionale, costruendo storie e immagini
con la gente e quindi recuperando una dimensione popolare che Scabia delineava già alla fine delle azioni
torinesi, con la celebre “apparizione di Gombrowicz”: «Se volete che un cantante canti in maniera diversa,
dovete legarlo ad altra gente, farlo innamorare di altri e in un’altra maniera. Le combinazioni stilistiche sono
inesauribili, ma tutte sono in realtà combinazioni di persone, sono il risultato del fascino che l’uomo esercita
sull’uomo. La letteratura resta purtroppo un romanzo di anziani signori, innamorati gli uni degli altri e
ossequiosi gli uni verso gli altri. Coraggio! Rompete questo cerchio magico, andate in cerca di nuove
ispirazioni, lasciatevi dominare da un bambino, da un moccioso, da un ebete, legatevi a gente di diversa
condizione sociale!»4.
Il programma di Scabia, che coinvolgerà diverse fasce di una maggioranza deviante, dagli operai
ghettizzati nelle periferie ai ragazzini di una scuola di campagna agli internati del manicomio, coincide
perfettamente con quello di Tondelli che, in Senso contrario, enuncia di voler dar voce a un’ “altra Italia” che
non trova posto nella cultura ufficiale: «Ah, che due maroni questa Italia, io ci ho fame amico mio una gran
fame di contrade e sentieroni, di ferrate, di binari, di laghetti, di frontiere e di autostrade, ok? / Senti amico
mio bisogna gettarsi nelle strade senza tante scene o riflettori, bisogna cercare soltanto una frontiera e un
conversazioni, a cura di Fulvio Panzeri, Bompiani, Milano 2001, p. 152.
Cfr. Giuliano Scabia, Teatro vagante laboratorio aperto, in Giuseppe Bartolucci, Il teatro dei ragazzi, Guaraldi, Firenze
1972, p. 46.
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Cfr. Witold Gombrowicz, Diario 1953-1958, citato in Giuliano Scabia, Teatro nello spazio degli scontri, Bulzoni, Roma
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limite da scavalcare, bisogna gettare le nostalgie e i retrò, anco riflussi e regressioni, via gli interni i teatri e gli
stabilimenti. Si dovranno invece ricercare periferie, ghetti e marciapiedi, viali lampioni e cantinette, anco però
sottoscale soffitte e sottotetti, ok?»5.
Anche il “Teatro vagante” si fa camminando all’aperto, fuori dai teatri ufficiali e al di là di tutte le
griglie prefissate di genere6, si trasforma continuamente nel suo farsi, si adatta ai luoghi e alle necessità
contingenti, esprimendo sempre nuove potenzialità rispetto alle situazioni in cui si immerge e alle persone con
cui entra in rapporto, e mettendosi totalmente al servizio di una comunità fino a mettere in discussione la sua
stessa sopravvivenza in quanto testo, per mantenersi fluido e aperto alle narrazioni altrui: come ha scritto
Celati, il metodo di Scabia si apre così al possibile, accogliendo le immagini della mente quali parti e
possibilità del mondo e quindi facendosi carico di una progettualità utopica7.
Su questo piano, le “razionalizzazioni a circuito chiuso” e il “pensiero sempre armato” delle élites
rivoluzionarie si contrappongono radicalmente alla centralità del “potenziale fantastico che serve ad attivare
gli incontri e gli scambi”, sono cioè “niente di più lontano dal carretto delle virtù immaginative da portare
verso un’animazione del mondo come verso il proprio destino”8, reinventando, nello stesso tempo, la realtà
esterna e la propria interiorità: è una posizione che emerge anche nei personaggi tondelliani, per esempio
quando, in Mimi e istrioni, la Sylvia dichiara esplicitamente che “a noi non frega un cazzo dell’ideologia, ma
solo delle persone tout-court e che le alleanze si stringono sui vissuti e mica sulle chiacchiere”9, formulando il
punto di vista di un’intera generazione già marcatamente post-ideologica e disillusa ma esprimendosi ancora
con un “noi” di derivazione sessantottesca, che non rinuncia a un tono in qualche modo epico10.
Ciò che accomuna Scabia e Tondelli è prima di tutto il rapporto con l’oralità, rilanciato come
un’urgenza culturale, nel senso di un azzeramento delle convenzioni e delle forme stratificate e rassicuranti,
che vuole tradurre la “storia vera” delle persone comuni nella quotidianità e riscoprire il piacere di costruirsi
autonomamente delle storie a partire dalla propria vita, attraverso personaggi “pronti a ricevere qualunque
1973, p. 261.
Pier Vittorio Tondelli, Senso contrario, in Altri libertini, Feltrinelli, Milano 1980, p. 189.
6
Cfr. Giuliano Scabia, Scontri generali, Einaudi, Torino 1983, p. V.
7
Cfr. Gianni Celati, La nostra carne e il suo macellaio, in Giuliano Scabia, Fantastica visione, Feltrinelli, Milano 1988,
p. 11.
8
Cfr. Gianni Celati, Ricerche sull’animazione del mondo, in Fernando Marchiori (a cura di), Il Teatro Vagante di
Giuliano Scabia, Ubulibri, Milano 2005, p. 18.
9
Cfr. Pier Vittorio Tondelli, Mimi e istrioni, in Altri libertini, cit., p.62.
10
Cfr. al riguardo Renzo Paris, Scrittori di classe. Il mito del proletariato nel romanzo italiano, Ediesse, Roma 1997, pp.
165-166.
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forma; avvolti in membrane di carta”11: da questo punto di vista, sia il “Teatro vagante” di Scabia che la
“letteratura emotiva” di Tondelli mirano a riattivare un cortocircuito con il mondo del vissuto e diventano
linguaggi viventi, pulsanti, organici, scritture corporee, vocali, pervase da un movimento centrifugo, quasi
dionisiaco, che non lascia mai depositare la parola in segni morti, ma la rende viva, gestuale, nella pronuncia,
nella presenza.
I progetti di Scabia tra il 1971 e il 1975, con una singolare somiglianza rispetto a esperienze
americane come quelle del Living Theatre e soprattutto del Bread and Puppet Theatre12, si rivolgono a una
“comunità di parlanti”, ai margini della società, e attraverso le “azioni a partecipazione” dilatano
progressivamente il momento teatrale nello spazio e nel tempo, cosicché “la scena diventa sempre più grande
(strada, piazza, paese, montagna, una regione intera) e, parallelamente, il processo creativo diventa sempre più
ampio, sino a fagocitare il prodotto spettacolare vero e proprio e a porsi, esso stesso, in quanto tale, come
spettacolo, anzi come l’unico spettacolo possibile”13.
Negli stessi termini, in Colpo d’oppio Tondelli promuove una dilatazione del linguaggio, che inneschi
una scrittura-azione nell’immaginario e nella lingua di chi ascolta, richiamando l’idea scabiana di un teatro
dilatato, scenario di una collettività che vuole ritrovarsi e intraprendere un itinerario conoscitivo verso
l’interno di sé e delle contraddizioni del mondo: «È così che il romanzo emotivo riporta il testo nel territorio
della spettacolarizzazione, della fabulazione e dell’avventura, dove tutto è raccontabile, cantabile e
riassumibile come in un film. Qualsiasi testo emotivo si può raccontare e intrecciare. Il testo emotivo è così
destinato a una circolarità di lettura, a una trasmissibilità orale. Il testo emotivo è l’unico testo che si può
parlare. L’unico testo che si può cantare e ballare. L’unico che si può dolcemente cullare nella propria gola e
fischiettare nel proprio cervello. Il testo emotivo fotte l’inconsolabile solitudine di essere al mondo»14.
Nel suo farsi, contemporaneamente, corpo e sonda dell’interiorità, la scrittura riattiva anche una
riscoperta delle forme che alimentano l’immaginario collettivo, dei suoi archetipi più profondi: conservando la
11
Cfr. Giuliano Scabia, Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap & La Grande Mam, ora in All’improvviso e Zip,
Einaudi, Torino 1967, p. 51.
12
Per il ruolo esercitato dai due gruppi nell’ambito del teatro d’avanguardia americano e internazionale si può vedere
Massimo Dini, Teatro d’avanguardia americano, Vallecchi, Firenze, 1978, pp. 35-48 e 78-98. Sul Bread and Puppet
Theatre in particolare si veda Giuliano Scabia, Vorremmo essere in grado di nutrire la gente (a proposito di Bread
and Puppet), in “Sipario”, XXIV, 277, maggio 1969, pp. 20-21, ma anche Franco Quadri, C’è una scena che vive, in
“Sipario”, XXIV, 283, novembre 1969, pp. 29-32.
13
Cfr. Marco De Marinis, Il nuovo teatro. 1947-1970, Bompiani, Milano 1987, pp. 252-253.
14
Pier Vittorio Tondelli, Colpo d’oppio [1980], in Opere. Cronache, saggi, conversazioni, cit., p. 782.
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vitalità del discorso orale e delle sue dinamiche di relazionalità15, essa ricrea una sorta di pulsione ritmica
aurorale e si rivela appunto come qualcosa che non può più essere dato per scontato, ma si apre agli altri,
prende vita sempre nuova in rapporto al contesto in cui opera, attualizzando una funzione del corpo come
“luogo di transizione” nei termini specificati da Waldenfels, ovvero “non soltanto nel senso che agire e patire,
cultura e natura sconfinano l’uno nell’altro, bensì anche nel senso che è il proprio a tramutarsi in estraneo e
l’estraneo in proprio”16.
Nella direzione di questa apertura all’alterità, i linguaggi di Scabia e di Tondelli cercano di
raggiungere l’identità totale di pratica e scrittura, configurando il testo come scrittura non metaforica della
lingua e dei corpi viventi: nel caso di Scabia, le azioni collettive riempiono lo schema vuoto di partenza, lo
dilatano con innesti esterni che si rivelano proiettivi, seminali, in quanto attivano la riproduzione
dell’esperienza, più che del testo.
L’idea di un teatro come viaggio verso le radici profonde di una cultura, che in Il Gorilla quadrumano
o in Marco Cavallo si traduce nel ritmo itinerante di un “passo che viaggia e scopre, che osserva, incontra,
sale e discende”, cui corrisponde “una poesia che si misura con il fare, con il fiato, che in movimento conosce
l’estensione e la varietà delle cose del mondo circostante e le misura con il suo proprio tempo, per
dialogare”17, trova un’altra corrispondenza nella ricerca tondelliana di una lingua capace di parlarci, di
esprimere e provocare il ritmo del possibile: «Questa è la letteratura emotiva, questa è la scrittura emotiva:
sorseggiatene due parole e non vi lascerà fino alla fine! È un ritmo, un crescendo, una discesa agli inferi, una
rampata in vetta; è sempre un movimento; la scrittura emotiva è un viaggio; la scrittura emotiva è azione; la
scrittura emotiva si beve all’istante: un, due, tre … oplà»18.
In Altri libertini emergono l’urgenza e la contingenza delle pulsioni corporee e il teatro, proprio in
quanto evento, è la forma di espressione più vicina al corpo, nella quale il racconto diventa atto di respirazione
ed è una vera e propria scrittura del corpo, che ci cala attraverso il “fiume della lingua” nel caos delle origini,
nella parte più intensa di noi, rivelata come pura e-venienza: «E questo filo è un filo di materia viva, io ho
l’impressione che sia anche collegato alla propria voce, alla voce (è un problema su cui sto riflettendo). E voce
vuol dire corpo, vuol dire vibrazione, vuol dire fiato, vuol dire metrica, vuol dire ritmo, e il ritmo è la vita di
15
Al riguardo si può vedere Tullio De Mauro, Sergio Liberovici, Paolo Natali, Renato Sitti (a cura di), La cultura orale,
De Donato, Bari 1977, in particolare gli interventi di Scabia, pp. 160-161 e 169-174.
16
Cfr. Bernhard Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneo (2006), tr.it., Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, p. 103.
17
Cfr. Massimo Marino, Il Gorilla Quadrumano e i suoi viaggi, in Fernando Marchiori (a cura di), Il Teatro vagante di
Giuliano Scabia, cit., p. 69.
18
Pier Vittorio Tondelli, Colpo d’oppio, cit., p. 781.
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una storia: è il suo ritmo che ha la pulsazione, il cuore e il sangue. Per questo allora bisogna stare a sentire
dove vien su il filo del racconto»19.
La tensione verso una lingua che ci parla e che sappia immaginare, provocare e creare il ritmo del
possibile, si traduce in una scrittura-azione che si mescola con le persone e con le cose, e che, immergendosi
nella situazione in cui opera e adattandosi a essa, vuole suscitare anche in chi ascolta la fantasia e il bisogno di
incontro con gli altri, processi di cambiamento, di impegno politico e sociale. Tutto ciò si realizza attraverso
una scena mobile e flessibile che libera il pubblico da stereotipi e inerzie e lo spinge a “camminare” per aprirsi
alla realtà e poter così scoprire anche i sogni degli altri esseri viventi, la pulsione ritmica aurorale, organica,
che li anima: «Camminando si sentono i piedi della poesia, uno, due tre/uno, due, tre, quattro/ uno, uno, due,
tre, quattro – ballando si sentono ancora meglio. /Quando il camminante incontra altri camminanti (nei sentieri
dentro i boschi, dentro le città o dentro il corpo) li ascolta nel suono dei piedi – per sentire la poesia. […] Lei
(la poesia) è il bambino che vede per la prima volta e cerca di scolpire nel suono l’immagine delle cose che
sente e vede disegnandole con la voce. Questa è la sua magia. È la poesia. Le parole così neonate sono animali
sonori che lui mette in vita. Coi nomi così soffiati lui anima il mondo»20.
Proprio perché in movimento, la pratica teatrale di Scabia si rivela come una “avventura della
scrittura”21, una scrittura aperta all’ascolto, che nasce da gesti e si converte in gesti sempre nuovi attraverso
l’interazione con gli altri, riproducendo così non solo il passo della fantasia e della mente, ma anche quello dei
bisogni22, e assumendo una forte valenza politico-culturale: il gorilla che vuole ritrovare il suo ambiente e la
sua lingua, si muove con gesti di apertura, di festa e di ascolto, che diventano scambio, nuova consapevolezza,
ricerca di strade per una diversa cultura e un diverso modo di fare politica, caratterizzato da quelle che saranno
le tre parole d’ordine del “Movimento del ‘77”, ovvero partecipazione, comunicazione e gestione dal basso23.
19
Giuliano Scabia, Il filo del racconto (1995), in Silvana Tamiozzo Goldmann, Giuliano Scabia. Ascolto e racconto,
Bulzoni, Roma 1997, p. 88.
20
Giuliano Scabia, Il poeta albero, Einaudi, Torino 1995, pp. 3-4.
21
Cfr. anche Giuliano Scabia, Ancora scontri generali ma per nuovi scontri, in “Sipario”, XXV, 294, ottobre 1970, pp.
135-136.
22
Sul tema dei “bisogni” in ambito filosofico si possono vedere Agnes Heller, La teoria dei bisogni in Marx (1973), tr.
it., Feltrinelli, Milano 1974, e Pier Aldo Rovatti, Roberta Tomassini, Amedeo Vigorelli, Bisogni e teoria marxista,
Mazzotta, Milano 1976.
23
Per un profilo del movimento settantasettino si veda soprattutto Gad Lerner, Luigi Manconi, Marino Sinibaldi, Uno
strano movimento di strani studenti. Composizione, politica e cultura dei non garantiti, Feltrinelli, Milano 1978, ma
anche Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro, 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano
1997, pp. 447-601.
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In questo senso, anche il rituale della chiacchiera, che ha un ruolo fondamentale nelle
“improvvisazioni” di Scabia ed è la trama sottile del carattere “parlato” del linguaggio tondelliano, favorisce,
come ha sottolineato Celati, la costruzione di “tessuti di socialità” e di “luoghi di identificazione collettiva”24:
nella prospettiva di uno spazio “antropo-acentrico”25, in cui le azioni avvengono “a partecipazione” e
all’improvviso, viene annullata ogni rigida divisione tra rappresentazione e pubblico e la dilatazione
interattiva e partecipativa della scrittura diventa strumento di solidarietà, di aggregazione di una comunità
intorno ai suoi problemi fondamentali, all’insegna dell’ascolto e della reciproca condivisione.
La decostruzione della forma teatrale e del rapporto prospettico classico attraverso una “sempre
maggiore dilatazione del teatro verso il sociale, verso la partecipazione, verso la comunicazione”26, con il
coinvolgimento fisico dello spettatore nello spettacolo, di cui diventa un collaboratore attivo27, segnala in
Scabia uno sperimentalismo neoavanguardistico che approda a esiti completamente diversi rispetto a quelli del
metateatro concettuale, nel quale la consapevolezza dell’impossibilità e dell’inattualità del teatro tradizionale
si traduce in un discorso sterile su esse, tutto giocato sull’enfasi della parola, e quindi nella noncomunicazione di “una contro-perorazione immaginata come predica a vuoto in una sala deserta”28.
Ricollocata nell’orizzonte performativo del “Teatro Vagante”, l’apparente apoliticità dei personaggi di
Tondelli acquista sfumature inedite e inaspettate, lontane da schematismi ideologici: per lo scrittore, come per
Scabia, la scrittura ha una valenza politica, democratica, proprio in quanto pratica che provoca l’intervento,
agisce, si moltiplica, si espande, cioè produce e stimola un nuovo tipo di comunicazione, reinventata
ininterrottamente attraverso la partecipazione collettiva, con la conseguente liberazione dall’oppressione delle
forme di comunicazione imposte dal potere.
Alla possibilità di questo linguaggio, che già in La visita alla prova de L’Isola purpurea e in Teatro
nello spazio degli scontri è connessa all’irruzione dell’arte nelle strade e a una rivoluzione “totale” e
“ininterrotta”, è strettamente legata per Scabia la possibilità dell’utopia, riproposta con imperativi quali
“Bisogna inventare il dominio della gioia”, “Dentro tutti. Aprire, aprire a tutti”, “Liberare lo spazio per
l’invenzione” o “I meccanismi vanno mostrati fino in fondo”: «Per me utopia vuol dire tensione,
24
Cfr. Gianni Celati, La virtù del gorilla, in “Rinascita”, 32, 9 agosto 1974, p. 28.
Cfr. Giuliano Scabia, Nello spazio del teatro, in “Teatro”, II, 2, 1967/68, p. 35.
26
Cfr. Marco De Marinis, Verso un teatro necessario. Dall’avanguardia al teatro di base (1977), in Al limite del teatro.
Utopie, progetti e aporie nella ricerca teatrale degli anni sessanta e settanta, La Casa Usher, Firenze 1983, p. 106.
27
Cfr. Giuliano Scabia, Ricerca di un teatro necessario, in “Sipario”, XXIV, 282, ottobre 1969, ora in Teatro nello spazio
degli scontri, cit., p. 73.
28
Cfr. Franco Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia, Einaudi, Torino 1977, p. 55.
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partecipazione, scatenamento delle forze interne di comunicazione /espressione/formazione della comunità
attraverso una partecipazione crescente: e in ultima analisi, liberazione dalla scansione di tempo e spazio
imposte dal lavoro servo»29.
Emblemi in qualche modo utopici come il Drago o la Mongolfiera, che hanno animato molti momenti
della prima fase del ’77 bolognese, esemplificano bene il modo in cui Scabia utilizza immagini profonde
collettive come stimoli primari per accendere il rapporto fantasmatico di partecipazione della comunità e
ripristinare forme di “scambio simbolico”30: non a caso il simbolo del Drago ha ispirato il nome di uno dei
collettivi più strategici di quella stagione, che dava nuova linfa a forme di comunicazione alternative e
autogestite come il “teatro giornale” dello stesso Scabia e certo conosceva l’esperienza di Forse un drago
nascerà, in cui un teatrino-drago girava per l’Abruzzo a fondare città d’utopia e combatteva contro un
cavaliere venuto da lontano.
Oltre allo scatenamento di una “immaginazione materiale”31 in cui riaffiora l’energia fantastica e
irrazionale dell’infanzia32, attraverso i pupazzi si concretizza un sentimento largamente diffuso e prendono
corpo strutture narrative essenziali che “si dirigono alle immagini elementari presenti in ognuno e le
illuminano scuotendole e mutandole di segno, strappandole dal contesto mitologico per proiettarle verso
significati politici contemporanei”33: così il teatro diventa il luogo di emersione degli archetipi individuali e
collettivi, ma anche il luogo delle contraddizioni nascenti, di un processo conoscitivo che sintetizza attività
ludico-espressive e logico-concettuali, mettendo in discussione l’assetto dominante, ideologico, dello spazio e
costruendo collettivamente una storia fantastica, partecipata.
Simboli come il drago, il gorilla o il cavallo sono amplificazioni di ricordi e di proiezioni che
cambiano le relazioni esistenti fra corpo e mondo esterno, innescando un vero e proprio processo conoscitivo,
perché fanno mutare di segno tutto lo spazio in cui siamo immersi, ne mettono in discussione l’assetto
stereotipo e ideologico, agiscono a un livello tanto più profondo quanto più si legano alle contraddizioni e
lacerazioni del gruppo in cui nascono: diventano pertanto i cardini di una concezione della scrittura teatrale
come “strumento non autoritario (imparare, fissare, ripetere: teatro imposto dagli adulti) ma pianificato di
29
Giuliano Scabia, Teatro nello spazio degli scontri, Bulzoni, Roma 1973, p. XXI.
Cfr. Jean Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno (1972), tr. it., Mazzotta, Milano 1974, e Id., Lo
scambio simbolico e la morte (1976), tr. it., Feltrinelli, Milano 1978.
31
Cfr. Gaston Bachelard, La poetica della réverie (1960), tr. it., Dedalo, Bari 1972.
32
Cfr. Gianni Celati, Dai giganti buffoni alla coscienza infelice, in Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e
scrittura, Einaudi, Torino 1975, pp. 81-131.
33
Giuliano Scabia, Vorremmo essere in grado di nutrire la gente (a proposito di Bread and Puppet), in “Sipario”, XXIV,
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espressività totale”34, come “avanguardia della letteratura per una ripresa di contatto col mondo” e “viaggio e
avventura nel territorio di una langue fisicamente sperimentata, utilizzata come cassa di risonanza immediata
per la parole”35.
Nella stessa direzione di un “teatro necessario” che si fa “atto di ricerca radicale e organica […] spinta
fino alle estreme capacità di tensione del linguaggio e delle visioni del mondo, dentro le strutture del proprio
tempo”36, si pone l’affermazione della creatività diffusa e dei linguaggi autonomi, che rappresentò l’apporto
più significativo del Movimento del ‘77, legato a una quotidianità vissuta come momento rivoluzionario in
tutte le sue componenti, con una aspirazione totalizzante: oltre ai vari fogli trasversali dei più diversi collettivi,
caratterizzati spesso dalle stesse modalità del “teatro-giornale” di Scabia, vengono alla ribalta riviste come
“Quaderni piacentini”, “Primo maggio”, “Ombre rosse”, “L’Erba voglio”, “A/traverso” e fioriscono le radio
libere, che rappresentano il primo tentativo di un’autorganizzazione dell’informazione, intesa come
trasformazione sociale ed esistenziale, sempre nell’ottica di una “storia vera”, anche se gli effetti della pratica
eversiva dei vari linguaggi, producendo in un primo momento stati di disgregazione, sarebbero stati visibili
solo in una fase successiva.
Tutte queste esperienze configurano un quadro variopinto e stratificato, che fa da sfondo a Mimi e
istrioni, in cui, oltre ai vari Performance Group o Godardiani o Gruppotapes Selvaggi o Mèlies, con i loro
armamentari poveri e creativi, è documentato “tutto uno sbocciare di cappelle e gruppi autogestiti, sempre la
solita gente variazionale s’intende, che saltella qua e là nel solito farsi e disfarsi ermafrodita che vede ad
esempio New Mondina Centroradio fondersi con Radio Salomè e dare i natali alla piccolina, cioè
Radiolilith”37.
Anche se non è privo di una certa ironia, lo sguardo di Tondelli sa cogliere il movimento creativo che
percorreva quel periodo, in cui si esprimeva il bisogno di autonomia e la spinta libertaria di settori
marginalizzati della società italiana, oltre a una reazione alla spersonalizzazione dell’attività lavorativa
industriale: «Insomma tutto un inventario colorato di autodefinizioni, brandelli filosofici, slogan semiseri,
invettive, quartine rime e porcate, gridi inni e slogan tutti sovrapposti gli uni agli altri e inseriti tra parola e
parola a far fuori irresistibili ironie e tutto nel gergo mischiato e poliglotta della fauna stessa cioè molto
italiano cencioso, molto tedesco sublime, persino gotico ahimè, molto angloamericano e parecchio slang,
277, maggio 1969, pp. 20-21.
Cfr. Giuliano Scabia, Teatro nello spazio degli scontri, cit., p. 459.
35
Ibidem, p. 508.
36
Ibidem, p. 507.
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Intervento di Gianni Cimador :”Forse un drago nascerà: il ’77 di Tondelli attraverso Giuliano Scabia”.
qualche francese da boudoir, qualche graffito arabo, sumero o indiano e persino una evidente traccia di
cirillico scritta col pantone vermiglione accanto a Culo culo orgasmo del futuro. E io a leggere e mutare parole
e rubar matite a tutti e graffiare anche col cagàl e far gestacci e creare, dio che sballo creativo, dio che sbornia,
dio che ssssssbausciata dell’ego!»38.
La consapevolezza di essere portatori di un modo di fare cultura nuovo, non più subordinato al
sistema politico e alla riproduzione del consenso, è una delle istanze più rilevanti del Collettivo A/traverso,
che, insistendo sulla diffusione di forme comunicative pervasive e policentriche, promosse la proliferazione
dell’arte e della creatività nella vita quotidiana e in contesti comunitari capaci di ridefinire il rapporto tra
socialità e produzione, al di fuori del sistema integrato capitalistico: «Far saltare la dittatura del Significato,
introdurre il delirio nell’ordine della comunicazione, far parlare il desiderio, la rabbia, la follia, l’impazienza e
il rifiuto. Questa forma della pratica linguistica è l’unica forma adeguata a una pratica complessiva che fa
saltare la dittatura del Politico, che introduce nel comportamento l’appropriazione, il rifiuto del lavoro, la
collettivizzazione. È per questo che il rapporto fra movimento e Radio Alice non è garantito tanto dai
contenuti, dai messaggi che Alice trasmette, quanto proprio dal gesto che essa, come operatività linguistica
collettiva e sovversiva, propone. /La stessa organizzazione linguistica dello strumento, infatti, definisce uno
spazio, traccia le sue discriminanti»39.
Quando, in Colpo d’oppio, Tondelli parla di “scrittura emotiva” come “sound del linguaggio parlato”,
guarda certo al “linguaggio minore” promosso dal Collettivo A/traverso, che corrisponde a un “sogno
contrario” e mira a “saper creare un divenire minore”: «Ma nel linguaggio minore non è ancora data sintassi/
al contrario stati di intensità, momenti di produzione libidica/ condensazioni come nelle assemblee più belle,
cambiamenti improvvisi/simpatie, distruzione immediata degli ordini logici […] Nel linguaggio minore non
esiste un soggetto, ma un concatenamento collettivo di enunciazioni, non esiste un eroe, narratore,
personaggio sognatore o sognato […] Abbiamo detto il linguaggio minore deterritorializzato, non rappresenta
non parla per identità, ma per contiguità, è un concatenamento collettivo di enunciazioni. […] Il linguaggio
minore è una pura materia sonora/ materia sonora intesa sempre in rapporto con la propria abolizione suono
37
Cfr. Pier Vittorio Tondelli, Mimi e istrioni, in Altri libertini, cit., p. 53.
Ibidem, p. 57.
39
Collettivo A/traverso, Un linguaggio sporco per il Movimento, ora in Alice è il diavolo. Storia di una radio sovversiva,
a cura di Bifo e Gomma, ShaKe Edizioni, Milano 2004, pp. 114-115.
10
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musicale deterritorializzato, grido che sfugge alla significazione, alla composizione, al canto della parola,
sonorità in rottura per liberarsi da una catena che è ancora troppo grande»40.
L’idea tondelliana di scrittura, come “percorso che insegue tutta la gamma dei linguaggi possibili”41,
ripropone l’eredità del movimento del ‘77, nel quale si realizzò l’intenzione avanguardista di fondere l’arte
con la vita, in una prospettiva di massificazione della rottura linguistica e attraverso la concatenazione di
creatività di massa e tecnologie comunicative: oltre a Calvesi42, anche Eco sottolinea come “le nuove
generazioni vivono e parlano nella loro pratica quotidiana il linguaggio (ovvero la molteplicità dei linguaggi)
dell’avanguardia […] questo linguaggio del soggetto diviso, questa proliferazione di messaggi apparentemente
senza codice vengono capiti e praticati alla perfezione da gruppi sino ad oggi estranei alla cultura alta”43.
L’ “italo-indiano” di cui parla Eco e che ha influenzato la scrittura pluristilistica di Altri libertini,
descrive una specie di semiomorfosi che investe tutta la realtà, identificando il mondo con lo scambio e
l’intreccio degli enunciati simbolici, degli eventi informativi e delle simulazioni di immaginario, trasformando
ogni processo sociale in un territorio immaginario e quindi segnico, simbolico, e senza mai perdere un alto
grado di consapevolezza esplicita, come rivela l’esperienza del “mao-dadaismo” che vuole innestare la
trasformazione culturale nella materialità dei bisogni sociali del proletariato e intraprendere “il percorso
dell’organizzazione non come rappresentazione ipostatica del soggetto-avanguardia, ma come capacità di
sintesi dei bisogni e delle tendenze presenti nella realtà materiale del lavoro e della vita”44.
La riappropriazione del corpo, con la conseguente ricerca di forme “totali” di espressività e di
creatività, diventa il momento preliminare nel processo di autocoscienza e di accettazione dell’ “altro”, e,
nello stesso tempo, costituisce la prima fase che porta allo scatenamento critico delle potenzialità creative ed
espressive dell’individuo nell’ambito del gruppo sociale. In questo senso possiamo leggere l’ironia del
“cineocchio” tondelliano, che, di fronte alle decine di collettivi che costituiscono “la fauna di questi scassati e
tribolati anni miei”, dichiara una entusiastica attenzione alle forme corporee: «Io li filmerò. Filmerò i loro
40
Collettivo A/traverso, Di grande, di rivoluzionario, non c’è che il minore, ora in Alice è il diavolo. Storia di una radio
sovversiva, cit., pp. 74-75.
41
Cfr. Pier Vittorio Tondelli, Il mestiere di scrittore (1989-90), in Opere. Cronache, saggi, conversazioni, cit., p. 1007.
42
Cfr. Maurizio Calvesi, Avanguardia di massa, Feltrinelli, Milano 1978, in part. p. 247.
43
Cfr. Umberto Eco, Come parlano i “nuovi barbari”. C’è un’altra lingua: l’italo-indiano, in “L’Espresso”, 10 aprile
1977, ora Il laboratorio in piazza, in Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 1995, p. 65.
44
Cfr. “A/traverso”, febbraio 1977.
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amori, le lacrime, i sorrisi, le acque, gli umori i colori e le erezioni, i mestrui le sifilidi, le croste, gli amplessi i
coiti e le inculate, i pompini e i ditalini, quindi i culi le tette e anco i cazzi filmerò. Insomma, ok?»45.
Scabia interpreta le stesse esigenze quando dichiara di essere entrato nel teatro per misurarsi “con la
lingua vivente, con la lingua di oggi nella sua metamorfosi, nel suo apparire difficile, plastificata, nel suo
morire e nascere nelle periferie delle città, nei bar”46: è una lingua che traduce una oralità euforica e
istantanea, come quella di Tondelli, una vera e propria “stra-lingua” o “lingua-acqua” che trascina lo
spettatore in una sorta di ipnosi cosciente della rappresentazione47.
La ricerca di una parola che sia, senza soluzione di continuità, scritta e parlata e agita, riconduce al
teatro come possibilità liberatoria e il racconto dei personaggi di Tondelli avviene sempre all’insegna della
teatralizzazione, perché per lo scrittore scrivere equivale a “buttarsi fuori, scarnificarsi in pubblico”48,
conferendo ai suoi racconti una valenza sociale e politica indipendentemente da ogni precisa intenzionalità
politica, nel senso indicato da Duvignaud, che ripropone l’attualità del agit prop brechtiano, aggiornato alle
nuove situazioni di vita e ancora valido nei termini di un metodo scenico aperto, come “metodo di
rappresentazione del mondo in quanto trasformabile”49: «Durante i periodi d’intensa trasformazione delle
strutture, la società si rappresenta a se stessa, si teatralizza e, recitando pubblicamente la sua realtà, la
modifica realizzandola. Ciò vale per gli esempi più piccoli come per le manifestazioni più grandi: la
rivoluzione è il teatro stesso della società, nel senso che una teatralizzazione spontanea aiuta i gruppi umani
addormentati o schiacciati a esistere e a trovare in questa esistenza la forza per cambiare se stessi»50.
Non si tratta di una generica spettacolarizzazione della vita sociale, ma di un’affermazione degli
individui come liberi soggetti creativi, secondo idee di cui si fa interprete Alfredo De Paz, portavoce del
Collettivo del Drago, in La creatività, la politica e il Drago del Movimento: «La Scrittura, la Creatività, la
Comunicazione, come nuove pratiche artistiche trasgressive, possono uscire dalla separatezza in cui vive
l’Arte – così come la Tradizione più o meno avanzata e progressista la concepisce – e farsi sovversione,
45
Cfr. Pier Vittorio Tondelli, In senso contrario, cit., p. 191.
Cfr. Giuliano Scabia, Interviste radiofoniche (dall’intervista a Giuliano Scabia di Stefano Annibaletto, “Cose di casa.
Insieme per parlare di attualità e cultura. Rotocalco trisettimanale”, Studio di Erre Tre, Casa Pio X, Padova, 14
dicembre 1993), ora in Silvana Tamiozzo Goldmann, op. cit., p. 79.
47
Cfr. Giuliano Scabia, La commedia della barca e del fiume, in Fernando Marchiori (a cura di), Il Teatro Vagante di
Giuliano Scabia, cit., p. 101.
48
Cfr. Pier Vittorio Tondelli, Il mestiere di scrittore, cit., p. 972.
49
Cfr. Paolo Chiarini, La scrittura scenica brechtiana: stile o metodo, in “Biblioteca Teatrale”, I, 1, 1971, pp. 104-105.
50
Jean Duvignaud, Le théâtre, et après, Casterman, Paris 1971, p. 59.
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strumenti di rottura dei codici storicamente esistenti, messa a punto di un Totalmente Altro come simulacro
del Diverso, tramite l’istituzione di nuove forme di espressione, di comunicazione, di significato»51.
Soprattutto il racconto Mimi e istrioni è emblematico della centralità che assumono nella narrativa
tondelliana la singolarità dell’esperienza individuale e la sua teatralizzazione: in questo senso, è significativa
la corrispondenza con il teatro dell’avanguardia post-registica, nel quale avviene “la riscoperta della
tridimensionalità plastica dell’attore”52 e l’affermazione della sua immediata fisicità globale, di una sintesi
vocalico-gestuale-emotiva, vuole distruggere la convenzionalità formalizzata della messa in scena e il ruolo
autoritario del regista.
La valorizzazione delle potenzialità istrioniche, espressive e creative del corpo, che rinvia anche alle
esperienze della body art53, oltrepassando una concezione della funzione mimetico-rappresentativa dell’attore,
tende a concepirlo piuttosto come “insieme di possibilità psico-fisiologiche, come emittente di stimolazioni e
di segnali multidimensionali che aspiravano ormai a rivolgersi direttamente alla interpretazione del pubblico,
senza passare più attraverso la preliminare operazione unificatrice del regista”54: l’attore diventa cioè
l’espressione di una totalità da cui il teatro si è allontanato, sbilanciandosi quasi esclusivamente verso un
livello logico-razionale della comunicazione e rimuovendo tutto un filone di pensiero teatrale utopico, legato
alle culture folkloriche come “culture di contestazione”55.
Anche per Scabia, più che un interprete, l’attore deve essere un mimo, una figura-personaggio in
perenne movimento che è insieme acrobata e affabulatore, capace di coinvolgere gli spettatori con gesti e
battute a effetto, ma anche di dissociarsi dalla propria “maschera”, di ironizzare su essa e vederla da fuori,
sempre in bilico tra immedesimazione e straniamento: nascono così continue conflagrazioni e sovrapposizioni
di ruoli, per cui troviamo “un attore dentro l’attore e dentro un altro attore ancora”56, con un processo di mise
51
Alfredo De Paz, La creatività, la politica e il Drago del Movimento, Catalogo della Mostra-Documentazione teatrale
del Collettivo del Drago di Bologna, stampato a cura del Collettivo, Bologna, 1977, ora in Alfredo De Paz, Sociologia
e critica delle arti, CLUEB, Bologna 1980, p. 56. Si può vedere anche Alfredo De Paz, La politica e l’estetica: dal
Movimento del ’68 ai Movimenti del “Drago”, in “Il Mulino”, XXVII, 253, settembre-ottobre 1977, pp. 790-801.
52
Cfr. Marco De Marinis, Rappresentazione teatrale e presenza dell’attore nelle teoriche della regia (1980), in Al limite
del teatro. Utopie, progetti e aporie nella ricerca teatrale degli anni sessanta e settanta, cit., p. 205.
53
Cfr. in particolare Lea Vergine, Il corpo come linguaggio, Prearo, Milano 1974, e Renato Barilli, La performance, La
Nuova Foglio Edizioni, Macerata 1978.
54
Cfr. Marco De Marinis, L’attore fra teatro e animazione (1975), in Al limite del teatro. Utopie, progetti e aporie nella
ricerca teatrale degli anni sessanta e settanta, cit., pp. 20-21.
55
Cfr. Luigi Maria Lombardi Satriani, Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, Guaraldi, Rimini 1974.
56
Cfr. Giuliano Scabia, All’improvviso e Zip, cit., p. 35.
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en abîme che ha l’obiettivo di “mettere dei dubbi, per rompere delle prospettive, per togliere le maschere,
mettere in moto qualche pensiero”57.
La stessa suggestione del mimo, insieme all’impressione che i personaggi si trovino sempre su un
“palcoscenico verbale”, è rintracciabile chiaramente in Tondelli e nella sua idea di narratore affabulatore che
diventa personaggio-attore, presenza corporea e gestuale, vocalità sempre enfaticamente esibita e
monologante: da questo punto di vista è forte il legame con la tradizione del teatro popolare così come si è
formato nel Medioevo, con le farse che inondavano gli spettatori di parole e di giochi verbali assurdi e
grotteschi, con le parodie e le filastrocche dei giullari che suscitavano un’ilarità istintuale e irrazionale, con la
vitalità e il dinamismo straripante di comici vagabondi, giocolieri, istrioni e funamboli che traducevano nelle
loro rappresentazioni il “mondo del gesto artificioso, della gag, degli effetti di voce, della mascherata,
fortemente funzionalizzato in seno al corpo sociale”58.
Anche i “mimi” tondelliani reinventano la realtà quotidiana attraverso la sfrenata e istintiva vitalità del
gesto e della parola, si identificano con i gesti che compiono, imprimendo al racconto un’evidenza cinetica e
riattualizzando sul piano narrativo le forme del mimo, ovvero di una “forma germinale di commedia, nella
quale il personaggio è colto con rapida immediatezza nei gesti e nelle battute essenziali” ed “è visto, osservato
in movimento più che indagato; attuato nella pagina a una sola dimensione, quella che appare direttamente dal
movimento e dalla parola”59: come osserva Etienne Decroux, “il corpo è già un’opera prima che si intraprenda
a fare l’opera con esso”60.
Come in questa forma elementare di teatro, tutta costruita sulla capacità dell’attore, nei racconti di
Tondelli è fondamentale la dimensione “scenica”, analogamente a quanto si può individuare in Boccaccio che
per la prima volta, come nota acutamente Baratto, ha rielaborato sul piano letterario il mimo, teatralizzando il
racconto e fondandolo sulla rapidità della sorpresa, sulla calcolata accumulazione degli effetti comici, su una
realtà gestuale e verbale autonoma: «Il personaggio è cioè rilevato, con la sua vitale novità, nel senso teatrale
del termine: si muove e agisce, nell’evidenza dei suoi rapporti, in una dimensione spaziale che è una sorta di
palcoscenico costruito e delimitato dal narratore […] Egli inventa insomma un linguaggio contemporaneo
nell’accezione teatrale del termine, se il teatro presuppone una relazione diretta del pubblico con l’azione, una
57
Cfr. Giuliano Scabia e Carlo Quartucci, Per un’avanguardia italiana, in “Sipario”, XX, 235, novembre 1965, p. 12.
Cfr. Paul Zumthor, Semiologia e poetica medievale (1972), tr. it., Feltrinelli, Milano 1973, p. 422.
59
Cfr. Mario Baratto, Verso la commedia: il mimo, in Realtà e stile nel “Decameron”, Editori Riuniti, Roma 1984, pp.
247-248.
60
Cfr. Etienne Decroux, Parole sul mimo (1963), in Marco De Marinis (a cura di), Mimo e mimi, La Casa Usher, Firenze
1980, p. 114.
14
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percezione del gesto e della parola libera da mediazioni filtranti. Il lettore del Decameron diventa idealmente
uno spettatore: l’avventura è proposta nel momento in cui avviene, senza che nulla si frapponga a suggerirne
l’interpretazione: il che non significa che l’azione rappresentata non possa poi liberare una saggia lezione
morale e di costume. Come nella commedia, l’intensa località dell’accadimento è lo specchio in cui si
concentrano i meccanismi che regolano la vita quotidiana dell’uomo»61.
La focalizzazione sulla gestualità produce una spazialità completamente diversa, negli stessi termini in
cui la concepisce Scabia, per il quale “lo spazio del teatro di strada è, nell’essenza, lo spazio dell’attore”62.
La costruzione di spazi liberati e liberanti, nei quali si svolge la trasformazione del quotidiano,
rifunzionalizza il ruolo del gioco, anche di quello linguistico di derivazione dadaista, e rilancia il suo carattere
di creazione autonoma primaria, in cui, come dice Huizinga, l’immaginazione diventa “forma di cultura”63.
Il gioco è centrale nell’esperienza “vagante” di Forse un drago nascerà, proprio con l’obiettivo di “far
riscoprire il senso della creatività all’interno del processo conoscitivo”, recuperando un livello razionale della
creatività e, nello stesso tempo, avviando una presa di coscienza critica che non svanisca appena si ritorna alla
realtà ma, al contrario, si rafforzi, traducendosi in comportamenti sociali e politici conseguenti, in volontà
decisa di modificare la propria realtà, di distruggere e superare lo stato presente delle cose: «[…] sta forse qui
il senso della città-teatro metaforica. In essa i ragazzi si sentivano in un altro mondo, creato da loro: in una
nuova forma. Ritornare da questa nuova forma nella realtà e percepire, per contrasto, la divergenza fra
modello possibile e modello reale poteva costituire un nuovo salto creativo, questa volta a livello razionale»64.
Con l’adozione di un’espressività totale come mezzo conoscitivo e nella configurazione di un contromondo dotato di una forte carica di alternatività rispetto a quello “reale”, anche Tondelli recupera la funzione
ludica del linguaggio, emergente dal “senso contrario” dei giovani di Altri libertini ma anche dalle intensità
che i ragazzi di Pao Pao intrecciano tra loro nella tensione a costituire un utopico “territorio di diffusione di
affetto”, pur con la difficoltà, in entrambi i casi, di dare una forma razionale alla “creatività”: è un limite nel
quale si è arenato lo stesso Movimento del ’77 e che ha segnato un’intera generazione, portandola in parte al
Terrorismo e in parte al disimpegno, indicato da Scabia come il pericolo insito in ogni pratica ludicometaforica, qualora non venga condotta fino in fondo e “se le metafore non vengono continuamente
61
Ibidem, p. 241.
Cfr. Fabrizio Cruciani, Lo spazio del teatro, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 98.
63
Cfr. Johan Huizinga, Homo ludens (1939), tr.it., Einaudi, Torino 1973, p. 43.
64
Giuliano Scabia, Forse un drago nascerà. Un’esperienza di teatro con i ragazzi di dodici città dell’Abruzzo, Emme
Edizioni, Milano 1973, p. 16.
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analizzate, discusse, razionalizzate, allo scopo di capire che cosa è avvenuto e preparare un salto metaforico
successivo”65.
Più che per i risvolti politici, la lezione di Scabia influenza Tondelli per la tensione a una espressività
totale, per la messa in discussione dei modi di comunicazione e di produzione culturale, per l’affermazione di
una nuova avanguardia di massa che favorisca processi di dinamizzazione dell’attività creativa, che costruisca
forme di aggregazione e di elaborazione culturale “dal basso”, espressioni di una originaria esigenza di
‘verità’ comunicativa, così come si traduce nell’immaginario contemporaneo: in questo senso diventa centrale
il concetto di festa, la sua funzione rigenerante e socializzante, proprio come attualizzazione dei primi tempi
dell’universo e di una collettività mitica e creativa66, in cui gli esseri e le istituzioni non hanno ancora una
forma definitiva e in cui è prevalente quella che Bataille ha chiamato “economia generale”, incentrata sullo
scambio generalizzato, contro l’ “economia ristretta” fondata sul principio di utilità67.
Gli stessi caratteri di effervescenza sociale, di anomia, di transocialità, che caratterizzano la festa68,
contraddistinguono i momenti rivoluzionari, come hanno evidenziato anche il ‘77 bolognese e, ancora prima,
le esperienze dei Circoli del proletariato giovanile e del Circuito di “Re Nudo”69: non sono tuttavia tratti
esclusivi delle comunità rivoluzionarie nella fase di trionfo storico, ma sono propri anche della vita di gruppi
portatori di ideologie anomiche in corpi sociali incancreniti e ormai incapaci di rinnovarsi, proprio come
quello nel quale sono inseriti i personaggi tondelliani, per i quali l’utopia (se si può ancora parlare in questi
termini) non ha niente a che fare con sistemi chiusi e totalizzanti, ma è costituita appunto da comportamenti
festivi, che hanno lo scopo di “reintrodurre l’eventuale e il possibile in una durata che viene fissata
arbitrariamente in un’immagine del progresso o della necessità”70.
In questa direzione, soprattutto In senso contrario traduce l’urgenza di reinventare il quotidiano
attraverso vissuti alternativi come “l’esperienza dell’avventura” o attraverso quelle che De Certeau
definirebbe “strategie tattiche”71, riconoscibili, per esempio, nei territori di conoscenza che possono
65
Cfr. Giluliano Scabia, Teatro nello spazio degli scontri, cit., p. XIX.
Cfr. al riguardo Furio Jesi, La festa e la macchina mitologica (1973), in La festa. Antropologia, etnologia, folklore,
Rosenberg & Sellier, Torino 1977, pp. 174-201.
67
Sono concetti sui quali Georges Bataille insiste soprattutto in La parte maledetta (1948), tr. it., Bertani, Verona 1974.
68
Cfr. al riguardo Marco De Marinis, La società della festa. Utopia festiva e ricerca teatrale (1978), in Al limite del
teatro.Utopie, progetti e aporie nella ricerca teatrale degli anni sessanta e settanta, cit., p. 91. È utile vedere anche
Carla Bianco e Maurizio Del Ninno (a cura di), Festa. Antropologia e semiotica, Nuova Guaraldi, Firenze 1981.
69
Cfr. Marco De Marinis, Le feste giovanili in Italia (1977), in Al limite del teatro.Utopie, progetti e aporie nella ricerca
teatrale degli anni sessanta e settanta, cit., pp. 125-150.
70
Cfr. Jean Duvignaud, Le théâtre, et après, cit., p. 126.
71
Cfr. Michel De Certeau, L’invenzione del quotidiano (1990), tr. it., Edizioni Lavoro, Roma 2001, in part. pp. 63-79.
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dischiudere la ricerca del proprio “odore” o la reazione a un “ruttazzo”, con la scoperta di saperi “corporei”
finora completamente ignorati nell’ambito dei saperi tradizionali e delle scritture istituzionalizzate: «Proprio
fortuna sfacciata quando uno ci sente che l’odore che serra in pancia è proprio il suo arriva anche la fortuna.
Solo questo vi voglio dire credete a me lettori cari. Bando a isterismi, depressioni scoglionature e
smaronamenti. Cercatevi il vostro odore eppoi ci saran fortune e buoni fulmini sulla strada. Non ha
importanza alcuna se sarà di sabbia del deserto o di montagne rocciose, fossanche quello dell’incenso giù
dell’India o quello un po’ più forte, tibetano o nepalese. No, sarà pure l’odore dell’arcobaleno e del pentolino
pieno d’ori, degli aquiloni bimbi miei, degli uccelletti, dei boschi verdi con in mezzo ruscelletti gai e
cinguettanti, delle giungle, sarà l’odore delle paludi, dei canneti, dei venti sui ghiacciai, saranno gli odori delle
bettole di Marrakesh o delle fumerie di Istanbul, ah buoni davvero buoni odori di verità, alla faccia di tutti
avanti! Col naso in aria fiutate il vento, strapazzate le nubi all’orizzonte, forza, è ora di partire, forza tutti
insieme incontro all’avventuraaaaa!»72.
Allo stesso modo, la pratica del “Teatro Vagante” avviene camminando, ha il ritmo di un passo che
viaggia e scopre, incontra e osserva, sale e scende, si misura con il fiato e con il fare, condividendo con Celati
l’idea di un “attraversamento a piedi” della vita e conoscendo così l’estensione e la varietà del mondo
circostante, contro ogni isolamento e individualismo e contro la rigida separazione dottrinaria di realtà e
fantasia: «È una percezione del mondo esterno, tale e quale come lo conosciamo e crediamo che sia, ma che
diventa ultrafantastico non appena lo immaginiamo attraverso uno stato di esposizione come quello dei
Giganti – attraverso un’esposizione alle difficoltà d’un tragitto, alle situazioni atmosferiche, ai costumi e
condizioni di un’epoca. Perché solo allora riusciamo a percepire la famosa realtà, non come nozione astratta di
res extensa, bensì come disagio, fatica, disperdimento, stati umorali a cui siamo in balia, paure ed esaltazioni
da cui il nostro corpo rimane affetto. E siccome ogni parte del corpo è una metafora di qualcosa che c’entra
con i fantasmi della nostra mente (il “cuore”, la “testa”, lo “stomaco”, il “cazzo”, etc.), è in questa esposizione
agli incontri con l’esterno che il reale si rivela l’elemento più fantastico che esista»73.
La riabilitazione del linguaggio del corpo nello spazio linguistico, oltre a richiamare il Collettivo
A/traverso (che insiste sulla “materialità e sensualità dell’operazione consistente nell’organizzare segni”74),
ricollega le pratiche di Scabia e la scrittura di Tondelli alla concezione di Artaud, che vuole liberare il teatro
dalla “tirannia” del testo e dall’arbitrarietà del linguaggio verbale, infrangendo l’unità tra parola, cosa e
72
73
Pier Vittorio Tondelli, In senso contrario, in Altri libertini, cit., p. 195.
Eugenio Barba, Genius loci, in Fernando Marchiori, op. cit., p. 15.
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concetto, ed eliminando la ripetizione a favore di una comunicazione immediata che riporti alla luce le
intensità e le capacità espressive ingabbiate dalla lingua scritta e ponga fine alle differenziazioni del teatro
classico: anche in questo caso, la festa è l’emblema di una rappresentazione come evento collettivo, in cui
viene meno ogni barriera tra scena e pubblico e in cui il “vero” viene cercato “per strada”, nella vita
quotidiana, instaurando una realtà completamente diversa attraverso uno spettacolo mobile75 che rappresenta
anche in qualche modo il modulo di organizzazione del movimento studentesco, con le sue forme decentrate e
dinamiche di aggregazione e interazione.
Sia in Scabia sia in Tondelli emergono il bisogno, proprio di un’intera collettività, di evadere da una
realtà sociale conflittuale e opprimente attraverso pratiche creative che rifondino i rapporti interpersonali, e la
ricerca di un’ alterità perseguita attraverso la pratica di un libertinaggio eversivo”, di “una nuova utopia, di un
sogno in cui la dimensione soggettiva e quella collettiva diventano interconnesse al punto di condizionarsi a
vicenda”76.
Da questo punto di vista, la festa è l’azione utopica per eccellenza, perché è caratterizzata dalla
comunicazione “totale” raggiunta dalla collettività festante senza mediazioni oggettuali ma attraverso la
completa auto-affermazione della trasparenza delle coscienze individuali77; è l’esempio più significativo di
una pratica utopica dell’arte e della politica, nella quale “il fare artistico si rovescia in una pratica sociale
generalizzata e permanente, fondata sulla intercambiabilità dei ruoli di produttore e fruitore (nella prospettiva
di una loro completa abolizione) e su un modo di consumo dell’arte inteso come jouissance concreta e
sensuale invece che come funzione estetica disinteressata”78.
Nella stessa direzione della “scrittura trasversale” festiva, che percorre e unifica i campi separati delle
istituzioni estetiche e politiche79, va, in Scabia, la pratica della partecipazione teatrale, incentrata sul recupero
della spontaneità e della creatività, fino a configurare il teatro come un itinerario totalmente collettivo e
autogestito e a realizzare, attraverso la partecipazione attiva, una società liberata, sottratta al dominio del
Capitale.
74
Cfr. Collettivo A/traverso, Leggere nella merda, in “A/traverso”, marzo 1976.
Cfr. Antonin Artaud, Basta con i capolavori, in Il teatro e il suo doppio (1964), tr. it., Einaudi, Torino 1968, p. 193.
76
Cfr. Aldo Tagliaferri, Sul motore tirato al massimo, in “Panta”, n. 9, 1992, p. 14.
77
Cfr. Jean Starobinski, J.J. Rousseau. La trasparenza e l’ostacolo (1971), tr.it., Il Mulino Bologna 1982, pp. 115 e 119.
78
Cfr. Marco De Marinis, La società della festa. Utopia festiva e ricerca teatrale, cit., p. 94. Sullo stesso tema si può
vedere anche Alfredo De Paz, La pratica sociale dell’arte, Liguori, Napoli 1976, in particolare p. 60.
79
Cfr. Collettivo A/traverso, Scrittura trasversale e fine dell’istituzione letteraria, in “A/traverso”, giugno 1976.
18
75
Seminario Tondelli, decima edizione, Correggio, Palazzo dei Principi, 12 dicembre 2009.
Intervento di Gianni Cimador :”Forse un drago nascerà: il ’77 di Tondelli attraverso Giuliano Scabia”.
Trasformare la realtà in festa significa mettere l’attività produttiva al servizio del godimento, con la
conseguente, necessaria, dissoluzione della cultura: come sostiene Dufrenne, per la prima volta “le due
rivoluzioni, la politica e l’artistica, hanno in effetti lo stesso campo: la vita nella totalità sociale; tutte e due
cambiano, hic et nunc, il vissuto. Esse fanno scricchiolare i significanti, reinventano la parola, si impossessano
del reale. Un reale che non è ancora asettizzato, normalizzato, artificializzato, un reale che il desiderio conosce
come il luogo dei possibili. E, precisamente, le due rivoluzioni procedono dallo stesso desiderio”80.
Viene riformulato l’ideale dadaista di una prassi che abolisca la separatezza mistificante dell’arte e
che “lascia segni nella organizzazione della vita”81, ricostruendo un rapporto tra pratica e scrittura capace di
produrre un nuovo racconto della realtà e un possibile cambiamento di essa: ritroviamo in questa tensione
l’esigenza majakovskjana di una rifondazione della pratica politica, analoga a quella che si esprime nella
“azione mao-dadaista”, rivolta a ricongiungere “gli ordini separati del discorso e del comportamento”82.
L’arte è politica nella misura in cui diventa forza produttiva, “fare” che organizza esteticamente la
realtà e produce nuove forme nelle quali l’arte si avvera come utopia del linguaggio e, insieme, linguaggio
dell’utopia83, superando la separatezza rispetto alla vita e coinvolgendo tutti i livelli di questa fino alla loro
completa trasformazione: «L’arte esterna al quotidiano scomparirà, l’arte passerà al servizio della quotidianità
per trasformarla, per cambiarla realmente e non per trasfigurarla idealmente. Essa permetterà di creare il
vivente e di viverlo invece di scriverlo o raffigurarlo e perciò si servirà di tutti i mezzi messi a propria
disposizione dall’estetica, ivi compresa la musica, la pittura e soprattutto l’architettura»84.
Il linguaggio mette quindi in questione tutta la realtà e la ricompone creativamente, instaurando un
rapporto nuovo tra arte e vita, nel quale “la vita diventa l’opera. La vera opera d’arte è l’infinito corpo
dell’uomo che si muove in armonia attraverso gli incredibili mutamenti della propria esistenza particolare”85.
Anche il travestitismo di Mimi e istrioni, in quanto forma di autocostruzione insieme politica, estetica
e teatrale, oltre a essere un linguaggio che ricrea la realtà e afferma la logica dei bisogni e dei desideri
80
Cfr. Mikel Dufrenne, Art et politique, Union Générale d’Editions 10/18, Paris 1974, pp. 269-270, cit. in Marco De
Marinis, La società della festa. Utopia festiva e ricerca teatrale, cit., p. 94.
81
Cfr. Collettivo A/traverso, Scrittura trasversale e fine dell’istituzione letteraria, in “A/traverso”, giugno 1976.
82
Cfr. Collettivo A/traverso, Mao-dadaismo: scrittura/pratica anti istituzionale, in “A/traverso”, ottobre 1975.
Sull’influenza esercitata da Majakovskij sul Movimento del ’77 si veda Klemens Gruber, L’avanguardia inaudita.
Comunicazione e strategia nei movimenti degli anni Settanta (1989), tr. it., Costa & Nolan, Genova 1997, pp. 21-31.
83
Cfr. Gianni Vattimo, Linguaggio, linguaggio artistico, linguaggio musicale, in Alberto Caracciolo (a cura di), Musica e
filosofia. Problemi e momenti dell’interpretazione filosofica della musica, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 36-37.
84
Henri Lefebvre, De la Littérature et de l’art considérés come processus de destruction et d’auto-destruction de l’art,
cit. in Alfredo De Paz, Sociologia e critica delle arti, cit., p. 159.
85
Cfr. Collettivo A/traverso, Scrittura trasversale e fine dell’istituzione letteraria, in “A/traverso”, giugno 1976.
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Seminario Tondelli, decima edizione, Correggio, Palazzo dei Principi, 12 dicembre 2009.
Intervento di Gianni Cimador :”Forse un drago nascerà: il ’77 di Tondelli attraverso Giuliano Scabia”.
individuali, si rivela, nei termini indicati da Garber, “uno spazio di possibilità che struttura e disorganizza la
cultura: un imprevisto elemento di disordine, che introduce non soltanto la categoria della crisi di maschile e
femminile, ma la crisi della categoria in sé”86: si tratta di una prospettiva che sottolinea l’attualità del discorso
bachtiniano sul rovesciamento carnevalesco87 e sulla necessità di una sua traduzione in pratiche sociali,
proprio nel senso di aprire spiragli alternativi rispetto all’autoreferenzialità della politica e al nonsense
paradossale della sua razionalità.
Il tema “carnevalesco”, oltre agli studi di Camporesi88 e alla mediazione teatrale di Scabia, è stato un
filone di ricerca che si è espresso nei giorni del Convegno internazionale contro la repressione e che ha
continuato ad affascinare Tondelli ancora negli anni immediatamente successivi al 1977, come dimostra il
vivace spaccato generazionale di Pao Pao: anche se qui “non c’è più il senso di appartenere a un movimento
collettivo più vasto” e “non esistono più identificazioni collettive che non siano ironiche o citate”89, è tuttavia
ancora presente la ricerca di spazi di alterità rispetto a quelli istituzionali e irrigimentati, in cui possa essere
rifunzionalizzato il paradigma festivo, mettendo al servizio di una comunità le polarità interagenti della
socialità e della transocialità, che innescano, oltre al recupero dell’identità personale e collettiva, una ripresa
della capacità di progettazione utopica, seppure su un terreno sempre più sociale e relazionale piuttosto che
politico.
Le “scritture” di Scabia e di Tondelli, in ambiti diversi ma sulla base di una medesima matrice
progettuale, si configurano quindi come luoghi di progettazione e di sperimentazione di rapporti sociali
diversi, momenti di conquista di un rapporto nuovo tra individualità e socialità, momenti di verifica dei
fallimenti della politica e dell’ideologia: in entrambi i casi l’azione è rimasta progetto, ma è un progetto che
diventa utopia proprio per il solo fatto di restare progetto.
86
Marjorie Garber, Interessi truccati. Giochi di travestimento e angoscia culturale (1992), tr. it., Raffaello Cortina
Editore, Milano 1994, p. 21.
87
Cfr. Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e
rinascimentale (1965), tr. it., Einaudi, Torino 1979.
88
Si può vedere soprattutto Piero Camporesi, La maschera di Bertoldo. G. C. Croce e la letteratura carnevalesca,
Einaudi, Torino 1976. Sull’interesse per il “carnevalesco” negli ambienti accademici e culturali bolognesi nel corso
degli anni Settanta cfr. Marco Belpoliti, Carnevale a Bologna, in Settanta, Einaudi, Torino 2001, pp. 236-271.
89
Cfr. Pier Vittorio Tondelli, Post “Pao Pao”, in Opere. Cronache, saggi, conversazioni, cit., p. 785.
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Seminario Tondelli, decima edizione, Correggio, Palazzo dei Principi, 12 dicembre 2009.
Intervento di Gianni Cimador :”Forse un drago nascerà: il ’77 di Tondelli attraverso Giuliano Scabia”.