Politiche - Trame urbane/Urban Plots

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Politiche - Trame urbane/Urban Plots
Politiche, città
e innovazione tecnologica
Programmi regionali tra retoriche e cambiamento
a cura di Marco Cremaschi
Roma, giugno 2008
1
Sommario
SOMMARIO
2
SOMMARIO
2
INTRODUZIONE
3
PRATICHE E RAPPRESENTAZIONI DEL TERRITORIO CHE CAMBIA
9
PARTE I
22
LO STATO DELLE CITTÀ
23
COMPETITIVITÀ E INVESTIMENTI PER LE CITTÀ
39
VARIETÀ DEI MODELLI DI POLITICHE URBANE
67
TERRITORIO E INNOVAZIONE NELLE POLITICHE REGIONALI
80
PARTE II
92
PIEMONTE, FRA CRISI E TRANSIZIONE
93
VENETO, IMPERATIVI ECONOMICI E DOMANDE DI SOSTENIBILITÀ
141
4. I PROGETTI DEL DOCUP
150
ASSI
151
MISURE
151
AZIONI
151
6. SINTESI DEI PUNTI EMERSI DALL’ANALISI DEL DOCUP
159
TOSCANA, TERRITORI PLURALI E NODI CRITICI
172
LAZIO, TRA COMPETITIVITÀ E DIVERGENZE
206
ELENCO TABELLE E SCHEMI
228
ELENCO FIGURE
230
2
Introduzione
di Marco Cremaschi
Questo volume1 riporta i risultati di una ricerca2 sulle politiche urbane e su quelle per l’innovazione
tecnologica applicate a città e sistemi produttivi attraverso l’analisi dei programmi delle Regioni.
Inoltre, ricostruisce gli scenari di evoluzione in quattro regioni del centro Nord.
In particolare la ricerca, svolta nel corso del 2006, riguarda la coerenza tra i due settori di politiche e
la competitività delle aree urbane. A questo fine, è stato preso in esame il ciclo di programmazione
2000-2006, con un occhio però anche al ciclo successivo nel quale le regole sono diverse, i vincoli
minori e, soprattutto, i due temi di indagine guadagnano maggior rilievo.
Questi cambiamenti si sono prodotti in congiuntura con una rilevante transizione sia dei modelli insediativi e produttivi delle regioni, che delle regole e degli stili di programmazione. L’insistenza del
lavoro è quindi sugli elementi di cambiamento rispetto a percorsi, fin qui, consolidati. Da qui l’attenzione prevalente agli elementi che influenzano la formazione delle politiche e delle intenzioni,
piuttosto che agli elementi strutturali o di inquadramento programmatico.
In altre parole, la ricerca non misura gli effetti delle politiche ma piuttosto gli slittamenti nelle rappresentazioni. Non mancano in letteratura ricerche sulle misure, le conoscenze analitiche e la valutazione degli effetti. L’ipotesi che qui si è privilegiata considera che -a cavallo dello scorso decennio- i soggetti della programmazione regionale si siano trovati in un momento di ristrutturazione dei
presupposti, anche ‘cognitivi’, delle politiche pubbliche relative ai territori. Sono cambiati, in quel
momento, sia le tendenze globali che i riferimenti macroeconomici; sono rapidamente invecchiati i
presupposti dei programmi in atto, e si sono affacciate una serie di sollecitazioni sperimentali; anche
la rappresentazione geografica del territorio regionale è apparsa più o meno improvvisamente inadeguata.
Come è noto, negli anni Novanta i paesi dell’Europa si sono scontrati con la riduzione della crescita
economica e con la crescente incertezza sulla capacità di ridurre gli squilibri regionali come avvenuto in precedenza. Il common wisdom della competitività e dell’innovazione sembra affermarsi, almeno nei discorsi e nei programmi comunitari, sebbene tenda ancora ad essere assunto in modo indistinto e strumentale.
Le nuove parole d’ordine (innovazione, competitività) non si sostituiscono né si accostano facilmente alle precedenti (coesione, integrazione). Le regioni si trovano evidentemente di fronte ad una
sfida: combinare gli elementi di innovazione e quelli di continuità nei nuovi documenti strategici.
In questo contesto la ricerca ha assunto come ipotesi di partenza una visione ‘allargata’ del campo
decisionale: in sintesi, la convinzione è che, sotto l’apparente omogeneità d’ispirazione, la programmazione delle regioni del centro Nord sia stata in realtà molto diversificata. In particolare, ci si at1
La redazione finale del volume è responsabilità del curatore, ma non sarebbe stata possibile senza le attente riletture, i
commenti e i suggerimenti di Claudia Gatti, dottoranda presso il Dipartimento di Studi Urbani della Università Roma
Tre; e di Anna Paola Di Risio, consulente Dps.
2
La ricerca “Politiche economiche e per la competitività di città e di reti urbane nella futura programmazione comunitaria in Regioni Ob2” è stata affidata dal Gruppo di Contatto tra le regioni costituito presso il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo del Ministero dell’Economia all’Istituto ricerche interventi sociali di Prato, sotto la direzione di Marco
Cremaschi, Università degli Studi Roma Tre, ed è stata svolta con l’ausilio di ricercatori di diverse università e centri di
ricerca, In particolare Marco Bellandi, Università degli Studi di Firenze; Massimo Bressan, Università degli Studi di Firenze e Iris, Prato; Armando Dei, direttore Iris, Prato. Hanno inoltre collaborato: Nataša Avlijaš, Università degli Studi
Roma Tre (Città); Anna Paola Di Risio, consulente Dps (Atlante e Impieghi metropolitani); Annalisa Caloffi, Università
degli Studi di Firenze (Innovazione); Pietro Elisei, Università di Roma Tre (Lazio); David Fanfani, Università degli Studi di Firenze (Toscana); Francesco Gastaldi, Università degli Studi di Genova e Politecnico Torino (Piemonte); Francesca Gelli, Iuav Venezia (Veneto); Silvia Lucciarini, Università degli Studi Roma Tre (Morfologie territoriali); Massimiliano Radini, Università degli Studi di Firenze e Iris, Prato (Morfologie sociali e occupazionali); nonché Giulietta Fassino, Politecnico Torino; Mara Tognon, Università degli Studi di Padova; Federica Benelli, Giorgio Varsalona, Università
degli Studi Roma Tre.
tendeva –aspettativa largamente verificata- che, pur con le medesime regole, alcuni elementi cruciali
fossero ampiamente differenziati.
In particolare, sono stati studiati gli effetti di alcune regole esterne e di decisioni interne sulle scelte
di investimento, tra cui soprattutto: le conseguenze della indicazione dei perimetri delle aree risultata dagli indicatori definiti in sede comunitaria; il confronto tra la scelta dichiarata e, quella realizzata
ex post, delle priorità; l’effettiva concentrazione e eventuale integrazione degli investimenti; l’equilibrio tra elementi propri alla programmazione ordinaria e agli aspetti innovativi (in particolare, nei
due settori di politiche di maggior interesse in questa sede).
In altre parole, è evidente in questa ipotesi la convinzione che le scelte siano state fortemente path
dependent, abbiano cioè subito l’influenza del percorso evolutivo della programmazione regionale,
anche al di là delle intenzioni espresse. Questa convinzione diventa cruciale nell’esame di come le
regioni si siano orientate in una fase che abbiamo definito appunto di cambiamento.
Le decisioni dipendono infatti da orientamenti programmatici ‘interni’ alle politiche regionali, frutto
dell’intenzionalità, delle maggioranze politiche, della combinazione delle reti che rappresentano
coalizioni di interessi e intrecci di scala decisionale; e altrettanto ovviamente, dipendono da vincoli
(nuovi regolamenti) e shock esterni (la transizione economica), naturalmente elementi tra loro di diversa forza e cogenza.
Ma dipendono anche dalle “pratiche” di programmazione sedimentate nel ciclo scorso, dall’architettura e dallo stile dei documenti di investimento, nonché dai modi e dalle vicende della mobilitazione
dei territori. Ai fini delle indicazioni programmatiche, dunque, i suggerimenti raccolti sottolineano
da un lato gli elementi di vincolo (le condizioni esterne, i frame cognitivi, le intenzioni) e dall’altra
le capacità consolidate (nelle pratiche, nei potenziali riconosciuti, ma anche nelle situazioni problematiche).
In definitiva, la sedimentazione di pratiche programmatorie dentro ed attraverso le regole e le intenzioni del ciclo di programmazione scorso influenzerà anche il prossimo: cambiamenti e innovazioni
non sono pertanto meno probabili, ma vanno valutati con grande realismo e soprattutto inseriti in un
contesto politico programmatico che vede, accanto a regole e realizzazioni maturate nella gestione
dei fondi strutturali, tanti altri elementi in movimento.
Politiche Urbane
L’indagine ha riscontrato un’elevata similarità dei documenti di programmazione 2000-2006 per
quanto attiene i temi urbani e l’innovazione. La quasi totalità di questi, infatti, attinge copiosamente,
sia nella terminologia che nelle finalità, alle direttive comunitarie. Quello che varia – ma meno di
quanto sarebbe giustificabile in base alla varietà dei punti di partenza - è il peso di ciascun asse. Diverse sono anche le modalità realizzative proposte. Ma in generale, le differenze di impianto non
sono elevate, le caratteristiche comuni prevalgono sui caratteri specifici, le misure e le azioni sono
solo parzialmente declinate localmente, l’adattamento ai caratteri regionali è relativamente modesto.
I riferimenti alle politiche per le aree urbane sono frequenti nei POR delle regioni meridionali, salvo
le piccole regioni meridionali e nelle isole, dove addirittura gli interventi parrebbero del tutto assenti, come pure nelle regioni Centro Nord (ove però intervengono restrizioni dei regolamenti). In generale, però, va rimarcato che le politiche per le città sono state svolte in questo periodo in modo sovrapposto da fondi ordinari e straordinari, dallo stato, dalle regioni, nonché dalle (maggiori) città.
Quindi, il rilievo delle politiche urbane è probabilmente maggiore di quanto possa apparire dalla lettura dei soli documenti regionali. Al tempo stesso, la varietà di iniziative, misure, stili e modelli di
politiche per le città risponde più alle fonti normative e ai criteri di spesa, che non agli obiettivi delle politiche. In definitiva, la politica per le città avviene per canali più ampi e confusi di quelli esplicitati dai documenti regionali, e si realizza sovente con qualche confusione e sovrapposizione.
Misure per la promozione di impresa e sviluppo nelle aree urbane sono rese esplicite dalle regioni
meridionali; solo in parte da quelle del Nord-Ovest, ancor meno negli altri ambiti territoriali. Comunque, queste misure sono molto differenziate nel Mezzogiorno, mentre si fondano su attività pre-
gresse nel Nord. In entrambi i casi, il mix di obiettivi rispecchia le caratteristiche delle regioni, più
che le situazioni specifiche delle città.
Le misure rivolte alla riduzione del disagio sociale sono presenti soprattutto in alcune regioni del
centro (non nel Lazio e nelle Marche) e in tutto il sud. Si può immaginare inoltre che si sovrappongano con altri strumenti ordinari, con le misure dell’ob. 3, ecc. (che non è stato possibile prendere in
esame in questo lavoro). Ma non appare un’attenzione alla qualificazione delle risorse umane come
elemento specifico delle economie urbane, e come elemento di sostegno allo sviluppo e alla competitività. Inoltre, la concentrazione degli elementi del disagio urbano in aree critiche prioritarie (sull’esempio dei quartieri in crisi) non risulta messa bene a fuoco né per le grandi città del Nord, né al
Sud.
L’indagine sulle quattro regioni amplifica ulteriormente l’impressione di un quadro locale di politiche per la città al tempo stesso complesso e frammentario. Nei quattro casi i modelli, la composizione e le performance urbani sono incomparabili, rendendo assai improbabile un quadro di orientamento comune; inoltre, manca anche un apprezzamento di ciascuna regione per i caratteri distintivi
della propria rete urbana (fa eccezione in prospettiva, il riconoscimento emergente per Roma capitale da parte del Lazio).
E’ anche vero che in modo maggiore di quanto prevedibile in base alla applicazione dei regolamenti, e anche di quanto esplicitato dai documenti di indirizzo, una certa concentrazione sulle aree urbane si è prodotta, mancando però il più delle volte di un quadro strategico chiaro. Non è un caso, peraltro, che proprio in queste regioni si attuino in questi anni le maggiori sperimentazioni di piano
strategico metropolitano, senza particolari relazioni con il quadro del Docup (solo un esempio: il PS
di Torino fa solo parzialmente tesoro delle politiche sulle periferie, uno tra i più fertili incroci di
programmi comunitari e iniziative locali).
Ma sarebbe difficile, e fuorviante, trarre una visione completa delle politiche urbane dai soli Docup,
perché hanno mal diretto l’attenzione alle città, in parte per vincoli regolamentari, in parte perché
sul tema crescevano comunque –in modo un po’ disordinato e contraddittorio- iniziative nazionali,
regionali e locali. Prevalgono, nelle iniziative per le città, orientamenti omni-direzionali e poco territorializzati, pur con parziali eccezioni come il Piemonte e l’Emilia Romagna (e per certi versi la
Calabria o le isole).
Una rassegna delle politiche urbane intraprese nel periodo (come è noto, sono stati avviati numerosi
programmi) restituisce infatti una gamma di interventi molto più ampia. Al di là delle specifiche caratteristiche di questi, dai primi Programmi integrati di fine anni ’80 ai recenti Accordi di programma quadro per le città, quel che occorre notare è la densità di iniziative che vengono a combinarsi
localmente. Questo avvalora l’idea di una politica urbana implicita, che risulta dalla capacità locale
di combinare iniziative promosse da regioni, stato e comunità.
Innovazione tecnologica
Il radicamento territoriale appare un elemento centrale del processo d’innovazione quando si mettono in evidenza le regole sociali che legano il contesto della produzione (la ricerca il laboratorio) all’ambiente di imprese, istituzioni, processi cognitivi che la incorporano in beni e servizi. Corrispondentemente, la promozione privilegia o gli incentivi monetari o l’apprendimento collettivo.
Diverse forme di territorializzazione della innovazione –distretto industriale, città dinamica, sistema
regionale di innovazione- sono state studiate in letteratura, e riconosciute nelle forme insediative e
produttive del nostro paese.
Le politiche dell’innovazione dalle regioni combinano visioni e pratiche dell’innovazione tecnologica e delle politiche territoriali. Il riferimento a distretti, sistemi produttivi locali e simil-distrettuali,
sistemi regionali di innovazione è diffuso. Non emergono invece né la “città”, né i maggiori centri
urbani o metropolitani, pur se inevitabilmente coinvolti dagli interventi regionali o di distretti; e in
parte perché esclusi dai regolamenti ob. 2. Manca insomma un’esplicita tematizzazione del ruolo
dei centri urbani maggiori entro i sistemi regionali di innovazione.
Sono stati individuati tre modelli, tra loro parzialmente sovrapposti:
1. una visione lineare dell’innovazione, che insiste su incentivi alle imprese e sul miglioramento del funzionamento dei “mercati” dell’innovazione;
2. una visione processuale dell’innovazione sul modello ‘Organizzazione/Impresa’ che cerca di
favorire la formazione di competenze manageriali e imprenditoriali di alto livello ma radicate nei luoghi;
3. infine, una visione che insiste sulle “forze locali” e privilegia interventi in grado di stimolare
“relazioni generative” di innovazione (che fan perno cioè sulla crescita delle capacità interne), sull'innovazione organizzativa e commerciale e le strategie sistemiche di internazionalizzazione coerenti ai caratteri di fondo dei sistemi di produzione.
La parte finanziariamente più consistente delle misure, presente nella maggior parte dei programmi
regionali, riguarda il primo modello degli approcci lineari all’innovazione. L’obiettivo di rafforzare
il “sistema regionale di innovazione” ricorre in vari documenti regionali, ma si traduce in misure declinate prevalentemente secondo la chiave “O/I” (centri ricerca, trasferimento tecnologico, incubatori, reti telematiche…). Infine sono presenti, ma ancora scarsamente diffusi, gli approcci sistemici
orientati a distretti, sistemi produttivi e filiere localizzate, che comprendono interventi infrastrutturali, promozione all’estero, riorganizzazione delle attività, supporto all’internazionalizzazione.
In questa ultima visione, in particolare, gli interventi si avvicinano e si incrociano con le azioni di
animazione del territorio e di stimolo alla creazione di reti di innovatori, anch’esse adottate da alcune Regioni. Le potenzialità di crescita produttiva dei distretti e creativa delle città nel caso italiano
sono frequentemente intrecciate, e possono essere meglio combinate anche nella impostazione delle
politiche.
Infatti, va segnalata nel caso italiano una potenzialità particolare. Nelle città più dinamiche e a maggiore presenza distrettuale (Milano, Bologna, Firenze, ma anche Vicenza, Verona, Ancona, Torino,
Napoli) sono presenti sia sistemi dell'alta tecnologia e dell'alta cultura, ma anche funzioni urbane
pregiate, fattori locali simili a quelli distrettuali, giacimenti storico-culturali, tradizioni di artigianato
artistico, funzioni turistiche… Questa combinazione ha un valore orientativo sugli investimenti ed
influenza le scelte dei buyers internazionali perché le città catalizzano elementi di tendenza associati
al Made in Italy.
La situazione delle regioni
I casi studio raccontano i modi in cui gli indirizzi dei Docup sono stati tradotti in iniziative nelle
quattro regioni indagate. Il quadro dei vincoli è apparso meno rigido e determinato di quello che
avrebbe potuto apparire sulla carta. Gradi di libertà sono stati introdotti negli indirizzi, i percorsi
pregressi hanno inciso sulla attuazione, modi e stili diversi (e anche inerzie e resistenze) hanno rediretto le decisioni formali.
Come è noto, i vincoli regolamentari avevano imposto delle restrizioni nella scelta delle aree ob. 2
in ciascuna regione, che è però avvenuta con forti diversità di orientamento tra le 4 regioni, che rispecchiano certamente la struttura economico territoriale ma dipendono anche da indirizzi di governo.
Il tradizionale carattere ‘distributivo’ dell’obiettivo 2 risulta, almeno in parte, corretto da una certa
concentrazione registrata in vario modo intorno a programmi integrati e città, anche se dei veri
orientamenti strategici faticano ad emergere.
Le scelte di indirizzo sono guidate da rappresentazioni consolidate e ‘spesse’ del territorio delle regioni che appaiono oggi -sia pur in misura diversa- usurate di fronte al ritmo veloce della globalizzazione.
Le forme di governance locale, pur molto diverse tra loro, hanno evidentemente influenzato la capacità di governo e di adattamento evolutivo ai forti mutamenti del periodo.
Nelle “pratiche” di programmazione e nella mobilitazione dei territori si sono anche consolidate, in
modo un po’ ambivalente, delle capacità che hanno interagito con i vincoli nel determinare i percor-
si specifici di attuazione di questi documenti. Si tratta di capacità ancora poco strategiche e poco
flessibili, ancorate come sono a modelli gerarchici e funzionali di costruzione delle politiche. Le innovazioni sul campo sono state rilevanti e non sono mancati segnali di adattamento di un certo respiro.
La territorializzazione è stata spesso confusa con la definizione di aree di programma, dove concentrare interventi di per sé non particolarmente integrati se non per la prossimità. D’altra parte, il riconoscimento delle differenze e la mobilitazione dei territori sono un aspetto comune, e un lascito durevole dell’epoca appena trascorsa.
L’integrazione delle iniziative solo in pochi casi ha consentito di maturare un approccio strategico ai
territori e alla mobilitazione intorno ai progetti; si pone in generale un problema rilevante di intercomunalità, non sempre risolto dall’azione delle province.
La capacità di intercettare i nuovi sviluppi tecnologici è stata modesta, anche se le iniziative prese
sono state progressivamente declinate in modo più adeguato al locale.
Anche nelle politiche urbane prevale un’evoluzione frammentaria, spesso ai margini dei docup, nonostante le città si siano attivate proprio nel periodo trascorso.
In prospettiva, il primo aspetto problematico generale riguarda come le dinamiche endogene si riconnettono alle sfide della globalizzazione. Un secondo problema generale riguarda la riduzione
tendenziale delle risorse pubbliche che solleva il problema del coordinamento delle risorse pubbliche (Fas, altri programmi comunitari, risorse locali) e dell’acquisizione di quelle private.
Queste due condizioni generali portano a concludere che le rappresentazioni territoriali nei prossimi
documenti dovranno essere particolarmente incisive e pertinenti e in particolare dovranno offrire un
supporto all’interfaccia tra dinamiche locali e globali e un sicuro ancoraggio per il coordinamento
dei programmi d’azione di soggetti diversi e plurimi. Infine, appare emergere un forte problema di
governance verticale in relazione ai rapporti tra livelli istituzionali.
Dal lato delle capacità, la situazione sembra matura per approfittare con successo della maggiore libertà concessa dai nuovi regolamenti. In alcune aree, pur con molti problemi di opportunismo e rigidità, la mobilitazione degli attori locali ha aggregato ‘territori di progetto’.
Negli ambiti più specifici della innovazione e delle città, rimangono in ombra i problemi della scarsità di manodopera e della sua qualificazione; e viceversa, l’incremento dell’immigrazione, che rappresenta un problema (e un’opportunità) comune a città e imprese.
L’ambivalenza sembra rimanere aperta tra un maturo approccio al divario tecnologico e ai temi della innovazione, che richiede elevati requisiti di intenzioni e consenso, e formule di politiche, apparentemente risolutive come i centri di eccellenza territoriali.
Rispetto alle intense politiche fondiarie della fase precedente, la dimensione ‘strategica’ delle politiche urbane è matura, però mal si riflette nelle iniziative dei Dsr e dei documenti di programmazione.
Inoltre, rimane carente il quadro degli investimenti sull’ambiente e la mobilità.
L’articolazione del volume
Il primo capitolo sintetizza gli orientamenti generali e i suggerimenti tratti dai casi. Le regioni oggetto dei casi studio sono state confrontate tra loro e con le analisi tematiche su città e innovazione,
al fine di fornire non tanto degli scenari alternativi, ma quantomeno delle situazioni problematiche
significative per l’elaborazione dei programmi integrati e delle priorità da adottare in accordo con le
“Linee Guida” 2007-2013.
Nel capitolo successivo (cap. 2) si riportano i risultati di un’esplorazione analitica della configurazione metropolitana del paese. L’ipotesi metodologica è volutamente la più semplice e stringata, eppure consente numerose indicazioni sulla forma, struttura e peculiarità dell’armatura metropolitana.
Oltre ad elaborare gli indicatori in base ai dati censuari recenti e ad elaborare delle mappe in una
specie di ‘atlante’, il capitolo fornisce altre due riflessioni: sulla concentrazione degli impieghi urbani avanzati, da una parte; e sugli indirizzi delle politiche urbane nel prossimo ciclo di programmazione, dall’altra.
Questo tema è al centro anche del capitolo successivo (cap. 3), che esamina i programmi integrati
elaborati dalle regioni dalla fine degli anni ’80 fino ai più recenti Accordi di programma quadro per
le città. La gamma degli interventi è ampia, le iniziative si combinano localmente in modo vario, la
somma delle risorse che ha investito le città (pur con dati non sempre comparabili) è considerevole.
Questo avvalora l’idea di una politica urbana implicita, che risulta dalla capacità locale di combinare iniziative promosse da regioni, stato e comunità.
Ma ciò è vero anche per le politiche della innovazione (cap. 4), formalmente scolastiche e ripetitive,
ma sempre più declinate in modo differenziato localmente. Anche le politiche dell’innovazione delle regioni combinano visioni e pratiche dell’innovazione tecnologica e delle politiche territoriali. Il
riferimento a distretti, sistemi produttivi locali e simil-distrettuali, sistemi regionali di innovazione è
diffuso. Non emergono invece né la “città”, né i maggiori centri urbani o metropolitani, pur se inevitabilmente coinvolti dagli interventi regionali o di distretti; e in parte perché esclusi dai regolamenti
ob. 2. Manca insomma un’esplicita tematizzazione del ruolo dei centri urbani maggiori entro i sistemi regionali di innovazione.
La seconda parte del volume contiene i quattro casi studio del Centro Nord (Piemonte, Veneto, Toscana e Lazio) in altrettanti capitoli. Da questi studi risulta invece che, pur con medesime regole, gli
elementi cruciali della programmazione (perimetri, priorità, concentrazione, integrazione, innovazioni) sono risultati ampiamente differenziati. Questo è anche dipeso dal fatto che gli indirizzi erano
guidati da rappresentazioni consolidate e ‘spesse’ del territorio maturate nella fase precedente di crisi industriale, immagini che appaiono oggi, sia pur in misura diversa, usurate di fronte al ritmo veloce del decentramento e della terziarizzazione.
Oggi, la transizione insediativa e produttiva delle regioni sembrerebbe richiedere un’ulteriore revisione delle immagini guida. In un certo senso, il tema del Piemonte non è più la difesa/superamento
della Fiat, come non è più la difesa/superamento del distretto il tema del Veneto o della Toscana.
Mancano però scenari territoriali selettivi e pertinenti per inquadrare l’orizzonte delle scelte. I Docup non sono venuti meno al tradizionale carattere ‘distributivo’, tipico peraltro dell’obiettivo 2.
Ciononostante, alla prova delle riprogrammazioni, questo carattere risulta, almeno in parte, corretto
da una certa concentrazione tematica e territoriale, registrata in vario modo intorno a programmi integrati e città, anche se dei veri orientamenti strategici faticano ad emergere. Non c’è dubbio in questo senso che il riconoscimento delle differenze e la mobilitazione dei territori siano un aspetto comune, e un lascito durevole dell’epoca appena trascorsa. Ma va anche detto che la forma di territorializzazione prevalente è stata la definizione di aree-programma, la forma meno interessante, la circoscrizione cioè di ambiti dove concentrare interventi di per sé non particolarmente integrati.
Pratiche e rappresentazioni del territorio che cambia
di Marco Cremaschi
I cambiamenti che negli ultimi dieci anni hanno investito le quattro regioni oggetto di studio hanno
evidenziato processi di trasformazione economica, sociale e insediativa peculiari per ciascuna delle
aree. Gli elementi chiave risiedono nei processi di trasformazione produttiva e di terziarizzazione
urbana che, puntando soprattutto su capacità competitive e innovative del territorio, hanno seguito
percorsi e finalità differenti nei quattro casi.
Le quattro regioni descrivono modi molto diversi di gestire la transizione ad un’economia post industriale. Le differenze sono marcate, e corrispondono in larga misura ai caratteri specifici del sistema
produttivo e insediativo, e ai percorsi diversi della crisi. Sono differenze che tutto sommato si accordano meno alla situazione individuale, che non a specifici stili di decisione e programmazione.
In base alla indagine sugli indirizzi programmatici, le differenze tra i quattro casi studio sono apparse marcate. Sia nella struttura e negli indirizzi generali, che per le politiche per le città e l’innovazione dei sistemi produttivi, i quattro casi mostrano posizioni diverse.
Per quanto riguarda l’innovazione, Veneto e Toscana danno spazio alle reti di imprese, quest’ultimo
anche con attenzione ai distretti, sistemi produttivi locali o specifici settori tecnologici; mentre Piemonte e Lazio (questo anche attraverso settori o tecnologie specifiche) privilegiano lo strumento
delle agenzie.
Per quanto attiene alle politiche urbane, Il Piemonte ha favorito iniziative di maggior respiro, che
cercano di favorire processi di riconversione della base economica e produttiva, di miglioramento e
diversificazione dell'offerta urbana; la Toscana ha ampiamente territorializzato le politiche urbane,
orientate però in modo tradizionale alle infrastrutture e all’efficienza produttiva; Lazio e Veneto
hanno curato altre iniziative, non molto orientate alle città e meno attente allo sviluppo delle risorse
umane, e senza un forte riferimento territoriale.
Anticipando un giudizio di sintesi, certamente schematico ma suggestivo, questi Docup appaiono
condizionati nel bene o nel male dalla preesistenza della grande industria: quando questa mancava,
o era stata storicamente debole, e deboli gli effetti della sua crisi, i Docup sono risultati remediali e
distributivi, poco concentrati e poco integrati, come nel caso del Veneto e del Lazio, quest’ultimo
simile addirittura ad un Por; laddove la grande industria è stata presente, e la deindustrializzazione
ha costituito il problema per eccellenza, come nel caso del Piemonte e della Toscana, questi documenti sono risultati un poco più orientati strategicamente, e un poco più territorializzati.
Queste differenze si sono tradotte in orientamenti programmatici, frutto dell’intenzionalità politica e
delle reti di interessi; ma sono anche venuti a dipendere da vincoli, regolamenti e shock esterni (la
transizione economica), elementi di diversa forza e cogenza. Elementi che sono stati diversi e si
sono combinati in modo diverso in ciascuna regione, in linea con situazioni e ispirazioni particolari.
Ma sono anche venuti a dipendere da fattori meno espliciti ma non meno influenti. In questa indagine è stata prestata una forte attenzione alle “pratiche” di programmazione esperite, allo ‘stile’ dei
programmi di investimento, nonché alle vicende della mobilitazione dei territori. Come vedremo, il
dispiegarsi delle pratiche ha influenzato a ritroso gli orientamenti programmatici, e mostra in definitiva una crescente somiglianza tra i diversi esempi.
Ai fini delle indicazioni programmatiche, dunque, la lettura condotta ha esaminato da un lato i presupposti e dall'altro le pratiche. I presupposti dei programmi dipendevano in particolare dai modi
delle perimetrazioni, dalle scelte delle priorità, dalla rappresentazione del territorio, dagli stili di
governance. Le pratiche si sono sviluppate a partire dalle forme di territorializzazione dei programmi (non sempre deliberate ex ante), e dalle tematiche specifiche delle politiche per l’innovazione e
le città (sovente resistenti alle categorie delle politiche).Per esempio, la tematizzazione della città
nei programmi regionali -come si vedrà in seguito- è molto diversa, sia da un punto di vista qualita-
tivo che quantitativo a seconda se viene riguardata dal punto di vista dei presupposti o delle pratiche.
Impostazione
L’indagine ha resocontato che le politiche regionali su città e innovazione tecnologica sono apparse
in forte “ristrutturazione”.
In particolare, la programmazione delle regioni è risultata molto diversificata nonostante l’apparente
omogeneità d’ispirazione che avrebbe dovuto risultare dalla presenza - nel centro Nord- di regole
comuni e di fattori economici e insediativi simili (e, inoltre, di una regia comune nel Mezzogiorno).
Ma si può generalizzare ricordando che la riconversione della base industriale delle città è cominciata negli anni ’70 ed è avanzata considerevolmente in questi anni, pur tra incomprensioni e conflitti sociali. Inoltre, il processo di finanziarizzazione e globalizzazione delle economie è intervenuto successivamente a radicalizzare gli effetti sociali e urbani dei processi di cambiamento, e a generalizzare modelli di trasformazione basati su pochi assunti comuni.
Secondo alcune attese abbastanza diffuse, tutte le città che un tempo sono state industriali avrebbero
dovuto seguire i percorsi evolutivi già battuti da alcuni pochi casi felici di trasformazione di successo (uno per tutti, Barcellona). Formazioni retoriche basate su elaborazioni analitiche anche di un
certo spessore, descrivono questi esiti in termini ambiziosi: la città competitiva, il rinascimento urbano, la città creativa...
Tutte queste nozioni colgono alcuni elementi centrali di questa fase, ma danno per scontato proprio
il carattere più problematico, e cioè l’arena urbana e la sua capacità di produrre politiche locali.
Inoltre, sembrano negare o qualificare come vetero e residuale il carattere produttivo-manifatturiero
delle città ed enfatizzare, al contrario, un destino terziario e ricreativo che non solo non è scontato,
ma non è neanche sempre egualmente probabile. Inutile dire che dalla presenza di una rete di città
produttive dinamiche e innovative dipende il successo della Agenda di Lisbona, molto più che dai
pochi esempi di centri terziari, finanziari o ‘culturali’ di successo. Secondo l’approccio prevalente,
schematizzando forse un po’, sarebbe invece sufficiente accettare le nuove parole d’ordine (innovazione, competitività, ecc.) per avviare politiche di successo per le città.
In realtà, le teorie che hanno giustificato l’approccio della competitività urbana sono tutt’altro che
banali. Condividono tutte però la provenienza dalle scienze economiche, o dalla geografia internazionale, che ne condiziona le possibilità d’uso. Gran parte del dibattito si è concentrata infatti sui
fattori della competitività e dell’innovazione, e sui modi di trasferire modelli e ragionamenti dagli
stati nazionali alle regioni o alle città. In questa riflessione, la specificità delle città è stata per necessità semplificata, e ridotta in qualche misura all’idea unitaria del governo o dello stato nazionale.
Ma questa semplificazione si adatta solo in parte e con qualche difficoltà alla natura delle città,
come peraltro mostrano anche le ricerche più recenti. Ad una rassegna della letteratura, si scopre
con facilità che le politiche promosse dalla città sono molto più frammentarie di quanto auspicato
dai quadri teorici sulla competitività urbana, e più ripetitive nei modi di intervento di quanto atteso
dai manuali e dai quadri di azione sovranazionali.
Molte delle ricerche empiriche si limitano a constatare che i risultati dipendono per lo più dalla stratificazione di azioni di rinnovo immobiliare, di promozione di edilizia direzionale e, nel migliore
dei casi, di diversificazione della base produttiva (quasi sempre nella direzione turistico/culturale).
Inoltre, le pur numerose innovazioni prodotte localmente hanno messo a fuoco problemi locali difficilmente comparabili: l’innesto di politiche sociali, di quelle dell’innovazione e del quadro strategico urbano; il quadro di vita e il commercio dei piccoli centri; la combinazione di elementi di assetto
ambientale, infrastrutture, e sostegno alle attività produttive e la territorializzazione delle misure.
E significativo, inoltre, che le principali esperienze di Piani strategici sviluppate dalle maggiori città
europee negli ultimi venti anni (Barcelona, Lyon, Glasgow, Torino) siano pressoché avulse dalla
programmazione dei fondi nazionali e comunitari.
Sarebbe però scorretto concludere che le politiche della città mai si adattano agli obiettivi ambiziosi
fatti propri dai quadri comunitari. Al contrario, quello che sembra problematico è la definizione di
politiche locali come trasferimento di modelli nazionali e internazionali, senza considerare la specificità delle città, e delle politiche locali, come campo di azione collettiva.
La contraddizione tra i caratteri locali delle politiche è centrale nelle politiche urbane, che nello
scorso periodo sono cresciute di ampiezza, sia pur in modo ibrido e sommerso, e risultano oramai
dalla sommatoria non sempre armoniosa di politiche locali (secondo un paradosso frequente in analisi delle politiche, i comuni risultano essere uno dei principali attori delle politiche nazionali delle
città), regionali, nazionali e comunitarie.
Tale contraddizione è divenuta centrale anche nelle politiche per la innovazione tecnologica delle
imprese, dove è emerso come elemento centrale la forma di territorializzazione della innovazione –
distretto industriale, città dinamica, sistema regionale di innovazione- riconosciuta nelle forme insediative e produttive di diversi paesi.
In questo contesto la ricerca assume come ipotesi di partenza una visione ‘allargata’ del campo decisionale: in sintesi, la convinzione è che, sotto l’apparente omogeneità d’ispirazione, la programmazione locale sia in realtà molto diversificata.
Le politiche locali delle città sono l’oggetto da ridefinire, che viene assunto in modo inadeguatamente semplicista dai quadri teorici sulla competitività e l’innovazione.
Al contrario di quanto spesso ritenuto, le politiche locali dipendono da svariate decisioni prese in
campi altamente conflittuali. Da questo punto di vista, paiono solo in parte rilevanti gli ‘oggetti’ più
tipici dell’analisi politica e cioè gli orientamenti programmatici ‘interni’ alle politiche, frutto di intenzionalità espressa e deliberata. E al contrario, appaiono più incidenti altri fattori, a monte e a valle delle decisioni e dei programmi.
La letteratura sulle politiche ha peraltro da tempo messo in luce i fattori non intenzionali dai quali
dipendono le decisioni. In particolare, la combinazione di reti che rappresentano coalizioni di interessi e intrecci di scala decisionale; le “pratiche” di programmazione sedimentate in precedenza; il
percorso di sviluppo; i modi e le vicende della mobilitazione dei territori. Ma soprattutto, dipendono
da vincoli (nuovi regolamenti) e shock esterni (la transizione economica).
Ai fini della ricerca, dunque, le politiche definite da diverse città sembrano dover dipendere più da
questi fattori che da condizioni astrattamente generali relative ai fattori di competitività. Dipendono
cioè più da gli elementi di vincolo (le condizioni esterne, i frame cognitivi, le intenzioni) e dalle capacità consolidate (nelle pratiche, nei potenziali riconosciuti, ma anche nelle situazioni problematiche), che non da intenzioni e regole generali.
Il radicamento territoriale appare un elemento centrale anche del processo d’innovazione tecnologica. La migliore ricerca degli anni passati ha messo in evidenza le regole sociali che legano il contesto della produzione (la ricerca, il laboratorio) all’ambiente di imprese, istituzioni, processi cognitivi
che la incorporano in beni e servizi.
Allo stesso modo, il tessuto urbano nel suo complesso è permeato da regole sociali che legano le innovazioni all’ambiente di gruppi sociali depositari di patrimoni di conoscenza, in parte obsoleti ma
in parte attivi. Saperli riconoscere e mettere in gioco fa parte delle possibili strategie di trasformazione dei sistemi produttivi urbani.
Il lavoro mira dunque a porre in relazione le politiche urbane e le politiche per l'innovazione tecnologica, soprattutto in presenza di cluster produttivi urbani che si rafforzano anche al di fuori dei sostegni formali. Una più stretta relazione tra politiche urbane e politiche di innovazione favorirebbe
l’attrazione di imprese innovative, da un lato; ma anche l’avvio di rigenerazione urbana, sia con risvolti materiali (nelle aree ex industriali), sia tramite la creazione di nuovi impieghi e qualificazioni
della forza lavoro.
Presupposti
I quattro casi studio raccontano in profondità il quadro economico-territoriale e programmatico nel
quale sono stati predisposti i Docup, e raccontano i modi in cui questi indirizzi sono stati tradotti in
iniziative.
In primo luogo, vincoli regolamentari hanno imposto delle restrizioni nella scelta delle aree ob. 2 in
ciascuna regione, che dovevano far riferimenti alle aree di crisi e ricorrere a parametri oggettivi. In
realtà, l’applicazione registra forti diversità di orientamento tra le 4 regioni, che rispecchiano certamente la struttura economico territoriale ma dipendono anche da indirizzi di governo.
In secondo luogo, il tradizionale carattere ‘distributivo’ dell’obiettivo 2 risulta, almeno in parte, corretto da una certa concentrazione registrata in vario modo intorno a programmi integrati e città, anche se dei veri orientamenti strategici faticano ad emergere. Nello stesso periodo, va ricordato, le
principali città hanno dato segno di maggior capacità strategica, si sono dotate di una politica economica e sociale autonoma, talvolta di veri e propri piani strategici, hanno sviluppato network e attivato risorse nascoste o alternative.
In terzo, e sarebbe difficile nasconderne l’importanza, le scelte di indirizzo sono guidate da rappresentazioni consolidate e ‘spesse’ del territorio delle regioni, molto influenti in Veneto e Toscana,
ma non meno radicate in Piemonte e Lazio. Ma le rappresentazioni di tutte e quattro le regioni appaiono oggi -sia pur in misura diversa- usurate di fronte al ritmo veloce della globalizzazione, in particolare rispetto, da un lato, alla valutazione tradizionale degli squilibri territoriali; dall’altro, al modello di sviluppo tradizionale, dappertutto in evoluzione in relazione a condizioni esterne e lontane.
Infine, le forme di governance locale sono molto diverse tra loro, e combinano diversamente regioni
e capoluoghi più o meno programmaticamente ‘forti’. Differenze che dipendono sia da strutture insediative e modelli di urbanizzazione diversi; sia da tradizioni e stili amministrativi. Queste differenze sono evidentemente influenti sulla capacità di governo e di reazione.
In definitiva, il quadro dei presupposti appare –negli studi di caso, a quasi completata realizzazione
dei programmi- meno rigido e determinato di quello che avrebbe potuto apparire sulla carta. Gradi
di libertà sono stati introdotti negli indirizzi, i percorsi pregressi hanno inciso sulla attuazione, modi
e stili diversi (e anche inerzie e resistenze) hanno ridiretto le decisioni formali. L’attuazione dei Docup è stata, come spesso succede con politiche così complesse, più rispondente alle premesse strutturali del territorio, dell’economia, delle istituzioni, che alle intenzioni; e un poco più simile tra i diversi casi –nonostante tutti i necessari distinguo- di quanto obiettivi esplicitati apriori avrebbero lasciato intendere.
Perimetrazioni
Le scelte effettuate dalle quattro regioni, pur nell’ambito di regole comuni, sono piuttosto diverse,
sembra di capire in funzione di due variabili: la presenza di un forte tessuto industriale, con i tipici
problemi conseguenti; la mobilitazione locale e la capacità di catturare l’attenzione della regione.
Nel prossimo programma la perimetrazione viene meno come dispositivo, ma non come problema
di selezione e indirizzo dei territori. È già infatti divenuta evidente la centralità delle città e il potenziale squilibrio nella distribuzione delle risorse che può creare.
Il Piemonte ha puntato ad una riqualificazione diversificata di tutte le province, ad esclusione di Novara, al potenziamento e alla crescita delle imprese minori, alla diffusione dei processi di innovazione e ad un più facile accesso al credito;
Il Veneto ha selezionato piccoli comuni (a parte alcuni quartieri di Rovigo e Venezia), e ha promosso una politica per zone urbane nel senso della più ambigua categoria della “città diffusa” o “campagna urbanizzata”.
La Toscana, nel quadro di riferimento della “Toscana delle Toscane”, ha sottolineato il ruolo strategico dei sistemi urbani e dei sistemi manifatturieri di piccole e medie imprese come elementi traenti
dell’economia.
Il Lazio, pur avendo puntato sulle aree ai margini della regione, ha destinato alla provincia della capitale (che lambisce tutte le altre province) il maggior numero di progetti.
Priorità/concentrazione
In generale, sarebbe stato legittimo attendersi una forte dispersione della spesa, dato il carattere ‘distributivo’ dell’obiettivo 2 e della maggior parte dei Docup. Questo effetto è stato riscontrato in particolare in Lazio e in Veneto. In realtà, una certa concentrazione si riscontra sia per effetto della gravitazione intorno a territori demograficamente e politicamente più forti, spesso coincidenti con le
città (Veneto escluso, per via dei caratteri particolari della perimetrazione); sia per una genuina, seppur il più delle volte elementare, intenzionalità strategica (quasi sempre implicita, ma più evidente
in Piemonte e Lazio). Comunque, programmi integrati e città hanno ricevuto quote significative dei
fondi, sebbene fossero destinate in massima parte a infrastrutture e ad incentivi alle imprese.
L’esercizio originale di riclassificazione ha riguardato le principali finalità e le modalità generali dei
Docup, che sono state distinte (3) tra la promozione di ‘vantaggi’ per efficienza (dei Sistemi Produttivi Locali); per incremento delle capacità dei territori (abitanti ovviamente inclusi, questi ultimi
però sostenuti anche dal FSE e da misure ordinarie non qui ricomprese); e, infine, vantaggi per innovazione.
Riguardo la classificazione in base alle finalità, si può rilevare la predominanza della spese per efficienza del sistema produttivo e la scarsità delle risorse destinate al sostegno della innovazione.
Le iniziative possono essere ulteriormente classificate in base alle modalità di intervento, spesso coincidenti
con incentivi diretti alle imprese, sempre elevati, e con la creazione di ‘beni pubblici’ generici, prevalenti rispetto alla realizzazione di beni pubblici specifici.
L’insieme di queste riflessioni porta a concludere che il ciclo di programma appena trascorso è stato
visto in prevalenza, e con poche eccezioni, come opportunità di colmare il divario nella infrastrutturazione ordinaria del territorio piuttosto che come occasione strategica di sviluppo.
Tabella 1 Tavola sinottica dei Docup
di cui
in phasing
out
Piemonte
quota
di
popolazione regionale
59
di cui,
contributi privati
(%)
%
alla progettazione integrata
%
alle
città
vantaggi
per
effcienza
28
risorse
finanziare
complessive
(milioni
euro)
1.290
Veneto
vantaggi per
innovazione
55
vantaggi
per incremento capacità dei
territori
37
3
11
nd
56
19
594
nd
6
6
34
59
7
Toscana
52
29
1.232
nd
30
40
56
35
9
Lazio
35
14
1.557
46
22
34
59
40
1
8
Rappresentazioni
In modo più o meno implicito, le scelte programmatiche delle regioni sono orientate –talvolta solo
accompagnate- da ‘immagini’ del territorio, del suo modello produttivo e del ‘destino’ della regione. In questo periodo si assiste ad una corrosione delle immagini tradizionali e ad una ricerca di rappresentazioni alternative. Sarebbe poco opportuno sottovalutare l’importanza di queste immagini, la
loro indiretta guida delle scelte a valle, e la difficoltà di elaborare quadri nuovi nei periodi di cambiamento.
3
Vedi il capitolo “Toscana” del rapporto, a cura di M. Bressan e A. Dei, per una discussione più ampia dei criteri.
Le differenze dipendono molto anche dalla capacità di rappresentare il modo specifico di cambiamento; e qui le quattro regioni scontano, quasi omogeneamente, delle rappresentazioni opache e datate rispetto alle dinamiche che, con il senno di poi, si sono verificate. Rappresentazioni che possono essere povere e tradizionali, come quelle del Lazio, oppure ricche di sfumature e di sedimentazioni originali nella lettura del modello produttivo, come quelle della Toscana e in parte del Veneto.
Ma quasi sempre, con la parziale eccezione del Piemonte, messo alle strette dalla violenza delle trasformazioni post-Fiat, risultano troppo vaghe e distanti dai territori che vorrebbero guidare.
Soprattutto risultano rigide rispetto alla variabilità dei percorsi che durante l’attuazione tutte e quattro le regioni hanno esperito. Il problema più consistente riguarda la rigidità del quadro programmatorio, evidentemente una responsabilità non interamente imputabile alle regioni, a fronte di un quadro congiunturale che in più di un caso è mutato.
Stili di governance
I modelli di governance territoriale risentono evidentemente di fattori diversi: i caratteri tradizionali
della rapporto tra istituzioni locali, la dialettica tra i nuovi poteri regionali e le autorità locali e la
presenza di metropoli istituzionalmente forti e programmaticamente capaci. Il quadro d’insieme mostra un rapporto tra comuni e regioni che, a seconda dei casi, evidenzia caratteristiche forti, trainanti,
quindi motori di competitività, e componenti più fragili, proprie di ambienti in via di definizione e
consolidamento.
Tabella 2 Relazioni tra istituzioni regionali e comunali
Capoluoghi e città più auto- Capoluoghi e città meno aunome e imprenditive
tonome e imprenditive
Rapporto Regione e Comuni Piemonte
Toscana
più direttivo
Rapporto Regione e Comuni Lazio
Veneto
più negoziale
Questa tabella, in modo molto sintetico, descrive le combinazioni e caratteristiche principali dei
soggetti territoriali. Il sistema regionale piemontese e il capoluogo Torino hanno, da un punto di vista istituzionale, entrambi caratteristiche forti. Al contrario i sistemi Veneto regione e Veneto comuni risultano avere entrambi forme di relativa debolezza. La Toscana ha un forte governo regionale,
ma la frammentazione istituzionale indebolisce la rappresentanza metropolitana. Nel Lazio invece le
componenti di forza sono concentrate sul capoluogo e gli elementi di debolezza pesano in maniera
più marcata sul sistema regionale.
Pratiche
Nelle “pratiche” di programmazione e nella mobilitazione dei territori si sono consolidate invece
delle capacità che hanno almeno parzialmente interagito con i vincoli nel determinare i percorsi
specifici di attuazione di questi documenti. Queste capacità sono qui esaminate con riferimento alle
forme di territorializzazione e alle tematiche specifiche delle politiche per l’innovazione e le città.
In primo luogo, la territorializzazione è stata spesso confusa con la definizione di aree di programma, ossia con le porzioni di territorio in cui concentrare interventi di per sé non particolarmente integrati se non per la prossimità. D’altra parte, il riconoscimento delle differenze e la mobilitazione
dei territori sono un aspetto comune, e un lascito durevole dell’epoca appena trascorsa.
In secondo luogo, è apparsa modesta, nel complesso, la capacità di intercettare i nuovi sviluppi tecnologici. Politiche formalmente ripetitive, sono state sempre più declinate in modo differenziato localmente, anche se in prevalenza si è provveduto al completamento delle attrezzature per l’efficien-
za territoriale della produzione, e solo in piccola misura alla realizzazione di beni o alla promozione
di ‘vantaggi’ competitivi specifici in relazione all’innovazione.
Infine, come già detto, le politiche urbane sono avvenute in modo frammentario e spesso con indifferenza rispetto ai Docup, combinando ambizioni diverse: immobiliari, competitive, da festival urbano.
In definitiva, il quadro delle capacità sedimentate nella attuazione delle politiche risulta – e non poteva forse essere altrimenti- un po’ ambivalente. Da un lato, si tratta di capacità ancora poco strategiche e poco flessibili, ancorate come sono a modelli gerarchici e funzionali di costruzione delle politiche; dall’altro, su tutti e tre i terreni di prova esaminati, le innovazioni sul campo sono state rilevanti e non sono mancati segnali di adattamento di un certo respiro.
Territorializzazione
In prevalenza, i progetti integrati delle quattro regioni rispondono ad una interpretazione non innovativa dei Fondi Strutturali, che intende la territorializzazione degli obiettivi come concentrazione
degli interventi e definizione ex-ante di un’area-target. Questa viene intesa addirittura, sia dal Veneto che dal Lazio, come una tendenziale “macroarea omogenea”. Spesso, inoltre, questo approccio si
accompagna a tipiche modalità delle politiche distributive, e cioè il finanziamento di più progetti o
beneficiari individuati a monte su principi categoriali (in altre parole, contrattando con i rappresentanti degli interessi). L’eterogeneità degli interventi e la frammentazione rende in questo caso molto
difficile la valutazione degli impatti ed incerti, nel migliore dei casi, gli effetti di sistema. Al contrario, l’integrazione degli interventi, l’apprezzamento del potenziale di sviluppo, il riconoscimento
delle differenze territoriali, l’attivazione delle risorse –in linea con le aspirazioni enunciate tra l’altro dal PSM e dalla letteratura- sono espresse, ma più di rado, da alcuni progetti integrati. Soprattutto risultano laddove le esperienze di progettazione integrata –il programma periferie di Torino, il
Pisl di Prato, programmi comunitari ‘leggeri’ nel Polesine- si sono radicate, e hanno fatto da volano
alla mobilitazione dei territori.
In Piemonte, i Progetti integrati di sviluppo socioeconomico di area sono a regia regionale, ma la redazione dei progetti e il coordinamento degli attuatori è demandato alle province, mentre i beneficiari sono enti locali, società o consorzi misti, associazioni di categoria e piccole e medie imprese.
I progetti integrati del Veneto mirano a ridefinire le forme di identità territoriali per giungere a valorizzare le risorse con iniziative congiunte tra più Comuni e soggetti privati. L’ambito di interesse è
in generale quello dello sviluppo turistico, con progetti anche interprovinciali che, riguardando territori di ‘circolazione’- includono spesso ambiti e temi urbani oltre che naturali.
In Toscana, parallelamente alla discussione del testo del PRS, si introducono dei PISL con lo scopo
principale di promuovere la capacità di gestione di programmi complessi, pur limitando le misure
ammissibili che alla fine consistono in prevalenza di iniziative infrastrutturali. La Provincia è incaricata di mediare l’idea progetto dei 10 PISL approvati.
Nel Lazio, i piani d’area riguardano quasi tutte le aree obiettivo 2, pur interessando diverse aree urbane intermedie; i settori sono però tradizionali (turismo, cultura e ambiente, i sistemi parco…).
Innovazione e imprese
L’indagine sulle quattro regioni evidenzia situazioni molto diverse, che dipendono in gran parte dalla presenza di un’eredità industriale, dalla presenza di grande o piccola impresa, dai caratteri della
integrazione territoriale dei sistemi produttivi, ecc. La pertinenza dei Docup rispetto alla fase di
cambiamento è maggiore dove il passato manifatturiero è più forte e più forte la deindustrializzazione; inferiore invece la capacità di intercettare i nuovi sviluppi tecnologici, e in particolare i sistemi
regionali dell’innovazione.
Il sostegno alla internazionalizzazione in Piemonte si è risolto in parte nella consueta promozione
commerciale (fiere, mercati..). Le misure appena meno ovvie (per esempio, e-procurement, diffusio-
ne dell’ICT, ecc.) hanno registrato performance mediamente basse. Ciononostante, i fondi strutturali, pur supportando tutta la varietà di iniziative, hanno saputo coniugare sostegno alle imprese e rinnovo urbano: attrazione di capitale (ITP), incentivi agli spin-off e start-up; interventi diretti di bonifica dei siti; riqualificazione e upgrading delle aree industriali esistenti verso modelli più ambientalmente sostenibili; offerta di attrezzature e servizi tecnologici nei poli integrati di sviluppo, nei parchi scientifici e nei distretti tecnologici. Queste operazioni sono state non di rado parte di iniziative
di rinnovo urbano di ampio respiro.
La Regione Toscana ha promosso innovazione tecnologica attraverso la costituzione di reti di cooperazione imprese e altre istituzioni impegnate nella produzione e trasferimento di innovazione in
sistemi di produzione tradizionali, aree rurali agroindustriali, aree a declino industriale e nei tre poli
universitari regionali. L’attuazione conferma la centralità delle relazioni, formali ed informali, tra
imprese e i soggetti che promuovono ricerca e trasferimento tecnologico.
L’elemento distintivo del Docup Veneto è che individua macro-aree periferiche “omogenee”, costituite prevalentemente da piccoli comuni dove sarebbe necessaria una forte azione di ‘animazione
economica’ e, soprattutto, di servizio alle imprese locali per sostenere la diffusione della piccola e
media impresa, con la parziale eccezione della conversione delle attività e spazi industriali a Marghera, e la crisi dei settori della pesca, della portualità e del turismo nella zona di Chioggia, o la riconversione di alcune aree industriali a Rovigo. Ma questo orizzonte, e l’orientamento a compattare
le caratteristiche territoriali, conduce a selezionare strumenti per la diffusione della innovazione in
misura poco specifica.
Nel Lazio, l’investimento nella innovazione tecnologica è stato modesto e disorganico (su questo ha
pesato, probabilmente, anche il lungo tempo impiegato per definire il Piano Regionale dell’Innovazione Tecnologica). In prevalenza, i sostegni alle imprese hanno forma di incentivo. Anche nelle
aree di concentrazione di imprese, le iniziative si limitano all’aiuto alle PMI (marketing, ampliamento, ecc.). Fanno eccezione la realizzazione di parchi tecnologici e l’incubatore di impresa hitech, tutti peraltro gravitanti nell’area romana.
Politiche urbane
L’indagine sulle quattro regioni amplifica ulteriore l’impressione di un quadro locale di politiche
per la città urbane al tempo stesso complesso e frammentario. Nei quattro casi i modelli, la composizione e le performance urbani sono incomparabili, rendendo assai improbabile un quadro di orientamento comune; inoltre, manca un apprezzamento di ciascuna regione per i caratteri distintivi della
propria rete urbana (fa ora eccezione, ma solo in prospettiva, il riconoscimento per Roma capitale
da parte del Lazio, che dipende però dall’iter di riforma costituzionale). Non c’è una visione unitaria
delle politiche urbane negli scorsi Docup, proprio perché hanno pressoché ignorato le città. Prevalgono, nelle iniziative per le città, orientamenti omni-direzionali e poco territorializzati, con parziali
eccezioni come il Piemonte e l’Emilia Romagna (o per certi versi la Calabria o le isole).
Le politiche sono frammentarie come impostazione ma ripetitive come modi di intervento. Risultano per lo più dalla stratificazione di azioni di rinnovo immobiliare, di promozione di edilizia direzionale e, nel migliore dei casi, di diversificazione della base produttiva (quasi sempre nella direzione turistico/culturale). Da segnalare che il ruolo delle municipalità è molto rilevante nel primo strato, e minore nei seguenti: il primo è però molto influente nei successivi.
Le numerose innovazioni prodotte localmente hanno messo a fuoco problemi locali di difficile comparazione: l’innesto di politiche sociali, dell’innovazione e del quadro strategico urbano (Piemonte);
il quadro di vita e il commercio dei piccoli centri (Veneto); la combinazione di elementi di assetto
ambientale, infrastrutture, e sostegno alle attività produttive e la territorializzazione delle misure nei
Pisl (Toscana). Inoltre, va menzionato l’Apq del Piemonte sulla riqualificazione urbana che generalizza l’uso dei piani integrati.
È significativo, infine, che le principali esperienze di Piani strategici -pur sviluppate nei capoluoghi
di queste regioni (Torino, Firenze, ma anche Venezia e Verona, mentre Roma abbandona l’iniziati-
va pur insistendo in una direzione di pianificazione strategica)- siano pressoché avulse dalla programmazione ob. 2 e probabilmente anche dagli aspetti innovativi appena citati. Questa considerazione può essere ampliata all’insieme delle iniziative di riqualificazione urbana intraprese dalle regioni o dagli stessi municipi.
Scenari
Le pratiche programmatorie maturate dentro e attraverso le regole e le intenzioni del ciclo precedente influenzeranno anche l’elaborazione delle misure e dei programmi per il prossimo.
Le esperienze dello scorso ciclo di programmazione sembrano nella sostanza indicare un’eccessiva
rigidità dell’impianto dei Docup rispetto ad una congiuntura che ha visto cambiare tutti i riferimenti
delle politiche. Certamente, i Docup non hanno potuto, e forse non potevano, adeguarsi alle nuove
condizioni.
Nelle due tavole che seguono sono stati sintetizzati gli aspetti di indirizzo rilevanti per il prossimo
futuro, anche in questo caso distinti per presupposti (frame cognitivi e intenzioni) e pratiche (potenziali e situazioni problematiche).
Da un lato, il primo aspetto problematico riguarda la riconduzione eventuale delle dinamiche endogene alle sfide della globalizzazione. Nei documenti di programmazione preliminari alla redazione
del DSN questo tema è stato sollevato in rapporto al problema di come territorializzare le politiche,
nella convinzione che si rendano necessarie nuove forme di rappresentazione che superino le nozioni di distretti o territori, troppo legate ad una immagine statica di territorio.
Un secondo problema generale riguarda la riduzione tendenziale delle risorse pubbliche che solleva
il problema del coordinamento delle risorse pubbliche (Fas, altri programmi comunitari, risorse locali) e dell’acquisizione di quelle private.
Queste due condizioni generali portano a concludere che le rappresentazioni territoriali nei prossimi
documenti dovranno essere particolarmente incisive e pertinenti e in particolare dovranno offrire un
supporto all’interfaccia tra dinamiche locali e globali e un sicuro ancoraggio per il coordinamento
dei programmi d’azione di soggetti diversi e plurimi.
Rispetto a questo obiettivo, i casi studio mostrano percorsi differenziati. Si possono richiamare alcune questioni iniziali più specifiche e innovative rispetto a quelle dei precedenti Docup:
- il ricorso a risorse esterne straordinarie (grandi eventi), il posizionamento internazionale e, in
particolare, il coordinamento delle politiche e risorse pubbliche sono solo parzialmente tematizzati.
- è presente un generale richiamo alla opportunità della diversificazione produttiva e un’incipiente
attenzione alle innovazioni. Il tema che affiora, in particolare, è il ridimensionamento del manifatturiero, la gestione della deindustrializzazione e della delocalizzazione.
- sono ricercate forme di cooperazione territoriale e promossi collegamenti tra ricerca e formazione, reti di impresa, distretti produttivi, all’interno di una crescente attenzione alla qualità del sistema territoriale e ai potenziali delle città intermedie.
Sembra in sostanza che rappresentazioni territoriali obsolete inizino a cedere il passo a interpretazioni più consapevoli dei caratteri specifici dei percorsi evolutivi e delle possibili rotture. Per fare
questo, mancano però ‘proiezioni’ territoriali, studi di scenario, articolazioni territoriali dei modelli
produttivi della nuova economia. Il crescente richiamo a problemi di ‘sostenibilità’ ambientale e di
‘interdipendenze’ dei sistemi urbani, rischia in questo contesto di rimanere un elemento rituale, se
non viene declinato in modo operativo e specifico rispetto ai diversi contesti.
Infine, appare in superficie un forte problema di governance territoriale in relazione ai rapporti tra
livelli istituzionali. L’asse ‘verticale’ è dappertutto un problema, laddove il ciclo di programma precedente ha forse consentito di maturare premesse adeguate per sostenere l’asse orizzontale. Da questo punto di vista, gli elementi di integrazione tra le diverse risorse finanziarie, gli obiettivi e i programmi appaiono uno snodo decisivo, emerso solo in parte. Mentre è un dato generalizzabile la presenza endemica di conflitti locali che possono bloccare decisioni nazionali. Problemi più specifici
riguardano le relazioni transfrontaliere, le relazioni translocali (tra distretti e territori che ricevono
gli impatti della delocalizzazione) e quelle metropolitane.
Dal lato delle pratiche, la situazione sembra matura per approfittare con successo della maggiore libertà concessa dai nuovi regolamenti. In questo ultimo periodo, alcuni territori hanno saputo approfittare delle opportunità e dei programmi in maniera funzionale alle particolari esigenze di sviluppo.
Soprattutto, in alcune aree la mobilitazione degli attori locali ha aggregato ‘territori di progetto’.
Restano in realtà alcuni non indifferenti problemi:
- la tendenza delle regioni e delle amministrazioni centrali a considerare il territorio mero schermo delle politiche non è del tutto sopita, come pure gli atteggiamenti opportunistici di una parte
non trascurabile delle realtà locali;
- restano in gran parte trascurati i problemi della concentrazione dei fattori di disagio tipici dei
territori in crisi –quartieri socialmente in difficoltà, e aree di delocalizzazione e deindustrializzazione, in parte anche per l’estensione a macchie di leopardo;
- le esperienze dei piani integrati hanno talvolta sviluppato sinergie con strumenti integrati di altra
origine;
- Il principio di integrazione delle politiche pone un problema rilevante di intercomunalità, che
non sempre si risolve con l’azione delle province.
Negli ambiti più specifici della innovazione e delle città, al di là dei frequenti richiami ad una vulgata della competitività territoriale che non sempre si traducono in iniziative selettive, rimane in ombra il problema della forza lavoro, che riguarda sia la scarsità di manodopera che la sua qualificazione; cosí come rimane in ombra l’incremento dell’immigrazione, che rappresenta un problema (e
un’opportunità) comune a città e imprese.
Sembra rimanere aperta l’ambivalenza tra un maturo approccio al divario tecnologico e ai temi della
innovazione, che richiede elevati requisiti di intenzioni e consenso, e formule di politiche, apparentemente risolutive come i centri di eccellenza territoriali. In generale, sembra prendere piede la costosa –in termini politici- idea di concentrare la spesa in (alcune) aree urbane, e l’emergere di alcune
collaborazioni tra sistemi produttivi locali e poli universitari
Rispetto alle intense politiche fondiarie della fase precedente, la dimensione ‘strategica’ delle politiche urbane è matura, ma mal si riflette nelle iniziative dei DSR e dei documenti di programmazione.
Inoltre, rimane carente il quadro degli investimenti sull’ambiente e la mobilità.
Tabella 3 Presupposti, frame cognitivi e intenzioni
Programmazione
Aspetti
generali
Piemonte
Veneto
Toscana
Lazio
Aspetti
problematici
E’ problematica -e poco
esplorata dai
documenti di
indirizzo nazionali - la
connessione
tra dinamiche
endogene e
sfide della globalizzazione,
in particolare
per i sistemi
locali.
Prosegue la
politica degli
eventi e la diversificazione
produttiva,
con un’incipiente attenzione alle innovazioni applicate ai processi produttivi.
Si auspica il passaggio a forme di
cooperazione territoriale con collegamenti più intensi
tra ricerca e formazione, reti di impresa, distretti produttivi.
Si tende a recuperare una
maggiore integrazione fra
territorio aperto e sistemi urbani, al fine di
ridefinire (o rafforzare) i vari
modelli insediativi locali.
Il PIL del Lazio sale in
controtendenza al dato
nazionale,
solo in parte
dovuto al
consolidarsi
dell’effetto
Giubileo. Le
aspettative
sembrano essere quelle di
un accesso
privilegiato
della capitale
a risorse nazionali.
Nella generale
tendenza alla riduzione delle risorse pubbliche,
si apre il problema del coordinamento delle
risorse pubbliche (Fas, altri
programmi comunitari, risorse
locali) e dell’acquisizione di
quelle private.
Priorità/concentrazione
Le indicazioni
comunitarie e
nazionali definiscono un
quadro di
obiettivi a maglie larghe. È
ribadito il
principio della
concentrazione
Rendere l’economia del
Piemonte più
attiva e differenziata, in
conformità
con l’agenda
di Lisbona
Gestire la delocalizzazione e il ridimensionamento del
manifatturiero, in
corso, e rafforzare i
sistemi ad alta tecnologia, riduzione
degli squilibri
Le linee guida
del PIT puntano
in sostanza ad
un “riposizionamento” internazionale in linea
lo SSSE: “elevamento prestazionale” e, insieme, qualificazione del sistema territoriale
Rappresentazione
Nei documenti
di programmazione manca solitamente una adeguata ‘proiezione’ territoriale. A livello
regionale,
inoltre, sono
spesso carenti
gli studi di
scenario e le
articolazioni
territoriali dei
modelli economici
L’integrazione
delle risorse
finanziare in
una programmazione unica
sembra un
elemento rilevante nella
costruzione
degli scenari
regionali
Superamento
del mito industriale e
monosettoriale, verso
una declinazione a più
sfumature
dei temi dell’innovazione
Scontro tra due logiche di sviluppo, e
insieme usura del
mito della piccola
impresa con crescenti problemi di
sostenibilità ambientale
In approfondimento l’idea
della ‘pluralità
delle Toscane’.
Continua la dialettica tra rurale e urbano, ma
ne evolvono i
riferimenti, in
particolare gli
aspetti legati
alle interdipendenze dei sistemi urbani
Conflitti locali
possono bloccare decisioni
nazionali;
inoltre, le relazioni transfrontaliere
sono parte integrante delle politiche di
costruzione
delle piattaforme economiche della
regione alpina
L’internazionalizzazione dei distretti
suggerisce la sperimentazione di relazioni traslocali che
richiedono in linea
di principio requisiti
impegnativi e sono
comunque in gran
parte da inventare
La tutela delle
risorse “patrimoniali” dei diversi ambiti regionali si sposa
con l’indirizzo
del nuovo PIT
verso nuovi
progetti strategici territoriali,
pur con un solido rispetto per
la struttura istituzionale di
‘governo’ a livelli
Temi e stili di governance
Sono manifesti –ma non
ancora espliciti negli indirizzi regionali- i potenziali
direzionale e
ricreativo,
portuale e
manifatturiero dei sistemi
urbani, rispettivamente, di Roma,
Civitavecchia
e Latina.
Da un’immagine di regione fortemente ‘duale’,
alla riscoperta del ruolo
della capitale, nuovamente centrale anche
simbolicamente non
solo come
motore economico della
regione
In questo momento gli obiettivi sono sovente formulati in
modo rituale,
privi di una adeguata territorializzazione, senza la necessaria
selettività
La capitale richiede e sta
acquisendo
uno statuto
autonomo, di
rango nazionale più che
regionale.
L’asse ‘verticale’ della governance territoriale appare ovunque in tensione,
a volte tra conflitti espliciti volte per l’evanescenza dei riferimenti
Rappresentazioni consolidate, a
volte storicamente di grande
originalità, stentano a interpretare i possibili
percorsi evolutivi e le possibili
rotture
Tabella 4 Pratiche, potenziali e situazioni problematiche
Forme di territorializzazione
Aspetti
generali
Piemonte
Veneto
Toscana
Lazio
Aspetti
problematici
Nei nuovi regolamenti
non ci sono
vincoli. Gli indirizzi suggeriscono una
maggiore attenzione al
ruolo delle
città per lo
sviluppo e
agli specifici
problemi urbani.
Alcuni territori
hanno saputo
approfittare
delle diverse
opportunità e
programmi e
sembrano in
grado di proporsi per l’”upgrading competitivo” dei
sistemi produttivi e dell’innovazione
La mobilitazione degli attori
locali ha aggregato territori di
progetto, sia in
città strategiche che in ambiti periferici
(anche su occasioni leggere
come ‘leader’),
ma non è oggetto dei documenti di programma.
L’esperienza maturata nei territori ha spinto
progressivamente le istituzioni
locali a utilizzare
gli strumenti
contenuti nei Docup in maniera
funzionale alle
particolari esigenze di sviluppo.
I segnali di vivacità nella
cintura metropolitana e in alcune aree urbane intermedie, non sono
stati ancora recepiti, nonostante la presenza di comuni capaci di autonoma iniziativa strategica
(Civitavecchia).
I territori in crisi –
quartieri socialmente in difficoltà,
e aree di delocalizzazione e deindustrializzazione- restano in gran parte
trascurate.
Integrazione
Innovazione e
imprese
Politiche urbane
Le esperienze
dei piani integrati ha talvolta sviluppato sinergie
con strumenti integrati di
altra origine.
Questo è,
però avvenuto meno di
quanto possibile e desiderabile.
Un più maturo approccio
al divario tecnologico e ai
temi della innovazione
sollecita nuovi approcci,
che spesso si
traducono
però in formule, come i
centri di eccellenza territoriali.
In buona misura, sono
state poste le
premesse
fondiarie e, in
parte, strategiche per
consistenti
investimenti
sul rinnovo
urbano.
Carente invece il quadro
degli investimenti strutturanti l’ambiente, la
mobilità, l’inquinamento,
le relazioni
urbano-rurale.
Gli esperimenti -pur limitatidi integrazione
delle politiche
territoriali
sono la base di
partenza per
un più maturo
approccio strategico.
È prevalsa l’idea di aree
omogenee alle
quali sono state ricondotte in
parte anche i
piani integrati,
comunque in
prevalenza polverizzati.
L’integrazione
delle politiche di
intervento territoriale è crescente, anche se
è avvenuta spesso in modo informale, attraverso
strumenti di pianificazione, programmazione, o
i documenti comunitari (Prato).
I piani integrati
sono stati intesi come comparti di attuazione delle politiche regionali, e comunque
debolmente sostenuti nelle
realizzazioni.
L’integrazione
pone in generale
un problema rilevante di intercomunalità, con non
sempre si risolve
con l’azione delle
province.
I tre scenari
sviluppati per
il Dspr prospettano diverse evoluzioni della tradizione manifatturiera, dei
modi di terziarizzazione, e
dell’articolazione territoriale.
L’orientamento
a ‘compattare’
le caratteristiche territoriali
in macrozone,
conduce a selezionare strumenti poco
specifici per la
diffusione della
innovazione.
La concentrazione di spesa in alcune aree urbane, e l’emergere
di alcune collaborazioni tra SPL
e poli universitari, rappresenta
un riferimento
importante.
La solida base
terziaria ha da
poco iniziato
un processo di
diversificazione, ancora incerto negli esiti
e nei modi di
aggregazione
degli attori (rilevanti quelli
non locali e
non nazionali).
Poco considerato
dai documenti ma
fonte di crescente
preoccupazione per
gli imprenditori, la
scarsità di manodopera da un lato;
l’inserimento lavorativo degli ’immigrati dall’altro
Il ruolo del capoluogo metropolitano è
già messo a
fuoco, in buona parte in
modo indipendente dal Docup; si tratta
di chiarire meglio la gerarchia dei centri
intermedi e i
nodi di connessione.
Le città non
sono tema del
DSR, ma del
PTRC che insiste sull’evoluzione del modello policentrico e riconosce
diverse modelli
di area ‘metropolitana’ (centrale, dove si
concentrano i
servizi rari; pedemontana e
reticolare fortemente intrecciato al sistema
manifatturiero).
La città e il territorio appaiono, in una certa
misura, antagonisti, e il Ptrc
opera per il riequilibrio.
Continuità della
nuova programmazione regionale (Pit, Dsr) e
precedenti documenti (Psr) sul
solco delle esperienze comunitarie. Consistente
assegnazione di
fondi alle città,
ma l’affermazione nelle politiche
del sistema policentrico (p.es.
mobilità) resta
debole e penalizzate dalla scarsità di fondi.
Il confronto è
fermo sulla
contrapposizione tra Roma e
il resto della
regione, non è
ancora matura
la riflessione
sulle prospettive delle aree
urbane intermedie.
La diffusione urbana è una costante
che si combina in
modo ineguale con
l’emergere della dimensione strategica di alcune aree
urbane, e pone
problemi di costi
ambientali e degrado delle agglomerazioni.
Indicazioni programmatiche
Dalla riflessione svolta si possono essere evincere alcuni problemi e trarre alcuni suggerimenti per i
programmi che le regioni disegneranno nel prossimo ciclo di programmazione.
Tra i problemi che si segnalano in prospettiva:
- l’insostenibilità ambientale (e la crisi di legittimazione politica che impedisce di imporre scelte
costose in termini di consenso) di molte scelte produttive e localizzative dei precedenti modelli
di sviluppo regionali, ulteriormente aggravate dai processi di delocalizzazione che, almeno in
parte, favoriscono la congestione nel trasporto e nella mobilità;
- la debolezza demografica a fronte dell’aumento della domanda di forza lavoro qualificata in ambito urbano, influenza diversi fattori di competitività e pone la sfida dell’integrazione sociale e
lavorativa della crescente popolazione immigrata;
-
la carenza di guida strategica dei progetti integrati, dei processi di riqualificazione urbana e
(ri)sviluppo fondiario, capace di assicurare orizzonti di lungo periodo agli investitori finanziari,
e condizioni di efficienza collettiva alle operazioni;
- l’indeterminatezza dei programmi e degli strumenti di innovazione rispetto soprattutto ai caratteri di ancoraggio territoriale dei sistemi locali e regionali di ricerca e innovazione.
A fronte di tutto ciò, possono essere segnalati alcuni dei suggerimenti raccolti nel corso della indagine.
- Efficienza territoriale e ambiente: Dedicare congrua attenzione alle tecnologie ambientali urbane consentirebbe di fornire i progetti territoriali di una priorità tematica relativa a bisogni di cittadinanza elementari (acqua, energia, riscaldamento, rifiuti, trasporti, verde e aria), oltre che un
volano di idee e di partner imprenditoriali dotati di capacità progettuale e finanziaria (public facilities, aziende tecnologiche); con questi ultimi possono essere definite condizioni di partecipazione finanziaria che agiscono sia come moltiplicatore che come garanzia per terzi investitori;
- Concentrazione della povertà: Le aree urbane in emergenza sono presenti in numerose città e
nelle grandi metropoli, di solito di minor dimensioni e gravità al centro Nord rispetto al Meridione, dove per di più i quartieri degradati e poveri sono spesso in balia della criminalità organizzata. I programmi sociali urbani in Italia sono insufficienti: lo stesso Urban è stato un modello sperimentale, mentre la Francia avviò programmi per più di 500 di quartieri. Disegnare nuovi
programmi sul modello di Urban, come in Catalogna o in Germania con il programma Soziale
Stadt, consentirebbe di attivare, oltre a risorse pubbliche e private, la capacità di fare network, di
innovazione, di mobilitazione di operatori qualificati.
- Tempi delle politiche per le città: Le azioni di rinnovo e riqualificazione urbana e territoriale richiedono tempi lunghi e comportano costi elevati. I programmi integrati sperimentati (e alcune
grandi opere) hanno assunto finora il ruolo di attivare un mercato, ma sono stati limitati nello
spazio e nel tempo. Invece, la definizione di piani di lungo periodo può mettere in gioco capitali
privati.
- Carattere strategico: Questi programmi dovrebbero essere retti su una strategia di lungo periodo
di sviluppo del territorio, piuttosto che su una (solo apparentemente) più semplice idea forza.
Quadri territoriali -distrettuali o provinciali- potrebbero sorreggere l’insieme delle iniziative di
innovazione e coesione territoriale nelle regioni ob. 2, fornendo il raccordo con la pianificazione
territoriale. L’esempio inglese delle Regional strategies può fornire ispirazione a questo riguardo
(4).
- Gestione dei programmi integrati: Due problemi si segnalano, i rapporti intercomunale e l’organizzazione delle autorità di gestione. Nel primo caso, l’organizzazione di uffici comuni potrebbe
costituire l’occasione di sperimentare interfacce con lo stato e le regioni, al limite introducendo
livelli crescenti di autonomia impositiva. L’esempio potrebbe essere quello della sale tax Usa, o
di analoghe tasse di scopo. Inoltre, l’autorità di gestione deve ricevere maggiori responsabilità,
sull’esempio dei Patti europei per l’occupazione può essere ripensato da questo punto di vista.
- Competitività dei territori: Questo tema richiede infine un regime di selezione dell’eccellenza.
Territori, università, il sistema degli attori pubblici e privati devono essere messi in forte competizione fra loro per produrre la massima capacità di intervento. Gli “enzimi” presenti nel territorio non solo del Mezzogiorno - poli tecnologici, centri di innovazione- non devono essere protetti, devono concorrere per eccellere. Solo a questa condizioni gli accoppiamenti giudiziosi tra
territori e filière tecnologiche saranno fertili per lo sviluppo.
4
Nel Regno Unito si registra una simpatica inversione tra programma economico, piano urbanistico e livelli territoriali,
rispetto al caso italiano: gli scenari territoriali prefigurano la territorializzazione a livello regionale e i percorsi dello sviluppo; mentre localmente i piani strutturali assumono forme programmatiche e molto flessibili.
Parte I
Lo stato delle città
di Anna Paola Di Risio e Marco Cremaschi
La struttura urbana italiana è stata oggetto di numerosi studi finora. Questa elaborazione è prevalentemente descrittiva, e capitalizza il contributo dei recenti censimenti. La ricerca cerca in particolare
di porre attenzione a dimensioni e livelli diversi. Se infatti si considerano le aree urbane potenziali,
quelle cioè che possono risultare alla aggregazione di bacini metropolitani contermini, risulta
un’immagine dell’Italia urbana un po’ più complessa di quella meramente descritta dalle usuali attenzioni al fenomeno metropolitano.
In realtà, la popolazione urbana è in continua diminuzione. I 12 maggiori comuni hanno complessivamente perso oltre il 7% della popolazione negli ultimi dieci anni, che diventa il 17% se si considerano l’intero periodo degli ultimi 30 anni, successivo alla fase del boom postbellico.
Come noto, lo sviluppo metropolitano ha riguardato nel tempo diverse aree, in particolare le cinture
metropolitane. Non solo: intorno alle città sono cresciuti importanti aggregati urbani. La diffusione
metropolitana ha creato nuovi legami, almeno potenziali, tra aree vicine interessate da medesimi fenomeni.
Caratteri metropolitani
Prima di affrontare la questione metropolitana, conviene richiamare –anche solo a scopo introduttivo- alcuni dei caratteri originari della penisola, che articolano fortemente l’organizzazione territoriale e insediativa e, quindi, anche il discorso sulla organizzazione metropolitana.
Il primo carattere riguarda la varietà di spazi geografici che si incontrano lungo la penisola, attraverso le dorsali montane e gli spazi intermedi con la pianure vallive, nelle isole grandi e piccole. Ne risulta un ambiente complesso che impone limiti importanti alle connessioni tra sistemi urbani, con
un problema particolarmente acuto nel Sud, dove le città sono non solo più lontane dai mercati (sia
del Nord nazionale che continentale), ma anche più distanziate tra loro.
Il secondo carattere riguarda la struttura policentrica del sistema urbano, che risulta da un gioco di
fattori storici (per esempio, le capitali degli stati preunitari) e infrastrutturali (le strade e reti ferroviarie e autostradali tra XIX e XX secolo). Riflette inoltre le macro-condizioni morfologiche territoriali, che favoriscono i collegamenti di costa e ostacolano invece le connessioni transfrontaliere e i
collegamenti con le isole (Dematteis 1999, p. 145). Non sorprendentemente, lo scheletro territoriale
dello sviluppo economico riposa sul sistema delle città medie piuttosto che su una o poche grandi
aree metropolitane. La ricerca economica (Oecd 2001) ha sottolineato che i sistemi urbani che ospitano funzioni specializzate di rango internazionali sono più facili da incontrarsi nelle regioni del
centro nord e in particolare nelle aree della Terza Italia. Pur tuttavia, la struttura territoriale del paese sta cambiando anche più di quanto le descrizioni stereotipate sembrerebbero consentire.
Il terzo riguarda le asimmetrie nello sviluppo del Sud e Nord d’Italia. Gli squilibri territoriali sono
stati oggetto di numerose politiche, tra l’altro anche delle proiezioni territoriali del ‘Progetto ’80’, il
principale documento di programmazione che abbia affrontato, in tempi ormai lontani, il tema dell’articolazione territoriale dello sviluppo. Le proiezioni territoriali sono state il risultato dello sforzo
di un gruppo di studiosi e ricercatori che cercavano di immaginare l’esito delle politiche di modernizzazione produttiva impostate dal primo centrosinistra. In questo senso, l’idea di territorio, si ricorderà, era introdotta come variabile dipendente e successiva rispetto alle scelte di sviluppo economico. Oggetto di queste era soprattutto il problema dello squilibrio regionale, attribuito al gap industriale tra Nord e Sud, in sintonia con la cultura dello sviluppo dell’epoca. Le proiezioni introducevano in più il tema urbano, in particolare la debolezza del sistema urbano tra le regioni (Salone
2005). Le città, le metropoli nello spirito dell’epoca, erano elevate al rango dell’“attrezzatura” per
eccellenza del territorio, dal punto di vista produttivo ma anche di crescita civile.
A ben vedere, Progetto ’80 aveva come orizzonte la metropoli e come obiettivo la creazione di sistemi urbani. Questi ultimi dovevano creare condizioni agglomerative tali da consentire non solo la
crescita di impresa, assicurando fattori di maggior efficienza e competitività, ma anche la trasformazione degli spazi geografici tradizionali (allora prevalentemente rurali); la distribuzione più equa
delle opportunità (assai sperequate, sia nelle società tradizionali che nel capitalismo ruggente degli
anni sessanta); ma soprattutto la trasformazione dei modi di vita nel senso di una robusta, ma primitiva, modernità. Questa modernità era urbana tout-court, identificata dai tratti canonici del modello
urbano industriale di stampo fordista.
Sebbene mai adottata, questa strategia territoriale è stata assunta di recente come precedente nobile
nel contributo che il Miitt sta preparando al nuovo documento comunitario di indirizzo strategico
(Dicoter 2005), nonostante questo ministero abbia propugnato nell’ultimo quindicennio una politica
di “innovazione” qualificata per lo più con un segno diverso (Palermo 2003).
Va segnalato come il punto debole delle proiezioni territoriali fosse una visione generica delle relazioni urbane dentro i sistemi, con il territorio e le attività produttive, relazioni che erano viste rispettivamente in termini di gerarchia, complementarietà, e agglomerazione; un limite condiviso peraltro
anche dai suggerimenti spaziali provenienti dai più recenti documenti comunitari.
Le relazioni tra le parti degli ambiti urbani, tra questi ultimi e il territorio, tra organizzazione territoriale e organizzazione delle attività produttive sono invece più complesse, come la ricerca sulle specificità territoriali del caso italiano si è incaricata di segnalare da tempo. Il modello metropolitano
non ha mai avuto una funzione esaustiva in Italia; invece, il territorio è stato spesso il costrutto fondativo di forme di sviluppo locale –per esempio, i distretti- capaci di attivare risorse immobili attingendo al capitale sociale; e, recentemente, la macro organizzazione territoriale del modello italiano,
come pure le più articolate forme insediative urbano-metropolitane, hanno iniziato a mostrare caratteri più complessi perfino dello storico modello policentrico pre-unitario (Cremaschi, a cura di,
2006b).
Insediamenti
L’Italia è stata spesso considerata, insieme alla Germania (Dematteis e Mercugliano 2002), una delle nazioni più policentriche d’Europa. Policentrismo e sviluppo metropolitano sono almeno in parte
alternativi: nel centro-nord, per esempio, il sistema urbano costituisce una rete densa con livelli sviluppo superiori alla media europea, paragonabili a quelli dell’area centrale del cosiddetto “pentagono”; mentre nel mezzogiorno le città sono più rade.
Si può ricordare che la presenza della “città” nella riflessione sullo sviluppo economico, e di conseguenza nelle politiche corrispondenti, è andata aumentando in questi ultimi 20 anni. Inoltre, un contributo della ricerca consiste nel distinguere e articolare i diversi livelli della gerarchia urbana. Va
detto che quando si parla di città si dovrebbe porre attenzione a dimensioni e livelli diversi. Se si
considerano le aree urbane potenziali, quelle cioè che possono risultare alla aggregazione di bacini
metropolitani contermini, risulta un’immagine diversa dell’Italia urbana. L’importanza delle città
non era scontata, invece, quando nacquero le prime iniziative di sviluppo urbano; per esempio, nell’Inghilterra della Thatcher (Thornley 1991) le iniziative locali vennero tollerate ma senza entusiasmo, mentre l’obiettivo era demolire l’apparato pubblico di “governo” del territorio in seguito alla
svolta liberista e alla rilocalizzazione produttiva.
Una schematica periodizzazione indica di solito tre periodi post bellici e tre corrispondenti modelli
di politiche (Dematteis 1994):
- le politiche del benessere dell’immediato dopoguerra, che per la prima volta hanno offerto dotazioni minime di servizi generali (educazione, salute, pensione), mentre i villaggi rurali del Mezzogiorno si trasformavano in città, la gran parte della popolazione si concentrava nelle aree metropolitane, e i modelli di vita urbana si diffondevano fin nelle regioni più remote;
-
il periodo di contro urbanizzazione (1975-1985) e di decentramento urbano, che portò al riemergere e al consolidarsi della antica rete di piccole città, nonché al boom dei distretti della Terza
Italia;
- infine, l’ultimo periodo, a partire dagli anni ’90, di ancora più accentuato abbandono dei cuori
delle aree metropolitane, di crescita delle cinture perturbane, ma soprattutto di affacciarsi di
nuove forme di organizzazione territoriale degli insediamenti (la città diffusa, il territorio della
dispersione: Indovina 1990); un periodo peraltro di accentuata turbolenza istituzionale, ridimensionamento delle politiche centrali (l’edilizia sociale per esempio scompare dalla agenda politica) e di sperimentazione procedurale. In particolare, la popolazione urbana è in continua diminuzione negli ultimi dieci anni: i 12 maggiori comuni hanno complessivamente perso oltre il 7%
della popolazione, che diventa il 17% se si considerano i 30 anni successivi alla fase del boom
postbellico.
In mancanza di una definizione statistica ufficiale degli agglomerati urbani, occorre fare affidamento ad indagini indipendenti, sia pur opera di istituti pubblici o università. La nozione di area metropolitana è piuttosto elusiva e, nelle diverse misure, risulta difficilmente comparabile, perché risponde a criteri, tradizioni e culture molto diverse nei diversi paesi. Infatti, il diffuso dato che sottolinea
come il 40% dei cittadini europei viva in città (Euricur 2004) fa inevitabilmente riferimento a entità
eterogenee nei diversi paesi. Sarebbe ovviamente possibile, nel tentativo di descrivere l’armatura urbana italiana, fare riferimento ai capoluoghi di provincia, che però sono molto eterogenei tra loro,
comprendono dei piccoli centri (Sondrio, Rieti, Matera, Enna) ed escludono delle importanti realtà
(Sesto San Giovanni, Pomezia, Barletta, Gela). Oppure, si potrebbe considerare la dozzina di grandi
comuni, usualmente presi a riferimento nelle descrizioni puramente statistiche. Il recente Urban Audit compara infatti alcuni tra i comuni con più di 50 mila abitanti presenti nei diversi paesi europei.
Ma considerando tutti i comuni italiani al di sopra di questa soglia, arriveremmo a stimare la popolazione urbana nel 34%, che salirebbe però all’85% con l’area metropolitana di influenza.
Le maggiori aree metropolitane sono indicate di solito nel numero di 12 (Dematteis e Mercugliano
2002), con una popolazione compresa tra 0.5 e 3,3 milioni di abitanti. La popolazione urbana di
questi comuni è in continua diminuzione. I 12 maggiori comuni hanno complessivamente perso oltre il 7% della popolazione negli ultimi dieci anni, che diventa il 17% se si considerano l’intero periodo degli ultimi 30 anni, successivo alla fase del boom postbellico.
Inoltre, se si considerano le aree metropolitane intorno alle grandi città, come già definite nei precedenti capitoli, avremmo in Italia una popolazione metropolitana del 57%, grazie anche al contributo
delle numerose e vivaci città intermedie che costituiscono –come in Germania e Olanda, e in parte
Spagna e Inghilterra- l’ossatura della rete e della diffusione urbana nel nostro paese.
Si tratta di aree di taglia e forma molto differente tra loro; alcune delle quali, inoltre, sono contigue
e soggette a fenomeni conurbativi. Infatti, la descrizione del sistema urbano italiano non si esaurisce
nella demografia: accanto alla dimensione demografica, la distribuzione territoriale delle città si articola su una complessa gerarchia. Infatti, i sistemi metropolitani sono sì distribuiti in tutta Italia, ma
sono facilmente raggruppabili in alcune condizioni territoriali, che connotano in modo diverso regioni e ripartizioni geografiche. Non solo dunque intorno alle città sono cresciuti importanti aggregati urbani. La diffusione metropolitana ha creato nuovi legami, almeno potenziali, tra aree vicine
interessate da medesimi fenomeni. Queste aree sono quelle che possono creare nuove importanti
realtà urbane talvolta di dimensioni europea.
Definizioni
Anche per questo motivo, sembra opportuno seguire una strada analiticamente difendibile ma limitata a poche assunzioni, e viceversa con il pregio della chiarezza.
Per rileggere le aree urbane in Italia sono stati recentemente suggeriti tre semplici criteri:
a. il riferimento ad un’area funzionale estesa oltre il comune centrale fino a coincidere con i
confini del Sistema locale del lavoro, perimetro che in sostanza misura gli spostamenti casalavoro;
b. la soglia demografica, fissata in almeno 150 mila abitanti;
c. i caratteri qualitativi della morfologia territoriale e della organizzazione conurbativa, che
suggeriscono di considerare insieme –come costituenti un unico agglomerato- taluni SLL urbani
e vicini.
Per la prima definizione, si può ricorrere all’Istat, che elabora uno studio dei bacini di pendolarismo
che consente la perimetrazione dei sistemi locali del lavoro (Istat 1997 e 2005). I Sistemi Locali del
Lavoro nel 2001 sono 686, inferiori ai 784 individuati nel 1991 e ai 955 del 1981, e sono spesso
usati per descrivere anche le forme di territorializzazione dell’economia (Oecd 2001). Seguendo
questa impostazione, nei 76 SLL siti intorno alle maggiori città vivono oltre 32 milioni di persone;
sono aree di taglia e forma molto differente tra loro; alcune, infine, sono contigue e soggette a fenomeni conurbativi. Per questa via è anche possibile proporre una sintesi dell’armatura urbana del
paese che riconosce alcuni grandi classi di città, e al tempo stesso allargare lo sguardo alle strutture
metropolitane tenendo in conto sia i processi sovralocali che le differenze geomorfologiche.
La configurazione urbana del paese è sintetizzabile in una semplice immagine: una piramide più larga alla base e meno alta di quella di altri paesi. Siamo quindi poveri di città grandi e ‘apicali’: pertanto, i fattori di competitività legati alla massa e alla scala urbana – che non sono gli unici, ma sono
comunque rilevanti e sono spesso privilegiati dalle misure e dagli studi- non favoriscono in modo
particolare la posizione delle nostre città nella competizione internazionale.
5. Popolazione residente nei maggiori comuni per anno di censimento
Grandi comuni
Anni di censimento
1971
1981
1991
var
2001/1991
2001
%
Milano
1.732.000
1.604.773
1.369.295
1.256.211
-8,3
Verona
266.470
265.932
255.824
253.208
-1,0
Padova
231.599
234.678
215.137
204.870
-4,8
Venezia
363.062
346.146
298.532
271.073
-9,2
Bologna
490.528
459.080
404.378
371.217
-8,2
Firenze
457.803
448.331
403.294
356.118
-11,7
Genova
816.872
762.895
678.771
610.307
-10,1
Roma
2.781.993
2.840.259
2.733.908
2.546.804
-6,8
Napoli
1.226.594
1.212.387
1.067.365
1.004.500
-5,9
Bari
357.274
371.022
342.309
316.532
-7,5
Palermo
642.814
701.782
698.556
686.722
-1,7
Torino
1.167.968
1.117.154
962.507
865.263
-10,1
Totale
10.536.948
10.366.420
9.431.867
8.744.826
-7,3
Fonte: elaborazione su dati Istat 2001
6. I grandi sistemi urbani
Tipologia metropolitana
Le “tre capitali”
Ambito territoriale
Regione milanese
di cui comune di
Milano
Roma
di cui comune di
Roma
Conurbazione napoletana
di cui comune di
Napoli
Abitanti
5.550.271
Var. % su
Addetti
1991
Var. % su
1991
0,5%
2.522.739
7,0%
1.256.211
-8,3%
808.642
6,2%
3.374.511
-2,2%
1.300.482
15,5%
2.546.804
-6,4%
1.098.172
14,3%
3.639.427
2,1%
813.198
8,8%
1.004.500
-5,9%
328.116
0,5%
I ”quattro potenziali sistemi
metropolitani”
Le '”agglomerazioni urbane”
Metropoli Emiliana
1.933.965
2,1%
952.524
10,0%
Metropoli Veneta
1.861.930
3,0%
811.332
13,4%
Metropoli Torinese
1.684.336
-4,4%
724.413
1,2%
Metropoli Toscana
Genova
1.432.947
723.633
-3,5%
-8,8%
627.909
268.541
6,0%
0,4%
Bergamo
705.872
8,2%
309.211
16,6%
Verona
540.753
5,8%
237.709
16,8%
Brescia
407.887
4,7%
202.955
18,1%
Palermo
856.152
1,2%
195.983
-0,5%
Bari
604.356
-1,2%
194.755
8,3%
Catania
569.568
1,5%
151.809
7,7%
Cagliari
461.160
2,1%
147.405
11,8%
Taranto
Salerno
453.107
396.822
-4,3%
2,7%
106.992
105.490
-4,1%
9,4%
Fonte: elaborazione su dati Istat 2001
7. Articolazione del sistema urbano in Italia
Popolazione
%
Addetti
%
12.564.209
22,0
4.636.419
23,9
Quattro sistemi metropolitani
6.913.178
12,1
3.116.178
16,1
4 agglomerazioni settentrionali
2.378.145
4,2
1.018.416
5,2
5 agglomerazioni meridionali
2.944.343
5,2
796.944
4,1
Altre aree urbane nel Centro Nord
4.326.566
7,6
1.716.653
8,8
Altre aree urbane nel Sud
3.177.953
5,6
842.315
4,3
Tre capitali
Totale aree urbane
32.304.394
56,7
12.126.925
62,5
Italia
56.995.744
100,0
19.410.556
100,0
Fonte: elaborazione su dati Istat 2001
Inoltre, la scomposizione delle aree metropolitane in diversi ‘tipi’ offre importanti spunti di riflessione in termini di policy. Appare evidente, per esempio, la maturità e al tempo stesso la problematicità della governance istituzionale delle aree metropolitane, quando queste coincidono con intere
regioni o, al contrario, investono sia aree dense e diffuse; è anche evidente la debolezza delle politiche di infrastrutturazione alla scala territoriale (per esempio, dei sistemi urbani di scala regionale);
va rilevata, ancora, la coincidenza parziale, non sempre sistematica, fra i sistemi urbani e i pur significativi esperimenti di programmazione territoriale degli ultimi anni.
Queste aree sono quelle che possono creare nuove importanti realtà urbane talvolta di dimensioni
europea:
- sebbene Milano abbia perso mezzo milione di abitanti in 30 anni, per esempio, la regione urbana
che gravita intorno al maggior centro urbano del Nord ospita 5,5 milioni di persone (senza contare le aree metropolitane di Brescia e Bergamo). Nell’insieme, la Lombardia ha una popolazione urbana paragonabile a quella di Londra.
- l’area napoletana (3,6 milioni);
- l’area romana (3,3 milioni) con città satellite in tutto il centro Italia che per alcuni funzioni gravitano sulla capitale;
- il triangolo veneto (1,8 milioni di ab.) intorno a Padova, Venezia, Treviso;
- la via Emilia da Parma a Bologna (2 milioni);
- la piana di Firenze, Prato e Pistoia (che in questo modo supera la soglia del milione); il triangolo
Lucca, Pisa e Livorno, che supera il mezzo milione.
Vanno quindi segnalati:
- i fenomeni conturbativi o di aggregazione metropolitane intorno alle 3 maggiori aree metropolitane: Milano, Roma, e Napoli. In un certo senso, si tratta di tre ‘capitali’ di Italia: sia per motivi
-
-
geopolitici, che perché solo sommate insieme raggiungono l’incidenza che Londra o Parigi hanno sui rispettivi sistemi nazionali. Infatti, intorno a questi centri gravitano rispettivamente 5,5,
3,3 e 3,6 milioni di persone, complessivamente cioè oltre il 20% della popolazione del paese; si
tratta però di ambiti e territori molto diversi per morfologia e reddito, ma anche per articolazione
amministrative e percorso di sviluppo, difficili dunque da ricondurre a unitarietà dal punto di vista delle politiche. Risulta difficile anche smentire la sensazione, confermata da molti indicatori,
che le tre grandi aree metropolitane, nelle loro consolidate collocazioni internazionali e nazionali, rappresentino altrettanti punti di crisi della vivibilità e dei diritti di cittadinanza del paese, pur
con ragione e con intensità diversa.
quattro potenziali sistemi metropolitani, tra 1 e 2 milioni di abitanti, presenti in Piemonte, Veneto, Emilia e Toscana. Si tratta di sistemi con assetti e configurazioni territoriali molto diversi tra
loro (radiali, policentrici, lineari) e con caratteri territoriali specifici ed eterogenei (ex monoindustria, PMI). Certamente, sono aree che riceverebbero particolari vantaggi da un robusto intervento di attrezzatura territoriale, in un certo senso proprio da un classico intervento di integrazione territoriale e di efficienza organizzativa (condivisione di attrezzature, infrastrutture comuni, investimenti coordinati), quale è oggetto specifico dei piani strategici;
altre nove importanti aree metropolitane, superiori alla soglia dei 400 mila abitanti, presenti in
regioni come Liguria, Sicilia, Puglia e Sardegna. Si tratta di centri che potrebbero probabilmente
fornire migliori servizi e attrarre maggiori investimenti se fossero nelle condizioni di operare in
modo unitario, con adeguata dotazione finanziaria; in questo senso, sembrano presentare i canonici problemi di formazione di autorità metropolitane (coordinamento degli attori pubblici, elaborazione di una agenda comune, finalizzazione di risorse comuni). Comprendono aree industriali di base o di piccola impresa, e le maggiori città amministrative del sud; altre importanti
aree urbane sono presenti in tutte le regioni, spesso coincidenti con centri urbani vivaci ed importanti, caratteristici della diffusa armatura urbana italiana.
La concentrazione degli impieghi urbani
Le teorie sul “ritorno delle città” in genere si concentrano su specifiche categorie di industrie di servizi e tecnologia caratterizzati, tra l’altro, da attributi quali: l’intensità conoscitiva e tecnologica,
l’immaterialità e “creatività”, l’alto valore aggiunto, e l’eco-compatibilità. Gli stessi dati Istat 1991
e 2001 segnalano che, nella dispersione residenziale, la popolazione con titoli di studio e mansioni
qualificate tende a concentrarsi nelle aree metropolitane, secondo una tendenza comune nelle nazioni industrializzate e in cui alcune differenze tra paesi dipendono dalle caratteristiche specifiche dei
percorsi di terziarizzazione e innovazione delle attività produttive.
Questa parte della ricerca si è concentrata sull’individuazione e l’analisi, in termini di distribuzione
e crescita, di tutte quelle funzioni che possono essere definite superiori, in quanto caratterizzate da
un contenuto di elevata qualificazione o di elevato livello decisionale; e urbane in quanto non solo
sono localizzate prevalentemente in ambito urbano, ma contribuiscono esse stesse a caratterizzare
l’immagine della città.
Per definire le funzioni metropolitane superiori sono stati selezionati da tutti i settori delle attività
economiche5 solo quelli della ricerca, della produzione ‘tecnologica’ e dei servizi urbani più elevati:
ricerca e sviluppo sperimentale nel campo delle scienze naturali e ingegneria; ricerca e sviluppo
sperimentale nel campo delle scienze sociali e umanistiche; fabbricazione di macchine per ufficio,
di elaboratori e sistemi informatici; costruzione di aeromobili e di veicoli spaziali; fabbricazione di
prodotti farmaceutici, chimici e botanici per usi medicinali; editoria, stampa e riproduzione di supporti registrati; informatica e attività connesse; altre attività professionali ed imprenditoriali; intermediazione monetaria e finanziaria; produzioni e distribuzioni cinematografiche e di video; attività
5
Classificazione Ateco, dati provenienti dall’8° Censimento dell’Industria e dei Servizi del 2001, con confronti al 1991.
radiotelevisive; istruzione universitaria; altre attività dello spettacolo; attività di biblioteche, archivi,
musei ed altre attività culturali; attività delle agenzie di stampa.
Un analogo studio6, commissionato dal governo francese nell’ambito di un programma strategico
per il miglioramento dell’“offerta metropolitana”, definisce come ‘impieghi metropolitani superiori’
(Emplois Métropolitains Supérieurs) le qualifiche più elevate (dirigenti, livelli quadro e ingegneri o
tecnici specializzati) di undici settori di attività (classificazione dell’INSEE): arte, banche e assicurazioni, commercio all’ingrosso, commerciale della produzione, gestione, informazione, informatica, ricerca, servizi alle imprese, telecomunicazioni e trasporti.
Il sistema di aggregazione dati dell’ISTAT non permette attualmente di risalire alle informazioni
sulle qualifiche professionali all’interno delle categorie o classi di attività economiche.
In questo caso quindi, a differenza dell’analogo studio francese, sono stati ristretti gli ambiti dei macro-settori funzionali e selezionati da questi settori alcuni sottoinsiemi specifici, al fine di esaminare
solo quelle classi o gruppi di attività urbane che già di per sé contengono un più elevato livello di
qualificazione e/o di contenuto decisionale. Sono state altresì evitate tutte quelle attività - come il
commercio, i trasporti, le poste e telecomunicazioni, l’energia e lo smaltimento rifiuti - che sono legate alla taglia demografica.
Per esempio, se fosse stato inserito il dato relativo alla Grande Distribuzione Organizzata, dove si è
concentrato l’aumento più significativo degli addetti nelle maggiori aree metropolitane, sarebbe
emerso un fattore di maggiore concentrazione; mentre, se fosse stato inserito il dato relativo al settore poste e telecomunicazioni o energia e smaltimento rifiuti, sarebbero stati inclusi, invece, anche
gli uffici postali e i distributori di benzina.
Gli impieghi “superiori” -alta formazione e ricerca, editoria e cultura, produzione high-tech, servizi
finanziari- si concentrano -anche in Italia, come pure negli altri paesi europei- nelle città. Nel 2001
gli addetti nei settori citati si localizzavano per il 75 per cento all’interno dei 72 SLL urbani, e in
particolare nei comuni capoluogo posti al centro delle agglomerazioni. L’insieme di queste funzioni
–a buon diritto definibili urbane− è in crescita, rispetto al 1991, del 48 per cento, in modo simile
nelle diverse ripartizioni geografiche, con un trend questo non diverso dalla media nazionale. Andamenti diversi si riscontrano invece nelle singole aree, con casi in particolare di vistoso recupero
(Verona e Brescia, per esempio).
Tra le funzioni urbane, i settori della produzione “tecnologica” sono generalmente in calo di addetti
(grosso modo il 10 per cento in meno rispetto al 1991), mentre aumentano quelli legati ai servizi e
alla ricerca.
Tuttavia, le funzioni superiori conservano una forte concentrazione nelle aree urbane sia pur con andamenti diversi. Nelle principali aree urbane, soprattutto quelle del Nord, le funzioni superiori incidono di più sul totale degli addetti: nel sistema locale di Milano l‘incidenza è addirittura del 30 per
cento, ed è in generale più elevata della media nelle grandi aree metropolitane e al Nord. Fanno eccezione da un lato Bergamo, città solidamente industriale, e dall’altro lato, Bari dove tali attività registrano un evidente incremento. Vanno ancora segnalate Pisa e Trieste, altre due città sede di importanti università e poli di ricerca, dove l’incidenza delle funzioni superiori (rispettivamente 25,1 e
23,9) è significativamente più elevata della media.
In definitiva, nella riflessione sul ruolo delle città come motori di sviluppo occorre tenere presente
la sovrapposizione di questi diversi schemi: una geografia complessa delle attività manifatturiere,
che non si identificano più né con un settore privilegiato, né con un’attività di base, né con una regione in particolare; altre attività con profilo geografico, localizzativo e qualità diversificate, come
il rurale di qualità e le attività di servizio specializzate e diffuse.
8. Incidenza e variazione addetti alle funzioni superiori
6
Datar, Pour un rayonnement européen des métropoles françaises. Éléments de diagnostic et orientations, CIADT du 18
décembre 2003 2004.
Italia
Aree urbane
di cui
Aree urbane Centro
Nord
Aree urbane Sud
Incidenza degli addetti alle funzioni
superiori sul totale
degli addetti
16,5%
19,9%
Variazione degli Variazione degli adaddetti alle fun- detti nel complesso
zioni superiori tra tra il 1991 e il 2001
il 1991 e il 2001
43,2%
8,0%
42,6%
8,7%
20,8%
42,8%
9,4%
16,5%
42,0%
6,3%
Milano
Roma
Napoli
30,3%
27,8%
19,6%
37,5%
47,5%
36,4%
8,1%
15,5%
5,1%
Bologna
Torino
Firenze
21,9%
22,3%
21,0%
40,0%
34,6%
27,6%
5,2%
1,2%
4,2%
Genova
Bergamo
Brescia
Verona
20,1%
15,4%
18,5%
19,8%
25,5%
47,9%
70,1%
55,0%
0,4%
16,6%
18,1%
16,8%
Palermo
Bari
Catania
Cagliari
Taranto
18,3%
21,2%
16,0%
17,6%
12,3%
25,7%
59,0%
25,2%
49,1%
41,1%
-0,5%
8,3%
7,7%
11,8%
-4,1%
Le priorità del prossimo programma
La parte prevalente della strategia del Quadro Strategico Nazionale, approvato dalla Commissione
dell’Unione Europea nel luglio 2007, attuata con le risorse comunitarie e l’articolazione degli obiettivi generali in obiettivi operativi, è demandata alla redazione di Programmi Operativi Regionali, finanziati con contributo FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale) e Programmi finanziati con
contributo FSE (Fondo Sociale Europeo).
L’analisi che segue si sofferma sulle scelte, gli orientamenti e le decisioni di politica urbana che
emergono dalla lettura dei primi Programmi Operativi Regionali FESR per il 2007-20137, sia per la
macroarea “Competitività e occupazione” sia per la macroarea “Convergenza”8.
La politica regionale unitaria – che persegue la missione di ridurre gli squilibri interni – interviene,
da un punto di vista finanziario, in modo significativamente diverso nelle regioni del Mezzogiorno,
7
POR adottati al 15 novembre 2007: Por Campania, Abruzzo, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Marche, P.A. Bolzano, P.A. Trento, Piemonte, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta, Veneto, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, . Gli altri programmi operativi sono in corso di adozione.
8
Alla macroarea Convergenza appartengono la Regione Campania, la Regione Siciliana, la Regione Puglia, la Regione
Calabria e la Regione Basilicata. Tutte le altre regioni e province autonome rientrano nell’obiettivo Competitività e Occupazione.
che gravitano su equilibri di sviluppo molto inferiori rispetto alla media italiana, rispetto alle regioni
del Centro Nord.
Alle aree del Mezzogiorno, la politica regionale per il 2007-2013 destina oltre 100 miliardi di euro.
Proprio in considerazione di tale impegno, la proposta è completata da un’indicazione programmatica del riparto delle risorse fra dieci priorità: alla priorità “Competitivita’ e attrattivita’ delle città e
dei sistemi urbani” è previsto di destinare almeno il 7,2% delle risorse9 della politica regionale nazionale, pari a circa 8 miliardi di euro.
Per le regioni del Centro Nord, considerata l’esigua percentuale di risorse rispetto alle regioni del
Sud, non è stata data nessuna indicazione per l’allocazione delle stesse.
Dalla lettura dei documenti programmatici regionali (FESR) risulta che le risorse10 destinate complessivamente dalle regioni italiane alle politiche per le città e i sistemi urbani per il 2007-2013
sono circa 5 miliardi di euro, il 70% destinato alle regioni del Mezzogiorno.
A questi 5 miliardi, destinati direttamente alla priorità urbana, si aggiungono le risorse per settori
(innovazione e ricerca, energia, mobilità...) che trovano attuazione in ambito urbano, pur essendo
obiettivi specifici di altri assi.
Una stima provvisoria, elaborata in base alle assegnazioni indicative delle risorse disponibili del
FESR per tipologie di intervento, valuta che, nei prossimi sette anni, alle città sarà destinato in media il 50% del totale delle risorse POR FESR, in totale 16 miliardi di euro11.
La tabella 9 illustra, attraverso giudizi qualitativi, il rilievo, nei singoli programmi operativi regionali, della priorità urbana o territoriale e il peso complessivo di tutti gli investimenti previsti in ambito
urbano. In quest’ultima categoria rientrano sia le risorse per la priorità territoriale o urbana (la parte
destinata ad ambiti urbani nel caso di priorità territoriali) sia le risorse settoriali incluse in altre priorità, ma destinate ad agglomerati urbani. Con la dovuta cautela per il significato di ‘assegnazione indicativa’ che le regioni stesse fanno sulla destinazione delle risorse per ambiti, è importante notare
che a un significativo investimento sulla priorità urbana non necessariamente corrisponde un grande
investimento sulle città. Esiste un gruppo di regioni (Liguria, Toscana, Campania, Umbria) che fa
una scelta decisa verso la ‘territorializzazione’ delle risorse e ne destina una parte molto rilevante ad
ambiti urbani. All’altro estremo, c’è un altro insieme (Lazio, Lombardia, Veneto, ma anche Marche,
Friuli Venezia Giulia), che segue la direzione opposta: scelte molto settoriali, ‘poca città’.
Esistono però molti casi di un asse urbano o territoriale forte, ma relativamente basso investimento
sulle città (Piemonte, Sardegna, Calabria, Basilicata12, Molise) e situazioni interessanti (Emilia Romagna, Sicilia, Puglia) di assenza di priorità territoriale o di peso non così rilevante della priorità urbana, ma maggior peso degli investimenti settoriali negli agglomerati urbani.
Tav. 9 POR FESR 2007-2013: peso finanziario della priorità urbana o territoriale e peso complessivo degli investimenti previsti in ambito urbano
9
L’allocazione programmatica considera oltre 84 miliardi di euro derivanti dall’ammontare complessivo delle nuove risorse del FAS stanziate per il 2007-2013 per il Mezzogiorno (al netto della riserva FAS di oltre 17 miliardi di euro, che
non è considerata nell’allocazione programmatica alle priorità e che include – oltre a una riserva di programmazione
vera e propria – le quote destinate ai meccanismi incentivanti a supporto del raggiungimento degli obiettivi di servizio,
di cui al par. III.4) e le risorse dei Fondi comunitari (inclusivi di una stima del cofinanziamento nazionale).
10
Le risorse in questione comprendono, al momento, il contributo europeo e il cofinanziamento nazionale e non considerano le risorse nazionali del Fondo per le Aree Sottoutilizzate, ancora in corso di programmazione.
11
Per avere una visione complessiva delle risorse della programmazione regionale initaria, si devono aggiungere le risorse destinate ad ambiti urbani del FSE e del FAS.
12
Il dato della regione Basilicata potrebbe risultare tale per errore nell’inserimento nel POR delle assegnazioni indicative.
POR
Liguria
Toscana
Campania
Umbria
Piemonte
Abruzzo
Sardegna
Molise
Calabria
Basilicata
Sicilia
Puglia
Emilia Romagna
Marche
Friuli Venezia Giulia
P.A. Trento
P.A. Bolzano
Lazio
Lombardia
Veneto
Valle d'Aosta
Priorità territoriale/ur- Livello di esplicitaziobana
ne della priorità *
urbana
territoriale
Investimento urbano
complessivo **
alto
alto
alto
basso
urbana
territoriale
territoriale/urbana
territoriale
urbana
urbana
basso
nessuna
nessuno
territoriale
basso
basso
nessuna
nessuno
basso
alto
* la stima è ricavata dalla percentuale delle risorse destinate alla priorità urb/terr sul totale delle risorse POR/FESR
** la stima è ricavata dall'assegnazione indicativa delle risorse disponibili FESR sull'Asse prioritario e
sulle tipologie di intervento in ambito urbano
Le città nei nuovi Programmi Operativi Regionali
I Programmi Operativi Regionali (FESR), appartenenti sia all’obiettivo Competitività che all’area Convergenza, hanno recepito molte delle indicazioni contenute nel QSN e soprattutto hanno accolto nel complesso
l’opportunità di destinare una quota consistente delle risorse per le politiche regionali alla dimensione territoriale dell’azione pubblica, al Nord quanto al Sud.
Il Centro Nord ha preferito un approccio territoriale, che include non solo le aree urbane ma anche l’insieme
più ampio delle realtà locali rilevanti ai fini dello sviluppo regionale. Si tratta di una scelta prevedibile: le risorse, non ingenti, sono convogliate su pochi assi di intervento e un’unica priorità territoriale. In alcuni casi
(le regioni alpine, ma anche alcune regioni del Centro come le Marche e il Molise) la scelta è invece dettata
da una dimensione urbana non così rilevante ai fini della crescita del territorio o comunque non percepita
come tale.
Le problematiche urbane che emergono dall’analisi di contesto sono legate principalmente a congestione di
persone e merci, e i settori di intervento più ‘territorializzati’ e che presentano una rilevabile concentrazione
di risorse, sono ambiente, energia e mobilità.
I temi più ricorrenti in agenda sono: lo sviluppo sostenibile urbano, soprattutto trasporto urbano pulito e risparmio energetico (Emilia Romagna, Piemonte, P.A. Bolzano) il miglioramento dell’accessibilità alle aree
urbane, in contesti urbani e peri-urbani (Lombardia, Lazio, Umbria, Liguria, Toscana) e, in secondo luogo e
con accezioni diverse, la riqualificazione delle aree dismesse o degradate (Piemonte e Liguria). I principali
obiettivi delle politiche per il territorio non appartenente ad aree urbane, al Nord come al Centro, sono invece incentrati sulla promozione ambientale e culturale a fini turistici (regioni alpine, Veneto).
Nelle regioni del Nord, e non in modo così prevedibile, considerato il ruolo ‘manifatturiero’ delle sue aree
urbane, sono invece escluse dalle dimensioni territoriali dell’azione pubblica gli obiettivi e gli interventi per
i sistemi produttivi, che troviamo esplicitati solo nelle strategie della Regione Toscana e in parte del Piemonte e delle Marche.
Le regioni del Mezzogiorno hanno invece identificato una priorità urbana, che in realtà include ‘molto territorio’. I temi urbani prevalenti sono l’inclusione sociale (soprattutto Campania), il potenziamento dei servizi
(Sicilia, Campania, Molise, Abruzzo, Calabria) e la riqualificazione urbana (Puglia, Sardegna). La mobilità
è un problema sentito anche nelle regioni del Mezzogiorno e investimenti consistenti per il miglioramento
del trasporto pubblico sono previsti nei maggiori agglomerati urbani, Napoli e Palermo, ma anche in Puglia
e Basilicata.
L’obiettivo ‘più alto’ del QSN, l’attrazione di investimenti per la ricerca e la produzione tecnologica e la
diffusione di servizi avanzati è presente solo in alcuni programmi regionali, in Toscana e in alcune regioni
del Mezzogiorno, qui però descritto come intento programmatico e non sempre articolato in obiettivi operativi 13.
Va comunque considerato che questo tema è inserito da molte regioni (vedi Piemonte) nella strategia regionale per Ricerca, Sviluppo e Innovazione, con un asse dedicato e un impatto urbano comunque rilevante.
In ogni caso vale la pena di sottolineare che questo obiettivo, ancorché auspicabile, non si traduce facilmente in interventi realizzabili e può intendersi principalmente come capacità che esso dovrebbe generare nel
territorio.
Dall’analisi dei programmi operativi emerge invece, con una certa evidenza, che gli obiettivi più espliciti
delle politiche urbane, al Nord quanto al Sud, sono rivolti prevalentemente al perseguimento della qualità e
abitabilità delle città e dei sistemi urbani.
L’obiettivo principale delle strategie delle politiche regionali in ambito urbano, che si evince dalla lettura
dei programmi operativi regionali, al Nord, al Centro e al Sud, sembra essere l’intera armatura urbana italiana, rappresentata da un sistema a più centri interconnessi, da un insieme di città piccole e medie in cui lo
stesso capoluogo regionale assume un profilo di complementarità e tende a configurarsi secondo un modello
non gerarchico o di espansione diffusiva14.
Le due principali città italiane, Roma e Milano, non rappresentano apparentemente una ‘priorità urbana’ per
le regioni di appartenenza. Ciò non significa che alle città più grandi d’Italia non siano destinate risorse regionali, ma solo che non esiste una strategia regionale dichiarata per queste città e il peso politico ed economico dei grandi comuni metropolitani è preponderante o perlomeno confrontabile con quello della regione
di appartenenza. Avviene però un trasferimento di risorse su progetti o semplicemente su linee di intervento15.
Lo sviluppo urbano della Regione Campania16, a cui appartiene la terza grande area metropolitana italiana,
ha invece un peso rilevante nella strategia regionale complessiva. Punta però al bilanciamento degli squilibri territoriali: meno del 20% delle risorse17 è destinato, ad oggi, all’area metropolitana di Napoli. Gli altri
sistemi urbani che potranno avere accesso ai finanziamenti, sono le città medie e i sistemi urbani minori con
eccellenze o potenzialità peculiari di sviluppo.
Le città in crescita del Nord Italia (l’estesa rete urbana della pianura padana centro orientale: Veneto, Emilia
Romagna e parte della Lombardia) non sono obiettivo di politiche regionali dichiaratamente urbane. Il Ve13
Nei criteri di selezione individuati finora da alcune Autorità di Gestione è indicato genericamente, come criterio di valutazione, il livello di innovatività nell’erogazione dei servizi.
14
POR FESR Regione Toscana.
15
La Regione Lazio non ha un asse urbano né territoriale, ma destina 270 mln di euro (il 30% delle risorse POR) all’accessibilità urbana dell’area romana. La Lombardia non ha un asse territoriale e assegna solo il 25% delle risorse FESR
alla dimensione urbana, principalmente nei settori energia e mobilità. Le indicazioni contenute nel POR, confermate nei
primi documenti dei criteri di selezione sembrano privilegiare le aree deboli del territorio.
16
La Campania convoglia nella priorità urbana 1.505mln di euro di investimento, un terzo delle risorse urbane della politica regionale dell’intero territorio nazionale e destina complessivamente il 65% delle risorse complessive del POR
FESR a settori di diretto intervento in ambito urbano.
17
Queste sono le risorse assegnate alla progettazione integrata per Napoli, ma il negoziato è ancora in corso e il Comune
di Napoli sta avanzando richieste di ulteriori stanziamenti per la città.
neto nega la necessità di operare una concentrazione geografica, e neppure tematica. L’Emilia Romagna non
adotta un approccio di sviluppo urbano in senso stretto, e sceglie un approccio sistemico (non alla scala delle singole città). Caratteristica principale di queste città è infatti quella di beneficiare del proprio territorio,
delle proprie province. L’approccio sistemico trova quindi giustificazione in quest’ottica. Non esiste un asse
urbano ma il POR FESR concentra ben l’80% delle sue risorse in ambito urbano e delega come organismo
intermedio le Province e non i Comuni.
Le altre regioni del Nord con importanti aree metropolitane, Piemonte e Liguria, adottano, come criteri per
la selezione delle aree urbane, il degrado ambientale e il disagio sociale. Il Piemonte –dove prevalgono nettamente gli investimenti per l’economia della conoscenza – destina agli agglomerati urbani meno del 50%
del totale delle risorse FESR, mentre la Liguria prevede, unica regione del Nord, una priorità tutta urbana
cui destina il 25% delle risorse complessive, dedicata alla riqualificazione e al miglioramento dell’accessibilità e dell’ambiente.
Lo sviluppo urbano in Toscana, che vanta un importante sistema metropolitano caratterizzato dalla concentrazione delle attività produttive e residenziali su una porzione ridotta dello spazio regionale, è condizionato
da una forte connessione dei distretti industriali con il sistema urbano. La Regione – con una consistente
concentrazione di risorse territorializzate, il 24%, e fino al 70% di investimenti previsti nelle aree urbane –
si propone di attuare una ben delineata strategia di sviluppo urbano integrato.
Le tre regioni del Sud (Puglia, Sardegna e Sicilia) con importanti aree metropolitane destinano complessivamente più di 1.500 milioni di euro alla priorità urbana, mentre le altre regioni italiane, che hanno centri urbani importanti, al Nord quanto al Sud (Friuli Venezia Giulia, Umbria, Marche, Abruzzo, Calabria, Basilicata), convogliano in tutto 800 milioni di euro sul territorio, con un ‘peso urbano’ più o meno rilevante a seconda delle scelte e caratteristiche della regione di appartenenza.
Dall’analisi dei POR emerge l’immagine di una realtà urbana caratterizzata da una piramide fortemente allargata verso il basso fino ad includere le città o i sistemi territoriali maggiori di 50mila abitanti18. Nei prossimi sette anni, beneficeranno quindi di risorse ‘urbane’ i comuni capoluogo e molti sistemi territoriali, individuati a vario titolo, per dimensione aggregata, come poli di sviluppo, per appartenenza alle aree metropolitane. Delle risorse destinate alla priorità urbana o territoriale, una quota che appare consistente sembra proprio destinata ai sistemi urbani, che nel Mezzogiorno vanno a sovrapporsi – o a intersecarsi – in molti casi ai
sistemi locali di sviluppo.
Saranno in ogni caso i criteri di selezione, che i Comitati di sorveglianza hanno il compito19 di esaminare ed
approvare entro sei mesi dall’approvazione del Programma operativo, a rendere possibile la verifica di coerenza dei suddetti criteri con gli obiettivi del POR e potranno contribuire in modo decisivo al raggiungimento dell’obiettivo di concentrazione degli interventi nella dimensione territoriale della programmazione.
La partita della concentrazione – e della competizione per l’accesso alle risorse - si sta però già giocando in
alcune regioni e principalmente a livello di selezione dei sistemi urbani.
La Regione Piemonte attua, per la progettazione integrata territoriale, una forma di negoziazione Città Regione, che prevede che i comuni si associno in non meno di 50.000 abitanti e concorrano, attraverso l’elaborazione di progetti e con risorse proprie di cofinanziamento, all’accesso alle risorse.
La Regione Campania prevede la sub-delega per le città > 50mila abitanti e accordi di reciprocità con l’indicazione di un meccanismo selettivo che condiziona l’accesso ai finanziamenti all’adeguamento a determinati
livelli di servizio al cittadino20. Nelle regioni del Mezzogiorno, infatti, i sistemi di selezione potranno essere
18
Il ‘sistema urbano’, in quanto definito tale dalla regione di appartenenza, è inteso con accezioni e significati diversi: è
considerato sistema urbano l’Area Urbana di Corigliano-Rossano in Calabria costituita da Corigliano Calabro e Rossano
Calabro (complessivamente 75.127 abitanti), ma anche l’Area Metropolitana di Napoli o il sistema urbano, diffuso, dell’Emilia Romagna.
19
Regolamento (CE) n. 1083/2006 (articolo 65)
20
I ‘ servizi’ individuati dalla Regione Campania investono molti importanti, ma ‘difficili’, settori, e rischiano di rendere difficilmente gestibile il processo innovativo avviato.
indirizzati anche a favorire il raggiungimento dei target di servizio, per i servizi minimi essenziali21, nei settori dove saranno identificate potenzialità di intervento.
E’ proprio nella capacità di gestire questi processi, appena accennati, e nel raggiungimento di un buon livello di interazione tra regioni e città, che bisognerà ricercare, nei prossimi anni, risultati nel campo delle innovazioni istituzionali e nelle nuove strategie per lo sviluppo locale.
Sarà interessante seguire lo sviluppo, che sembra appena delinearsi, di un duplice meccanismo di accesso
alle risorse basato da un lato sulla qualità ed efficacia del progetto – laddove esistono amministrazioni efficienti, capacità progettuale ed effettiva concorrenza sulle risorse (poche) – e dall’altro sul raggiungimento di
un buon livello di servizi – laddove è più utile promuovere una buona amministrazione locale e il raggiungimento di migliori livelli di cittadinanza.
La determinazione di obiettivi specifici e di un sistema premiale sui servizi pubblici essenziali potrà avere
un impatto rilevante soprattutto in ambito urbano.
Per le città del Mezzogiorno, laddove è più evidente l’inefficienza dei servizi collettivi, che sono a valle di
investimenti in infrastrutture (acqua, rifiuti..) e dei servizi socio-assistenziali o di istruzione e formazione,
che non sono direttamente riconducibili a interventi infrastrutturali in senso stretto, ma che tuttavia contribuiscono fortemente a connotare un’area come più o meno sviluppata (QSN: p. 168), sarà importante perseguire, a tutti i livelli istituzionali, il miglioramento dell’offerta pubblica di servizi al cittadino, sia come base
che come obiettivo di sviluppo.
Atlante metropolitano
Nelle tavole che seguono sono riportati indicatori riferiti ad alcuni temi cruciali dal punto di vista
della competitività urbana.
Il contesto territoriale dello sviluppo in Italia fornisce appigli contradditori alle politiche per le città: per
certi aspetti l’Italia è divisa in due, come nella tradizionale contrapposizione Nord e Sud; per altri aspetti, la composizione territoriale è a macchia di leopardo e rispecchia logiche post industriali e combinazioni insolite di fattori di sviluppo. Le prime quattro immagini –riferite all’insieme del paese- introducono una selezione di rappresentazioni relative alle aree metropolitane e illustrano questa costituiva ambivalenza.
La prima riguarda il profilo prevalente delle attività di ciascun comune: scopriamo un'Italia che è fatta
di sistemi urbani in prevalenza terziari; di grandi sistemi territoriali manifatturieri disposti lungo l’arco
prealpino o su due trasversali transappenniniche all’altezza dell’Umbria e del Molise; di aree rurali piccole e frammentate, con profili e geografie molto caratterizzate. Balza all’occhio una struttura regionale
articolata e complessa, nella quale il manifatturiero non è scomparso, articola anzi diverse ramificazioni
trasversali e penetra nel Mezzogiorno. Inoltre, restano manifatturiere le corone urbane delle grandi metropoli.
La seconda immagine è quella della disoccupazione e della popolazione attiva, e restituisce invece una
frattura consolidata che contrasta fortemente con la precedente articolazione territoriale: il Centro Nord
risulta in quasi piena occupazione, il Sud presenta tassi di attività e livelli di occupazione più bassi. Se
si sovrappongono le due carte, scompare l'accoppiata tradizionale tra zone rurali e disoccupazione al
Sud; e zone manifatturiere a pieno regime al Nord. Anzi, alcune zone tradizionalmente rurali (il Cuneese, il Trentino) mostrano elevatissimi livelli occupazionali e di reddito; ma pure al Sud si trovano zone
rurali che funzionano. Viceversa, forti problemi occupazionali affliggono alcune zone manifatturiere nel
Nord e, al contrario, alcune piccole zone manifatturiere d'eccellenza del Sud.
21
Servizi essenziali e obiettivi misurabili:: il QSN 2007-2013 individua quattro tipologie di servizi essenziali (istruzione, servizi di cura per l’infanzia e per gli anziani, gestione dei rifiuti urbani e servizio idrico integrato) e fissa un meccanismo premiale per incentivare le Amministrazioni regionali a raggiungere entro il 2013 target quantificati, stabiliti attraverso un processo decisionale condiviso.Il meccanismo prevede l’accantonamento di una percentuale delle risorse finanziarie destinate alla politica regionale unitaria per il settennio 2007-2013. Le risorse dedicate al meccanismo incentivante per gli obiettivi di servizio sono a valere sulle risorse del Fondo Aree Sottoutilizzate per il settennio 2007-2013.
Orientativamente l’ammontare di risorse dedicate al meccanismo di incentivazione per gli obiettivi di servizio sarà pari
a circa 3 miliardi di euro. Tali risorse saranno assegnate alle Amministrazioni solo al raggiungimento degli obiettivi di
servizio in proporzione alla dotazione totale assegnata a ciascuna Amministrazione. Al mancato raggiungimento di uno
o più target di servizio corrisponde la non attribuzione della corrispondente quota di risorse.
La terza immagine riguarda la distribuzione degli incrementi demografici. Gli abitanti continuano ad
uscire dalla città, nonostante che i nuovi impieghi vi facciano ritorno, come evidenzia la terza immagine. I costi degli alloggi espellono le nuove famiglie, mentre i sistemi produttivi in via di trasformazione
(fiere, grande distribuzione…) riconcentrano posti di lavori nelle cinture urbane. Una geografia contraddittoria che enfatizza i canonici problemi urbani: traffico, pendolarismo, costi immobiliari, pressione
fondiaria, gestione dei servizi...
La quarta immagine descrive la presenza dei laureati. Nuovamente, questi tendono a concentrarsi nelle
aree metropolitane, soprattutto nel Nord, come avviene in altri paesi. Se si considerano le città motori di
sviluppo, la sovrapposizione di questi prime quattro immagine indica una prima non banale direzione:
l’Italia rimane produttiva e mostra una geografia territoriale complessa dove attività manifatturiere, il
rurale di qualità e le attività di servizio specializzate si combinano in forme diverse e variegate.
E’ possibile aggiungere alcune osservazioni relative agli indicatori fin qui elaborati:
i)
il tasso di attività è più elevato nelle aree urbane del nord che in quelle del sud; in queste ultime, è più elevato del resto della regione ma non in modo estremamente significativo; in altre
parole, ci sono ampi spazi di recupero delle popolazione non attiva nelle metropoli meridionali;
ii)
i sistemi del lavoro settentrionali sono meno specializzati rispetto alla media regionale di
quelli del sud (specializzazione che risulta dalla differenza statisticamente significativa rispetto la composizione media regionale tra settore primario, secondario e terziario); l’indice
di differenziazione produttiva del centronord risulterebbe più basso di quello meridionale,
principalmente per una più omogenea diffusione dei servizi terziari; viceversa, le aree metropolitane del nord risultano in misura maggiore specializzate (sempre relativamente alla media
regionale) nelle attività produttive, manifatturiere o agricole, quelle del mezzogiorno sono
più frequentemente terziarie;
iii)
nelle aree urbane comunque si concentrano alcune classi di mansione professionale, eterogenee ma appunto tipicamente urbane, quali le attività di servizio, intermediazione, ricerca… ;
la corrispondenza è meno forte però di quel che si potrebbe attendere e richiede ulteriori verifiche;
iv)
la concentrazione della ricerca, in particolare di quella scientifica, è meno evidente da quando
il numero delle università è cresciuto, ma rispecchia comunque l’addensamento nelle sedi
storiche (Torino, Milano, Padova, Bologna, Pisa, Roma); al sud, solo due università a Napoli
e Bari superano la soglia dei 2500 laureati nelle materie scientifiche. Si ricorderà che invece
il tasso di laureati è relativamente omogeneo in tutta Italia.
10. La gerarchia urbana
Le ‘tre capitali’
Roma
Milano
Sll Varese, Como
Lecco, Seregno,
Busto, Vigevano,
Pavia e Lodi, Piacenza
Napoli
Sll Aversa, Caserta, Nola, Avellino,
Nocera Inferiore,
Torre Del Greco,
Salerno
Morfologia e sviluppo
Esistenza di fenomeni
conurbativi o di aggregazione metropolitana.
Complessivamente vi
gravita il 20% della
popolazione del paese
Connettività
Forme e criteri insediativi
Nelle tre capitali si concentra più del
60% del traffico aereo nazionale e internazionale
Più della metà dei flussi di passeggeri
è concentrato nei due grandi sistemi
aeroportuali: Roma (Fiumicino e
Ciampino) e Milano (Malpensa, Linate e Bergamo), con prevalenza di
traffico internazionale.
Napoli è un nodo di secondo livello:
l’indice di infrastrutturazione lo identifica come il nodo maggiormente ‘infrastrutturato’ del Sud-Italia. Registra
un traffico aereo superione ai
4.000.000 di passeggeri annui, ma
prevalentemente nazionale.
Le aree centrali e le periferie di prima cintura, con dinamiche demografiche recessive,
non registrano un aumento di abitazioni.
Tutte le corone metropolitane sono interessate sia dall’aumento di popolazione che di
nuova edilizia residenziale. Non si tratta
però di un processo uniforme e compatto di
crescita del patrimonio abitativo edilizio. Si
segnalano numerose aree che si discostano
dal modello virtuoso di crescita e che, pur
registrando un aumento di popolazione, mostrano incrementi molto modesti del nuovo
patrimonio abitativo.
Non si evincono comportamenti anomali di
comuni con un trend demografico negativo e
contemporaneamente un positivo incremento
edilizio.
I ‘quattro potenziali sistemi
metropolitani’
Piemonte
Sll Torino + 87
comuni
Veneto
Sll Venezia, Padova, Vicenza, Castelfranco, Treviso, Bassano Conegliano, Pordenone,
Udine
Sll Verona
Le ‘aree metropolitane’
Emilia
Sll Bologna, Modena,
Sassuolo,
Reggio
Emilia,
Parma, Ferrara
Toscana
Sll Fiernze Prato
Sll Lucca Pisa Livorno
Liguria
Sll Genova
Sicilia
Sll Palermo
Sll Catania
Puglia
Sll Bari Bisceglie
Barletta
Sll Taranto
Sistemi di 1 o 2 mln
di abitanti con assetti
e configurazioni territoriali molto diversi
tra loro (radiali, policentrici, lineari...) e
con caratteri territoriali specifici ed eterogenei (ex monoindustria, PMI...)
I quattro sistemi convogliano un numero di passeggeri pari al 17% del
flusso totale (nell’ordine Veneto,
Emilia, Piemonte, Toscana), con prevalente traffico internazionale: dopo
le tre capitali il movimento di passeggeri internazionali da e per l’Italia si
concentra in queste aree.
A Torino prevale il traffico nazionale
e l’area torinese non è ancora interamente servita dalla Banda Larga, in
particolare per le connessioni di tipo
aziendale.
Risulta anche un nodo di livello inferiore rispetto agli altri nella dotazione
di infrastrutture di trasporto (porti,
aeroporti, strade e ferrovie).
Anche la Toscana si colloca ad un livello di accessibilità leggermente inferiore rispetto a Veneto ed Emilia.
Il Veneto cresce, sia da un punto di vista demografico che edilizio, in modo compatto e
uniforme, più di ogni altro sistema metropolitano. Si escludono ovviamente i perimetri
delle aree ormai consolidate di Venezia e
Verona.
L’Emilia ha una percentuale maggiore di
aree interessate da una ‘stasi edilizia’ nonostante le dinamiche di crescita della popolazione.
Nell’area torinese e soprattutto in quella ligure prevalgono fenomeni di stabilità.
Importanti aree metropolitane (più di
400.000
abitanti):
aree industriali di
base e di piccola impresa e le città amministrative del sud
Anche se lontana dai principali mercati (registra il valore più basso nell’indicatore Espon sull’accessibilità),
la Sicilia, con le due aree metropolitane di Palermo e Catania, è paragonabile ai precedenti sistemi metropolitani per flusso di passeggeri annuo e
per dotazione infrastrutturale. Anche
nella diffusione della banda larga, sia
privata che aziendale ha una copertura superiore al 90%, paragonabile
alle più grandi aree metropolitane.
La Liguria e la Puglia si collocano
sugli stessi livelli nella mole di flussi,
ma la Liguria risulta più accessibile e
con una più robusta dotazione infrastrutturale
Programmi di sviluppo di aree metropolitane
e città intermedie sono spesso attivate dalla
coincidenza di grandi opere e investimenti
infrastrutturali che sollecitano programmi di
trasformazione urbana e immobiliare (non
esenti da rischi) che, pur se spesso limitati,
influenzano le traiettorie di mutamento.
La diffusa armatura
urbana italiana
La metà delle Sll > 150.000ab ha un
aeroporto di media dimensione a
meno di 50km di distanza, pari alla
distanza di Malpensa dal centro di
Milano, e quasi tutte hanno un aeroporto a meno di 70 km, fatta eccezione di Agrigento, Terni, Cosenza, Frosinone, Udine, e Taranto.
Sardegna
Sll Cagliari
Le altre ‘aree
urbane’
Cuneo La Spezia
Perugia Terni Frosinone
Pescara
Brindisi
Lecce
Foggia Cosenza
Reggio di Calabria
Siracusa Agrigento
Messina Sassari
....Inserire figure ...
Elenco figure da inserire:
1. Specializzazione produttiva dei comuni
2. Tasso di laureati in % sulla popolazione attiva
3. Variazione intercensuaria degli addetti
4. Tasso di attività per comune
5. Tasso di attività femminile per comune
6. Tasso di attività giovanile per comune
7. SLL Urbani per classi di popolazione
8. SLL Urbani per tasso di addetti alle mansioni superiori
9. SLL Urbani per classi di laureati
10. SLL Urbani per classi di laureati in materie scientifiche
11. SLL Urbani per traffico aeroportuale complessivo
12. SLL Urbani per traffico aeroportuale prevalente (naz. o internaz.)
Competitività e investimenti per le città
di Marco Cremaschi e Nataša Avlijaš
Nel corso degli ultimi due anni, la congiuntura politica europea ha manifestato esiti contraddittori,
con avanzamenti e arretramenti anche per quanto attiene il territorio e la città: da un lato, una serie
di elementi sembra indicare una ripresa più matura del discorso territoriale dopo l’accantonamento
della metà anni ’90; dall’altro, le tensioni politiche internazionali hanno accentuato la forbice tra gli
interessi degli stati membri e i tempi del processo di integrazione.
Le iniziative per le città sembrano essere uscite dalle fasi di sperimentazione e, con qualche incertezza, mostrano anche in Italia dei profili più solidi e maturi, anche se ancora manca una enunciazione convincente di un programma unitario per le città.
Un impegno nel complesso non indifferente, paradossalmente meno evidente nelle regioni Obiettivo
2 (dove si trovano i grandi centri industriali già in crisi), che inizia a stratificare –nel palinsesto delle
politiche comunitarie- una sorta di ‘implicita’ politica per le città.
Il discorso sulla competitività
Nelle politiche comunitarie, l’assillo della competitività e della efficienza urbana ha progressivamente occupato spazi crescenti. Pur tra loro eterogenei, questi temi hanno contribuito ad affermare
le componenti del common wisdom riconoscibile nel policy-making comunitario: la dimensione istituzionale della governance locale, le responsabilità del governo locale nella promozione dello sviluppo economico, la contaminazione tra azioni pubbliche sovrane e manifestazioni di parte. Seppur
spesso declinato in modo rituale, non è questo l’aspetto preoccupante. Casomai, un aspetto critico
delle convinzioni maggioritarie riguarda l’indifferenza alle scale territoriali, come se i problemi locali e quelli del territorio dell’Unione potessero essere affrontati in modo omogeneo alle diverse
scale. Questo aspetto è più critico, e solleva una quantità di problemi. Al di là delle intricate distinzioni, comunque implicate dai rispettivi discorsi, un elemento è chiaro: il ritorno di attenzione per le
città è importante proprio perché queste, come attori collettivi, operano attraverso scale e livelli di
decisione, in particolare evidenziando gli esiti locali dei processi di globalizzazione.
Una delle definizioni prevalenti di sviluppo regionale assegna importanza al rafforzamento delle capacità localizzate, pur nella consapevolezza che le opportunità dipendono da attori diversi (imprese
e località) che interagiscono in un sistema di regole dinamiche. La misura tradizionale della competitività di impresa –la produttività- è affiancata da altri fattori di contesto. Non solo la geografia non
scompare come vincolo, ma i luoghi acquistano sempre più importanza come dispositivi di individualizzazione, che è poi la vecchia idea di Geddes della pianificazione (coltivare l’‘unicità’ dei luoghi).
Affermare l’importanza dei fattori di contesto non risolve il contrasto tra le forze in campo -nello
spazio dei flussi e nello spazio dei luoghi- che restano incommensurabili. La fase di atterraggio dei
flussi nei luoghi è il momento cruciale in cui si capisce quale risorsa si combina in quale mix. Questo aspetto è squisitamente politico, nel senso stretto del tradurre significati da un contesto all'altro.
Se l'atterraggio dei flussi finanziari valorizza delle risorse, la mobilitazione è la capacità di attivare
la connessione tra risorse locali e lo spazio di opportunità che si attiva nelle relazioni di rete. Dentro
alle ibridazioni di flussi e luoghi quello che viene messo in valore è la capacità di giocare la partita.
La nozione di strategia urbana, nel senso proprio, nasce da questo, dallo spazio di gioco che va occupato.
Se sottolineiamo questi aspetti, si comprende meglio perché le città ritornino sulla scena. Perché
sono attori multiscalari. Si afferma oggi, con sostegno da parte dei numerosi attori del decentramen-
to, che le città sono attori essenziali nello sviluppo economico d’Europa. E’ una tesi interessante,
ma generica, perché gli effetti locali delle misure economiche sono difficilmente misurabili. Ma è
una tesi sorretta dalla convinzione che le città sono l'unico momento dell'assetto organizzativo del
capitalismo dei flussi dove si rivelino le poste del gioco, si capisca chi guadagna e chi perde, quale
“valore” venga sacrificato all'altro. Questo è il momento in cui la politica torna in campo, e spiega
perché da dieci anni i sindaci hanno –più di altri attori- la possibilità di giocare in prima persona la
partita che evidenzia i trade-off tra le scelte.
Le origini del concetto di competitività
La contaminazione delle retoriche della pianificazione territoriale con i concetti di competitività,
propri delle discipline economiche, risale agli anni 80.
In un momento in cui le città, soprattutto nord americane ed europee, attraversano crisi e trasformazioni, la competitività si profila come una delle caratteristiche necessarie per il rilancio. L’enorme
perdita di posti di lavoro nelle città tradizionalmente industriali porta ad una disperata ricerca di ricette per lo sviluppo economico. Creare impiego e non aumentare i redditi o fornire più servizi sembra essere, almeno in UK, la ricetta ricorrente. Pur applicando modelli simili, alcune città riuscirono
meglio di altre, e i fattori di successo vengono individuati nella leadership locale, ovvero in quella
che poi sarà nota come governance. I problemi tuttavia permangono, e l’analisi dei cambiamenti
sembra portare alla conclusione che non sia sufficiente dare incentivi alla localizzazione delle industrie, e si profila l’idea di una competizione fra città, e di competitività.
In quegli anni infatti, il lavoro di Michael Porter “The Competitive Advantage” apre la strada alla discussione sulla globalizzazione, ancora in fase iniziale, e sugli effetti da questa determinati sulle
aziende che competono sui mercati internazionali. Pochi anni dopo i concetti di competitività e vantaggio competitivo vengono applicati ai sistemi economici nazionali, in “The Competitive Advantage Of Nations”.
Sin dall’inizio, la questione di cosa esattamente renda una città o un’area territoriale competitiva appare poco chiara, di conseguenza difficilmente individuabili appaiono gli strumenti per perseguire
tale obiettivo. Si dà per scontato che alcune città abbiano perso il loro vantaggio competitivo, ma è
difficile stabilire delle variabili per dimostrarlo. Ancora più complesso è individuare i fattori del
processo inverso, della crescita di competitività per un territorio che prima non ne aveva.
Molti dei fattori che influenzano la competitività dipendono da tendenze economiche nazionali o
sovranazionali, sui quali una città ha scarso margine di influenza, ma ci sono comunque numerosi
aspetti nelle politiche che una città può controllare, e che comunque ne influenzano la competitività
(Kresl, 1995). Allo stesso tempo, la competitività dell’insieme dei sistemi territoriali di una nazione
ha una considerevole influenza sulla sua situazione economica.
La competitività su scala territoriale
Il dibattito, e la variazione della percezione dell’argomento nel tempo, ha origini più lontane nella
teoria economica, e si può riassumere nella seguente tabella22.
10. Autore-Argomentazioni principali
Autore
Argomentazione principale
Ohlin, 1933; North, 1955; Tie- Export base theory: la crescita di una regione è basata sullo sfruttamento delle risorse disponibili
bout, 1956; Richardson, 1969
e sulla crescita dell’esportazione
22
Oltre alla letteratura scientifica sono state considerate anche fonte istituzionali come per esempio: DFT (2004) Transport and City Competitiveness: Literature Review.
Schumpeter, 1939
Porter, 1990
Porter, 1990 e1996
Krugman, 1990
Putnam, 1993
Storper, 1995
Amin and Tomaney, 1995
Kresl, 1995
Ciampi, 1996
OECD, 1997
Begg, 1999
DG European Enterprise, 2000
Simmie, 2001
Schumpeter introduce l’idea di distruzione creativa, che porta con sé l’esplosione dell’urbanizzazione, con la realizzazione di infrastrutture di base, in particolare trasporti, ma anche l’espansione residenziale e commerciale, con tutte le opportunità connesse.
Suggerisce il “diamante” del vantaggio competitivo, con fattori di contesto, di richiesta, industrie
di indotto e di supporto, strategia struttura e competizione aziendale. Ma anche il caso e gli interventi governativi hanno un ruolo. Tutti questi fattori sono legati e interdipendenti fra loro. La novità dell’analisi di Porter sta nel considerare fattori non solo economici, ma anche sociali, storici
e politici, come rilevanti per la competitività.
Cluster theory: il fenomeno dei distretti appare in quegli anni talmente pervasivo da essere considerato un fattore centrale per le economie nazionali avanzate.
L’unica accezione sensata di competitività a livello nazionale è quella che fa riferimento alla produttività.
Approccio basato su studi di economia internazionale, sostiene che la competitività sia una caratteristica delle imprese, che non sia applicabile al territorio, indipendentemente dalla scala.
Si basa sul concetto di capitale sociale, analizzando le differenze nelle tradizioni civiche fra il
nord e il sud Italia: la prima ricca di reti associative e di cooperazione, la seconda dipendente da
assistenza esterna. - “Economics does not predict civics, but civics does predict economics, better
than economics itself.”
Competitività come abilità di attrarre e mantenere sul territorio aziende con crescente controllo
del mercato di riferimento per l’attività, mantenendo o aumentando allo stesso tempo gli standard
di vita di coloro che vi partecipano.
Dipende dall’abilità di sostenere il cambiamento non solo nei fattori ( tecnologia, risorse umane)
ma anche nella struttura economica e nel modo in cui le politiche la influenzano. Gli investimenti
in capitale fisico e umano sono importanti quanto il cambiamento organizzativo e istituzionale.
Competitività definita in relazione all’economia urbana, legata a trend e fattori di carattere nazionale o sovranazionale. Pur non potendo agire su questi, le città possono comunque influenzare
con le politiche altri fattori, non primari.
Non è un gioco a somma zero, e la crescita di competitività di una nazione non avviene necessariamente a scapito di un’altra. Al contrario, i miglioramenti di produttività ed efficienza possono
e devono essere integrati.
Per una nazione, la competitività riflette il grado in cui questa può, in condizioni di mercato libero ed equo, produrre beni e servizi a livello dei mercati internazionali, pur mantenendo ed espandendo nel lungo periodo il reddito della propria popolazione
“Competitiveness maze”, comprende fattori ad ampio spettro: standard di vita, livelli occupazionali, produttività, influenze esterne macroscopiche, caratteristiche dell’azienda, ambiente imprenditoriale, capacità di innovare e apprendere.
A livello economico, l’innovazione è il primo e più importante motore della competitività, crescita e occupazione a lungo termine.
Le città che cercano di promuovere la crescita devono perseguire due obiettivi: forza lavoro altamente e adeguatamente qualificata e la presenza di aziende rilevanti sia in campo internazionale
e nazionale che locale.
Le definizioni, e quindi l’applicabilità o meno del concetto di competitività su scala territoriale,
hanno portato nell’ultimo decennio alla contrapposizione fra le interpretazioni di Michael Porter e
Paul Krugman. Possono essere considerati come rappresentanti di due linee di pensiero divergenti.
Krugman enfatizza la nozione di competitività come caratteristica intrinseca delle aziende, non di
città regioni o nazioni.
Porter invece basa le sue affermazioni sull’osservazione di casi di studio, individuando nel national
environment alcuni dei fattori che determinano il posizionamento competitivo delle aziende sul
mercato. Porter tuttavia pone la sua attenzione sui settori industriali, e sui vantaggi dei cluster, ma
non sulla loro localizzazione sul territorio.
I fattori di produzione (factor conditions) riguardano la posizione di una nazione in termini di qualità della forza lavoro o infrastrutture, ad esempio, necessarie per competere in un dato settore industriale. Ma nelle sofisticate industrie che formano l’ossatura portante delle economie moderne, non
si tratta semplicemente di risorse presenti, ma di risorse che devono essere costruite e necessitano di
continui investimenti. Porter evidenzia anche come uno svantaggio relativo, in questi settori, possa
essere da stimolo per superare l’ostacolo, e trasformarsi in vantaggio, con la presenza di congiunture
favorevoli negli altri vertici del diamante come condizione necessaria a questa trasformazione. Le
condizioni della domanda si riferiscono al mercato interno per quel prodotto o servizio. In contrasto
con l’idea che il mercato globale renda meno importante questo fattore, Porter sostiene che non si
tratta solo di fette di mercato, ma che la qualità della domanda interna possa spingere le aziende ad
anticipare i cambiamenti e innovare il prodotto. La presenza o l’assenza di industrie di indotto e di
supporto, che siano anch’esse competitive a livello internazionale, è un altro elemento rilevante.
Ancora una volta, Porter non pone l’accento solo su fattori quantificabili in termini di risparmio o
facile accesso a macchinari e materie prime, ma concentra l’attenzione sulle dinamiche che generano innovazione. Per ultimo è considerato il contesto nazionale, che influisce fortemente su strategia,
struttura e competizione aziendale. Vengono qui inglobati tutti i fattori “culturali” legati al contesto
del singolo paese, e l’influenza della competizione interna.
L’interazione fra questi 4 gruppi di fattori, il diamante come sistema, è la vera idea portante della
teoria di Porter, e apre spazio al ruolo del governo come catalizzatore e promotore dei singoli vertici
del diamante.
Le posizioni di Krugman invece negano sostanzialmente la dimensione territoriale della competitività, e sono state frequentemente criticate (vedi ad esempio Camagni 2002) in quanto troppo radicate nelle teorie di scambio economico internazionale, e quindi non attente al passaggio alla scala nazionale o addirittura subnazionale. Le critiche investono anche il tema della specializzazione produttiva: Krugman sostiene che le nazioni debbano individuare il loro vantaggio comparativo e mantenerlo come punto fermo e, pur riscontrando nelle città una effettiva tendenza a specializzarsi, questa può rivelarsi un fattore negativo, se le condizioni esterne o interne del mercato portano poi ad un
declino di questo vantaggio
A queste si aggiunge, come terzo pilastro citato frequentemente, il lavoro di Michael Storper che definisce la competitività come abilità di attrarre e mantenere sul territorio aziende con crescente controllo del mercato di riferimento per l’attività, mantenendo o aumentando allo stesso tempo gli standard di vita di coloro che vi partecipano. Incentrando la definizione sulla produttività, e sull’alto e
crescente standard di vita, necessario a mantenere alta la produttività, le caratteristiche dei sistemi
urbani assumono molto più facilmente il connotato di fattori utili alla produttività e al miglioramento della qualità della vita. Le politiche di rilancio e sviluppo del territorio appaiono quindi più esplicitamente legate allo sviluppo e mantenimento della competitività.
Indubbiamente, un ristretto numero di città “mondiali”, sono in aperta competizione fra di loro per
attrarre investimenti e capitale (Sassen 1991). Il vantaggio che cercano di perseguire è un vantaggio
assoluto. Alcune di queste sono sempre state nodi nevralgici del sistema economico mondiale. Altre
lo stanno diventando: Barcellona ad esempio. Puntando su una serie di politiche ed interventi per il
rilancio, Barcellona sembra essersi guadagnata un posto nel club delle world cities, almeno in termini di immagine, mercato immobiliare e attrattività localizzativa. Ma per molte altre città europee, di
dimensioni paragonabili o nella maggior parte dei casi inferiori, la partita si gioca su altri campi. La
competitività, ed il vantaggio da perseguire, sono di tipo comparativo.
Il fuoco si sposta dalla competizione in cui le città sono primi attori, alla competitività che la città
offre come valore aggiunto al sistema economico presente sul territorio.
Kresl (1995) è stato uno dei primi, e pochi, autori a declinare la competitività in relazione all’economia urbana. Ha correttamente sottolineato come la scelta degli indicatori per descrivere la competitività urbana possono essere molto diversi da quelli a carattere nazionale. L’elenco comprende sia
fattori qualitativi che quantitativi, con una dicotomia di determinanti: economici da un lato (fattori
di produzione, infrastrutture e simili), e strategici dall’altro (politiche, struttura istituzionale).
Un’efficace schematizzazione è stata proposta da Begg nel 1999, e denominata “urban competitiveness maze”, ovvero il “dedalo” della competitività urbana, che cerca di collegare e stabilire il verso
dei flussi fra i vari fattori, non sempre immediatamente monetizzabili, individuando nello standard
di vita l’elemento equilibrante.
Tutti gli altri fattori possono, aumentando in maniera non integrata con gli altri, produrre un abbassamento degli standard di vita. Si pensi ad un aumento di produttività non accompagnato da un aumento dei salari, un aumento dei profitti aziendali che non vengono reinvestiti nel territorio, o un
aumento sconsiderato dell’inquinamento.
Nazioni, territori, aziende: competizione o competitività?
Ci sono due passaggi importanti, nella trasposizione delle teorie economiche ai sistemi urbani e territoriali. Il primo è che, dando per buono che i territori competano fra di loro, la competizione avviene in modi diversi rispetto alle aziende, e diversi sono gli effetti. In secondo luogo, le teorie sulla
competitività, con radici nello studio dell’economia internazionale, applicate alle nazioni, incontrano ulteriori cambiamenti di condizioni nel passaggio di scala a regioni o aree urbane.
Se la competizione fra aziende induce almeno due tipi di benefici per il sistema economico, innescando un processo di selezione e fornendo lo stimolo ad innovare e migliorare l’organizzazione per
le aziende esistenti, essa ha anche dei costi, e il tentativo di limitarla o di ridurne gli effetti sono
spesso oggetto di interventi dello stato. La competizione fra aziende può in alcuni casi produrre forme di cooperazione.
Le città, o le regioni, non sono però aziende, e la competizione e la ricerca della competitività seguono percorsi diversi (Turok 2004). Il mercato in cui ciò avviene è fortemente regolamentato ed influenzato, e il ricambio fra i competitori è poco frequente. Le città inoltre, non chiudono, come le
aziende, però affrontano comunque fasi di declino e stagnazione, e i processi di selezione, pur non
avendo effetto immediato, possono alterare le strutture spaziali nel lungo periodo.
Gli incentivi a perseguire gli obiettivi della competitività, e i costi non solo economici ma anche sociali e politici che tali azioni possono portare, sono complessi da valutare. La crescita comporta infatti maggiori oneri per i servizi da fornire ai cittadini, quasi sempre incremento del traffico e inquinamento. Pur dichiarando che la competitività non è, o non dovrebbe essere un gioco a somma zero,
costi sociali e crescita delle diseguaglianze sociali possono essere tra gli effetti collaterali dei processi di abbassamento dei costi di produzione o di aumento della produttività che le aziende, o le
città, competitive perseguono. La competizione fra città, o comunque il processo che porta al raggiungimento dell’obiettivo competitività, porta ovviamente anche dei benefici. Le stesse caratteristiche richieste per attrarre investimenti, quali trasparenza e velocità nel decision making, o la realizzazione di infrastrutture, hanno infatti ripercussioni positive sulla qualità della vita dei cittadini.
Retorica e senso comune
Alcuni dei trade-offs e dei pericoli del perseguire la competitività per i territori hanno portato sin
dall’inizio degli anno 90 al cercare, almeno nella retorica accademica e istituzionale, di accompagnare la promozione della competitività con quella della coesione, della governance e in alcuni casi
della sostenibilità. Il risultato, nel mondo accademico e nei discorsi politici, può essere riassunto
sotto il termine di New Conventional Wisdom (la nuova saggezza comune). La NCW, una sorta di
ottimistico nuovo paradigma nello studio dei cambiamenti delle città, potrebbe infatti avere radici
diverse dalla semplice rinascita di una coscienza urbana, o dal semplice riconoscimento dell’importanza delle città e della loro svolta economica. Il reiterato riferimento a competitività (economica),
coesione (sociale) e governance (attiva) e in alcuni casi sostenibilità (ambientale), fanno trasparire
un interesse verso complessi cambiamenti sociali economici e istituzionali che il nuovo assetto economico, la globalizzazione, richiede (Gordon and Buck, 2004). Nessuno di questi temi è strettamente urbano, ma il benessere delle città è riconosciuto come necessario al raggiungimento di competitività, coesione e governance per la società, mentre questi stessi fattori sono vitali per la sopravvivenza dei sistemi urbani. Questo intreccio di valori va però letto come interdipendente, uno a sostegno
dell’altro, e non come insieme di fattori in conflitto. Pur rimanendo all’interno di un approccio funzionalista, la NCW dà maggior peso alla componente sociale nell’economia dei sistemi urbani e territoriali.
La competitività di un territorio
Nel contesto della competizione globale tra mercati, la competitività dei territori viene presentata
come un elemento di centrale importanza. In particolare, il territorio ha l’opportunità di attrarre nuovi investimenti ma, al tempo stesso, rischia di perdere attività economiche, che vengono spostate in
altre aree geografiche caratterizzate da più idonee condizioni economiche. Un singolo territorio si
troverebbe, quindi, a competere con altri per il mantenimento, l’acquisizione e lo sviluppo delle attività produttive: per vincere questa competizione, dovrà assumere una configurazione che lo renda
attraente.
La ricerca in campo economico ha valutato attentamente il concetto di “competitività” di un’area
geografica, elaborando diverse definizioni significative, ma anche profonde divergenze. L’OCSE
nel 1992 ha definito la competitività di un Paese come 'la capacità “di produrre beni e servizi che
superano il test della competizione internazionale e insieme mantengono ed espandono la ricchezza
interna' (OCSE, 1992).
Sempre l’OCSE nel 1995 in un successivo documento ha indicato la politica competitiva di un paese come “il sostegno alla abilità delle imprese, industrie, regioni nazionali o sovranazionali di generare, pur rimanendo esposte alla competitività internazionale livelli relativamente elevati di reddito
e impiego su base sostenibile” (OCSE, 1995)..
Queste definizioni insistono sul fatto che la competitività di un Paese dipenda dalla sua posizione
nel commercio internazionale, e dal miglioramento del benessere dei cittadini sul piano dell’occupazione e della ricchezza economica.
Questa idea trova però critiche serrate nei lavori di alcuni importanti economisti, i quali ritengono
addirittura che il concetto di competitività riferito ad un intero Paese non possa avere alcun significato concreto. In merito, in un lavoro del 1994, Krugman argomenta con forza le ragioni per cui “la
competitività sia un termine privo di significato qualora venga applicato alle economie nazionali”;
egli critica inoltre l’idea secondo la quale si possa misurare la competitività di un Paese in termini di
prodotto interno lordo (Krugman 1994).
Un’altra considerazione critica verso il generico concetto di competitività di un Paese è data dall’osservazione secondo la quale un territorio non può essere competitivo in ogni settore, laddove è fondamentale l’importanza delle politiche di filiera (Porter 1990).
Sul piano macroeconomico, la competitività di un Paese è generalmente legata alla produttività del
lavoro, al livello di occupazione e al rendimento reale del capitale investito, oltre alla posizione nel
commercio internazionale. Sono questi gli indicatori assunti negli anni ottanta dalla Commissione
presidenziale degli Stati Uniti sulla competitività industriale (Thompson 1989).
Alcuni anni più tardi il primo “Competitiveness Advisory Group”, nominato dalla Commissione europea, ha elaborato un concetto di competitività dei Paesi basato sulle condizioni di produttività e
redditività dei fattori della produzione.
La “capacità competitiva” di un sistema territoriale
Il significato che il concetto di “competitività” assume nel caso di un territorio deve essere approfondito con attenzione, evitando la semplice traslazione del contenuto che esso ha quando è riferito
a considerazioni esclusivamente di natura economica.
La competitività di un’area geografica può essere descritta solo parzialmente da parametri oggettivi,
poiché i diversi attori che ne fanno parte possono manifestare al riguardo una percezione diversa.
Criteri molto generali, come ad esempio il Pil o il valore aggiunto, riflettono infatti aspetti della
competitività di un territorio, che non hanno lo stesso rilievo dal punto di vista di tutti i soggetti.
Si può a ragione affermare che le condizioni descrittive della competitività di un’area devono essere
riferite ad un modello di sviluppo: esse variano sensibilmente in relazione alla composizione degli
attori che costituiscono il sistema locale ed in funzione delle aspettative di ciascuno. Del resto la posizione competitiva di un territorio può essere comparata, in maniera significativa, solo con quella
di ambiti sufficientemente simili dal punto di vista della struttura istituzionale e sociale e, più in generale, per il grado di evoluzione complessivo. Territori fortemente eterogenei hanno spesso una
sensibilità troppo difforme e si pongono alla base dei differenziali di competitività che possono
emergere dall’analisi di parametri oggettivi e di tipo generale.
Per quanto asserito si può concludere che la competitività di un territorio è data da un insieme variegato di condizioni e di fattori, che assumono spessore e significato differente in funzione delle specificità degli attori che hanno maggiore rilievo nel territorio, e delle idee-forza che ne definiscono
l’evoluzione. In ultima analisi, esistono modi diversi di essere competitivi e comunque modi diversi
per creare le condizioni di competitività. Una nozione generale di competitività può, dunque, essere
determinata solo con riferimento alle finalità di fondo che caratterizzano il sistema territoriale.
Tale finalità può essere individuata nel mantenimento e nel rafforzamento delle condizioni necessarie affinché il sistema territoriale evolva in maniera autonoma.
In questa prospettiva, la competitività di un’area la si descrive sulla base della qualità delle condizioni che essa offre ai fattori che incidono positivamente sul suo sviluppo fisiologico. Si introduce
la nozione di “capacità competitiva” intesa come capacità del sistema territoriale di creare o acquisire nel proprio ambito i fattori materiali e immateriali rilevanti per dare luogo ad un processo di sviluppo. Inoltre si devono garantire a tali fattori le condizioni ambientali per il loro sviluppo e l’esplicitazione del loro potenziale positivo sul territorio stesso.
La capacità competitiva di un sistema territoriale è per un verso l’attitudine ad attrarre risorse, per
un altro verso l’abilità di metabolizzazione di queste risorse a vantaggio degli stessi attori che, facendo parte del territorio medesimo, attraverso la loro partecipazione attiva determinano l’evoluzione del sistema stesso.
In tale maniera si attivano dei processi endogeni, mediante i quali le risorse del territorio esprimono
concretamente il loro potenziale a beneficio degli attori localizzati nel proprio ambito.
Può evincersi quindi che la crescita, intesa come aumento di investimenti, di capacità produttiva, di
consumi, non può rappresentare l’unico criterio di fondo alla base dell’evoluzione di un’area locale.
In determinate condizioni, i fenomeni espansivi possono riflettersi, magari con un certo ritardo temporale, in un peggioramento del potenziale attrattivo, che il territorio esercita verso determinate risorse, e possono rallentare i processi di metabolizzazione di tali risorse. Anche le strategie di incremento delle componenti materiali ed economiche di un’area devono quindi essere guidate dall’obiettivo di arricchimento delle risorse competitive e di rafforzamento della capacità di rinnovarle.
Il raggiungimento di un elevato grado di competitività da parte di un ambito territoriale si riflette in
senso negativo sulla competitività potenziale di altri ambiti territoriali solo nel caso in cui implichi
l’attrazione di risorse eccessive, determinando di conseguenza la non disponibilità di tali risorse per
altri territori. Pertanto, l’unica forma di concorrenza diretta tra territori riguarda l’acquisizione delle
risorse funzionali alle necessità. In tale maniera il rafforzamento della capacità competitiva di un
ambito territoriale non avrebbe un impatto negativo sul potenziale competitivo di altre aree geografiche: anzi, nell’ipotesi di ambiti geografici legati da significative connessioni economiche, sociali o
infrastrutturali, sarebbe possibile il manifestarsi di esternalità positive. Il miglioramento della competitività di una determinata area può rappresentare un volano per il progresso di altri contesti.
In definitiva, la competizione tra territori non è necessariamente a somma zero (Ciampi 1996). Il rafforzamento di un territorio non implica direttamente un indebolimento di altri: in via indiretta, può
attivare forze di segno negativo così come di segno positivo. Ciò non impedisce che sia possibile
delineare una gerarchia tra diversi ambiti territoriali rispetto ad indicatori che ne misurano le rispettive capacità competitive.
I fattori della competitività territoriale
I fattori da cui deriva la capacità competitiva di un territorio sono le risorse, i fattori d’ambito e gli
attori che caratterizzano il territorio medesimo come un sistema dinamico.
Una generica elencazione comprende fattori di tipo materiale, quali l’assetto morfologico del territorio, le infrastrutture per le attività economiche e quelle sociali, le fonti naturali dei fattori della produzione, gli organi di governo, le istituzioni pubbliche e l’apparato amministrativo, il tessuto produttivo ed il sistema finanziario, i centri di generazione della conoscenza, il capitale umano, la dimensione e la qualità del mercato, i fattori tangibili di qualità della vita. Per le componenti di tipo
immateriale si può fare accenno alle conoscenze radicate nel territorio, i cosiddetti saperi taciti, al livello di capitale sociale, alla reputazione percepita all’esterno, al grado di apertura all’innovazione,
al livello di benessere e coesione sociale, intesi come fattori intangibili di qualità della vita.
In linea generale si osserva che i principali elementi da cui dipende la capacità competitiva di un’area sono normalmente presenti in tutti i contesti geografici. Il differenziale di capacità competitiva
di un’area dipende, allora, dal diverso livello quantitativo di sviluppo che essi hanno in tale area e
dalle specificità che essi assumono relativamente a efficienza, capacità innovativa e qualità della localizzazione. Alcuni dei fattori del patrimonio di un territorio e, più frequentemente quelli di tipo
intangibile, possono essere fortemente radicati al proprio interno e non facilmente replicabili altrove.
I fattori materiali e immateriali di un territorio hanno ciascuno un proprio ciclo di vita. Pertanto l’intensità e la misura del loro impatto sulla capacità competitiva del territorio stesso evolve nel tempo.
È quindi rilevante valutare non solo la composizione del patrimonio di risorse che il territorio ha a
disposizione in un certo istante, ma anche la dinamica tendenziale di tale patrimonio, in relazione
all’andamento che la stessa tipologia di risorse ha in altri ambiti geografici.
Le considerazioni svolte sul concetto e sul rango di competitività di un territorio possono essere ricondotte ad alcuni fondamentali elementi di sintesi.
Un territorio compete per l’acquisizione e il controllo di risorse: in particolare esso compete per
l’acquisizione e il controllo di quelle risorse che offrono agli attori localizzati al proprio interno
condizioni di vantaggio competitivo rispetto ai propri concorrenti.
Gli attori locali sono sia i soggetti che operano nell’ambito del territorio sia coloro i quali si confrontano con l’esterno. La capacità competitiva di un sistema territoriale si manifesta nella capacità
di favorire la competitività degli attori che agiscono nel territorio medesimo. Ciò avviene attraverso
processi di network, con lo sviluppo e la valorizzazione delle risorse endogene disponibili e con
l’attrazione di risorse esogene.
Le potenzialità di un territorio derivano quindi da due tipologie di asset. Si evidenziano al riguardo
quelli naturali, costituiti da fattori tangibili o intangibili; e dall’altro quelli creati dalle relazioni tra
soggetti operanti nel territorio. Mentre i primi - anche quelli di natura immateriale - attraversano un
proprio ciclo di vita e sono destinati a decadere con l’evolvere delle condizioni della tecnologia e
del mercato; i secondi, essendo un prodotto di relazioni, non decadono necessariamente, ma progrediscono secondo le modalità dello sviluppo del network costituito. In questo senso, costituiscono il
fattore cruciale della competitività. Gli asset del secondo gruppo sono dunque difficilmente replicabili in luoghi diversi da quello in cui sono prodotti, poiché derivano dalle relazioni tra i soggetti
operanti in un contesto che ha specificità istituzionali, organizzative, economiche e culturali. L’enfasi posta su questo gruppo determina una relativa irreversibilità delle decisioni, che quindi devono
essere considerate come scelte strutturali.
La strategia competitiva di un territorio è finalizzata al perseguimento di un determinato modello di
sviluppo. Essa è, in questa prospettiva, inerente al rafforzamento della capacità competitiva, intesa
come arricchimento del patrimonio di risorse materiali e immateriali di cui possono beneficiare i
soggetti localizzati nell’ambito del territorio. La strategia competitiva di un territorio è, dunque, focalizzata all’acquisizione delle risorse utili per rendere il territorio in questione la sede migliore per
lo svolgimento di quelle attività economiche più funzionali per lo sviluppo.
È importante precisare che gli elementi che determinano la convenienza di un’area geografica non
vanno considerati per la loro connotazione oggettiva, ma mediati dalla percezione che si ha delle
loro caratteristiche. Il rilievo di tali elementi dipende, quindi, dal valore soggettivo che il potenziale
investitore attribuisce loro sulla base delle informazioni e delle eventuali esperienze di cui esso dispone in via diretta e indiretta. Non sono rari i casi di ambiti geografici che sono sottostimati a causa di una percezione, da parte degli operatori economici esterni, inferiore alla loro reale condizione.
Da quanto asserito emergono delle chiare indicazioni circa la necessità di previsione e di scenario.
Si evidenzia l’esigenza di fare comprendere il proprio territorio dall’esterno attraverso un forte richiamo alle diverse componenti e all’importanza che può avere la diversità di offerta territoriale.
Ciò può avvenire per mezzo dell’attivazione di adeguate misure di comunicazione e di relazioni istituzionali che incrementino la credibilità territoriale. La percezione dell’attrattività di un’area è anche determinata dalla sua reputazione riferita sia alle condizioni generali sia più specificatamente
agli aspetti rilevanti per lo svolgimento di determinate attività economiche. La reputazione di un’area influenza fortemente la percezione che il decisore ha delle sue condizioni, moltiplicando il rilievo che esse assumono nel processo decisionale. A riguardo, è evidente come sia necessario agire
sull’offerta territoriale, non considerandola come insieme di fattori, bensì come insieme di relazioni.
Il grado di attrattività di un’area geografica è funzionale alla qualità delle relazioni che si possono
attivare con gli attori che costituiscono il sistema territoriale medesimo.
Modelli di politiche
Innovazione e competitività sono nozioni legate in modo problematico alle politiche territoriali e urbane. Il loro obiettivo, nel quadro dei fondi strutturali, è promuovere lo sviluppo del territorio, rispettando i principi di sostenibilità e coesione. La relazione tra innovazione, competitività e territori
solleva però qualche problema.
E’ sempre utile precisare che la nozione di innovazione è centrale nelle politiche sociali e nelle politiche territoriali, ma terribilmente complicata da applicare e rintracciare nei percorsi attuativi, in
modo anche più complesso e dissipativo di come si manifesta nei processi tecnologici. Soprattutto,
se si registra un certo consenso sulla consistenza e robustezza delle relazioni tra innovazioni tecnologiche, urbane e sociali, la questione appare complicata dal punto di vista delle politiche. ‘Produrre’ innovazione con politiche pubbliche non è facile, e non è facile in un contesto sottoposto a tensioni e divaricazioni. Le descrizioni delle innovazioni introdotte nei sistemi dei distretti, per esempio, hanno evidenziato tutte le difficoltà di fronte alla congiuntura. Inoltre, i processi di internazionalizzazione prospettano dei percorsi particolari proprio per alcune delle situazioni più interessanti
(un potenziale effetto di propagazione in altri paesi, non scontato peraltro e forse non sufficiente).
A fronte di tutto ciò non è inutile rilevare che le politiche possibili sono sovente “molto differenziate” (Cicciotti 1993) considerazione che significa, ad un esame accurato, disomogenee (e relativamente scontate) da un lato; e fortemente dipendenti dal contesto dall’altro.
La questione della competitività, al contrario, ha ottenuto una forte attenzione anche da parte di
scienziati economici, che non solo ne riconoscono le componenti territoriali, ma sostengono la centralità del territorio nei fattori di localizzazione. In questo caso, non si tratta di valori territoriali indipendenti e sostituibili l’uno dall’altro (qualità ambientale e accessibilità, per esempio), e quindi
non consentono comparazioni marginali tra territori; bensì si tratta di valori sostanzialmente integrati, che caratterizzano in modo strutturale la qualità di un territorio, rendendolo attraente o meno.
Nuovamente, l’esito è un certo sfuocamento ai fini operativi, almeno da due punti di vista: a) difficile selezionare delle priorità nei fattori localizzativi, laddove ‘tutto’ sarebbe necessario (e viceversa
tutto è deficitario) nel confronto con altre aree; affermazione rilevante per un paese che riposa su
un’elevata dotazione di capitale sociale e culturale, e in parte infrastrutturale, ereditato dal passato,
in via di probabilmente esaurimento (termine vago che indica la somma di processi diversi, che spaziano dal sovra- sfruttamento, all’obsolescenza, alla evanescenza); b) inoltre, il volano della competizione è lento da avviare, la aree territoriali competitive sono relativamente stabili, come pure sono
relativamente stabili le aree con deficit pregressi, mentre le dinamiche economiche possono oscillare in modo significativo nel medio periodo (non a caso, episodi significativi di sviluppo territoriale
sono occorsi nei distretti attivando quote di capitale sociale e fisso ereditate da epoche non prossime). E quindi, la definizione astratta di competitività territoriale non è sempre un criterio sufficiente
a orientare le politiche di sviluppo in un ciclo di programmazione comunitario relativamente breve.
Anche quando si tratta della nuova programmazione dei fondi strutturali, non sempre le connessioni
sono esplicite. Concludendo, in uno studio redatto per l’Espon (Osservatorio territoriale europeo)
sugli impatti territoriali dei fondi strutturali nelle aree urbane, è stato recentemente affermato: “in
poche occasioni i Fondi strutturali hanno incluso una dimensione urbana esplicita [con l’eccezione
di Urban], e i casi studio mostrano un’immagine molto ambivalente su quanto i problemi urbani
sono stati indirizzati”. Il rapporto continua affermando che i riflessi urbani e territoriali sono dovuti
alla agglomerazione in aree urbane delle attività economiche oggetto degli interventi di sostegno,
mentre la città come tale non è stata tematizzata, i cambiamenti fisici eventuali sono stati solo una
“conseguenza delle azioni economiche” intraprese. Solo Urban, ripetiamo nuovamente, ha proposto
un approccio integrato tra un insieme di misure. Le esperienze del decennio trascorso sono esemplari dal punto di vista sia delle difficoltà che dei risultati ottenuti. Forse non è inutile richiamare a questo riguardo che sia gli Urban che i Pit hanno molto da insegnare ai futuri indirizzi delle regioni. In
qualche misura, la dimensione territoriale dei progetti di sviluppo è l’unica che garantisce di ancorare un discorso pertinente sulla competizione al telaio delle scelte infrastrutturali e programmatiche
delle regioni, dentro e fuori la programmazione comunitaria. La congiunzione di questi elementi è la
condizione per l’efficacia di alcune delle scelte più importanti di indirizzo dello sviluppo regionale,
dentro alle quali possono trovare posto le misura di sostegno a situazioni più specifiche.
In secondo, studi e ricerche di ambito comunitario hanno fornito una mole crescente di argomenti
sulle dimensioni territoriali dello sviluppo europeo e sul ruolo specifico delle città23, sia pur con discontinuità nel corso dell’ultimo decennio; le ragioni di questa ripresa sono numerose e complesse
(
Cremaschi 2005), ma in generale dipendono dalla convinzione che alcuni esiti politicamente cruciali
- crescita, innovatività, e consenso- siano prodotti prevalentemente in ambito urbano 24; inoltre, non
si sostiene solo l’importanza delle città, ma si sostiene che la situazione locale delle città deve essere oggetto della politica nazionale; e viceversa che le iniziative urbane possono esercitare effetti
moltiplicativi apprezzabili (sia pur nel lungo periodo). Questo è per esempio il filo conduttore del
rapporto sulla competitività delle città, svolto per il ministro inglese e gli enti locali (Parkinson
2006) che si è concentrato soprattutto su 8 core cities (aree metropolitane intermedie come Birmingham, Leeds, Liverpool e altre, tutte in condizioni non entusiasmanti)25; ancora più specificatamente, le ricerche hanno da tempo evidenziato che le città sono diversamente specializzate e sono uno
dei punti di giunzione tra settori produttivi e territori. Oggi questo aspetto trova traduzione in politiche. Il lavoro sui “poli di competenza” in Germania (Kompetenz 2004) in parte recepito nelle linee guide nazionali, mette in rete città e territori a diversa specializzazione. L’accento è posto sulla cooperazione metropolitana, che significa non solo forme soft di aggregazione sovracomunale ma anche
un’idea di organizzazione delle competitività differenziali.
Analogamente, la Datar in un recente documento sulla “Potenza industriale della Francia”(Datar
2004) propone la creazione di poli di competitività territoriali intorno alle agglomerazioni produtti23
Solo per citarne alcuni, numerosi progetti dentro al Pic Interreg; le reti di ricerca europea quali quella sulla Performances economiques des regions Européennes, Gemaca, 2002; la stessa Oecd che nel 2005 organizza un convegno a
Maiorca.
24
Chi si fosse mosso per le spiagge italiane nell’estate 2005 non avrebbe potuto mancare di notare il notevole eco sulla
stampa locale della ricerca di Florida e Tinacci sulla creatività urbana in Europa.
25
Tema comune è l’elemento spesso ribadito “cities matter”, quasi lo stesso titolo di un libro di Swanstrom negli USA
(Place matters) e analogo all’argomento di un vasta rassegna di casi studi di politiche urbane transcontintentali (Savitch
e Kantor 2002; che sostengono che le politiche economiche vengono logicamente e operativamente prima o prioritariamente, poi quelle sociali, ma non sono distinguibili come effetti). Cerca di sostenere che c’è una dimensione volontaria
nelle politiche che può incidere sul posizionamento relativo, sull’uso efficace degli assets e che questo dipende dalla
cooperazione tra politiche nazionali e locali, l’evoluzione delle istituzioni, il tempo necessariamente lungo per l’implementazione delle strategie
ve, le reti tecnologiche, la ricerca pubblica privata e le università; in particolare, una riflessione sulle
occupazioni metropolitane superiori riconosce a queste il 32% della crescita degli impieghi dopo il
1990, e la crescente integrazione metropolitana delle città26.
Infine, l’ultimo argomento da riportare riguarda la convinzione che la città consolidi l’area circostante e la “agganci” alle dinamiche europee. A seguito del Ciadt del 2002, la Datar lancia nuovamente “una strategia nazionale di rafforzamento dell’offerta metropolitana della Francia in Europa”:
il rapporto Blanc al Parlamento 2004 insiste sulla ricerca, la rifondazione delle università e il rafforzamento delle azioni delle regioni per l’innovazione; uno studio comparativo della Datar del 2003
riprende la classificazione anticipatrice di Brunet del 1989 sulla competitività delle città europee,
constata nuovamente la gerarchia relativa stabile delle città, e ragiona sugli effetti di rayonnement e
di integrazione europea.
L’esempio delle Core Cities
Le città continuano, da oltre vent’anni, ad occupare i primi posti nell’agenda politica in Gran Bretagna. Dopo anni di declino economico e demografico, sono in atto processi di “urban reinessance”,
frutto delle politiche nazionali, ma anche del contributo dei programmi europei. Tuttavia, il peso
economico delle “Core Cities”, le grandi città industriali, non è proporzionato alla loro dimensione
demografica.
In uno studio commissionato e sostenuto dal Core Cities Working Group, composto dalle amministrazioni delle otto città, dalle agenzie di sviluppo Regionali RDA e da diversi dipartimenti del governo, si è cercato di individuare i fattori della competitività, di stabilire il rango di competitività
delle città inglesi rispetto alle omologhe europee, e di delineare indirizzi e politiche per meglio perseguire gli obiettivi di crescita e competitività.
Lo studio pone subito in evidenza l’enorme varietà del panorama urbano in Europa. Un mix di fattori geografici, culturali, sociali e demografici, rende singolare la sfida che ogni città affronta. Cionostante, alcuni fattori comuni possono essere evidenziati: la globalizzazione economica, la ristrutturazione dei sistemi economici, cambiamenti nei sistemi di welfare e crescenti bisogni di nuovi gruppi
sociali vulnerabili, e non ultima, la competizione fra città, regioni e nazioni oltre che aziende. Tuttavia, le città mantengono degli asset, e quindi dei potenziali sociali, economici e culturali non indifferenti.
Ponendosi la semplice domanda “le città sono ancora importanti?” i colleghi inglesi rispondono che
sì, nonostante le numerose dimensioni della globalizzazione, la frammentazione sociale economica,
istituzionale, e i diffusi processi di metropolitanizzazione, le città sono importanti.
Lo studio inglese si basa sulla definizione di competitività data da Storper, intesa come abilità di attrarre e mantenere sul territorio aziende con crescente controllo del mercato di riferimento per l’attività, mantenendo o aumentando allo stesso tempo gli standard di vita di coloro che vi partecipano.
Pongono insomma l’accento sul fatto che la competitività non riguarda solo i redditi per le aziende
che operano sul territorio, ma anche la quota di questi redditi e relativo benessere che rimane ai residenti. In più, riprendono la definizione data da Ciampi, secondo la quale la competitività, cosa diversa da competizione, non è un gioco a somma zero. In più, evidenziano la confusione, frequente,
fra “urban reinessance” e “urban competitiveness”. Pur essendo due concetti correlati, l’una non è
sufficiente a garantire l’altra. In particolare, il rinnovamento urbano da solo, non è in grado di garantire la competitività. Barcellona è spesso citata, ed è facilmente entrata nell’immaginario collettivo, come città capace di trasformarsi e diventare competitiva. Tuttavia, i dati economici non supportano questa affermazione. Il Ministero del Tesoro Inglese ha individuato cinque fattori della compe26
Il 45% degli impieghi superiori si trova a Parigi, il 39% nelle altre 77 aree metropolitane superiori a 100 mila ab. Gli
impieghi superiori aumentano anche in controtendenza, dove le regioni nel complesso perdono impieghi (Île de France)
e in regioni periferiche (+20% in Corsica, Sud, Nord-Est): ibidem.
titività basandosi sulla letteratura corrente e sulle risposte di numerosi esperti europei a un questionario (27).
Se alcuni di questi fattori appaiono banali, e sono generalmente presenti come obiettivi nelle politiche e azioni per le città italiane, altri sono sistematicamente trascurati. La diversificazione economica, ad esempio, è in parte in contrasto con la tradizione del distretto settoriale. E’ tuttavia un requisito fondamentale per rispondere rapidamente alle variazioni del mercato, per una rapida riconversione economica.
E’ stata data un’importanza media alla coesione sociale a i fattori ad essa collegati. Altri fattori locali sono stati classificati come meno critici, il che non vuol dire non importanti, e tra questi ci sono
ad esempio le infrastrutture espositive (riconducibili al marketing territoriale), le politiche di agevolazione fiscale, entrambe cavalli di battaglia delle politiche italiane. Sottolineano invece come l’indipendenza fiscale possa stimolare la capacità di sperimentare ed essere proattivi. L’eccezione olandese, dove oltre il 90% degli introiti delle amministrazioni comunali proviene dal governo centrale,
in realtà conferma la regola, perchè gli autori sostengono che il punto cruciale non sia la provenienza dei fondi, ma il controllo sulle modalità di spesa ad essi associato. I comuni olandesi godono così
allo stesso tempo dei benefici di una ridistribuzione sul territorio dei fondi e di un’autonomia di spesa. Anche il fattore temporale assume notevole importanza. La consapevolezza che le trasformazioni strutturali e la crescita della competitività richiedono tempo sembra mancare nell’uso dei fondi
europei in Italia, dove gli interventi attuati dagli enti locali sono in genere progetti della durata massima di 24 mesi. Diversamente, gli inglesi sottolineano, in uno studio sulle politiche regionali, come
proprio la stabilità temporale dei fondi europei abbia invece permesso loro una concatenazione degli
interventi e quindi una continuità a medio, se non a lungo termine.
Nello studio comparativo con le altre città europee viene poi evidenziata l’importanza delle correlazioni fra città, e sopratutto l’importanza del legame fra città e regione circostante. L’evidenza, affermano, è che le città più competitive si trovano in regioni competitive; viceversa, non una singola regione competitiva aveva al suo interno una città in grandi difficoltà, poco competitiva. Allo stesso
tempo evidenziano però come la dimensione regionale possa essere troppo vasta per affrontare adeguatamente i problemi della competitività. Le esperienze europee di coinvolgimento dei piccoli comuni di area submetropolitana (Lione, Barcellona, Helsinki; Monaco di Baviera) hanno portato, almeno fino ad ora, risultati modesti. Il messaggio, esplicito, è che è inutile e oneroso cercare istituzioni formali per favorire la cooperazione, mentre è di vitale importanza il sostegno ad alleanze strategiche informali fra partner disponibili.
Lo studio individua quindi come cruciali i cinque fattori che hanno ricevuto i punteggi più alti nel
sondaggio, aggiungendo in più un indicatore “debole”: la qualità della vita.
• Diversificazione economica: rafforzare la base economica esistente, stimolando però la diversificazione e l’emergere di nuovi settori (the Munich mix).
• Forza lavoro qualificata: non solo presenza, ma “commercializzazione della conoscenza intellettuale”. La chiave dell’innovazione è proprio nelle relazioni fra domanda e richiesta di lavoro
qualificato, ovvero nel trasferimento di conoscenza fra università, istituti di ricerca, settore privato e instituzioni locali. Anche qui, ad alcuni casi di successo, si accompagnano numerosi fallimenti dei “parchi tecnologici”, e il fattore critico è individuato nella relazione con il tessuto imprenditoriale locale.
27
Gli elementi da giudicare erano i seguenti: Connessioni (IT e trasporti) strategiche verso i mercati, buona connettività
interna; “Centro” della città di rilievo Europeo; Infrastrutture per eventi di livello nazionale e internazionale; Buona reputazione per ricerca, sviluppo e innovazione; Buona reputazione per governance e servizi efficienti; Infrastrutture e servizi culturali avanzati; Buona scelta di aree residenziali e tipologie abitativa; Qualità ambientale e responsabilità verso
l’ambiente; Società diversificata e inclusiva; Forza lavoro altamente qualificata; Visione, leadership e processi decisionali strategici; Innovazione nelle aziende e nel comportamento organizzativo nelle città; Incentivi fiscali; Politiche nazionali, autonomia e risorse devoluti alle città. Sono emersi come fattori critici, con voti fra il 9 e il 10: Innovazione in
aziende e organizzazioni; Forza lavoro qualificata; Connettività interna ed esterna; Diversificazione economica; Capacità decisionale strategica.
•
•
•
•
Connettività interna ed esterna.
Capacità strategica di mobilitare ed implementare strategie di sviluppo a lungo termine: qui vengono presi come termini di paragone due casi italiani, e si evidenzia come questo fattore possa
spiegare la relativa performance negativa di Milano rispetto ai progressi dell’area Torinese.
L’innovazione in aziende e organizzazioni.
Qualità della vita: è la combinazione dei fattori legati all’ambiente, alla cultura, all’housing, ad
avere peso per la competitività, al pari della good governance e della capacità strategica. Si può
riassumere considerandoli fattori necessari ma non sufficienti.
I settori di intervento significativi per la competitività e la loro rappresentazione
nei DOCUP e POR
La tabella seguente restituisce un quadro sintetico della relazione fra misure dei Docup e POR regionali, e le categorie interpretative introdotte nel paragrafo precedente. L’intento era quello di individuare quali dei fattori di competitività sono più frequentemente oggetto degli enunciati delle politiche.
11.Quadro interpretativo fattori di competitività – Assi e misure di Docup e POR
Azioni
che
apportano
vantaggi
per
l’efficienza
Azioni
che
apportano
vantaggi
per
qualità territoriale
Beni collettivi di connessione (informazione, società, istituzioni)
Economie
esterne
di
connessione ai mercati ,
reti lunghe
Economie
esterne
di
connessione
finanziaria
(servizi, organizzazione)
Beni collettivi fisici di
connessione
fisica e localizzazione
Beni collettivi pubblici
materiali
Connettività Abruzzo 1.3.2; 2.3.1, 2.3.2; Basilicata 5.1, 5.2; Calabria 4.1, 4.2; Ca m p a nia 5.1, 5.2; E milia
R o m a g n a:1.2,; 2.3; FriuliVenezia Giulia 1.2.1, 2.2, 2.3.1; Lazio. 2.3, 3.1,; Liguria 1.1; Lo m bardia; M arche 1.4, 3.2, 3.3, 3.4,; Pie m o nte 1.2, 3.2; Puglia 5.3,; Sardegna 5.1, 5.3; Sicilia
5.0.1 (ex 5.5.1), 5.05; Toscana: 2.8.3, 2.8.4, 2.2.1; Trentino Alto Adige; U m bria 1.4.1, 1.1.2,
1.2.1, 2.2.3; Veneto; Val d’Aosta 1.2
Abruzzo 1.3.1, 1.4.2, 1.4.3; 2.2.2; ; Basilicata 5.1; Calabria; C a m p a nia; E milia Ro m a g n a;
FriuliVenezia Giulia 2.3.1; Lazio 2.3, 2.4,2.6, 4.3,; Liguria 3.7; Lo m b ardia; M arche 1.3; Piem o nte 1.1, 1.2, 2.1, 2.2, ; Puglia; Sardegna; Sicilia 5.05; Toscana: Az 1.1.3, 1.4.2, 1.6.2;.
1.3, 3.9,; Trentino Alto Adige; U m bria 1.2.1, 1.2.2, 2.2.1, 2.2.3; Veneto 1.5; Val d’Aosta
Servizi di
sostegno finanziario e
organizzativo
Abruzzo 1.4.1, 2.2.1, 2.1.4; Basilicata; C alabria; C a m p a nia; E milia Ro m a g n a. 1.5, ; FriuliVe nezia Giulia 1.3.2 , 1.3.3, 2.2; Lazio 3.1, 4.2, 4.3; Liguria 1.1, 1.2, 1.3,; Lo m b ardia; M arche
1.1, 1.2, 1.3; Pie m o nte; Puglia; Sardegna; Sicilia 5.0.1 (ex 5.5.1), 5.05; Toscana:. 1.1.3,
1.4.2, 1.6.2; 1.3, 3.9,; Trentino Alto Adige 3.2, 3.3; U m bria1.1.2, 2.2.1, 2.2.3, 2.3.1, 2.3.3;
Veneto 1.5; Val d’Aosta 1.2
Infrastrutture
Abruzzo: Azione 1.2.1. ; Basilicata; C alabria 6.2, 4.2 ; C a m p a nia 5; E milia R o m a g n a 2.1;
Friuli Venezia Giulia 1.1.1 ; Lazio. 2.1, 3.1, ; Liguria 3.2; Lo m b ardia; M arche 2.4, 2.5, 2.6;
Pie m o nte 2.3, 3.2; Puglia 5.1,; Sardegna 5.1, 5.2; Sicilia 5.0.1 (ex 5.5.1), 5.04; Toscana:.
2.3, 3.3, 2.81; Trentino Alto Adige; U m bria 1.1.1; Veneto 2.4
Qualità ur- Abruzzo; Basilicata 5.1; C alabria 5.1; Ca m p a nia 5; E milia R o m a g n a. 2.3; FriuliVenezia Giu lia 1.2.1; Liguria 3.5; M arche 3.5; Pie m o nte 3.2, 3.3, 4.2; Puglia 5; Sardegna 5.1; Sicilia 5.01
bana
(ex 5.5.1), 5.02, 5.04; Toscana:.2.2.1, 2.2.2, 2.4.3, 3.1,3.2, 3.4, 3.5; Trentino Alto Adige; U m bria; Veneto 1.4, 2.2, 4.1; Val d’Aosta. 1.1
Risanamen- Abruzzo 3.1.3;; C alabria 5.1; Ca m p a nia; E milia Ro m a g n a; FriuliVenezia Giulia 3.1.3; Lazio.
to territoria- 1.1, ; Liguria 2.2, 2.5, 2.6; Lo m b ardia; M arche 3.2; Pie m o nte 3.1, 3.2; Puglia 5.2,; Sardegna;
Sicilia;Toscana:. 2.4.1, 2.4.2, 3.6, 3.7,; Trentino Alto Adige; U m bria 3.1, 3.3; Veneto 4.1, 4.2
le
Qualità am- Abruzzo 3.1.1, 3.1.2; Basilicata; Calabria 1.1 ; C a m p a nia; E milia R o m a g n a. 1.2, 2.1, 2.3;
bientale e FriuliVenezia Giulia 1.2.2, 1.3.2, 3.1.2; Lazio 1.2, 1.3, 3.2, 3.3; Liguria 3.5, 1.1, 2.1, 2.2, 2.3,
2.4, 2.5, 2.6, 3.1,; Lo m b ardia 3.4, 3.5, ; M arche 2.1, 2.2, 2.3; Pie m o nte 3.2, 3.3, 2.6; Puglia
territoriale
5.1, 5.2; Sicilia 5.02; Toscana: 3.8, 3.9,; Trentino Alto Adige: P A T R E N T O
3.3; Veneto 4.2, 4.3; Val d’Aosta 4
2.1; U m bria 3.1,
Azioni
che
apportano
vantaggi
per
sviluppo
di capacità
Azioni
che
apportano
vantaggi
per
sviluppo
di innovazione
Qualità so- Abruzzo; Basilicata 5.2; C alabria 3.4, 5.2; C a m p a nia 5.2; E milia Ro m a g n a. 1.5, 1.6, 2.3;
FriuliVenezia Giulia 1.2.1, 2.4.1; Lazio 4.4; Liguria 3.4, 1.1, ; Lo m b ardia; M arche 3.3; Pieciale
m o nte 4.1, 4.2; Puglia 5.1, 5.3; Sardegna 3.4, 5.3; Sicilia 5.0.1 (ex 5.5.1), 5.03;
Toscana:.2.2.3, 2.5.1, 2.5.2, 2.6.1, 2.6.2; Trentino Alto Adige
P A T R E N T O 1.4, 3.1;
U m bria 2.1.6, 2.1.7, 2.3.4; Veneto; Val d’Aosta.
Economie
esterne
di
connessione
tecnologica
Abruzzo:. 2.1, 2.2; Basilicata 5.1; Calabria; Ca m p a nia; E milia Ro m a g n a:. 1.2, 1.5, 1.6, 2.3;
FriuliVenezia Giulia 1.3.2, 2.3.1, 2.4.1, 2.4.2; Lazio 2.4,2.5,4.2; Liguria 1.1, 1.43.6, 3.7; Lo m bardia; M arche 1.4,; M olise; Pie m o nte 2.4, 2.6, ; Puglia ; Sardegna 5.1, 5.2, 5.3; Sicilia 5.05;
Toscana:.1.1.3, 1.4.2, 1.6.2, 1.1.2, 1.4.1, 1.5.2, 1.7.1, 3.1, 1.8; Trentino Alto Adige; P A B O L Z A N O 3.2; U m bria 1.4.2, 1.4.3, 1.2.1, 2.2.2, 2.3.2,;Veneto 1.7, 2.3; Val d’Aosta
Abbiamo successivamente cercato di interpretare questa suddivisione, tenendo conto, oltre che del
numero di azioni o misure, anche del loro peso e del dettaglio di programmazione, ricostruendo un
quadro interpretativo che facesse riferimento ai coefficienti di competitività più frequentemente
considerati nella letteratura e in altri studi comparativi, che sono connettività interna ed esterna, forza lavoro qualificata, l’innovazione in aziende e organizzazioni, diversificazione economica, capacità strategica, qualità della vita.
Tentando una rilettura del raggruppamento proposto delle intenzioni dei Docup e POR rispetto ai
fattori di competitività individuati come primari, emerge una ovvia grande dispersione e diffusione
delle categorie di interventi sul territorio nazionale, ma anche alcune tendenze specifiche e differenze fra le regioni del nord e quelle del centro sud. Nello specifico si possono evidenziare le seguenti
correlazioni:
- Connettività interna ed esterna, materiale ed immateriale: Gli interventi di connettività materiale
interna e locale sono presenti in quasi tutte le Regioni, mentre l’attenzione sul potenziamento
del trasporto intermodale e della connettività esterna trasfrontaliera è presente sopratutto in Liguria e nelle regioni adriatiche, che puntano molto al potenziamento e rilancio delle infrastrutture portuali, in molti casi integrate nel tessuto urbano, e quindi di vitale importanza in termini
economici che di qualità e vivibilità degli spazi urbani limitrofi. E’ diffuso il potenziamento della connettività attraverso lo sviluppo e la diffusione della ICT e delle reti di comunicazione, lo
sono un po’ di meno la creazione di network fra città e reti informali. Il contatto con i mercati e
ai sistemi di città è perseguito più frequentemente attraverso la partecipazione a fiere o azioni di
promozione e marketing territoriale, che non hanno come obiettivo primario la costruzione di
relazioni sistemiche.
- Forza lavoro qualificata: c’è una prevalenza di offerta di formazione indirizzata alle imprese. In
alcuni casi emergono azioni rivolte al potenziamento dei poli universitari presenti sul territorio,
e della loro integrazione con il tessuto produttivo. Nel caso della Sardegna è rilevante l’attenzione alla formazione del capitale umano interno alle amministrazioni e istituzioni locali, in particolare nel settore della Sanità.
- Governance, ovvero capacità strategica di mobilitare e implementare strategie di sviluppo a lungo termine: questo obiettivo non appare perseguito in maniera sistematica. Sono pochi infatti gli
investimenti per la creazione di strutture che creino servizi sul territorio a lungo termine. Sono
-
-
-
molto più frequenti le azioni temporanee di supporto, ad esempio per la durata dei bandi per accedere a finanziamento. E’ singolare evidenziare come la programmazione comunitaria in Italia
sia stata interpretata prevalentemente su intervalli temporali biennali (cicli di bandi), mentre la
stessa sia stata sfruttata in Inghilterra per avviare invece una programmazione a medio termine,
continuativa sui sette anni Non possiamo tuttavia dimenticare che il territorio e il sistema istituzionale locale italiano hanno dimostrato di essere all’avanguardia nella promozione della sussidiarietà e delle partnership pubblico privato, attraverso la realizzazione dei numerosissimi programmi complessi.
L’innovazione in aziende e organizzazioni: i più numerosi sono gli incentivi diretti alle imprese
per l’acquisto di nuove attrezzature applicazione di nuove tecnologie, seguiti da interventi sulla
diffusione della IT, ed è principalmente attraverso la diffusione della IT che viene stimolata l’innovazione organizzativa sia nelle istituzioni che nelle imprese. La generazione di innovazione
vera e propria (nuovi prodotti, nuove tecnologie) è stimolata in alcuni casi attraverso il finanziamento diretto di studi e ricerche, più spesso tentando di stimolare in trasferimento di conoscenza
fra università (poli di ricerca) a tessuto imprenditoriale. Si rimanda per un’analisi dettagliata al
Rapporto IV Politiche di innovazione.
Diversificazione economica: questa intenzione, se presente, è difficilmente rintracciabile. Si tende a rafforzare la base economica esistente, ma sono pochi gli stimoli alla diversificazione e l’emergere di nuovi settori. E’ ancora molto forte, nel pensare comune, l’idea di distretto come
concentrazione basata principalmente sulla comunanza del settore di attività, o sulla complementarietà, e meno sulla localizzazione per il vantaggio derivante dall’uso di servizi e risorse
condivisi.
Qualità della vita: concorrono al suo accrescimento sia la creazione di beni pubblici collettivi
materiali che la qualità sociale. Le regioni dell’Obiettivo 1, in particolare Calabria, Campania,
Puglia e Sicilia, hanno concentrato notevoli sforzi sul miglioramento dell’ambiente urbano. Data
la esclusione dall’Obiettivo 2 di numerose aree urbane, in queste regioni sono prevalenti le azioni di tipo ambientale. E’ rilevante ancora una volta nelle regioni del sud, ma non solo, il peso
delle politiche sociali. Si affacciano al panorama anche numerose azioni per l’integrazione di
nuovi gruppi sociali a rischio, fra cui gli immigrati, argomento oltremodo attuale alla luce delle
rivolte nelle banlieue in Francia o nella chinatown di Milano. Altro tema, pesante nella programmazione delle isole è il tema della sanità, che si declina sia in termine di realizzazione di
strutture, che di offerta di servizi a carattere sociale, e di specializzazione e formazione degli addetti (Sardegna).
Indirizzi urbani nei Docup
La quasi totalità dei documenti di programmazione attinge copiosamente, sia nella terminologia che
negli enunciati delle finalità, alle direttive comunitarie. Quello che varia significativamente è il peso
attribuito a ciascun asse e alle conseguenti misure ed azioni. Diverse sono anche le modalità realizzative proposte.
La Tabella che segue riassume la presenza all’interno dei documenti di programmazione di riferimenti specifici a politiche per le aree urbane. I progetti finanziabili sono stati suddivisi in categorie:
imprese e sviluppo, infrastrutture includendo oltre ai trasporti anche gli interventi per il settore energetico, il rinnovo urbano distinto dalla riqualificazione edilizia, così come le misure specifiche volte
a favorire l’inclusione sociali di gruppi svantaggiati sono distinte dalle generali misure a sostegno
del tessuto sociale.
Si può evidenziare una distribuzione territoriale, e in alcuni casi concentrazione, delle tipologie di
intervento. Vanno notate alcune aree di concentrazione e, viceversa, alcune assenze.
E’ chiaro che i POR delle regioni meridionali hanno un’estensione tematica più ampia e tendono a
coprire quindi tutti i settori di intervento, ma va ricordato che questa possibilità è estesa anche ai
Docup in questo ciclo di programmazione.
Le piccole regioni meridionali, invece, non hanno un focus urbano sistematico; interessante notare
che sono anche le regioni in via di uscita dal regime di aiuto: nelle isole gli interventi appaiono del
tutto assenti; va aggiunto però che una preoccupazione per le città è filtrata da altri strumenti –per
esempio i Pit delle città- e da altre misure. Ciononostante, sembra significativa e indicativa di una
debolezza programmatica che probabilmente trova riscontro nello stato di attuazione delle misure.
Questa distribuzione è riassunta nella tabella successiva, dove sono espressi in sintesi i rapporti fra
il numero effettivo e il totale degli di interventi in quel settore, raggruppati per le macroaree geografiche.
E’ molto evidente invece che le Regioni del Centro-Nord, nei limiti del perimetro e delle priorità del
ciclo precedente, tendono a privilegiare alcuni ambiti. Anche qui però con certe caratterizzazioni: il
NE premia le infrastrutture, il NO le operazioni di riqualificazione edilizia e di rinnovo urbano; il
centro sembra combinare tutte e due le scelte, escludendo però la dimensione più strategica e di lungo periodo del rinnovo urbano.
La promozione di impresa e sviluppo (integrata nelle politiche urbane) è presente n tutto il Sud e le
isole, quasi assente al Centro e nel Nord Est, presente in parte al Nord-Ovest. Assume tuttavia forme differenti, puntando ad uno sviluppo ad ampio spettro nelle intenzioni del policy making delle
regioni del sud, e su un rilancio delle peculiari conoscenze e delle attività artigianali nei centri urbani del nord.
Nord-Ovest
Progetti finanziabili
Im
pr
ese
e
sv
ilu
ppo
Infra
str
utture
Ri
nno
vo
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no
Ri
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one
ed
ilizi
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P
opo
lazi
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e
so
st
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o
so
ci
ale
Incl
usi
one
Pi
e
m
Promozione
delle
capacità imprenditoriali
Riequilibrio tra aree x
avanzate e depresse
Centri di ricerca, in- x
tegrazione fra imprese e università
Investimento nelle
infrastrutture di trasporto
Trasporto pubblico
urbano
Miglioramento dell’efficienza energetica
Metanizzazione
e
miglioramento energetico
Recupero delle aree
industriali dismesse
Efficienza agglomerativa e network tra
città
Interventi e piani di
lungo periodo per la
rigenerazione urbana
Attrarre
finanziamenti privati nella riqualificazione urbana
Riqualificazione fisica dell’ambiente urbano
Rigenerazione dello
spazio pubblico
Conservazione
e
sviluppo dei beni
culturali
Vd Li
a
g
x
Lo
m
Centro
Ve Ta Fv
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Sud in transizione
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Sud obietti- Isole
vo 1
Ca Pu Ca Si Sar
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l
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x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
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x
x
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x
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x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
Concentrazione di
handicap
quali
esclusione sociale,
insicurezza, povertà
Insufficiente qualità x
della vita in aree urbane difficili
Offerta di servizi x
alla popolazione in
accordo con i trend
demografici
Sicurezza, integrazione, promozione
sociale ed economica delle persone in
difficoltà
Sviluppo di strumenti di partecipazione
Accesso ai servizi
lotta alla discriminazione
Sicurezza urbana
Nord Est
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
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x
x
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x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
10. Le politiche per le aree urbane nei Por e Docup
Gli interventi sulle infrastrutture sono distribuiti più uniformemente, anche in questo caso però i
sottogruppi di intervento hanno diversa concentrazione, colmando da un lato necessità di base, e
tentando dall’altro di mettere in atto sistemi più complessi e articolati. Gli interventi di riqualificazione urbana rispecchiano sia le esigenze locali, che la presenza e l’interazione con altri interventi
(Urban e finanziamenti legati ai grandi eventi). Le misure rivolte alla riduzione del disagio sociale
sono concentrate nella programmazione delle regioni del centro (ma non nel Lazio e nelle Marche) e
in tutto il sud. Si affacciano al panorama, nelle regioni del centro nord, azioni per l’integrazione di
nuovi gruppi sociali a rischio, gli immigrati.
Altro tema, pesante nella programmazione delle isole, è il tema della sanità, che si declina sia in termini di realizzazione di strutture, che di offerta di servizi a carattere sociale e di specializzazione e
formazione degli addetti.
11. Sintesi della distribuzione di frequenza delle misure per ripartizione
Imprese
e sviluppo
Infrastrutture
Rinnovo
Urbano
Riqualificazione
edilizia
Sostegno
sociale
Inclusione
regioni
del
Nord Ovest
regioni
del
Nord Est
regioni del
Centro
regioni del Sud in
transizione
regioni del Sud
obiettivo 1
Isole
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-
-
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-
-
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****
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**
***
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*
-
*
-
**
**
La prossima tabella presenta invece la combinazione fra aree di intervento e target spaziale delle politiche, sia promosse dalle regioni, che dalle singole città all’interno di programmi complessi o grandi eventi.
Il target spaziale, ovvero la limitazione degli interventi a determinate porzioni del territorio urbano,
è in alcuni casi imposto dai programmi stessi, in altri rispecchia le scelte di policy regionale. Si tratta di un tentativo di sintesi per evidenziare le eventuali differenze di strategia fra comuni e regioni.
E’ tuttavia di una interpretazione di tendenze, e come tale va considerata.
La territorializzazione delle iniziative e le politiche urbane sono elementi deboli in più della metà
delle regioni (prima riga), laddove per motivi intenzionali, per livelli di benessere, per i caratteri
della struttura insediativa, o ancora per effetto della perimetrazione, i problemi delle città non rientrano negli obiettivi degli strumenti di programmazione dei fondi strutturali.
Inoltre, un approccio dichiaratamente territorializzato e specificatamente orientato a individuare indirizzi strategici per le aree urbane è presente in modo parziale solo in due regioni, l’Emilia Romagna e il Piemonte. Alcune altre regioni enunciano questo obiettivo (Calabria, Sicilia, in parte la
Campania) ma gli esiti sono meno riconoscibili.
Dal punto di vista degli obiettivi enunciati – pur con tutti i limiti dell’osservazione sulla carta di
enunciati programmatici- è chiara la contrapposizione tra approcci che privilegiano una interpretazione di efficienza ristretta di territori e apparati produttivi nell’ultima colonna, regioni come Lombardia, Molise, Sardegna e Toscana): e approcci generalisti (la prima colonna). Le altre regioni hanno in comune l’aspetto di comprendere più di un elemento ma si differenziano a seconda delle componenti che escludono: il sostengo alle capacità non è particolarmente presente nei programmi per le
città di Abruzzo, Veneto, Lazio e Puglia; l’innovazione tecnologica è assente nei programmi di
Trentino, Valle d’Aosta, Umbria, Campania, Sicilia e Marche.
Le quattro regioni caso studio non figurano tra quelle che più avvalorano interpretazioni innovative
del principio di territorializzazione degli obiettivi. Il Veneto e il Lazio non prestano attenzione, in
compagnia di molte altre regioni, alle aree urbane se non di risulta, per l’incrocio locale delle iniziative.
Diverso il caso della Toscana e del Piemonte, che coniugano politiche urbane e d’impresa, e infatti
concentrano una buona parte della spesa in aree urbane. Il Piemonte enuncia maggior ancoraggio dei
programmi alle altre iniziative orientate alle città (programmi di riqualificazione, ecc.).
L’indagine ha riscontrato un’elevata similarità dei documenti di programmazione 2000-2006 per
quanto attiene i temi urbani e l’innovazione. A parità di terminologia e finalità espresse che si ripetono, quello che varia – ma meno di quanto astrattamente desiderabile- è il peso di ciascun asse. Diverse sono anche le modalità realizzative proposte. Ma in generale, le differenze di impianto non
sono elevate, le caratteristiche comuni prevalgono sui caratteri specifici, le misure e le azioni sono
solo parzialmente declinate localmente, l’adattamento ai caratteri regionali è relativamente modesto.
12. Incrocio finalità e target spaziale delle politiche urbane
Finalità generale
Finalità
generali: Finalità
abbaefficienza d’mpresa, stanza generali,
qualità territoriale, ma senza capacicapacità umane e tà
innovazione
Target
Senza particolare stru- Friuli VG, Liguria
Abruzzo, Veneto,
menti e target territoLazio
riale
Strumenti di territoria- Basilicata, Calabria
lizzazione anche per le
aree urbane
Romagna,
Strumenti per le aree Emilia
urbane orientati in Piemonte
modo “più” strategico
NB: In neretto i casi studio
Finalità abbastanza generali, ma
senza innovazione
tecnologica
Finalità efficienza
d’impresa e qualità territoriale
Trentino AA, Valle
d’Aosta, Umbria
Lombardia, Molise
Puglia
Campania, Sicilia,
Marche
Sardegna, Toscana
-
-
-
E’ anche vero che in modo maggiore di quanto prevedibile in base alla applicazione dei regolamenti, e anche di quanto esplicitato dai documenti di indirizzo, una certa concentrazione sulle aree urbane si è prodotta, mancando però il più delle volte di un quadro strategico chiaro. Non è un caso, peraltro, che proprio in queste regioni si attuino in questi anni le maggiori sperimentazioni di piano
strategico metropolitano, senza particolari relazioni con il quadro del Docup (solo un esempio: il PS
di Torino fa solo parzialmente tesoro delle politiche sulle periferie, uno tra i più fertili incroci di
programmi comunitari e iniziative locali).
In conclusione, sarebbe difficile –e fuorviante- trarre una visione completa delle politiche urbane
dai soli Docup, perché hanno mal diretto l’attenzione alle città, in parte per vincoli regolamentari, in
parte perché sul tema crescevano comunque –in modo un po’ disordinato e contraddittorio- iniziative nazionali, regionali e locali. Prevalgono, nelle iniziative per le città, orientamenti omni-direzionali e poco territorializzati, pur con parziali eccezioni come il Piemonte e l’Emilia Romagna (e per
certi versi la Calabria o le isole).
Una rassegna delle politiche urbane intraprese nel periodo (come è noto, sono stati avviati numerosi
programmi) restituisce infatti una gamma di interventi molto più ampia. Al di là delle specifiche caratteristiche di questi, dai primi Programmi integrati di fine anni ’80 ai recenti Accordi di programma quadro per le città, quel che occorre notare è la densità di iniziative che vengono a combinarsi
localmente. Questo avvalora l’idea di una politica urbana implicita, che risulta dalla capacità locale
di combinare iniziative promosse da regioni, stato e comunità.
Oltre i Por e i Docup: cosa altro si è fatto per le città?
L’ Italia è stata, nell’ultimo decennio, teatro del proliferare di numerose iniziative per la città e il
territorio, conosciute sotto il nome generico di programmi complessi. Finanziate attraverso diversi
canali, e gestite da enti a vari livelli, queste iniziative comprendono Programmi di riqualificazione
urbana (Priu), Programmi di recupero urbano (Pru), Programmi integrati di intervento (Pii), Programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio (Prusst), Urban (I, II e UrbanItalia), Contratti di Quartiere e Società per la Trasformazione Urbana (Stu).
Uno dei tavoli convocati per la scrittura del Documento Strategico Nazionale 2007-2013 che deve
orientare la nuova programmazione dei fondi strutturali è stato dedicato alle città (o meglio a città e
sistemi produttivi).
Le città sono state sede di investimenti crescenti negli ultimi anni, sia immobiliari che infrastrutturali, che hanno riguardato pezzi importanti della “dotazione” ordinaria:
- il riuso delle aree industriali è stato il problema degli anni ‘80, probabilmente mal compreso e
mal gestito allora, ma ormai ampiamente messo in agenda e –nelle più significative realtà urbane del Nord Ovest - quasi esaurito;
- anche la riqualificazione urbana è stata un’occasione di crescente investimento finanziario e ha
consentito il recupero di numerosi ambiti urbani degradati, per lo meno quelli compatibili con le
logiche di mercato (per esempio, quelli di edilizia storica o in posizione centrale);
- più di un’importante città ha fatto uso di occasioni speciali (Olimpiadi, Giubileo…) per diversificare la base economica e rilanciare la propria immagine internazionale;
- investimenti immobiliari crescenti sono stati destinati a centri direzionali e commerciali, seguendo una tendenza all’eccesso comune ai mercati immobiliari di tutta Europa, e in parte ancora molto limitata a iniziative un po’ più innovative (tecnopoli, parchi scientifici…);
- al contrario, temi come le infrastrutture della mobilità (parcheggi, linee di metro, ferrovie regionali…) e le attrezzature per l’ambiente urbano (acquedotti, depuratori, inceneritori…) sono tutt’altro che esauriti, pur essendo stati oggetto di numerosi programmi;
- ancora, in non poche situazioni –dentro e fuori da programmi pubblici- sono stati avviati programmi che a vario titolo aspirano a qualche dimensione di strategicità (e consentono il concepimento e l’incubazione di una riserva di progetti).
Questa premessa per dire che una certa dimensione urbana delle politiche di sviluppo è presente in
Italia, sebbene in modo implicito e spesso affidata a iniziative locali. E d’altra parte ci sono ancora
fabbisogni di intervento che sono più consistenti nelle città se non altro per il numero e la concentrazione di abitanti.
La prima considerazione da fare è che le città sembrano già ora fare a meno delle politiche nazionali
e regionali; ma questo non giova a loro, e non fa bene alle regioni né allo stato. Politiche di sviluppo
(talvolta perfino innovative) pensate en solitarie rischiano d’essere occasionali o ridondanti. Basti
pensare che Roma e Milano si fanno concorrenza su aeroporti, fiere e Olimpiadi. Questo fenomeno
è riscontrabile soprattutto per le capitali e le maggiori città, che pure hanno la capacità di finanziare
i propri investimenti, quando non di condizionare le Regioni di appartenenza, dalle quali stanno
progressivamente strappando statuti di crescente autonomia. Lo è meno per altre città e comuni, a
volte non di scarso rango ma di minori risorse.
Vale dunque la pena parlare di città perché sono responsabili della vivibilità, dello sviluppo, della
competizione; e perché perseguiranno questi obiettivi anche senza una politica collettiva, ma forse
con minor risultati e più divari.
I casi significativi di sviluppo urbano riguardano comuni con capacità proprie e autonomia di bilancio, spesso con accesso diretto a risorse straordinarie (Olimpiadi, Giubileo). Benché si tratti di situazioni interessanti, non sono modelli facilmente generalizzabili, in particolare nel mezzogiorno.
13. Quadro cronologico dei programi europei e degli strumenti di programmazione in Italia
Anno
1989
Unione Europea
PPU Progetti Pilota urbani I (Fondi
strutturali 1989-1993)
1991
1992
1993
1994
PPU Progetti Pilota Urbani II
Urban I (Fondi strutturali 1994-99)
1997
1998
2000
Urban II (Fondi strutturali 2000-2006)
2001
2002
2004
Contesto italiano
Programma straordinario per l’edilizia residenziale (L. 203/91 per la
lotta alla criminalità organizzata)
PII Programmi integrati di intervento (L. 179/92))
PRU Programmi di recupero urbano (L. 143/93)
PRIU Programmi di riqualificazione urbana (D.M.L.L.P.P 21/12/94)
CdQ Contratti di Quartiere I (Del. Cer. 5/06/97)
PT Patti Territoriali (Del. CIPE 21/03/97 e successive modifiche ed
integrazioni)
PRUSST Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile (D.M.L.L.P.P. 25/9/98)
Urban Italia (D.M.L.L.P.P. 7/07/00)
PIT Progetti Integrati territoriali (QCS 2000-2006)
CdQ Contratti di Quartiere II (L. 21/01))
Programmi di riabilitazione urbana (L. 166/02, mai finanziati)
APQ Accordi di programma quadro per le città
Come sempre, sono disponibili esempi di politiche innovative e ragionevoli: occorre saper scegliere.
Le città sono state oggetto di una varietà di strumenti di programmazione: la lista è lunga. Ma sono
mancati progetti significativi, pur non mancando buoni esempi nei Docup di Toscana e Piemonte,
negli Urban, nei programmi di riqualificazione di alcune città.
Non ci sono precedenti particolarmente forti di programmi urbani innovativi dentro alla programmazione regionale o nazionale. Il principio di territorializzazione, dei Pit o dei Pisl, è stato innovativo ma non ha riguardato in specifico le città. Gli Urban sono stati di successo ancorché da programmi sociali ambiziosi siano divenuti più tradizionali programmi di rinnovo urbano. Inoltre, non si
può sostenere che i programmi territoriali che hanno riguardato le città abbiano assunto connotati
distinti e innovativi.
Questi programmi hanno mobilitato ingenti risorse sia pubbliche che private, con effetti ben visibili
sul territorio. La tabella seguente offre un riassunto dei principali programmi complessi, con soggetti promotori, proponenti e risorse impegnate.
Non è una novità: già nello scorso ciclo le regioni del Mezzogiorno s’erano dotate di un’asse
“città”, e qualche regione del centro Nord aveva investito gli ambiti urbani con diverse misure. I risultati non sono sempre stati esaltanti, anche se liquidare queste esperienze sarebbe ingeneroso. Soprattutto, non si coglierebbe la sequenza: ormai, iniziative ordinarie e straordinarie investono da
vent’anni le città, e non si possono valutare singolarmente successi e insuccessi.
Infatti, l’insieme di infrastrutture, opere, tram, centri congressi, programmi di rinnovo complessivamente avviati è di tutto rispetto. Casomai ci sono problemi di coerenza e continuità, di speculazione
immobiliare, di responsabilità locale e centrale.
Insomma, si discute di città facendo finta di non avere una politica della città solo perché non c’è un
ministero, un assessorato regionale, un’agenzia dedicata; mentre nei fatti, si è venuto costituendo un
denso campo di programmi, con qualche problema e lacuna vistosa, diviso com’è tra conflitti istituzionali e gelosie d’apparato.
Rispetto allo scorso decennio, non solo va riconosciuto che una politica della città c’è stata, ma soprattutto che alcuni elementi di contorno sono cambiati.
14. Programmi complessi: soggetti coinvolti e risorse finanziarie
Programma
PII
Programmi Integrati
di Intervento
PRU
Programma di Recu-
Soggetti promotori
Comuni
Comuni, IACP
Soggetti proponenti
Comune, IACP, Province,
Proprietari delle aree, operatori del settore edile, singoli o riuniti in consorzio
Comune, IACP, altre amministrazioni pubbliche
Soggetto selezionatore e/o finanziatore
Ministero LL. PP., CER, attraverso trasferimenti alle Regioni
(nel caso di specifiche legislazioni regionali)
Ministero LL. PP., CER, attraverso trasferimenti alle Regioni
Risorse
€ 442.358.000
€ 2.006.074.377
pero urbano
statali o locali, operatori
privati (imprese di costruzione, cooperative di produzione e lavoro, cooperative di abitazione)
Comune, imprese e operatori pubblici o privati
(nel caso di specifiche legislazioni regionali)
Ministero LL PP
Totali € 8.062.512
Pubbliche € 2.289.481
Private € 5.773.031
Soggetti finanziatori: Ministero LL PP, Regioni, Comuni,
IACP, altre amministrazioni
pubbliche statali o locali, operatori privati (imprese di costruzione, cooperative di produzione e lavoro, cooperative
di abitazione)
Ministero LL PP, Regioni,altre
risorse pubbliche e private
Totale € 784.000.165
Min Ll.Pp € 309.291.060
altri sogg. € 474.409.106
103 mln € Stato italiano
67 mln € amministrazioni locali
25 mln e privati
Le risorse disponibili ammontano a circa 1000 milioni di
euro.
PRIU
Programmi di riqualificazione urbana
(D.M.L.L.P.P
21/12/94)
CdQ
Contratti di Quartiere
I (Del. Cer. 5/06/97)
Comuni
Ministero LL PP
(Bando del
30.01.98)
Comune, amministrazioni
pubbliche, organizzazioni
senza fini di lucro
PRUSST Programmi
di riqualificazione
urbana e sviluppo sostenibile
(D.M.L.L.P.P.
25/9/98)
Urban Italia
(D.M.L.L.P.P.
7/07/00)
Regioni, Province, Comuni
Enti pubblici territoriali, altri enti pubblici e privati
(Camere di Commercio,
Iacp etc.)
Comuni
Ministero LL PP
CdQ
Contratti di Quartiere
II (L. 21/01))
Ministero LL PP
Comune, altre amministrazioni pubbliche statali o locali, municipalizzate, imprese, operatori privati
Comune, amministrazioni
pubbliche, organizzazioni
senza fini di lucro
APQ
Tavolo Interstituzionale
Regioni e comuni
Cipe e Ministeri
Accordi di programma quadro per le città
Il nuovo programma finanziato
per il 65% con fondi statali e
per il rimanente 35% con fondi
regionali
Totali € 60.398.337.637
Pubbliche € 30.715.807.450
Private € 29.682.530.187
Le risorse stanziate finora ammontano a 856 milioni di
euro.
La tabella seguente offre invece una panoramica dei progetti finanziabili, e quindi delle azioni, attraverso i molteplici programmi e strumenti.
I diversi programmi sono stati ricondotti a tre diverse famiglie: la prima colonna riporta quelli a
maggior orientamento edilizio, sia pur corretto dalla impostazione per l’appunto integrata; la seconda quelli rivolti al quartiere e agli interventi integrati di area; la terza i programmi dichiaramente a
sfondo territoriale, sia pur con diverse provenienze, è chiaramente più problematica (in tutti i sensi).
Nelle ultime colonne sono stati inseriti i Pit e i Pisl, modalità attuative del QCS 2000-2006 e del
PON 2000-06, e gli APQ urbani, strumenti di programmazione dei fondi ordinari per le aree sottoutilizzate.
15. Categorie di intervento per strumenti e politiche per le aree urbane
Progetti finanziabili
Imprese
–sviluppo
Promozione delle capacità
Imprenditoriali
Riequilibrio tra aree avanzate
e depresse
Centri di ricerca, integrazione
fra imprese e università
Edilizi
Pru Pri
u
Quartiere
Cd
UrQ
banI
x
x
Territoriali
Pru Pit
sst
Pisl
x
x
x
x
x
x
x
x
UrbanII e
Urban
Italia
x
APQ urbani
Infrastrutt
ure
Riqualificazione
edilizia
Popolazione e
sostegno
sociale
Inclusione
sociale
Investimento nelle infrastrutture di trasporto
Trasporto pubblico urbano
Metanizzazione e miglioramento energetico
Miglioramento dell’efficienza energetica
Recupero delle aree industriali dismesse
Efficienza agglomerativa e network tra città
Interventi e piani di lungo periodo
per la rigenerazione urbana
Attrarre finanziamenti privati
nella riqualificazione urbana
Riqualificazione fisica dell’ambiente urbano
Rigenerazione dello spazio pubblico
Conservazione e sviluppo dei beni culturali
Attrazione di personale
ad alta qualificazione
Concentrazione di handicap
quali esclusione sociale, insicurezza, povertà
Insufficiente qualità della vita
nelle aree urbane difficili
Offerta di servizi alla popolazione
in accordo con i trend demografici
Sicurezza, integrazione, promozione
sociale ed economica delle persone in difficoltà
Sviluppo di strumenti di partecipazione,
azioni integrate e strategie di inclusione
Sviluppo di strumenti
di partecipazione
Accesso ai servizi e
lotta alla discriminazione
Sicurezza urbana
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
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x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
x
Anche in questo caso si possono riconoscere delle regolarità. In particolare, i primi programmi a
sfondo prevalentemente ‘edilizio’ mostravano una limitata caratterizzazione specifica, se non per i
fini strumentali della riqualificazione, e uno scarso orientamento al sociale.
Quest’ultimo caratterizza invece la composita famiglia degli strumenti di intervento sul quartiere,
variamente combinata da programmi comunitari e nazionali, diretti talvolta a quartieri pubblici e talaltra ad aggregati misti.
Infine, i programmi a sfondo territoriale mostrano più vaste e complesse ambizioni di infrastrutturazione territoriale e sviluppo di impresa e un incipiente sebben limitato orientamento allo sviluppo
delle capacità e dell’inclusione sociale.
16. Sintesi della distribuzione di frequenza delle misure per ripartizione
Imprese e sviluppo
Infrastrutture
Riqualificazione edilizia
Sostegno sociale
Inclusione
Edilizi
Quartiere
Territoriali
*
*
*
*
-
**
*
**
***
***
**
**
*
*
*
Osservando invece le tipologie di interventi proposti su scala urbana, prevalentemente all’interno
dei programmi complessi, e confrontandoli ancora una volta con i fattori di sostegno alla competitività definiti in precedenza, emergono un approccio differente ed una visione strategica delle città
più completa e complessa. Si possono esprimere graficamente tracciando un diagramma (figura seguente) che mette a sistema politiche e modelli economici, dove in ascissa sono rappresentate le
azioni che promuovono la competitività rispettivamente in termini di efficienza allargata del sistema
territoriale da un lato ed efficienza dei fattori relativi all’impresa dall’altro (ovvero vantaggio competitivo territoriale da un lato e vantaggio comparativo delle imprese dall’altro), mentre in ordinata
da un lato un economia basata sulla conoscenza e sulle qualità del territorio (anche attraverso l’attrazione di imprese leader), e dall’altro la diversificazione e terziarizzazione dell’economia partendo
dalla base esistente.
Si può notare una generale tendenza delle politiche proposte dalle città nel sostenere un cambiamento del contesto di tipo qualitativo, mentre le politiche proposte e attuate dagli enti regionali e sovraregionali si orienta verso interventi sulla fisicità.
L’incrocio di interventi delinea diversi scenari nei quattro quadranti. Partendo dall’angolo in alto a
sinistra e procedendo in verso antiorario sul diagramma, possiamo ipotizzare che la combinazione
di interventi sul tessuto urbano e nuove economie porti ad una festivalizzazione delle città, intese
come luoghi di “consumo” di cultura, scambio di conoscenze, grandi eventi. Accompagnata invece
ad una transizione economica meno innovativa invece, la rigenerazione urbana può portare a città in
cui lo scenario economico dominante è quello dettato dai grandi interventi immobiliari. Questa stessa transizione economica, se accompagnata da aumento di efficienza del sistema imprenditoriale,
comporta uno scenario con pochi cambiamenti nel tessuto urbano, ma può comunque attrarre investimenti. L’ultimo degli scenari, ancora una volta poco legato alla dimensione della fisicità urbana,
ma legato comunque alle componenti territoriali attraverso la conoscenza, delinea invece uno scenario di sviluppo tecnologico ed economie avanzate.
Dunque, la futura programmazione –qualora intenda investire sulle città- non potrà eludere il nodo
dei capitali privati, peraltro già molto presenti nella riqualificazione e sviluppo immobiliare; senza
cedere a illusioni fuori scala sulla promessa della competitività.
La prima cautela riguarda il fatto che nel discorso comunitario si parla di città nella convinzione che
siano motori di sviluppo. Questa condizione non è facilmente e immediatamente realizzabile per
molti aspetti, qui vale la pena ricordarne almeno uno.
I movimenti che riguardano le città del mondo e quelle del nostro meridione si verificano in una
‘gerarchia urbana’ che in Europa è stabile dal ‘700, con poche eccezioni. La idea fondante delle politiche è invece che le città promuovano uno sviluppo accelerato e repentino come è avvenuto a Los
Angeles all’inizio del ‘900, quando è divenuta capitale del cinema mondiale; o nella Silicon Valley
sul finire dello stesso secolo, quando l'industria del computer ha dato via alla nuova strabiliante agglomerazione tecnologica dell’area.
15. Diagramma Scenari
“Festivalizzazione”
dell’economia urbana: fiere, giochi, città
della cultura
Transizione a economia
della
conoscenza
e
attrazione di imprese
leader di settore (enfasi
sulla
concentrazione
selettiva di capacità
tecnologiche)`
Efficienza stretta del
sistema imprenditoriale
(fattori
competitivi
d’impresa, connettività
materiale
e
immateriale)
Qualità della vita e abitabilità dell’area
“Urban Renaissance”
Investimento
immobiliare
diffuso
per
la
riqualificazione
urbana,
valorizzazione
immobiliare
e
conseguente
‘gentrification’
“Città
della
conoscenza”
Sviluppo tecnologico
e dell’economia della
conoscenza
Transizione a economia
terziaria
e
diversificazione
della
base produttiva (enfasi
sulle capacità e sulla
flessibilità del mercato
del lavoro)
Tipologia delle politiche urbane e della città
“Diversificazione terziaria”
Promozione
di
impresa,
attrazione
di
investimenti
e
accordi
neocorporativi per lo
sviluppo economico
La speranza è che la filiera tecnologica (cinema, computer, automazione…) si “sposi” con i fattori
agglomerativi della città (abbondanza di personale, concentrazione di laureati, incentivi all’innovazione…) e generi benefici per tutta la regione circostante. È una scommessa ambiziosa, che dove ha
avuto successo ha dato grandi risultati, ma si è prodotta raramente.
Nelle pratica, soprattutto, si riscontra un impegno di città e regioni distribuito necessariamente su
più fronti. Le ragioni sono certamente numerose: in parte sono legate al peso dei fabbisogni arretrati, specie al Sud, in parte a questioni di consenso.
Ma, in sostanza non si trovano modelli di politiche pure. Eppure si trovano alcune ricorrenze significative.
- alcune combinazioni di politiche sono ricorrenti. Politiche di terziarizzazione (la promozione di
nuove centralità periferiche) e di sostegno all’economia turistica sono quasi universali. Non
sono rare anche politiche di riqualificazione urbana con le osservabili conseguenze in termini di
gentrification;
- città e regioni tendono a privilegiare politiche diverse. Questo in parte sembra ovvio, date le differenze istituzionali e di mission. In realtà, va ricordato che sono istituzioni molto diverse, con
differenti culture organizzative. Alcuni grandi città sono più attive di piccole regioni, e viceversa.
- politiche di diversificazione delle attività produttive, e in particolare di sostegno all’economia
della conoscenza sono rare, in particolare se si esaminano le enunciazioni invece che le realizzazioni. Ma sono presenti in modo crescente ed è possibile attendere una crescita significativa in
questo settore.
Appendice
Le azioni per la competitività dei sistemi urbani in Italia
In mancanza di una sistematica politica per le città in Italia integrata a tutti i livelli, ma riconoscendo l’importanza delle
stesse per lo sviluppo, e seguendo in alcuni casi pedissequamente le linee guida enunciate, le Regioni hanno comunque
dato spazio a politiche ed interventi per le città nell’uso dei fondi comunitari. Una politica per la competitività dei sistemi urbani, seppur ancora una volta non esplicita, può essere ricostruita ricercando nei POR e nei DOCUP azioni volte a
rafforzare le numerose caratteristiche che rendono un sistema urbano competitivo: le infrastrutture primarie e secondarie, il tessuto imprenditoriale, le capacità di sviluppo e ricerca, il capitale sociale, la qualità della vita.
La nostra ricerca, attraverso la lettura dei Docup o POR e la consultazione di amministrazioni e tecnici, ha cercato di
evidenziare l’attenzione alle città all’interno della programmazione comunitaria, la relazione (ed eventuale integrazione)
tra le iniziative sostenute dai diversi fondi comunitari in area urbana, nonché le relazioni (ed eventuali integrazioni) con
le altre iniziative per il territorio, sia ordinarie (Prs, Ptc,Prg) sia straordinarie (Prusst, Pisl e simili).
In Italia infatti, proprio lo spazio lasciato dalla mancanza di una politica nazionale definita, ha permesso il proliferare di
numerosi programmi complessi che, affiancati alla pianificazione ordinaria, hanno interessato la quasi totalità del territorio nazionale. Queste nuove modalità operative hanno portato il quadro italiano all’avanguardia in termini di governance
e buone pratiche di partnership fra settore pubblico e privato. La flessibilità dei programmi complessi, ha permesso in
alcuni casi il loro utilizzo come strumenti attuativi della programmazione comunitaria.
In una lettura ad ampio spettro della programmazione regionale, sia per l’Obiettivo 1 che per l’Obiettivo 2, abbiamo
suddiviso le azioni e le misure in base alla loro influenza sui fattori intrinseci della competitività: efficienza, qualità territoriale, sviluppo delle capacità, sviluppo dell’innovazione. Per facilitare la catalogazione delle azioni all’interno di
queste quattro macrocategorie e rispettive sottocategorie, è stata utilizzata la classificazione dei settori di intervento dei
Fondi Strutturali contenuta nell’Allegato C del QCS 2000-06.
Sia la collocazione dei settori di intervento che quella delle azioni nelle tabelle non è univoca, in quanto lo stesso tipo di
intervento (quindi lo stesso codice) ovvero l’azione prevista dal documento programmatico, può concorrere all’accrescimento di più fattori di competitività. Ad esempio, il codice di settore di intervento 163 - Servizi di consulenza alle imprese (informazioni, piani aziendali, consulenze, marketing, gestione, progettazione, internazionalizzazione, esportazioni, gestione ambientale, acquisto di tecnologie) può caratterizzare sia interventi di marketing, potenziando connettività e
creazione di reti relazionali, che azioni volte all’innovazione.
Sono state considerate in prevalenza le azioni e misure riferite alle aree urbane, salvo dove diversamente specificato, e
dalle tabelle è stata esclusa la regione Molise, il cui POR (vedi nota Regione nel paragrafo dedicato alle schede regionali) ha soppresso l’asse città.
1. Vantaggi per l’efficienza
La chiave di lettura in questo caso è la connettività.
Il primo sottogruppo, “Beni collettivi di connessione” raggruppa tutte le azioni che migliorano l’efficienza comunicativa
del sistema locale, quindi sia istituzioni che imprese. Rientrano in questo gruppo le seguenti categorie:
• 163 Servizi di consulenza alle imprese (informazioni, piani aziendali, consulenze, marketing, gestione, progettazione, internazionalizzazione, esportazioni, gestione ambientale, acquisto di tecnologie)
• 323 Servizi ed applicazioni per il pubblico (sanità, pubblica amministrazione, istruzione)
• 324 Servizi ed applicazioni per le PMI (commercio e transazioni elettronici, istruzione e formazione, creazione di
reti)
Nel sottogruppo “Economie esterne di connessione immateriale” si fa riferimento alla creazione di reti lunghe e accesso
ai mercati, quindi azioni mirate alla internazionalizzazione e potenziamento dell’export per le imprese, ma anche il marketing territoriale e le azioni promozionale. Le categorie specifiche sono:
• 163 Servizi di consulenza alle imprese (informazioni, piani aziendali, consulenze, marketing, gestione, progettazione, internazionalizzazione, esportazioni, gestione ambientale, acquisto di tecnologie)
Nell’ultimo sottogruppo rientrano infine tutte le azioni che aumentano “l’efficienza finanziaria e organizzativa”, ad
esempio il finanziamento di servizi di consulenza per la realizzazione di piani aziendali, consulenza e aiuto economico
per la certificazione di qualità, operazioni di ingegneria finanziaria e venture capital, ma anche, a livello di sistema, la
creazione di reti di imprese e centri di informazione e servizi. I codici di riferimento sono:
• 163 Servizi di consulenza alle imprese (informazioni, piani aziendali, consulenze, marketing, gestione, progettazione, internazionalizzazione, esportazioni, gestione ambientale, acquisto di tecnologie)
• 164 Servizi comuni per le imprese (parchi di attività, vivai di imprese, animazione, servizi promozionali, creazione
di reti di imprese, conferenze, fiere commerciali)
•
165 Ingegneria finanziaria
2. Vantaggi attraverso l’accrescimento della qualità territoriale
L’elemento chiave è qui la dimensione fisica.
Il sottogruppo “Beni collettivi di connessione fisica e localizzazione” comprende si agli interventi sulle infrastrutture di
collegamento primarie (strade, porti, potenziamento del trasporto intermodale), che la realizzazione di strutture che favoriscano la localizzazione (aree industriali con servizi aggiunti). I codici di riferimento sono:
• 31 Infrastrutture dei trasporti
• 311 Ferrovie
• 312 Strade
• 3122 Strade regionali/locali
• 3123 Piste ciclabili
• 315 Porti
• 316 Vie navigabili
• 317 Trasporti urbani
• 318 Trasporti multimodali
• 319 Sistemi di trasporto intelligenti
Nel gruppo “Beni pubblici materiali” rientrano invece i sottogruppi qualità urbana, risanamento territoriale e qualità territoriale e ambientale. Rientrano in questa classe tutte le azioni in campo di gestione dei rifiuti e delle acque reflue, nonché il miglioramento energetico in quanto finalizzato alla riduzione delle emissioni inquinanti. Si è ritenuto opportuno in
questo caso includere anche alcune misure dei Docup a Por che non si applicano esclusivamente al territorio urbano, ma
che riguardano le aree circostanti, in quanto la qualità dell’ambiente limitrofo (beni naturalistici, risanamento idrogeologico) sono comunque rilevanti per il fattore “qualità della vita” che abbiamo inserito fra gli elementi significativi per la
competitività. I codici di riferimento sono quindi:
qualità urbana:
• 341 Aria
• 342 Rumore
• 343 Rifiuti urbani ed industriali (compresi rifiuti ospedalieri e rifiuti pericolosi)
• 352 Risanamento di aree urbane
• 354 Valorizzazione beni culturali
• risanamento territoriale
• 35 Riassetto e bonifica
• 351 Riassetto e bonifica di zone industriali e militari
• 352 Risanamento di aree urbane
qualità territoriale e ambientale
• 33 Infrastrutture del settore energetico (produzione e distribuzione)
• 331 Elettricità, gas, idrocarburi, combustibili solidi
• 332 Fonti energetiche rinnovabili (energia solare, eolica, idroelettrica, dalla biomassa)
• 333 Efficienza energetica, cogenerazione, controllo energetico
• 34 Infrastrutture ambientali (compresa l'acqua)
• 341 Aria
• 342 Rumore
• 343 Rifiuti urbani ed industriali (compresi rifiuti ospedalieri e rifiuti pericolosi)
• 344 Acqua potabile (captazione, trattamento, distribuzione)
• 345 Acque reflue, depurazione
3. Vantaggi per lo sviluppo di capacità: qualità sociale.
Il driver di competitività implicito è la “qualificazione della forza lavoro”, ma anche la riduzione del disagio sociale.
Si tratta quindi sia degli interventi di formazione rivolti alle aziende, che del potenziamento delle infrastrutture sociali e
sanitarie. I codici di riferimento sono:
• 166 Servizi a sostegno dell'economia sociale (assistenza a persone a carico,salute e sicurezza, attività culturali)
• 167 Formazione professionale per le PMI e gli artigiani
• 21 Politiche per il mercato del lavoro
• 22 Integrazione sociale
• 23 Potenziamento dell'istruzione e della formazione professionale non collegata a un settore specifico (persone,
aziende)
•
•
•
24 Flessibilità delle forze di lavoro, attività imprenditoriale, innovazione, informazione e tecnologie delle comunicazioni (persone, aziende)
25 Azioni positive per le donne sul mercato del lavoro
36 Infrastrutture sociali e sanità pubblica
4. Vantaggi per lo sviluppo dell’innovazione
Rientrano in questa categoria i servizi di miglioramento tecnologico, ovvero le economie esterne di connessione tecnologica.
Oltre all’ammodernamento tecnologico, quindi incentivi all’investimento per l’acquisto di nuove tecnologie, si tratta anche di azioni immateriali volte al trasferimento e alla “commercializzazione” del capitale di conoscenza generato da università, istituti di ricerca e poli tecnologici, e alla loro integrazione con il tessuto produttivo locale.
• 163 Servizi di consulenza alle imprese (informazioni, piani aziendali, consulenze, marketing, gestione, progettazione, internazionalizzazione, esportazioni, gestione ambientale, acquisto di tecnologie)
• 181 Progetti di ricerca presso università e istituti di ricerca
• 182 Innovazione e trasferimento di tecnologia, realizzazione di reti e collaborazioni tra aziende e/o istituti di ricerca
• 183 Infrastrutture di RSTI
• 184 Formazione dei ricercatori
Varietà dei modelli di politiche urbane
di Marco Cremaschi
È convinzione diffusa, anche a livello comunitario, che occorra partire dalle città per le politiche di
sviluppo. Si tratta di un tema ineludibile, che l’Italia ha finora trascurato, e che può cambiare il
modo di far programmazione, a condizione che si comprendano bene obiettivi e orientamenti strategici, contesto e strumenti.
Più avanti ricorderò brevemente le contraddittorie fenomenologie territoriali dentro le quali si iscrivono le politiche per le città in Italia. E infine, cercherò di indicare quali caratteri potrebbe assumere
una programmazione ‘ben temperata’, tra esigenze selettive e negoziali.
Occorre però anticipare due cautele più circoscritte: la prima riguarda il carattere particolare delle
città meridionali; la seconda, l’ambiziosa questione della competitività urbana.
La prima cautela è così riassumibile; nel discorso politico europeo si parla di città nella convinzione
che siano motori di sviluppo. Questa condizione è difficile sotto molti aspetti, ma qui val la pena ricordarne almeno uno. Nei paesi del Nord del mondo, negli Stati Uniti e in Europa, si assiste da tempo a un “ritorno delle città” che significa due diversi movimenti: il ritorno di persone dopo 25 anni
di spopolamento delle città; e il ritorno di capitali che investono nelle città.
L’aspetto straordinario degli ultimi dieci anni è che questi movimenti riguardano anche, in certa misura, le città che sono state meno favorite dal periodo precedente. Ma occorre porre attenzione alla
dimensione dei fenomeni: l'Italia non ha ancora interrotto la fase di spopolamento urbano, e il ritorno dei capitali (la scelta cioè del capitale privato di fare della scena urbana una piazza finanziaria
redditizia) è ancora estremamente debole.
Occorre allora riconoscere che i fattori che giustificano questo scenario sono molto esigenti. In
astratto, una città può entrare a far parte della strategia di impresa di una multinazionale situata nell'altra parte del mondo. Ma in Italia abbiamo un mercato di investitori privati deboli, che cominciano ora ad affacciarsi ad una certa consapevolezza. Questa dunque la prima osservazione: se si parla
di “ritorno alla città”, dobbiamo essere consapevoli che occorre considerare non solo la capacità di
investimento pubblico, ma a come si muove il mercato.
La speranza cioè è che la filiera tecnologica (cinema, computer, automazione…) si ‘sposi’ con i fattori agglomerativi della città (abbondanza di personale, concentrazione di laureati, incentivi all’innovazione…) e generi benefici per tutta la regione circostante. E’ una scommessa ambiziosa; dove
ha avuto successo ha prodotto grandi risultati, ma si è prodotta raramente. L’aspetto della competitività è fondamentale per le città, ma ha un significato diverso secondo le scale alle quali si applica.
Un conto è sostenere che le città sono in competizione nell’ambito -ambizioso ma ristretto- degli investimenti provenienti dall’estero, che sono rari e difficili da ‘catturare’. Un altro conto è affermare
che le città devono offrire condizioni di efficienza alle imprese perché queste siano competitive: le
città sono competitive se sono ben amministrate, efficienti, se fanno il servizio di produrre territori
capaci di stare nella sfida della globalizzazione. In questo senso, competitività, coesione e sostenibilità sono meno in contraddizione fra loro di quanto potrebbe sembrare.
Dunque, la futura programmazione –qualora intenda investire sulle città- non potrà eludere il nodo
dei capitali privati, peraltro già molto presenti nella riqualificazione e sviluppo immobiliare; senza
cedere a illusioni fuori scala sulla promessa della competitività.
Governance
C’è una certa simmetria tra il dibattito sulla governance metropolitana e quella sulla forma istituzionale della comunità europea, che ha ovviamente un elemento di congiunzione nel declino della forma statuale (Harding e Le Galès 1998).
In ambedue i casi, succede non di rado di ascoltare, da parte degli stessi protagonisti, una certa insoddisfazione sugli esiti della ‘meccanica razionale’ delle riforme istituzionali. Ciononostante, in
ambedue i casi la riflessione non si arresta, e al contrario, sembra trovare alimento in modalità di
azione innovativa e fertile (anticipate da Dente et al. 1998: recentemente, Cremaschi 2006b).
Il dibattito sulle città metropolitane ha assunto inizialmente, con episodi ormai nei manuali (Lefèvre
1998) alcuni temi canonici: da un lato, la frammentazione delle istituzioni coinvolte e, più in generale, la dimensione ottimale del governo locale; dall’altro, il tipo di autonomia, di competenze e, più
in generale, la legittimità del governo metropolitano rispetto ad altre scale 28. Soprattutto nella esperienza nordamericana e in quella inglese queste sperimentazioni hanno avuto dei passi in avanti e
degli arretramenti (Peterson 1981). Successi e fallimenti29 sono stati oggetto di vasta letteratura.
Ma va detto che si tratta di una filiazione lontana, e che la ripresa del dibattito sulle città metropolitane incrocia oggi questioni del tutto nuove30, in particolare due problemi cruciali: lo sviluppo di
nuove forme di azione pubblica, che sperimentano modalità innovative e incrementali; e una nuova
questione democratica, che pone al centro soprattutto la debolezza della rappresentanza.
Inoltre, la stessa solida questione dell’autonomia economica e della capacità di sostentamento finanziario viene ridefinita dalla possibilità di accesso a canali diversi da quelli fiscali e statuali, e in particolare dal ricorso ai mercati finanziari, in particolare al capitale di investimento proveniente dall’estero. Il caso di Roma è esemplare. L’accesso da parte delle grandi città a risorse aggiuntive è certamente parte della ricerca di nuove soluzioni istituzionali. In astratto, un’organizzazione metropolitana dovrebbe produrre risparmi dal lato delle spese correnti, ed eventualmente una maggior capacità
organizzativa dal lato dell’organizzazione fiscale.
In concreto, le iniziative a favore delle aree metropolitane sembrano influenzate più dalla possibilità
di accedere a risorse straordinarie dello stato, indebitamenti sui mercati finanziari, o a catturare investimenti esteri. Né va scordato che tutto il mondo vede una crescente autonomia dell’azione politica dei sindaci, la crescita di leadership locali, tutti elementi che aprono spazio di crescita alle città.
Al punto che si discute se le città si stiano comportando come nuovi stati, e se operino addirittura
come città-stato contro le nazioni31.
Ma l’autonomia finanziaria delle città alimenta una dinamica competitiva, in particolare con le regioni che, in particolare nei paesi membri della Unione Europea, sono implicate nella definizione
delle aree metropolitane, nelle responsabilità dello sviluppo economico, nel governo della variegata
configurazione territoriale. In questo caso, il discorso propriamente metropolitano delle grandi città
può risultare in contrasto –su questioni di rilievo, come l’efficienza nella prestazione dei servizicon le aspirazioni delle regioni a governare il complesso equilibrio tra città e regioni32.
Un’ultima considerazione riguarda la concentrazione. La metà dei paesi europei concentra tra il
12% e il 50% della popolazione nazionale nella capitale, spesso a detrimento (si sostiene sovente,
con rituale approssimazione) della vivacità delle altre città. Situazione certamente poco significativa
per l’Italia, dove nel più estensivo dei conteggi, l’area metropolitana di Roma accoglie meno del 6%
della popolazione e, come detto, le città intermedie sono numerose e relativamente robuste.
28
Per l’ultimo tentativo esperito in Italia, mi permetto di rimandare al mio Cremaschi 1990.
Clamoroso quello del GLC di Londra: Brindley et al.., 1989; per l’esempio più recente di Toronto Keil e Boudreau
2005; per le vicende di Los Angeles, Keil 2000; per Montreal, Giecillo 2006; una panoramica europea in Salet et al.
2003.
30
Rassegne in Jouve e Lefèvre, a cura di, 2002: Bagnasco e Le Galès, a cura di, 1997.
31
Opinioni opposte in un classico nordamericano, Peterson 1981: e nel più recente Le Galès 2002.
32
Non a caso, descrivendo Barcellona, Oriol Nello (2003, p. 27) afferma concisamente che “la Catalogna è la città” dal
punto di vista della diffusione dei benefici e delle esternalità proprie della vita urbana (non prive di costi complementari); mentre ribadisce l’opportunità di un’area metropolitana vera e propria, anche solo per l’area ristretta della vecchia
Comunità Metropolitana voluta a suo tempo da Franco. Proprio il fatto di limitare l’area metropolitana consentirebbe,
infatti, di rendere possibile se non di enfatizzare la ‘convergenza’ con la regione, di cui comunque sarebbero strumenti
consorzi ad hoc e un Piano Metropolitano congiunto.
29
Dunque, si pone subito una prima semplice avvertenza. Quando si trasferiscono all’Italia le indicazioni di policy basate sul modello di analisi europeo, si rischia di enfatizzare gli aspetti di competitività tra “campioni” nazionali -le mega-regioni urbane delle capitali- tipici di altre organizzazioni.
Viceversa, non è obbligata la via opposta: la tradizione urbana del nostro paese non deve necessariamente condurre al sostegno di politiche iperlocalistiche, o di difesa delle comunità locali, che al pari
di quelle nazionali, risultano talvolta ‘immaginate’.
Questo intervento alimenta, dunque, una cautela aggiuntiva sul tema metropolitano, che nasce dalla
considerazione che le aree metropolitane sono oggi diverse da quelle attese un tempo. In astratto,
queste avrebbero dovuto garantire il principio di ‘indifferenza localizzativa’, per lo meno per l’organizzazione dei servizi e della vita civile, nonché in relazione ai due ‘mercati’ della casa e del lavoro.
All’atto pratico, le moderne regioni urbane sono vitali proprio perché assai più variegate. Non si
tratta dunque di territori omogenei, né di aree indifferenziate. Soprattutto, non garantiscono condizioni di equità della basi di partenza. Le regioni-città sembrano invece operare -proprio in virtù delle loro differenze- come condizioni fondamentali per la crescita economica (Scott 2001), talvolta
come ‘motori’ delle nuova economia informazionale e sede dei nuovi apparati produttivi (che in
precedenza erano stati legati ai distretti). L’accento viene dunque posto sulla varietà produttiva e
territoriale, sulla capacità delle metropoli di porre i territori in relazione tra loro piuttosto che sulla
integrazione funzionale.
Non stupisce dunque che le aree metropolitane in Italia sembrino -già ora- fare a meno delle politiche nazionali e regionali. Una rinuncia inespressa, che avviene quasi in modo implicito, e che quindi non alimenta la ricerca di soluzioni istituzionali e, in particolare, la definizione di un governo metropolitano unitario. Allora, la ragione per affrontare il tema del governo metropolitano dovrebbe
soprattutto riguardare la qualificazione delle politiche nazionali di sviluppo (e in particolare di quelle innovative). Vale dunque la pena parlare di aree metropolitane e di città ma perché sono responsabili della vivibilità, dello sviluppo, della competizione; e perché perseguiranno questi obiettivi anche senza una politica collettiva, ma forse con minor risultati e più divari.
Può essere utile parlare di governo delle aree urbane e metropolitane a condizione che si precisi
quale ambito di riferimento della vita urbana si intende privilegiare (Crouch 2006, per una più estesa trattazione): la concentrazione e la sovente correlata congestione, da un lato, che conduce però a
scelte di investimento, spesso di politiche latamente infrastrutturali; o il carattere relazionale e di interfaccia, che conduce a scelte più selettive e orientate a quel vasto dominio che si chiama spesso
'competitività'. Nei due casi, il modello di governo metropolitano potrebbe variare. Più simile a
un’autorità unitaria, nel primo caso; a un accordo multilivello nel secondo.
Diverse origini delle politiche urbane nei paesi europei
La prima questione da affrontare riguarda la presenza di una politica urbana nei paesi in questione;
un’osservazione che non sarebbe stata scontata due decenni fa quando più forte appariva la crisi urbana.
Un po’ sommariamente, si può ricordare che politiche per le città sono state fatte nei diversi paesi
per finalità assai differenti, la cui varietà è stata all’origine dello sviluppo degli approcci integrati.
Finalità degli approcci integrati era infatti aggredire una situazione complessa agendo su una varietà
di fattori; spezza le catene causali (penalizzazioni fisiche o sociali, scarsa attrattività, abbandono e
ulteriore depauperamento) che inviluppano situazioni deboli in percorsi perversi cumulativi; ma anche rinnovare i modi di intervento dell’azione pubblica.
Di questi episodi, se ne possono elencare alcuni: dare sostegno e rigenerare la base economica urbana nel frangente della ristrutturazione della fine anni ’80; recuperare condizioni di minima funzionalità nelle attrezzature e nelle infrastrutture di base sia per attrarre nuove attività economiche, sia per
contrastare le nuove forme di povertà ed esclusione sociale divenute apparenti nel corso degli anni
’90; avviare la ricomposizione fondiaria e il rinnovo immobiliare, accompagnando il “rinascimento”
urbano della fine decennio scorso, anche ricorrendo a opere pubbliche di rottura (i grandi progetti, le
gradi esposizioni)…
Ricordare questi episodi e le diverse finalità che li giustificano ha oggi due significati, tutti e due da
discutere in questa sede:
a) il primo riguarda la legittimità stessa delle politiche urbane, che non solo non sono strutturate né
salde, anzi hanno registrato più bassi che alti negli ultimi anni; soprattutto rivelano una natura
strategicamente composita, perché rivendicata da attori che parteggiano per interpretazioni diverse (sostegno sociale, di recupero di fabbisogni infrastrutturali e politiche di sviluppo) di cosa
debba essere la politica urbana di un paese o dell’Unione; l’avvertenza che ne segue riguarda il
senso sovente problematico della distinzione tra iniziative (una strada, un’infrastruttura, sostiene
lo sviluppo, la coesione o recupera un fabbisogno?) a prescindere dunque dalle interpretazioni
ideologiche o dalle intenzioni strategiche;
b) il secondo riguarda più specificatamente la domanda di come –nelle politiche territoriali in essere- la competitività del paese venga associata al territorio, al di là della crescente attenzione ottenuta anche da parte degli scienziati economici. Questa presenza si avverte in qualche modo in
tutte le politiche dell’Unione e dei paesi membri degli anni Novanta, ma spesso in modo rituale:
i quadri nazionali di indirizzo riconoscono infatti le componenti territoriali dei sistemi economici ma non sempre sostengono la centralità del territorio nei fattori di localizzazione.
Il ritorno delle città
Si può dunque a questo proposito osservare che la presenza della “città” nella riflessione sullo sviluppo economico, e di conseguenza nelle politiche corrispondenti, è andata aumentando in questi ultimi 20 anni.
Con una rapida passata a volo di uccello, si possono identificare alcuni temi e argomenti significativi:
- per prima cosa, studi e ricerche di ambito comunitario hanno fornito una mole crescente di argomenti sulle dimensioni territoriali dello sviluppo europeo e sul ruolo specifico delle città33, sia
pur con discontinuità nel corso dell’ultimo decennio; le ragioni di questa ripresa sono numerose
e complesse (Cremaschi 2005), ma in generale dipendono dalla convinzione che alcuni esiti politicamente cruciali - crescita, innovatività, e consenso- siano prodotti prevalentemente in ambito urbano;
- inoltre, non si sostiene solo l’importanza delle città, ma si sostiene che la situazione locale delle
città deve essere oggetto della politica nazionale; e viceversa che le iniziative urbane possono
esercitare effetti moltiplicativi apprezzabili (sia pur nel lungo periodo). Questo è per esempio il
filo conduttore del rapporto sulla competitività delle città, svolto per il ministro inglese e gli enti
locali (ODPM 2004) che si è concentrato soprattutto su 8 core cities (aree metropolitane intermedie –Birmingham, Leeds, Liverpool…) in condizioni non entusiasmanti (Savitch e Kantor
2002);
- ancora più specificatamente, le ricerche hanno da tempo evidenziato che le città sono diversamente specializzate e sono uno dei punti di giunzione tra settori produttivi e territori. Oggi questo aspetto trova traduzione in politiche. Il lavoro sui “poli di competenza” in Germania (Kompetenznet.de, 2004), in parte recepito nelle linee guide nazionali, mette in rete città e territori a
diversa specializzazione. L’accento è posto sulla cooperazione metropolitana, che significa non
solo forme soft di aggregazione sovracomunale ma anche un’idea di organizzazione delle competitività differenziali.
- similarmente, la Datar in un recente documento sulla “Potenza industriale della Francia” (Datar
2004) propone la creazione di poli di competitività territoriali intorno alle agglomerazioni pro33
Solo per citarne alcuni, numerosi progetti dentro al Pic Interreg; le reti di ricerca europea quali quella sulla Performances economiques des regions Européennes, Gemaca, 2002; la stessa Oecd, che organizza nel 2005 un convegno a
Maiorca dopo 10 anni di interesse al tema (Oecd 1995 e 2005).
-
duttive, le reti tecnologiche, la ricerca pubblica privata e le università; in particolare, una riflessione sulle occupazioni metropolitane superiori riconosce a queste il 32% della crescita degli
impieghi dopo il 1990, e la crescente integrazione metropolitana delle città;
infine, l’ultima argomento da riportare riguarda la convinzione che la città federa l’area intorno
e la aggancia alle dinamiche europee. A seguito del Ciadt (il comitato interministeriale per lo
sviluppo del territorio) del 2002, la Datar nuovamente lancia “una strategia nazionale di rafforzamento dell’offerta metropolitana della Francia in Europa”: il rapporto Blanc al Parlamento 2004 insiste sulla ricerca, la rifondazione delle università, e il rafforzamento delle azioni delle
regioni per l’innovazione; uno studio comparativo della Datar del 2003 (riprendendo l’anticipatrice classificazione di Brunet del 1989 sulla competitività delle città europee), constata nuovamente la gerarchia relativa stabile delle città, e ragiona sugli effetti di rayonnement e di integrazione europea.
La centralità politica
C’è una ragione per tutto ciò, ed è evidentemente la capacità di mobilitazione di consenso delle città. Questa convinzione giustifica qualche retorica e qualche concessione.
La Commissione afferma frequentemente che le città sono i motori della crescita economica e dell’innovazione. In cambio, la Commissione chiama a sostegno gli attori politici locali, anche promettendo –nei nuovi regolamenti- un maggior ruolo per le città.
I sindaci rispondono volentieri, pur con qualche sfumatura. Le grandi città richiedono più autonomia, riconoscimento e fondi: sostengono che le città sono al tempo stesso ricche e decisive per lo
sviluppo competitivo della Ue (d’accordo con la Commissione); ma sono anche povere e necessitano di sostegno per le gravi disparità interne (misurate dalle nuove serie di indicatori prodotte dall’Urban Audit). Quindi rivendicano maggior controllo sui programmi delle regioni e degli stati, che
potrebbero escluderle, ed anche lo studio delle disparità infraregionali, che rivelano la presenza di
sacche importanti di povertà anche nelle aree e città più ricche.
In realtà la combinazione degli elementi è elevata. Nelle risposte dei sindaci non mancano interpretazioni opposte: si richiede il sostegno alla ricerca tecnologica (prioritaria ad Helsinki e Stoccarda);
oppure alla produzione e riqualificazione di alloggi sociali (rivendicata contro all’esclusione dal
nuovo regolamento da Budapest e, in generale, dai nuovi membri).
Ancora più che nel caso delle regioni, le città europee testimoniano una varietà di percorsi che dipendono da variabili interne (la capacità di organizzazione strategica di forti coalizioni di governo:
Barcellona, Helsinki), da performance nazionali (lo sviluppo dell’economia irlandese per Dublino,
l’effetto paese per Madrid), che da variabili esterne (la deindustrializzazione di Manchester e Torino) ed eventi politici (la riunificazione a Berlino) con forza di shock.
Infine, un ultimo tema è cruciale. Nel conventional wisdom comunitario sviluppo e coesione, innovazione e sostenibilità sono associati come obiettivi politicamente sullo stesso piano.
Anche se lo fossero, ed è improbabile che lo siano, dal punto di vista delle pratiche il problema diventa quanto sviluppo, quanta coesione, quanta innovazione, quanta sostenibilità vadano sacrificati
per costruire un percorso di sviluppo.
La riflessione sulla base di assets territoriali presenta diverse tecnicalità; il problema principale è
però se è possibile ricondurla a degli output di performance, e su quali dimensioni (produttività, impiego, qualità, coesione sociale…) siano misurabili le performance. Quando la Commissione afferma che le città “sono sul fronte nella battaglia per la sostenibilità ambientale e l’inclusione sociale”,
o l’innovazione e lo sviluppo, afferma che sono tra gli attori capaci di gestire le ricadute politiche
dei costi marginali del perseguimento dei diversi obiettivi.
Invece, le politiche urbane sono accreditate da tutti per tutti gli obiettivi, il che non può non ingenerare qualche ambiguità. Non si tratta di valori territoriali indipendenti e sostituibili l’uno dall’altro
(qualità ambientale e accessibilità, per esempio); e quindi non consentono comparazioni marginali
tra territori; bensì si tratta di valori sostanzialmente integrati, che caratterizzano in modo strutturale
la qualità di un territorio, rendendolo attraente o meno.
Innovazione e competitività nelle città
Innovazione e competitività sono nozioni che sollevano problemi alle politiche territoriali e urbane.
L’obiettivo di queste ultime –nel quadro dei fondi strutturali- sarebbe quello di promuovere lo sviluppo del territorio, rispettando i principi di sostenibilità e coesione. Lo sviluppo dei territori si nutre di processi innovativi in contesti di competizione tra fattori e territori stessi, ma la relazione tra
innovazione, competitività e territori solleva qualche problema.
È sempre utile precisare che la nozione di innovazione è centrale nelle politiche sociali e nelle politiche territoriali, ma terribilmente complicata da applicare e rintracciare nei percorsi attuativi, dove
appare in modo anche più complesso e dissipativo di come si manifesta nei processi tecnologici.
Soprattutto, se pur si registrasse un certo consenso sulla consistenza e robustezza delle relazioni tra
innovazioni tecnologiche, urbane e sociali, la questione appare complicata dal punto di vista delle
politiche. ‘Produrre’ innovazione con politiche pubbliche non è facile, e non è facile in un contesto
sottoposto a tensioni e divaricazioni. Le descrizioni delle innovazioni introdotte nei sistemi dei distretti, per esempio, hanno evidenziato tutte le difficoltà di fronte alla congiuntura. Inoltre, i processi
di internazionalizzazione prospettano dei percorsi particolari proprio per alcune delle situazioni più
interessanti (un potenziale effetto di propagazione in altri paesi, non scontato peraltro e forse non
sufficiente).
A fronte di tutto ciò non è inutile rilevare che le politiche possibili sono sovente “molto differenziate” (Ciciotti 1993) considerazione che significa, ad un esame accurato, disomogenee (e relativamente scontate) da un lato; e fortemente dipendenti dal contesto dall’altro.
La questione della competitività, al contrario, ha ottenuto una forte attenzione da parte anche di
scienziati economici, che non solo ne riconoscono le componenti territoriali, ma sostengono la centralità del territorio nei fattori di localizzazione. In questo caso, non si tratta di valori territoriali indipendenti e sostituibili l’uno dall’altro (qualità ambientale e accessibilità, per esempio); e quindi
non consentono comparazioni marginali tra territori; bensì si tratta di valori sostanzialmente integrati, che caratterizzano in modo strutturale la qualità di un territorio, rendendolo attraente o meno.
E quindi, la definizione astratta di competitività territoriale non è sempre un criterio sufficiente a
orientare le politiche di sviluppo in un ciclo di programmazione comunitario relativamente breve.
Nel processo di globalizzazione dell’economia si producono effetti specifici sulla città, ampiamente
descritti dal dibattito sulla città globale. Già da qualche anno si sottolinea l’impatto rilevante della
decuplicazione degli investimenti finanziari diretti esteri sui luoghi dove “atterrano” (e, non si scordi, su quelli che abbandonano o ignorano). Conseguenze per il territorio sono rilevanti non solo dal
punto di vista finanziario o degli investimenti, ma anche per quanto attiene:
- la compenetrazione tra reti locali e globali, l’integrazione esterna che un’area coesa è in grado
di attivare o non attivare con reti lunghe; il presupposto di questa idea è che il mondo non sia
più organizzato a ‘grappoli’ o ‘strati’, alla Braudel, con centri urbani intorno ai quali si organizzano delle “economie mondo”, ma piuttosto in reti nelle quali è la dimensione verticale (l’integrazione tra i molti livelli delle reti) quella qualificante; questo aspetto riarticola fortemente l’idea di innovazione, ridimensionando il peso degli aspetti più propri alle dinamiche tecnologiche
e imprenditoriali, e riportando l’attenzione su alcuni degli effetti di governance delle politiche
pubbliche;
- la priorità delle forme di relazione tra soggetti, luoghi e attività (un aspetto temporalmente e spazialmente molto caratterizzato) e il corrispondente indebolimento dei fattori di prossimità; a differenza dello schema economico christalleriano (le economie gerarchizzate a seconda della distanza dal mercato di sbocco) la tendenza dell’economia - si afferma- è la riduzione dei tempi
del ciclo produttivo e la strutturazione autonoma della logistica come distinto spazio di sincro-
-
nizzazione delle economie; ma sono i territori che si riorganizzano in ambiti di relazioni parzialmente sovrapposti, orientati secondo il senso comune di comunità (di vita, di sapere, di produzione) e reti (politiche e associative) localizzati;
quasi come corollario, salta la distinzione tra centro e periferia, a favore invece di una distinzione tra reti orizzontali. Le città si autonomizzano dal loro hinterland: lo sviluppo dei centri non
riguarda le periferie. Queste stesse peraltro si organizzano in modo aperto dentro un ‘campo urbano’ ampio e diversificato, creando sistemi di relazioni sovrapposti e reti relazionali di diversa
densità con le parti del sistema territoriale. Una delle conseguenze è che il rapporto rurale e urbano perde significato esplicativo, a favore di ibridi tra forme di vita e assetti insediativi, ibridi
di cui si sottolinea sovente il carattere ‘plurale’ (non riconducibile cioè a un unico elemento ordinatore).
Modelli di politiche
Le politiche per la città sono in movimento in tutti i paesi d’Europa. In alcuni casi, è stata anche
suggerita la presenza di un processo di convergenza dei sistemi di pianificazione, certo non esposti
agli effetti della integrazione dei mercati.
Alcuni aspetti d’interesse sono la formazione di azioni -intercomunali o di scala vasta il cui presupposto è la cooperazione tra istituzioni di diverso livello- messa a fuoco nella riforma francese dell’azione territoriale; la formazione del quadro regionale di assetto fisico del territorio in Gran Bretagna
insieme al lungo percorso di flessibilità strategica dell’azione pubblica locale inglese; l’efficacia di
una politica di indirizzo nazionale nel caso di una repubblica federale come la Germania; l’impostazione di politiche strategiche per le città in Olanda e Francia.
Olanda
In Olanda tradizionalmente le grandi iniziative pubbliche sono definite da un quadro nazionale che
comprende diversi dispositivi di valutazione delle iniziative pubbliche. Nell’ultimo periodo di programmazione, 25 città olandesi hanno preparato una strategia di sviluppo integrata sostenuta da finanziamenti speciali di un certa entità (circa 100 milioni di €/anno per 4 anni per una città mediopiccola) intorno ad una idea, una vision di sviluppo articolata su obiettivi chiari e misurabili: la rigenerazione dei quartieri, la coerenza con lo schema regionale ed una forte enfasi partecipativa;
Francia
Dei 50 grandi progetti “per una Francia attrattiva”, ben 35 riguardano la cornice territoriale delle
grandi infrastrutture (8 sono nuove linee TGV, 3 liasons ferroviarie, 5 raccordi per il trasporto merci, 12 progetti di autostrade e strade, 5 progetti di canali e terminali portuali, 2 sistemi aeroportuali).
Altri 15 grandi progetti di sviluppo economico34.
Inoltre, si raccolgono su bando delle proposte per i “Poli di competitività” sulla base della presentazione di un dossier congiunto tra metropoli, prefetture regionali, servizi locali dello stato, servizi
delle collettività territoriali, istituzioni dello sviluppo economico. Il dossier è sottoposto a tre livelli
di valutazione: prefetto regionale, servizi ministeriali ed expertise indipendente di imprenditori e ricercatori.
Un altro bando riguarda le iniziative di cooperazione metropolitana, sempre su procedura concorrenziale di medio lungo periodo (dieci anni) con l’obiettivo di:
34
Grand projet d’urbanisme Euroméditerranée à Marseille ; Grand projet d’urbanisme à Saint-Etienne; Grand projet
d’urbanisme à Lille (zone de l’Union); Projet ARTEM à Nancy; Route des lasers à Bordeaux Pétawatt; Pôle
aéronautique de Toulouse; Cyclotron de Nantes; Projet ITER à Cadarache; Pôle technologique de Massy-Saclay Ile-deFrance sud; Grands projets d’aménagement de Caen-Rouen-Le Havre; Projet Eurodistrict à Strasbourg; Projet Belval à
la frontière luxembourgeoise; Pôle électronique de Bretagne; Futuroscope de Poitiers; Cité du cinéma en Seine-SaintDenis.
-
stabilire forme consultive sovracomunali su precisi esempi (Nantes, St. Nazaire);
raccordare organismi territoriali di peso diverso in modo da strutturare le complementarietà e
garantire un ‘peso’ aggregato di rispetto (per intenderci: Firenze, Pistoia; Padova-Venezia-Treviso);
- aggregare aree transfrontaliere intorno a centri francesi (Lille, Strasburgo);
- sostenere il rayonnement delle città francesi, agendo sulla localizzazioni urbana delle iniziative
pubbliche in materia di: cultura, fiere, congressi, insegnamento, ricerca.
Per far questo si fa leva sulle Agences d’urbanisme (in realtà, centri di expertise tecnica sovralocali,
e di incrocio di saper fare e interessi); l’associazionismo imprenditoriale; la dimensione di scambio
metropolitana tra centro metropolitano e città medie (più che periurbano).
Inghilterra
La riforma della pianificazione proposta in Inghilterra (analoghe iniziative sono avviate in Scozia,
Galles e Nord Irlanda) prevede l’abolizione dei piani struttura e l’assegnazione di una responsabilità
‘strategica’ alle Regioni. La proposta di riforma porta l’intero sistema di planning su due livelli, con
un ruolo strategico -ma più spazialmente finalizzato- delle Regioni (non elettive); e un unico documento, chiamato Local Development Framework- LDF, per ogni district (corrispondente come poteri ai comuni ma di dimensione provinciale). Queste indicazioni devono assumere la forma di una
Regional Spatial Strategy piuttosto che di un classico documento come negli usi britannici (le Guidance), alle quali i LDF devono essere consistenti. Nelle RSS trovano posto le indicazioni sul quadro territoriale, espansioni edilizie, il recupero, lo sviluppo economico, la protezione ambientale e il
trasporto pubblico. Nel nuovo ordinamento, il controllo delle trasformazioni è in ogni modo soggetto al LDF, che vengono però rivisti -almeno annualmente- in accordo alle politiche nazionali e comunque aggiornati ogni tre anni (anche se l’attesa è che le core policies siano relativamente stabili).
Germania
Nella Germania federale, fin dopo la guerra, Länder, città e comuni svolgono ruoli di primo piano
nei processi di pianificazione e di programmazione. Oggi, le politiche urbane di rango ‘nazionale’
sono fortemente influenzate dalla struttura federale. L’insieme delle politiche nazionali riserva crescente importanza alla dimensione territoriale dello sviluppo urbano. Sulla scorta di due documenti
d’indirizzo dello sviluppo territoriale del 1992 e del 1995 il Ministero federale del territorio avvia il
programma d’azione territoriale che traduce le idee-guida in programmi. Gli ambiti d’intervento del
programma sono numerosi e spaziano dagli ambiti regionali di risanamento e sviluppo alla cooperazione transnazionale nella pianificazione territoriale. Lo stato federale (Bund) definisce le linee guida di pianificazione territoriale (Raumordnung), i Länder approvano i piani di sviluppo regionali,
mentre i piani territoriali e l’uso dei suoli sono di competenza di città e comuni.
Nelle politiche federali sono state introdotte più di recente delle iniziative di sostegno della cooperazione e delle reti urbane, nonché di sostegno alla cooperazione transfrontaliera e all’adozione di modelli territoriali che definiscano la forma delle città (l’iniziativa sulla “città compatta”, per esempio,
porta l’enfasi sulla connessione tra centro e aree metropolitana).
Ripartire dai territori
Anche quando si tratta della nuova programmazione dei fondi strutturali, le connessioni territoriali –
e in particolare quelle con le città- non sono sempre esplicite 35. La dimensione territoriale dei pro35
Concludendo uno studio redatto per l’Espon (Osservatorio territoriale europeo) sugli impatti territoriali dei fondi
strutturali nelle aree urbane, è stato recentemente affermato: “in poche occasioni i Fondi strutturali hanno incluso una dimensione urbana esplicita [con l’eccezione di Urban], e i casi studio mostrano un’immagine molto ambivalente su quanto i problemi urbani sono stati indirizzati”. E continua affermando che i riflessi urbani e territoriali sono dovuti alla agglomerazione in aree urbane delle attività economiche oggetto degli interventi di sostegno, mentre la città come tale non
è stata tematizzata, i cambiamenti fisici eventuali sono stati solo una “conseguenza delle azioni economiche” intraprese.
getti di sviluppo è l’unica che garantisce di ancorare un discorso pertinente sulla competizione al telaio delle scelte infrastrutturali e programmatiche delle regioni, dentro e fuori la programmazione
comunitaria. La congiunzione di questi elementi è la condizione per l’efficacia di alcune delle scelte
più importanti di indirizzo dello sviluppo regionale, dentro alle quali possono trovare posto le misure di sostegno a situazioni più specifiche.
Le esperienze del decennio trascorso sono invece esemplari delle difficoltà come pure dei risultati
ottenuti.
In Europa si sostiene che solo Urban –in Italia sovente confuso con un programma di riqualificazione urbana, invece che di lotta all’esclusione sociale in ambito urbano- abbia proposto un approccio
integrato tra diverse misure, dove si ritrova un’utile esperienza di territorializzazione dei programmi.
I paesi membri hanno diversamente tradotto la suggestione a promuovere politiche urbane. Per
esempio, Grecia e Spagna hanno investito maggiormente nelle iniziative urbane dal punto di vista
infrastrutturale; l’Olanda ha utilizzato l’ob. 2 per assegnare a 9 città risorse gestite in autonomia per
l’ambiente, le piccole imprese, la coesione; la Catalogna –prima “regione” europea attiva in questo
senso- ha recentemente avviato un originale programma urbano con caratteri di riqualificazione sociale.
L’Italia –come è noto- ha avviato non senza difficoltà un programma Urban Italia aggiuntivo a quello comunitario. Ha anche cercato di alzare il tiro dei programmi di riqualificazione urbana con i
Prusst promossi dal Mit, che affrontano problemi di infrastrutturazione del territorio e di incubazione di progetti.
Ha anche destinato più di 2 miliardi di euro, nonché 24 Progetti integrati, alle città dell’ob. 1, molto
più di quanto abbiano fatto Urban I e II per l’intera Europa. Finanziamenti aggiuntivi sono inoltre
stati recuperati per programmi sperimentali proprio per le città, per iniziative urbane sostenute con i
fondi Fas, con programmi urbani che hanno fatto seguito ai Pit.
Anche Interreg sta cominciando a dare contributi alla riflessione sullo sviluppo territoriale, tra mille
ripetizioni, qualche buona esperienza pilota e un principio di reti di collaborazione. Insomma, pur
con accezioni diverse (ma questo come si è visto è caratteristica comune delle politiche urbane dei
paesi d’Europa) sono numerosi gli strati attivi di una politica ‘implicita’ per le città.
Questa riflessione offre alla programmazione 2007-2013 un suggerimento. Se sono i territori i luoghi della fertile ‘confusione’ con le politiche, le scelte territoriali dovrebbero orientare l’insieme del
programma. Nel prossimo ciclo, sarebbe utile semplificare il modello generale e contemperare tra
loro scelte prese con criteri programmatori diversi: scelte che rispettano priorità che possono essere
agevolmente definiti ad un tavolo centrale (regione o ministero), perché affrontano problemi certi e
dei quali è nota la soluzione; e scelte che hanno invece bisogno di un modello negoziale e politico,
forse più rischioso nei tempi ma più incisivo negli esiti di coordinamento, perché lo scopo in questo
caso è mobilitare risorse ‘altre’ rispetto a quelle a disposizione del centro.
Città e strategie
I Piani Strategici arrivano in Italia come gli ennesimi prodotti di quindici anni di sperimentazione
nelle politiche pubbliche. Ultimo arrivato e ancora informale, è già problematico comprendere in
che relazione si ponga con gli strumenti procedenti e, in particolare, con i PIT che nel Mezzogiorno
hanno investito le politiche urbane. Non ci sono mai state così tante risorse a disposizione delle città
come quelle investite dall’Asse Città e dai PIT urbani nelle regioni Obiettivo 1. La capacità di costruire, di far crescere l’orizzonte strategico dei progetti in essere è un test decisivo per tutti e, a
maggior ragione, nelle città capoluogo del Mezzogiorno.
Fatta questa premessa, va detto però che in Italia non abbiamo avuto finora compiute politiche urbane. Non abbiamo capitoli di spesa dedicati alle politiche urbane neanche lontanamente comparabili
con quelle europee: ogni anno la Francia spende forse venti volte l’importo dei nostri ministeri centrali.
È pur vero che c’è un ritorno delle città in Europa, ma non possiamo prendere questo dato come un
evento ovvio e banale, in particolare per il Mezzogiorno. L’Europa porta avanti l’idea di aggiungere
altri territori come ‘motori’ dell’economia. L’esempio è tratto da altri continenti: accanto alla East
Coast (New York, Boston…) c’è negli Stati Uniti Chicago, un grande motore agronomico-industriale con una sua specifica finanza; o Los Angeles, con l’industria elettronica, il cinema, il complesso
militare ecc. Lo sviluppo strategico delle città d’Europa porta appresso alcune convinzioni sulla
competitività urbana. Bisogna però sottolineare che queste aspettative di crescita territoriale alla
scala continentale impongono dei prerequisiti molto specifici.
Il primo prerequisito riguarda la concentrazione settoriale ed è difficilmente realizzabile in Europa.
La concentrazione in un’area di settori produttivi coerenti richiederebbe tempi lunghissimi di gestazione e il superamento di resistenze nazionali tuttaltro che deboli (ad esempio, è impensabile che il
mercato cinematografico europeo si concentri in un territorio specifico come negli USA avviene con
Hollywood). È inoltre difficile pensare che in Europa un territorio assuma una specializzazione produttiva così specifica da escluderne delle altre, vista la pluralità e complessità dei territori europei
(ad esempio molto difficilmente la Puglia potrebbe specializzarsi come ‘terra dei pensionati’ così
come avviene in Florida).
Il secondo prerequisito rigurda la mobilità dei capitali di investimento. Quando si parla di Piano
Strategico, sovente si prende a riferimento la città di Barcellona, che ha già avviato un paio di Piani
Strategici. Il successo di Barcellona è però un successo eccezionale, difficile da copiare: è la città
che, avendo grandi risorse di capitale sociale, grandi risorse umane, e una grande coesione politicoistituzionale, ha colto un momento cruciale della transizione del suo paese, dal post-franchismo al
post-industriale, e ha saputo collocarsi in questa dinamica. Si tratta di una situazione molto specifica
e per nulla paragonabile al modo in cui in Italia è stata affrontata la fase di transizione al post-industriale degli anni ’80. In Italia è stato sottovalutato il cambiamento in atto, da un lato da coloro che
volevano difendere un vecchio manifatturiero, partiti e sindacati in prima persona; dall’altro da coloro che avrebbero dovuto capire quali fossero i nuovi settori di crescita economica (e da questo lato
ci sono anche le responsabilità delle industrie italiane).
Il terzo requisito riguarda la dimensione e profilo produttivo dei centri urbani. Come già ricordato,
l’Italia presenta strutture territoriali e urbane peculiari. A cominciare dalla storicamente classica divisione in due: c’è un Nord più ricco e un Sud meno ricco; vi è una polarizzazione tra regioni con
diversa capacità produttiva a cui corrisponde una diversa gamma di fenomeni sociali. Pur tenendo in
mente questo dato di partenza, l’Italia è un paese dinamico e complesso. Gli ultimi dati del censimento disegnano una struttura più articolata: il manifatturiero non è scomparso, l’arco prealpino
nell’Italia del Nord Est cresce e altre aree trasversali crescono di più del resto del paese. E le città
non sono solo terziarie: sono insieme terziarie e manifatturiere. Abbiamo un paese che per certi versi è ancora diviso in due, ma per altri versi ha una geografia del settore produttivo più complessa, e
sopra queste geografie si disegna una struttura postmoderna ancora più complicata del capitale umano (laureati, lavori innovativi).
Quel che si vuole sottolineare è che la struttura urbana italiana ha delle particolarità rispetto il resto
dell’Europa che, molto semplicemente, potremmo riassumere così: in altri paesi (in Francia, per
esempio) c’è una grande capitale, che è anche il principale motore economico, e ci sono tante altre
grandi città. La stessa cosa succede in Spagna, Inghilterra, ecc. In questi paesi le politiche urbane e
il discorso sulla competitività nascono anche da questa struttura gerarchica molto forte.
In Italia non c’è una grande capitale. Vi sono, piuttosto, delle città che sono numerose, diverse, e vi
sono delle “città regionali”, ovvero città che innervano dei sistemi produttivi regionalizzati. Vi sono
delle città che nei ultimi 10-20 anni hanno continuato a disperdersi, hanno continuato a diffondere
residenze fuori dai propri confini, hanno creato sistemi territoriali ancora più complicati, dispersi,
diffusi di quanto già non fossero negli anni ’70 e ’80; anni in cui le città europee cominciavano parzialmente a riconcentrare tanto che oggi hanno alle spalle 30 anni di investimenti urbani sulle attrezzature ferroviarie, di sostegno al pendolarismo e di cura dei mali della congestione.
Selettività e negoziato
Si è quindi di fronte ad una situazione molto complessa, con luci e ombre, alcune punte avanzate,
alcuni problemi ben noti. Uno dei rischi di introdurre un termine nuovo è che il piano strategico
sembrerebbe riportare l’attenzione intorno all’idea di grande progetto pubblico. Certamente non è
l’intenzione dei proponenti, ma il timore è che il desiderio di un ritorno dello Stato (che spesso è un
desiderio strumentale e capzioso …), sempre latente, faccia leva su nuove terminologie.
Infatti, un’idea possibile di piano strategico, spesso adombrata, è che esista un metodo più sofisticato e più certo di quello in uso, spesso viziato dai giochi politici di scarso spessore, per prendere le
decisioni giuste e condivise con degli orizzonti più ampi. In realtà non è così. Come non esiste un
metodo per prendere le decisioni perfette, così non esiste una decisione giusta in astratto.
È necessario quindi definire cos’è il Piano Strategico. Quando si parla di Piani Strategici, non si fa
riferimento né a un piano interamente definito, né ad una strategia totalmente autonoma, ma ad un
processo che combina con accortezza risorse di autorità, risorse economiche e finanziarie, in orizzonti di tempo e di potenzialità che dipendono dalle interdipendenze tra i progetti.
Questa definizione ci autorizza a pensare che scopo dei piani strategici sia partire dai progetti esistenti, farli crescere, legarli con altri, magari raddrizzarli un po’, ma non necessariamente reimpostarne di nuovi.
Un processo siffatto non ha quindi velleità disciplinari, ma molto pratici obiettivi, di non poco conto. Si tratta infatti di decidere un insieme di azioni sotto quattro vincoli restrittivi: a) le poche significative cose; b) che è possibile realizzare in questi territori; c) in un arco di tempo limitato; d) con
le ultime risorse (strutturali) disponibili. Quindi, se si vuole produrre un pacchetto di operazioni un
minimo coerenti, tra loro integrate, che rispettino i vincoli descritti, occorre che venga collettivamente esercitato un senso di responsabilità elevato.
Inoltre, in Italia è molto forte il discorso sulla partecipazione dal basso che ha influenzato perfino gli
ambienti del Ministero della Programmazione Economica e strumenti dello sviluppo locale come i
PIT. È stato un discorso propulsivo e molto avanzato, che risponde però ad un modello esigente, che
richiede notevoli risorse di consenso e presuppone un mercato che funzioni in modo efficiente e
cooperativo. È il modello adottato nelle politiche urbane olandesi, dove per fare le cose ‘difficili’ si
usa il modello di piano strategico partecipato; dando per scontato che le cose ‘normali’ le facciano i
privati, perché lì il mercato distribuisce le risorse in maniera efficiente e regolata.
Ma tale situazione non è paragonabile a quella italiana, dove non vi è un mercato efficiente e non vi
sono imprenditori capaci di proporre in modo convincente i propri progetti anche alle parti sociali. Il
problema italiano non è quindi soltanto quello di coordinare frotte di progetti di impresa e metterli a
sistema, è piuttosto quello di creare tale domanda di progetti. Con tali osservazioni si vuole mettere
in guardia dall’assumere modelli stranieri che si basano su presupposti che in Italia si verificano in
maniera più debole o diversa. Anche Torino, ad esempio, è un’eccezione, poiché ha già un risorsa di
consenso, di istituzionalizzazione di queste decisioni, che ne fa un caso a parte.
Il Piano Strategico è un’opportunità per legare insieme, anche se non necessariamente in un unico
canovaccio, modelli di autorità diversi. Alcune cose possono essere rapidamente ed efficacemente
gestite dal pubblico, con decisioni top-down: le reti tecnologiche, ambientali, le questioni relative
all’energia, all’acqua, al suolo; tutti elementi fondamentali per lo sviluppo, che una buona organizzazione dello Stato dovrebbe garantire. Si tratta comunque di servizi che lo Stato deve e può imparare a gestire rapidamente, dato che è in possesso delle conoscenze necessarie, e che riguardano elementi della competitività strategici e non sostituibili.
Sarebbe utile semplificare e, per quanto riguarda le città, bilanciare scelte prese su modelli programmatori diversi: scelte che rispettino alcune delle priorità e dei criteri che possono essere agevolmente definiti ad un tavolo centrale (regione o ministero), perché affrontano problemi certi e dei quali è
nota la soluzione; e scelte che hanno invece bisogno di un modello negoziale e politico, forse più ri-
schioso nei tempi ma più incisivo negli esiti di coordinamento, perché lo scopo in questo caso è mobilitare risorse ‘altre’ rispetto a quelle a disposizione del centro.
Quanta selettività e quanto negoziato? I due indirizzi su cui si stanno muovendo in Europa offrono
miscele diverse, su combinazioni di risorse per certi aspetti illuminanti.
Paesi come la Francia, paesi come la Gran Bretagna promuovono una politica di “accoppiamento
giudizioso” tra territori eccellenti e filiere produttive che si candidano a diventare i grandi progetti
strategici del sistema paese. Sembra possibile obiettare che tale politica poco si adatta al Mezzogiorno e, soprattutto, presuppone la presenza di uno Stato capace di un grande disegno pubblico con valenza territoriale. Quando in Francia si decide un progetto, ad esempio, come quelli per Marsiglia ed
Aix-en-Provence, si spostano istituti di ricerca, laboratori, fabbriche, e centinaia di addetti oltre ad
investire cospicui finanziamenti pubblici.
Un secondo modello presente in Europa è quello dei programmi strategici che hanno lo scopo di
creare certezze di investimento attraverso accordi di programma tra i diversi livelli istituzionali, le
università, gli investitori economici che fanno parte della galassia pubblica… Questa è la strada
scelta dall'Olanda, un paese di piccole città e per questo interessante per l’Italia. Qual è l'avvertenza
in questo caso? È naturalmente un esempio caro a chi ha seguito, con iniziale entusiasmo e con fatica progressiva, l’esperienza dei Pit e dei Piani Strategici, nel Mezzogiorno in particolare. Questo
modello concentra l'attenzione sul programma strategico perché non ha bisogno di presupporre una
coalizione di attori privati che fanno mercato, che fanno investimenti e che sanno stare all'altezza di
questi strumenti pubblici.
Non si può però dare per scontata né la capacità di intervento pubblica, né la presenza degli investitori privati. Il problema è, al contrario, di graduare la combinazione tra i due; e, inoltre, di individuare le risorse che possono essere attivate in aggiunta agli investimenti pubblici e privati.
Nella cooperazione territoriale, che non a caso diventa uno dei prossimi obiettivi dei fondi strutturali, sono state messe in vista le risorse associative che le città possono mettere in campo, di fare rete
orizzontale con altre città e scambiare esperienze e capacità. Questo avviene se sono disponibili altre condizioni, come la capacità di leadership, di governance, di dare risposte brevi in tempi certi.
L'ultima risorsa, in apparenza più elusiva, è la “riserva di futuro”: una dizione che potrebbe sembrare astratta e retorica, ed è invece uno dei titoli della programmazione regionale tedesca. Significa
avere ancora capacità di movimento e, a questo scopo, proteggere le residue aree libere, incentivare
l’elasticità delle risorse umane e della cooperazione, investire sull’istruzione, disporre di un paniere
di progetti tecnici pronti da implementare...
Infatti, la prossima programmazione non potrà basarsi solo sulla programmazione di risorse pubbliche, come forse sarebbe inutile illudersi anche di mobilitare tante risorse private… Deve al contrario mettere a fuoco risorse diverse: associative, di leadership, flessibilità, di riserva… E deve saperle combinare con abilità su diverse scale territoriali. In definitiva, ci si deve chiedere quanta rigidità
programmatoria, quanta libertà negoziale si vuole concedere nei documenti regionali e nei documenti nazionali.
Quattro combinazioni possibili
Quest’interrogativo può trovar risposte convincenti se articolato sulla scala delle diverse risorse attivate; e per ciascuna combinazione sembra possibile individuare una specifica modalità di territorializzazione.
La prima combinazione potrebbe manifestarsi in pochi e selettivi progetti di territorio che assicurino
scelte note e consensuali, ragionevolmente centralizzate. Un investimento di risorse pubbliche all'interno di un sistema di programmazione tradizionale -il cui prezzo è una perdita di sovranità politica,
perché significa aderire ad un programma selettivo e costringersi a delle rinunce- potrebbe essere un
obiettivo limitatamente ad alcuni importati settori: acqua, inquinamento, energia, rischio e messa in
sicurezza ambientale, coste, da un lato; accessibilità, logistica, rapporto tra territori e grandi infra-
strutture, dall’altro. Sono elementi territoriali strategici sui quali si possono concentrare le scarse risorse pubbliche e soprattutto attivare il sistema delle imprese locali, come partner e finanziatori.
La seconda combinazione riguarda più propriamente le città e la riqualificazione urbana, un’impresa
di lungo periodo e di elevati costi. La posta in gioco non sono tanto, in questo caso, le risorse pubbliche, comunque insufficienti. Il problema è attivare un mercato,che adesso non c'è, e dargli obiettivi virtuosi. I programmi integrati sperimentati finora hanno assunto confusamente queste caratteristiche, ma sono stati limitati nello spazio e nel tempo. Diverso è il caso se, come pure raccomanda
la Commissione, si pone mano a programmi strategici di lungo periodo, che sappiano invogliare gli
investitori privati.
La terza combinazione riguarda le aree urbane di emergenza, i quartieri degradati, poveri, spesso lasciati alla criminalità organizzata. Le realizzazioni in Italia sono insufficienti ed episodiche. Lo stesso Urban è stato un modello sperimentale, mentre la Francia avviò programmi per più di 500 quartieri. Su questi programmi, oltre alle risorse pubbliche e a quelle private, serve un’altra risorsa: la
capacità di fare network, perché questi programmi si reggono sulla capacità di innovazione dell’intervento, sulla presenza di operatori qualificati. La dimensione del network è qui cruciale.
Infine, l'ultimo elemento, la competitività dei territori, richiede un regime di selezione dell’eccellenza. Territori, università, il sistema degli attori pubblici e privati devono essere messi in forte competizione fra loro per produrre la massima capacità di intervento. Gli “enzimi” presenti nel territorio
meridionale - poli tecnologici, centri di innovazione- non devono essere protetti, piuttosto devono
concorrere per eccellere. Solo a questa condizione gli accoppiamenti giudiziosi tra territori e filiere
tecnologiche saranno fertili per lo sviluppo delle regioni del Mezzogiorno.
In conclusione, quattro modelli di progetti territoriali per mobilitare mix diversi di risorse:
- pochi progetti di territorio alla base, su un modello più ‘direttivo’ e concentrato su risorse e problemi territoriali e ambientali, dove incontrare le grandi utilities pubbliche locali;
- grandi progetti strategici di riqualificazione urbana, negoziali e di lungo periodo, indirizzati al
coordinamento dei soggetti privati;
- numerosi programmi integrati di quartiere per l’emergenza sociale sul modello di Urban e dei
Soziale Stadt, che premino la capacità di mobilitazione locale e la risorsa di rete;
- una selezione rigorosa di pochi distretti tecnologici territoriali d’eccellenza capaci di ricadute
consistenti sullo sviluppo di settori e regioni.
È necessario tenere distinti questi aspetti da una cosa importante e urgente: il sostegno sociale nei
quartieri difficili. Questo sì, è sede di responsabilità pubblica. Il che vuol dire anche responsabilità
finanziaria (non è uno scandalo affermare che il sostegno sociale possa andare a carico dello Stato).
Il sostegno ai quartieri richiede, però, altre risorse: capacità, coinvolgimento, la rete degli attori, la
mobilitazione dell’intelligenza collettiva per queste cose. Bisogna ben distinguere le prospettive della riqualificazione urbana da quelle del sostegno sociale, e dare ad essi spazi di legittimità autonoma, su tempi e responsabilità diverse.
In conclusione, il Piano Strategico arriva dopo quindici anni di sperimentazione. Si deve far tesoro
delle cose fatte tenendo presente quali sono stati gli errori ed i vantaggi. Non si deve pensare che il
Piano Strategico sia un’unica cosa, un unico programma: ci sono alcuni ambiti in cui le combinazioni di elementi (autorità, tempi, risorse finanziarie, interdipendenze) sono diverse. È quindi molto
importante saper applicare una combinazione adeguata ai diversi ambiti di pensiero strategico che si
vogliono esplicare sui nostri territori.
Territorio e innovazione nelle politiche regionali
di Marco Bellandi e Annalisa Caloffi (36)
1. Introduzione
All’interno di un percorso di apprendimento istituzionale che coinvolge l’Unione Europea e le regioni che la compongono, si assiste negli ultimi anni a due movimenti convergenti che toccano le
politiche dell’innovazione e le politiche territoriali (comprese in parte le politiche urbane): si tratta,
da un lato, di un generale riorientamento verso il territorio delle politiche per l’innovazione, mentre
dall’altro si osserva una crescente centralità dell’innovazione nelle politiche territoriali.
Questo collegamento è ormai promosso a vari livelli di politica (europeo, nazionale, regionale), ma
è soprattutto a livello regionale che può trovare il suo ambito di realizzazione più coerente. Il riconoscimento di città, distretti industriali, regioni metropolitane e sistemi regionali di innovazione
come specifiche unità di indagine e di politiche è un punto centrale di questo cambiamento, al quale
si associa l’adozione di strutture di intervento (e di identificazione degli obiettivi delle politiche) basate sulla promozione di reti di attori più o meno radicati localmente.
Dopo aver richiamato i fattori generali che sostengono questi movimenti, sarà illustrata, in termini
sintetici, un’analisi dell’incrocio fra politiche dell’innovazione e politiche territoriali, così come risulta dall’osservazione delle politiche disegnate dalle varie Regioni italiane Obiettivo 2 EU.
2. Il territorio nelle politiche per l’innovazione: fondamenti
Incominciamo da una prospettiva europea e in particolare dall’obiettivo strategico, enunciato al
Consiglio Europeo di Lisbona del 2000, di promuovere il passaggio verso società ed economie fondate sulla conoscenza. Centrale è il problema di incorporare capacità elevate di generazione e diffusione dell’innovazione nelle imprese e nella società. Ma il problema può essere visto in modi differenti. Quello tradizionale colloca la generazione dell’innovazione a monte del processo produttivo
in una logica (a-territoriale) di sviluppo lineare, che procede a cascata dall’invenzione e prima elaborazione dell’idea innovativa, in grandi laboratori di ricerca, al suo sviluppo e commercializzazione per l’uso entro la produzione di beni e servizi ad opera delle imprese. Si tratta allora di definire e
somministrare appropriati incentivi monetari nelle varie fasi, anche aiutando l’incontro fra l’offerta
(a monte) e la domanda (a valle) di innovazione, quando le fasi differenti non siano riunite sotto il
“tetto” di grandissime imprese.
Le difficoltà sperimentate su tale via hanno imposto una riflessione sulla multidimensionalità dell’innovazione, e sulla necessità di adottare un approccio sistemico e processuale, abbandonando una
visione limitata alla fiducia delle ricadute positive di un aumento della spesa in ricerca e sviluppo
(pure, ovviamente, necessaria)37. In effetti un’ampia letteratura sull’innovazione riconosce l’impos36
Pur essendo il capitolo nel suo complesso frutto di impegno comune, il paragrafo 3 è da attribuirsi a Marco Bellandi, i
paragrafi 5, 6, 7 ad Annalisa Caloffi. Naturalmente gli autori rimangono i soli responsabili di errori ed omissioni. Una
versione abbreviata del presente lavoro è stata pubblicata col titolo: “Città, distretti, sistemi regionali: incroci fra
politiche di innovazione e politiche territoriali”, in Urbanistica, n. 130, 2006, pp. 18-24.
37
Come si osserva nella COM (2003) 112 (p. 3): “Le descrizioni del processo di innovazione – modelli in un primo momento lineari, che poi evolvono nella concezione sistemica attuale – definiscono la R&S come l’elemento scatenante o
come il fattore decisivo. Sebbene attualmente sia il modello sistemico a dominare le discussioni politiche (con il modello dei sistemi nazionali o regionali di innovazione), molti provvedimenti attuati con l’intenzione di promuovere l’innovazione sembrano essere ispirati piuttosto dalla concezione lineare. Questi modelli ci permettono di comprendere il
caso particolare dell’innovazione tecnologica e giustificano le preoccupazioni per la spesa relativamente bassa per la
R&S nell’Unione. Inoltre, l’evoluzione verso la concezione sistemica indica che si tiene conto in misura sempre maggiore dei numerosi fattori e collegamenti che influenzano il processo di innovazione. Il modello sistemico, tuttavia, non
si riflette ancora pienamente nel modo in cui la politica dell’innovazione è concepita ed attuata, e deve essere svilup-
sibilità di tracciare sentieri lineari, suddivisi in fasi in sequenza prefissata: l’innovazione non è prodotto esclusivo dei laboratori di ricerca, ma coinvolge le relazioni tra ricerca, sviluppo, adozione
dell’innovazione e ambiente economico, sociale e politico con il quale queste interagiscono (Rosenberg 1976; Freeman 1995). Il focus si sposta su processi che si svolgono in condizioni di incertezza,
con feed-back complessi, anche fra le fasi dell’innovazione, soprattutto quando l’ambito proprio di
svolgimento di tali processi sia rappresentato in termini di sistemi di ricerca, sistemi di produzione e
di territori con caratteri sistemici.
Gli insiemi coerenti di agenti e di relazioni hanno spesso caratteristiche territoriali determinate, esistenti o da incoraggiare. Questo può essere interpretato in almeno due modi, che qui e in quanto segue prendiamo come rappresentativi di un ampio spettro di posizioni interpretative e normative. Il
primo è coerente alla visione della competitività propria dell’approccio “organizzazione/impresa”
(O/I)38, secondo la quale l’innovazione si sviluppa entro e fra imprese che incorporano caratteri organizzativi e imprenditoriali adeguati. Siccome buona parte delle imprese (certo in Italia) sono imprese locali di piccola dimensione, l’innovazione dipende anche dalla capacità di un territorio di generare o attrarre fattore O/I, anche se poi la sua utilizzazione è affare interno alle imprese ed eventualmente di scambi fra imprese e fra queste e attori del mondo della ricerca. Il secondo modo di interpretare il processo innovativo in chiave processuale fa perno sulle “forze locali” dello sviluppo
che avrebbero sospinto in Italia l’affermazione dei distretti industriali39. Secondo questo approccio,
processi di mobilitazione e riproduzione di energie imprenditoriali, di attitudini fiduciarie, di basi
cognitive per il lavoro e la collaborazione produttiva e innovativa, non si esauriscono entro i confini
di imprese, industrie e mercati. Si svolgono entro i contesti di vita delle popolazioni di cui i produttori sono parte. La divisione del lavoro intrecciata, per il tramite di tali nessi, con la vita di una società locale, trae da questa sia motivi di sviluppo sia una particolare stabilità nel cambiamento.
Politiche basate su incentivi diretti, eventualmente per domandare od offrire innovazione, hanno
senso nella visione lineare dell’innovazione, alla quale del resto si collega anche la visione della
competitività come carattere interno alle imprese, e non proprio dei territori. In una visione processuale, invece, le "politiche" devono essere volte a stimolare insiemi coerenti di soggetti con potenzialità innovative (dirette o complementari) a un ruolo attivo (o più attivo) nella costruzione, riproduzione e valorizzazione di relazioni proprie di processi innovativi. Le declinazioni “O/I” delle politiche di innovazione possono essere volte alla costruzione di organizzazioni di “eccellenza”, che
hanno origini locali, ma che si muovono agevolmente in spazi non locali, di una rete regionale “virtuale” fra centri di ricerca e imprese “innovative”, o di un’agenzia regionale di innovazione. Certo,
da parte politica e amministrativa, questa declinazione riflette anche il persistere di una predisposizione all’azione top-down.
Alla declinazione “forze locali” si associa la più grande varietà di strumenti per politiche dell’innovazione, per la buona ragione che vi deve essere una significativa componente bottom-up, di concertazione, di governance locale. Per la stessa ragione, non è sempre agevole identificare la politica
dell’innovazione per sé, in quanto questa si trova facilmente integrata con politiche urbane e dei distretti. Comunque, strumento principe in questo ambito è il supporto alla costruzione dal basso di
reti e di rapporti di squadra volti all’incorporazione sistematica e consapevole di conoscenze tecnico-scientifiche esterne per lo sviluppo di conoscenze contestuali.
Se il territorio non è spazio passivo ma sede attiva di processi innovativi, le politiche dell’innovazione si esercitano su unità territoriali appropriate. Queste non sono rappresentate solo da distretti
industriali, ma anche da una più ampia varietà di tipi di sistemi urbani e regionali.
3. Unità territoriali delle politiche dell’innovazione
pato in modo da permettere di comprendere altre forme di innovazione, per integrare la nostra percezione dell’innovazione tecnologica”.
38
Per il caso italiano, il riferimento è alla scuola di Ancona (Fuà 1991).
39
Si vedano per esempio Brusco (1994) e Becattini (2000).
Tre tipi di unità di indagine e di politica si prestano ad illustrare il collegamento fra territorio e innovazione. In primo luogo, col distretto industriale, la presenza di specializzazioni collegate fra produttori indipendenti, di accumulazione di formazione tecnica e di saper fare, di rapporti di scambio
aiutati dalla vicinanza e da basi fiduciarie e cognitive condivise, sono le condizioni di una capacità
innovativa diffusa. Questa capacità, non centralizzata nei laboratori di R&S delle grandi imprese e
degli enti pubblici di ricerca, si coniuga con progetti di prodotto ad alta intensità di variazione e personalizzazione (Bellandi 2003). D’altra parte la concentrazione entro ambiti di produzioni e affari
delimitati facilita anche fenomeni negativi di lock-in.
In secondo luogo, i maggiori centri urbani possono essere città dinamiche, quando siano luoghi di
incontro privilegiato tra culture diverse, tra “comunità” diverse, la cui interazione può generare mobilità ed idee nuove; poli di competenze e professionalità tecnico-scientifiche rare; nodi delle maggiori infrastrutture della formazione, della ricerca, della finanza e logistiche, che assicurano forti
connessioni con l’esterno del sistema, sedi privilegiate di attività di cluster ad alta intensità di conoscenza (high tech, beni culturali, servizi innovativi)40. Ma l’interazione e la mobilità, se non governate, conducono a contraddizioni, scontri, dissesti sociali ed ambientali, che bloccano l’innovatività
o la riducono ad ambiti “ghettizzati” di vita e lavoro per pochi eccellenti (the best and the brightest), divisi dalla massa degli esecutori e degli esclusi.
In terzo luogo, un milieu regionale41 può ospitare un sistema regionale di innovazione costituito da
un insieme di organizzazioni innovative presenti nelle località del milieu e interagenti anche grazie
a strutture regionali della ricerca, della politica e dell’amministrazione pubblica. La triple helix dei
processi innovativi (imprese, ricerca, stato: Etzkowitz 1994) è inclusa necessariamente, ma qui riceve un’opportuna qualificazione istituzionale. Peraltro non basta una collezione di attori dell’innovazione e di località dinamiche in una regione per avere un “sistema” regionale di innovazione: le interazioni possono essere frammentarie ed inconcludenti se la “coesione” entro il milieu regionale
non ha anche carattere di condivisione di una visione dello sviluppo. Ci può essere uno spazio regionale di innovazione ma non un sistema regionale di innovazione42.
Le tre unità sono oggetto passivo di politiche nella visione lineare (soprattutto ambiti amministrativi
di implementazione delle politiche) o soggetto attivo nella visione processuale dell’innovazione.
Consideriamo per esempio un’applicazione generale della declinazione forze locali. Quando i luoghi e i sistemi di produzione e innovazione del milieu regionale sono forti, dinamici, plurali, le politiche di supporto alle reti di innovatori sono volte a rafforzare le capacità creative e progettuali entro
i luoghi, anche mediante la creazione di centri di innovazione di distretto, incubatori cittadini, parchi dell’alta tecnologia metropolitani, ecc. Nel caso di condizioni diffuse di difficoltà locale e fenomeni di lock-in, emerge con più urgenza la necessità di inseminare luoghi e sistemi con traiettorie
tecnologiche aliene. In questo ambito, sono sollecitate la costituzione di reti trans-locali (cioè fra
agenti radicati in luoghi differenti del milieu regionale), e/o l’emersione di “distretti tecnologici”.
Questi ultimi sono espressione di condizioni locali (spesso caratterizzate dalla centralità di rilevanti
tradizioni urbane, città come pilastri43), di combinazione di cluster high tech o high culture con centri di ricerca e universitari di rilevanza nazionale e internazionale aventi specializzazioni congruenti.
Il successo di traiettorie di sviluppo locale di questo tipo può avere, per sua natura, ripercussioni
strutturanti e “sistematizzanti” su tutto lo spazio regionale di innovazione (se non oltre).
40
Cfr. i contributi di Crevoisier e Camagni (2001); Simmie (2001); Florida (2002).
“un territorio minore del suo stato, che possiede un significativo potere economico, politico, culturale ed amministrativo sovra-locale ed una coesione che la differenziano dal suo stato e dalle altre regioni” (Cooke, Morgan 1998, p. 64).
42
È infine da notare che le maggiori aree metropolitane (in Italia Milano, Roma, Napoli) hanno ognuna, di per sé, dimensioni geografiche ed economiche sufficienti a coprire uno spazio, ed eventualmente un sistema, regionale di innovazione. Cfr. i contributi di Diez, (2002), Scott (2001), Crouch (2006) sulle metro-regions.
43
Si veda Bagnasco (2005).
41
4. L’innovazione nelle politiche territoriali: fondamenti e azione europea
Passiamo ora all’innovazione nelle politiche territoriali. La sua importanza è legata alla crescita della concorrenza tra territori e sistemi di produzione e alla sempre più forte sfida concorrenziale che
viene dalle nuove industrie sullo scenario globale: per esempio quelle che hanno trovato una base
territoriale imponente in alcune regioni cinesi, e che si avvalgono, con le tecnologie informatiche e
telematiche, di nuove soluzioni transnazionali e logistiche per la gestione di filiere produttive e
commerciali a scala internazionale.
Le differenti visioni del ruolo del territorio nei processi innovativi si riverberano anche sul segno
delle politiche volte a sviluppare la competitività (e il benessere) locale tramite il sostegno all’innovazione. Vediamo come, riconsiderando gli approcci delineati nel par. 2.
Nella visione lineare dell’innovazione, gli incentivi all’innovazione sono rivolti direttamente alle
imprese e al miglioramento del funzionamento dei “mercati” dell’innovazione, e solo indirettamente
esse possono facilitare lo sviluppo dei territori.
Nella declinazione O/I della visione processuale dell’innovazione, si tratta innanzitutto di favorire la
formazione di competenze manageriali e imprenditoriali di alto livello ma radicate nei luoghi 44. Gli
interventi principali sono quelli volti a facilitare gli investimenti locali delle imprese con maggiori
potenzialità O/I: si tratta di una forma focalizzata di marketing territoriale. A ciò si aggiunge la predisposizione, entro un milieu regionale che comprenda i luoghi delle imprese ad alta intensità O/I, di
centri di ricerca e reti virtuali di innovatori mirate a specifici ambiti tecnologici e di mercato.
Il quadro è più complesso nella declinazione forze locali. Qui la risposta alle sfide globali sta in una
crescita delle capacità locali di fare qualità e innovazione nei prodotti e nei processi industriali e
commerciali; ma anche nella capacità di coniugare le capacità locali con strategie di internazionalizzazione coerenti ai caratteri di fondo dei sistemi di produzione stessi (es. Bellandi et al. 2006). Si
tratta, in sintesi, di disegnare interventi in grado di stimolare “relazioni generative” di innovazioni
tra i diversi attori (Russo 2000; Lane 2002); prevedere la diretta partecipazione degli attori locali nel
design degli interventi; bilanciare l’attivazione di sedi della governance locale e il coordinamento
regionale (e la ricomposizione ad unità) delle strategie elaborate su base locale; favorire l’innovazione, in un’ottica di confronto fra locale e globale (sostegno alla certificazione, alla brevettazione
internazionale, realizzazione di infrastrutture telematiche, master internazionali, ecc.).
A livello di EU, tra gli interventi coerenti all’inserzione di una visione processuale dell’innovazione
entro la politica territoriale (che risente certo anche dell’esperienza e del successo dei distretti in Italia negli anni settanta e ottanta del secolo scorso), ricordiamo in ordine cronologico quattro tipi.
a) I Progetti Pilota Urbani (PPU), nati nell’ambito delle azioni innovative finanziate dal FESR, pur
coinvolgendo marginalmente la realtà nazionale (4 PPU nel periodo 1994-1999, Milano, Torino,
Napoli, Brindisi), sono stati un utile momento di apprendimento. L’“innovazione”, in questo
caso, attiene al carattere innovativo e sperimentale dell’intervento45, sul quale si è poi innestata
l’iniziativa comunitaria URBAN (I e II), a tutt’oggi l’esempio più significativo di politica urbana. Non può essere considerato un intervento di politica per l’innovazione, ma sono presenti interventi di sostegno ai sistemi di produzione locale radicati nelle città.
b) Con URBAN (II), accanto ad interventi per il recupero e la ristrutturazione delle aree urbane ed
azioni per favorire l’inclusione sociale e l’occupazione, i Comuni hanno elaborato azioni rivolte
al sostegno ed all’ammodernamento di infrastrutture per le imprese.
c) Ai RITTS (Regional Innovation and Technology Transfer Strategies and Infrastructure) hanno
partecipato le città di Milano (Provincia) e di Roma (Comune) con propri piani strategici (ma
anche alcune Regioni). Iniziative vicine sono i progetti formulati nel contesto dei numerosi net-
44
45
Vi sono anche risvolti di politica delle sedi della formazione scolastica e universitaria, su cui però non ci soffermiamo.
Si tratta, infatti, di un intervento inserito nelle “azioni innovative” UE.
work IRE (Innovating Regions in Europe), i PRAI ed i programmi rivolti al supporto di reti
trans-regionali di centri di servizio e di innovazione (p.e. Innovation Relay Centres).
d) Il network METROPOLIS (Exchanging Experiences on Innovation in Metropolitan Regions),
ha offerto l’opportunità ai policy maker di esplorare insieme temi comuni con i quali essi si confrontano nelle azioni di sostegno all’innovazione e al trasferimento tecnologico nelle aree metropolitane. Gli stessi obiettivi sono stati ripresi dal network INNOPOLITAN (Innovation and Networking Activities in Large Metropolitan Areas ) per il 2001-2003.
Vi è poi tutta la parte di intervento che passa dai fondi strutturali, su cui torniamo qui entro il paragrafo 6. Si tratta comunque di iniziative che possono assumere come unità territoriale di intervento
sia i distretti, sia le aree metropolitane che le città. In particolare queste ultime divengono poi un’unità di rilievo centrale nelle nuove strategie di sostegno alla crescita e all’occupazione nelle regioni
europee, come elaborate in sede comunitaria (nuovi orientamenti strategici 2007-2013 per lo sviluppo urbano sostenibile)46.
5. L’interazione fra livello nazionale e livello regionale nell’intreccio fra politiche dell’innovazione e politiche territoriali
L’azione dell’Unione europea da un lato ed il decentramento di competenze a livello regionale dall’altro hanno ovviamente ridotto lo spazio degli interventi di respiro nazionale. In Italia sono comunque ancora attivi vecchi strumenti per il supporto all’innovazione, destinati sostanzialmente ad
incentivare le attività di ricerca e sviluppo delle singole imprese. Le politiche territoriali però, a partire dagli anni ottanta, hanno cominciato ad incorporare sempre più direttamente l’idea di sistema di
produzione e di distretto industriale, con la definizione di quadri di intervento che possono ospitare
il supporto a processi innovativi radicati a livello locale. In ordine cronologico ricordiamo, in particolare:
v)
vi)
vii)
viii)
la nascita dei Centri servizi e la promozione alla formazione di consorzi tra le imprese
(Brusco 1994; Bianchi 1985; Ceris 1997);
il riconoscimento legislativo del distretto industriale e le connesse politiche per i distretti
emanate a livello nazionale e dalle singole Regioni (Balestri 2001; IPI 2002);
il supporto centrale ad azioni di sviluppo locale (es. patti territoriali – MEF 2003);
il supporto ai “distretti tecnologici” (Bonaccorsi 2006).
Coi primi strumenti, esplicitamente diretti al sostegno delle significative agglomerazioni di PMI
specializzate, le politiche nazionali hanno aperto la via ad una serie di interventi – elaborati a livello
regionale – rivolti al sostegno all’innovazione ed all’upgrading dei distretti. Su questa base, lentamente, le Regioni hanno adottato o programmato interventi orientati al rafforzamento dei fattori,
materiali ed immateriali, del contesto nel quale operano le imprese stesse, ovvero alla creazione di
beni pubblici specifici al sistema locale. Gli interventi più diffusamente ammessi a finanziamento
hanno avuto ad oggetto il supporto alle attività rivolte all’innovazione, sia mediante la creazione di
centri innovazione - che possano svolgere tale compito -, che mediante il finanziamento diretto alla
realizzazione di attività di ricerca e sviluppo e certificazione di qualità. A questi si sono affiancati
46
Nelle nuove strategie comunitarie per la coesione, la città è luogo di sintesi delle strategie di supporto all’innovazione
ed alla crescita economica sostenibile. Come si legge nella COM (2006) 385 “Le città sono motori della crescita europea basata sull’innovazione e lo spirito imprenditoriale …poiché in essi si trovano la maggior parte dei posti di lavoro,
delle imprese e degli istituti di insegnamento superiore; (ma) la loro azione è inoltre determinante nella realizzazione
della coesione sociale (…). La questione del carattere sostenibile della crescita riveste particolare importanza nelle città
più esposte all’esclusione sociale, al degrado dell’ambiente, all’esistenza di aree abbandonate ed alla proliferazione urbana” .
gli interventi rivolti alla creazione di infrastrutture specifiche locali (reti telematiche, sportelli informativi, aree industriali), quelli mirati alla promozione dei prodotti del distretto all’estero e quelli rivolti alla riorganizzazione dell’attività delle imprese, mediante il supporto all’internazionalizzazione. Queste azioni si sono incrociate con la presenza e l’azione dei centri di servizio e consorzi entro
sistemi di produzione simil-distrettuale, e con un numerosissimo insieme di altri interventi più o
meno direttamente legati al supporto di piccole imprese, innovazione e reti di innovatori, distretti
industriali, altri tipi di sistemi locali, così come ad una serie di azioni tematiche sull’internazionalizzazione e l’innovazione, realizzati da vari attori a vari livelli di governo.
La previsione di strumenti specifici per il sostegno allo sviluppo dei distretti come quelli appena ricordati, più recentemente è affiancata o anche sostituita, in alcune regioni, dall’inserimento di priorità territoriali all’interno di interventi rivolti a tutto il sistema produttivo regionale. In alcuni interventi regionali di politica per l’innovazione (e non solo) vengono, così, inserite riserve di fondi o
priorità di accesso a progetti presentati da distretti o da sistemi di produzione locale caratterizzati da
determinate specializzazioni, ampliando strumenti e filosofia di intervento. Ci torneremo nel paragrafo 7.
A queste misure si è aggiunta infine la quarta e più recente classe di interventi – il supporto ai “distretti tecnologici” – che vede un coinvolgimento maggiore del livello di governo nazionale, e che
trova riscontri (pur di diversa qualità e ampiezza) entro politiche industriali, dell’innovazione e territoriali anche di altri paesi europei (come i poles de competitivité in Francia, o i poli di competenza
in Germania). Si tratta di interventi a cui abbiamo fatto cenno già nel par. 3. L’ipotesi alla base dell’intervento è di concentrare risorse pubbliche e private in ambiti settoriali e territoriali in cui esistono forti potenzialità di sviluppo, aree dinamiche in grado di costituire un traino importante per le regioni e i paesi in cui esse sono radicate. Sebbene la nascita dei singoli “distretti tecnologici” tragga
spesso spunto da iniziative a livello locale e regionale, in molti casi esiste una sorta di riconoscimento formale a livello di governo centrale – mediante protocolli di intesa tra MIUR e Regione – in
cui si individuano priorità di intervento e fondi per realizzare le azioni. Non esistono, connessi a tale
azione, parametri o soglie quantitative “ufficiali” da rispettare, così come è invece avvenuto per il
caso dei distretti industriali47.
Lo spazio delle politiche si amplia rispetto a quanto avviene nel caso del distretto industriale; l’azione politica – ai vari livelli – è, infatti, parte integrante della definizione (e dello sviluppo) del progetto di clustering (e/o di networking), per una serie di motivi fondamentali. In primo luogo, i distretti tecnologici operano in settori ad alta intensità tecnologica, in cui le attività di ricerca pubblica
rivestono un ruolo fondamentale; in secondo luogo, i legami tra gli attori sono, spesso, da costruire
(per lo meno in parte). Mentre nel caso dei distretti industriali il processo di nascita e di sviluppo
avviene fondamentalmente grazie all’interazione degli attori locali, nel caso dei “distretti tecnologici” il fattore di innesco è dato, nella maggioranza dei casi, o da un investimento di natura complessa
e di portata considerevole nel campo della ricerca pubblica (ed in alcuni casi privata), o da un’azione dirompente di un’azienda o altra realtà locale pre-esistente (Bonaccorsi 2006)48.
47
I criteri fondamentali sottostanti all’individuazione (o alla promozione) di distretti tecnologici riguardano (Bonaccorsi
2006): a) la presenza di un set di attori formato da Università, Centri di ricerca e di trasferimento tecnologico, imprese
high tech ed altri portatori di competenze scientifico-tecnologiche specifiche tra i quali si sviluppano relazioni rivolte all’innovazione; b) la definizione di progetti di sviluppo – elaborati con il supporto di attori pubblici a vari livelli – che
prevedono l’attivo coinvolgimento degli attori ricordati; c) la coerenza di tali progetti con le linee guida della politica
nazionale per la ricerca; d) la previsione di favorevoli opportunità di sviluppo futuro; e) la disponibilità di strumenti finanziari adatti ad iniziative ad alto contenuto di innovazione.
48
Le azioni alla base della “formazione” del distretto tecnologico coinvolgono, quindi, fino dal loro avvio, una serie di
livelli di governo diversi e le relazioni produttive, i circuiti cognitivi, gli interventi di politica hanno, generalmente un’estensione che va spiccatamente oltre il livello locale. È a tale livello, comunque, che si trovano i centri di competenza
dai quali si propaga (o si può propagare) lo sviluppo (Trigilia, 2005; Bellandi, 2004).
Tali interventi si trovano, nella maggior parte dei casi, ancora in una fase di avvio e il quadro risulta, pertanto, necessariamente parziale49.
6. L’azione propria delle Regioni italiane: elementi di quadro
L’adozione a livello comunitario di un approccio coerente con la visione di sistema regionale di innovazione ha influenzato fortemente l’attività di policy-making delle singole Regioni. In molti documenti regionali di politica per l’innovazione oggi si individua un progressivo allineamento con la
visione comunitaria, sia in termini di obiettivi specifici delle politiche, che di strumenti, strutture e
soggetti coinvolti.
Il passaggio da una logica di sostegno all’innovazione basata sulla concessione di incentivi alle singole imprese – più deciso in alcune Regioni rispetto ad altre –, ad una di design di azioni rivolte all’innovazione di sistema, si manifesta con più forza nell’adozione di principi di governance degli
interventi. Si tratta del coinvolgimento di soggetti pubblici e privati nell’elaborazione, nel co-finanziamento e nell’implementazione degli interventi. Certo cambia la formulazione degli obiettivi specifici delle politiche, e cambiano anche – per lo meno in una certa misura – gli strumenti delle politiche (o, meglio, il loro mix), ma il cambiamento più evidente riguarda le strutture ed i soggetti
coinvolti. Questo, come ricordato, sembra il punto centrale per la realizzazione di una politica per
l’innovazione che tenga conto delle istanze dei vari luoghi d’industria.
Accanto ad una “nuova generazione” di interventi di tipo sistemico, rivolti alla creazione di legami
ed interazioni complesse tra il mondo della ricerca e quello delle imprese, sopravvivono comunque
– e spesso continuano a rappresentare la parte più consistente – interventi di incentivazione diretti
alle singole imprese. È inoltre da osservare che in molti casi anche i “nuovi” interventi si limitano a
creare degli incentivi (diretti alle singole imprese) per l’acquisto di servizi forniti da Centri di ricerca e di trasferimento tecnologico o da laboratori di Università e Centri di eccellenza. Non molto diffusi sono invece, almeno non ancora, gli interventi che seguono una logica di progettazione comune
degli interventi. Anche se generalmente all’interno di una visione processuale, le politiche regionali
sembrano quindi muoversi spesso in una declinazione O/I delle politiche per l’innovazione.
A causa dei riorientamenti in corso d’opera, gli aggiustamenti ed il re-targeting degli interventi, si
osserva comunque una forte eterogeneità negli interventi, alcune contraddizioni o sovrapposizioni di
idee derivate da impostazioni teoriche anche discordanti tra di loro, in cui la declinazione “forze locali” trova uno spazio crescente. Molto spesso, in una prima fase l’intervento regionale è stato rivolto all’attivazione delle misure previste dalle leggi nazionali, ma contemporaneamente si è avviata
una attività di impianto di strutture e strumenti e di elaborazione di nuove strategie d’azione “di sistema”. Collegato a questo cambiamento di visione è per molte Regioni il richiamo all’esperienza
acquisita nei Progetti RIS (Regional Innovation Strategies) e RITTS (Regional Innovation and
Technology Transfer Strategies and Infrastructure), progetti finanziati dalla Comunità Europea (Enterprise DG) nell’ambito del Programma Innovazione, che ha supportato un ampio numero di regioni europee (tra cui: Abruzzo, Calabria, Puglia ed Est Lombardia per il RIS e Marche, Sicilia, Toscana, Umbria, P.A. Trento e Provincia di Milano per il RITTS) nella formulazione di politiche rivolte
alla definizione di strategie ed al design di infrastrutture per l’innovazione ed il trasferimento tecnologico. I progetti hanno contribuito all’elaborazione di una metodologia comune basata su tre ele49
Ricordiamo, fra quelli che appaiono già avviati o in corso avanzato di costituzione, i distretti tecnologici di Torino
Wireless (Piemonte), milanese delle biotecnologie (Lombardia), Hi-Mec (Emilia-Romagna), del biomedicale di Mirandola (Emilia-Romagna), delle nanotecnologie (Veneto), dei Sistemi Intelligenti Integrati di Genova (Liguria), dell’Aerospazio di Castel Romano (Lazio), della microelettronica di Catania (Sicilia), pisano dell’IT (Toscana), napoletano dei
materiali polimerici (Campania). Inoltre, esiste un gruppo di realtà locali che si dichiarano “distretti tecnologici” (o che
alcuni studi hanno individuato come tali) che hanno solo da poco avviato l’iter “ufficiale” con il MIUR per la progettazione di interventi (www.distretti-tecnologici.it). In tutti i casi, i progetti di sviluppo del distretto sono stati avviati da
reti di attori comprendenti università e centri di ricerca ed imprese.
menti fondamentali: un attività rivolta alla creazione di consenso e di visioni condivise all’interno
del sistema di innovazione regionale, l’analisi del sistema di innovazione regionale, e il conseguente
sviluppo di politiche coerenti.
7. Un’analisi della convergenza tra politiche dell’innovazione e politiche territoriali nelle Regioni
Passiamo quindi all’incrocio tra politiche dell’innovazione e politiche territoriali, così come risulta
dall’osservazione degli interventi adottati dalle Regioni italiane entro l’Obiettivo 2 UE (DOCUP,
POR, leggi regionali o altri50), successivamente classificati in termini di obiettivi specifici (dei singoli interventi), strumenti, strutture e soggetti.
Gli interventi osservati sono molteplici, e con molteplici finalità. L’elenco successivo ne riassume i
principali:
-
Attività di animazione propedeutiche alla realizzazione di progetti di innovazione o sostegno a
progetti di diffusione dell’innovazione.
Creazione e sviluppo di infrastrutture materiali a sostegno dell’innovazione: centri servizi, centri
ricerca e laboratori, incubatori e/o parchi tecnologici.
Finanziamenti per l’acquisto di servizi innovativi o funzionali alla realizzazione di processi di
innovazione.
Sostegno alla creazione di reti di imprese innovative.
Premi a imprese innovative.
Creazione di reti telematiche e servizi connessi.
Sostegno alla formazione e all’inserimento di ricercatori nelle imprese.
Interventi del tipo ricordato nella lista sono più presenti laddove non ci si sia limitati ad adottare un
approccio di “domanda” ed “offerta” di innovazione51, ma si siano adottati, almeno in nuce, una serie di strumenti di supporto coerente all’attività di policy-making: cabine di regia per l’innovazione;
attività di ricognizione del patrimonio di competenze tecnologiche presenti a livello regionale, dei
fabbisogni delle imprese; studi preparatori alla effettiva elaborazione delle linee di azione politica;
creazione di strumenti di finanziamento all’attività di imprese innovative. Alla base vi è l’idea di
costruire piattaforme di interazione non episodica tra gli attori locali per la definizione di possibili
traiettorie di sviluppo e la definizione di priorità di intervento. Il coinvolgimento degli attori locali
nell’attività di programmazione delle politiche – ed in particolare delle piccole e medie imprese – è
50
Sono stati osservati, in particolare, i seguenti documenti: Regione Abruzzo: Docup mis.2.1; Docup mis.2.2; Docup
mis.2.3; L.R.55/91; L.R.30/93; L.R.143/95; L.R.60/96, Titolo II; L.R.6/05. Regione Emilia Romagna: PRT mis.3.1 – a;
PRT mis.3.2; PRT mis.3.3; PRT mis.3.4 - a, b; PRT mis 6.1 e 6.2 a; Docup mis.1.2; Docup mis.1.5; Docup mis.1.6;
L.R.25/93 e 5/03; L.R.7/02. Regione Friuli Venezia-Giulia: Docup mis.1.3; Docup mis.2.1; Docup mis.2.2; Docup
mis.2.3; Docup mis.2.4; Docup mis.2.5; L.R.45/86; L.R.26/95; L.R.36/97; L.R.12/02; L.R.11/03; L.R.4/05. Regione Lazio: Docup mis.2.4; Docup mis.2.5.1 e 2.5.2; Docup mis.4.1; Docup mis.4.2; L.R.2/85. Regione Liguria: L.R.23/86; Docup mis.1.2; Docup mis.1.3; Docup mis.1.4. Regione Lombardia: Docup.mis.3.7; Docup mis.1.1; Docup mis.1.2; Docup
mis.1.4; Docup mis.1.5; Docup mis.1.9; PON mis.D4; L.R.34/85; L.R.35/96; L.R.21/03. Regione Marche: Docup
mis.1.1; Docup mis.1.2; Docup mis.1.3; Docup mis.1.4; L.R.13/00. Regione Piemonte: Docup mis.2.3; Docup mis.2.4;
Docup mis.2.5; Docup mis.2.6; L.R. 56/86; L.R.21/97 (art.24-25 internaz); L.R.34/04. Regione Toscana: Docup
mis.1.3; Docup mis.1.4; Docup mis.1.7; Docup mis.1.8; L.R.35/00. Regione Trentino Alto-Adige: Docup Bolzano
mis.3.2; Docup Bolzano mis.3.3; Docup Trento mis.1.1; L.P.Trento 6/99. Regione Umbria: Docup mis.2.2; Docup
mis.2.3; L.R.5/90 (art.39-40 internaz.); L.R.12/99; L.R.21/02. Regione Valle D’Aosta: Docup mis.2. Regione Veneto:
Docup mis.1.3; Docup mis.1.5; Docup mis.1.6; Docup mis.1.7; Docup mis.2.1; Docup mis.2.3; Docup mis.2.5;
L.R.37/89; L.R.36/95; L.R.3/97 e 16/98; L.R.9/99; L.R.3/01.
51
La mera compilazione di elenchi in cui, da una parte, si inseriscono i centri di eccellenza tecnologica della regione, e
dall’altra la domanda – espressa o prevista – di tecnologie da parte delle imprese.
certo un’operazione complessa. L’analisi empirica ci mostra come sia spesso difficile coinvolgere
tali attori anche nella concreta realizzazione di progetti di innovazione, ma la formazione di una visione condivisa (un’operazione di costruzione del consenso) costituisce una tappa fondamentale per
la realizzazione di efficaci politiche per l’innovazione di sistema. In molti casi queste attività sono
state realizzate anche con l’aiuto di Università o enti di ricerca presenti nel territorio regionale, mediante studi ed indagini ad hoc, con diversi gradi di coinvolgimento delle imprese.
Tornando alla lista, il sostegno alla realizzazione di attività di ricerca e sviluppo e all’acquisto di
servizi e tecnologie innovative rappresenta la parte più corposa degli interventi osservati. Si tratta di
azioni spesso ispirate ad una logica di incentivazione alle singole imprese, anche se iniziano a diffondersi strutture e strumenti di sistema. L’obiettivo di rafforzare il sistema regionale di innovazione – enunciato in molti documenti di politica regionale per l’innovazione - si risolve ancora in molti
casi nella concessione di incentivi alle imprese per l’acquisto di servizi forniti da attori quali Centri
per la ricerca ed il trasferimento tecnologico, Università o consorzi universitari, laboratori di ricerca.
In una minoranza dei casi osservati la creazione di legami tra il mondo della ricerca e quello delle
imprese prevede la concessione di finanziamenti a reti di attori – che comprenda anche le imprese –
per la realizzazione di progetti congiunti. Tali azioni sono previste, per esempio, nella Regione Toscana, in cui vengono finanziate attività di trasferimento tecnologico (ed attività di disseminazione
delle opportunità di innovazione) realizzate da ATI, ATS o Consorzi che comprendano Enti Pubblici, Centri di servizio, Centri di ricerca e trasferimento tecnologico, associazioni di categoria e PMI
(Docup Toscana misure 1.7.1. e 1.7.2.), o in Lombardia, con i “progetti di ente” o “progetti di sistema”.
La creazione di infrastrutture materiali a supporto dell’innovazione rappresenta lo specifico obiettivo di un altro filone di interventi: si tratta del supporto alla nascita o allo sviluppo di centri per la ricerca ed il trasferimento tecnologico, centri per l’innovazione, incubatori per imprese high tech e simili o la realizzazione di reti telematiche. Quest’ultima azione costituisce il prerequisito per il perseguimento di un altro diffuso obiettivo dei policy-makers regionali, come lo sviluppo delle applicazioni dell’IT, più o meno in collegamento anche con politiche di supporto all’internazionalizzazione
di sistema.
Troviamo poi la creazione di reti di innovatori. Questa rappresenta è di per sé un obiettivo di molte
Regioni, ma costituisce anche una struttura che caratterizza la forma con cui vengono utilizzati i
vari strumenti, coerentemente con i già ricordati orientamenti comunitari in materia.
Presentiamo quindi una valutazione della convergenza di politiche dell’innovazione e politiche territoriali nella programmazione regionale basata sulla classificazione degli interventi secondo due
assi:
a) Il tipo di strutture degli interventi, distinti in incentivi diretti alle imprese (“singole imprese”),
sostegno pubblico a reti di composizione variabile ma in genere con una base locale (“reti”)52;
sostegno di agenzie locali o regionali, private, pubbliche o miste, che, per esempio, forniscono
servizi alle imprese o realizzano infrastrutture comuni (“agenzie”).
b) Il tipo di target degli interventi, distinti in azioni senza target specifico (“no target”); azioni rivolte a specifici settori produttivi (“settori e/o tecnologie”); o azioni rivolte a filiere/sistemi di
produzione locale/distretti (“spl/distretti/filiere locali”).
La tabella 1 presenta la combinazione dei due assi. Le varie Regioni sono state classificate nelle celle in base al tipo di strutture e di target degli interventi prevalentemente adottati. Nel caso in cui la
52
All’interno degli interventi definiti di “rete” abbiamo considerato anche i finanziamenti esplicitamente rivolti a consorzi di PMI, ma non quelli destinati a “PMI singole o in forma associata”. Le norme esplicitamente rivolte ai distretti
industriali sono state catalogate nella categoria “rete”, con target “distretto”. Nel caso in cui la governance dell’intervento preveda la mobilitazione di più strutture o di più target, si sono evidenziate tutte le possibilità.
maggioranza degli interventi osservati non abbia un target esclusivo, ma solamente preferenziale, la
Regione è classificata in entrambe le celle “senza target” e “con target”.
L’impianto normativo predisposto dalle varie Regioni può ovviamente essere modificato dai bandi
di attuazione delle norme stesse, che in alcuni casi possono prevedere notevoli variazioni rispetto ai
principi delineati nelle leggi o nei documenti di programmazione. L’ammontare dei finanziamenti
concessi all’una o all’altra linea di intervento costituisce inoltre un elemento di valutazione fondamentale. Sebbene parziale, l’esercizio individua comunque alcune principali direttrici di policy che
le Regioni sembrano aver intrapreso.
20. Incrocio strutture e target degli interventi rivolti all’innovazione nelle politiche delle Regioni italiane Ob253
No target
Singole
Reti
ABR, LOM, ABR,
MAR, TOS
LOM,
VEN
Settori e/o tecno- LOM
logie
Spl/distretti/filie- ABR
re locali
E-R,
TOS
ABR,
TOS,
PUG
BAS,
LAZ,
LOM,
PIEM
agenzie
E-R, LAZ, PIEM,
TOS, UMB, FVG
+ LIG (centri
ricerca e parchi tecnol.)
LOM, LAZ, FVG
E-R, CAL, LIG
VEN,
CAM,
LIG,
MAR,
Nota: In corsivo sono evidenziate le Regioni che hanno predisposto apposite leggi rivolte ai distretti
industriali. In grassetto sono evidenziate le Regioni che, oltre ad aver predisposto apposite leggi per
il sostegno all’innovazione nei distretti, hanno inserito un target di distretto/sistema di produzione
locale/filiere locali anche all’interno degli interventi per il sostegno all’innovazione inseriti in Docup e leggi regionali.
8. Valutazioni conclusive
L’analisi della tabella 1 si presta a qualche valutazione conclusiva. Considerando anche le norme
previste per i distretti industriali (sebbene attuate solo in scarsa misura), si può osservare come esista un nutrito gruppo di Regioni in cui si verifica una forte connessione tra le due “classi” di politiche considerate. In particolare:
a) Gli incroci della prima colonna appartengono all’ambito degli approcci lineari all’innovazio-
ne, anche se possono essere inseriti formalmente entro ambiti di azione distrettuale. Gli interventi di incentivazione diretti alle singole imprese sopravvivono, e spesso continuano a rappresentare la parte finanziariamente più consistente. Si tratta di incentivi per attività interne e/o per
facilitare l’incontro tra “domanda di innovazione” (espressa dalle imprese) e “offerta di innovazione” (espressa dalle Università e dai Centri di Ricerca e di trasferimento tecnologico). In questo secondo caso, si raccolgono e diffondono informazioni sui vari attori che operano nel campo
della ricerca e del trasferimento tecnologico (Università, Centri di Eccellenza, Centri di ricerca e
di trasferimento tecnologico, pubblici e privati) e si incentivano le imprese a rivolgersi ad essi
53
La tabella si basa sull’osservazione dei documenti di programmazione per il periodo 2000-2006 e sull’osservazione
delle leggi regionali in vigore.
sia attraverso finanziamenti diretti alla realizzazione di attività di ricerca e sviluppo e di certificazione di qualità, sia con “voucher tecnologici” (da spendere presso una lista di centri accreditati)54, sia favorendo il contatto tra gli attori mediante azioni di animazione (seminari e workshop, corsi di formazione, creazione di centri di competenza o di gruppi di lavoro).
b) Gli incroci della terza colonna, ma anche quelli della seconda colonna con la prima e la seconda riga, sono più o meno direttamente collegabili ad approcci sistemici all’innovazione declinati secondo la chiave O/I. Si tratta spesso di interventi caratterizzati dal richiamo ai “tre pilastri” dell’innovazione (triple helix) e dall’obiettivo di rafforzare il “sistema regionale di innovazione”, richiamo che peraltro percorre vari documenti di politica regionale. Fra gli strumenti più
direttamente legati a tale sfera di temi e approcci ricordiamo la creazione a livello regionale di
centri per la ricerca e il trasferimento tecnologico, gli incubatori per imprese high tech e simili, o
la realizzazione di reti telematiche; ed ancora la promozione di specifici ambiti tecnologici,
come misure a sé stanti, almeno in termini di costituzione, dal contributo ai distretti tecnologici.
c) L’incrocio della seconda colonna e della terza riga è collegabile ad approcci sistemici declinati
con la chiave forze locali. Sono interventi rivolti alla creazione di infrastrutture specifiche, in
primo luogo per i distretti industriali (reti telematiche, sportelli informativi, aree industriali), alla
promozione dei prodotti del distretto all’estero, e alla riorganizzazione dell’attività delle imprese
mediante il supporto all’internazionalizzazione. Queste azioni si incrociano con la presenza e
l’azione dei centri di servizio e consorzi entro sistemi di produzione simil-distrettuale, e con un
numerosissimo insieme di altri interventi più o meno direttamente legati al supporto di piccole
imprese: azioni tematiche sull’innovazione e l’internazionalizzazione; priorità territoriali all’interno di interventi rivolti a tutto il sistema produttivo regionale; riserve di fondi o priorità di accesso a progetti presentati da distretti o da sistemi di produzione locale caratterizzati da determinate specializzazioni; infine appunto distretti tecnologici. In tale visione di apprendimento collettivo, gli interventi si avvicinano e incrociano con le azioni di animazione del territorio, e di
stimolo alla creazione di reti di innovatori, anch’esse adottate da alcune Regioni55. La valutazione del quadro e dei suoi contenuti suggerisce che questa terza modalità è presente ma ancora
scarsamente diffusa.
Un’ultima considerazione riguarda l’utilizzazione di unità territoriali di analisi e intervento. Il riferimento a distretti, sistemi di produzione locali e simil-distrettuali, sistemi regionali di innovazione è
ben diffuso. Non emerge invece, come unità esplicitamente connessa a politiche di innovazione nella recente programmazione delle Regioni italiane, la “città”, cioè i centri urbani (eventualmente metropolitani) maggiori. E’ vero che tali centri sono coinvolti tutti quando si tratti da interventi a livello di sistema regionale di innovazione e di distretti tecnologici. È pure vero che tali centri sono in
genere fuori dalle aree Obiettivo 2, e quindi gli incentivi localizzati alle imprese non possono riguardarli. Tuttavia ci sembra che una più esplicita tematizzazione del ruolo dei centri urbani maggiori entro i sistemi regionali di innovazione sarebbe utile, come abbiamo visto del resto in alcune
politiche della UE (par. 4).
Le città, specie quelle più dinamiche, sono sedi privilegiate di sistemi dell'alta tecnologia e dell'alta
cultura. Ma c’è di più nel caso italiano, almeno. Consideriamo la presenza di città nelle regioni a più
alta intensità distrettuale, quali Milano, Bologna, Firenze, ma anche quali Vicenza, Verona, Ancona.
Vi si osservano combinazioni particolari e variabili di funzioni urbane pregiate, nuclei di fattori locali simili a quelli distrettuali, punte di accumulazione del patrimonio storico-culturale e delle tradizioni di artigianato artistico, funzioni turistiche. Sono le sedi preferite dei buyers internazionali, di
54
Questo accade, per esempio, nella Regione Lombardia.
Gli incentivi alla realizzazione di progetti di innovazione rappresentano il tipo di intervento che più diffusamente è
stato implementato ricorrendo a strutture del tipo promozione di reti di attori locali. In alcune regioni, la mobilitazione
di reti di attori è richiesta anche per la creazione di centri per l’innovazione ed il trasferimento tecnologico o per la realizzazione di infrastrutture logistiche per la connettività (p.e. creazione di reti telematiche di distretto).
55
molte manifestazioni dell'alta moda e delle maggiori manifestazioni fieristiche del Made in Italy,
delle multinazionali della moda, dei maggiori centri di design, di grandi Università. Insieme ad altre, come Venezia, Roma, Napoli, esse giocano da catalizzatori nel fissare, nell'immaginario collettivo globale, gli elementi di gusto, creatività e buon vivere che sono associati al Made in Italy. Ma,
per converso, senza il fiorire dei distretti industriali, che non può essere spiegato come semplice effetto indotto dall'economia di quelle città, le stesse non avrebbero sviluppato tali potenzialità.
Riteniamo che, nel quadro delle sfide sopra richiamate, la promozione consapevole di relazioni positive fra queste due componenti territoriali a forte contenuto urbano, industriale e di innovazione
sia veramente cruciale.
Parte II
Piemonte, fra crisi e transizione
Francesco Gastaldi
Il Piemonte nell’ultimo quindicennio ha attraversato (e sta tuttora attraversando) una profonda trasformazione dal punto di vista sociale ed economico, registrando trend piuttosto negativi in termini di creazione di ricchezza e di crescita della produttività. I motivi sono da ricercare nella pesante crisi economica dei settori automobilistico (nonostante i positivi segnali di ripresa) e tessile, dove le grandi imprese, pur ad elevata internazionalizzazione, specializzate in settori a medio-alta tecnologia, e propense agli investimenti in ricerca e
sviluppo, hanno dovuto subire una serie ristrutturazioni, delocalizzazioni, pesanti riduzioni delle esportazioni e perdite consistenti di quote di mercato nazionale, con un conseguente calo economico-produttivo regionale, e con ripercussioni anche su molte questioni di natura sociale.
I tradizionali centri urbani con caratteri industriali sono stati pienamente investiti da questa fase di crisi,
mentre le aree attualmente più dinamiche sono zone un tempo agricole e periurbane dove il tessuto di piccola e media impresa (anche in forma distrettuale), spesso legato al settore alimentare, ha segnato i maggiori
trend di sviluppo.
Il capoluogo, dal canto suo, sta affrontando una difficile evoluzione verso un’economia diversificata,
dove la presenza (e il rinnovamento) dell’industria automobilistica convive con un progressivo orientamento
delle attività produttive verso i settori del tempo libero, della cultura, della formazione e dell’innovazione.
Restano da verificare gli effettivi e duraturi risultati che l’evento olimpico dovrebbe aver lasciato come eredità permanente al territorio torinese e regionale, in termini di rilancio turistico, di ridefinizione di immagine, di valorizzazione attiva delle risorse ambientali.
Il panorama emergente in campo economico è caratterizzato da un numero crescente di aziende nel settore ICT, spesso di piccole dimensioni, in grado di produrre servizi e prodotti innovativi, verso le quali negli
ultimi anni sono stati destinati consistenti investimenti pubblici e privati. Parallelamente, nell’ultimo decennio l’indotto del settore automobilistico è apparso più autonomo, ha saputo conquistarsi spazi rilevanti all’estero con processi crescenti di internazionalizzazione, per cui la diminuzione dell’attività Fiat ha finora colpito solo in parte il resto della filiera. I recenti segnali positivi del mercato dell’auto non devono tuttavia far
dimenticare le molte occasioni perse e i ritardi nel comprendere come il settore non avrebbe più avuto un
ruolo nevralgico nell’economia regionale. Nei primi mesi del 2006 per la prima volta Fiat Auto ha riconquistato quote di mercato europeo: nel 2005 si era registrato il minimo storico al 6,5%, vale a dire la metà rispetto al 13% detenuto nel 1990. La discussa fine della alleanza con General Motors ha consentito una più
disinvolta capacità di movimento sul mercato internazionale, che è stata ben organizzata dai nuovi vertici
manageriali e dalle nuove strategie industriali.
Nel campo delle politiche urbane, i processi di riconversione produttiva hanno coinvolto una pluralità di
aree dove sono state sperimentate forme innovative di recupero e rigenerazione urbana, mediante modalità
partenariali, programmi complessi, fondi ministeriali ed europei. A Torino particolare attenzione è stata dedicata al programma di intervento per le periferie, e più in generale al processo di pianificazione strategica e
di marketing territoriale, come sostegno e guida alla fase di transizione. Infine, la questione della logistica e
delle infrastrutture sta assumendo un ruolo sempre più nevralgico, in termini sia di aspettative legate alla dibattuta questione dell’alta velocità ferroviaria, sia di opportunità legate alla sempre più marcata caratterizzazione del basso Piemonte come nodo logistico e intermodale di primaria importanza nell’ambito del NordOvest.
In questo quadro, la parola d’ordine degli ultimi DOCUP è stata “riqualificazione diversificata”. Tutti i
programmi regionali hanno fatto perno sul rafforzamento del tessuto delle piccole e medie imprese attraverso
la promozione e la diffusione dell’innovazione, l’attenzione ai processi, ai prodotti e alla facilità di accesso
al credito.
Parallelamente sono state attuate strategie di potenziamento delle infrastrutture e dei servizi, indirizzando
le scelte localizzative di numerosi investimenti produttivi. Particolare attenzione è stata poi dedicata alla tutela e alla valorizzazione territoriale attraverso progetti di bonifica ambientale e risanamento di siti degradati. Dal 1998 al 2004 il Piemonte ha potuto usufruire di circa 2 miliardi di euro di contributi, che hanno consentito di finanziare più di 28.000 progetti di soggetti pubblici e privati, attraverso i quali sono stati attivati
circa 5 miliardi di euro di investimenti.
Fondi strutturali in Piemonte dal 1989 al 200456
Numero progetti
1. Promozione internazionale
del Piemonte
2. Promozione e sviluppo
del turismo
3. Infrastrutturazione per
il sistema produttivo
4. Riqualificazione
del territorio
5. Sviluppo e rafforzamento del sistema
produttivo
6. Ricerca, innovazione
e trasferimento tecnologico
7. Diffusione della società
dell’informazione
8. Tutela dell’ambiente
Totale
996
Contributi
(mln di euro)
81,5
pubblici Investimenti
(mln di euro)
133,4
1.085
277,9
419,2
164
212,0
358,5
854
451,2
708,9
20.316
443,5
2532,1
3.490
420,7
916,6
1.895
86,2
153,0
73
28.873
49,5
2.022,5
89,6
5.312,1
attivati
Secondo l’ultimo DOCUP, il quadro economico del Piemonte continua a mostrare alcuni problemi, riguardanti la riorganizzazione economica e produttiva e non si è ancora pienamente concretizzata l’ipotesi di un
decollo qualitativo e di eccellenza del settore delle nuove tecnologie. L’economia e la società locale hanno
soprattutto attivato un processo di «ristrutturazione su basi tradizionali» che, in misura solo parziale, ha rafforzato i consolidati cardini dello sviluppo piemontese con nuovi motivi di crescita, quali vocazioni e competenze produttive, o vivaci distretti locali. Si può dire che il Piemonte stia vivendo una situazione di tensione, sospeso tra l’eredità di una tradizione manifatturiera, che ancora incide sulla bassa creatività dell’economia regionale, e un complesso di spinte potenzialmente innovative, ma sinora non efficacemente riunite a sistema, o per debolezza, o perché non del tutto compatibili con le tendenze evolutive in atto.
Come le altre regioni italiane, nel 2005 il Piemonte ha definito il proprio Documento strategico preliminare regionale per la definizione del Quadro strategico nazionale 2007-2013, che indirizzerà le risorse assegnate dalla politica di coesione comunitaria alle diverse zone del paese. Nel Dspr sono espressi gli orientamenti strategici della Regione, che fanno riferimento alla situazione economica, sociale, territoriale e ambientale piemontese degli ultimi anni, anche alla luce delle politiche e delle sperimentazioni ad oggi intraprese.
Gli scenari costruiti dalla regione per il periodo tra il 2007 e il 2013 disegnano un Piemonte più attivo e
differenziato, descritto nelle pagine del Dspr in termini generali, tramite linee guida di ampio respiro. Dopo
un’analisi di contesto a scala regionale, con l’individuazione di punti di forza e di debolezza, la definizione
di scenari produttivi e relativi modelli di sviluppo, il Dspr approfondisce la propria indagine sulla realtà piemontese specificando gli assi strategici dello sviluppo e gli indirizzi da seguire, assumendo come punto di
partenza gli esiti della valutazione intermedia degli interventi dei fondi strutturali 2000-2006.
Il documento si presenta più come una dichiarazione di intenti che come una vera e propria enunciazione
programmatica delle principali azioni da intraprendere o da completare per la dare una traduzione concreta
agli scenari prefigurati. Se infatti sono delineate le tendenze evolutive del territorio regionale nel suo complesso, la descrizione contenuta nel Dspr non si addentra nell’analisi delle peculiarità dei singoli territori che
compongono il profilo multiforme del Piemonte. In modo implicito, si demanda uno sguardo più stretto e
dettagliato a ulteriori studi, non contemplati dal resoconto presentato. Parimenti, non è riservata sufficiente
attenzione alle applicazioni delle politiche da adottare per accompagnare lo sviluppo: queste ribadiscono la
loro integrazione e conformità con il riorientamento della strategia di Lisbona, in termini sia di contestualizzazione degli assi del rilancio, sia di partecipazione attiva al miglioramento della governance, esprimendo
quindi obiettivi di massima, ma non ancora riferiti a specifiche situazioni, progetti, attori.
56
Regione Piemonte, Quindici anni di fondi strutturali, Torino 2005
Parallelamente all’elaborazione del Dspr, il Piemonte, cercando di inserire nel medesimo quadro di riferimento strategico anche altri strumenti di politica regionale, e ha prodotto (nel dicembre 2005) anche il Documento programmatico per un nuovo Piano territoriale regionale (Ptr), allo scopo, innanzitutto, di esaminare il
complesso delle dinamiche e le problematiche di un territorio frammentato, onde poter enunciare gli obiettivi
di sviluppo in una forma che risultasse effettivamente declinata alle eterogenee realtà ed esigenze locali.
Nondimeno, il Ptr, basandosi su una serie di presupposti ormai assodati (le politiche territoriali non devono soltanto distribuire le risorse esistenti, ma altresì scoprire e valorizzare quelle latenti; l’organizzazione
istituzionale deve prevedere la possibilità di decentrare le decisioni; la pianificazione locale deve derivare da
progetti di coordinamento tra più attori, pubblici e privati), non può prescindere da alcuni prioritari interessi
comuni, da tutelare al di là delle singole peculiarità emergenti, e si articola pertanto, a livello di analisi strategica, in quattro parti fondamentali:
1) Sistemi territoriali di creazione del valore.
Nell’esperienza italiana ad oggi manca una dimensione politico-amministrativa (escluse le comunità montane e, in parte, la città metropolitana) che consenta di rispondere in modo puntuale e mirato ai fabbisogni (di
varia natura) delle comunità locali. “Si tratta quindi di ripensare approcci e strumenti di governo del territorio al di là delle strutture amministrative della Regione, della Provincia e del Comune. Le unità locali più significative non sono i comuni visti nel loro limite amministrativo, ma insiemi di comuni, ovvero famiglie
naturali (per storia e geografia) o, più spesso, artificiali (per interessi comuni di tipo strategico)…, cioè formazioni territoriali…in cui si integrano dimensione ambientale, sociale ed economica e che non si riconoscono nella dimensione e nella tradizione burocratica e centralistica regionale”.
Il Ptr nasce pertanto dalla volontà di ascolto delle forme di auto-identificazione socio-istituzionale e di autorappresentazione espresse dalle comunità locali, specchio di una pluralità variegata di meccanismi territoriali di creazione del valore (a prevalente base manifatturiera, turistica, culturale, ad agricoltura non omologata
ecc.).
2) Area strategica delle reti (di tipo ecologico-ambientale; riferite al sistema dei trasporti; legate a conoscenza, produzione, formazione, servizi ecc.), che devono armonizzarsi in un reciproco riconoscimento di nodi,
interconnessioni ed interazioni a più livelli di gestione del territorio).
3) Area strategica della tutela. Con la stesura del Piano paesaggistico, in linea con la Convenzione Europea
del Paesaggio e il Codice dei beni ambientali e del paesaggio, il Piemonte intende tradurre la tutela del patrimonio ambientale in vera e propria valorizzazione territoriale, inaugurando nuove opportunità di sviluppo
sostenibile. In questo frangente, la regione è suddivisa in ambiti omogenei in funzione del loro valore paesaggistico (da quelli di elevato pregio, a quelli degradati che necessitano d’interventi di riqualificazione),
per ciascuno dei quali occorre fissare i relativi obiettivi.
4) Ambiti progettuali complessi, di particolare rilevanza strategica su scala regionale e interregionale, per i
quali accanto ad un livello interno di progettualità locale dei singoli territori, è mantenuto un ruolo di coordinamento diretto e centrale da parte della Regione (nel caso, ad esempio, della realizzazione del sistema
metropolitano torinese, della congiunzione Nord, della congiunzione Sud, del sistema delle grandi infrastrutture per la mobilità e la logistica, della banda larga).
Il Piemonte si trova dunque ad affrontare l’evoluzione della rete di relazioni intergovernative interne ed
esterne alla regione e dei ruoli dei vari attori locali, in conseguenza della stagione delle riforme amministrative degli anni novanta e della recente riforma degli assetti istituzionali: “da una parte, ciò si è tradotto in
una profonda evoluzione qualitativa delle funzioni amministrative svolte dai diversi soggetti pubblici e, dall’altra, in una crescente autonomizzazione delle sue varie componenti, avvenuta a seguito del processo di decentralizzazione che ha coinvolto soprattutto i livelli intermedi di governo”.
1. Territorio
Per molti anni, il Piemonte è stato considerato come una regione monocentrica57, almeno fino a quando si è
mantenuta salda l’immagine di Torino come one company town. Se nel dopoguerra l’organizzazione territoriale presenta una forte concentrazione di popolazione e attività nell’area metropolitana torinese58, dalla fine
degli anni Settanta le trasformazioni economiche e demografiche dell’area metropolitana iniziano a segnare
profondamente anche quelle dell’intero Piemonte: la tradizionale polarizzazione intorno a nuclei urbani ben
57
F. Governa, Piemonte. Permanenze e innovazioni: dal monocentrismo alla scoperta delle differenze, in «Genio Rurale», n. 2, 1999, pp. 39-51.
58
A. Bagnasco, Torino: un profilo sociologico, Einaudi, Torino 1986.
definiti inizia a sciogliersi in sistemi insediativi distribuiti a scala regionale. Con la perdita di peso dei grandi complessi dell’industria manifatturiera, infatti, si evidenziano modelli insediativi diversi da quelli della
città compatta, si registrano tendenze alla «deurbanizzazione» e alla «diffusione della popolazione». Lo stesso Piano territoriale regionale, i cui studi iniziano nel 1991 e sono sistematizzati nel documento di piano del
1997, sancisce l’effettiva esistenza del fenomeno 59. Negli ultimi due decenni, il territorio piemontese passa
dunque da uno schema centro-periferia a una geografia progressivamente policentrica, nella quale è possibile individuare sistemi insediativi diffusi con nette differenze nella base economica e nella struttura sociale.
L’armatura urbana regionale appare oggi decisamente ristrutturata, ruoli e funzioni sono stati riassegnati, i
rapporti fra i centri cittadini sono mutati. Soprattutto nella parte meridionale del Piemonte si manifesta un
progressivo rafforzamento di nuclei abitativi di livello sub-regionale di tipo policentrico, che trae origine da
un ampio tessuto di centri minori.
Dal punto di vista economico, come ha osservato Arnaldo Bagnasco, la deindustrializzazione a Torino non
significa solo cessazione della produzione60. La grande impresa della «città dopo Ford» ha reso la propria organizzazione più flessibile e soprattutto si è strutturata in un policentrismo articolato per sistemi locali. Queste aree sono le più dinamiche della regione: la trasformazione della base agricola tradizionale in un’agricoltura specializzata e tecnologicamente avanzata si coniuga con lo sviluppo di un settore industriale e di piccola e media impresa strettamente correlato alle produzioni e alle risorse locali. In questo scenario, il sistema
torinese slitta al terzo posto nella classifica per prodotto lordo pro-capite, dopo quelli di Alba e di Alessandria. Anche altre funzioni ritenute tradizionalmente una peculiarità torinese, come l’esportazione e l’internazionalizzazione produttiva, si ridistribuiscono nelle restanti province piemontesi.
1.1 Forme insediative e cambiamenti in corso
I cambiamenti intercorsi nell’organizzazione economica e sociale piemontese negli ultimi due decenni si stagliano su un territorio per il quale lettura di riferimento rimane quella tracciata dall’indagine Itaten, i cui risultati sono raccolti in due volumi pubblicati nel 199661. Il gruppo di lavoro coordinato da Giuseppe Dematteis delinea un’immagine del territorio piemontese costituita da uno scenario di sistemi locali articolati, più
o meno facilmente identificabili62. Il territorio descritto si compone in una geografia di cinque quadri morfologico-ambientali: alta montagna alpina, media e bassa montagna, alta pianura, media e bassa pianura, colline meridionali.
L’alta montagna alpina, comprendente le zone al di sopra dei 1000 m di quota, è definita «area di rarefazione sotto tutti i punti di vista»: uso del suolo, popolazione, dotazione di servizi e infrastrutture, eccezione fatta per le zone turistiche, a rischio sfruttamento.
L’alta pianura, cioè la fascia pedemontana alpina, con scarsa vocazione agricola, è caratterizzata da processi di urbanizzazione diffusa, che si sviluppa accanto a zone di elevato valore ambientale. La media e bassa montagna corrisponde alle medie e basse valli alpine e appenniniche, solitamente ben collegate alla pianura. Sono zone «di limite», dal carattere bivalente, che presentano sviluppi insediativi a fondovalle e versanti
abbandonati da popolazione e agricoltura, spesso trasformati in parchi.
La media e bassa pianura ospita terreni fertili, spesso umidi (per la presenza di fontanili), che favoriscono lo
sviluppo di una robusta agricoltura a scapito della diffusione insediativa, specialmente in zone come il Vercellese e il Novarese, o la pianura torinese.
Le colline meridionali sono quelle comprese fra il Po e l’Appennino ligure, di formazione argillosa e sabbiosa, che si possono ritrovare nelle Langhe, nel basso e alto Monferrato. In tali contesti, la bassa collina favorisce viticoltura e frutticoltura di pregio, a differenza dell’alta collina, che sconta un clima più sfavorevole e
condizioni di declino produttivo e demografico, ma allo stesso tempo ricche risorse ambientali e paesistiche.
La ricerca Itaten si sofferma ad analizzare le dinamiche dell’area metropolitana torinese, in cui si verificano
i maggiori processi di diffusione produttiva e residenziale; i sistemi lineari pedemontani di tipo policentrico
gravitanti su Torino e sull’asse Novara-Milano; il corridoio vallivo della val di Susa; la conurbazione di
sponda lacuale del Verbano occidentale che si salda con il tessuto urbanizzato lombardo (un’area di antica
59
Regione Piemonte, Assessorato all’Urbanistica, Pianificazione territoriale e dell’area metropolitana, edilizia residenziale, Piano territoriale regionale, Torino, giugno 1997.
60
A. Bagnasco (a cura di), La città dopo Ford. Il caso di Torino, Bollati Boringhieri, Torino 1990.
61
A. Clementi, G. Dematteis, P. Palermo, Le forme del territorio italiano, voll. I-II, Laterza, Roma-Bari 1996.
62
A. Spaziante (a cura di), Piemonte, in A. Clementi, G. Dematteis, P. Palermo, Le forme del territorio italiano, vol. II,
Ambienti insediativi e contesti locali, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 27-56.
vocazione industriale in transizione verso un’economia turistica e terziaria); il sistema insediativo di recente
espansione collinare corrispondente alla fascia delle culture specializzate dell’Astigiano, del Monferrato e
della Langa albese; la pianura meridionale dove si sviluppano trasformazioni produttive legate all’agro-industriale e alla piccola e media impresa; l’area rurale consolidata che si estende nella fascia pedecollinare tra
Alessandria e Voghera, dove si stanno sviluppando, in campo logistico, sinergie e relazioni con il capoluogo
ligure.
Questa, in sintesi, la conformazione territoriale piemontese, sulla quale si sono sviluppati nel tempo quattro
macro-ambienti insediativi:
1. Il pedemonte settentrionale urbano industriale: è la fascia pedemontana orientale attraversata dall’asse
Novara-Verbania-Ossola, lungo la quale si sviluppano da più di un secolo industria e urbanizzazione, che
convivono con gli insediamenti rurali in alta montagna;
2. Il polo metropolitano torinese: ha il suo fulcro in Torino, è organizzato in corone, allineamenti radiali e
gradienti, raggiunge i piedi delle valli alpine occidentali e la pianura nell’immediato sud;
3. I crocevia orientali della pianura alessandrina e vercellese: sono ambienti che conservano in parte caratteri rurali poco dinamici, in parte resti di uno sviluppo industriale ormai terminato;
4. Il sistema policentrico della pianura e delle colline meridionali: cresciuto su una trama di antiche città
medie e piccole, su di esso si appoggiano distretti industriali e agro-industriali in espansione, alternati ad
aree rurali marginali progressivamente trasformate a uso turistico o terziario.
I quattro macro-ambienti si articolano a loro volta in 13 diversi ambienti insediativi: il sistema metropolitano torinese; i sistemi policentrici lineari pedemontani del misto industriale/terziario, localizzati nel Canavese, nel Biellese e nel Verbano-Cusio-Ossola; il sistema conurbativo reticolare del misto terziario/industriale del Novarese; il sistema insediativo di recente espansione di collina e pedecollina, in particolare del Chierese, a ridosso del Monferrato; gli insediamenti radi delle aree industriali periferiche tra Carmagnola e Pinerolo; i grandi corridoi vallivi (Valle di Susa, le zone intorno alle direttrici verso sud come il col di Tenda, la
zona di Ceva-Millesimo, il passo del Turchino e di Novi Ligure, e le aree intorno ai principali collegamenti
con la Svizzera e la Valle d’Aosta); il rurale diffuso delle colture specializzate (Langhe, alto e basso Monferrato), l’urbanizzato diffuso della pianura meridionale (tra il Torinese e il Cuneese), il rurale consolidato rado
della pianura risicola/cerealicola (Vercellese), il rurale marginale statico delle colline centrali (tra Astigiano
e Alessandrino), il rurale rado di recente diffusione della pianura frutticola/orticola (zona del Saluzzese, parte del Roero), la conurbazione in sponda lacuale (lago Maggiore, lago d’Orta), e gli insediamenti radi della
montagna (l’arco alpino e appenninico).
Negli ultimi anni la stesura della del Piano Territoriale di sviluppo (PTR), nonché del Piano Paesaggistico
regionale (PPR), la Regione ha elaborato, quale documento di analisi interpretativa preliminare, il Quadro di
Riferimento Strutturale (QRS), frutto dell’apporto delle esperienze e conoscenze degli altri Enti e Direzioni
regionali, relativamente alle aree e alle questioni di loro competenza.
Il QSR risulta significativo in questa sede, poiché in esso è tracciata, ai fini “di ottenere una visione integrata a scala locale” un’ulteriore mappa del Piemonte, costituita da unità territoriali di dimensione intermedia
tra quella comunale e quella provinciale (individuate come spazi normalmente gravitanti su un centro urbano principale), chiamate, con riferimento alla loro funzione principale, Ambiti di Integrazione Territoriale
(AIT). La loro importanza deriva dal fatto che alla scala locale è possibile evidenziare le relazioni di prossimità (positive e negative, potenziali e attuali) tra fatti, azioni e progetti che coesistono e interagiscono negli
stessi luoghi.
Gli AIT coincidono con delimitazioni di dimensioni non eccessive, in cui gli abitanti e gli operatori pubblici
e privati danno vita a flussi di movimento e di comunicazione (ad esempio, dai comuni di residenza a quelli
in cui è presente una vasta offerta di servizi urbani), interagiscono, condividono abitudini, modi di essere, ed
appartenenza ad un’identità comune. “Sono perciò gli aggregati territoriali che più si avvicinano al modello
dei sistemi locali, intesi come possibili attori collettivi dello sviluppo territoriale”. Inoltre, alla luce della
complessità delle variabili in gioco, gli IAT svolgono anche un ruolo strategico come nodi complessi delle
reti di relazioni su scala sovralocale (regionale, nazionale, europea).
Quali criteri di individuazione degli AIT, sono stati considerati i confini provinciali, le Comunità montane e
collinari, i Sistemi locali del lavoro (SSL) 2001 dell’Istat, i distretti industriali dell’Istat, le subaree identifi-
cate in alcuni PTC provinciali, le aree di distribuzione della stampa periodica locale, gli ambiti dei più diffusi progetti sovracomunali della programmazione integrata e dei grandi progetti di trasformazione infrastrutturale e urbana, i territori delineati dal Piano paesaggistico regionale. Come risultato, l’intero territorio regionale è stato suddiviso in 34 AIT (Domodossola, Verbania, Omegna, Borgomanero, Novara, Borgosesia,
Biella, Ivrea, Rivarolo Canavese, Torino, Ciriè, Chivasso, Susa, Montagna Olimpica, Chieri, Carmagnola,
Pinerolo, Vercelli, Casale Monferrato, Alessandria, Tortona, Novi Ligure, Ovada, Asti, Alba, Bra, Canelli,
Acqui Terme, Saluzzo, Savigliano, Fossano, Cuneo, Mondovì, Ceva). Per ogni AIT sono poi stati raccolti, a
partire dal livello comunale, i dati relativi “a 70 variabili che descrivono e misurano le componenti strutturali (naturali, storico-culturali, demografiche, insediative, infrastrutturali e socio-economiche) di ogni Ambito
e ne indicano potenzialità e criticità…Queste informazioni e valutazioni sono poi sintetizzate per aggregati
territoriali più vasti, cioè per quattro Quadranti - Nord-est, Sud-est, metropolitano e Sud-ovest - in cui si può
dividere il territorio regionale”.
1.2 Dispersione territoriale
Gli ambienti insediativi individuati da Itaten rispecchiano anche i movimenti della popolazione sul territorio: dalle informazioni elaborate sulla base dei dati del censimento del 1991 emerge, nonostante i processi di
sub-urbanizzazione, una concentrazione ancora forte a livello delle città, in particolare nella zona compresa
fra l’area metropolitana torinese e l’asse Novara-Domodossola (il 50,3% della popolazione piemontese vive
ancora in centri con più di 20.000 abitanti).
La dispersione dell’area metropolitana torinese si propaga lungo i collegamenti con le Valli di Lanzo, la Val
di Susa, Pinerolo e Carmagnola, e un sistema insediativo chiaramente riconoscibile si è delineato lungo l’arco pedemontano che va da Ivrea a Biella-Cossato, Gattinara-Romagnano, fino a Borgomanero. Si è sviluppata anche la conurbazione lungo le sponde del lago Maggiore, come quella lungo la direttrice Novara-Val
d’Ossola, che si salda con le aree confinanti della Lombardia. La distribuzione si fa molto più frammentata
nelle aree policentriche del Cuneese e della collina preappenninica tra Alba e Alessandria, dove nuovi fenomeni insediativi a carattere multipolare testimoniano la crescita economica del Piemonte meridionale: il sistema policentrico appoggiato all’antica struttura comunale di Cuneo, Saluzzo, Mondovì, Savigliano, Fossano, Alba e Bra; quello fra Canelli e Nizza Monferrato, come l’asse Tortona-Novi Ligure-Serravalle.
Si conferma, invece, la rarefazione demografica lungo l’arco alpino, nelle colline pre-appenniniche del Basso Monferrato e nella pianura risicola novarese e vercellese, oltre che in quella alessandrina e ai margini di
quella cuneese63. Si tratta di modalità di “abitare” il territorio che si accompagnano a una crescente domanda
di qualità ambientale, testimoniata dal progressivo spostamento di consistenti fasce di popolazione dai centri
medi e grandi verso zone ritenute in grado di offrire un livello di tenore insediativo superiore.
Il Ptr prova a rispondere a tale tendenza prevedendo corridoi preferenziali per l’espansione di attività produttive e terziario, in corrispondenza di grandi interventi infrastrutturali già realizzati o in programma. Si
tratta delle dorsali di riequilibrio, uno degli indirizzi forniti per individuare le strategie di fondo della crescita, e per indicare il coordinamento delle politiche essenziali, singolarmente demandate alla pianificazione
provinciale e settoriale.
Questo «sistema di centri urbani fortemente integrati con elevata possibilità di sviluppo intersettoriale» è individuato intorno gli assi est-ovest, a nord e a sud di Torino, lungo la linea nord-sud che connette Verbania
con Novara, Vercelli, Alessandria e che prosegue in Liguria64.
63
Tutto questo sullo sfondo di una matrice insediativa che la ricerca Itaten divide in otto tipi di ambienti socio-economici omogenei: la metropoli centrale (il comune di Torino), i centri suburbani metropolitani (20 comuni della cintura torinese, attività industriali), i poli urbani consolidati (34 centri urbani prevalentemente terziari: tutti i capoluoghi di provincia, città medie), comuni perimetropolitani e urbani minori (86 comuni urbani in fase di sviluppo), aree dell’industria
periferica (199 comuni a netta caratterizzazione industriale, molti collocati nelle vallate di più antica industrializzazione,
nelle fasce a forte trama insediativa o ai margini di aree urbane forti), il rurale tradizionale in lenta trasformazione (384
comuni di vecchia formazione nella fascia alpina, pedemontana e collinare, specie nell’Eporediese, Casalese e Alessandrino), l’urbanizzato diffuso recente di pianura e di collina (177 comuni rurali a economia assestata, attorno ai centri
della pianura sud del Piemonte, molti lavoratori in proprio), il rurale residuale (308 comuni agricoli marginali di vecchia
formazione in aree poco dinamiche, di tipo terziario).
64
L’armatura urbana che tra 1995 e 1997 prende forma nel racconto del piano territoriale regionale articola insieme alle
dorsali di riequilibrio i vari centri sedi di servizi, gerarchizzati in tre livelli. Il primo riguarda Torino e la sua area metropolitana, oggetto di specifico Piano territoriale; il secondo, il livello regionale, individua tra i suoi centri le città di Ales-
Più recentemente, il Documento Programmatico per un nuovo Piano Territoriale Regionale (2005), sulla
base della legge obiettivo per le città, in quel periodo appena proposta alle Camere (pensata per colmare la
lacuna del progressivo esaurimento dei programmi di riqualificazione urbana succedutisi tra il 1993 e il
1999, ed accompagnata dalla redazione di un approfondimento analitico delle principali esigenze e criticità
del sistema urbano italiano), cita 18 “progetti complessi”, o “contesti bersaglio” che potrebbero essere oggetto degli interventi previsti dalla stessa legge obiettivo (“ambiti urbani e territoriali di area vasta, strategici
e di preliminare interesse nazionale, che dovrebbero essere individuati dal governo centrale insieme alle regioni”, auspicabilmente tenendo conto delle esigenze infrastrutturali, di mobilità e di connessione transfrontaliera in essi già presenti, coinvolgendo una pluralità di attori, pubblici e privati, ricorrendo a strumenti di
gestione quali il partenariato pubblico privato, la finanza di progetto ecc.) In tale contesto, è inoltre prevista
l’istituzione di una Conferenza per la città, composta da rappresentanti delle amministrazioni statali, delle
regioni, delle province e dei comuni interessati, atta a vagliare, raggiungendo un’intesa finale tra le varie
parti, la compatibilità dei piani con le previsioni di assetto territoriale.
“Le idee-programma sinora elaborate si raggruppano intorno a quattro assi tematici di intervento: potenziamento del sistema di relazioni a sostegno della vocazione transnazionale dei sistemi territoriali; potenziamento delle connessioni funzionali con le reti di livello superiore; intercettazione delle opportunità derivabili dalla presenza di infrastrutture a rete e puntuali; potenziamento del sistema infrastrutturale materiale e immateriale a sostegno dello sviluppo della distrettualità in termini di giacimenti produttivi e giacimenti naturalistici e culturali”.
1.3 Il territorio rurale
Nonostante una ormai scarsa incidenza in termini di peso economico, il settore agricolo mantiene in Piemonte un importante funzione socioculturale e ambientale, sul piano paesaggistico, della preservazione idrogeologica e naturalistica del territorio, del patrimonio di identità collettive, valori e tradizioni, nonché – persino
in contesti sviluppatisi in direzione dell’industria e del terziario – dell’influenza sulle scelte di politica pubblica, a diversi livelli amministrativi.
In virtù, quindi, del suo ruolo tuttora strategico e delle ripercussioni che esercita su vari aspetti della realtà
locale, il settore agricolo può essere considerato “multifunzionale”, con un’incidenza diversa in base alle caratteristiche delle sub-aree regionali di riferimento.
“Nelle riflessioni che accompagnano la formazione del Piano di sviluppo rurale della Regione Piemonte (in
corso di gestazione) viene così proposta una tipologia che individua tre situazioni principali:
- le aree a elevata specializzazione agricola e agroindustriale e le aree ad agricoltura intensiva organizzata
con tecniche avanzate, produttrici di beni indifferenziati per l’industria agroalimentare che presentano ancora una certa rilevanza economica, nonostante la concorrenza dei paesi basso costo del lavoro, ma che rischiano in parte di compromettere ambiente e paesaggio (le zone di pianura a cavallo delle province di Cuneo e di Torino, la pianura del riso tra il basso Vercellese e il Novarese e la pianura alessandrina);
- l’agricoltura di corona a ridosso dei maggiori centri urbani, in risposta alla domanda di prodotti agroalimentari espressa dalle popolazioni cittadine;
− l’agricoltura delle produzioni tipiche, che negli ultimi anni ha conosciuto un forte rilancio in connessione con la crescente attenzione del pubblico alla qualità enogastronomica”. Sebbene anche in questo sotto-settore non manchi oggi un aumento notevole della concorrenza, e si registrino fenomeni di dispersione insediativi e carenze a livello di risorse umane e di imprenditorialità, resta tuttavia saldo il pregio storico, culturale ed ambientale, oltre che il ruolo economico, di realtà dislocate in svariate zone rurali del
territorio. E’ più che mai necessario, in questo caso, ricorrere a logiche di distretto o di sviluppo locale
integrato, onde intervenire in modo puntuale e mirato sui punti deboli del sistema, preservandone al
contempo le peculiarità ed i valori.
1.4 La posizione del Piemonte nel Sud Europa
Il Piemonte si pone all’incrocio tra i due grandi assi di sviluppo del continente: l’asse Rotterdam-
sandria, Cuneo e Novara; il terzo, sub-regionale, annovera tra i suoi poli Alba, Asti, Biella, Borgosesia, Bra, Casale
Monferrato, Fossano, Ivrea, Mondovì, Pinerolo, Saluzzo, Savigliano, Verbania, Vercelli.
Genova (attraverso cui transitano anche i traffici originati dai mercati emergenti dell’Est asiatico) e l’asse
Lisbona-Kiev, assai attivo nel tratto traspadano.
La regione, rispetto al ruolo centrale rivestito in passato dal capoluogo torinese, è oggi strutturata secondo
uno schema più complesso e reticolare, che abbraccia sistemi locali ancora chiusi e tradizionali e al contempo realtà dinamiche e di respiro internazionale, elementi importanti ai fini dell’affermazione di moderne
prassi di gestione del territorio basate da un alto sulla coesione interna, e dall’altro lato sulla proiezione nella macroarea nord-occidentale.
Il rapporto della Conferenza delle Regioni Periferiche e Marittime (CRPM, 2004), annovera il Piemonte
(grazie al traino esercitato dall’area metropolitana torinese) tra i principali nodi periferici del continente (al
di fuori del cosiddetto “pentagono”, l’area centrale che concentra le principali funzioni di comando politico
ed economico) che spiccano nello scenario mondiale in quanto a “massa (capitale umano, capacità produttiva), competitività economica, dinamiche evolutive e connettività, sia interna che con il resto dell’Europa”65.
Per il Piemonte, o perlomeno per alcuni suoi sistemi locali si delinea quindi un ritratto non certo negativo,
anche emerge la necessità di ancorare più saldamente a risvolti concreti le future politiche di sviluppo locale.
La regione nel suo complesso è ritenuta debole per capitale umano e capacità produttiva, forte in rapporto
all’elevata potenzialità di interconnessione con le più solide realtà europee (tra le quali vi è Milano), di media capacità (più o meno in linea con la maggioranza delle aree europee) per quanto attiene alla competitività (superata solo dalle regioni di Helsinki, Stoccolma, Copenhaghen-Malmö, Bordeaux, Lione-Grenoble,
Paesi Baschi, Madrid, Barcellona e Roma) ed alle dinamiche evolutive (inferiore solo a Nottingham-Derby,
Galizia, Oporto, Lisbona, Malaga, Madrid e Barcellona).
Le politiche territoriali praticate dalle regioni del quadrante nord-occidentale, confinanti col Piemonte, presentano generalmente come punto di fragilità un elevato grado di autoreferenzialità, concentrandosi “sulla
creazione e il rafforzamento del vantaggio competitivo regionale al di fuori di qualsivoglia logica d’insieme.
Ciò pone, secondo il documento per il nuovo Pianto territoriale, problemi rilevanti di coerenza tra le politiche territoriali delle diverse regioni, soprattutto in merito alle scelte infrastrutturali”(p. 9) . In tema di infrastrutture, peraltro, gli effetti aggregati dei principali interventi in programmazione nel Nord-ovest italiano
(per la precisione, proprio nelle regioni contigue al Piemonte) sembrano favorire il Piemonte o, comunque,
non generare incompatibilità di rilievo, lasciando intravedere possibili spazi di integrazione e cooperazione
sul versante trasportistico (con vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro, e miglioramenti localizzativi a
scala macroregionale).
Diverso è il discorso per il caso del potenziamento del sistema aeroportuale lombardo (nuovo hub di Montichiari, Linate e Orio, Malpensa), che indubbiamente è portato a soffocare le potenzialità dello scalo di Caselle, e soprattutto per la pianificazione prevista in regioni “geo-economicamente” più distanti, quali EmiliaRomagna e Veneto (“le ripercussioni del rafforzamento dei due corridoi - ferroviario e stradale - TirrenoBrennero potrebbero deviare in modo significativo i traffici tirrenici dall'asse ferroviario storico Torino-La
Spezia-Pisa-Livorno; d'altro canto, la Gronda Sud lombardo-veneta potrebbe anch'essa favorire l’asse orientale dei flussi automobilistici a discapito del sistema piemontese”(ivi).
Per quanto riguarda la logistica, gli interventi previsti in Lombardia, per rifunzionalizzare le ex aree industriali di Arese integrandole con gli impianti intermodali sulla linea ferroviaria Novara-Seregno, “possono
rafforzare il ruolo di cerniera esercitato dal sistema novarese, integrando il resto del Piemonte gravitante sulla linea Torino-Milano. Nel contempo, l'ipotesi dell'ampliamento del terminal intermodale di Busto Arsizio
potrebbe spostare il baricentro della logistica sempre più verso Malpensa, depotenziando la stessa offerta torinese (Orbassano)”.
1.5 Dinamiche demografiche
Sul territorio regionale si stanno affermando nuove realtà economiche, in seguito alla crisi delle attività produttive dei principali poli industriali. Tra i processi che, nel periodo analizzato, caratterizzano il Piemonte, si
inseriscono anche il decremento demografico diffuso degli anni Novanta, causa, peraltro, di una modificazione strutturale nella composizione della popolazione, con il peso relativo dei giovani che si riduce in favore di un aumento del numero di adulti in età centrale e matura (dai 40 ai 60 anni). Tale decremento, particolarmente evidente nel 2001 (4.213.294 abitanti, contro il picco del 1993 pari a 4.306.565 66), cessa a partire
dal 2002, a favore, nei tre anni successivi, di una netta crescita della popolazione, grazie alla forte vivacità
65
Regione Piemonte, Per un nuovo Piano Territoriale Regionale, Documento Programmatico, 2005, p.9
del movimento migratorio. Le stime dell’Ires su dati provvisori Istat parlano di 4.298.608 abitanti in Piemonte al 31 dicembre 2004 (al 1° gennaio 2004 i dati Istat riportano una popolazione in Piemonte pari a
4.270.215 persone). Da segnalare, inoltre, l’incremento della natalità, con segno positivo dal 1994 (con flessioni nel 1999 e nel 2001), anch’esso legato all’elevato apporto della popolazione di origine straniera.
All’aumento di popolazione contribuiscono tutte le province, esclusa quella di Biella. In testa, anche grazie alle maggiori dimensioni, la provincia di Torino, con una popolazione residente in aumento di circa
15.000 unità67. Seguono a grande distanza le province di Alessandria, Novara, Cuneo, Asti, Vercelli, Verbano-Cusio-Ossola, e infine Biella. Nella quale, tra l’altro, il tasso di natalità è in diminuzione e l’aumento migratorio è esiguo, il più basso fra le province della regione. Segnali della crisi economica che sta attraversando questa zona.
1.6 Economia e sistemi produttivi
A fronte della crisi economica dell’ultimo decennio, tra la fine del 2005 il 2006 il sistema piemontese è
comunque stato in grado di tornare competitivo, anche se il livello di capacità produttiva, seppur in ripresa,
rimane al di sotto ai valori massimi raggiunti nel 2000.
La regione (e il Nord-Ovest più in generale), infatti, si trova tuttora esposta ad un’intensa concorrenza internazionale, e, a differenza di altre regioni specializzate in produzioni tradizionali del made in Italy, risente
soprattutto del confronto con i paesi economicamente più avanzati nei settori della medio-alta tecnologia.
Tuttavia, in un quadro di competizione mondiale, anziché rafforzare i propri fattori di spicco (specializzazione dei settori a elevata tecnologia, qualità del capitale umano, spinta all’innovazione), la regione, sempre secondo il Dspr, avrebbe seguito un percorso di adeguamento alla media italiana, riducendo i vantaggi nei
comparti a tecnologia medio-alta, a favore dei campi a più bassa tecnologia, nei quali anche e altre aree del
paese hanno mantenuto, o accresciuto, la propria elevata specializzazione.
I processi di globalizzazione in atto hanno evidenziato una doppia vulnerabilità dell’economia regionale,
esposta dall’alto alla concorrenza dei paesi più avanzati, che meglio hanno saputo sfruttare l’innovazione, e
dal basso a quella dei produttori a ridotto costo del lavoro e con minori vincoli istituzionali, la cui crescita,
oltretutto, determina una consistente domanda di beni di investimento e intermedi.
Oggi, poi, non mancano ulteriori elementi di debolezza: la stasi del reddito disponibile; la preoccupazione
sul futuro dell’economia e delle condizioni di vita, che influenza negativamente la propensione all’investimento imprenditoriale e ai consumi; la disoccupazione nell’area torinese, con un tasso tra i più elevati del
Nord Italia; la scarsa qualificazione scolastica e professionale, indietro rispetto alle altre realtà del Nord, e
non ancora in grado di soddisfare pienamente le esigenze delle imprese; il mancato raggiungimento delle
condizioni di pari opportunità tra uomini e donne, in termini di partecipazione al lavoro, retribuzione e percorsi di carriera.Tra i comparti in crescita figurano prevalentemente i servizi (trasporti e comunica-
zioni, sanità, servizi alle imprese, credito) e qualche attività manifatturiera «diversificata» (alimentare, lavorazione minerali non metalliferi). Tra i settori in relativo declino, per dinamica insoddisfacente di tutti o quasi i parametri di performance, compaiono alcuni settori di tradizionale specializzazione del Piemonte (tessile e abbigliamento, mezzi di trasporto e macchine) e altri manifatturieri
(pelli e cuoio).
Segnale di incoraggiamento rimane comunque il fatto che, nonostante la stagnazione degli ultimi tre anni,
nei quali l’economia piemontese ha manifestato tassi di crescita del Pil inferiori alla media nazionale, in particolare nel settore manifatturiero, il Piemonte sia comunque all’undicesimo posto tra le 182 regioni che
compongono l’Europa dei Quindici per quanto riguarda l’incidenza dell’industria manifatturiera a tecnologia
medio-alta, con un potenziale di ricerca paragonabile a quello delle altre regioni forti d’Europa.
Dopo il lungo periodo di riassestamento «post-fordista», il Piemonte sta dunque attraversando una fase di
riequilibrio tra industria e terziario. Terziario che si profila come altamente qualificato, dove i servizi alle
imprese (principalmente localizzati nella provincia di Torino e nella sua area metropolitana, dove si concentrano il 65% delle imprese, delle quali il 90% ha meno di 10 dipendenti) pesano più della media nazionale, e
sfiorano il 30% dell’intero terziario piemontese. Servizi all’impresa, e servizi alla produzione rappresentano
spesso funzioni che un tempo erano svolte all’interno dell’impresa stessa, e che ora risultano polverizzate sul
territorio. In sintesi, il sistema imprenditoriale piemontese sta orientando in modo diverso rispetto al passato
66
Movimento naturale, migratorio e popolazione in Piemonte (1991-2004), in Piemonte economico e sociale 2004, Ires
Piemonte, Torino 2005, p. 131.
67
Stime Ires su dati provvisori Istat gennaio-settembre 2004, in Piemonte economico e sociale 2004, cit., p. 135.
le proprie strategie verso attività, funzioni e profili operativi a produttività superiore, esito dei processi di razionalizzazione dei settori tradizionali e del riposizionamento su prodotti e servizi di qualità, manifestando
un potenziale tecnologico-innovativo ai primi posti nella graduatoria fra le regioni italiane.
La ridefinizione di ruoli e competenze che Torino in primis, ma anche Ivrea e Biella, stanno operando si staglia infatti su un Piemonte produttivo più articolato, che vede il sud della regione (aree della fascia pedemontana, del Cuneese e dell’Astigiano) sostituire alla base agricola contadina un’agricoltura tecnologicamente avanzata affiancata da industrie e servizi. Così, anche in aree specializzate nelle colture di vino, riso,
frutta o nell’alberamento, l’agricoltura è divenuta elemento complementare alla piccola industria e al terziario, contribuendo al rilancio di zone dapprima periferiche. Se, da un lato, si registra la graduale saldatura
delle aree della fascia orientale con quelle della Lombardia, dall’altro lato la crisi produttiva immobilizza la
parte settentrionale (Casale e Alessandria), che mantiene la propria tradizione industriale e rimane meno diversificato. Si conferma, infine, la specializzazione turistica del comprensorio Oulx-Sestrière-Bardonecchia
e della zona dei laghi del Verbano.
“Le principali dinamiche evolutive manifestatesi nel periodo recente - dal rilancio postfordista della “grande
Torino” al persistente dinamismo del Cuneese, dalla contrastata ridefinizione delle formule competitive delle economie distrettuali alla emergente centralità della funzione logistica, dall’affermazione dell’economia
del gusto all’intensificarsi della gravitazione su Milano della porzione centrale dello spazio padano - presentano tutte implicazioni rilevanti a livello mesoterritoriale, di corridoio, di dorsale, o di bacino vasto”.
Il sistema economico-produttivo piemontese può pertanto essere altresì sottoposto ad una lettura “per quadranti”, sulla scia dell’idea dei tre (o quattro) Piemonti emersa nel dibattito socio-politico dello scorso decennio (Il quadrante torinese; il quadrante sud-occidentale; il Piemonte orientale).
Il quadrante torinese è caratterizzato dall’espansione dell’area metropolitana e dallo sviluppo di attività manifatturiere ad alta tecnologia, servizi avanzati per le imprese, università e centri di ricerca, poli di eccellenza sanitaria, centri commerciali polivalenti.
Il quadrante sud-occidentale comprende l’intera provincia di Cuneo e le fasce adiacenti delle province di
Torino e di Asti: si connota per il lavoro autonomo, sullo sfondo di solide tradizioni culturali e di un dinamismo recente, in particolare in ambito enogastronomico.
Più in dettaglio, “il quadrante di sud-ovest si presenta quindi come un territorio a dinamismo composito, che
fa della varietà il suo elemento di forza: un “modello” con qualche elemento che richiama la “Terza Italia”,
come il persistente mix agricolo-industriale e la vivacità dell’imprenditorialità minore, ma anche una presenza robusta dell’impresa multinazionale, sia di quella endogena (Ferrero e Miroglio) che di quella straniera
(Michelin, Saint Gobain): un sistema urbano multicentrico con almeno due “polarità metropolitane” (Cuneo
e Alba-Bra), unito al mantenimento di saperi tradizionali, ma anche alla capacità di declinarli sul mercato
globale (il vino, l’ambiente di Langa, l’economia del gusto, l’Università di Pollenzo)”.
Il Piemonte orientale è stato in passato tendenzialmente percepito come suddiviso nell’area dei distretti pedemontani (dal Biellese al Cusio) e nella zona del malessere economico e demografico della pianura Vercellese e alessandrina. Ad oggi, è però considerato come un’area unitaria, in virtù della recente espansione dell’economia alessandrina (che ha beneficiato della riorganizzazione logistica del porto genovese, e degli investimenti infrastrutturali sulla direttrice Genova-Sempione, e sull’intera area del nord-ovest), e del crescente potenziale attrattivo esercitato, nell’ultimo decennio, dalla conurbazione centro-padana, con le province
occidentali del Piemonte (Novara in primis) che si riconfigurano come decisamente gravitanti sul polo milanese.
1.7 le trasformazioni di Torino e l’evento olimpico
La città di Torino ha vissuto una fase di transizione in cui le politiche pubbliche hanno rivestito un
ruolo centrale nell’indirizzare e guidare il cambiamento dal punto di vista economico ed urbanistico. Il primo Piano Strategico di Torino, definito nel febbraio 2000, e frutto di un percorso di analisi
e di concertazione di interessi durato 18 mesi (il piano si ancorava, peraltro, ad alcune rilevanti scelte urbanistiche già definite dal Piano Regolatore Generale di riferimento, elaborato da Vittorio Gregotti e Augusto Cagnardi), si poneva quale strumento innovativo, delineando il quadro degli sviluppi di una città in profonda trasformazione, e coinvolgendo una coralità di attori pubblici e privati, in
vista di alcuni obiettivi prioritari. Nonostante il suo carattere, tuttavia il primo piano strategico, non
riusciva a cogliere gli scenari del futuro locale in tutte le loro possibili implicazioni. Ad esempio,
per quanto attiene all’organizzazione delle Olimpiadi invernali del 2006, il piano, pur includendo
come traguardo il grande evento, non poteva ancora prevederne nel dettaglio, tutti gli aspetti e le
conseguenze, soprattutto quelli legati alla gestione dell’eredità di impianti e strutture.
Inoltre, nel frattempo (agli inizi degli anni duemila), la crisi ed i cambiamenti affrontati dal settore automobilistico hanno registrato una forte accelerazione, sollevando nuove questioni problematiche (ad es., con la
parziale dismissione dello stabilimento di Mirafiori). Nello stesso periodo, si è innescato un vivace dibattito
circa i rapporti di possibile integrazione con la città di Milano, ed è mutato il contesto politico, con il rinnovo dell’amministrazione del comune di Torino e di molti sindaci dei comuni dell’hinterland. Il tutto ha reso
non più rinviabile l’apertura di un’ulteriore fase di riflessione, di coinvolgimento degli attori locali, di individuazione di nuove priorità e di condivisione di scenari di sviluppo per l’intera area metropolitana.
Si è giunti così all’elaborazione del secondo piano strategico, attraverso cui Torino si prefigge, prioritariamente, di arrivare a disporre di “processi di formazione di capitale umano di alto livello”, che agiscano da
volano per la modernizzazione delle filiere produttive, da quella dell'automobile, al settore della salute, con
un ruolo di prestigio assegnato alla ricerca sulle biotecnologie.
Quale significativo e recente esempio di iter decisionale contrastato, nell’ambito di un progetto di
sviluppo condiviso in ambito cittadino, si può citare il caso torinese della “Città della salute” (detto
anche “Molinette 2”), intorno al quale nell’ultimo decennio è maturato un lungo confronto (non ancora concluso), con l’emergere di diverse ipotesi localizzative (Mercati Ortofrutticoli all'Ingrosso,
FIAT Avio, area Mirafiori). Recentemente ha iniziato a farsi strada l’idea di una collocazione del
complesso nell’area delle ex OGR (Officine Grandi Riparazioni), in modo da soddisfare contemporaneamente sia le esigenze del Politecnico (che sorge nelle immediate vicinanze), sia la necessità di
un forte polo culturale dedicato alla conoscenza scientifica e tecnologia, rivolto agli studenti ed ai
cittadini, sia la possibilità di costruire la futura biblioteca multimediale.
In un simile processo decisionale si riscontano analogie con la fase già vissuta da Torino all’inizio
degli anni Ottanta, quando la discussione sull’utilizzo delle aree strategiche, e le anticipazioni di alcune delle linee della successiva pianificazione, avevano condotto all'avvio di progetti quali la riconversione del Lingotto e la costruzione del nuovo Palazzo di Giustizia.
I significativi esempi di pratiche concertative complesse per la pianificazione locale (Progetto Speciale Periferie, Urban, The Gate, diverse cooperazioni tra Comuni dell’area metropolitana, la stessa Associazione Torino Internazionale, da cui è nato il Piano Strategico), sposando un originale modello di effettiva partecipazione sociale alle decisioni, di collaborazione tra soggetti territoriali e di gestione del lavoro a livello intersettoriale, hanno posto le basi per interventi coerenti e riusciti, con una diffusione ed un impatto positivo
sull’intera area metropolitana.
Non a caso, proprio grazie a simili esperienze, Torino in questi ultimi anni è diventata uno dei punti di riferimento del dibattito internazionale sui processi di riqualificazione urbana, soprattutto in tema di periferie, sia
per le modalità di pianificazione messe in pratica, sia per i risultati ottenuti attraverso ben tre Pru, Urban,
quattro Contratti di Quartiere, nove azioni di Sviluppo Locale Partecipato, e in parallelo, i programmi avviati nelle aree gravitanti intorno al capoluogo, come i progetti Prusst e Urban di Settimo Torinese.
Permane, tuttavia, il dubbio se tale patrimonio di esperienze e ricadute sul territorio siano capaci di superare
la fase sperimentale, divenendo tratti permanenti di una cultura coerente e condivisa da tutti i settori della
pubblica amministrazione.
All’interno del secondo piano, inoltre, un ruolo fondamentale spetta ai grandi eventi, ormai esplicitamente
riconosciuti come “uno degli ambiti d’investimento più promettenti per il futuro di Torino” (Associazione Torino Internazionale, 2006, p.134). In tal senso, emblematica si rivela l’organizzazione
dei Giochi Olimpici del 2006, che ha rappresentato uno degli obiettivi più importanti del percorso di apertura all’esterno, e del processo di diversificazione sociale ed economica, che hanno contraddistinto le politiche
urbane di Torino e della regione Piemonte nell’ultimo quindicennio.
La città, conformemente alla precisa scelta di considerare i Giochi un evento strategico per tutto il
territorio locale, ha beneficiato di un ampio programma di interventi straordinari (nel complesso, il
territorio ha beneficiato di investimenti per 2,066 miliardi di euro, di cui 659 milioni stanziati dagli
enti locali). Le opere olimpiche torinesi, distribuite in modo policentrico nel contesto metropolitano,
si sono inserite nel quadro urbanistico della città, realizzando scenari di sviluppo che in parte erano
stati previsti dal Piano Regolatore Generale, ma che, in alcuni casi, non erano stati ancora completamente delineati.
In particolare, attraverso la creazione del Villaggio Olimpico nell’area ex Moi nel quadrante Sud
della città, del Villaggio Media nell'Ospedale Militare e dell’Oval nell’area di Fiat Avio si è con forza attivata una trasformazione solo parzialmente individuata dal Prg per l’area del Lingotto-Mercati
Generali, considerata uno dei poli di sviluppo del sistema urbano. Nella stessa zona, in piazza d’Armi, è stato possibile recuperare e ammodernare lo Stadio Comunale, completando il disegno di assegnazione degli stadi alle due squadre di calcio cittadine, e guadagnando un’ampia area verde.
Resta invece viva la necessità di potenziare il sistema Lingotto-ex Mercati Generali-Palahockey, ultimando, come previsto, il sottopasso di corso Spezia, e identificando per le strutture coinvolte, destinazioni d’uso post-olimpico coerenti con la vocazione fieristica e di attrazione di eventi dell'area.
In parallelo, assume importanza la riflessione generale sulla stazione Lingotto, onde migliorarne la
fruibilità, a servizio del complesso fieristico e congressuale.
Nell'area della Spina Centrale, i progetti olimpici, pur interessando una piccola parte dell'intera superficie riqualificata (100.000 mq, circa il 5%), hanno riguardato localizzazioni significative. Alcuni
di questi interventi (soprattutto quelli nella zona della Spina 3, quali i Villaggi Media dell’area Vitali e Michelin) potrebbero diventare fattori di traino per lo sviluppo dell'area, ma richiedono che sia
contestualmente messa a punto una strategia integrata su mobilità e localizzazioni; altri (è il caso dei
Villaggi Media Italgas, Itc-Ilo, Spina 2 e Villa Claretta a Grugliasco) rappresentano una risposta a
problemi locali (come il bisogno di nuove residenze universitarie) presenti da tempo nell’agenda dei
decisori pubblici.
I progetti che hanno riguardato il territorio esterno all’area metropolitana interessato dall’evento
olimpico, si sono posti l’obiettivo di potenziare, in termini ricettivi e infrastrutturali, il comprensorio della Val di Susa e della Val Chiosone, per valorizzare l’attrattività turistica e sportiva dell’area
anche dopo i Giochi. Pur essendo in primo luogo un evento sportivo, per i territori ospiti le Olimpiadi sono state un’occasione di potenziamento infrastrutturale, e di promozione su scala mondiale.
L’eredità olimpica è composta peraltro da molti aspetti, sia fisico-territoriali (impianti, spazi per
l’accoglienza, trasformazioni urbane, ricadute occupazionali ed economiche), sia immateriali (l’immagine, la notorietà urbana, il posizionamento internazionale, la diffusione dei valori sportivi, la capacità di governo locale) che, nell’insieme, possono produrre effetti in grado di modificare l’assetto
degli spazi e di influire sul sistema socioeconomico delle comunità, arricchendo la gamma dei saperi e delle convenienze, e condizionando atteggiamenti e aspettative della popolazione.
La comunità locale direttamente coinvolta nell’organizzazione dei Giochi, accanto ad alcuni effetti
positivi immediatamente tangibili, ne ha ricevuti altri che si sono per ora manifestati soltanto in forma potenziale: la loro concreta efficacia si potrà misurare solo in conseguenza dell’attivazione di un
progetto collettivo di messa in valore dell'eredità post-olimpica. Ad oggi, infatti, non sempre i casi
di governance nel periodo successivo ai Giochi si sono rivelati all’altezza dell’indiscusso patrimonio, materiale ed immateriale, lasciato dall’esperienza olimpica.
Già sin dal periodo pre-Olimpiadi non è mancato un sostenuto dibattito circa il deficit emerso nei
conti del Comitato Organizzatore (Toroc): si temeva che, anziché una proficua eredità di strutture e
buone pratiche, una volta terminati i Giochi, la città avrebbe dovuto sostenere le conseguenze di un
ingente onere finanziario. Per quasi tutto il 2005 le stime sul “buco” nei conti del Toroc hanno spaziato tra i settanta e i novanta milioni di euro, per poi risultare ridotte a circa quaranta milioni alla
vigilia dei Giochi, e a poco più di trenta milioni subito dopo i Giochi68.
E, ad oggi, permane la difficoltà, da parte della Fondazione post-olimpica di operare a pieno regime,
ma anche una carenza di progetti chiari riguardo alle destinazioni d’uso del patrimonio tecnologico
o sanitario ereditato (il riferimento è in particolare alle vallate montane coinvolte dai Giochi, che ancora oggi non sanno come utilizzare la banda larga e gli ambulatori realizzati per le Olimpiadi).
Un’ulteriore risorsa chiave nella trasformazione della città è si è rivelato il settore della cultura, in particolare grazie alla forza di attrazione di istituzioni che si collocano “su uno standard di eccellenza”. Si pensi al
Museo Egizio, secondo nel mondo, per quantità esposte, soltanto a quello del Cairo, ed in fase di restauro,
per apparire impeccabile, con nuovi percorsi e nuovi spazi; al Museo del Cinema, nella Mole Antonelliana,
68
E’ curioso che questa riduzione del deficit a chiusura dei Giochi sia stata attribuita ripetutamente dagli organizzatori
al “buon andamento delle vendite dei biglietti”; in verità proprio la vendita dei biglietti si è rivelata tutt’altro che un’operazione di successo. E’ probabile quindi che il Toroc si attendesse dalle biglietterie un “flop” di vendite decisamente
più marcato rispetto al all’andamento poi effettivamente registrato.
che ha incontrato un vasto successo; al complesso di sedi per l'arte contemporanea (Rivoli, GAM, Fondazione Sandretto, Pinacoteca Agnelli, Fondazione Merz), che hanno raccolto l’insegnamento delle gallerie che in
passato importavano la pop art e del movimento dell'Arte Povera; al sistema musicale, con il Teatro Regio,
l'Orchestra Rai, l'Unione Musicale e Settembre Musica. Ed al rilancio culturale torinese hanno contribuito
inoltre gli investimenti nei campi dell’editoria, dell'animazione, degli audiovisivi, delle produzioni multimediali per l'apprendimento.
A tale “industria dei contenuti”, si aggiunge un calendario di eventi di varia natura, già in programma da qui
al 2008: le Olimpiadi della neve, i Mondiali di scherma, le Olimpiadi di scacchi, il raduno di Terra Madre, il
Congresso mondiale degli architetti, Torino Capitale del Libro, Torino Capitale del Design, la nuova celebrazione nazionale, dal titolo Italia 150 (scelto da Regione, Provincia e Comune, membri del Comitato promotore, con atenei, camere di commercio, Compagnia di San Paolo e Fondazione CRT).
Quello che era il polo industriale per antonomasia sta quindi diventando un territorio polivalente per la cultura, i congressi, lo sport, il tempo libero, attrezzato per ospitare mostre ed eventi, disposto ad investire nel
turismo specializzato.
1.8 Il territorio nel DOCUP
Il DOCUP, nella sua prima parte (quadro socioeconomico, ambientale e territoriale) assume, da un punto di
vista descrittivo, la classificazione degli ambienti insediativi derivati dalla ricerca Itaten, senza apportare variazioni interpretative.
Si assumono dunque69, come base di partenza, la ripartizione del territorio regionale basata su quattro zone
(la zona pedemontana settentrionale urbano-industriale, il polo metropolitano torinese, i crocevia orientali
della pianura alessandrina e vercellese, il sistema policentrico della pianura e delle colline meridionali), la
cartografia scaturita dalla ricerca,70 e le conclusioni sui cambiamenti in atto.
E, in parallelo, le interpretazioni sulle trasformazioni territoriali derivano dall’analisi di alcune grandi tendenze problematiche: il decremento demografico, la deurbanizzazione diffusa con trasferimento di fasce
consistenti di popolazione verso aree extra cittadine, il processo di deindustrializzazione che si accompagna
alla progressiva dismissione di comparti e localizzazioni storiche, i casi di abbandono e degrado in aree e
territori significativi (precedentemente industriali o rurali), le concentrazioni di insediamenti civili e produttivi.
Il DOCUP dedica particolare attenzione alle zone Obiettivo 2, al quadro delle criticità ambientali (suolo, acqua, inquinamento, attività produttive) e alle risorse potenziali che possono essere sfruttate ai fini dello sviluppo. Una precisa analisi riguarda le aree industriali e le zone rurali con problemi di riconversione, per le
quali vengono individuati punti di forza, di debolezza, minacce ed opportunità. E’ auspicata una crescita
economica fondata su di una diversificazione qualificata, che valorizzi i punti di forza della Regione (l’elevato livello di reddito, il ruolo in una cornice macroregionale a diffuso benessere, l’abitudine a consumi evoluti, la progressiva apertura verso l’esterno, il reinserimento di alcune filiere produttive su posizioni di pregio, la aumentata attenzione verso la qualità dei prodotti, la razionalizzazione delle strutture aziendali e la
consapevolezza del valore strategico delle scelte in materia ambientale).
In generale, si può rilevare, come nel DOCUP manchi uno sforzo interpretativo che aggiunga valore all’analisi e motivi le strategie da intraprendere, e come, al contrario, vengano assunte letture del territorio regionale consolidate, desunte da attività di ricerca già precedentemente svolte: ne deriva che il quadro di partenza
sia costituito dalle linee di cambiamento più funzionali a giustificare le scelte stesse di programmazione.
2. Fondi strutturali in Piemonte
2.1 Orientamenti generali del DOCUP
Il primo Documento di Programmazione della Regione Piemonte cofinanziato da Fondi Strutturali risale
al 1989. Il Programma Operativo (PO) e il Programma Operativo Plurifondo (POP) concentravano le loro
azioni nelle aree Obiettivo 2 della provincia di Torino (con l’esclusione del capoluogo), e nel Verbano-Cu69
70
Regione Piemonte, Fondi strutturali 2000-2006. Docup Piemonte, p. 64.
http://www.regione.piemonte.it/industria/docup/docup.htm
sio-Ossola. Si trattava di interventi in aree industriali, in fase di crisi, ristrutturazioni, delocalizzazioni, caratterizzate da situazioni di tensione sociale, perdita di posti di lavoro e scarse opportunità a livello di occupazione giovanile. In queste zone, attraverso l’utilizzo dei fondi strutturali, ci si proponeva di limitare gli effetti
di dei processi negativi in corso, favorendo possibili riconversioni industriali, l’approntamento di aree destinate a nuovi insediamenti produttivi, e più in generale la diversificazione del tessuto economico.
Con la programmazione del DOCUP 1994-1999, alle aree precedentemente individuate si aggiungevano 4
circoscrizioni periferiche del comune di Torino ad elevato grado di disagio sociale ed alti tassi di disoccupazione, e la valle Scrivia in provincia di Alessandria (con i centri di Novi Ligure e Tortona). Anche in questo
caso si trattava di aree colpite dalla crisi del settore secondario che aveva fortemente segnato la vita economica dei precedenti decenni. In particolare per l’area della valle Scrivia, accanto alla già avvenuta scomparsa
dei settori del tessile e della plastica, si stava accentuando la crisi del settore alimentare e metalmeccanico.
Gli interventi miravano a rafforzare il ruolo della zona quale importante nodo logistico integrato del NordOvest tra la Liguria, il Piemonte e la Lombardia, tramite il sostegno ad imprese dell’autotrasporto.
Nell’ultimo DOCUP 2000-2006 sono state individuate nuove aree Obiettivo 2 in tutte le province piemontesi, con l’esclusione di Novara. Si punta a una «riqualificazione diversificata», mediante il potenziamento e la crescita delle imprese minori, il rafforzamento e la diffusione dei processi di innovazione, ed un
più facile accesso al credito. Inoltre, particolare attenzione è stata dedicata al tema della tutela e della valorizzazione ambientale, attraverso le bonifiche di siti industriali abbandonati e degradati, che sono stati destinati a nuovi utilizzi produttivi, ed alla riqualificazione delle aree turistiche e di potenziamento di tutta la varietà delle risorse territoriali.
L’individuazione delle linee strategiche del DOCUP, mirate ad attivare processi socioeconomici che conducano alla riconversione delle aree Ob.2, si è basata su di un accurato esame dei punti di forza (da valorizzare), di opportunità (da cogliere), di debolezza (da superare) e di minaccia (da contrastare) delle zone coinvolte (analisi SWOT).
Caratteristiche area interessata dal DOCUP Ob. 2
Territorio
Popolazione
(Ab)
Obiettivo 2
Phasing Out
Totale
1.343.402
1.200.000
2.543.402
Quota di
popolazione
regionale
(%)
31
28
59
Informazioni finanziarie del DOCUP Ob. 2
Risorse pubbliche (€)
Comunitarie Altre
Risorse priva- Risorse
te (€)
(€)
489.000.000 563.000.000 118.000.000
totali Quota di risorse dedicate alla
progettazione integrata (%)
1.241.000.000 11,00
Obiettivi e indirizzi strategici :
- promuovere la progressiva qualificazione innovativa di prodotti, processi e sistemi organizzativi;
- incentivare lo spostamento dei settori tradizionali su prodotti di fascia alta, e diversificare su prodotti hightech con mercati in sviluppo
- sostenere lo sviluppo di attività industriali e terziarie di nuovo impianto rispetto alle tradizionali attività di
massa;
- sviluppare settori di eccellenza basati su specificità locali;
- ampliare la dotazione e la produzione regionale di conoscenze, e favorirne la diffusione nel sistema economico;
- rafforzare gli investimenti pubblici nei programmi di sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica;
- promuovere l’internazionalizzazione delle imprese e sviluppare i relativi servizi;
- governare la delocalizzazione delle produzioni di fascia bassa e delle fasi produttive più standardizzate;
- sostenere la crescita dimensionale e la cooperazione di rete del sistema delle imprese minori;
- aumentare la produttività dei settori dei beni e servizi a mercato locale, protetti dalla concorrenza internazionale.
2.2 Criteri di priorità, assi e criteri di selezione delle misure
La programmazione regionale è orientata all’inserimento del Piemonte nel circuito delle economie forti europee, come regione che sia in grado di assumere un ruolo di guida e traino nel contesto internazionale, anche grazie a elementi di differenziazione e qualificazione dei propri settori economici e ad investimenti nei
comparti più innovativi, che possano preludere a uno sviluppo strutturale e, di conseguenza, a una rafforzata
coesione sociale.
In riferimento alle linee strategiche, ed in conformità con il Programma di sviluppo regionale, nel DOCUP
sono illustrati una serie di processi, correlati agli obiettivi generali verso i quali far convergere i finanziamenti, in modo da:
- assecondare, potenziare e rendere strutturali i meccanismi di riconversione già avviati, sia nel settore industriale che in quello agricolo;
- rendere possibile il ripristino degli equilibri ambientali e territoriali;
- riorganizzare in chiave razionale le risorse presenti.
Le scelte strategiche di fondo trovano un’articolazione e un più puntuale dettaglio nella definizione degli
obiettivi globali. Il DOCUP si propone di:
1) promuovere e rafforzare il ruolo del sistema Piemonte all’interno delle reti di integrazione mondiale, in
virtù del suo valore a livello produttivo, commerciale, culturale, infrastrutturale e relazionale, e coinvolgere
nel processo di sviluppo un più vasto insieme di imprese e attori economici e sociali;
2) accrescere la competitività generale della regione, valorizzando le sue potenzialità in fatto di modelli organizzativi, di innovazione di processo e di prodotto, di conoscenze e patrimonio tecnico-scientifico, di offerta di spazi e condizioni per nuovi insediamenti, di capacità di interconnettere le imprese, di attenzione al
contesto ambientale;
3) fare della programmazione partecipata un modello sistematico, da seguire per la pianificazione degli interventi di sviluppo locale integrato, di riqualificazione urbana, e di salvaguardia e tutela delle risorse ambientali ed energetiche;
4) arginare i rischi di isolamento degli individui, garantendo servizi efficienti per il reinserimento sia sociale
che occupazionale.
A tali obiettivi si associano quattro assi prioritari:
Internazionalizzazione delle imprese (Asse 1);
Qualificazione e sostegno di sistema (Asse 2);
Sviluppo locale e valorizzazione del territorio (Asse 3);
Coesione sociale (Asse 4).
Secondo le intenzioni del DOCUP, l’Asse Internazionalizzazione dovrebbe permettere di rispondere alle esigenze
di aggancio del sistema delle imprese piemontesi alle reti transnazionali, per la promozione e la vendita dei prodotti o dei servizi, favorendo la diffusione di uno stile regionale nei vari settori economici. L’Asse 1 prevede azioni di
promozione e supporto alle imprese per interagire con l’estero, e di incentivazione alla certificazione ambientale
come fattore di competitività, ma soprattutto si propone di creare condizioni favorevoli alla costituzione di partnership permanenti, utilizzando anche quelle reti, come la subfornitura auto, per trasferire modelli operativi o per ampliare i settori coinvolti. Secondo il DOCUP gli effetti attesi da questo asse sono l’incremento del valore degli
scambi e della capacità di partnership, e in primis l’affermarsi di una visione strategica del Piemonte che potrà essere acquisita dalle altre regioni europee, e non solo.
L’Asse Qualificazione e Sostegno di Sistema è orientato al completamento del processo di riconversione del
sistema economico piemontese, sia in relazione al rafforzamento e allo sviluppo delle imprese, legato anche
a un significativo miglioramento delle performance ambientali (con conseguente riduzione degli impatti e
dei rischi ambientali legati ai processi produttivi), sia in riferimento alla valorizzazione dei beni culturali e
naturalistici esistenti. Tramite le azioni inerenti tale asse, si intende accelerare lo sviluppo del settore dei
servizi e soprattutto la sua qualificazione a livello europeo, supportando la definizione e la diffusione di modelli e competenze innovative, organizzando gli spazi privilegiati per il confronto e lo scambio tecnologico,
favorendo la creazione di filiere e distretti.
In questa direzione sono rivolte gran parte delle potenzialità del territorio, sia a vantaggio della componente
imprenditoriale (in rapporto alla qualità degli insediamenti presenti, alle strutture predisposte nella passata
programmazione ed agli spazi e i contenuti tecnologici), sia, in misura ancora maggiore, a favore del patrimonio culturale, architettonico e naturalistico, che, oltre alla creazione di circuiti economici di sostegno, richiede anche che si lavori ancora per garantirne una fruibilità piena e di elevato livello qualitativo. L’evoluzione dell’immagine e del potenziale attrattivo del territorio, a livello di attività produttive e servizi e di offerta turistica e culturale, rappresenta il principale effetto atteso di questo asse, e pertanto la sua efficacia rispetto all’obiettivo generale risiede nella riconversione e nel rilancio delle zone obiettivo, e nella crescita di
valore del sistema Piemonte nel suo complesso.
L’Asse Sviluppo Locale e Valorizzazione del Territorio vuole rispondere all’esigenza di uno sviluppo armonioso e sostenibile dei territori, intesi come aree omogenee per le caratteristiche morfologiche, ma anche per
quelle economiche o sociali. In questa accezione gli interventi previsti sono rivolti sia alla messa in sicurezza e bonifica di siti inquinati, al recupero delle situazioni di degrado, al superamento del rischio naturale e
tecnologico e alla tutela e protezione delle risorse ambientali, sia alla valorizzazione e riqualificazione dei
tessuti culturali, sociali ed economici locali. Ciascuna area è caratterizzata da elementi distintivi, attorno ai
quali promuovere azioni integrate di riconversione e riqualificazione, facendo perno sui processi di aggregazione in atto, e favorendo la creazione di partenariati permanenti rivolti alla programmazione e gestione degli interventi. I principali effetti di questo processo si potranno misurare dalla capacità dei territori di dare
vita a sistemi permanenti variamente formalizzati, che rendano costanti nel tempo analisi e valutazioni sulle
potenzialità esogene ai fini di uno sviluppo socioeconomico equilibrato. L’efficacia dell’asse rispetto all’obiettivo generale attiene alla possibilità di coinvolgere i territori, nel loro complesso di attori, e di renderne
durature le azioni, assegnando valore strutturale alla metodologia di intervento e alla partecipazione allargata, in una logica di responsabilizzazione generalizzata.
L’Asse Coesione Sociale si prefigge di garantire il coinvolgimento di tutti gli individui nei processi di inserimento sociale e lavorativo, onde combattere i rischi di emarginazione sociale e territoriale. La partecipazione attiva, l’inserimento occupazionale e il miglioramento delle competenze del maggior numero di soggetti, rappresenta uno degli effetti attesi da questo asse, affinché la riconversione economica sia accompagnata dal rafforzamento della coesione sociale, così come indicato nell’obiettivo generale. Un ulteriore effetto atteso è il recupero sociale ed economico di quartieri degradati o di aree marginali.
In sintesi, le descrizioni dei 4 assi possono essere così definite:
• Asse 1 Internazionalizzazione: insieme di interventi atti a collegare il sistema Piemonte alle reti internazionali della produzione e dei servizi;
• Asse 2 Qualificazione e Sostegno di Sistema: gruppo di azioni atte a migliorare e qualificare le risorse e
le potenzialità nei settori produttivi e culturali del territorio;
• Asse 3 Sviluppo Locale e Valorizzazione del Territorio: interventi integrati mirati a favorire la partecipazione dei soggetti locali allo sviluppo sostenibile e durevole del territorio (aree urbane e rurali), nonché
la valorizzazione dell’ambiente;
• Asse 4 Coesione Sociale: azioni mirate per l’attivazione di servizi collettivi che permettano di realizzare
percorsi individualizzati per la lotta all’emarginazione sociale e alla disoccupazione. Azioni mirate al recupero sociale ed economico di quartieri degradati e aree marginali; interventi per favorire la nascita di nuove
imprese, creazione di incubatori.
Tab. - Struttura del DOCUP Ob. 2
Obiettivi globali
Assi prioritari
Misure
Obiettivi specifici
Rafforzare
Internazionalizzazio- 1.1.
l’immagine regionale
all’estero.
1.2.
Promuovere i
prodotti piemontesi sui
mercati esteri.
1.3.
Incrementare
le partnership e gli
scambi internazionali
delle imprese piemontesi
1.1.
Valorizzazione dell’immagine regionale e promozione internazionale dei prodotti piemontesi.
1.2.
Supporto all’internazionalizzazione del sistema economico del
Piemonte.
2.
Qualificazione e soste- 2.1.
Aumentare gli
gno di sistema.
investimenti delle imprese.
2.2.
Sviluppare i
sistemi finanziari e i
servizi di assistenza
per migliorare la competitività della imprese.
2.3.
Rafforzare le
strutture insediative.
2.4.
Accelerare il
processo di trasferimento tecnologico e la
diffusione degli strumenti dell'Information
Society.
2.5.
Realizzare un
sistema regionale per il
turismo ed i beni culturali.
3.
Rendere stru- 3.
Sviluppo locale e va- 3.1.
Sostenere la
mento di sistema la
lorizzazione del territorio.
progettazione integrata
programmazione pardi area.
tecipata per gli inter3.2.
Stimolare la
venti di sviluppo locaprogettazione in ambile integrato, di recupeto rurale.
ro urbano e di corretta
3.3.
Favorire i
gestione e tutela delle
processi di riqualificarisorse ambientali ed
zione urbana.
energetiche.
4.
Combattere i 4.
Coesione sociale.
4.1.
Migliorare
rischi di emarginaziol'inclusione sociale.
ne delle persone trami4.2.
Favorire la
te l’attivazione ed il
nascita di nuove imrafforzamento di serviprese
zi per il coinvolgimen4.3.
Sostenere lo
to sia sociale che occusviluppo dei servizi
pazionale.
legati ai nuovi bacini
di impiego.
2.1.
Sostegno agli investimenti
delle imprese
2.2.
Realizzazione di sistemi
finanziari e di consulenza per lo
sviluppo e la creazione di imprese.
2.3.
Completamento e sviluppo
di strutture insediative per il sistema
produttivo.
2.4.
Valorizzazione della ricerca
scientifica.
2.5.
Interventi turistici e culturali di sistema.
1.
Promuovere e
consolidare il sistema
regionale nelle reti di
integrazione mondiale
dal punto di vista produttivo, commerciale,
culturale, infrastrutturale e relazionale, ed
estendere il coinvolgimento ad una più ampia base di imprese e
soggetti economici e
sociali.
2.
Qualificare il
livello di competitività
generale del sistema
regionale in riferimento ai modelli organizzativi, all’innovazione
di processo e di prodotto, alla valorizzazione del patrimonio
tecnico/scientifico, alle
condizioni per nuovi
insediamenti, alle capacità di rapporto tra
imprese, all’adattamento alla compatibilità ambientale.
Obiettivi
Punti di forza
1.
ne.
3.1.
Valorizzazione della programmazione integrata d’area.
3.2.
Interventi di riqualificazione locale ed ambientale.
4.1.
ciale.
4.2.
Interventi di inclusione soCreazione d’impresa.
Internazio-
Qualifi-
Sviluppo
Coesione
nalizzazione
cazione
locale
sociale
Potenziale tecnologico e scientifico
X
Presenze di imprese a dimensione internazionale
X
Sistema educativo-formativo sviluppato
X
Presenza di leadership finanziaria
Competitività manifatturiera
X
X
X
Capacità distrettuale
X
Realtà associativa vivace e articolata
X
X
Punti di debolezza
Invecchiamento della popolazione
X
Limitato livello di istruzione
X
Settore turistico ancora debole
X
Frammentazione del tessuto commerciale
X
X
X
Problemi di marginalità urbana
X
Zone montane a rischio di abbandono
X
Criticità ambientali
X
X
Opportunità
Competitività tecnologica e di sistemi
X
Produzione industriale, qualità e produttività
X
Diffusione know-how
Rafforzamento delle reti di fornitura
X
X
X
Sviluppo dei mercati di servizio alla persona
X
Orientamento alla concertazione
X
Potenziale culturale
X
X
Rischi
Declino demografico
Esposizione dell’industria alla concorrenza dei Paesi
X
X
emergenti
Marginalizzazione rurale
X
Contrazione delle forze lavoro
X
X
Contrazione della base occupazionale
X
Difficoltà delle PMI a muoversi in un contesto inter-
X
X
X
nazionale
Emarginazione rispetto ai centri europei
X
2.3 Livello di attuazione, problemi di gestione e implementazione
Riguardo al complesso processo d’implementazione, attualmente il programma ha evidenziato un adeguato
avanzamento delle misure/linee d’azione. Superata una prima fase di rallentamento, le operazioni programmate e poste in essere per ciascuna tipologia d’intervento (misure di aiuto, di infrastrutturazione e di
servizi), sono risultate più fluide, e si sono registrati buoni esiti in termini di efficienza nell’utilizzo delle risorse e di efficacia realizzativa.
Secondo gli ultimi dati disponibili lo stato di attuazione del Programma evidenzia:
a) un avanzamento in termini finanziari soddisfacente: le risorse complessivamente disponibili sono state
impegnate (al 31/03/05) per il 76,5 % e il livello delle erogazioni ha raggiunto il 40,6%;
b) un avanzamento fisico (al 31/12/2004) abbastanza soddisfacente (almeno per alcune misure).
Va rilevato che il Programma offre uno scenario alquanto diversificato, in termini sia di tipologie di interventi da realizzare, sia di processi attuativi/gestionali previsti (le misure d’aiuto sono attuate a bando, quelle
infrastrutturali/di servizi a titolarità o a regia regionale). In ragione di tale varietà, sono sintetizzati di seguito
i casi al momento più significativi.
L’asse 1 dedicato alla «Internazionalizzazione delle imprese» registra un livello di impegni finanziari rispetto alle risorse a disposizione del 59,9% (poco più basso della media del programma) e ha realizzato pagamenti per un 36,6%, pressappoco in linea col programma. Si segnala, in particolare, la buona performance
della misura 1.2 «Supporto all’internazionalizzazione del sistema economico del Piemonte» che presenta un
buon andamento in termini sia finanziari (la misura impegna il 66% delle risorse disponibili e ne spende il
44%), sia fisico-procedurali (in particolare per la linea 1.2a «Promozione internazionale delle imprese» che
registra un indice di riuscita attuativa del 95%), e validi risultati soprattutto per quanto riguarda la partecipazione a manifestazioni nazionali e internazionali per la promozione delle esportazioni e ad iniziative per l’attrazione di investimenti esteri (44% e 55% rispettivamente per la misura 1.2a «Promozione internazionale
delle imprese» e 1.2b «Supporto agli investimenti esteri in Piemonte»). Ciò lascia presupporre un impatto
specifico positivo in relazione all’obiettivo di internazionalizzazione del sistema economico regionale.
L’asse 2, «Qualificazione a sostegno del sistema» persegue l’obiettivo del rafforzamento della competitività
del tessuto produttivo, sia attraverso i più tradizionali interventi di sostegno alle PMI regionali (regimi d’aiuto e servizi alle aziende), sia mediante il miglioramento delle condizioni strutturali del territorio, a favore
dello sviluppo dell’impresa. Registra una efficienza attuativa complessivamente positiva, dal punto di vista
dell’avanzamento finanziario (impegni al 78,1% e pagamenti al 41,1%), e da quello procedurale, tanto che le
operazioni sono per la maggior parte in fase di conclusione.
Quasi tutti i casi di misure di aiuto alle imprese relative all’asse presentano un conseguimento degli obiettivi previsto pari al 40% (livello medio), eccezione fatta per la 2.6 «Incentivi alle PMI per progetti di ricerca
e per investimenti a finalità ambientale» che non registra esiti in termini di realizzazioni fisiche, e la linea
2.4c «Azioni a sostegno dell’e-procurement e dell’e-commerce e della diffusione presso le PMI dei servizi e
delle tecnologie ICT» che raggiunge il 28%. La misura 2.6 «Incentivi alle PMI per progetti di ricerca e per
investimenti a finalità ambientale», particolarmente rilevante dal punto di vista strategico per la sua attenzione all’ambiente, pur scontando un ritardo attuativo dovuto all’approvazione da parte della UE dei due regimi
di aiuto (è stata avviata nel 2003), ha dimostrato di avere una buona capacità d’impegno (80%) a cui è seguito un adeguato avanzamento delle procedure di avvio della progettualità (100% della riuscita attuativa), ma
dovrebbe accelerare sul conseguimento dei target (ancora scarsa la realizzazione fisica degli obiettivi al
31/12/04).
Tra le misure infrastrutturali dell’asse 2 si evidenzia il caso della misura 2.3 «Completamento e sviluppo di
strutture insediative per il sistema economico» che, in continuità con i due precedenti cicli di programmazione (1994-99), finanzia interventi per il completamento e la realizzazione di nuove strutture insediative per il
sistema economico. Per tale misura, alla buona capacità degli impegni (l’80%) si unisce una corrispondente
efficienza nell’attuazione. Si è tuttavia ancora lontani dal conseguire gli obiettivi stimati (le realizzazioni fisiche raggiungono solo l’1,9%). La notevole complessità degli interventi, nonché la loro rilevanza strategica,
fanno presumere un miglioramento dal punto di vista della completa attuazione delle procedure e della conclusione finanziaria degli interventi entro i termini previsti.
Particolarmente significativo è il caso della misura 2.4 «Valorizzazione della ricerca scientifica al fine di
promuovere il trasferimento tecnologico e sviluppo della società dell’informazione», che incide sul rafforzamento del sistema innovativo regionale. Per le linee di intervento 2.4a «Ricerca applicata di sistema» e 2.4b
«Azioni di sostegno alla realizzazione della società dell’informazione» risulta prematuro esprimere un giudizio relativo all’avanzamento, in quanto trattasi di misure di recente avvio (solo durante l’arco del 2004).
L’asse 3, «Sviluppo locale e valorizzazione delle risorse del territorio», a favore delle politiche di rafforzamento della competitività, si dedica alla progettazione integrata d’area, che ha rappresentato uno strumento
strategico per la Regione anche in passato, e che potrebbe continuare ad esserlo anche rispetto ai programmi
di futura generazione. Nel complesso, presenta una più che positiva performance a livello di asse, con livelli
di impegni e pagamenti rispettivamente del 80,1 e 41,9%.
Gli avanzamenti più consistenti sono imputabili alle misure 3.1 «Valorizzazione della programmazione integrata d’area» e 3.2 «Interventi di riqualificazione locale effettuati da soggetti pubblici». Per la prima delle
due misure si registra un avanzamento più che buono degli impegni (100%) e discreto anche nella capacità
di spesa (58%). Trattandosi di progetti integrati di infrastrutturazione, si riscontrano rallentamenti nella fase
di conclusione dei progetti (ancora bassa risulta la riuscita attuativa).
La misura 3.2 raggiunge esiti di riguardo relativamente agli indici procedurali e finanziari (anche in
questo caso si riscontra una certa difficoltà solo nella fase di chiusura dei cantieri), ma ancora non
presenta avanzamenti fisici di rilievo. Ancora bassi gli indici per la misura 3.3 «Interventi di riqualificazione locale effettuati da soggetti privati» (regime d’aiuto avviato solo nel 2003), che non ha
realizzato pagamenti.
Infine la misura 3.4 «Iniziative multiassiali di supporto all’attività economica», di nuova programmazione (2004), che prevede progetti strategici dotati di una natura trasversale e comune a più assi
di intervento del DOCUP, onde promuovere il tessuto economico produttivo di un’ampia area territoriale, non registra né impegni né pagamenti.
L’asse 4, che persegue l’obiettivo di rafforzamento della «coesione sociale», manifesta un avanzamento finanziario complessivo che si posiziona a un livello di poco inferiore a quello medio del programma (impegni e pagamenti rispettivamente del 74,4% e 36,5%). Un caso molto rilevante attiene alla linea d’intervento
4.2a «Strumenti finanziari per la creazione di impresa»: quest’ultima è una azione di sostegno alla creazione
di nuova impresa, attuata in collegamento con la Misura D3 «Sviluppo e consolidamento dell’imprenditorialità con priorità ai nuovi bacini d’impiego» (cofinanziata dal Fondo Sociale Europeo) del POR ob.3. I progetti selezionati sulla misura del POR, sono automaticamente selezionati sulla linea DOCUP (FESR) per la
fase di sostegno all’avvio delle attività. Tale linea, dopo una partenza frenata dalla lentezza derivante dalla
gestione POR, ha raggiunto oggi un buon livello di attuazione finanziaria (75% degli impegni e 39% dei pagamenti). Al momento non sono rilevati esiti fisici effettivi.
L’adozione di processi di programmazione, implementazione, sorveglianza (monitoraggio e valutazione),
controllo, ha fatto crescere in termini di qualificazione le strutture tecnico- amministrative coinvolte.
2.4 Temi e misure
Sviluppo locale e valorizzazione del territorio
Valorizzare le risorse e le potenzialità territoriali e promuovere i prodotti regionali all’estero è uno degli
obiettivi del DOCUP 2000-2006 della Regione Piemonte, che si impegna a dedicare un insieme di misure all’internazionalizzazione della realtà economica piemontese. Alcune azioni sono di carattere prevalentemente
promozionale, come la misura intitolata «Piemonte nel mondo», coordinata e attuata dalla Regione con l’obiettivo di rappresentare a livello internazionale le risorse e le vocazioni del Piemonte, anche in relazione
agli eventi olimpici.
Al rafforzamento delle imprese piemontesi sui mercati globali è riservata un’ulteriore serie di interventi,
inseriti nella linea «Promozione internazionale per settori economici ed aree geografiche», che prevede il sostegno ad iniziative promosse dalle Camere di Commercio, dalle Province, dalle associazioni di categoria.
Un altro gruppo di interventi punta alla promozione di interi territori, sia sotto il profilo turistico che delle
produzioni tipiche. Infine, la linea «Promozione internazionale delle imprese» coinvolge le imprese intenzionate ad affermarsi su scala internazionale o a consolidare il proprio ruolo sui mercati.
ITP (Investimenti a Torino e in Piemonte)
Si tratta della prima agenzia nata in Italia allo scopo di attrarre investimenti esteri sul territorio. I fondi
strutturali hanno supportato le attività dell’agenzia, che ha permesso l’insediamento di aziende (tra cui alcune leader nel proprio settore, come Motorola) provenienti da diversi paesi (il Piemonte è la seconda regione
per presenza di investimenti esteri). Grazie all’attività di ITP ad oggi sono sorti 4.000 nuovi posti di lavoro.
Negli ultimi anni ITP sta concentrando la propria strategia di marketing e comunicazione internazionale su
settori di eccellenza e in crescita: l’ICT e le nanotecnologie.
Promozione e sviluppo del turismo
Sin dal 1989 i programmi regionali finanziati dai fondi strutturali hanno riservato grande attenzione alla valorizzazione delle aree turistiche. Tra le aree Obiettivo 2 del Piemonte sono incluse alcuni fra i siti di maggior attrattività turistica, come le valli olimpiche e le sponde del lago Maggiore. I fondi strutturali sono stati
fino ad ora orientati verso tre principali aspetti: la realizzazione di infrastrutture turistiche (strutture extra-alberghiere complementari, come impianti sportivi o ricreativi, centri polifunzionali per attività culturali, congressuali e di accoglienza, riqualificazione ambientale e arredo urbano, interventi finalizzati alla fruizione di
beni ambientali e culturali), l’erogazione di incentivi alle imprese turistiche, e lo sviluppo di attività di promozione.
I progetti integrati di sviluppo turistico di area
I progetti integrati di sviluppo turistico locale, dalla metà degli anni Novanta sono ormai una costante della programmazione regionale. Si focalizzano su alcune aree regionali precedentemente definite, prevedendo
interventi infrastrutturali, azioni promozionali, e investimenti privati. Oltre alla costruzione ex novo o agli
interventi su strutture ricettive (sostenuti da risorse pubbliche, private e miste) sono state intraprese anche
operazioni di recupero di beni architettonici e culturali in ottica turistica. Per i progetti ammessi a contributo
nell’ambito della programmazione 2000-2006 sovente si registra una certa continuità con le iniziative delle
precedenti fasi. Tra i progetti che interessano le nuove aree Obiettivo 2 si segnalano la realizzazione del Museo del Tempo delle Meridiane a Bellino in alta Val Varaita ed il potenziamento della ricettività del comune
di Agliano Terme, in funzione della fruizione turistica dello stabilimento termale.
2.5 Progetti Integrati di Sviluppo Socio-Economico d’Area (PIA)
L’Asse 3 del DOCUP «Sviluppo locale e valorizzazione del territorio» promuove il sostegno allo sviluppo economico e sociale di aree omogenee, che derivi da una progettazione dal basso, da una programmazione di tipo negoziato, da politiche di distretto e scelte affini, in un quadro di crescita sostenibile, e nel rispetto
dell’ambiente. Si parla di progetti «integrati», perché sono costituiti da varie tipologie di interventi, attuati
attraverso la partecipazione di attori pubblici e privati. La misura prevede la realizzazione di una serie di
azioni, articolate su due direttrici:
a) Progetti integrati di sviluppo socioeconomico di area
b) Sistema della Corona Verde
I Progetti integrati di sviluppo socioeconomico di Area (PIA) sono animati dall’obiettivo strategico della valorizzazione di aree delle quali esaltare le specificità, e si propongono l’integrazione di diverse tipologie di
azione e il coinvolgimento di più soggetti. Rientrano, ad esempio, in questa categoria di progetti il recupero
di siti; la costituzione di centri di formazione professionale, di sale polivalenti, di strutture fieristico-espositive e di centri servizi comuni; gli interventi pubblici per incentivare il turismo, valorizzare il patrimonio storico, culturale e naturalistico; le opere di urbanizzazione primaria e secondaria71.
Dall’interpretazione data su scala locale alla progettazione integrata, emerge chiaramente il significato che
la Regione Piemonte attribuisce a questa tipologia di programmazione dello sviluppo: si nota innanzitutto un
orientamento condiviso nei confronti dei problemi, la ricerca di soluzioni integrate (metodologia della concertazione), e l’adozione del principio di realizzabilità (rispetto dei tempi DOCUP, e attenzione al vincolo
imposto dalle risorse a disposizione).
Muovendo dai fabbisogni e dalle potenzialità locali, evidenziati e condivisi in sede di concertazione, si individuano gli obiettivi che possono essere perseguiti con le risorse disponibili, e si elabora una strategia che
costituisce la cornice entro cui si collocano una serie di azioni realizzabili in tempi coerenti con la tempistica del DOCUP.
L'attuazione della misura 3.1 «Valorizzazione della programmazione integrata d’area» ha seguito una procedura a regia regionale, in cui le risorse sono state distribuite in base all’interesse mostrato dai potenziali soggetti attuatori che hanno presentato le domande di ammissione.
I progetti integrati prevedono il coinvolgimento di numerosi operatori e la convergenza di risorse pubbliche
e, in misura minore, private per il rilancio delle aree individuate. Destinatari dell’intervento sono enti locali,
71
Cfr. la linea d’intervento 3.1.a del Docup 2000/2006, «Progetti integrati di sviluppo socioeconomico d’area».
piccole e medie imprese appartenenti al settore dell’industria, costruzioni, artigianato, commercio, turismo e
servizi.
Si tratta di progetti a regia regionale attuati mediante il coordinamento delle Province e tramite convenzione
con le amministrazioni pubbliche capofila. E’ previsto che la Regione inviti gli enti locali a presentare progetti integrati elaborati secondo uno schema di indirizzo, che contiene obiettivi e contenuti minimi della programmazione integrata. Le Province interessate sono tenute ad assumere le opportune iniziative per informare e giungere alla definizione del progetto, che deve essere accompagnato da un accordo o patto tra i diversi
attori locali coinvolti (Comuni, Comunità Montane, Associazione di categoria, Enti pubblici, Organizzazioni
sindacali, Organismi finanziari, Imprese, Consorzi, Associazioni e realtà no profit, ecc.), e coordinato da un
ente locale capofila.
La Regione, infine, valuta le proposte presentate, ammettendo a finanziamento quelle ritenute idonee.
Durante il periodo 2000-2006 la Regione ha sostenuto questo tipo di progetti, incentivando la realizzazione di interventi guidati da un’idea di sviluppo già sposata a livello locale tramite la programmazione negoziata e le politiche di distretto. Si è registrata una forte adesione, con la partenza di 487 interventi.
La Regione ha fornito le norme di realizzazione delle iniziative, disciplinando in particolare le azioni per la
cui messa in opera era necessaria l’esplicitazione delle relative specifiche; ha dettato i requisiti dei destinatari, le caratteristiche dei progetti, i criteri di priorità per la valutazione degli stessi; ha allocato le risorse disponibili per le diverse azioni; ha diffuso le proprie regole con l’obiettivo finale di una equilibrata distribuzione degli interventi sul territorio. I progetti, redatti e coordinati dalle amministrazioni provinciali, riguardano il sostegno agli investimenti delle PMI, la realizzazione di aree per insediamenti industriali (sorte ex
novo o in seguito al recupero di siti dimessi), l’allestimento di centri di servizi comuni a favore delle imprese, le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, l’acquisizione di tecnologie, la valorizzazione storica,
culturale, naturalistica, l’animazione economica locale. I beneficiari sono enti locali, società a prevalente capitale pubblico, consorzi misti pubblico-privato, associazioni di categoria e piccole e medie imprese.
In Piemonte sono stati avviati 18 PIA, di cui 2 in aree Phasing out. La procedura per la presentazione dei
PIA è stata da subito impostata in base a criteri concertativi, in accordo con le Province e con i soggetti tecnici (le agenzie per lo sviluppo). La Provincia di Torino ha assunto un ruolo di guida, forte dell’esperienza
pregressa sui Patti territoriali e, in generale, sui progetti di sviluppo locale.
Le aree attrezzate industriali e artigianali e le aree ecologicamente attrezzate
Sin dal primo programma di gestione, l’utilizzo dei Fondi Strutturali europei, integrando il quadro normativo esistente, in particolare la L.R. 9/80, ha dato il via alla realizzazione di nuove aree attrezzate e all’ampliamento o riordino di quelle esistenti. La L.R. 9/80 prevede un contributo in conto interessi sull’80% dei costi
di realizzazione (in alcuni casi anche il 100%), mentre le misure del DOCUP offrono l’opportunità di accedere ad un contributo a fondo perduto che copre circa il 60%-70% delle spese.
In tale contesto, gli enti locali hanno avuto l’occasione di moltiplicare le proprie capacità di spesa e di gestione, assimilando progressivamente la logica della progettazione. La Regione, da parte sua, ha saputo
ascoltare e tradurre in opera le richieste provenienti dalla società e dalle istituzioni locali. Grazie ai contributi dei Fondi Strutturali tra il 1994 e il 1999 sono state accolte almeno un terzo delle domande di finanziamento, ed è stato possibile avviare concretamente un considerevole numero di interventi.
Dal 1989 ad oggi i progetti mirati alla realizzazione, all’ampliamento e all’ammodernamento delle aree attrezzate nelle zone Obiettivo 2 sono ben 133, con investimenti complessivi per 190 milioni di euro (il 60%
di tali risorse provengono dai DOCUP). Sono sorte una settantina di neo aree industriali ed artigianali (in
genere ospitanti PMI che impiegano sino a 30 addetti), che nel loro insieme si estendono su di una superficie
fondiaria di quasi 530 ettari, ciascuna con una dimensione media di 90 mila mq, e sono state inoltre rammodernate o ampliate un’ulteriore trentina di strutture già esistenti.
Per quanto attiene all’offerta alle imprese, le aree hanno nel tempo arricchito la gamma dei servizi a disposizione, dedicando una sempre maggiore attenzione alle questioni della miglior accessibilità e del rispetto dei
valori ambientali. Ad esempio, nell’attuale fase di programmazione sono state inaugurate alcune cosiddette
Aree Ecologicamente Attrezzate (A.E.A.), dotate di specifiche attrezzature tecniche per la rilevazione dei
dati ambientali, la gestione dei rifiuti, la depurazione delle acque reflue e la produzione o distribuzione dell’energia, e in taluni casi munite anche di impianti a rete appositamente pensati per prevenire l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e dei terreni.
I centri intermodali
Nel settore della logistica e dei trasporti, il Piemonte può ad oggi contare sulla presenza di due rilevanti
centri interportuali, uno ubicato nei pressi di Novara e l’altro in provincia di Torino. L’interporto di Torino è
sorto su iniziativa della Regione Piemonte, con la partecipazione dei Comuni di Torino, Rivalta, Orbassano,
Grugliasco, Rivoli, e rientra tra le principali opere inerenti la razionalizzazione del sistema dei trasporti cofinanziate dai Fondi Strutturali. Per la sua realizzazione sono stati finora erogati 13,5 milioni di euro di contributi, per un totale di investimenti attivati di poco superiori a 19 milioni di euro. Il progetto, avviato nella fase
di programmazione 1997-99 con le opere di urbanizzazione primaria nel comune di Rivalta, si propone per il
periodo 2000-2006 il completamento delle aree che interessano il comune di Orbassano. Una superficie totale di 2.800 ettari ospita il terminal ferroviario, 75 mila mq di piazzali, circa 7 km. di binari attrezzati e quasi
25 mila mq. di magazzini. Uno spazio complessivo di 650 ettari è riservato ad aree per insediamenti produttivi, nelle quali attualmente sono già insediate 200 società, con 3.000 addetti impiegati. Sono in corso di realizzazione altri 4,4 km di binari e diversi interventi, che renderanno fruibili ulteriori 950 ettari tra magazzini,
uffici, piazzali e zone dedicate ai servizi e alla viabilità, nonché isole di verde.
L’interporto torinese è gestito dalla società SITO, che, forte dell’esperienza sinora maturata nel settore, sta
ora investendo in sperimentazioni innovative nel campo della logistica e dei trasporti, ad esempio attraverso
il progetto “Distribuzione pulita”, che si occupa del decongestionamento del traffico cittadino e della riduzione dei livelli dell’inquinamento, razionalizzando percorsi di consegna ai clienti e promuovendo l’uso di
veicoli a ridotto impatto ambientale.
Sempre nell’ambito della logistica dei trasporti, un altro progetto degno di nota è l’“Autostrada viaggiante”, che sfrutta un sistema di navettamento ferroviario per imbarcare camion completi su vagoni a pianale ribassato, e poter in tal modo attraversare le Alpi in poche ore, snellendo in parallelo il traffico autostradale
gravante sul Frejus. La SITO organizza inoltre numerosi corsi di formazione avanzata rivolti agli operatori
del settore.
I Poli Integrati di Sviluppo (PIS)
Da una proposta presentata dall’Unione industriale di Torino e dalle organizzazioni sindacali, nella prima
e seconda cintura torinese sono sorti i PIS, aree industriali attrezzate che si caratterizzano per le rilevanti dimensioni (da 300 mila a 1 milione di mq) e per la qualità dei servizi all’avanguardia offerti in campo logistico, organizzativo, telematico ed ambientale. Il primo caso di PIS coincide con la nascita, a metà degli anni
Novanta, del polo di Avigliana, seguito dopo pochi anni (1997-99) dagli altri poli ubicati a Chivasso, Moncalieri, Pinerolo, Settimo Torinese, e dal polo dell’Aereoporto di Torino, che coinvolge l’area di S. Maurizio
Canavese. Cronologicamente, l’ultimo PIS (2000-6) è situato nell’area di Trofarello, ed intende operare
come ampliamento del polo di Moncalieri.
I numeri complessivi parlano di più di 2 milioni 600 mila mq. di superficie fondiaria, di 184 aziende insediate, con un impiego di 5.300 addetti, di 52 milioni di contributi pubblici ricevuti, per un investimento totale
di poco superiore a 76 milioni di euro. Ad oggi i sei poli esistenti presentano livelli di occupazione che variano dal 50 al 100% della superficie fondiaria disponibile.
Oltre che per il loro ruolo di centri di eccellenza, dotati di una rete completa e integrata di servizi per le imprese, e specificatamente concepiti per ospitare insediamenti produttivi ad alta specializzazione tecnologica,
i PIS si rivelano assai significativi anche in rapporto agli sforzi finanziari e progettuali attivati, nonché al
momento storico in cui sono sorti, all’interno di un periodo di profonda trasformazione dell’economia torinese. La peculiarità che maggiormente distingue i PIS dalle AIA è la presenza al loro interno di centri servizi, cioè di strutture concepite per rispondere alle esigenze gestionali ed operative delle imprese insediate. I
PIS, inoltre, vantano la dotazione di strumentazioni tecniche avanzate, in particolare in riferimento al controllo dell’inquinamento ambientale e alla sicurezza sui luoghi di lavoro. In virtù delle loro qualità funzionali, i PIS sono destinati ad aziende appartenenti a diversi comparti produttivi, ma l’elevata offerta di servizi
tecnologici li rende adeguati soprattutto per imprese che operano nell’alta tecnologia e nella ricerca.
2.8 Riqualificazione del territorio
Un territorio a forte vocazione industriale come quello della regione Piemonte, che ha vissuto cicliche
fasi di crisi e di riorganizzazioni aziendali, è abituato a convivere con la presenza di siti degradati o dismessi
dalle attività produttive. Gli indirizzi dell’Unione Europea in materia di ambiente e territorio hanno contri-
buito a trasformare queste aree da problema a risorsa per molte zone urbane, attraverso l’insediamento di
nuove funzioni e destinazioni d’uso. All’interno di alcune aree i progetti di recupero hanno assunto la dimensione di vere e proprie operazioni di riqualificazione urbana. Con il contributo dei fondi strutturali, è stato
possibile recuperare e riconvertire alcune grandi aree di Torino come il Lingotto, la Fergat nel quartiere San
Paolo, gli ex stabilimenti siderurgici sulla Spina 3, l’area ex Alenia e delle Concerie italiane riunite (CIR).
L’impiego dei fondi strutturali per la rifunzionalizzazione di aree dimesse integra altre politiche urbane
(PRIU e PRU) in corso di realizzazione nelle periferie e nelle cosiddette Spine (1, 2, 3 e 4) previste dall’ultimo PRG, con la realizzazione dell’Environment Park e del Virtual Reality e Multimedia Park, oltre ai progetti «The Gate» (PPU) e Mirafiori Nord (Urban 2).
In particolare, il recupero dell’ex Arsenale militare a Borgo Dora (cofinanziato dal FESR), con l’insediamento di attività commerciali, artigianali e produttive, rappresenta il naturale completamento del progetto
«The Gate», che ha portato alla riqualificazione e al rilancio socio-economico dell’area di Porta Palazzo.
L’area ex CIR dal 2000 ospita il Centro Europeo Ricerca e Sviluppo della Motorola, nato da un progetto di
ricerca applicata e di formazione post-universitaria varato dal Politecnico di Torino e dall’omonima società
di telefonia mobile nel 1997.
La Corona verde
Tra i numerosi progetti messi in campo, la Regione Piemonte si è resa promotrice del progetto denominato
Sistema della Corona Verde, volto a ripristinare e promuovere il patrimonio ambientale e paesaggistico localizzato nell’area metropolitana torinese. Il territorio interessato è costituito da un insieme di fasce naturali
di diversa conformazione (il sistema dei corsi d’acqua della pianura torinese, la Collina di Torino, la Collina
morenica di Rivoli con i laghi di Avigliana e il complesso delle Vaude), a loro volta per buona parte limitrofe all’antica Corona di delitiae (il complesso delle Residenze sabaude, con i loro giardini, già tutelati a livello regionale come parchi o aree protette).
Insieme ad una serie di altri siti geografici che comprendono il sistema idrografico minore (i fiumi Stura e
Dora Riparia, i torrenti Sangone, Chisola, Orco e Malone), le aree agricole, urbane e periurbane, e le zone di
montagna, il territorio descritto, rientrante nel programma Corona Verde, e ulteriormente suddiviso dalla
Comunità Europea in 13 aree (Siti di Importanza Comunitaria), si presta a essere oggetto di un piano di riqualificazione che ha come obiettivo prioritario la conservazione della rete ecologica del Torinese, secondo
quanto specificato dalla stessa CEE con la direttiva 92/43 Habitat.
Le azioni conseguenti puntano, pertanto, alla salvaguardia e alla bonifica di aree rurali o naturali e di fasce
fluviali, al miglioramento degli ecosistemi già esistenti, al recupero e alla regolamentazione degli orti urbani
e delle aree boschive, al ripristino dei percorsi storici della riserva di caccia del Castello di Stupinigi, alla riqualificazione delle aree collinari connesse al castello di Rivoli, alla valorizzazione di aree verdi che circondano diversi comuni piemontesi.
In tale contesto, dai dati disponibili a fine del 2004, risultano presentati 27 progetti, per un investimento totale che ammonta a 15,5 milioni di euro, cui si sommano circa 9 milioni di euro di contributi (in percentuale,
l’ammontare di questi per ciascuna iniziativa varia dal 60% al 100%).
L’insieme degli interventi, oltre a consolidare il tessuto di relazioni tra la città di Torino e le zone circostanti, può risultare di rilevanza strategica anche in ottica turistica, ove supportato dal potenziamento di infrastrutture e servizi correlati.
La Regione Piemonte si è occupata della fase preliminare di analisi del complesso della zona coinvolta,
sondando i punti di criticità, e individuando le principali linee di intervento, avanzando direttamente alcune
delle proposte operative. In alternativa, i singoli progetti sono stati proposti dagli Enti locali di vari comuni
della cintura torinese, o dagli Enti di gestione delle aree protette (gli Enti di gestione del Parco fluviale del
Po torinese, del Parco naturale di Stupinigi, del Parco naturale dei Laghi di Avigliana e dei Parchi e delle Riserve naturali della Collina torinese).
Parallelamente, la Regione si sta impegnando in una campagna di sensibilizzazione e promozione, che permetta alla popolazione di venire a conoscenza delle potenzialità e dell’offerta ambientale e ricreativa del territorio locale.
In tal senso, sono portati avanti soprattutto progetti che fungano da «modello», caratterizzati da elementi innovativi, in grado di generare una serie di trasformazioni paesaggistiche, e di innescare più vasti meccanismi
di sviluppo economico-sociale.
2.9 Sviluppo e competitività del sistema produttivo
Durante i primi dieci anni di impiego dei Fondi Strutturali europei, il Piemonte ha investito molte delle risorse a disposizione per incentivare lo sviluppo e il consolidamento del sistema produttivo locale, a beneficio delle piccole e medie imprese (anche di quelle costituite in forma artigiana e cooperativa). Sono stati ad
oggi finanziati 1.288 progetti, per una spesa di 190 milioni di euro di contributi, e un’attivazione di investimenti per circa 1.200 milioni di euro. Nel periodo di programmazione (2000-2006), attraverso i fondi di cofinanziamento della legge 488/92, sono stati disponibili 30 milioni di euro di contributi, per la riconversione o
ampliamento delle aziende, il riammodernamento degli impianti, il miglioramento dei processi produttivi,
l’introduzione di tecnologie telematiche e avanzate, la riduzione dei fattori di inquinamento ambientale.
Nel corso degli anni la Regione ha sperimentato varie forme di finanziamento per favorire e migliorare le
condizioni di accesso al credito delle piccole e medie imprese industriali e artigianali, nonché per ovviare a
problemi di sottocapitalizzazione. Un’importante misura adottata nelle prime due fasi di attuazione dei Fondi strutturali (1989-1993), e mantenuta nella programmazione 2000-2006, riguarda la creazione di fondi gestiti da consorzi di garanzia. I finanziamenti vengono accordati alle imprese che presentino programmi di
sviluppo produttivo e occupazionale. Come ulteriore strumento a sostegno delle piccole e medie imprese, è
stato istituito anche un fondo di capitale di rischio per la sottoscrizione di azioni o quote di minoranza nel
capitale sociale delle aziende (merchant bank).
Un altro filone di interventi, da tempo diffusi e utilizzati, consiste nel conferimento alle PMI industriali e artigianali di un contributo pari al 50% della spesa ammissibile per l’accesso a servizi di consulenza (consulenze per l’acquisizione di servizi immateriali, l’introduzione di sistemi di qualità e di certificazione, la riduzione dell’impatto ambientale, il miglioramento delle condizioni di lavoro e dell’organizzazione aziendale, il
marketing strategico). Anche il programma regionale di impiego dei Fondi strutturali 2000-2006, promuovendo in un primo momento la sensibilizzazione delle aziende alle tematiche dell’ambiente, della qualità e
della sicurezza, ha poi elaborato apposite misure per incentivare le imprese a servirsi di consulenze strategiche, sia per l’ottenimento di certificazioni aziendali, sia per l’accrescimento della competitività, anche nell’ottica di eventuali fusioni o acquisizioni, o stipule di joint venture ecc.
Per quanto riguarda gli interventi ubicati in zone deboli e marginali, nel programma 2000-2006 di attuazione
dei Fondi strutturali la Regione ha istituito una misura di sostegno per favorire l’insediamento di attività
produttive in territori degradati o a rischio socio-economico (centri storici, quartieri già oggetto di piani di
riqualificazione urbana, centri situati in comuni collinari o inseriti in comunità montane), con l’obiettivo di
generare proprio in tali contesti nuove opportunità di sviluppo. Inoltre, a partire dagli anni Novanta, e - a seguire - nelle più recenti fasi di programmazione europea è stata riservata particolare attenzione ai processi di
avvio d’impresa (con specifici vantaggi per le persone disoccupate, e le categorie di giovani e/o donne), e di
costituzione di spin off accademici. E’ prevista in questi casi l’erogazione di contributi in conto capitale e in
conto interessi, a integrazione delle misure destinate allo sviluppo imprenditoriale rientranti nel Programma
regionale per l’Obiettivo 3 (che prevedono attività preliminari di orientamento, consulenza e tutoraggio, a
favore dei soggetti interessati ad avviare un’impresa).
Misura
Aiuti a investimenti PMI
Aiuti a investimenti PMI artigianali
Aiuti agli
investimenti delle cooperative
Numero progetti
1989
199
199
241991
199
199
3
6
101
120
549
199
7199
9
368
1288
Contributi pubblici
198
199
199
9-19
2491
199
199
3
6
11,6
13,4
66,0
199
7199
9
68,4
233
311
570
1104
6,8
14,6
11
17
28
0,5
200
0200
6
150
Tot.
189,
4
Investimenti attivati
198
199
199
924199
199
199
1
3
6
82,1
95,2
444,
9
199
7199
9
360,
0
24,1
45,8
34,7
75,3
93,9
203,9
1,1
1,7
2,6
5,5
8,1
200
02006
Tot.
30,0
200
0200
6
220,
0
Tot.
1202,
2
Con fin.
LL.1329/6
5e
596/94
Aiuti in
connessione a
prestiti
CECA BEI
Costituzione di
fondi di
garanzia
per PMI
industr. e
artigianali
Fondo di
rotazione
artigianato
Fondo rotazione
concessione prestiti partecipativi
Fondo di
capitale a
rischio
Servizi di
consulenza e assistenza a
PMI e artigianato
Creazione
di nuove
imprese
Fondo per
attività in
aree degradate o
svantaggiate
Totale
45
35
3500
535
79
28
915
915
233
421
2,7
3,6
n.d.
4035
6,1
1,7
265
4
74
104
9
6506
1025
5
331
913
128
1
2,7
2654
8,6
178
8,6
9
15,9
777
141
1
9127
276
245
521
36
36
309
4
2031
6
477
3
6,8
0,5
21,3
5,6
25,6
93,5
14,2
14,2
36,5
52,3
38,4
58,2
18,0
25,8
20,6
7,7
15,5
37,1
8,6
157,
3
24,1
12,3
15,9
24,2
16,3
13,5
36,2
10,3
15,3
25,6
4,1
4,1
147,
1
443,
5
156,
0
99,7
3,2
144,
2
12,7
195,
8
635,
1
210,
7
210,7
244,
3
477,7
60,0
88,3
157,3
22,1
34,4
24,3
36,1
27,5
79,4
19,3
18,3
37,6
8,2
8,2
811,
1
2532,
1
745,
8
2.10 Tutela dell’ambiente
Il Piemonte, per voce dei diversi DOCUP che si sono susseguiti nelle varie fasi di programmazione, ha
sempre considerato di particolare rilevanza la questione ambientale. Più in dettaglio, il tema dello smaltimento degli scarti industriali solidi e liquidi ha concentrato finanziamenti per la realizzazione, l’ammodernamento e l’ampliamento di impianti per il trattamento e la valorizzazione dei rifiuti industriali «speciali» e
«pericolosi», impianti di compostaggio e alcune iniziative per il conferimento dei rifiuti derivanti dalla raccolta differenziata (provincia di Torino e Biella). A questi si devono aggiungere 17 progetti per la realizzazione e/o l’ampliamento di impianti per la distribuzione delle acque reflue (provincia di Alessandria, Cuneo,
Torino, Verbania e Vercelli).
In una prospettiva di stretta integrazione tra politiche industriali e politiche ambientali, anche nella fase di
programmazione 2000-2006 la Regione ha contribuito al finanziamento di investimenti delle piccole e medie
imprese in campo ambientale, e all’acquisto di macchinari innovativi con dirette implicazioni di sostenibilità
ambientale.
Un esempio di politica per la gestione sostenibile dei rifiuti è il Barricalla, impianto unico per la sua tipologia nel Nord Italia, basato sull’interramento controllato per lo smaltimento dei rifiuti solidi, classificati
come «speciali» o «pericolosi», di origine industriale. Oltre che dello smaltimento dei rifiuti, il Barricalla
funziona anche come centro di monitoraggio e sicurezza ambientale, ed è attivo in progetti di ricerca volti a
trasferire know-how ai soggetti, pubblici e privati, che operano nel settore dei servizi per l’ambiente.
L’impianto, operativo dalla fine degli anni Ottanta, si trova a Collegno, comune confinante con Torino,
sul sito di una cava dismessa e degradata. I fondi strutturali hanno portato alla realizzazione del primo lotto,
completato nel 1993, del secondo, concluso nel 2001, e del terzo, che sarà presumibilmente pronto nel 2008.
A lavori terminati, l’obiettivo è quello di realizzare, nell’area così recuperata, un parco pubblico attrezzato.
2.11 Politiche per la diffusione e lo sviluppo della ricerca e dell’innovazione
Un elemento cardine delle politiche dei fondi strutturali della Regione Piemonte dal 1996 ad oggi è rappresentato dalla promozione e sostegno dell’innovazione presso le piccole e medie imprese. Portavoce di
questo obiettivo è stato sin dagli inizi il progetto Diadi (Diffusione dell'innovazione nelle aree a declino industriale, www.diadi.it), gestito ed attuato dal Corep (Consorzio per la ricerca e l’educazione permanente) in
collaborazione con il CSP, il distretto tecnologico del Canavese e la Rete dei Parchi scientifici e tecnologici
piemontesi (Tecnorete), ed in relazione con i principali dipartimenti scientifici del Politecnico, e dell’Università e con altri istituti di ricerca.
Grazie a Diadi sono stati elaborati in questi ultimi anni una serie di strumenti volti a migliorare la produttività e la competitività delle imprese. In termini operativi, il suo lavoro si articola su tre grandi linee:
1) monitoraggio delle esigenze di innovazione delle imprese;
2) promozione dei risultati di ricerca;
3) progetti di innovazione.
Il primo gruppo di interventi riguarda l’allestimento di incontri di orientamento con i soggetti imprenditoriali, in partnership con le associazioni di categoria, al fine di individuare gli effettivi bisogni delle piccole e
medie imprese. La diffusione dei risultati della ricerca è perseguita attraverso un vasto numero di iniziative,
dalle azioni di informazione e pubblicità mediante il sito internet e la newsletter di Diadi, alla promozione
delle attività svolte dai centri territoriali presenti nella regione, alle politiche di brevettazione, all’organizzazione di incontri di orientamento e di animazione specialistici (tenuti da esperti del settore su richiesta delle
imprese), alla realizzazione di studi di fattibilità. I centri territoriali sono 7 (3 nella provincia di Torino, e 4
nelle altre province del Piemonte), consistono in sportelli di riferimento per le attività, e costituiscono la rete
regionale del progetto Diadi 2000. Ai centri territoriali è affidata la distribuzione su tutta la regione delle attività, suddivise nelle seguenti zone di intervento:
Torino e cintura
Canavese
Pinerolese
Verbano, Cusio e Ossola
Vercelli e Valsesia
Tortona
Cuneo
COREP di Torino http ://www.corep.it
Distretto Tecnologico del Canavese http://www.canavese.to.it
Sportello per le imprese Comune Pinerolo (COREP)
http://www.comune.pinerolo.to.it/aziende/indir.htm
Tecnoparco del Lago Maggiore http://www.tecnoparco.it
Consorzio UN.I.VER. di Vercelli (COREP) http://www.univer.polito.it
PST di Tortona http://www.pst.it
Centro Servizi LAMORO di Alba (COREP) http://www.lamoro.it
Il valore aggiunto apportato da Diadi risiede soprattutto nel terzo gruppo di iniziative, i progetti d’innovazione (in passato “progetti dimostratori”), che si propongono di introdurre nelle aziende innovazioni di prodotto e di processo. Tali programmi sono coordinati dalle stesse imprese, scelte attraverso procedura a bando
pubblico, sono svolti in collaborazione con centri di ricerca pubblici, e sono finanziati con un contributo pari
al 50% del loro costo complessivo. Dal 1996 ad oggi sono stati realizzati 40 progetti innovativi di ricerca nei
settori meccanico, elettronico, chimico e informatico. Sul fronte della promozione dei parchi tecnologici,
Diadi si occupa di illustrare le loro attività e i loro progetti riguardanti le tematiche dell’ambiente, delle biotecnologie e delle scienze dei materiali, alle piccole e medie imprese, organizzando appositi eventi e presentazioni.
Diffusione della società dell’informazione
Già dal 1997 la Regione Piemonte si è dimostrata attiva nel promuovere e diffondere, tra gli attori privati e
gli enti pubblici, la cultura della società dell’informazione. Come esempio in tal senso si può citare la costituzione di IRISI (Iniziativa interregionale per la società dell’informazione), progetto sostenuto dalla Commissione Europea (Direzione generale politica regionale), e attuato tramite il CSP (Centro di Eccellenza per
la ricerca, Sviluppo e sperimentazione di Tecnologie Avanzate Informatiche e Telematiche), in collaborazione con il Politecnico di Torino e il CSI (Consorzio per il Sistema Informativo) del Piemonte.
Attraverso il DOCUP 1997-1999 e il DOCUP 2000-2006 sono state incrementate le risorse destinate al progetto e al relativo sito internet (www.csp.it/irisi), con l’obiettivo di rendere disponibili ad attori pubblici e
privati buone pratiche di applicazione delle nuove tecnologie in contesti organizzativi ed aziendali. Sono state parallelamente implementate diverse tipologie di sperimentazioni innovative, tra le quali un prototipo di
rete multimediale (per un investimento di 1 milione di euro, con un contributo a carico del DOCUP pari al
70%), che ha agevolato la trasmissione multimediale dei dati, per la realizzazione di videoconferenze, teleformazione, telelavoro, wireless (è il caso del progetto PiemonteInRete).
Tra le altre iniziative per lo sviluppo e l’applicazione dei servizi telematici, si ricorda la nascita nel 1998
della società OpeNNET, situata all’interno di Envipark, che si propone di stimolare la domanda e l’offerta di
servizi in rete a livello locale, nonché di sostenere network di piccole e medie imprese nei settori del commercio e del turismo, e di appoggiare relative azioni di promozione telematica delle stesse verso i consumatori. OpeNET ricerca investimenti da parte dei principali operatori di telecomunicazioni nelle reti in fibra ottica sul territorio torinese, finanziando tra l’altro la creazione di un punto di concentrazione per l’interconnessione delle reti internet (progetto Teleporto), sul modello del Telehouse di New York, e di un portale di
promozione del territorio e del sistema produttivo (Spazioimpresa).
Sulla scia di tali positive esperienze, il DOCUP 2000-2006 ha ulteriormente potenziato le risorse destinate
alla società dell’informazione, sia per quanto riguarda la dotazione di infrastrutture, sia in rapporto all’offerta di servizi. Attualmente il CSP sta lavorando all’allestimento di un osservatorio sulla «net-economy», che
rappresenta la continuazione del progetto IRISI. Allo stesso tempo si sta lavorando allo sviluppo di una
«piattaforma di comunicazione tra pubblica amministrazione e sistema delle imprese», con la creazione di
una rete a banda larga nelle aree Obiettivo 2. Una terza linea di azione, infine, si concentra sulla diffusione
presso le PMI dell’utilizzo delle tecnologie ICT (e-commerce, e-procurement). In questo contesto di riferimento, i finanziamenti dei quali le aziende possono beneficiare (con un contributo del 50% sull’investimento sostenuto) coprono le spese necessarie per ricevere consulenze specializzate ai fini dell’introduzione di
strumenti innovativi nei processi aziendali.
2.12 Le infrastrutture per l’innovazione e lo sviluppo tecnologico: parchi scientifici e tecnologici e incubatori
La regione Piemonte, dal 1989 ad oggi, si è resa in gran parte protagonista delle politiche a favore dell’innovazione e dello sviluppo tecnologico attraverso la promozione e realizzazione di ben sei parchi scientifici
e tecnologici. Grazie al contributo dei Fondi Strutturali, tra il 1989 e il 1991 è nato a Verbania il primo lotto
del Parco Tecnologico del Lago Maggiore (Tecnoparco). Successivamente, tra il 1992 ed il 1993, è stata avviata la costruzione del Bioindustry Park di Colleretto Giacosa. Tra il 1994 e il 1999 sono sorti il Parco
Scientifico delle Telecomunicazioni di Tortona (PST Valle Scrivia), l’Environment Park (Envipark) e il Virtual Reality e Multimedia Park a Torino. In questi due ultimi casi torinesi, è importante sottolineare come,
parallelamente all’aspetto tecnologico, abbia beneficiato degli interventi anche la qualità della vita di due
aree cittadine che, altrimenti, sarebbero state destinate al degrado. Sempre tra il 1994 ed il 1999 prende vita
il progetto del C.E.T.A.D., Centro di eccellenza delle tecnologie per anziani e disabili che, scartata l’iniziale
ipotesi di una sede presso Bioindustry Park, trova definitiva collocazione all’interno delle nuove superfici
dell’Envipark. Nel complesso, i parchi ospitano 118 imprese (quasi 1.000 addetti), alcune nate ex novo, altre
rilocalizzate.
Envinronment park
L’Enviroment Park di Torino sorge su di un’area di 100.000 mq, collocata sulle sponde del fiume Dora
(su di un tratto della cosiddetta Spina 3), in prossimità del centro cittadino. Il parco nasce con l’obiettivo di
offrire alle imprese spazi, strutture e servizi utili al loro insediamento, e, parallelamente, con l’intento di coniugare efficacemente il rispetto ed il recupero dell’ambiente circostante, e gli investimenti nella ricerca e
nell’innovazione tecnologica.
L’Envipark, infatti, rappresenta un intervento di riqualificazione urbana basato sull’integrazione tra giardino e costruzione, e sull’edilizia eco-compatibile (le strutture sono coperte con prato ecologico, gli uffici
sono localizzati in edifici bassi e mimetizzati nel verde del parco, la progettazione degli impianti si attiene
alle regole del risparmio energetico e dell’utilizzo delle fonti rinnovabili). In tale scenario, le imprese che
scelgono di insediarsi nell’Envinronment Park possono contare sulla presenza di un incubatore per la fase di
avvio della propria attività, un centro servizi, laboratori di ricerca nel settore ambientale e nell’ICT, infrastrutture di telecomunicazione all’avanguardia.
Inoltre, la collaborazione tra imprese ed enti di ricerca ha contribuito alla creazione di un vero e proprio
distretto dedicato alla R&S e all’innovazione nei settori dell’ICT e delle tecnologie ambientali (quali fonti
energetiche rinnovabili, inquinamento acustico, bioremediation, gestione ambientale, innovazione dei cicli
produttivi e chimica ambientale). Sono 64 le imprese insediate (di cui 43 operanti nel comparto dell’eco-efficiency e 21 nell’ICT), oltre a diversi studi di consulenza alle imprese, e altre associazioni.
All’interno dell’Enviroment Park di Torino, dal 2002 ha collocato la propria sede il C.E.T.A.D. Si tratta
di un caso pionieristico in Europa di struttura per la prima volta specificamente pensata per la promozione,
lo sviluppo e la diffusione di tecnologie e servizi innovativi per la riabilitazione e l’integrazione sociale di
anziani e disabili. Occupa la Palazzina B2 dell’Envipark (un’area di circa 2.000 mq), e si divide in uno spazio espositivo e di laboratorio («casa intelligente»), un ambulatorio di riabilitazione specialistica, varie sale
didattiche, uffici e laboratori. Il C.E.T.A.D. è impegnato nella ricerca in tema di bioingegneria, biomeccanica e informatica applicata all’ambito socio-sanitario, nonché nella sperimentazione di soluzioni basate sulle
nuove tecnologie per il sostegno a domicilio di anziani e disabili.
Virtual reality and multimedia Park
Il Virtual reality and multimedia Park sorge nell’area FERT, già sede dei grandi studi di produzione cinematografica torinesi Fiore-Enrico-Roma-Torino, operanti fino alla fine degli anni Settanta, e ha notevolmente
contribuito a riqualificare un’area di proprietà del Comune di Torino, da tempo caratterizzata da degrado urbano. Si estende per 13.000 mq (di cui 8.000 mq di superficie coperta, ospitanti spazi dotati di strumenti tecnologici all’avanguardia, dedicati ad attività di cinema digitale, televisione, pubblicità con set virtuali, effetti
speciali, videogiochi, simulazioni scientifiche, industriali, territoriali e urbanistiche).
In linea con gli investimenti e gli scenari di sviluppo riservati al più ampio settore delle ICT, e nella prospettiva del distretto cinematografico e della communication technology già presente nella realtà locale torinese,
il parco intende dar vita ad un polo industriale (incentrato sulla realtà multimediale e sull’utilizzo di sistemi
di comunicazione in rete, che stimoli il decollo di programmi di ricerca applicata), un laboratorio di idee, un
centro di formazione qualificata (al suo interno è attiva una Scuola di Alta Formazione, che agisce in collaborazione con il Politecnico, l’Università di Torino e con istituti di formazione professionale internazionali).
Per un più efficiente impiego dell’offerta di risorse e attrezzature, al parco compete l’organizzazione diretta
della scuola e dei laboratori di ricerca e sviluppo, mentre una società esterna si occupa di gestire gli studi e
gli strumenti tecnologici.
Biondustry Park
Il Bioindustry Park si trova a Colleretto Giocosa, nei pressi di Ivrea, e si estende su un’area di 150.000
mq. Per 21.000 mq accoglie laboratori, uffici e il centro servizi, mentre altri 70.000 mq sono occupati da edifici destinati a ospitare attività produttive. Ha prevalentemente un ruolo di incubatore per le nuove imprese
dei settori farmaceutico, biotecnologico, chimico, diagnostico, veterinario, agroalimentare, biomedico e ICTbioinformatico che intendano insediarsi sul territorio. I laboratori universitari a disposizione offrono tecnologie innovative e servizi avanzati per la ricerca e la sperimentazione in campo fisico, chimico, bio-molecolare.
Il parco ospita anche convegni e seminari, svolge analisi e studi di fattibilità, azioni di diffusione
delle tecnologie verso il sistema delle piccole imprese, fornisce supporto amministrativo, legale, finanziario, di marketing, su tutti i versanti che possano interessare le aziende del settore. Tra i servizi
di alto valore aggiunto offerti dal Bioindustry Park si segnala il PIP (Patent Information Point), per
la valutazione degli aspetti tecnici, del grado di validità e dello stato giuridico dei brevetti. Inoltre,
grazie a convenzioni con centri di competenza locali e nazionali, il parco estende il proprio operato
anche verso aziende dei settori elettronico, meccanico e plastico, presentandosi dunque come un
polo a vocazione multisettoriale, che ha raffinato e adeguato la propria attività in base al legame instaurato con il territorio, e ai continui input provenienti dal contesto tecnologico e produttivo locale.
Tecnoparco del Lago Maggiore
Nei pressi di Verbania, sulla sponda ovest del Lago Maggiore, ha sede il Tecnoparco, in cui sorgono 22 edifici di circa 30.000 mq, costruiti all’interno di un parco di oltre 180.000 mq.
Il complesso architettonico comprende capannoni e laboratori con superfici variabili da 135 a 1.680 mq, e
moduli per soli uffici da 25 a 250 mq. Il Tecnoparco è dotato di un’apposita struttura, costituita da spazi per
laboratori e uffici, affinché le piccole imprese in fase di start-up dispongano delle condizioni ideali per nascere e superare l’iniziale stadio critico, e traducano le loro idee tipicamente high tech in concrete realizzazioni.
Le neoimprese possono poi trasferirsi nell’area del parco riservata alla prima fase di espansione delle aziende che già in parte si sono consolidate. Tecnoparco non agisce solo come incubatore, ma offre anche servizi
di consulenza ed assistenza in campo gestionale, organizzativo, di elaborazione di business plan e programmi comunitari, di consulenza per accedere a finanziamenti.
Il suo scopo prioritario resta, tuttavia, quello di mettere in contatto le aziende aderenti con centri universitari
e istituti di ricerca nazionali ed europei, o con altre aziende appartenenti al settore di riferimento: ha stipulato convenzioni con Università e Politecnico di Torino e collaborazioni con gli altri parchi scientifici piemontesi, ai fini della ricerca e dello sviluppo tecnologico. Tra le 19 imprese insediate, si possono citare Tecnolab
(Centro che offre attività di testing, aggiornamento e consulenza tecnico-normativa nazionale e internazionale, soprattutto alle imprese meccaniche, elettromeccaniche ed elettroniche) e Tecnoverde (Centro di sperimentazione per le piante caratteristiche del Lago Maggiore).
Il PST della Valle Scrivia
Il Parco si estende si di una superficie di 100.000 mq (22.500 mq di laboratori per attività di R&S, e
2.500 mq di uffici e spazi comuni) all’interno dell’Area industriale attrezzata di Tortona in Valle Scrivia.
Concepito inizialmente per condurre attività di ricerca e innovazione principalmente nel settore delle telecomunicazioni, il PST ha in seguito ampliato il suo raggio di intervento, specializzandosi anche in altri settori,
come la plastica e la scienza dei materiali, legati alla realtà del contesto locale.
Uno degli aspetti più qualificanti del Parco è l’erogazione di servizi tecnologici in svariati campi (dalla chimica alla meccanica strutturale, dall’informatica e sistemistica all’optoelettronica, all’ergonomia e alla biomeccanica). I laboratori attivati per tale finalità sono sei (ChimLab, MecLab, Ce.C.A.P. Centro per il controllo automatico dei processi, OptoLab Valle Scrivia, Laboratorio per la taratura di accelerometri, e Laboratorio di biomeccanica ed ergonomia).
Attualmente sono insediate nel parco 25 aziende, che possono contare su partnership e servizi di eccellenza
in fatto di consulenza e ricerca: infatti, il PST è un BIC (Business innovation center), appartenente a EBN,
rete europea di assistenza delle imprese in fase di start up e sviluppo tecnologico; è socio IBAN (Italian Business Angels Network), per promuovere gli accordi tra i potenziali imprenditori e i cosiddetti investitori
non istituzionali, e collabora con ALPS-Innovation Relay Centre nell’adesione a progetti comunitari e nella
ricerca di contatti internazionali.
Centro per l’innovazione tecnologica e di servizi alle imprese provincia di Cuneo
Si tratta di una recente struttura ad alta qualificazione tecnico-scientifica, promossa da Tecnogranda, società mista partecipata dagli enti locali (Camera di Commercio di Cuneo, Comunità Montana Valle Maira,
Comune di Dronero), da enti strumentali della Provincia di Cuneo e della Regione Piemonte (quali Fingranda e Finpiemonte), dal Politecnico di Torino, dalle Associazioni di categoria (Unione Industriale di Cuneo,
Confartigianato Cuneo, Associazione Cuneo Trend), da istituzioni bancarie, e da una ventina di aziende locali. Il Centro, che si estende su una superficie complessiva di 10.000 mq, si pone come obiettivo il sostegno
alla creazione di nuove realtà economiche, il trasferimento e la diffusione di tecnologie, l’offerta di servizi e
consulenza, mediante la costituzione di un polo di competenza che raduni il patrimonio scientifico e umano
necessario a far decollare le giovani imprese. A tal fine è prevista la costruzione di ben 5 incubatori e di vari
laboratori di ricerca, operanti nei settori dei sistemi di produzione e tecnologia meccanica, compatibilità elettromagnetica, scienza dei materiali, chimica, idraulica, energetica, microelettronica, microscopia, informatica e Cad elettronico. Accanto a questa già notevole mole di attività, è in programma la realizzazione di quattro altri incubatori: uno nell’ambito dell’ampliamento del Bioindustry Park; il secondo a Torino per iniziativa diretta dell’Università; il terzo a Garessio, su proposta del Comune; il quarto a Borgo Vercelli. L’investimento totale ammonta a 17,2 milioni di euro, il 77% dei quali è costituito da contributi pubblici.
I3T - Incubatore dell’Università di Torino
E’ costituito da due strutture distinte, entrambe situate a Torino: una in via Nizza (quartiere San Salvario) e una in strada del Drosso (Mirafiori Sud). Il polo di via Nizza, focalizzato sul settore delle
biotecnologie, sarà strutturato come un laboratorio di idee e sarà riservato allo sviluppo di progetti
innovativi che, in base alla loro natura, saranno volti alla realizzazione di spin off, al conseguimento
brevetti, o alla elaborazione di piani di collaborazione con il mondo industriale.
Il polo di strada del Drosso, coordinato a livello interdipartimentale, si propone come incubatore,
secondo un modello appositamente studiato dall’Università e articolato in tre fasi: orientamento,
pre-incubazione, costituzione e avviamento. Tra le sue funzioni, vi è anche la localizzazione di imprese spin off dell’Università. Oltre che a svolgere le attività tipiche di un incubatore, il polo diventa
anche un riferimento come Industrial Liaison Office. La sua gestione è affidata ad una «Società consortile per l’incubatore di impresa e il trasferimento tecnologico dell’Università di Torino» (I3T),
appositamente costituita, alla quale partecipano Università, Provincia e Comune di Torino, Finpiemonte.
3. Le politiche per i distretti piemontesi
Nel maggio 1997 la Regione Piemonte dà avvio alle politiche per la promozione dei propri distretti industriali, approvando la legge 24/1997 «Interventi per lo sviluppo dei sistemi di imprese nei distretti industriali
del Piemonte», sulla base della legge nazionale 317/91.
Con la legge n. 24 la Regione riconosce nel distretto industriale la sede di promozione e di coordinamento
locale delle iniziative di politica industriale, più in generale di sviluppo economico e occupazionale, e si impegna a finanziare progetti innovativi di politica industriale presentati da consorzi pubblici, pubblico-privati
e/o da insiemi di imprese localizzati nell'area di riferimento del distretto. Uno degli obiettivi principali della
legge 24/1997 è il confronto fra le parti istituzionali, economiche e sociali operanti nell’area, per approfondire temi ed implementare linee di sviluppo: a questo scopo sono istituiti i Comitati di distretto, e vengono
predisposti programmi di sviluppo mirati all’area in questione. I distretti, individuati dal Consiglio regionale
nel giugno 1996, sono 25.
Favorendo azioni sinergiche tra forze istituzionali ed economiche, la legge coinvolge i Comitati di distretto,
la Regione Piemonte e i soggetti beneficiari delle risorse messe a disposizione, in primis il sistema distrettuale nel suo complesso, piuttosto che le singole imprese.
In tale quadro legislativo, la Regione sostiene e finanzia progetti innovativi di politica industriale, proposti e
realizzati, nelle aree classificate come «distretti», da consorzi, società consortili, piccole e medie imprese fra
loro associate, società consortili a capitale misto pubblico e privato, enti e società a prevalente partecipazione pubblica aventi finalità statutarie riferibili allo sviluppo dei sistemi locali di imprese.
Gli anni Novanta hanno quindi sancito sì la definitiva affermazione dei sistemi produttivi localizzati, ma
contemporaneamente, tuttavia, pure i primi segnali di inadeguatezza competitiva della loro struttura. Al loro
successo, infatti aveva contribuito l’applicazione del modello distrettuale anche in aree precedentemente
connotate da un assetto differente (modesto grado di specializzazione, presenza di imprese di dimensioni
medie o medio-grandi, non propriamente conformi alla natura degli scopi strategici del distretto).
A cinque anni dall’approvazione della legge 24/1997, con deliberazione del Consiglio regionale del 26 febbraio 2002, n. 227-6665, la Regione Piemonte provvede alla rideterminazione dei distretti industriali del Piemonte, sulla base delle elaborazioni Ires sui dati del Censimento intermedio dell’industria 1996, e con riferimento ai Sistemi Locali del Lavoro 1981 e 1991 (pubblicazione Istat del 1997). La base territoriale analizzata per l’individuazione dei distretti industriali è quella definita dalle deliberazioni CIPE dell’8 marzo e 3
maggio 2001, mentre gli indicatori utilizzati sono la caratterizzazione industriale, la densità imprenditoriale,
la specializzazione produttiva, il livello occupazionale e l’indice di industrializzazione manifatturiera.
Sono riconfermati 23 distretti dei 25 precedenti, mentre si è certificato lo stato di phasing out per i distretti
di Carpignano Sesia e di La Morra. Ai 23 distretti confermati si aggiungono i 4 di Carmagnola, Dogliani,
Verzuolo e Borgomanero. In tutto, i comuni interessati dai 29 distretti, se si considerano anche i due in phasing out, sono 543.
I 29 distretti sono associati a 5 filiere produttive che contraddistinguono il sistema piemontese: metalmeccanica, tessile-abbigliamento, alimentare, oreficeria, legno e carta-stampa.
3.1 Comitati di distretto
I Comitati sono istituiti dalla Giunta regionale nell’ambito di ogni distretto, o di aggregazioni di distretti
omogenei, su iniziativa delle parti istituzionali e sociali locali, e svolgono attività indirizzate alla promozione della conoscenza della legge Regionale 24/97 tra le imprese e gli enti locali, alla costruzione di un sistema di rete tra piccole e medie imprese (e tra queste, le istituzioni e l'Università) per attuare scambi delle informazioni prodotte o acquisite, utili per favorire la crescita della competitività.
I Comitati, 17 secondo i dati forniti dalla Direzione Industria della Regione Piemonte, alcuni dei quali interprovinciali, sono preposti, inoltre all’appoggio all'internazionalizzazione dei distretti, mediante la partecipazione a manifestazioni, programmi, progetti e reti europee ed extraeuropee, in sinergia con altri enti e organismi nazionali e locali. Particolare attenzione è posta al potenziamento delle infrastrutture del territorio:
sono incoraggiate le iniziative a favore della sostenibilità ambientale, nonché la promozione della ricerca,
dell'innovazione e del trasferimento tecnologico, anche per lanciare i prodotti delle imprese locali attraverso
la commercializzazione on-line.
Inoltre, si mira al sostegno alla formazione, per fornire a imprese e lavoratori dei distretti strumenti di adeguamento del proprio know-how, presupposto ritenuto fondamentale per rafforzare il legame fra crescita,
competitività e occupazione.
La legge regionale 24/97 predispone l’apertura annuale di bandi per lo sviluppo dei sistemi di imprese nei
distretti industriali del Piemonte: nel periodo 1998-2003 i distretti hanno presentato alla Regione 114 progetti, dei quali 93 sono stati finanziati, 5 dichiarati ammissibili ma non finanziati per carenza di fondi, 11
non ammessi per mancanza dei requisiti di legge previsti, 1 ammesso con riserva e successivamente non finanziato (causa presentazione oltre i termini fissati dal bando), 4 ritirati dai soggetti proponenti. Il contributo stanziato per la realizzazione dei 93 progetti è pari a 30.161.708 euro, con un’attivazione di risorse per
80.709.767 euro.
Obiettivo comune ai progetti finanziati è l’internazionalizzazione delle PMI, che non sono in grado di far
fronte autonomamente (in termini di costi) ad una robusta azione di marketing, necessaria per accedere al
mercato estero. Per questo motivo, il 61,2% delle risorse attivate per la realizzazione dei progetti sostiene
iniziative promozionali (in valore assoluto, 49.382.210 euro dei complessivi 80.709.767).
Oltre all’internazionalizzazione, i progetti puntano al miglioramento della competitività delle imprese, in
particolare alla predisposizione di metodologie e sistemi di analisi, diagnosi e interventi di qualità e certificazione di prodotto e processo. In questo caso, le risorse impiegate costituiscono il 18% del costo totale per
la realizzazione dei progetti, pari a 14.539.844 euro.
Altri obiettivi finanziati dalla regione Piemonte riguardano lo sviluppo e la creazione di strutture tecnologiche e di laboratori di ricerca e sviluppo (4.496.144 euro, pari al 5,6% delle risorse impiegate), la creazione e
lo sviluppo di centri per servizi comuni e per l’attivazione di reti telematiche (6.889.541 euro, pari all’8,5%
delle risorse impiegate), la creazione e lo sviluppo di sportelli territoriali di informazione, assistenza e promozione (4.254.582 euro, pari al 5,3% delle risorse impiegate), la predisposizione di analisi e metodologie
di intervento innovative rispetto alle questioni ambientali (1.147.446 euro, pari all’1,4% delle risorse impiegate).
L’investimento di risorse da parte della Regione è indirizzato, sempre nel periodo 1998-2003, soprattutto nei
confronti dei progetti presentati dai distretti del tessile, dell’oreficeria e della metalmeccanica: i distretti di
Biella, Cossato, Crevacuore, Tollegno e Trivero si aggiudicano 28 progetti finanziati, quello di Valenza Po
11, quelli del Canavese (Rivarolo C.se-Pont C.se, Forno C.se, Cirié-Sparone), in comune con il distretto Pianezza-Pinerolo, 10.
La capacità distrettuale è stata uno dei punti di forza sui quali le linee strategiche del DOCUP contano per
sostenere le dinamiche socioeconomiche utili alla riconversione delle aree Obiettivo 2 72, penalizzate dalla
contrazione dei livelli di produzione manifatturiera. Tra 2001 e 2003 infatti, l’industria manifatturiera piemontese, all’interno di un quadro congiunturale sostanzialmente piatto, segna una dinamica poco brillante,
72
F. Barbera (a cura di), Il modello di programmazione della progettazione locale integrata. Report regionale Piemonte, in Sostegno alla Progettazione integrata nelle regioni del Centro-Nord. PON «Azioni di sistema Obiettivo 3» Misura D.2 – Azione 1, settembre 2004.
dovuta anche all’indebolimento della propria capacità di esportazione 73 (le uniche resistenze, di fronte alla
crisi generale, sono registrate nell’ambito dei prodotti di lusso o in nicchie di stretta specializzazione e/o di
eccellenza).
Nel periodo esaminato l’area del Biellese è tra quelle che maggiormente manifestano una cultura distrettuale, come testimonia il numero di progetti presentati, il volume degli investimenti proposti (23,6%), la tipologia delle iniziative (correlate alle effettive necessità delle imprese, che affrontano la crisi del settore tessile e
la generale situazione di congiuntura internazionale derivante dalla globalizzazione dei mercati). L’industria
tessile, infatti, subisce già dal 1995 una progressiva riduzione del numero di imprese del settore, pari circa al
27%, tra Verbano-Cusio-Ossola, Torino e Biella, insieme a una contrazione delle esportazioni, che si acuisce particolarmente nel 2002. La crisi è sentita soprattutto proprio nel distretto biellese, le cui imprese sono
costrette a raddoppiare le ore di cassa integrazione.
Al 2004, il permanere della congiuntura negativa riguarda ancora il settore delle automobili, mentre è in ripresa quello delle parti e accessori per autoveicoli (a esclusione delle imprese dell’Astigiano, in perdita).
Tuttavia, le imprese del meccanico connesso all’automotive, insieme a quelle del settore orafo, pur risentendo della crisi diffusa, investono quasi il 29% delle risorse complessive, condividendo con il Biellese la necessità di aggregarsi per far fronte alle trasformazioni del mercato.
Per quanto riguarda il caso della Fiat, uno degli attori fondamentali in questo contesto, questa vive nel
2002 uno dei suoi anni peggiori, per poi dare alcuni segnali incoraggianti di ripresa nel 2003 e nei primi
mesi del 2004, confermati nel periodo successivo. In questo quadro positivo, la Fiat potrà rimanere soggetto
attivo e propulsivo per tutto il Piemonte, se sarà in grado di legarsi attivamente all’imprenditoria della componentistica per autoveicoli e dei servizi, e agli enti locali, puntando su sviluppo e ricerca.
In generale, durante gli anni 2000, si rileva come le linee di riqualificazione delle economie distrettuali del
Piemonte, pur corrette dal punto di vista procedurale, abbiano registrato sinora esiti non brillanti. In particolare, dai più recenti andamenti delle esportazioni regionali, emergono, da parte dei distretti, performance inferiori rispetto a quelle delle attività diversificate collocate nella medesima provincia di riferimento.
Dopo un iniziale entusiasmo, molte realtà distrettuali oggi sono perciò costrette a intraprendere percorsi alternativi rispetto alla rischiosa via neoprotezionista, a favore di scelte “di sistema”, ad elevato contenuto
strategico, orientate in particolare su:
- il riposizionamento strutturale, con la concentrazione delle attività in produzioni di alta gamma;
- l’utilizzo di forniture e investimenti in paesi a basso costo dei fattori;
- investimenti in ricerca e in tecnologia;
- una rigorosa protezione della proprietà intellettuale e della qualità del prodotto;
- politiche efficaci di marchio e di immagine, sia di impresa che di area;
- l’estensione del campo di attività ai segmenti della filiera che sono in grado di captare
quote elevate di valore aggiunto.74
Più in dettaglio, al 2004, se osservata dal punto di vista della competitività, l’evoluzione congiunturale dei
sistemi di PMI e dei distretti che caratterizzano il sistema produttivo regionale presenta uno scenario piuttosto sfaccettato. Secondo quanto registrato dall’Ires Piemonte, gli andamenti delle esportazioni mettono in
luce la persistente crisi dell’apparato industriale regionale costituito dalle PMI, ma allo stesso tempo la capacità di diverse imprese di espandere le proprie esportazioni, in linea con la ripresa della situazione internazionale75.
Nel 2004 trend positivi nelle esportazioni sono registrati nel settore alimentare (in particolare delle bevande)
e del legno (nella provincia cuneese in particolare), nelle produzioni del comparto chimico, della rubinetteria e del valvolame, dell’abbigliamento (a Novara e Vercelli, così come nel Verbano-Cusio-Ossola). Anche
il settore dell’oreficeria e quello della catena del freddo (nell’Alessandrino) segnano punti positivi. Un’inversione di tendenza si è verificata anche nel tessile del Biellese, le cui esportazioni tornano a crescere.
Tuttavia, rimangono in una situazione di crisi, nonostante alcuni segnali di inversione positiva, i comparti
dei casalinghi e della coltelleria del Verbano-Cusio-Ossola, insieme a quello del tessile nel Novarese, degli
elettrodomestici nell’Alessandrino e dell’abbigliamento nel Biellese.
73
R. Lanzetti, S. Landini, D. Nepote (a cura di), Secondo rapporto triennale sugli scenari evolutivi del Piemonte. Il sistema produttivo, Irescenari, 2004/9, Ires, Torino 2004.
74
Regione Piemonte, Per un nuovo Piano Territoriale Regionale, Documento Programmatico, 2005, pp.18-20
75
Piemonte economico sociale 2004. I dati e i commenti sulla regione, Relazione annuale sulla situazione economica,
sociale e territoriale del Piemonte nel 2004, Ires Piemonte, Torino 2005.
Analizzando i dati a livello provinciale forniti dal Rapporto Piemonte Economico sociale 2005 dell’IRES
Piemonte, emerge come nel 2005 le piccole e medie imprese abbiano diminuito le esportazioni verso l’estero
rispetto all’export complessivo, che invece è cresciuto in tutte le province, tranne Torino e Vercelli: qui la
tendenza è invertita, e le piccole e medie imprese hanno registrato una crescita dell’export maggiore di quella degli altri settori produttivi. Dinamiche di export positive, anche se contenute, caratterizzano il distretto di
rubinetterie e valvolame (Vercelli, in crescita, con 214 milioni di euro, e Novara in contrazione con 878 milioni di euro) e quello della chimica (Alessandria, in crescita, con 465 milioni di euro; Verbano-Cusio-Ossola, in flessione, con 73 milioni di euro). Si confermano anche i settori tradizionali come i filati di Biella (504
milioni di euro, in crescita), l’oreficeria di Alessandria (stabile sui 400 milioni di euro), i casalinghi nella
provincia Verbano-Cusio-Ossola (in forte flessione, con 68 milioni di euro) e, nel Cuneese, le bibite (in flessione con 542 milioni di euro) e i prodotti dolciari (in crescita con 441 milioni di euro).
La Regione si impegna dunque in particolare nel sostegno ai due settori che più hanno sofferto la crisi, il
metalmeccanico e il tessile-abbigliamento. Lo testimoniano i finanziamenti stanziati per i progetti presentati
dai distretti industriali coinvolti nei due settori in questione, erogati utilizzando unicamente le risorse regionali disponibili, secondo la legge regionale 24/1997.
La legge n. 24 è lo strumento principale di sostegno ai distretti: nel 2004 ha rinnovato, con un aggiornamento disciplinare attuativo, il bando per la presentazione delle domande da parte delle imprese associate che
operano all’interno di distretti industriali per l’ottenimento di interventi agevolati 76. La Regione premia programmi di investimento con fini di sviluppo economico, realizzati all'interno dell’area dei distretti industriali, attraverso la creazione di sportelli territoriali, di centri per servizi comuni, di sistemi di certificazione di
qualità, di nuove tecnologie; la diffusione di iniziative di internazionalizzazione, di promozione commerciale e di acquisizione di nuovi mercati; l’attivazione di reti telematiche, strutture logistiche comuni, portali per
l’e-commerce. L'agevolazione prevista per il 2004 consiste nella concessione di un contributo in conto capitale del 40% sull'investimento effettuato, entro il limite massimo di 516.456,90 € in un triennio. Ciascun
progetto ammissibile al contributo deve essere realizzato nel distretto industriale, sede del consorzio di imprese e/o della società consortile richiedente e di almeno i 4/5 delle imprese che lo costituiscono. La selezione dei progetti avviene sulla base di alcuni «elementi di priorità», quali la collocazione del distretto, in tutto
o in parte, in aree non ammissibili ad altri interventi agevolativi, il parere favorevole del Comitato di distretto, gli effetti occupazionali del progetto, il grado di coinvolgimento e di partecipazione delle imprese locali,
il carattere innovativo degli interventi previsti, il contributo ai processi di internazionalizzazione derivante
dalla sua attuazione.
Le politiche per la ripresa delle aziende nel tessile puntano sostanzialmente sulla creazione di prodotti innovativi e di alta qualità. Tra gli interventi di politica industriale proposti, le azioni della Regione riguardano
principalmente l’accesso al credito per le imprese e il sostegno all’attività industriale. Ciò implica la partecipazione della Finpiemonte al capitale sociale di garanzia per consorzi e cooperative, l’estensione degli incentivi automatici per attività di ricerca e sviluppo, il consolidamento delle passività a breve termine per le
PMI del settore (legge 598/94), l’avvio di un Laboratorio di Alta tecnologia tessile 77 (recentemente costituito
a Biella), nuove strategie di aggregazione fra imprese, il prolungamento della filiera (grazie all’integrazione
di technology provider e ad un maggior controllo della fase di commercializzazione), la creazione di un marchio di eccellenza per le produzioni regionali, e la valorizzazione dei siti industriali dismessi.
Come principale strumento per attuare le politiche di sviluppo ed internazionalizzazione del tessile e dell’abbigliamento piemontese, la Regione punta sull'asse specifico dei fondi strutturali 2000/2006, che permette di rispondere alle esigenze di inserimento del sistema delle imprese locali nelle reti estere e di affermazione di uno «stile piemontese» per la promozione e la vendita dei prodotti e dei servizi sui mercati. Per tali iniziative, si fa inoltre riferimento alle disponibilità considerate dalla legge regionale 24/97 sui distretti industriali. Tramite i fondi strutturali, la Regione ha finanziato una serie di interventi di valorizzazione territoriale per oltre 300 milioni di euro. La presenza in Piemonte dei Giochi olimpici invernali del 2006 ha rappre76
Regione Piemonte, Bollettino ufficiale regionale, 1 luglio 2004.
Il Laboratorio di Alta Tecnologia Tessile (L.A.T.T.) è un network di strutture di ricerca finalizzato allo sviluppo di
prodotti e processi tessili innovativi. Grazie a contributi della Regione Piemonte, i laboratori di CNR, ISMAC, ITIS Q.
Sella e Politecnico di Torino, sono stati potenziati con strumentazioni d'avanguardia al fine di offrire un reale supporto
alle imprese biellesi e italiane impegnate in processi di innovazione.
77
sentato un’ulteriore opportunità a disposizione di Regione e Province per implementare progetti finanziabili,
in particolare per ciò che riguarda i programmi di potenziamento delle infrastrutture di collegamento, anche
a sostegno dello sviluppo delle attività imprenditoriali e della diversificazione economica.
La struttura produttiva distrettuale piemontese appare ad oggi quasi compiuta. Nata dalla condivisione di generiche risorse d’area, e dalla stratificazione di caratteri identitari in sistemi territoriali protetti da un relativo
isolamento, sembra stia gradualmente lasciando il posto a realtà specializzate: si sono originate filiere di
produzione con imprese raggruppate non solo su base geografica, ma sempre più in forma di sistemi territoriali riconoscibili e assimilabili per storia distrettuale. Già nel corso degli anni Novanta, la spinta espansiva
del modello distrettuale è andata affievolendosi: la perdita di competitività del sistema produttivo è ascrivibile alle incertezze di prospettiva delle piccole imprese, ormai prive, con l’adozione della moneta unica europea, del riparo della svalutazione di fronte alla concorrenza mondiale, e sopraffatte dall’irrompere “dei
paesi a basso costo dei fattori (soprattutto del lavoro), nonché dalla crescente capacità delle grandi imprese
multinazionali a differenziare la propria offerta invadendo i mercati di nicchia”.
Se da un lato la capacità concorrenziale delle PMI risente di un modello di specializzazione fondato sui settori tradizionali, quelli dove la competitività estera è più forte, dall’altro lato è anche indebolita dall’eccessiva frammentazione del sistema produttivo. I sistemi locali di piccola impresa sono dunque attraversati da
tensioni concorrenziali e mutamenti, che mettono in luce la frequente difficoltà delle aziende nel reggere la
propria trasformazione da sistemi produttivi tradizionali, che hanno tra i loro presupposti la contiguità geografica, a sistemi produttivi territorialmente estesi, che fondano la propria aggregazione e la propria competitività sulla condivisione di know how.
In tale contesto, la Legge 317/91 (Interventi per l’innovazione e lo sviluppo delle piccole imprese) legislazione piemontese di riferimento sui distretti, si è rivelata inadueguata rispetto all’obiettivo di mobilitare risorse locali in modo sistemico (sotto forma di cluster, secondo una terminologia corrente). Obiettivo, quest’ultimo, che oggi la Regione considera rilevante, prevedendo tra le proprie linee d’intervento un robusto
incremento delle politiche orizzontali, da perseguire con l’allargamento alla base del numero di imprese
coinvolte, l’investimento in contributi per l’innovazione e la ricerca, il consolidamento e l’internazionalizzazione dei mercati, la costituzione di Associazioni temporanee di scopo, la promozione di progetti interaziendali. “A fondamento del processo innovativo sta ora l’attivazione di reti lunghe, capaci di sovrapporsi alle
relazioni di prossimità interne al distretto. La presenza di imprese di maggiori dimensioni si rivela peraltro
un requisito competitivo ineliminabile – piuttosto che un carattere deviante – dal momento che queste si
pongono spesso quale interfaccia fra la piccola impresa distrettuale e le reti tecnologiche e di mercato mondiali” (Regione Piemonte, 2005, pp.18-20).
Un approccio che sembra andare oltre l’idea di distretto industriale a scala regionale, privilegiando, ad
esempio nel caso del tessile, la promozione di un distretto industriale multiregionale diffuso, da costruire su
poli nazionali di specialità produttiva come Biella e Prato, ad esempio, e altri ancora. L’approccio alle realtà
imprenditoriali, infatti, sembra propendere progressivamente per una loro individuazione per distretti produttivi più che per distretti industriali, da supportare mediante una normativa non più rigida e calata dall’alto, bensì concepita secondo una visione per sistemi, che consenta alle istituzioni e agli altri soggetti di massimizzare l’intesa e le possibili sinergie. La geografia definita dai distretti industriali pertanto non appare
più sufficientemente esaustiva per classificare e governare i processi produttivi regionali, mentre molto più
conformi alla situazione attuale appaiono le distinzioni in filiere, con i relativi consorzi, in poli di specialità
produttiva, in. Sistemi territoriali di creazione di valore
Il concetto di Sistemi territoriali di creazione di valore (STCV) può risultare utile per definire il rapporto tra
territorio e processi produttivi in esso insediati, evitando che la dimensione socio-culturale sia riduttivamente sovrapposta a quella economico-produttiva. “Nel caso del STCV la relazione tra sistema e territorio non è
invece di tipo esclusivo: sebbene il STCV si fondi su una relazione privilegiata con un territorio, i due concetti sono nettamente distinti. Non solo: un dato territorio può avere relazioni con più STCV che vi sono radicati” (ivi, pp.37-38).
Inoltre, per quanto concerne la cosiddetta “competitività territoriale”, è il STCV, con i suoi assetti istituzionali, a competere sui mercati nazionali e internazionali e non il territorio, fornendo innanzitutto agli attori
economici capitale sociale e relazionale. “L’attenzione è incentrata sui processi di apprendimento che identificano e contraddistinguono i diversi sistemi territoriali: è questo elemento cognitivo - e non già la competi-
tività su base geografica o produttiva, o la specializzazione in un settore piuttosto che in un altro, o ulteriori
fattori contingenti - a garantire al sistema la continuità nel tempo” (ivi, pp.38).
3.2 I distretti tecnologici, un caso a parte
Il settore dell’Information and Communication Technology (ICT) è per il Piemonte un settore che conta il
6% della popolazione occupata: le 110.000 unità impegnate in questo settore sono per lo più organizzate in
piccole strutture, rispondendo ad una domanda di mercato legata più alla esigenze di cittadini ed enti pubblici, che all’integrazione sistematica nelle funzioni di consumo e produzione.
Si tratta quindi di una distribuzione capillare, ma con un basso contenuto tecnologico (rispetto ai paesi europei più evoluti), rivolto alle esigenze “elementari” più che alla realizzazione e diffusione su vasta scala di
prodotti avanzati. La frammentazione del settore, testimoniata dell’elevato numero di imprese individuali,
pur non essendo di per sé un fatto negativo, sul lungo periodo potrebbe rivelarsi elemento di vulnerabilità e
freno per il successivo salto di qualità.
Il settore strategico, che contraddistingue la ricerca in Piemonte, e che ha contribuito all’istituzione di un distretto tecnologico da parte del Miur e della Regione Piemonte, è quello delle tecnologie dell'informazione e
delle telecomunicazioni.
Il distretto per le comunicazioni wireless nasce nella provincia di Torino, dove si registra una «vocazione»
tecnologica allo sviluppo dell’Information and communication technology, del wireless e della sicurezza del
patrimonio informatico. La formazione di un cluster dell’high-tech nel sistema metropolitano torinese si realizza sull’onda lunga delle esternalità e dei profondi mutamenti del settore automobilistico, ponendosi come
valida alternativa alla tradizionale produzione manifatturiera.
Non solo, a Torino hanno avuto le proprie sedi originarie aziende come la Rai, la Sip, e più recentemente lo
Cselt, società di ricerca e sviluppo nel campo delle telecomunicazioni del gruppo IRI. Da almeno un decennio, infatti, sono numerose le imprese high tech che si sono localizzate nel torinese, e, se una parte di queste
è legata alle specializzazioni tradizionali della città (auto, meccanica strumentale e automazione, aeronautica
e spazio), molte sono quelle che operano nei nuovi settori delle ICT.
Il patto fra istituzioni, imprese, fondazioni bancarie ed enti di ricerca per la creazione del progetto Torino
Wireless è stato presentato nel 2001. Primo distretto tecnologico in Italia, iniziativa pilota a livello nazionale, Torino Wireless punta alla promozione e allo sviluppo delle imprese specializzate nell’ICT e alla configurazione di Torino come uno dei poli internazionali in questo settore. Più in dettaglio, il distretto guarda con
attenzione ai settori ICT che impattano sull’insieme delle tecnologie e degli ambiti economici del tessuto
imprenditoriale della Regione: la tecnologia wireless, i dispositivi elettronici e ottici, le tecnologie wireline,
il multimediale, il software. A fronte di questi interessi, gli obiettivi principali sono il dare l’impulso alla ricerca, la creazione di nuove imprese, il sostegno alle PMI che investono nell’innovazione come strumento di
crescita, lo sviluppo di strumenti finanziari innovativi, l’incremento dal 5 al 10% del peso del settore tecnologico sul prodotto interno lordo regionale, il collegamento ad altre esperienze internazionali.
Il progetto condensa strategie e interessi comuni a molti dei principali attori dello scenario economico, produttivo e culturale piemontese: hanno infatti firmato il patto, oltre al Miur, la Regione Piemonte, la Provincia di Torino e il Comune di Torino, anche la Camera di Commercio di Torino, l’Unione Industriale, Fiat,
Telecom Italia, Alenia, Motorola, STMicroelectronics, Università degli Studi di Torino, Politecnico di Torino, Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT, San Paolo IMI, Unicredito, Istituto Superiore Mario Boella.
Un anno dopo, il 18 dicembre 2002, è stata istituita la Fondazione Torino Wireless, struttura di coordinamento del distretto, il cui obiettivo consiste nel sostegno alla ricerca, ed alla creazione e allo sviluppo di impresa tramite strategie condivise dagli attori territoriali coinvolti.
Le attività del distretto hanno contribuito alla nascita, e successivamente al supporto, del lavoro di oltre
2.000 ricercatori impegnati nel settore ICT, di cui 700 solo nel wireless, anche grazie all’interazione tra atenei e istituti di ricerca pubblici come il Politecnico e l’Università di Torino, l’Istituto superiore delle telecomunicazioni Mario Boella, l’Istituto elettrotecnico nazionale Galileo Ferraris INRIM (ex IEN), l’Istituto di
Elettronica e di Ingegneria dell’Informazione e delle Telecomunicazioni del CNR (IEIIT-CNR), e centri di
ricerca privati come Telecom Italia Lab, il Centro Ricerche Fiat, il Motorola technology center e il centro ricerche RAI.
Tutti i soci partecipano al Distretto attraverso vari investimenti:
il MIUR, per un ammontare di 26 milioni di euro
la Regione Piemonte, per 10 milioni di euro
la Provincia di Torino, per 8 milioni di euro
il Comune di Torino, per 6 milioni di euro
la Camera di commercio per 2,5 milioni di euro
Telecom Italia, STMicroelectronics, Motorola, Fiat e Alenia per 1,4 milioni di euro ciascuna
San Paolo IMI, Unicredito, l'Unione Industriale di Torino e l'ISMB per 400.000 euro ciascuna
Gli enti accademici contribuiscono al distretto in termini di competenze e strutture di ricerca, mentre la
Compagnia di San Paolo e la Fondazione CRT hanno sottoscritto un Memorandum of Understanding.
Inoltre, i già citati parchi scientifici e tecnologici (l’Environment Park e il Virtual Reality e Multimedia
Park di Torino, il Bioindustry Park di Ivrea, il Parco Scientifico Tecnologico Valle Scrivia, il Tecnoparco
del Lago Maggiore) giocano un ruolo non secondario nello sviluppo del distretto. In tal senso, un esempio di
collaborazione in atto nel distretto di Torino può venire dagli accordi firmati tra la Fondazione Torino Wireless e l’Incubatore di Imprese Innovative del Politecnico (I3P), attivo da quattro anni nelle attività di supporto alla creazione d'impresa. L'accordo prevede che I3P inserisca, direttamente e a condizioni privilegiate, le
start-up segnalate dalla Fondazione nei propri piani di incubazione.
Per quanto riguarda le aziende coinvolte, sono oltre 6.700 le PMI attive nel distretto ICT, favorite anche
dalla disponibilità di finanziamenti pubblici e privati destinati alle attività di ricerca ed alla creazione di nuove imprese (il Piemonte investe l’1,7 % del suo Pil in innovazione, e raccoglie un quarto degli investimenti
privati italiani in ricerca e sviluppo).
Considerando la struttura produttiva dell’area metropolitana torinese, le imprese la cui attività consiste nella
trasformazione di informazioni usate o fornite in formato numerico (O CDE, 2002) rappresentano il 66,9%
delle unità locali high-tech del Sistema locale di Lavoro di Torino, e il 23,7% delle unità locali manifatturiere. Il settore ICT raggruppa il 71,9% degli addetti impiegati nei settori high tech, e il 17,4% degli addetti impiegati nel settore manifatturiero dell’area metropolitana torinese.
Il distretto intende raggiungere livelli di eccellenza nella ricerca e nell'imprenditoria tecnologica, comparabili a quelli dei migliori poli internazionali. Entro il 2012 Torino Wireless punta a triplicare il numero dei ricercatori impegnati nell’ICT, a creare almeno 50 nuove imprese ICT, ad attrarre imprese innovative italiane
ed internazionali nell’area piemontese, ad accelerare lo sviluppo di numerose PMI piemontesi particolarmente promettenti, ad aumentare l’incidenza dell’ICT sull’economia piemontese dal dato odierno del 5 %
fino al 10 %, a raggiungere la capacità di auto-sostentamento.
Per questo, le istituzioni pubbliche, alcune aziende del settore ICT, e alcune istituzioni finanziarie si sono
impegnate ad investire in cinque anni 130 milioni di euro per tre aree principali: la ricerca, il mantenimento
di un livello di eccellenza nel settore wireless (area di accelerazione), l’alta formazione a distanza. In particolare, per l’area di accelerazione sono previste un insieme di attività, che vanno dalla creazione di start-up,
al networking di idee, persone e aziende, allo sviluppo di un incubatore pensato per supportare l’avvio ed il
consolidamento delle nuove imprese.
Per quanto attiene più specificatamente ai compiti della Fondazione Torino Wireless, essa definisce le linee
strategiche del Distretto e ne coordina le attività, mettendo a sistema i diversi attori, per dare coerenza e integrazione alle politiche di promozione dell’ICT sul territorio, e per costruire un polo di eccellenza in ricerca e sviluppo, che offra sostegno finanziario alle imprese. Queste ultime sono selezionate secondo i criteri
dell’eccellenza tecnologica e dell’attrattività di mercato. L’approccio della Fondazione all’accelerazione di
impresa è di tipo integrato, come testimoniano gli interventi finora messi in campo: il Progetto Start-up, dedicato alla creazione di nuove realtà imprenditoriali; il Progetto PMI, indirizzato allo sviluppo delle piccole
e medie imprese; il Progetto IAM per la valorizzazione della proprietà intellettuale; e poi non mancano il
supporto al networking e all'internazionalizzazione, quello alla progettazione microelettronica tramite la costituzione di un Design center, e l'investimento di venture capital in collaborazione con la finanziaria Piemontech.
Piemonte High Technology srl (Piemontech) è una delle due strutture create da Torino Wireless per incentivare la formazione di un sistema di strumenti e attori finanziari a supporto dell'innovazione. Nata nel luglio
2004, dispone di 2 milioni di euro, con un obiettivo di 5 milioni di euro di capitale: il suo compito è assumere posizioni di equity all’interno di progetti e imprese che nascono in Piemonte, per importi inferiori ai
200.000 euro, in particolare nei casi in cui è più forte la necessità di accompagnamento e collaborazione ai
fini di rendere concrete le prospettive di reddito.
Insieme a Piemontech è sorto, in partnership con Ersel, il fondo d’investimento Alpinvestimenti (un fondo
mobiliare chiuso, da 40 milioni di euro, della durata di 10 anni), dedicato alla selezione e al finanziamento
delle piccole e medie imprese più promettenti operanti in Piemonte, caratterizzate da un forte contenuto di
conoscenza e tecnologia.
A Ivrea ha invece sede il distretto tecnologico del Canavese, che si estende fino a Chivasso e a Rivarolo Canavese. Fino agli anni Ottanta il tessuto economico dell'area canavesana era, come il resto della provincia torinese, imperniato sulla presenza di due grandi industrie: Olivetti e Fiat.
Sul finire degli anni Novanta il modello della grande industria entra in crisi, provocando effetti negativi sul
tessuto imprenditoriale e sociale dell'area, segnata dal declino irreversibile del sistema Olivetti, e dal ricompattamento della filiera legata al settore automotive, con la chiusura definitiva dei stabilimenti Lancia a Chivasso.
La situazione comporta la perdita di posti lavoro, che tuttavia viene contenuta grazie a una sostanziale stabilità nel numero delle imprese manifatturiere minori, generando un passaggio di quote occupazionali dalla
grande alla piccola e media industria. Se negli anni Settanta le piccole e medie imprese assorbivano appena
il 30% degli occupati, oggi ce ne sono almeno 500 che impiegano il 65% della popolazione occupata. Il tessuto delle PMI che si è sviluppato e specializzato nei settori high tech dell’informatica e delle comunicazioni
è figlio del know-how generato dalla grande industria degli anni precedenti: molte delle nuove imprese sono
state costituite da ex dipendenti di Olivetti e Lancia, i quali hanno saputo far fruttare la professionalità e le
conoscenze acquisite nell’esperienza antecedente.
La riconversione del settore produttivo locale ha fatto tesoro del sapere accumulato sul territorio e ha puntato sulla specializzazione tecnologica delle attività già presenti, in particolare l’informatica e le telecomunicazioni. All’interno di un sistema di imprese polverizzato, le attività che definiscono il profilo del distretto
(cui si affiancano quelle legate a settori manifatturieri tradizionali, in particolare siderurgia e metallurgia,
meccanica fine, stampaggio a caldo dell’acciaio a Rivarolo), sono di eccellenza, e segnano una forte espansione del settore ICT, in particolare nei comparti dell’elaborazione dati, della telematica, della produzione di
software e delle attività editoriali, lasciando a Torino, viceversa, un ruolo di preminenza nella multimedialità, nelle telecomunicazioni, nella pubblicità e nelle attività radiotelevisive.
Le imprese osservate nel distretto appaiono innovative, in quanto operano in comparti science based, fruendo di sistemi di automazione industriale; sono in grado di intrattenere rapporti non occasionali con centri di
ricerca pubblici del Politecnico, dell’Università, del CNR; hanno attivato rapporti di consulenza con altri
centri pubblici e privati; dispongono di un proprio centro o laboratorio di ricerca. Si tratta spesso di imprese
che hanno saputo beneficiare dei finanziamenti previsti dalle leggi nazionali o regionali di sostegno all’innovazione tecnologica, o che hanno partecipato a progetti comunitari (Eureka, Esprit, Race Brite Euram,
Sprint).
Inoltre, non si tratta solo di imprese appartenenti all’industria manifatturiera, ma anche di imprese del terziario avanzato e, in particolare, operanti nei comparti della progettazione e fornitura di servizi informatici, della difesa dell’ambiente, e della consulenza tecnico economica, che possono diventare un importante canale
di trasferimento tecnologico.
I primi risultati di questo nuovo fenomeno distrettuale sono identificabili nella creazione di nuove imprese nel settore ICT, e nella localizzazione di imprese innovative in settori diversi: nella meccanica (attorno a
Pininfarina), nei servizi per il tempo libero (con il previsto Millennium Park), nell’industria dello spettacolo
(Telecittà a S. Giusto Canavese), nello sviluppo delle produzioni ICT (Fulchir e Lexicon).
La costituzione di poli formativi specializzati contribuisce inoltre al rafforzamento del profilo distrettuale:
sono stati avviati tre diplomi in telecomunicazioni del Politecnico di Torino, e un quarto ad Aosta; due corsi
di laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università; un laboratorio di progettazione nei servizi di comunicazione digitale con un’impronta fortemente internazionale, frutto della collaborazione con il London
Royal Institute of Arts. Insieme all’apporto formativo, è cruciale la presenza di finanza innovativa (Banca
Sella e venture capital) e la creazione di infrastrutture specializzate (Infoville ed E-Canavese, il portale che
riunisce privati come Olivetti e Banca Sella).
A fronte di un modello che sempre più si avvicina a quello di distretto «spontaneo», le politiche avviate per
catalizzare le risorse diffuse nell’area canavesana, sfruttando e ricercando sinergie e interazioni, e per soste-
nere la riconversione dopo la crisi delle industrie tradizionali, convergono, nel dicembre del 1993, nella fondazione del Consorzio per il distretto tecnologico del Canavese.
Il Consorzio coinvolge la Provincia di Torino, la Città di Ivrea, la Olivetti S.p.A. e l’Associazione industriali
del Canavese, con l’obiettivo comune di promuovere lo sviluppo economico e sociale dell’area distrettuale.
Le principali linee d’azione riguardano la razionalizzazione di processi ed organizzazioni della Pubblica
Amministrazione locale, anche attraverso l'utilizzo delle nuove tecnologie; il sostegno ad iniziative che favoriscano il trasferimento tecnologico e l'innovazione, sia attraverso la valorizzazione del patrimonio di conoscenze già esistenti, sia incentivando la diffusione di nuovi saperi; la promozione e il coordinamento di specifici progetti utilizzando fondi comunitari, nazionali o regionali.
Sei anni dopo, il 6 dicembre 1999, viene creato il Patto territoriale del Canavese. Tramite il Consorzio e il
Patto territoriale, le imprese e altri soggetti intermedi che operano per lo sviluppo e la diffusione dell’innovazione hanno la possibilità di rafforzare il loro ruolo ed il loro operato.
In particolare, vengono rinsaldati i rapporti con gli istituti di formazione superiore (Politecnico di Torino e
Università di Torino, nelle rispettive sedi decentrate di Ivrea), e con i numerosi centri di ricerca del territorio
(i Centri Competenza di TS Canadese; il Bio Industry Park a Colleretto Giocosa; l’Istituto R.T.M. S.p.a. di
Vico Canavese, storica compartecipazione paritetica tra l’Olivetti e la Finmeccanica, nato per promuovere
l’innovazione nella meccanica; i centri per l’innovazione tecnologica nello stampaggio e quelli per le lamiere cellulari presso RTM; i centri per la meccatronica e microlavorazioni presso la sede di Ivrea del Politecnico di Torino; i centri per i microsistemi per la sensoristica avanzata e Biotecnologie presso il Business Center di Chivasso; i centri per le lavorazioni con Tecnologia laser presso RTM; i centri per la Chimica e le
Biotecnologie presso il Laboratorio integrato di metodologie avanzate LIMA del Bio-industry park a Colleretto Giocosa; i centri per la Qualità, l’Omologazione e la Pre-certificazione di Prodotto e di Processo, per
l’innovazione e la flessibilità nel settore della componentistica auto).
L’area del distretto corrisponde al territorio interessato dal Patto territoriale, che include 123 comuni e comprende soprattutto i sistemi locali del lavoro di Ivrea, di Chivasso e il distretto industriale di Rivarolo Canavese. Le imprese coinvolte nelle attività del consorzio del distretto e del patto territoriale sono 159.
I dati Istat, fissando le frontiere del Distretto tecnologico sulla base delle aree dei tre citati sistemi locali del
lavoro, indicano la presenza di 2309 imprese manifatturiere.
SLL Ivrea e SLL Rivarolo Canavese
Totale Attività High Tech
Totale Attività manifatturiere
Totale Attività
Imprese
560
2.309
13.851
Indipendenti
826
3.649
20.625
Dipendenti
11.963
20.567
38.814
Addetti
12.799
24.213
59.439
4 Il DOCUP, l’Accordo di Programma Quadro e il DPEFR 2006-2008
4.1 L’Intesa istituzionale e gli accordi di programma quadro (APQ).
L’Intesa sulla nota tecnica relativa alla definizione del Quadro strategico nazionale per la politica di coesione 2007-2013, approvata il 3 febbraio 2005 dalla Conferenza unificata, stabilisce la necessità di garantire
una convergenza programmatica tra politica comunitaria e politica regionale e nazionale. Tale impostazione
era già contenuta nell’Intesa istituzionale di programma sottoscritta tra il Governo e la Regione Piemonte nel
2000, con lo scopo principale di destinare risorse aggiuntive per opere pubbliche finalizzate a sostenere lo
sviluppo socio-economico delle aree sottoutilizzate. Nel corso degli anni sono stati siglati numerosi accordi
attuativi dell’Intesa (Accordi di Programma Quadro), che hanno interessato i beni culturali, la mobilità sostenibile, la difesa del suolo, le risorse idriche, la bonifica delle aree contaminate, la ricerca, la società dell’informazione e un concorso d’idee per la formazione di programmi integrati di sviluppo locale.
Tra gli accordi più recenti riconducibili agli assi strategici dell’innovazione, della qualificazione
della popolazione e della forza lavoro e dello sviluppo territoriale sostenibile vanno evidenziati:
a) l’accordo di programma quadro sulla ricerca scientifica applicata, per il sostegno a progetti di
pluriennali, presentati da enti pubblici di ricerca e aziende ospedaliere, nei settori del Sesto Programma Quadro: sono emerse la qualità dei ricercatori, le reti internazionali esistenti e le grandi po-
tenzialità della ricerca scientifica in Piemonte, soprattutto in campo sanitario e nella prevenzione
della salute pubblica in senso lato.
b) l’accordo di programma sulla società dell’informazione, per sviluppare la rete unitaria della pubblica amministrazione (RUPAR 2) anche nelle aree montane e collinari, tramite l’impiego di sistemi
satellitari wireless, e grazie ad un generale potenziamento delle infrastrutture dei territori più marginali, con la diffusione della banda larga e l’offerta di servizi multimediali destinati alla pubblica amministrazione (e-learning, e-procurement, pubblicazione bandi, razionalizzazione carte servizi).
Questo accordo è strettamente coordinato con l’Asse «Valorizzazione della ricerca scientifica, al
fine di promuovere il trasferimento tecnologico e lo sviluppo della società dell’informazione» del
DOCUP Piemonte 2000-2006, in attuazione del «Piano di sviluppo del sistema informativo regionale», e delle linee guida del Piano di e-government del Piemonte del 2001.
c) l’accordo di programma quadro sulla riqualificazione urbana e rurale, lo sviluppo locale e la rete natura.
Con la regionalizzazione dei patti territoriali, ed alla luce dell’esperienza maturata dal Piemonte nella programmazione integrata sia nelle aree urbane (programmi di recupero urbano, contratti di quartiere), sia in
quelle rurali (programmi Leader), la Regione ha sottoscritto il 28 ottobre 2004, con il Ministero dell’Economia e il Ministero delle Infrastrutture, un accordo di programma quadro (APQ) dedicato alla riqualificazione
urbana e rurale, alla rete natura e allo sviluppo locale. Tale accordo si è proposto di anticipare la programmazione dei futuri finanziamenti nazionali, europei, regionali e locali (pubblici e privati) promuovendo con
un concorso d’idee la progettazione strategica di lungo periodo su tutto il territorio regionale. Gli enti locali
(Comuni, singoli o associati, con più di 5.000 abitanti, Comunità Montane) e gli enti parco hanno presentato
entro il 30 maggio 2005 ipotesi di sviluppo dei territori, sulla base dell’analisi dei punti di forza e di debolezza e delle vocazioni locali. L’accordo promuove la formazione di programmi integrati (concepiti con l’approccio contenuto nel metodo comunitario Urban e Leader), che prevedano il coordinamento delle politiche
pubbliche ai differenti livelli di governo, ed in particolare la sinergia tra la programmazione negoziata nelle
aree sotto-utilizzate e le altre politiche regionali, comprese quelle in attuazione dei programmi europei.
d) L’accordo di programma quadro per la tutela delle acque e la gestione integrata delle risorse idriche, che delinea la strategia di medio e lungo periodo per una più efficace azione di valorizzazione,
tutela e uso razionale del patrimonio idrico, al fine di ridurre e prevenire l’inquinamento, realizzare
l’integrazione dei servizi d’acquedotto, fognature e depurazione, favorire il risparmio e il riuso delle
acque depurate. Lo scenario delineato nell’accordo prevede, nel medio e lungo periodo, investimenti
di oltre mille milioni di euro, che potranno essere avviati subordinatamente alla piena attuazione
della riforma dei servizi idrici che, in Piemonte, è in avanzata fase di realizzazione.
Il disegno e l’implementazione di questa serie di accordi hanno dimostrato l’importanza sia di strategie di
lungo periodo, condivise tra lo Stato e la Regione, sia dell’approccio organico alla promozione del territorio
e alla tutela dell’ambiente, con il coinvolgimento di tutti i soggetti locali interessati ed impegnati, anche finanziariamente, nella definizione e nella realizzazione dei programmi (enti locali, centri di ricerca pubblici e
privati, fondazioni bancarie, società civile, ecc.). Le verifiche svolte in fase di attuazione hanno poi evidenziato la possibilità di significativi margini d’affinamento dei sistemi di monitoraggio e di valutazione degli
Accordi, e di coordinamento delle politiche settoriali.
4.2 Il DPEFR 2006-2008
Il DPEFR è per sua natura, oltre che per norma di legge, ancorato agli strumenti di programmazione nazionale. La coerenza tra le linee guida che indirizzano i fondi strutturali e gli obiettivi strategici contenuti nel
DPEFR si esplicita nell’analisi dei seguenti assi d’intervento:
1. Innovazione/Economia della conoscenza: la politica regionale per lo sviluppo del sistema produttivo individua l’innovazione come un fattore cruciale di competitività su cui concentrare risorse, umane e finanziarie.
In quest’ottica è non solo strumentale, ma altresì improrogabile, l’approvazione di una legge quadro sulla ricerca, che - coerentemente con l’applicazione dei criteri di sostenibilità e dei principi per la creazione di una
società fondata sulla conoscenza sanciti dall’Agenda di Lisbona - concentrando gli investimenti nei settori
strategici (sia quelli indicati dal VI Programma quadro che quelli tradizionali), incentivando il trasferimento
di conoscenze dagli atenei e dai centri di ricerca applicata ai sistemi produttivi locali e favorendo la cooperazione tra atenei piemontesi e altri atenei europei, garantisca al Piemonte le condizioni necessarie per riposizionarsi a livello internazionale e rilanciare la propria economia.
È parimenti necessario promuovere una politica industriale che, perseguendo gli orientamenti comunitari
previsti dall’Agenda di Goteborg, premi le aziende che orientano la produzione verso soluzioni compatibili e
sostenibili con l’ambiente.
2. Ambiente e Prevenzione dei rischi: i continui e frenetici cambiamenti nell’economia, nei sistemi produttivi e nei modelli sociali hanno generato un mutamento profondo, non solo negli stili di vita, ma anche nella
percezione dei bisogni, vecchi e nuovi, che questo vorticoso processo ha generato. In tale panorama, la prevenzione della salute, sia primaria sia secondaria, come contemplato nel piano sanitario, ha assunto un’importanza fondamentale, sia in termini di risorse strumentali impiegate, che di tecnologie utilizzate. Il sostegno e la promozione della prevenzione e di approcci comportamentali più equilibrati e sostenibili devono,
inoltre, integrarsi con politiche intersettoriali che sappiano incidere sulla qualità della vita e sulla salute dei
cittadini.
La prevenzione dei rischi riguarda una molteplicità di materie che hanno come più importante obiettivo la
salute delle persone e delle comunità piemontesi. Si rivelano ormai esigenze improrogabili la conservazione
del territorio e dell’ambiente, e l’uso più razionale di risorse considerate fino a oggi inesauribili (quali acqua, patrimonio dell’aria e del suolo). Il Piano d’assetto idrogeologico, così come le attività dell’Autorità
Ambientale e il Piano di tutela delle acque, sono alcuni degli strumenti adottati non solo per realizzare
un’attenta prevenzione, ma anche per costruire una governance in cui i cardini fondamentali siano il rispetto
dell’ambiente e delle sue risorse. Un settore molto delicato è quello dei trasporti, che interessa numerose e
diverse dimensioni: dall’assetto territoriale, al tema dell’innovazione, dall’aspetto economico-produttivo a
quello ambientale. La capacità di promuovere e realizzare una mobilità economicamente, socialmente e ambientalmente sostenibile rappresenta uno degli obiettivi strategici della politica regionale degli ultimi anni, e
costituisce d’altra parte una necessità impellente, visti i danni all’ambiente e alla salute delle persone che un
sistema di trasporti disordinato, come quello attuale, sta producendo. In tale contesto, sono quindi richiesti
interventi per il riequilibrio tra le diverse modalità di trasporto, per l’innovazione, ma anche per una nuova
pianificazione della mobilità urbana imperniata - in accordo con i bisogni espressi dalle comunità locali sulla sicurezza dello spazio stradale, l’elevata qualità ambientale, ed un’accentuata multifunzionalità.
3. Reti e accessibilità: le infrastrutture materiali e immateriali sono di fondamentale importanza per lo scambio, da un lato di merci, e dall’altro di conoscenze, di best practise, d’idee ed esperienze, per garantire al
Piemonte risorse utili al suo sviluppo. Per questo motivo è necessario sia il miglioramento ed il potenziamento delle reti stradali e ferroviarie, oltre che dei nodi d’interscambio modale, sia la diffusione sempre più
capillare dei servizi a banda larga sull’intera regione, in modo da offrire alle Pubbliche amministrazioni, alle
imprese, al mondo della ricerca ed ai privati le condizioni migliori per lavorare, formarsi e crescere. Il programma RUPAR 2 è lo strumento operativo impiegato per raggiungere tali obiettivi, e per permettere quindi
alla Regione Piemonte di colmare quel gap tecnologico che ancora penalizza alcune comunità.
4.3 Futura programmazione e quadro strategico regionale
Gli obiettivi della futura programmazione dei fondi che interessano la Regione Piemonte riguardano
(Regione Piemonte, 2005):
- Competitività regionale e occupazione. L’obiettivo mira a rafforzare la competitività e l’attrattività dei
territori regionali esclusi dalle zone più sviluppate (ad esempio, le aree che non siano comprese nei grandi
centri urbani), attraverso una concentrazione di politiche a favore di fattori d’interesse strategico generale
(quali l’innovazione e l’economia della conoscenza, l’ambiente e la prevenzione dei rischi, l’accessibilità ai
servizi di trasporto e telecomunicazione). Sul versante dell’occupazione, si intende intervenire sull’adattabilità dei lavoratori e delle imprese ai mutamenti economici e sociali, sull’accesso al mercato del lavoro, sull’inclusione dei ceti più svantaggiati, sulla creazione di partenariati e reti per favorire impiego ed integrazione.
- Cooperazione territoriale europea. La programmazione in questo caso punta al rafforzamento della cooperazione, sia a livello transfrontaliero, sia a livello transnazionale, mediante azioni congiunte di promozio-
ne dell’imprenditorialità, di gestione dell’ambiente e delle infrastrutture, di protezione e gestione delle risorse idriche, di accessibilità alle grandi reti, di prevenzione dei rischi, di sviluppo di attività congiunte di ricerca ed innovazione.
All’interno dell’ambito «competitività regionale e occupazione» si possono individuare come obiettivi
specifici:
1) per quanto riguarda la competitività:
a) il rafforzamento e l’integrazione del sistema innovativo regionale;
b) la promozione dell’internazionalizzazione;
c) la crescita dimensionale delle imprese e delle reti di imprese;
d) la promozione dell’innovazione finanziaria;
e) il sostegno all’innovazione ecologica e alla diffusione di tecnologie sostenibili;
f) la promozione dello sviluppo territoriale e locale.
2) per quanto riguarda l’occupazione:
a) la promozione di una maggior partecipazione al lavoro, in particolare per donne, giovani e persone mature;
b) la qualificazione del sistema della formazione a tutti i livelli, in direzioni coerenti con il modello
dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita;
c) la valorizzazione della popolazione in età matura, perché si mantenga attiva e possa cogliere nuove opportunità;
d) il sostegno alla mobilità del lavoro e delle carriere professionali, per prevenire disoccupazione e
precarietà.
3) All’interno dell’ambito «cooperazione territoriale europea» si possono individuare come obiettivi specifici:
a) il superamento della condizioni di perifericità;
b) la definizione di progetti comuni di gestione del territorio;
c) il pooling delle conoscenze innovative;
d) l’integrazione dei mercati del lavoro;
e) lo scambio di esperienze e di competenze;
f) la costruzione di reti di specializzazione economica;
g) lo sviluppo di reti cooperative, produttive e culturali;
h) creazione di un sistema integrato transfrontaliero.
Come priorità d’intervento, si possono identificare, in linea di massima :
1) per l’obiettivo “competitività” :
a) lo sviluppo dell’offerta, della domanda e delle infrastrutture di ICT;
b) il rafforzamento delle capacità regionali di ricerca, sviluppo e trasferimento tecnologico;
c) la promozione dell’imprenditorialità nei settori innovativi e a elevato contenuto di conoscenza;
d) il governo dell’internazionalizzazione attiva, l’attrazione di investimenti esteri e la promozione
della cooperazione internazionale allo sviluppo;
e) la promozione dell’efficacia energetica e lo sviluppo delle fonti alternative e rinnovabili;
f) la valorizzazione dei distretti, dei cluster, dei poli di specializzazione e delle filiere produttive;
g) la promozione dell’accessibilità, al di fuori dei grandi centri urbani, ai servizi di trasporto e telecomunicazioni;
h) la riabilitazione di spazi e terreni contaminati e la promozione dello sviluppo di infrastrutture
connesse alla biodiversità;
i) l’elaborazione di piani e misure volti a prevenire e gestire i rischi naturali e tecnologici, o la promozione di trasporti pubblici urbani puliti;
l) la realizzazione di infrastrutture di contesto per lo sviluppo territoriale (servizi ambientali, mobilità sostenibile, accessibilità alle reti, servizi energetici e idrici).
2) per l’obiettivo «occupazione» :
a) la promozione del sistema della formazione per gli adulti, allargando le opportunità per le iniziative individuali;
b) il contenimento dell’abbandono scolastico dei giovani e l’offerta di opportunità diversificate di
formazione e qualificazione;
c) l’aumento dei livelli degli apprendimenti fondamentali in tutte le filiere formative;
d) la promozione della formazione di eccellenza;
e) l’accettazione delle diversità nei posti di lavoro e la lotta alla discriminazione nell’accesso all’occupazione;
f) l’aumento della partecipazione e dell’occupazione delle donne;
g) l’inserimento lavorativo degli immigrati;
h) il rafforzamento delle capacità dei servizi per l’impiego di svolgere funzioni di attiva promozione
e mediazione tra domanda e offerta di lavoro, e di sviluppo e mantenimento dell’occupabilità;
g) il raccordo fra istituzioni dell’istruzione, della ricerca e centri tecnologici e delle imprese.
3) per l’obiettivo «cooperazione territoriale europea» :
a) l’integrazione delle infrastrutture di trasporto e di comunicazione;
b) la promozione dell’offerta turistica integrata;
c) la valorizzazione delle risorse naturali e forestali;
d) lo sviluppo di reti di piccola impresa e di artigianato;
e) la creazione di reti scientifiche e tecnologiche;
f) la prevenzione dei rischi.
4.4 Coerenza degli interventi dei fondi strutturali con le politiche e gli strumenti di programmazione regionale, nazionale e comunitaria.
Dal punto di vista della coerenza esterna, il DOCUP si inserisce in un quadro di programmazione più ampio, definito da:
- Programma regionale di sviluppo;
- POR Obiettivo 3;
- Piano di sviluppo rurale;
- Programmi d’iniziativa comunitaria (Leader +, INTERREG Italia-Svizzera e Italia-Francia).
Il rapporto di valutazione intermedia illustra le interrelazioni tra il DOCUP e gli altri strumenti della Programmazione regionale (Regione Piemonte, 2003). Il Programma regionale di sviluppo, nel suo complesso,
risulta coerente con le strategie di base individuate nel DOCUP. Le aree ammesse al cofinanziamento per il
DOCUP rappresentano però solo alcune aree del territorio regionale, e non tutta la regione come invece accade per il Programma di sviluppo. Si giustifica l’esigenza di concentrare le strategie di sviluppo su obiettivi
particolarmente mirati ed integrati, che nel caso del DOCUP sono individuati in riferimento al rilancio globale del sistema delle imprese piemontesi. Il maggior grado di compatibilità risulta per la misura 4 («Venaria
reale») del programma regionale, affine alla misura 2.5.a del DOCUP, anch’essa espressamente dedicata al
recupero del complesso della Venaria Reale.
Con il POR Obiettivo 3 si riscontrano notevoli punti di contatto in termini di sinergia tra azioni programmate. In particolare, a favore dello sviluppo di imprese innovative, della creazione di nuovi bacini d’impiego, e
delle politiche attive di lavoro (misura 4.1), si stabilisce una relazione con: il decollo dei nuovi servizi per
l’impiego, la promozione dell’inserimento nel mercato del lavoro, (prevenzione del DLD e reinserimento,
primo inserimento o primo reinserimento di gruppi svantaggiati), il rinforzo del sistema della formazione
professionale e permanente, la flessibilizzazione degli orari, il sostegno ai nuovi bacini d’impiego, il miglioramento delle competenze nei settori della ricerca e delle sviluppo tecnologico, la crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro.
La linea d’intervento 4.2 a del DOCUP è stata prevista come strettamente correlata alle misure D3, D4, E1
del POR Obiettivo 3. Al fine di stimolare la nascita e l’appoggio a nuove attività, è stata prevista una forma
di accompagnamento in fieri per le aziende richiedenti finanziamento per «servizi immateriali di sostegno
alla creazione d’impresa» sulle suddette linee del POR: i destinatari di tali azioni sono supportati nell’attività di creazione dell’unità imprenditoriale, e aiutati a pianificare un percorso di crescita. Gli stessi destinatari
sono poi accompagnati nella vera e propria fase di start up (e, in seguito, di espansione e consolidamento
dell’impresa stessa), e vengono automaticamente ammessi a finanziamento sulla linea «4.2 a» del DOCUP,
portando a termine il processo evolutivo avviato. Questa modalità d’intervento a favore della creazione
d’impresa deve essere letta in funzione della forte esigenza di aiuto al sistema produttivo regionale, che da
qualche anno si trova in fase di bassa crescita.
Nel Piano di Sviluppo Rurale, sono stati individuati 3 assi:
1. ammodernamento del sistema agricolo agroindustriale;
2. sostegno allo sviluppo dei territori rurali e forestali;
3. ambiente.
La specifica disciplina contenuta in questo documento non permette di definire raccordi particolari.
La Commissione Europea ha recentemente ribadito l’importanza di costruire un coordinamento in fase attuativa tra i suddetti programmi; se infatti, il DOCUP Ob. 2 cofinanzia interventi attingendo a un unico fondo (il FESR), si auspica che l’integrazione con gli altri programmi, e in particolare il PSR e il POR 3 (i quali
attingono rispettivamente al FEOGA e al FSE), produca una massimizzazione degli effetti delle azioni di sviluppo che insistono sul medesimo territorio.
Le principali raccomandazioni operative sono rivolte alle varie Autorità di gestione di questi programmi,
e riguardano un’intensificazione delle modalità di attuazione coordinate ed in funzionalità reciproca. Sarebbe opportuno valorizzare tutti i possibili raccordi con i programmi, cofinanziati dagli altri fondi strutturali,
che insistono su aree contigue, prevedendo un collegamento già in fase di selezione progettuale, con la scelta
di criteri che permettano di concentrare le sinergie.
Infine, tra i Programmi d’iniziativa Comunitaria, individuati per il periodo 2000-2006 che specificatamente
interessano alcune aree piemontesi:
- Leader +;
- INTERREG Italia-Francia;
- INTERREG Italia-Svizzera;
Il Piemonte è inoltre stato inserito all’interno del programma di INTERREG III B MEDOCC «Spazio Alpino» dedicato alla cooperazione transnazionale.
In relazione al periodo di programmazione 2000-2006, e in rapporto ai contenuti del programma, è possibile
intravedere, inoltre, una serie di corrispondenze con alcuni strumenti tipici della programmazione negoziata
attivati nell’ambito della regione. Si evidenziano i legami tra gli obiettivi degli interventi previsti in tutti gli
assi, e in particolare l’asse 3 dedicato allo sviluppo locale e alla valorizzazione del territorio, e gli strumenti
tipici della programmazione negoziata (Intese istituzionali di programma, Accordi di Programma Quadro,
Patti territoriali) che interessano in questa fase la realtà piemontese:
Intesa istituzione di Programma della Regione Piemonte, a cui seguono
- A.P.Q. «Collegamento e depurazione acque reflue urbane»
- A.P.Q. «Beni e attività culturali»
- A.P.Q. «Valorizzazione turistica delle risorse e delle località termali»
I principali Patti territoriali
- Patto territoriale della Langa Bormida;
- Patto territoriale del Canavese;
- Patto territoriale Cuneo;
- Patto territoriale Alessandria
Nel DOCUP Ob 2, 2000-2006, lo strumento della programmazione e progettazione integrata viene richiamato come tipologia ideale per realizzare lo sviluppo a livello territoriale locale.
Ciò emerge espressamente dall’analisi dell’asse 3 del DOCUP, ed accade con particolare riferimento all’attuazione di interventi previsti da Accordi di programma Quadro attivati recentemente nella Regione Piemonte, a seguito della stipula dell’Intesa istituzionale di programma.
Si riportano di seguito i tre A.P.Q. legati direttamente all’implementazione del DOCUP:
- A.P.Q. del 4 dicembre 2000 «Collegamento e depurazione acque reflue urbane», complementare rispetto
alla misura 3.2 del DOCUP «Interventi di Riqualificazione locale effettuati da soggetti pubblici»;
- A.P.Q. «Beni e attività culturali», complementare rispetto alla linea d’intervento 2.5 a del DOCUP «Sistema delle residenze sabaude», e in particolare rispetto all’intervento di riqualificazione della reggia di Venaria Reale;
- A.P.Q. «Valorizzazione turistica delle risorse e delle località termali», coincidente rispetto alle azioni previste dalla linea 2.5 b del DOCUP «Sviluppo del sistema di prodotti turistici territoriali e termali».
Tra i Patti territoriali, solo il territorio del Cuneese è classificato come Obiettivo 2 per il 2000/2006: e solo
in questo caso, pertanto, possono verificarsi interrelazioni con gli interventi previsti dal DOCUP.
4.5 Le scelte programmatiche per la nuova legislatura regionale.
Il programma per la nuova legislatura regionale, presentato dal Presidente il 16 maggio 2005 al Consiglio
Regionale, si basa sull’adozione dei principi di Lisbona e Goteborg, insiste sulla fisionomia policentrica del
Piemonte, e sulla conseguente necessità di valorizzare le differenti identità e vocazioni dei territori, anche
con riferimento alle loro capacità di relazionarsi con le regioni limitrofe italiane ed europee, e si propone di
rafforzare la capacità istituzionale dell’ente in direzione di un sistema di governance regionale, orientato
alla soluzione dei problemi e all’ottenimento dei risultati.
Per il raggiungimento degli obiettivi sanciti nelle conferenze di Lisbona e di Goteborg si prevedono:
1) politiche integrate sulla ricerca e l’innovazione: trasferimento di conoscenze da università a imprese e
enti locali, al fine di mettere a frutto le competenze del mondo scientifico e culturale per la valorizzazione
dei territori; 2) politiche di coesione sociale: integrazione tra i problemi della sicurezza, dell’accoglienza,
della formazione, del lavoro e dell’occupazione, dell’assistenza, del benessere e della salute, per combattere
l’esclusione sociale; 3) politiche di difesa dell’ambiente e del territorio: promozione delle identità storiche,
del paesaggio, della cultura, dei servizi e dell’accessibilità, e sviluppo organico delle aree naturali.
Il governo regionale intende poi integrare le differenti politiche, in modo da coniugare competitività e coesione sociale, in funzione delle differenti vocazioni e dello specifico contesto socio-economico, ambientale e
culturale dei sistemi territoriali sub-regionali.
La politica d’innovazione istituzionale è finalizzata ad un ulteriore sviluppo della possibilità di cooperare a
livello orizzontale e verticale tra le diverse pubbliche amministrazioni, e della conseguente capacità di misurare, valutare e apprendere i risultati delle azioni programmatiche.
A tal fine potranno essere utilizzati i metodi già sperimentati e promossi dai programmi comunitari (in particolare Urban e Leader), che prevedono un approccio integrato allo sviluppo delle aree urbane e rurali, basato sulla progettualità che scaturisce dagli attori locali, chiamati a partecipare alla formazione e all’attuazione
dei programmi stessi anche con propri investimenti (pubblici e privati).
4.6 Documento strategico preliminare regionale 2007-2013. Scenari
Il settore economico e produttivo piemontese, come si è visto, negli ultimi tre anni ha registrato una sostanziale stagnazione, lanciando tuttavia una serie di segnali positivi, colti dagli orientamenti generali del Documento strategico preliminare regionale 2007-2013 (d’ora in avanti Dspr): la progressiva conversione del
settore della trasformazione industriale in terziario qualificato (servizi alle imprese); il bilancio positivo del
settore delle costruzioni, che assicura una buona tenuta occupazionale anche in congiunture non favorevoli;
la crescita del livello di istruzione e del tasso di femminilizzazione della forza lavoro.
Se la filiera automobilistica, che insieme al tessile ha scontato la crisi più forte, inizia a raccogliere risultati
positivi per quanto riguarda la diversificazione internazionale dei suoi sbocchi commerciali, si sta anche rafforzando la dotazione regionale di infrastrutture informatiche e di telecomunicazione, con il radicamento di
progetti in settori ad alta intensità innovativa, come l’aeronautica, l’avionica, le biotecnologie, le tecnologie
energetiche ambientali, i sistemi e le tecnologie di trasporto, i servizi multimediali e di informazione.
Il settore agricolo, inoltre, è protagonista di fenomeni di valorizzazione dei prodotti tipici e di evoluzione
nell’ambito del terziario (economia del gusto, turismo, attività didattiche), in particolare nei contesti territoriali più ricchi di risorse culturali e ambientali, o nei pressi dell’area metropolitana torinese.
A fronte di tali tendenze economiche, l’obiettivo che la Regione Piemonte si è posta per il prossimo settennio è l’applicazione di una strategia di riposizionamento competitivo e di rafforzamento dei processi di
coesione. Gli ambiti di intervento di tale strategia sono individuabili nello spazio economico europeo (il Piemonte si trova all’incrocio tra i grandi assi Rotterdam-Genova e Lisbona-Kiev), e nella nuova organizzazione sistemica del territorio regionale (ormai spiccatamente policentrico), con le sue importanti relazioni di
prossimità nell’ambito della macroregione alpina, e con la gravitazione di diverse aree su poli extraregionali
(come le zone del Piemonte orientale, che orbitano sul polo milanese, o altri centri urbani di regioni contigue, con relazioni casa-lavoro o casa-servizi). In questo caso, il Dspr esprime la volontà di realizzare reti interregionali di alleanza, e di perseguire specifici progetti infrastrutturali, non sempre coincidenti con gli indirizzi del resto della regione. Inoltre, nuovo impulso è previsto per le attuali dimensioni dello sviluppo locale:
da una struttura produttiva tradizionalmente distrettuale, come detto, il sistema produttivo si sta indirizzando
verso le emergenti e più promettenti potenzialità offerte dalle moderne economie di rete.
Il riposizionamento competitivo passa anche attraverso la riorganizzazione dell’armatura urbana regionale,
nella quale un nuovo ruolo di rilievo è assunto dai sistemi di città, costituitisi all’interno di diversi aggregati
territoriali, destinati ad aprirsi al nuovo scenario competitivo (dal sistema metropolitano torinese, al reticolo
di centri urbani di media dimensione). Molte città hanno riacquistato spazi di iniziativa, elaborato piani strategici urbani, o guidato patti d’area, assumendo crescenti responsabilità progettuali, che vanno ben oltre il
tradizionale raggio di azione amministrativo, e che richiedono un coordinamento dinamico da parte dei diversi livelli locali.
Il processo di transizione attraversato dal Piemonte metterà alla prova la regione sotto diversi punti di vista,
dando modo così di verificare la sua capacità di risposta innovativa nei confronti di più vaste questioni d’interesse nazionale: la crescente pressione competitiva internazionale; la gestione del calo demografico e del
progressivo invecchiamento della popolazione; la ridefinizione della posizione strategica del Piemonte, tramite la valorizzazione dei collegamenti con i grandi assi di comunicazione (corridoio 5) e la pianificazione
di uno sviluppo policentrico che riguardi l’intera regione padana; il decentramento politico e istituzionale,
da affiancare ad una maggiore professionalità nella programmazione snella dei servizi e nella progettualità
spontanea dei territori.
Raccogliendo l’eredità del DPEFR 2006-2008, in particolare per quanto attiene l’impulso all’internazionalizzazione delle imprese, gli scenari economico-produttivi costruiti dalla Regione Piemonte nel suo Dspr,
sono principalmente tre, calibrati sul medio-lungo termine.
Il primo scenario, chiamato di deriva inerziale, disegna un sostanziale mantenimento degli equilibri del passato, con la difesa delle specializzazioni tradizionali. Il secondo, detto di riposizionamento internazionale
delle competenze, rafforza invece le tendenze positive della regione: l’innovazione, la diversificazione produttiva, il rapporto virtuoso tra industria e servizi. In tale scenario, il riferimento è alle imprese di dimensione adeguata per poter gestire processi innovativi complessi e multidimensionali, e coordinare cicli produttivi, anziché puntare sulla sola attività manifatturiera.
Il terzo, infine, è lo scenario delle maturità creative, che punta sulla valorizzazione delle risorse umane e di
un modello sociale attento alle esigenze vitali degli individui, incentivando un’economia basata sui servizi
alla persona, sulla cultura, sul turismo e sul tempo libero. Attuare politiche di questo genere comporta spostare il traguardo dello sviluppo dai mercati internazionali verso la domanda interna di valori, (quali gusto,
esperienze, personalizzazione, assistenza post-vendita), e orientare le società locali verso forme di organizzazione più integrate e coese.
Il Dspr valuta come possibili, sebbene con probabilità diverse (senza però specificare in quale misura), tutti
e tre gli scenari. E sottolinea come, in ogni caso, siano fondamentali due fattori: da un lato, il sistema delle
imprese e le filiere della conoscenza, dall’altro lato una società «matura, creativa e sostenibile», per uno sviluppo equilibrato e strategico dal punto di vista socio-demografico, economico e ambientale.
Occorre tuttavia tenere in conto la natura del territorio che ospiterebbe tali configurazioni, e i vincoli che il
tradizionale modello di crescita estensivo porrebbe nei confronti degli scenari prefigurati.
Il Piemonte condivide e accentua la tendenza europea alla debole crescita demografica: l’offerta di lavoro è
esigua, o perlomeno insufficiente ad alimentare la domanda di un’economia in forte crescita quantitativa.
Per quanto riguarda i tipi di produzione, il Dspr formula tre ipotetici orizzonti di sviluppo per gli anni futuri,
fornendo una descrizione a linee generali dei loro possibili effetti: sono il processo evolutivo a tradizione industriale, quello di transizione neo-industriale e quello post-industriale.
Il primo conferma sostanzialmente i settori tradizionali dello sviluppo piemontese, e quindi il mantenimento
della sua solida base manifatturiera. I segnali positivi registrati dall’andamento dei servizi e dalla bilancia
tecnologica dei pagamenti suggeriscono la validità di questo possibile orizzonte, considerando anche il fatto
che si tratta dell’ipotesi più realisticamente declinabile.
La transizione neo-industriale prefigura invece l’affermazione e l’ulteriore espansione di attività diverse che
negli ultimi anni hanno dato segnali positivi per l’economia piemontese: produzioni di qualità (come ad
esempio l’agroalimentare), di specializzazione tecnologica (la meccanica strumentale, tra le più esportate in
Piemonte), e ad alto contenuto di conoscenza (le tecnologie informatiche e di comunicazione, ICT), le biotecnologie, i materiali avanzati, le tecnologie energetiche e ambientali, l’avionica e l’aerospaziale. Si tratta
di specializzazioni in grado di competere sul mercato internazionale, se opportunamente sostenute da precise
politiche di internazionalizzazione commerciale e produttiva.
L’ultimo possibile processo di sviluppo è rivolto ad un orizzonte post-industriale, che raccoglie i risultati
delle attività terziarie sempre più diffuse sul territorio, promuovendole a scala interregionale e nazionale.
Tra queste, la regione pone particolare attenzione allo sviluppo dei servizi innovativi per le imprese, che
stanno generando un nuovo importante aggregato, e a quello delle filiere della sanità, dei servizi socio-assistenziali, dell’istruzione, dei servizi culturali, dell’informazione e della multimedialità, dei servizi pubblici
locali.
Sebbene molto differenti fra loro, i tre possibili orizzonti evolutivi mettono in luce la netta tendenza verso
un processo di sviluppo regionale non più trainato da settori dominanti, ma dall’articolazione di attività diverse ben radicate nel territorio. In particolare, il Dspr individua proprio nella terziarizzazione la «naturale»
evoluzione dell’esperienza manifatturiera, da cui origina la diversificazione nei servizi alle imprese (utili per
accompagnare la trasformazione delle specializzazioni tradizionali) e nel terziario basato sulla domanda di
servizi alla persona.
La volontà di inserire la regione nello spazio e nelle reti transeuropee, e l’integrazione sistemica del territorio regionale e macroregionale, devono tenere conto dei mutamenti nella configurazione e nella collocazione
delle attività sul territorio. Si stanno infatti affermando nuove organizzazioni produttive: il gruppo di imprese, soluzione che affronta il problema dimensionale in una logica di realtà fra loro relazionate dal punto di
vista finanziario; la filiera, che accomuna aziende appartenenti allo stesso sistema produttivo, ed è rivolta al
rinforzo delle loro interscambiabili capacità tecnologiche, economiche e sociali; il cluster, che accomuna
imprese diverse sulla base dei legami di cooperazione fra enti locali, autonomie funzionali, rappresentanze
imprenditoriali e sindacali.
Alla luce delle configurazioni territoriali dell’economia e della produzione piemontese, e del diffuso consenso nei confronti degli assi strategici di intervento (innovazione, internazionalizzazione, crescita dimensionale delle imprese, qualificazione della popolazione e del lavoro), il Dspr prevede che le politiche regionali
debbano focalizzare l’attenzione su almeno cinque grandi temi.
Primo fra tutti, la necessità di proseguire nella realizzazione delle grandi infrastrutture (in particolare l’Alta
capacità/Alta velocità sulla linea Lione-Torino-Milano), per evitare il rischio di un aggiramento del territorio nord-occidentale italiano a vantaggio di altre linee di collegamento transeuropeo. Garantendo, quindi, attraverso le nuove funzioni logistiche e le opportunità di interscambio e di sviluppo industriale e terziario che
ne deriverebbero, l’accessibilità del territorio piemontese rispetto ai due grandi corridoi dello sviluppo europeo. L’obiettivo della realizzazione dell’Alta capacità Torino-Lione ha sollevato non poche opposizioni da
parte dei comuni della Val di Susa interessati dall’intervento, e ciò ha comportato un rallentamento delle
procedure di analisi e costruzione della linea previste dal programma europeo. Come ha osservato Luigi
Bobbio, la questione della linea ad Alta velocità è rappresentativa della necessità di un efficiente sistema di
governance multilivello, che - nel caso valsusino - tuttavia non ha funzionato. Se infatti l’intervento apporta
a scala europea e regionale diversi vantaggi (rapidità di connessione, rafforzamento della competitività delle
aree interessate), la comunità locale subisce la maggior parte degli effetti negati vi che ne derivano dalla realizzazione e dall’utilizzo . «I promotori, politici, industriali e ferroviari dell’opera», afferma Bobbio, «hanno
coltivato per troppo tempo l’illusione che alla fine il “locale” si sarebbe piegato di fronte alle ben più importanti esigenze “euro-nazionali”» (Bobbio, 2005) .
Altro tema importante per il Dspr è l’integrazione a sistema della macroregione alpina, che può rafforzarsi
grazie alla valorizzazione del bacino di popolazione a elevato reddito presente sui due versanti della catena
montana (un potenziale, sottolinea il documento, che non ha eguali in Europa in termini di ricchezza, così
come di estensione geografica), o mediante l’investimento nella specializzazione tecnologica e produttiva lì
presente (l’area è infatti indicata come la sola, a livello di competizione globale, in grado di confrontarsi con
il core nordeuropeo).
Si rivela altresì strategica, in seguito, l’integrazione dei sistemi subregionali, che può attingere al patrimonio
di identità produttive, tecnologiche e culturali dei territori, e beneficiare dell’avvio di programmi di cooperazione tra le diverse comunità locali e tra regioni limitrofe: un tema particolarmente importante, alla luce dell’esigenza di elaborare politiche di gestione degli impatti delle grandi reti infrastrutturali, la cui ricaduta,
come è noto, travalica i confini delle diverse regioni, e che - tuttavia - non è governata da attori istituzionali
adeguati. In questo caso il Dspr suggerisce il ricorso a possibili governance interregionali, richiamando ad
esempio il caso di quella transpadana.
Esprimere simili progettualità significa superare un’organizzazione secondo distretti industriali, che appare
ormai rigida rispetto ai bisogni e alle tendenze registrate. La valorizzazione delle potenzialità locali dovrà,
secondo la Regione, focalizzare progetti e obiettivi secondo un approccio strategico, ed individuare attori locali disposti ad assumersi i rischi e le opportunità dell’eventuale upgrading competitivo conseguito.
Il processo di rafforzamento e inserimento delle risorse all’interno della rete sovraregionale prevede una prima fase di «apprendimento cooperativo» da parte delle politiche locali, che dovranno poi provvedere alla costruzione e allo sviluppo di cluster competitivi, in grado di sfruttare i vantaggi delle specifiche aree beneficiando delle virtuose relazioni operative sovralocali.
A scala urbana invece, a fronte dei risultati ottenuti con le politiche di risanamento e recupero residenziale
sperimentate con i programmi Urban, si registra la necessità di dar vita a un sistema cittadino regionale nel
quale i fattori dell’innovazione siano uniformemente fruibili, seppure nel rispetto delle identità e delle specializzazioni funzionali dei diversi luoghi. Le strategie urbane devono quindi orientarsi verso il decentramento delle funzioni superiori (Università e ricerca, sanità, cultura e accessibilità), e allo stesso tempo favorire lo sviluppo delle città con specializzazioni complesse e internamente coerenti, secondo strumenti autonomi (piani strategici, patti territoriali), ma orientati da Province e Governo regionale.
Sullo sfondo delle politiche produttive e territoriali prefigurate dal Dpsr permane l’attenzione verso le questioni inerenti la sostenibilità ambientale: in particolare è indicata l’opportunità di valorizzare le rilevanti risorse naturali disponibili nella regione, prevenendo il rischio di degrado e di consumo del suolo spesso legato all’abbandono delle aree socialmente ed economicamente marginali. L’enfasi è posta sulla rivitalizzazione dei territori rurali, da perseguire anche tramite il loro presidio (terre alte) e la diffusione e condivisione
di nuove regole di cittadinanza e partecipazione sociale ai progetti. In tale logica è formulata la proposta dei
Progetti integrati territoriali, che includono e armonizzano strategie ed interventi riferiti al complesso delle
attività locali (agricoltura, artigianato, manutenzione del territorio, ecc.).
Veneto, imperativi economici e domande di sostenibilità
di Francesca Gelli
1. Lineamenti e crisi di un modello di sviluppo
Negli anni in cui si elabora e si implementa il DocUP (Documento Unico di Programmazione Obiettivo 2)
2000-200678, la Regione Veneto vive una fase di transizione e di turbolenza. Logiche e pratiche di sviluppo
economico, ampiamente socializzate e stratificate, che nella seconda metà del Novecento avevano fatto la
fortuna del NordEst, vengono duramente messe alla prova e contestate dall’evidenza degli effetti perversi
della crescita. Va in crisi un modello di sviluppo con tutto il suo apparato di rappresentazioni e immaginisimbolo.
Le analisi empiriche territoriali hanno evidenziato come questo modello, più che fondato su un unico carattere predominante, sia il risultato della commistione di una serie di elementi – discorsi politici, codici di
condotta e sistemi di valore, di comunicazione, ma anche luoghi fisici reali, spazi e tempi di produzione e di
organizzazione del lavoro – che nella cornice del “modello di sviluppo Veneto” entrano in risonanza gli uni
con gli altri, costituendo forme di regolazione e di giustificazione dei processi di trasformazione e di mutamento territoriale. Si tratta di una costruzione sociale complessa, in cui le istituzioni di governo, in particolare locale e regionale, hanno comunque giocato un ruolo rilevante attraverso la messa a punto di quadri normativi, azioni di sostegno e interventi diretti.
Citiamo solo alcuni dei caratteri che hanno connotato i processi di crescita rappresentati nel modello di sviluppo in questione.
Il successo della piccola media impresa radicata nel territorio, che si organizza nel “capannone”, struttura
permanente e diffusa capillarmente nel territorio, è stato connesso alla gestione familiare d’impresa, e ai ritmi di lavoro massacranti che ne hanno garantito la produttività. Fenomeno ampiamente studiato,“lo sviluppo
della pmi veneta (…) ha visto, nel modello residenziale e produttivo disperso il successo del modello economico” (Fregolent, 2005,15). Un reticolo di piccoli comuni forma un continuum di urbanizzazione e un territorio esteso di circolazione:“una mobilità intensa, non sistematica, favorita da un tasso di motorizzazione
privata di poco superiore a 2,3 veicoli per famiglia (…) la popolazione si muove all’interno di quest’area e
fruisce di questi spazi come se fosse una vera e grande città, disegnando di conseguenza gerarchie territoriali” (Fregolent, 2005,17) Una maglia stradale intricata si è progressivamente delineata, a servire gli insediamenti sparsi del tessuto produttivo locale, i luoghi per il divertimento, lo svago, contenitori e strutture multi
funzione (multisala, outlet, ipermercati, grandi magazzini, sale giochi, attrezzature sportive). La “strada-mercato”, in particolare, ha costituito assi di grande comunicazione, che hanno finito con l’inglobare le realtà di
molti piccoli centri urbani. “Strade-mercato” hanno percorso le campagne e alimentato rapidi processi di
edificazione, offrendo vantaggi di visibilità e accessibilità, ai fini della localizzazione strategica di servizi, di
funzioni produttive e commerciali. Questo processo di urbanizzazione si completa in genere con un tessuto
minuto di diramazioni. È la tela di strade secondarie, che conducono a lotti di case unifamiliari e bifamiliari,
provviste di giardinetti (tra le tipologie residenziali più ricercate, che corrispondono ad aspirazioni abitative
socialmente diffuse), o a quartieri con tipologie edilizie che raramente si differenziano dalla palazzina e dall’edificio condominiale; distese coltivate interrompono lo schema o si inseriscono tra un agglomerato e un
altro, per brevi tratti. La ripetizione dei caratteri insediativi e degli elementi che compongono le infrastrutture dell’urbano e del rurale segna il paesaggio.
La formazione nel tempo di distretti produttivi non ha escluso il sostegno a strategie di delocalizzazione ove
conveniente. Un esempio è la rapida espansione delle energie imprenditoriali venete (aziende di produzione
ma anche soggetti di intermediazione immobiliare, finanziaria) a Timisoara e più estesamente nella regione
78
Il DocUP è, nelle Regioni Obiettivo 2 (Regioni Italiane del Centro-Nord), lo strumento di programmazione dei Fondi
Strutturali che contiene le strategie di investimento istituzionale, concordate con le parti economiche e sociali, le misure
e le azioni previste per ambiti di politica pubblica, gli eventuali progetti integrati, le modalità di attuazione, di monitoraggio, la ripartizione finanziaria. Una volta formulato viene approvato dalla Commissione Europea con specifica decisione. Viene successivamente integrato dal Complemento di Programmazione, la cui approvazione spetta alla Regione,
che entra nel dettaglio delle misure e delle modalità di attuazione.
di Timis in Romania, negli anni successivi all’esplosione, in Italia, delle inchieste giudiziarie di “tangentopoli”.
Gradatamente la “città diffusa”79 diventa in Veneto una sorta di infrastruttura mentale e un terreno di esperienza collettiva. Alcuni studiosi si sono avvalsi della “città diffusa” come operatore descrittivo che mette in
luce processi di territorializzazione specifici. Il dibattito sul Veneto appare diviso, rispetto all’interpretazione dei fattori caratterizzanti lo sviluppo territoriale, tra le posizioni dei “teorici della densità” e dei “teorici
della dispersione”. Tanto le figure della densità, quanto quelle della dispersione vengono diversamente e
strategicamente utilizzate come strumenti concettuali, per sollevare problemi da trattare in sede di programmazione, e come strumenti di classificazione e di misurazione degli effetti della crescita, a supporto delle
tesi che si vogliono avanzare. Improbabile, in altri termini, trovare elementi “obiettivi” nel dibattito; la “città
diffusa” è una categoria analitica e un costrutto interpretativo che produce rappresentazioni influenti di una
realtà territoriale, complessa e sfaccettata.
Da un lato, per esempio, vengono messi in evidenza la moltiplicazione e l’irradiamento dell’urbano – come
insieme di caratteri insediativi, pratiche d’uso, affermazione di valori, stili di vita – e gli effetti correlati di
territorializzazione delle campagne e di densificazione degli ambienti della ruralità. La dizione di “area
agropolitana” viene coniata e introdotta nel dibattito sviluppatosi intorno alla elaborazione del nuovo Piano
Territoriale Regionale di Coordinamento (2004) al fine di indicare, nel territorio veneto, la perdita di distinzione tra città e campagna “dal punto di vista dei servizi, della mentalità, del costume, dell’organizzazione
produttiva”. Dall’altro, la dispersione viene osservata come conseguenza più complessiva, che incide sulla
qualità dell’organizzazione sociale e territoriale. Vengono sottolineati i risvolti negativi della crescita diffusa ed in particolare l’eccessiva frammentazione degli interessi, la polverizzazione delle attività nel territorio,
favorite dall’affermarsi di componenti individualistiche in assenza di programmi-quadro che indirizzino i
progetti di sviluppo. La “città dispersa” viene contrapposta al policentrismo, che era stato lo schema della
crescita urbana per decenni ipotizzato: l’esistenza di un sistema di realtà territoriali differenziate e interagenti.
Più difficile spiegare quali siano stati i fattori di innesco della città diffusa come modello di organizzazione
territoriale e di crescita. Si riconoscono elementi di identità locale che si sono in parte costruiti in parte alimentati entro questi processi di sviluppo, radicando idee di sviluppo e forme di economia che, interiorizzate,
più o meno consapevolmente si sono riprodotte nelle abitudini e negli schemi mentali della gente, degli imprenditori. Un punto di forza è stato senz’altro la valorizzazione, a più livelli, delle risorse di autoorganizzazione sociale.
Fenomeno di non minore rilevanza, un grande sommerso (dell’occupazione, della fiscalità, degli scambi) si
è incrementalmente interrelato a molti dei settori economici e di produzione, in un clima di generale, implicito consenso sociale e politico. Le dimensioni del fenomeno infatti non si spiegherebbero se, allo “sviluppo
urbano disperso” del Veneto non avesse concorso anche la politica: “una classe dirigente disattenta alle conseguenze che tali dinamiche insediative disperse avrebbero avuto, nel lungo periodo, su territorio e ambiente, ma attenta ad una ‘conservazione’ del consenso che la dispersione garantiva; attraverso un uso “debole”
o debolmente regolativo della pianificazione, che spesso è stata usata come strumento che ha assecondato le
spinte provenienti dal territorio – e non necessariamente dai poteri economici più forti” (Fregolent, 2005).
Secondo questa tesi la diffusione insediativa appare come una singolare declinazione del policentrismo, che
in parte è stata alimentata e sostenuta dalle politiche di sviluppo d’iniziativa regionale, finalizzate a dotare
capillarmente il territorio di servizi alle persone, alle famiglie e alle imprese (scuole, ospedali, case etc.),
nella prospettiva del miglioramento del benessere sociale e, in particolare, della qualità di vita nei centri minori; in parte è stata la conseguenza delle spinte alla speculazione edilizia e all’urbanizzazione diffusa provenienti dal territorio stesso. In altri termini le Amministrazioni Regionale e Comunali, per mantenere saldo
il consenso politico e sociale, hanno dovuto dare delle risposte concrete ai bisogni degli operatori economici
e soddisfare le domande di investimento immobiliare della società locale, trovando la soluzione di incanalarle in percorsi di programmazione dello sviluppo, attraverso provvedimenti di tipo normativo-finanziario.80
79
Fregolent identifica come “città diffusa” un’area compresa tra Padova, Treviso e Venezia (capoluoghi di Provincia) e
il Comune di Castelfranco Veneto: poco più di 1.600km e una popolazione residente, al 2001, di poco superiore ad un
milione di unità.
80
Fregolent ha ricostruito i principali provvedimenti normativi e gli atti di indirizzo programmatico messi a punto dalla
Regione Veneto a partire dagli anni ’60 fino ai giorni nostri, mostrando come questi nel tempo profilino obiettivi di sviluppo specifici, orientati esplicitamente ad un modello territoriale ed economico di crescita di tipo “diffuso”. I Piani di
Nei documenti di programmazione regionale compaiono forme di incentivazione alla cooperazione tra settori, tra produttori sul presupposto di vantaggi economici collettivi. Il territorio regionale, inoltre, viene suddiviso in sub-aree omogenee sulla base del grado e tipo di sviluppo; si distinguono “zone svantaggiate”, che
non beneficiano dei processi di crescita diffusa, e si orienta la localizzazione delle attività produttive in
zone a bassa densità di popolazione.
Ciò detto, le rappresentazioni della città diffusa hanno rischiosamente messo in circolo un’immagine tendenzialmente omologante del Veneto, tutta schiacciata su una monocultura prevalente dello sviluppo economico, che ha contribuito alla produzione di stereotipi del Veneto come realtà tendenzialmente omogenea e coesa, misconoscendo il potenziale di differenziazione degli usi del territorio e dell’organizzazione sociale che
parallelamente dava luogo a visioni alternative dello sviluppo. L’affermazione di diversi valori, idee anche
in controtendenza ha indotto mutamenti degli stili di vita, dei consumi, trasformazioni dei luoghi e del paesaggio, degli spazi pubblici e domestici.
2. Compresenza di vecchie e nuove rappresentazioni del territorio nelle strategie di programmazione
regionale.
Nel corso degli anni ’90 sono emersi diversi fattori di criticità e di cambiamento strutturale che preannunciavano la crisi del modello di sviluppo che aveva realizzato “il miracolo Veneto”: a cominciare dalla progressiva perdita di competitività del sistema, sempre più inadeguato tanto a fronteggiare le urgenze ambientali, i
flussi della globalizzazione81, tanto a rispondere alle nuove domande sociali e a ottemperare alle nuove disposizioni di regolamentazione delle attività produttive.
In primo luogo, i principali fattori dell’economia locale sono progressivamente andati in crisi. L’infrastrutturazione del territorio appare inadeguata (le arterie di circolazione intasate, insicure e inefficienti, con tempi
di percorrenza assolutamente anti-economici; la logistica carente; l’impiego insufficiente delle reti tecnologiche, l’ammodernamento dei sistemi di informazione e comunicazione che va a rilento; ecc.) e i costi ambientali sono diventati insostenibili (con la conseguenza di un depauperamento delle risorse naturali e del
patrimonio ambientale, del degrado dei paesaggi, dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua, ecc.). Le risorse
umane sono cresciute diversamente dalla domanda di mercato interno (da un lato i grossi problemi di ricambio generazionale in settori dell’agricoltura e dell’artigianato; dall’altro fenomeni di disoccupazione femminile o sottoccupazione dei giovani con elevato livello di istruzione, soprattutto in alcune aree e, al contempo,
la scarsa reperibilità di alcune competenze e le difficoltà di valorizzare il know-how locale); le piccole imprese, i piccoli comuni si trovano, per i costi crescenti, a rischio di sopravvivenza. Parallelamente, è aumentata la percezione diffusa di un abbassamento della qualità della vita, pur nel conseguimento di un innalzamento dei valori medi di reddito. Emergono infatti sia le nuove povertà, sia una classe media che, raggiunto
il benessere materiale, si guarda intorno con diversa consapevolezza e si rende conto di essere incastrata in
una sorta di circolo vizioso, che il modello di sviluppo stesso ha prodotto: pochi spazi per il tempo libero, la
socialità, il godimento delle bellezze naturali; i centri urbani a rischio di concentrazione di fenomeni di criminalità; una popolazione immigrata che invade i luoghi centrali quanto le periferie e sottrae spazi di fruizione e d’identità agli abitanti del posto; una diffusa incertezza del futuro; processi produttivi che hanno eroso capitale sociale e ambientale, dequalificando in molti casi il territorio e alimentando insicurezze.
Sviluppo economico regionale del ’66, del ’78 e dell’88, affermarono la struttura policentrica e la diffusione insediativa
come modello e via allo sviluppo, investendo nell’infrastrutturazione del territorio, che veniva suddiviso in sub-aree
omogenee, con accentuazione delle distinzioni tra “zone svantaggiate” e non. Numerose Leggi Regionali si susseguirono
a regolare le modalità di erogazione di contributi regionali alle imprese artigiane, sostenendo l’avvio di attività produttive, la costituzione di consorzi tra imprese (finalizzati alla costruzione, ampliamento, ammodernamento e acquisto di immobili, aree o dei macchinari necessari), l’ampliamento di fabbricati adibiti ad attività di produzione artigianale e industriale e ad attività commerciali.(interventi ricadenti anche in aree non destinate dagli strumenti urbanistici ad insediamenti produttivi o commerciali), finanziamenti agevolati alle imprese per l’acquisto di terreni destinati ad insediamenti
produttivi, facilitando l’edificabilità delle zone agricole anche per soggetti non appartenenti al settore agricolo
81
Per una parte di imprenditori ed operatori economici, una soluzione appare per un periodo la delocalizzazione di segmenti di produzione e il trasferimento di attività in territori altri, che consentono costi più bassi e una fiscalità libera, minori restrizioni in campo ambientale, evasione dei controlli. È il caso, ad esempio, della Romania e in particolare della
crescita di Timisoara, che vede particolarmente attivo il sistema economico e produttivo Veneto, con un forte e poco
chiaro giro di affari negli anni del dopo-tangentopoli. Per i piccoli comuni una soluzione è tentare la strada della gestione congiunta dei servizi e delle unioni dei comuni, che le nuovi leggi e finanziamenti nazionali promuovono.
In secondo luogo, si attribuiscono responsabilità alla politica e si valutano le capacità di guida, di programmazione, di integrazione dei governi locali e regionale. Si guarda con rinnovato interesse alle politiche pubbliche, a quelle nazionali ed europee per lo sviluppo locale ma molto a quelle regionali, provinciali, comunali anche per la riproduzione dei servizi e delle utilità che più impattano la vita quotidiana e il benessere e che
più possono influire sulla regolazione delle trasformazioni del territorio.
In terzo luogo, il Veneto si scopre plurale e differenziato, con molte risorse ed energie sottorappresentate, in
quanto non riconducibili al frame dello sviluppo prevalente che è passato per “modello del NordEst”. Vengono alla luce fattori di disaccordo nell’interpretazione del modello di crescita Veneto negli ultimi decenni;
in gioco c’è una crisi della capacità di autonarrazione e di produzione di rappresentazioni collettive condivise degli scenari di trasformazione territoriale. Lo stesso mito del “locale” (come identità e appartenenza,
come livello di organizzazione politica, economica e comunitaria) è andato in frantumi: si riconoscono territori di circolazione che non coincidono con i perimetri amministrativi dei comuni e delle province ed emerge con chiarezza una dimensione quotidiana e strutturale dell’azione locale, della mobilità che determina
realtà di multi-appartenenza piuttosto che di stanzialità.
Forme alternative di economia e di produzione, diverse pratiche d’uso del territorio si sono infatti da tempo
sperimentate nei settori del turismo (rurale, balneare, culturale, legato a circuiti enogastronomici e a itinerari
di visitazione e di fruizione del territorio, ecc.), dell’agricoltura specializzata e biologica, dell’agriturismo,
del divertimento, con progetti di filiera, realtà di rete e cooperazione, nuovi distretti produttivi (agroalimentare, riciclaggio, ecc.), progetti della formazione e del sapere a carattere sperimentale, secondo un orientamento ispirato ai princìpi della sostenibilità ambientale, sociale, economica. Le popolazioni
“sopravvenienti” (nuove generazioni e immigrati) sono in alcuni casi valorizzate come risorsa preziosa per
la stessa economia regionale e mettono in moto forme di innovazione delle politiche sociali e urbane.
Queste attività presentano per certi versi caratteristiche che sembrano raccogliere il meglio dello “spirito veneto” dell’autoorganizzazione sociale e delle reti informali, differenziandosi dall’orientamento prevalente
della prospettiva economica-industriale. Allo stesso tempo, tuttavia, la ricchezza e, in certi ambiti, la numerosità di queste esperienze, non riesce a fare massa critica - sono pur sempre realtà di nicchia. Di fatto si osserva come nuove spinte edificatorie, di espansione produttiva che seguono la forma-capannone coesistano
con iniziative e logiche di intervento che vanno verso un modello alternativo, di sostenibilità dello sviluppo.
In alcune aree si ha la sensazione che conflitti latenti stiano per arrivare al punto di rottura, mentre in altre
“eruzioni” sono già in atto. La tentazione di introdurre elementi di razionalizzazione e di messa in coerenza
dei territori è forte. La perdita del consenso si fa sentire chiara ad amministratori locali, agli attori economici
e al mondo del sociale. La discussione sugli effetti della crescita economica e sulla sostenibilità dei processi
di sviluppo torna dunque ad essere un punto importante dell’agenda politica regionale. L’elaborazione ed
implementazione del DocUP 2000-2006 viene a inserirsi in questa fase cruciale e quello che ci interessa approfondire è se e in che termini tiene conto e risponde alle due logiche dello sviluppo, tra vecchie routine e
nuove pratiche, dato che si tratta di comporre in un quadro programmatico di ampio respiro situazioni territoriali problematiche per la coesistenza di funzioni incompatibili, per gli effetti indesiderati di scelte localizzative del passato.
La questione si pone anche in termini di nuove domande di rappresentanza (con riferimento a: i soggetti che
si fanno attori del cambiamento e prendono parte ai processi di produzione e riproduzione dei beni pubblici;
le modalità della rappresentanza) e di rappresentazione (delle differenti situazioni territoriali, dei problemi),
entro contesti strutturati di interazione e di socializzazione delle esperienze.
La programmazione regionale e la stessa produzione di strumenti di pianificazione alla scala territoriale regionale (vista da molti come la più adeguata per affrontare problemi di coordinamento, indirizzo e questioni
di “regia”) risente, anzi, è investita in pieno da queste contraddizioni, ponendosi in una situazione di ambiguità e ambivalenza, ad alta complessità cognitiva. In questa situazione processi di elaborazione di piani, dal
carattere strategico e simbolico, possono tentare una ristrutturazione dei frames per lo sviluppo (intendendo
i frames come cornici per l’azione, che possono favorire o inibire determinate scelte, condotte, strategie).
Gli strumenti di pianificazione, di programmazione e di regolazione di cui si è dotato il Veneto in questi
anni si presentano piuttosto differenziati e assortiti e in ciascuno di essi comunque sono rinvenibili tracce
dei due diversi orientamenti allo sviluppo, di cui abbiamo detto.
Il DocUP ad esempio è stato concepito (anche a ragione degli anni in cui è stato elaborato) secondo un’impostazione generale che conferma in buona parte alcuni degli stereotipi del “modello Veneto dello
sviluppo”, anche perché è la stessa logica dei Fondi Strutturali che rischia di determinare interpretazioni
conservatrici e orientamenti di policy sostanzialmente distributivi e redistributivi. Questo aspetto sarà oggetto di approfondimento nella parte riservata all’analisi del DocUP.
La pianificazione regionale dei trasporti, operata in quegli stessi anni, conferma ad esempio il nesso tra dotazione di una rete infrastrutturale e delle comunicazioni efficiente, e competitività dell’economia (secondo
lo slogan per cui: “siamo molto veloci a produrre in fabbrica, siamo lenti a distribuire sui mercati”) e si
orienta nella direzione di una maggiore sostenibilità dello sviluppo (“più code si fanno, più si inquina”), ma
senza interrogarsi sull’appropriatezza del modello si sviluppo corrente. La realizzazione di una serie di opere pubbliche (il passante autostradale di Mestre; la superstrada a pedaggio Pedemontana Veneta; l’ipotesi
autostradale della Nuova Romea Venezia-Ravenna; il prolungamento della Transpolesana; l’EFMR – Sistema Ferroviario Metropolitano di Superficie –; il proseguimento dell’autostrada A31 Valdastico Sud) viene
vista come elemento indispensabile per l’uscita dalla crisi, in una visione funzionalistica della pianificazione
del territorio. Così si legge nel Piano Territoriale Regionale di Coordinamento (2004):
“Assieme ad altre grandi regioni italiane, il Veneto condivide il più alto tasso europeo di motorizzazione privata, pari a 751
veicoli / 1000 abitanti o a 1,3 abitanti/veicolo. Lo sviluppo economico dell’ultimo decennio è all’origine di una forte crescita
della mobilità delle merci sul territorio regionale. Parte di questa mobilità è determinata da spostamenti con origine e destinazione interna alla Regione (tragitti di 50/60 km), legati al modello produttivo delle piccole medie imprese, parte è legata alla
crescita dei transiti, soprattutto sulla direttrice Est-Ovest (…) L’esperienza dell’ultimo decennio testimonia che la domanda
di mobilità nel Veneto è in continua e costante crescita in termini quantitativi, mentre la qualità delle condizioni della
circolazione per persone e merci è diminuita, in funzione di uno stato di congestione sempre più accentuato, che ha ormai coinvolto la rete autostradale, ma anche e ancor più, la viabilità ordinaria. Ne consegue la necessità di perseguire
l’attivazione di interventi, sia per migliorare l’organizzazione e la gestione del sistema della mobilità regionale che per
la realizzazione delle infrastrutture puntuali ed a rete necessarie. Interventi che vanno programmati con l’obiettivo di recuperare funzionalità ed efficienza al sistema della mobilità” (PTRC, “Assetto infrastrutturale”, 97).
Le descrizioni prevalenti del territorio veneto veicolano rappresentazione del territorio come luogo d’insediamento di funzioni diversificate e di scelte localizzative, di natura esogena o endogena, mentre risultano
deficitarie, sul piano della comunicazione, della dimensione relazionale, interattiva e simbolica dei territori
della vita quotidiana, che esprimono bisogni e pongono problemi ugualmente importanti ai fini del cambiamento.
Parallelamente, la attesissima Legge Regionale Urbanistica (promulgata con L.R. 23.04.2004), che detta le
norme per il governo del territorio, la Legge Regionale 8/03 “Disciplina dei distretti produttivi ed interventi
di politica industriale locale” aprono nuovi scenari, in parte in rottura con gli schemi consolidati del cosiddetto “modello di sviluppo Veneto”, in una visione concertativa della pianificazione territoriale. Le principali città del Veneto, i capoluoghi di provincia, si organizzano inoltre con una propria politica economica e sociale e in autonoma, dotandosi di piani strategici, costruendo o partecipando a reti di relazione territoriale
translocali e transnazionali, intercettando canali alternativi (a quelli regionali) di risorse finanziarie per realizzare nuovi progetti, per resistere alla globalizzazione e per crescere competitivamente, così come per trovare rimedi ai problemi sociali che vi si concentrano.
3. Analisi del DocUP Regione Veneto (2000-2006): linee guida e principi ispiratori
La zonizzazione dell’Obiettivo 2 formulata dalla Regione Veneto (e approvata con DGR n. 920 del
21/03/2000 e successivamente dalla Commissione Europea) nell’ambito della programmazione 2000-2006
comprende un totale di 214 Comuni per una popolazione di 714.915 ab. a titolo dell’Obiettivo 2 e un totale
di 142 Comuni per una popolazione di 904.869 ab. a titolo del Sostegno transitorio82. Complessivamente la
quota di popolazione regionale compresa nella zonizzazione dell’Obiettivo 2 equivale a poco più di un terzo
(il 37%, di cui il 20,3% a titolo del Sostegno transitorio), a fronte di una quota significativa di superficie territoriale regionale interessata (69,8% di cui il 23,1% a titolo del Sostegno transitorio).
Di conseguenza, un elemento che contraddistingue le aree ammissibili è la bassa densità abitativa (128,5 ab./
kmq, circa la metà della densità media abitativa regionale). Questo è dovuto anche al fatto che molti dei Comuni in Obiettivo 2 sono situati nelle Province di Belluno e di Rovigo, che sono territorialmente estese ma
82
Le zone ammesse sono quelle che nella programmazione 1994-1999 erano destinate a beneficiare degli Obiettivi 2 e
5b e che nella programmazione 2000-2006 non soddisfano più i criteri di ammissibilità: queste zone usufruiscono di un
sostegno transitorio da parte del Fesr nel periodo 2000-2005 per dare continuità alla politica dei fondi strutturali.
meno popolate e con una maggiore caratterizzazione rurale, rispetto all’area della “città diffusa”83 (vedi Allegato: Fig. 2, Fig. 3).
Tabella 1. Dati al 1996 (Regione Veneto)
Territorio
Obiettivo 2
Sostegno trans.
Totale
Superficie (kmq)
Quota di territorio regionale (%)
Popolazione aree
ammissibili
Quota di popolazione regionale
(%)
Densità popolazione (ab./kmq)
8.595,3
46,7
741.915
16,6
128,5
4.299,3
12.824,7
23,1
69,8
904.869
1.646.784
20,3
37,0
Inoltre, scorrendo l’elenco dei Comuni, con riferimento alla quantità di popolazione residente per ciascun
Comune (ricordiamo che le stime utilizzate nella elaborazione del DocUP sono riferite al
1996), si osserva che i Comuni individuati come potenzialmente destinatari della politica dell’Obiettivo 2
dei Fondi Strutturali sono prevalentemente di piccola e piccolissima dimensione; pochi sono di media dimensione. Così, ad esempio, nella Provincia di Belluno si trovano Comuni la cui popolazione oscilla tra i
380 e i 4000ab circa, con il solo Comune di Feltre come eccezione (19.531ab). Nella Provincia di Rovigo su
50 Comuni solo 5 hanno una popolazione compresa tra i 10.000 e i 20.000ab; il Comune di Rovigo è eleggibile solo per alcuni quartieri. Nella Provincia di Verona c’è unicamente Legnago come Comune di dimensioni significative (eleggibile, per alcuni quartieri, come obiettivo 2, e per altri come zona a Sostegno transitorio). Nella Provincia di Vicenza si distinguono i Comuni di Chiampo, Recoaro Terme, Asiago quali aree
maggiormente popolate. Nella Provincia di Padova i centri urbani più grandi, tra quelli compresi, sono Conselve ed Este (di quest’ultima sono selezionati solo alcuni quartieri). Nella Provincia di Venezia invece prevalgono i Comuni di media dimensione (Portogruaro, Cavarzere, Chioggia, Caorle); della città di Venezia
sono eleggibili soltanto alcuni quartieri del centro storico (Giudecca-Saccafisola) e la zona portuale del Comune e dell’Arsenale, dell’estuario (tra cui isole note come Murano, Burano, Torcello, ecc.) e una zona della terraferma (Marghera-Catene-Malcontenta).
Per quanto riguarda la dimensione, per popolazione residente, dei Comuni ricadenti nelle Zone a Sostegno
transitorio84 le caratteristiche sono analoghe e confermano il quadro restituito a proposito della zonizzazione
Obiettivo 2 (2000-6). Come realtà di un certo rilievo si distinguono Monselice (nel padovano), Marostica e
Romano d’Ezzelino (nel vicentino), Eraclea, Mira, San Donà di Piave; Chirignago, Carpendo-Bissuola, Favaro Veneto (nel veneziano).
In sintesi, nel complesso del territorio regionale, fatta eccezione in una certa misura per la Provincia di Venezia e per i quartieri indicati delle città di Rovigo e di Venezia, il DocUP concentra la sua azione nelle aree
che costituiscono il tessuto urbano dei piccoli Comuni del Veneto, escludendo le città capoluogo e i grossi
centri urbani. Evidentemente, il DocUP Veneto nei suoi termini generali non è orientato ad una politica per
le città, nel senso convenzionale della categoria “città”, quanto a politiche per aree dove i processi di urbanizzazione impattano territori rurali, di montagna e comunque “periferici” alle aree centrali della regione.
Ai fini del nostro ragionamento, presentato in apertura, che tematizza il rapporto tra modello territoriale di
sviluppo veneto e costrutto della “città diffusa”, è rilevante interrogarsi sulle relazioni tra caratteristiche della città-diffusa e caratteristiche attribuite alle aree-target del DocUP. Nel procedere con l’analisi del DocUP,
avendo presente la cornice generale degli indirizzi e delle tematizzazioni proposti da questo strumento programmatico, dobbiamo domandarci dunque come vengono collocati e rappresentati i territori eleggibili,
come dialogano con le configurazioni del modello di sviluppo Veneto e nel dibattito che è sorto intorno ad
esso. In particolare, c’è continuità o discontinuità nelle idee e forme prevalenti dello sviluppo economico e
territoriale? Quali interpretazioni ne emergono?
83
Per le Zone eleggibili Obiettivo 2, 64 Comuni si trovano compresi nella Provincia di Belluno (tutti i Comuni); 50 nella Provincia di Rovigo (tutti i Comuni); 25 nella Provincia di Verona (bassa veronese, montagna veronese); 2 nella Provincia di Treviso (montagna trevigiana); 34 nella Provincia di Padova (bassa padovana ovest); 26 nella Provincia di Vicenza (montagna vicentina); 13 nella Provincia di Venezia (Cavarzerano, Veneto Orientale, Laguna).
84
Dei Comuni compresi in Zone a sostegno transitorio, 15 sono nella Provincia di Verona; 42 nella Provincia di Treviso; 19 nella Provincia di Padova; 49 nella Provincia di Vicenza, 16 nella Provincia di Venezia.
Proprio nel DocUP, al paragrafo introduttivo al capitolo di “Analisi della situazione socio-economica”, si
trovano indicazioni chiare in merito:
“Le zone interessate nel periodo di programmazione dal 2000 al 2006 dall’Obiettivo 2, che sostituisce i precedenti obiettivi 2 (zone a declino industriale) e 5b (zone rurali) rivedendo i criteri di delimitazione delle
aree, coinvolgono da un punto di vista territoriale le aree periferiche del Veneto, ossia quelle aree che, per i
problemi storici, morfologici e culturali non sonno ancora riuscite a far proprio quel modello di sviluppo
economico e sociale basato su un sistema diffuso di piccole e medie imprese integrate con il contesto sociale
e territoriale, chiamato “modello veneto”, fortemente radicato invece nell’area centrale della regione” (DocUP Veneto, 23).
Se di seguito, nello stesso documento, vengono menzionate alcune delle criticità del modello veneto, non si
tratta di un attacco all’orientamento prevalente allo sviluppo ma della presa d’atto di alcuni effetti indesiderati inerenti ad aspetti per lo più di tipo funzionale, che preoccupano in quanto costituiscono fattori che indeboliscono e minano la competitività e la crescita stessa del sistema economico così organizzato. In tal senso viene sollevata, ad esempio, la questione delle “problematiche derivanti dal deficit delle infrastrutture in
un sistema di piccole e medie imprese, qual è il modello veneto” (DocUP Veneto, 25), con riferimento alle
carenze del sistema stradale e autostradale, ferroviario, aeroportuale, portuale.
La ricerca di omogeneità che consentono di identificare zone compatte secondo determinate caratteristiche è
uno degli elementi-chiave dell’impostazione che il DocUP segue ai fini dell’inquadramento territoriale delle
aree-obiettivo e della loro classificazione, secondo una logica di semplificazione. Significativamente, “l’omogeneità”, misurata secondo parametri definiti, è ritenuta un prerequisito per la zonizzazione, per il trattamento delle problematiche che le aree presentano (dalla scelta del “target”, alla concentrazione degli interventi) e, in prospettiva, per l’integrazione territoriale.
Viene privilegiata, si legge, l’individuazione di macroaree “che presentino connotazioni territoriali, sociali
ed economiche omogenee” (ibidem). Sulla base di questo criterio si distinguono:
1) la montagna veneta (che interessa 104 Comuni delle Province di Belluno, Treviso, Verona e Vicenza con una popolazione complessiva di 247.122 ab.), ovvero quelle zone dove, da un lato, “caratteristiche geomorfologiche hanno condizionato fortemente anche lo sviluppo economico-sociale dell’area, che presenta una situazione di marginalità a livello industriale e un reddito agricolo nettamente
più basso della media regionale, con un conseguente fenomeno di spopolamento, in corso da decenni” (DocUP Veneto, 24), dall’altro, si trovano siti di rilevante interesse ambientale e attività legate
al turismo;
2) il Veneto meridionale, ovvero la zona compresa tra i fiumi Adige e Po (99 Comuni delle Province di
Padova, Verona, Rovigo, Vicenza con una popolazione complessiva di 381.196 ab.), caratterizzata
da alti indici di disoccupazione, reddito basso, spopolamento: “le evidenti carenze strutturali presenti nel territorio hanno reso estremamente debole il tessuto produttivo e non hanno permesso la creazione di quegli elementi autopropulsivi necessari a garantire una adeguata crescita economica…questa è l’area veneta che più di ogni altra necessita di una forte azione di ‘animazione economica’ e,
soprattutto di promozione e di servizio alle imprese locali” (ibidem);
3) il Veneto orientale (9 Comuni della Provincia di Venezia ed una popolazione complessiva di 50.084
ab.) dove emergono quali fattori problematici la difficile compresenza tra attività agricole incentrate
sulla produzione di piccole aziende, poco competitive e con problemi di ricambio generazionale, e
presenze industriali con forti incertezze rispetto al futuro occupazionale;
4) la laguna (alcuni quartieri dei Comuni di Chioggia e Venezia, con una popolazione complessiva di
63.513 ab.), emblematicamente definita come “l’unica area ‘urbana’ interessata al programma (…)
per altro oggetto di una legge speciale che ne ‘certifica’ lo stato di particolare e straordinario carico
ambientale (…) strettamente legato alla portualità ed alla grande industria e a tutte quelle attività
che intorno ad essa gravitano” (ibidem). Nella macroarea della laguna vengono individuate come
centrali le questioni della conversione delle attività e degli spazi industriali a Marghera, e la crisi dei
settori della pesca, della portualità e del turismo nella zona di Chioggia.
Questa zonizzazione, che costituisce un’interpretazione dei parametri dell’Obiettivo 2 nel quadro della programmazione 2000-685, ha prodotto una rappresentazione del territorio che assume come paradigma di riferimento per lo sviluppo il “modello Veneto”: è quello l’esempio da imitare, la storia di successo produttivo da
replicare, con appositi investimenti e progetti di modernizzazione. Il modello Veneto, lo abbiamo visto, ha
tra i suoi elementi caratterizzanti la piccola media impresa diffusa, che costituisce l’ossatura economica e la
politica produttiva di successo nel Veneto, ma anche altre componenti di organizzazione sociale, territoriale
e una matrice culturale specifica.
Tuttavia, abbiamo già introdotto il contro-argomento della profonda crisi e insoddisfazione per gli effetti
non voluti e non attesi di questo modello di crescita e dell’esigenza di maturare un riorientamento complessivo dei quadri di programmazione delle politiche per lo sviluppo territoriale; così come abbiamo osservato
che si tratta di una rappresentazione dominante, che mette a tacere altre realtà di rilievo, che connotano i
processi di sviluppo economico e territoriali del Veneto.
Ad ogni modo, il fatto interessante è che il DocUP sembra correre parallelo a questo dibattito che scoppia in
Veneto sulle scelte dello sviluppo regionale e che si fa sentire accesissimo nel 2005, al momento cioè della
conclusione della esperienza amministrativa regionale iniziata nel 2000 (II Giunta Galan) e della campagna
elettorale subito seguente (che vede nuovamente la vittoria del Presidente uscente, Galan). Retrospettivamente, avendo presente il successivo ed esplicito riorientamento della programmazione regionale (POR
2007-2013) nella direzione di obiettivi di sostenibilità, innovazione e miglioramento della qualità di vita, è
possibile evidenziare come proprio le zone Obiettivo 2 della programmazione 2000-6 in Veneto, anche in ragione della loro condizione di perifericità rispetto alle aree centrali della crescita, siano stati i luoghi dove si
è in un certo senso anticipata la svolta paradigmatica del modello di sviluppo, se pure non nella consapevolezza e nel consenso di tutte le parti politiche e sociali. Come dire che quelle aree sono state tanto “target” di
strategie di sviluppo che tentano il radicamento del paradigma dominante di sviluppo (“modello veneto”),
tanto terreno della penetrazione delle nuove idee di sviluppo e di pratiche alternative, proprio in quanto entro certi limiti risparmiate dai processi di crescita dell’industrializzazione e meno interessate dalle conseguenze negative di congestione, perdita della qualità ambientale, insicurezza, etc. Le aree periferiche ai
grandi processi di sviluppo diventano così “esemplari” per sperimentare politiche di sostenibilità86.
In particolare le “macroaree” individuate dal DocUP come montagna veneta e veneto meridionale, nella progettazione di piani e politiche regionali, sono valutate in modo ambivalente. Ne vengono infatti messi in risalto ora i problemi e le difficoltà dello sviluppo, che i dati statistici sull’andamento socio-economico, demografico rivelano (alti indici di disoccupazione, di vecchiaia, perdita di popolazione; bassi livelli di reddito
rispetto alla media regionale; concentrazione di fenomeni di disagio e di emarginazione; settori produttivi in
crisi, ecc.) ora le migliori qualità ambientali, conseguenza della minore concentrazione nell’arco degli ultimi
decenni di attività ad alto consumo di territorio e della perifericità stessa delle aree. Questi fattori costituiscono un carattere positivo da valorizzare e una base di partenza possibile per tentare un’inversione di rotta
nelle pratiche di sviluppo, segnando una distanza critica dagli andamenti prevalenti nelle aree centrali del
Veneto.
È con questa premessa che comprendiamo le diverse strategie di cui questi territori sono stati destinatari e
interpreti. Riportiamo di seguito alcuni casi, quali esempi chiarificatori della situazione di compresenza che
si è realizzata, tra logiche di sviluppo antagoniste, o vocativamente impegnate nell’affermazione di valori e
idee in competizione.
Negli anni di attuazione del DocUP, nel contesto dell’elaborazione del Patto Territoriale Area Berica si matura tra sindaci una visione condivisa dello sviluppo territoriale, ispirata a principi di sostenibilità87. Il Patto,
85
Obiettivo che, ricordiamo, individua le regioni aventi problemi strutturali in cui deve essere favorita la conversione
economica e sociale, le zone in fase di mutazione socioeconomica nei settori dell’industria e di servizi, le zone rurali in
declino, le zone urbane in difficoltà e le zone dipendenti dalla pesca che si trovano in una situazione di crisi.
86
L’attuazione del DocUP non sarà comunque investita direttamente dai conflitti tra visioni dello sviluppo, anche perché non viene individuata come una grossa posta in gioco; sarà piuttosto la programmazione successiva, del POR
2007-2013, ad esserne interessata e con alcuni esiti di rilievo.
87
Il Patto Territoriale Area Berica è stato formalizzato nel 2000 su iniziativa dei Comuni, con la realizzazione di un
Protocollo di Intesa cui hanno aderito anche le Associazioni di Categoria dell’artigianato, industria e commercio di Vicenza. Il filo conduttore del Patto è l’interesse comune dei soggetti aderenti al sostegno dei prodotti locali di qualità e al
potenziamento delle filiere agro-alimentari, alla valorizzazione del patrimonio architettonico-culturale e delle valenze
paesaggistiche territoriali, in equilibrio con la promozione delle attività turistiche. Nell’ambito del Patto, inoltre, è stata
attivata la gestione associata tra Comuni dello Sportello Unico, e avviata l’informatizzazione dei PRG comunali, per
che coinvolge 24 Comuni della Provincia di Vicenza, molti dei quali si ritrovano nella zonizzazione dell’Obiettivo 2, propone la valorizzazione delle risorse endogene e alimenta processi di mobilitazione degli attori
locali su progetti di territorio a scala intercomunale, con la particolarità che proprio il modello di crescita
dell’alto vicentino, luogo esemplare della concentrazione degli effetti del mitizzato “Modello di sviluppo
Veneto”, viene contestato e assunto come esempio di una logica dello sviluppo che è definitivamente da abbandonare e contrastare88. Così, un ragionamento analogo si produce nel Piano di Sviluppo Locale del Gal
Patavino (Leader +, Veneto) che mette insieme Comuni della bassa padovana, bassa veronese, bassa vicentina (molti dei quali ricadenti nella zonizzazione Obiettivo 2) tentando “un patto per lo sviluppo sostenibile
delle risorse rurali”. Il Piano punta a modelli alternativi di crescita basati sulla valorizzazione e integrazione
delle diverse valenze territoriali (dal bacino termale, ai colli Euganei, alle zone del parco, alle aree agricole e
rurali della bassa padovana che non hanno subito gli effetti devastanti della crescita produttiva e della diffusione capillare di viabilità stradale e capannoni), rafforzando filiere produttive e reti di collaborazione pubblico-privato. Quest’iniziativa si svolge, tuttavia, parallelamente all’attuazione dei Patti territoriali, generalista e dell’agricoltura, della Bassa Padovana e del Basso Veronese (così come, in buona misura,del Polesine)
che, differentemente dal Patto Territoriale Area Berica e dal Programma di Sviluppo Locale del Gal Patavino, sono di fatto implementati secondo le modalità tipiche della politica distributiva, contribuendo dunque al
radicamento di logiche e interessi preesistenti, piuttosto che all’innovazione. Ne consegue il finanziamento
di una miriade di progetti a singoli beneficiari facenti parte di categorie a monte individuate e senza un vero
disegno di integrazione degli interventi e soprattutto nella realizzazione di opere così diverse tra di loro che
ne risulta difficilissimo valutarne l’impatto e l’effetto d’assieme – si va dall’ammodernamento di fabbricati
e degli stabili di singole aziende, alla costruzione di bretelle stradali, al rifacimento di argini, ad interventi di
recupero urbano, ambientale, all’acquisto di materiali vari per le aziende agricole, ecc (Gangemi, Gelli,
2005, 51-52).
Un altro esempio riguarda il dibattito sulle scelte future di sviluppo che investe l’area del Polesine, corrispondente ai 50 Comuni della Provincia di Rovigo (che come abbiamo visto ricadono nella zonizzazione
dell’Obiettivo 2). Amministratori locali, rappresentanti di associazioni di categoria e forze imprenditoriali,
organizzazioni ambientaliste e, in ruolo non secondario, il Consorzio per lo Sviluppo del Polesine convergono nella formulazione di politiche a carattere strategico, come l’Intesa Programmatica d’Area, dando spazio
a ipotesi di rafforzamento delle attività turistiche, dell’agricoltura biologica e specializzata, della pesca, secondo modelli di sviluppo alternativo e sostenibile. La mobilitazione su questi progetti ha luogo nel mentre
che è in corso, nella cornice di programmi di finanziamento regionale e d’interesse locale, una parallela
campagna di marketing territoriale allo scopo di attirare investimenti (per l’insediamento di imprese, fabbriche e capannoni spesso “vecchio stile”) nelle aree produttive di recente espansione, rese disponibili dalle
tanti varianti ai PRG comunali, disposte per iniziativa singola e il più delle volte non concertata delle amministrazioni comunali, che colgono come nuova opportunità l’imminente realizzazione di una nuova arteria
autostradale. Si tratta dell’attuazione di un progetto che era stato bloccato per lungo tempo: il prolungamento della Valdastico a Sud, che attraversa l’area dei Colli Berici e dei Colli Euganei, costituendo di fatto una
barriera che divide le due parti, e a seguire, i territori della Bassa Padovana, del Polesine. All’annuncio della
costruzione dell’opera, in particolare in prossimità dei caselli previsti nel tracciato, le Amministrazioni Comunali delle zone interessate dal passaggio dell’arteria vanno a individuare aree produttive, commerciali. In
Polesine il fenomeno è tanto più impressionante in quanto le nuove espansioni si aggiungono in molti casi
alle macroaree produttive esistenti e decise dalla Regione anni prima, per un rilancio dell’industrializzazione
nell’area. La previsione è di milioni di metri cubi di nuovi insediamenti produttivi, in variante ai PRG comunali vigenti, poiché nella maggior parte dei casi si tratta di aree rimaste ad uso agricolo. Una speculazione
che di fatto spinge verso la riproduzione del Modello del Nordest e comunque la reiterazione di logiche tradizionali di sviluppo industriale, in aree che acquisiscono i vantaggi dell’accessibilità, nella disponibilità di
terreni liberi per edificazione. A fianco alle previsioni di nuovi insediamenti produttivi, i Comuni si attrezzano con aree di espansione residenziale, con l’aspettativa che, a partire dalle localizzazioni industriali, si inneschi un meccanismo circolare e virtuoso di attrazione residenziale, domanda abitativa e sviluppo del settoagevolare una visione comprensiva delle trasformazioni territoriali previste dai singoli strumenti comunali.
88
Lo spostamento di attenzione è dalla produzione di ricchezza, nella consapevolezza dei livelli di benessere raggiunti
da molta parte della popolazione, all’inquinamento e consumo del territorio e dell’ambiente, al degradarsi delle condizioni di qualità della vita, alla saturazione delle aree produttive e delle vie di traffico e di comunicazione, che mettono a
rischio di competitività stessa di quelle zone.
re edilizio, da cui conseguano maggiori possibilità di offerta di servizi pubblici (grazie ai più elevati introiti
fiscali - ICI) e un aumento dell’occupazione a diversi livelli di qualificazione. A queste decisioni è conseguita una corsa delle amministrazioni comunali all’infrastrutturazione e urbanizzazione delle zone a destinazione produttiva e residenziale, con esiti alterni (in alcuni casi le aree sono risultate effettivamente attrattive, in
altri è stato necessario un grosso investimento di energie per promuoverle sul mercato, con progetti di marketing e l’impegno di vari soggetti di intermediazione).
Nei casi descritti è eclatante la compresenza delle due diverse ipotesi di sviluppo e delle logiche dell’imperativo economico e della sostenibilità. Le politiche territoriali prese in esame mettono inoltre in forte discussione la sensatezza della convergenza verso “macroaree omogenee”, che abbiamo visto essere un prerequisito importante dell’azione del DocUP. Lo sforzo di operare analiticamente una zonizzazione per omogeneizzazione delle caratteristiche socio-economiche e territoriali, per quanto funzionale ad una certa interpretazione della politica dei Fondi Strutturali (che vuole la territorializzazione degli obiettivi di politica secondo
un presupposto di concentrazione degli interventi e di definizione ex-ante di un’area-target), è estremamente
controproduttivo ai fini degli obiettivi di sviluppo, di sostenibilità, riducendo e misconoscendo il potenziale
di differenziazione delle situazioni territoriali e dell’attivazione delle risorse a queste connesse, entro progetti di territorio.
4. I progetti del DocUP
Il DocUP è stato strutturato in 5 Assi e sono state previste una serie di Misure per ciascun Asse e varie linee
di azione (Tabella 2). Complessivamente il contributo pubblico programmato è stato di 594.070.032,00
euro. Le risorse private mobilitate sono state stimate ad oltre un miliardo di euro.
Le principali differenze tra Assi, a parte che per gli aspetti di contenuto, si riscontrano relativamente al numero dei progetti finanziati (che è molto alto per l’Asse 1, e relativamente elevato per gli Assi 2 e 3) e alla
consistenza media degli importi di finanziamento per ciascun progetto (rapporto tra numero di progetti approvati e risorse pubbliche destinate).
L’attenzione della Regione Veneto nel periodo 2000-6 è stata volta con particolare intensità ad obiettivi di
miglioramento dell’efficienza finanziaria ed amministrativa; approccio, questo, riscontrabile anche nell’impostazione adottata per la valutazione dell’andamento dei progetti, dei risultati raggiunti, molto sensibile a
parametri di tipo quantitativo, più che alla stima dell’efficacia degli esiti degli interventi effettuati e della
qualità delle iniziative promosse. L’orientamento assunto dall’amministrazione regionale è derivato in parte
dalla necessità concreta di far fronte a norme di nuova introduzione che regolano aspetti del funzionamento
dei fondi strutturali, in particolare per quel che riguarda i meccanismi di spesa e di rendicontazione (ad
esempio, la cosiddetta regola del disimpegno automatico, nota come del “n+2”, che obbliga alla verifica dell’impegno di spesa non più entro la data finale di attuazione del programma, ma entro il secondo anno successivo all’anno di impegno delle risorse sul bilancio comunitario). Nell’esperienza del segretario generale
alla programmazione della Regione Veneto “di fatto, questa nuova regola ha spinto ad una diversa selezione
delle misure, con un nuovo mix tra misure con tempi di rendicontazione ridotti e misure con tempi medio
lunghi, e a prassi organizzative e di gestione basate su una vera e propria assegnazione e verifica dei budget
di spesa rendicontata. La tempistica programmatoria così intesa, è raccordata anche con i termini di attuazione e di rendicontazione assegnati al beneficiario attuatore ed a tipologie di investimento che premiavano
chiaramente i progetti con un profilo amministrativo-procedurale di maggiore efficienza” (Rasi Caldogno,
2007, 56).89
Funzionalmente a quest’approccio i progetti hanno prediletto in molti casi la attuazione di opere di tipo infrastrutturale e comunque di interventi di tipo materiale, anche puntuale (singole realizzazioni, contributi a
singoli enti), che consentono esiti maggiormente prevedibili e comunque gestibili, e i cui beneficiari diretti o
destinatari sono principalmente i soggetti economici e soprattutto il tessuto produttivo locale della piccola
media impresa. Una delle scelte base del DocUP è stata quella di:
“dare priorità ad interventi comportanti il recupero di edifici e siti dismessi in stato di abbandono, con particolare attenzione a costruzioni di pregio storico-architettonico o definite di archeologia industriale. Inoltre è stata posta particolare
attenzione alle necessità delle aziende di disporre di strutture laboristiche e/o di ricerca nonché di incubatori per l’inse89
Coloro i quali avessero avuto occasione di interagire con le strutture regionali in questione, per l’implementazione di
progetti comunitari, potrebbero confermare che un imperativo con cui dirigenti e funzionari richiamavano indistintamente i partner di progetto e i soggetti beneficiari è “spendete, spendete!”.
diamento temporaneo di imprese operanti in settori innovativi” (Rapporto annuale di esecuzione, 2004, Regione Veneto,
2).
Azioni a carattere immateriale sono state previste nell’ambito di misure specifiche, ma con una certa cautela, in quanto implicano la attivazione e mobilitazione di reti di relazione, di strategie di integrazione che
espongono a tempi lunghi, e incerti, di attuazione e ad una maggiore possibilità di fallimento, per le molteplici difficoltà e gli effetti inattesi che l’azione congiunta e partecipata incontra. Effettivamente dal punto di
vista dell’andamento di spesa la strategia della Regione Veneto è stata vincente: il Veneto è risultato sia nel
2003 che nel 2004 la Regione italiana (tra le 14 dell’obiettivo 2) che entro la scadenza prevista (31/12) ha
rendicontato in termini percentuali il pagamento più elevato; le performance negli anni successivi sono state
ugualmente brillanti, come mostrano i dati aggiornati al 2007 (30/09) relativamente all’efficienza attuativa
(che si misura con indicatori di valutazione dell’efficienza finanziaria-amministrativa). Questo risultato è
stato apprezzato dalla Direzione Programmi Comunitari come il chiaro segno dell’impegno degli uffici regionali, della competenza e dell’interesse da parte del territorio alle risorse del DocUP90.
Rispetto all’efficienza ed efficacia della comunicazione (sui progetti) e della pubblicizzazione (delle iniziative) c’è da dire tuttavia che le singole Direzioni coinvolte nell’implementazione del DocUP hanno utilizzato
modalità piuttosto eterogenee, in assenza di una regia generale e di standard condivisi; ad esempio, per lo
svolgimento della ricerca in oggetto, per alcune Misure è stato relativamente facile ricavare le informazioni
necessarie sull’andamento, sui progetti, mentre in altri casi è stato molto faticoso conoscere lo stato dell’arte, non tanto dal punto di vista della spesa e dei tempi di realizzazione, quanto rispetto al contenuto delle iniziative e degli interventi, e all’efficacia degli stessi. Ma, il punto più difficile da trattare, anche ai fini della
presente analisi, è un altro: se gli sforzi della amministrazione regionale sono stati volti al miglioramento
delle capacità interne di spesa e gestionali, sul presupposto delle nuove regole introdotte nella programmazione comunitaria, con il raggiungimento di ottimi esiti, non si può dire lo stesso relativamente alla riuscita
attuativa, ovvero, alla capacità di effettiva realizzazione degli interventi previsti, nei tempi assegnati, per almeno due ragioni: 1) su alcuni Assi e Misure i dati disponibili al 30/09 (Tabella 4) mostrano evidenti ritardi
in tal senso, che in genere in realtà sono connessi a difficoltà incontrate nell’attuazione di alcune Misure in
particolare; 2) il numero elevato dei progetti e degli interventi rende estremamente improbabile una valutazione effettiva degli esiti dell’attuazione del DocUP, e le valutazioni effettuate per alcuni Assi e Misure si limitano all’approfondimento di un campione di progetti, per cui non si dispone di un quadro d’assieme se
non che con riferimento a parametri di tipo puramente quantitativo, che poco dicono del processo di implementazione e ancor meno dell’impatto delle opere nei territori-target.
Tabella 2. Assi e misure del DocUP Obiettivo 2 Veneto
Assi
Misure
ASSE 1 - POTENZIAMENTO E Misura 1.1 Aiuti agli investimenti di picSVILUPPO DELLE IMPRESE
cole e medie imprese
Azioni
Azione a1) Aiuti agli investimenti di PMI Industria
Azione a2) Aiuti agli investimenti di PMI Turismo
Azione b1) Aiuti agli investimenti delle
piccole imprese già esistenti a
prevalente partecipazione femminile
Azione b2) Aiuti agli investimenti delle
piccole imprese di nuova costituzione a
prevalente partecipazione femminile
Misura 1.2 Fondo di rotazione per l'artigianato
Misura 1.3 Aiuti alla capitalizzazione dei
consorzi fidi
Misura 1.4 Aiuto al commercio e rivitalizzazione dei centri urbani
Misura 1.5 Servizi alle imprese
Misura 1.6 Interventi di animazione economica
Misura 1.7 Contributi per la ricerca e l'in- Azione a) contributi per l'attività di ricerca
90
Per la “messa in efficienza” degli uffici regionali è stato necessario provvedere anche ad un apposito investimento in
risorse umane: sono state assunte nel 2002 14 persone e assegnate alle strutture regionali che gestiscono le misure del
DocUP e nel 2004 sono state fatte nuovamente assunzioni (essendo scaduti i precedenti contratti).
novazione
applicata e di innovazione
Azione b) contributi per l'utilizzo da parte
delle PMI di strutture qualificate per l'attività di ricerca
ASSE 2 - INFRASTRUTTURE PER LA Misura 2.1 Aree attrezzate per l'ubicazioCOMPETITIVITA' DELSISTEMA
ne dei servizi alle imprese
PRODUTTIVO REGIONALE
Misura 2.2 Investimenti di carattere energetico
Misura 2.3 Attività di ricerca e trasferimento di tecnologia
Misura 2.4 Intermodalità e logistica
Misura 2.5 Sviluppo della società dell'informazione
ASSE 3 - TURISMO E VALORIZZAMisura 3.1 Ricettività delle strutture a
ZIONE DEL PATRIMONIO CULTUsupporto dell'attività turistica
RALE ED AMBIENTALE
Misura 3.2 Diversificazione dell'offerta
turistica e prolungamento della stagionalità
ASSE 4 - AMBIENTE E TERRITORIO Misura 4.1 Infrastrutture ambientali
Misure 4.2 Tutela del territorio
Misura 4.3 Monitoraggio, informazione
ed educazione ambientale
Misura 4.4 Aiuti alle imprese per la tutela
dell'ambiente
ASSE 5- ASSISTENZA TECNICA
Misura 5.1 Assistenza tecnica
Di seguito è riportata un’analisi più dettagliata delle realizzazioni del DocUP per ciascun Asse, con l’ausilio
di dati aggiornati al 2004 (tratti da rapporti di valutazione intermedia della Regione Veneto) e, quando disponibili, aggiornati al 2007.
L’Asse 1 “Potenziamento e sviluppo delle imprese” è quello su cui è stata destinata una maggiore
quota di contributi pubblici, suddivisi in 7 Misure specifiche. La Misura 1.1 “Aiuti agli
investimenti della pmi” e la Misura 1.2 “Fondo di rotazione per l’artigianato” si sono
caratterizzate, oltre che per l’elevato ammontare di risorse destinate (rispettivamente:
65.346.608,00 €; 52.521.488,00 €), anche per l’alto numero dei soggetti beneficiari e dei progetti
finanziati. Più in dettaglio (dati al 2004), la Misura 1.1 è stata realizzata attraverso due Azioni:
l’Azione a) “Aiuti agli investimenti di piccole e medie imprese”, che ha beneficiato 610 imprese dei
settori dell’industria e del turismo e finanziato un maggior numero di progetti nelle Province di
Rovigo e Verona (pmi settore industria), di Venezia e Rovigo (pmi settore turismo). Il tipo di
interventi ha previsto per lo più ampliamento di unità produttive, ristrutturazioni, ammodernamenti.
L’Azione b) “Aiuti agli investimenti delle pmi di nuova costituzione a prevalente partecipazione
femminile” ha finanziato 486 imprese ma dai rapporti di valutazione intermedia è emersa una certa
difficoltà di assorbimento delle risorse, con ritardi di rendicontazione, realizzazione, rinunce. La
Misura 1.2, che prevedeva la concessione di finanziamenti agevolati per le imprese artigiane91, ha
avuto immediato successo (anche per la fase congiunturalmente sfavorevole per le imprese
artigiane) finendo in overbooking; è stata anche oggetto di uno studio valutativo più approfondito.92
Il numero dei progetti è progressivamente aumentato: le imprese artigiane beneficiarie di prestiti
agevolati o di prestiti partecipativi sono state alla fine 1064 (dati aggiornati al 2007). Con i
finanziamenti sono stati realizzati interventi di costruzione, ristrutturazione, ampliamento fabbricati;
acquisizione di terreni, fabbricati, attrezzature, impianti anche di tipo tecnologico, macchinari;
investimenti in immobilizzazioni immateriali (innovazione di prodotto e di processo, brevetti,
91
La Misura prevede la concessione di finanziamenti agevolati, prestiti partecipativi ed operazioni di leasing agevolato
attuati tramite lo strumento del fondo di rotazione.
92
Gli impegni effettuati al 30.9.2007 sono di 57.456.966, pari al 109,4% del costo totale inizialmente programmato.
Nonostante il successo dell’iniziativa, lo studio valutativo che è stato condotto su questa misura riporta tuttavia la necessità, per il periodo successivo di programmazione, 2007-2013, di svolgere una selezione e attuazione più rigorosa degli
interventi e di cercare una maggiore coerenza tra obiettivi di programmazione e criteri di selezione dei progetti , dotandosi di indicatori di realizzazione e di risultato più adeguati a cogliere le differenze territoriali e ad effettuare esplorazioni “micro” e, soprattutto, di prassi comunicative e di monitoraggio degli stessi indicatori di risultato, relazionandoli con
le dinamiche di implementazione del POR (d’Alessandro, 2007).
licenze, certificazione di qualità, etc.); consulenze legali e tecniche (d’Alessandro, 2007). Sono state
finanziate imprese artigiane di tutte le Province coinvolte nell’area target; gli investimenti ammessi
sono stati più elevati nelle Province di Vicenza (26,3%), Padova (22,3%), Rovigo (18,7%).
Anche la Misura 1.5, “Servizi alle imprese” (21.063.488,00 €) è analogamente significativa per
numero di progetti sostenuti (ben 964, al 2004).
Le Misure 1.6 e 1.7 sono dedicate invece, per importi minori, rispettivamente a “Interventi di
animazione economica” (6.097.202,00 €) e a “Contributi per la ricerca e l’innovazione”
(16.534.252,00 €); le valutazioni disponibili al 2004 mostrano che proprio per queste due Misure si
registra un esiguo impegno e un forte ritardo di spesa, diversamente dall’andamento delle altre
Misure che è in generale positivo93.
Complessivamente la programmazione dell’Asse 1 (con l’eccezione della Misura 1.4) si può
leggere in coerenza con le interpretazioni prevalenti dello sviluppo economico, legate al successo e
alla crescita della piccola-media impresa. Tuttavia, proprio per la parcellizzazione del contributo
pubblico su alcune Misure e l’impianto tendenzialmente distributivo, non è facile farsi un’idea
dell’impatto della politica dell’Asse 1 nel suo complesso, con riferimento a ciò che in concreto è
stato realizzato e con quali effetti territoriali e di settore. Mentre, con riferimento ai dati
sull’andamento finanziario del 2004 e del 2007, si evidenzia l’ottima performance in termini di
capacità di impegno e di spesa, che testimonia sia l’attenzione specifica dell’amministrazione
regionale a quest’ambito di investimenti, sia la effettiva risposta da parte del territorio e, in questo
senso, l’incrocio tra domanda e offerta. I dati aggiornati al 2007 (30/09), rispetto all’andamento
dell’Asse 1, mostrano l’altissimo numero dei progetti complessivamente finanziati (6860),
l’evidente efficienza attuativa (99,78%), cioè il numero di progetti finanziati tra quelli ammissibili,
e per contro la bassa riuscita attuativa (43,02%), ovvero la modesta quantità dei progetti conclusi,
tra quelli finanziati (Tabella 5).
L’Asse 2 “Infrastrutture e competitività del sistema produttivo regionale”, inizialmente secondo nel piano finanziario per quantità di risorse di contributo pubblico destinate, si distingue per la migliore performance finanziaria, al punto che diventerà l’Asse dove si concentrerà la maggiore percentuale di risorse. Già al 2004,
infatti, tre delle cinque Misure previste (Misure 2.1.,2.2, 2.4) evidenziavano importi impegnati superiori alla
spesa ammissibile. Un andamento che verrà confermato negli anni a seguire, come mostrano i dati riportati
sull’andamento finanziario di ciascun Asse al 2007 (Tabella 4). Per la Misura 2.1 “Aree attrezzate per l’ubicazione di servizi alle imprese” (spesa ammissibile: 70.845.800,00 € ; importo impegnato al 2004:
82.823.721,27 € ) è stata sperimentata la formula dei progetti a regia regionale. In essa sono state consentiti
interventi volti alla: ristrutturazione di edifici pubblici dismessi per creare centri-servizi avanzati per le piccole e medie imprese; rilocalizzazione di imprese in stato di precarietà o sparse nel territorio e nei centri abitati; realizzazione di opere di urbanizzazione. Le azioni previste hanno reso possibile il recupero di numerosi
edifici di carattere industriale, artigianale, scolastico (34, al 2004), con un impatto molto positivo nelle aree
del Bellunese e della Bassa/Alta Padovana. Le Misure: 2.1 “Investimenti di carattere energetico” (spesa ammissibile:19.107.594,00 €) e 2.4 “Intermodalità e logistica” (spesa ammissibile: 55.451.402,00 €), sono finite rapidamente in overbooking (rispettivamente: 26.780.240,32 € e 75.433.543,29 € gli importi impegnati al
2004). Tuttavia, con riferimento ai dati del 2007 (30/09) la Misura 2.1 a fronte di una buona efficienza attuativa, sul piano finanziario, ha registrato una assai più contenuta riuscita attuativa, rispetto agli obiettivi di
programma, in particolare per quanto riguarda la quantità di energia prodotta e l’incremento di energia rinnovabile. La Misura 2.4 ha consentito la realizzazione di progetti e interventi diversi, quali banchine per il
movimento e il deposito delle merci; lavorazioni intermedie della catena della distribuzione; autoparchi e
aree di servizio per l’autotrasporto etc. Merita attenzione la Misura 2.5 “Sviluppo della società dell’informazione”, che ha avuto come obiettivo la creazione di infrastrutture telematiche e la realizzazione di servizi a
valore aggiunto, cercando ove possibile di intersecare la politica e le azioni regionali in tema di Distretti industriali e di ambiti territoriali turistici. Sono stati realizzati soprattutto interventi di cablatura (Provincia di
Rovigo: collegamento mediante ponti radio delle aree produttive site in vari Comuni) e di messa a punto di
portali per migliorare l’interazione tra Enti locali e pmi nelle Province di Verona, Belluno, Padova. La Misura che, al 2004, risulta invece come la più difficoltosa nell’implementazione è la 2.3 “Attività di ricerca e
93
Alla Misura 1.3 “Aiuti alla capitalizzazione dei consorzi fidi” sono destinate cospicue risorse (42.810.502,00 €); i dati
al 2004 registrano un numero di progetti pari a 28. La Misura 1.4 (32.813.786,00 €) presenta alcune particolarità per tipologia e approccio utilizzato, rientrando tra i progetti integrati, e di questa di presenterà un approfondimento di seguito.
trasferimento di tecnologia” (7.333.694,00 €), registrando una situazione di stallo relativamente agli investimenti.
Complessivamente, un bilancio della realizzazione dell’Asse 2 (Tabella 5) mostra una buona efficienza attuativa (amministrativa-finanziaria) e una modesta riuscita attuativa (in termini di opere concluse, su cui
pesa in particolare il ritardo di realizzazione di alcuni interventi, come ad esempio quelli di cablatura).
L’Asse 3 “Turismo e valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale” si implementa attraverso due
Misure (3.1. “Ricettività delle strutture e supporto dell’attività turistica”; 3.2 “Diversificazione dell’offerta e
prolungamento della stagionalità”) che sperimentano la formula dei progetti integrati. Ad esso si è ritenuto
dedicare un approfondimento mirato, cui rimandiamo (vedi paragr. 5), dal momento che si tratta di azioni
dal carattere innovativo e complesso con, ad esempio, la collaborazione formalizzata di attori pubblici e privati, la cooperazione tra più settori di intervento pubblico, la identificazione di temi catalizzatori sulla base
di una interpretazione delle specificità territoriali. Dal momento che quest’Asse spicca per la minore performance, relativamente all’andamento finanziario, qui ci limitiamo ad osservare come la Misura 3.1 abbia in
realtà registrato al 2004 una buona performance (gli importi impegnati superano la spesa ammissibile), differentemente dalla Misura 3.2, che denota ritardi di impegno e difficoltà di spesa, in presenza di una maggiore dotazione di risorse pubbliche94. Questo è uno dei fattori che porterà ad una rimodulazione dei finanziamenti assegnati, a favore di altri Assi. L’andamento della spesa al 2007 (Tabella 4) mostra il netto recupero di efficienza, con una situazione complessiva di overbooking, a riprova che le strategie adottate per risolvere i vari problemi sono stati efficaci. L’Asse 3 è anche quello che al 30/09/2007 (Tabella 4) mostra la
migliore riuscita attuativa, come numero di progetti conclusi tra quelli finanziati, interventi effettuati, numero di posti letti realizzati (tra gli indicatori di valutazione).
L’Asse 4 “Ambiente e Territorio” prevede azioni su 4 Misure, ha recentemente ottenuto le migliori performance finanziarie. Con la Misura 4.1 “Infrastrutture ambientali” (spesa ammissibile: 34.176.150,00 €) sono
state sostenute azioni per la “gestione dei rifiuti” (scopo: ridurre la quantità e pericolosità del rifiuto) e per
la “gestione delle acque”, attraverso miglioramenti al sistema infrastrutturale (costruzione condotte idriche;
riuso delle acque reflue in ambito produttivo attraverso il collettamento e il trattamento delle stesse; aumento qualità dell’acqua fornita, ecc,); i dati al 2004 riportano come finanziati 9 interventi (5 attraverso bando e
4 a regia regionale) per importi di spesa significativi e con l’impegno della quasi totalità dei fondi pubblici
disponibili (importo impegnato: 33.931.627,32 €). Le azioni della Misura 4.2 “Tutela del territorio” (spesa
ammissibile: 38.897.446,00 €; importo impegnato al 2004: 17.031.084,86 €) riguardano interventi per il recupero, ad uso economico-produttivo, di aree inquinate (discariche, aree industriali) e per la salvaguardia e
valorizzazione di aree costiere, lagunari e zone umide a vocazione turistica balneare o visitazionale. Le Misure 4.3 “Monitoraggio, informazione e educazione ambientale” e 4.4. “Aiuti alle imprese per la tutela dell’ambiente” hanno ottenuto risorse assai meno ingenti e presentano al 2004 un discreto andamento degli impegni di spesa95. L’avanzamento finanziario per Asse al 2007 (Tabella 4) riporta una crescita considerevole
di efficienza complessiva, oltre che un aumento delle risorse destinate all’Asse stesso. Il numero dei progetti
finanziati è salito a 106 (Tabella 5), ma a confronto della distribuzione delle risorse per Misure su altri Assi,
osserviamo che è prevalsa la concentrazione degli investimenti su di un numero più limitato di interventi.
Nonostante l’ottimo rendimento delle azioni relative alla depurazione delle acque, alla quantità dei rifiuti
trattati e recuperati (sul totale), alla copertura della popolazione interessata da questi servizi ed impianti, che
rispondono tutte agli obiettivi prefissati (Misura 4.1), la riuscita attuativa complessiva per l’Asse 3 è la più
bassa, rispetto agli altri Assi, a quanto risulta dai dati aggiornati al 30/09/07 (Tabella 5).
Gli esiti della valutazione intermedia (2004) hanno comportato una revisione del quadro di ripartizione finanziaria del DocUP che ha sostanzialmente confermato gli obiettivi di partenza, con una rimodulazione
però dei finanziamenti destinati ai vari Assi e alle rispettive Misure, dando maggiore rilevanza a progetti di
sviluppo dell’attività di ricerca e innovazione e della società dell’informazione (rapporti tra istituzioni e imprese) e incrementando gli interventi infrastrutturali, materiali e immateriali, degli Assi 2, 3 e 4.
Tabella 3. Avanzamento finanziario per Asse al 31/12/2004 (dati: Regione Veneto)
94
La Misura 3.1 al 2004 riscontra un importo impegnato di 26.769.764,21 € rispetto ad una spesa ammissibile pari a
24.445.200,00 €; la Misura 3.2. un importo impegnato di 32.098.324,82 € su una spesa ammissibile di 83.456.168,00 €.
95
Per la Misura 4.3, al 2004, l’importo di spesa ammissibile è di 5.721.296,00 € e l’importo impegnato di 3.956.772,01
€; per la Misura 4.4, la spesa ammissibile è di 2.721.294,00 € e l’importo impegnato di 1.200.114,08 €.
Asse
Asse 1
Asse 2
Potenziamento e sviluppo delle imprese
Infrastrutture per la
competitività
Programmato
(1)
237.187.326,00
Impegnato
(2)
192.672.340,68
Pagato
(3)
124.008.742,41
167.465.152,00
192.890.754,88
82.612.769,64
Imp./Progr.
(2/1)
81,23%
115,18%
Pag./Progr.
(3/1)
52,22%
49,33%
Asse 3
Asse 4
Turismo e valorizza=
zione del patrimonio
culturale e ambientale
Ambiente e territorio
Asse 5
Assistenza tecnica
Totale Programma
107.901.368,00
58.868.089,03
17.265.550,16
54,55%
16,00%
81.516.186,00
56.119.598,27
36.658.451,42
68,84%
44,97%
–
–
–
594.070.032,00
500.550.782,86
–
260.545.513,63
Tabella 4. Avanzamento finanziario per Asse al 30/09/2007 (dati: Regione Veneto)
Asse
Programmato
Impegnato
Pagato
(1)
(2)
(3)
283.936.857,85 210.870.531,95
Asse 1 Potenziamento e svi- 237.187.326,00
luppo delle imprese
172.965.152,00
288.353.044,61 213.534.385,01
Asse 2 Infrastrutture per la
competitività
97.901.368,00
111.278.537,51
82.185.349,75
Asse 3 Turismo e valorizza=
zione del patrimonio
culturale e ambientale
85.016.186,00
95.893.314,35
84.305.310,14
Asse 4 Ambiente e territorio
Asse 5 Assistenza tecnica
Totale Programma
44,97%
Imp./Progr.
(2/1)
119,71%
–
43,85%
Pag./Progr.
(3/1)
88,90%
166,71%
123,46%
113,66%
83,95%
112,79%
99,16%
3.788.516,00
4.690.302,62
3.400.014,53
123,80%
89,75%
596.858.548,00
784.152.056,94
594.295.591,38
131,38%
99,57%
Tabella 5. Numero di progetti ed efficienza attuativa, riuscita attuativa al 30 Giugno 2007 (dati: Regione Veneto)
Progetti ammissibili
(2)
6875
Progetti finanziati
Asse 1
Progetti presentati
(1)
7943
6860
Progetti
conclusi
(4)
2951
Efficienza attua- Riuscita attuatitiva
va
(3/2)
(4/3)
99,78%
43,02%
Asse 2
619
516
472
260
91,47%
55,08%
Asse 3
924
375
347
233
92,53%
67,15%
Asse 4
150
126
106
39
84,13%
36,79%
Asse 5
60
60
60
38
100,00%
63,33%
Totale
9696
7952
7845
3521
98,65%
44,88%
Assi
(3)
5. I progetti integrati: il Veneto si racconta
Nel DocUP Obiettivo 2 della Regione Veneto sono stati previsti progetti integrati nella forma di piani di sviluppo locale, a carattere interprovinciale, definiti come “complessi di azioni intersettoriali, strettamente coerenti e collegate tra di loro, che convergono verso un comune obiettivo di sviluppo del territorio e giustificano un approccio attuativo unitario”96. L’implementazione dei progetti integrati avviene con bandi pubblici e/
o accordi di collaborazione che, emessi sulle Misure 3.1, e 3.2, hanno coinvolto le Direzioni regionali del
commercio e turismo, ma anche dei lavori pubblici e trasporti, per lo svolgimento delle attività istruttorie,
96
A tal scopo i progetti integrati devono esplicitare l’idea guida del progetto, che si inserisce in un ambito tematico specifico, il soggetto responsabile, le modalità gestionali e di monitoraggio; prevedere modalità di attuazione prossime a
quelle della programmazione negoziata (concertazione, collaborazione pubblico-privato); svolgersi in ambiti territoriali
che presentino connotazioni territoriali, sociali, economiche omogenee (corrispondenti alle macroaree individuate nel
DocUP).
connesse al tipo di interventi da realizzare. Altri singoli interventi sono stati realizzati nella modalità dei
progetti integrati, nel contesto della Misura 1.4. Non ci sono stati Comuni presenti in più di un Progetto Integrato sull’Asse 3 (si è voluto finanziare un solo intervento per Comune). In corso d’attuazione sono state
perfezionate incrementalmente le procedure di presentazione delle proposte , per migliorare la qualità progettuale degli elaborati e garantire la previsione di opere e costi ammissibili. Gli enti locali coinvolti sono
stati molti, soprattutto nelle Province di Belluno e di Rovigo.
Tabella 6. I progetti integrati nel DocUP Obiettivo 2, Misure e Azioni previste
Misura 3.1: “Ricettività e strutture a supporto dell’attività turisti- Azione a): contributi a imprese alberghiere ed extralberghiere, stabilimenti balneari, termali;
ca”. Costo tot.: 24.445.200 euro.
Azione b): contributi per impianti sportivi destinati al turista;
strutture congressuali, porticcioli turistici
Azione c): contributi per impianti di risalita, piste da sci, impianti
per l’innevamento artificiale
Azione d): contributi per servizi, ricerca, innovazione
Misura 3.2: “Diversificazione dell’offerta turistica e prolungaSpese per studi e marketing territoriale, percorsi turistici e segnaletica, infrastrutture
mento della stagionalità”. Costo tot.: 83.456.168 euro
Azione a): contributi per attrezzature complementari e interventi di qualiMisura 1.4: “Aiuti al commercio e rivitalizzazione dei centri urficazione dei centri urbani
bani”
Azione b): contributi per la qualificazione degli esercizi commerciali (arredo urbano, parcheggi, accessibilità, miglioramento ambientale, immobili.
I progetti integrati dell’Asse 3 “Turismo e valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale”
sono caratterizzati dall’obiettivo di valorizzare risorse naturali e ambientali (aree delle Dolomiti, dei parchi
regionali del Delta del Po e dei Colli Euganei, sistemi fluviali) e beni culturali e monumentali (musei, ville
venete, castelli ecc.) con iniziative congiunte tra più Comuni che condividono una medesima situazione e
potrebbero trarre molti più benefici dalla cooperazione che da interventi singolarmente concepiti. La modalità pratica in genere è quella della individuazione di tematismi e del coinvolgimento attivo di soggetti privati,
per investimenti produttivi nei territori di progetto, nella cornice della ridefinizione di forme di appartenenza
e identità territoriali. L’ambito di interesse è in generale quello dello sviluppo turistico che comporta azioni
come: il recupero e la riqualificazione dell’ambiente e del territorio, delle vie d’acqua (percorsi fluviali, tra
laguna e entroterra, ecc.) il restauro di edifici architettonici di pregio; il potenziamento e la differenziazione
dell’offerta ricettiva (pensata per specifiche nicchie e a costi meno elevati, per diversi periodi dell’anno, organizzando itinerari, percorsi), incentivi alle imprese locali, il miglioramento della qualità dei servizi e degli
impianti, delle infrastrutture turistiche (impianti sciistici, balneari, ecc.), il rafforzamento delle produzioni
locali attraverso operazioni di marketing territoriale tipo la creazione di marchi (proposta della marca “Dolomiti” o della marca “Città murate”) che mettano in relazione il patrimonio culturale, storico-artistico con i
prodotti locali, le risorse ambientali e paesistiche, contribuendo a fare crescere la consapevolezza del valore
di questi luoghi e a pubblicizzarli. La dimensione dei progetti è in molti casi interprovinciale e questo aspetto, che consegue all’approccio prescelto dell’individuazione di tematismi come fattore catalizzante, apre all’opportunità di una prospettiva interlocale alle politiche pubbliche e agli interventi nel territorio. Si tratta
inoltre di contributi direzionati a zone particolari, ad esempio di montagna, che si trovano a fronteggiare
grossi problemi di tipo economico e sociale (disoccupazione, spopolamento, crisi delle attività tradizionali)
e che spesso si trovano isolate dai progetti di sviluppo territoriale di aree più competitive o dai canali di finanziamento correnti. Dalla lettura delle schede disponibili alla consultazione e di presentazione per ciascun
progetto si ricavano informazioni di tipo quantitativo (numero dei Comuni coinvolti, delle imprese situate
nell’ambito territoriale del progetto, degli abitanti, dei musei, delle ville, degli alberghi, degli esercizi extralberghieri e ostelli presenti, del totale dei posti letto, delle presenze e degli arrivi), di tipo qualitativo (analisi
dei punti di forza e debolezza, opportunità e rischio). Nel complesso risulta evidente che le aree in questione
pur connotandosi per valori ambientali, storici, paesistici, tuttavia rimandano a situazioni più complesse di
compresenza di usi e funzioni tra loro diversi, spesso con un prevalente carattere urbano (piuttosto che “naturalistico”), anche perché si tratta di territori di circolazione più che stanziali.
I progetti finanziati nell’ambito della Misura 3.2 sono di seguito brevemente descritti (con indicazione dei
contributi assegnati):
1. “Le lagune e l’entroterra” (3.359.967,65): mette insieme 7 Comuni della Provincia di Venezia e la località
balneare di Rosolina in Provincia di Rovigo tentando la riqualificazione dell’offerta turistica a partire dalle
strutture e dalla ridefinizione del rapporto tra laguna e entroterra.
2. “La montagna veneta” (9.905.018,04) di cui fanno parte le seguenti azioni “2.1, 2.2., 2.3, 2.4):
2.1 “Le Dolomiti e le Prealpi”: comprende Comuni della montagna bellunese e delle Prealpi (per un totale di
37 Comuni in prevalenza della Provincia di Belluno e di Treviso), in una zona ricca di varie attrattive (musei, ville venete, piste da sci, impianti di risalita) ma che ad esempio non dispone nemmeno di un ostello.
2.2 “L’Altopiano di Asiago” (2.639.595,08): interessa 7 Comuni tutti della Provincia di Vicenza e l’obbiettivo è recuperare i beni storici legati alla Grande Guerra (sistemi fortilizi, rete di strade di guerra che potrebbero essere utilizzate per escursioni), sviluppare infrastrutture di servizio, riqualificare le infrastrutture sportive al fine anche di prolungare la stagione turistica, e integrare l’offerta come prodotto, visto che l’economia locale si basa in buona parte sul turismo.
2.3 “Le piccole Dolomiti” (1.424.881,84): interessa 4 Comuni della Provincia di Vicenza e presenta obiettivi
simili a quelli del progetto di cui sopra, per quanto possa contare anche della risorsa-terme (presenza di Recoaro) da integrare con il contesto turistico.
2.4 “I monti Lessini e il monte Baldo” (417.213.12) unisce due Comuni della Provincia di Verona, che si
trovano nella prossimità del Lago di Garda e di città d’arte ma che presentano vaste aree e beni da valorizzare (area lacuale, nuclei rurali tradizionali, risorse botaniche) ai fini della riconversione turistica.
3. “I Parchi nazionali, regionali e le riserve naturali” (6.462.499,98) di cui fanno parte le azioni specifiche
di seguito elencate (3.1, 3.2, 3.3, 3.4):
3.1 “Il Parco nazionale delle Dolomiti Bellunesi e aree protette limitrofe”, che interessa 11 Comuni della
Provincia di Belluno che condividono le risorse naturali e ambientali del Parco (nell’area si trovano anche
molte ville venete) così come la difficoltà a rendere noti i luoghi, all’esterno.
3.2 “Il Parco regionale dei Colli Euganei e aree protette limitrofe”, che mette insieme 6 Comuni della Provincia di Padova, interamente o in parte compresi nel perimetro del Parco Colli Euganei. L’idea è di realizzare strutture di accoglienza a basso costo; recuperare e riqualificare musei, migliorare l’integrazione con la
vicina area termale (Abano Terme, Montegrotto Terme, Teolo, Galzignano Terme, Battaglia Terme) e sviluppare un’offerta ricettiva di nicchia.
3.3 “Il Parco regionale della Lessinia e aree protette limitrofe”, che interessa 2 Comuni della Provincia di
Vicenza e 8 di Verona e punta alla realizzazione di ostelli, itinerari turistici, offrendo incentivi alle imprese.
3.4 “Il Parco regionale del Delta del Po e aree protette limitrofe”, che interessa 7 Comuni della Provincia di
Rovigo, tutti compresi nel territorio del Delta e nell’Ente Parco, che si presenta fortemente antropizzato. Gli
obiettivi sono la creazione di itinerari tematici, acquei, lo sviluppo di ricettività a basso costo (ci sono già
due ostelli), la promozione di iniziative di marketing territoriale per attrarre e trattenere visitatori.
4. “Le città murate e i sistemi fortificati” (4.952.631,57); si tratta di un progetto che per il particolare tipo di
tematismo ha il pregio di acquisire una vera e propria dimensione interprovinciale (mette insieme 3 Comuni
della Provincia di Padova, 3 Comuni della Provincia di Treviso, 1 del Vicentino e 1 del Bellunese). Nel territorio così delineato si trovano ben 158 ville venete, 12 musei, ma la disponibilità di posti letto, e più complessivamente l’insieme delle strutture ricettive, si presentano inadeguate per ospitare l’elevato numero di
presenze turistiche, che potrebbe essere ulteriormente incentivato. Il progetto prevede iniziative di recupero
e restauro delle mura, incentivi alle imprese, la creazione di una marca “città Murate Veneto”.
5. “Le ville Venete” (2.984.411,32); è un progetto ambizioso, che riguarda moltissimi Comuni di tutte le
Province del Veneto (ad eccezione di quella di Belluno), ed è mirato al recupero di ville venete, alla loro valorizzazione e manutenzione, alla fruibilità durante tutto il periodo dell’anno.
6.“Itinerari e sistemi fluviali”(2.205.845,13): è un progetto che coinvolge molti Comuni della Provincia di
Rovigo in un territorio compreso tra il fiume Po e il fiume Adige (ci sono anche alcuni Comuni del veronese, due del Trevisano e uno del Veneziano) ed è mirato alla valorizzazione di pratiche sportive, di itinerari
fluviali (aumentando la navigabilità dei percorsi fluviali), allo sviluppo di ricettività a basso costo e di un
prodotto che possa identificare l’area. Sono stati stralciati due progetti specifici, uno per il Po e Canal Bianco, uno per l’Adige.
I progetti integrati che insistono sulla Misura 1.4 “Aiuti al commercio e rivitalizzazione dei centri urbani”
implementano una strategia di riqualificazione e rigenerazione delle zone urbane degradate, e in tendenziale
stato di abbandono, che punta al sostegno ad attività di tipo commerciale tradizionale (al dettaglio, con valorizzazione dei prodotti locali) e in generale ad un miglioramento dell’offerta della rete dei servizi. Queste
azioni vanno di pari passo con interventi di opere fisiche di ordinaria manutenzione, come il rifacimento di
manti stradali, pavimentazioni, marciapiedi; arredo urbano, illuminazione; creazione di spazi verdi, aree per
parcheggio-auto, pedonalizzazione di alcune zone, ecc. Nel Bando che implementa la Misura 1.4 sono riportati gli obiettivi generali nei seguenti termini: “realizzare programmi di risanamento, ristrutturazione, ammodernamento dei centri urbani, dei centri storici e dei centri a minore consistenza demografica, puntando
all’integrazione delle componenti economico-commerciali e sociali e mirando alla rivitalizzazione delle rete
dei servizi commerciali, vale a dire a quelle strutture connesse al commercio al dettaglio estendendo i benefici alle botteghe artigiane con lavorazioni tradizionali, tipiche, artistiche e di servizio alla persona, anche attraverso l’attivazione di esercizi polifunzionali”. Si punta dunque ad una integrazione (per quanto piuttosto
“predefinita” nella combinazione degli ingredienti) delle componenti economico-commerciali e sociali. Su
questa Misura che riguarda “politiche di vita quotidiana”, piuttosto che “politiche di investimenti infrastrutturali per lo sviluppo economico” si è realizzato un grosso risultato di gradimento. Le domande pervenute
dai Comuni97, infatti, sono state tante, così che la Regione ha ritenuto di finanziare l’intera graduatoria. Sono
stati beneficiati 95 centri urbani per un numero di 125 interventi e 155 imprese beneficiarie.
6. Sintesi dei punti emersi dall’analisi del DocUP
Le questioni centrali emerse dall’analisi del DocUP 2000-2006 sono in sintesi riferibili a:
• la compresenza di due ipotesi e interpretazioni dello sviluppo in Veneto, sostanzialmente in conflitto
nei presupposti e nelle ipotesi di cambiamento;
• la domanda, da parte degli attori economici e sociali ma anche degli amministratori comunali, di una
programmazione regionale che assume consapevolmente decisioni e orientamenti nel merito;
• la presenza di un elevato numero di piccoli e piccolissimi comuni e la configurazione di sistemi di
area metropolitana/città diffusa come fattori caratterizzanti le aree obiettivo 2, con caratteri specifici di dispersione ed intensità; da cui la necessità di pensare alle politiche urbane non nella forma
esclusiva di politiche delle città (i cui attori, ad esempio, sono i sette capoluoghi o i centri urbani più
rilevanti e ben identificabili) ma di progetti di territorio che si propongono come azioni traslocali, ad
opera di coalizioni territoriali che strategicamente interpretano i problemi e le opportunità del sistema di organizzazione territoriale veneto;
• la frammentazione dell’azione pubblica e la tendenza a concepire strumenti di politiche concertative
e strategiche nei termini tradizionali della politica distributiva, osservate in molti casi di implementazione dei patti territoriali, dei fondi strutturali e dello stesso DocUP, per alcuni Assi e Misure in
particolare;
• la difficoltà se non l’impossibilità, comunque, di disporre di un quadro comprensivo dell’implementazione dei Fondi Strutturali, dato l’elevatissimo numero di progetti, la parcellizzazione delle risorse
ai moltissimi soggetti beneficiari, l’eterogeneità delle azioni finanziate;
• il limite dell’approccio all’azione integrata a partire dall’individuazione di aree omogenee, come
aree problema per le quali pensare e organizzare gli interventi;
• la finalizzazione degli sforzi della Regione Veneto a migliorare le proprie capacità finanziarie ed
amministrative e con questo rispondere alle aspettative di Bruxelles, relativamente alle nuove regole
di spesa e ai criteri di valutazione delle performance di realizzazione introdotti, particolarmente
orientati a misurazioni di efficienza dell’attuazione;
• l’ottimo esito nel raggiungimento di obiettivi di efficienza, con ampio riconoscimento sia livello nazionale che territoriale (alcune misure sono rapidamente andate in overbooking). Per contro, la ancora limitata attenzione agli aspetti di efficacia e di impatto territoriale, di accountability;
• la restrizione, in parte conseguente al punto di cui sopra, della scelta degli investimenti nelle zone
Obiettivo 2 e la preferenza, da un lato, per interventi di tipo infrastrutturale, in particolare a favore
della piccola media impresa (come misure di sostegno diretto o realizzazioni che apportano modifiche migliorative di carattere materiale ai contesti di attività delle pmi), con perdita di contenuti di
sperimentazione e di innovazione. D’altra parte, il lancio di iniziative interessanti dal carattere inte97
Tipicamente piccoli Comuni, a bassa densità demografica, dove gli amministratori locali lottano per dotare il paese
dei servizi essenziali per la popolazione residente, per essere più attrattivi e per contrastare la fuga dei consumatori verso i grandi ipermercati e centri commerciali delocalizzati in prossimità dei caselli autostradali o ubicati lungo le “strade
mercato”.
•
grato nell’ambito dello sviluppo turistico e del riuso di spazi urbani e rurali, che andrebbe approfondito;
la scarsa valorizzazione del DocUP come politica simbolica (data la limitatezza delle risorse finanziarie disponibili) e come occasione per posizionarsi nel dibattito in corso sui modelli di sviluppo
territoriale, che viene invece strategicamente giocato dal Piano Territoriale Regionale di Coordinamento, in fase di definizione negli anni di implementazione del DocUP.
7. Il processo di revisione del PTRC come caso paradigmatico del mutamento di approccio in atto.
In questo paragrafo viene proposto un approfondimento in merito al processo di elaborazione del Piano Territoriale Regionale di Coordinamento (PTRC) e al dibattito che ne è conseguito, sui modelli dello sviluppo
territoriale ed economico in Veneto. Il nuovo Piano può essere considerato come una revisione del precedente strumento di pianificazione territoriale regionale, redatto negli anni ’80, quando urgente era dare attuazione alla Legge Galasso in materia di protezione ambientale e costruire una visione d’assieme per le politiche regionali98. Il PTRC si inserisce nel quadro della nuova legge urbanistica regionale (n.11 del 2004),
che interviene normativamente ad incidere su aspetti di governo del territorio; inoltre, costituisce un punto
di riferimento sul piano metodologico per gli altri strumenti urbanistici, negli assetti paesaggistici, insediativi, infrastrutturali e nella individuazione di politiche territoriali condivise dalle forze produttive e sociali del
territorio.
La redazione del Documento Programmatico per le Consultazioni del 2004 è stata accompagnata da un’analisi attenta alle conseguenze della crescita produttiva e alle domande sociali di cambiamento; l’obiettivo di
definire una politica per le città è stato inoltre posto come rilevante. Il dibattito che ne è scaturito mostra con
chiarezza il controverso mutamento in atto nel modo di concepire la pianificazione territoriale nel Veneto,
nonché aperture e limiti da parte della Regione nella sfida ad assumere un orientamento netto ed una posizione esplicita rispetto alle proposte di cambiamento, e a convergere verso decisioni condivise in merito al
modello di sviluppo da perseguire. Sicuramente l’occasione del nuovo Piano ha contribuito ad attivare spazi
di confronto a più voci e a definire una narrativa delle dinamiche territoriali che, in un certo senso, si pone
in competizione e in discontinuità con quella più consolidata, e prevalente, del “modello Veneto”. La proposta, culturale, di una nuova via da percorrere, contenuta nella metafora del “Terzo modello”, significa il venire meno dell’ipotesi stessa che ci sia un modello prevalente, nella constatazione della differenziazione e
della specificità di molte aree del territorio regionale. Il quadro di analisi che si delinea con il PTRC mostra
sostanzialmente il venire meno del modello policentrico equilibrato e delle rappresentazioni del territorio
cui questo ha dato vita. Le interpretazioni prevalenti delle dinamiche della crescita economica-produttiva e
delle tendenze sociali e abitative per lungo tempo sono confluite nel policentrismo come scelta caratterizzante il Veneto, alternativa alla parallela metropolizzazione dilagante in altri territori, che vivevano anch’essi processi di forte industrializzazione e modernizzazione. Il PTRC concepito negli anni ’80 era stato in un
certo senso proprio la celebrazione e organizzazione dello schema policentrico di sviluppo sul presupposto
della concentrazione della crescita economica e della domanda di pianificazione nell’area tra Venezia-Treviso-Verona-Vicenza-Padova, città che costituivano per diversi fattori polarità territoriali: “il PTRC elaborato
all’inizio degli anni ’80 diviene quadro di riferimento di tutte le politiche regionali, nonostante venga approvato definitivamente solo nel 1991 (…) sostiene il carattere policentrico come modello insediativo veneto e
ne vuole favorire la maggiore integrazione funzionale individuando il Sistema metropolitano centrale del
Veneto come area propulsiva della Regione e come area destinata ad un maggiore potenziamento infrastrutturale” (Fregolent, 2005, 30-31).
Le analisi contenute nel nuovo PTRC mostrano una evoluzione del modello policentrico, con il riconoscimento di:
- un sistema metropolitano centro-veneto e l’area metropolitana di Verona (dove si concentrano i servizi
“rari”: Università, finanza, centri politico-amministrativi, ecc.);
98
In ragione della Legge Galasso il Piano era stato formalmente provvisto, con L.R. n. 6/86, di valenza paesistica. La redazione del primo Piano Territoriale Regionale di Coordinamento (previsto dalla legge urbanistica n. 1150 del ’42) venne avviata in Veneto negli anni ’70, associando la sua predisposizione con il Programma Regionale di Sviluppo (PRS).
La pianificazione intermedia (per il coordinamento delle disposizioni di Piano dei Comuni) negli anni ’80 venne affidata
all’istituzione dei “comprensori” e, successivamente, alle Amministrazioni Provinciali.
-
l’area pedemontana, sistema reticolare, che tende a congiungersi dall’Alto Vicentino al Trentino e al
Friuli Venezia Giulia (che è tutto un tessuto produttivo);
- il sistema turistico della costa e della montagna (dove si intrecciano i temi ambientali, turistici, industriali e dell’economia agricola alpina).
Dalla lettura del Documento Programmatico del 2004 apprendiamo che l’affermazione per lungo tempo di
una monocultura produttiva (lo schema della piccola impresa e l’organizzazione del capannone di cui abbiamo già detto), di una monocultura residenziale (la villetta unifamiliare, ecc.), di una monocultura turistica
(in alcune aree montane e costiere assai evidente), di una monocoltura agricola (nel prevalere, con la meccanizzazione, di forme di agricoltura estensiva, del mais, ecc. per competere con Paesi che potevano contare su
immense superfici agricole99) siano stati tra i fattori principali della trasformazione territoriale che si è prodotta nel segno della diffusione/dispersione e senza un’opportuna strategia d’assieme e di un quadro politico-programmatico delle politiche territoriali, di scala vasta. Sotto accusa sono le tendenze campanilistiche
dei Comuni (per dare un’idea, 581 Comuni ma oltre 2000 parrocchie), che pongono il più delle volte resistenza all’agire cooperativo, in particolare quando si tratta di espansioni residenziali e produttive; il profondo individualismo degli agricoltori (che mal si convincono della necessità di formare cooperative) e la domanda abitativa orientata alla casa come bene individuale; l’inefficacia dell’operato delle istituzioni intermedie (come le Province) e della stessa Regione, ai fini del coordinamento e dell’azione di guida e orientamento dei processi di trasformazione territoriale.
Dalle analisi e dai dati riportati, il Veneto risulta avere il tasso più elevato di case sparse in Italia (gli urbanisti hanno dato un nome a questo fenomeno: è “villettopoli: tutti uguali ma nella piccola diversità della propria casa”). Il territorio regionale è descritto come un tappeto di fabbriche e piccole funzioni produttive,
spesso non concentrate in aree artigianali e industriali (che sono comunque moltissime, nella tendenza di
ogni piccolo Comune a provvedere ad una opportuna autonoma espansione in tal senso, anche sulla scia della politica democristiana, di coltivare lo sviluppo “all’ombra di ogni campanile”) ma pervasive nei centri
abitati (in molti casi le apposite aree di nuova e vecchia espansione restano non occupate o per lungo tempo
dismesse). Si lamenta, inoltre, il minore tasso di scolarità dei giovani (il 60% dei lavoratori dell’industria veneta ha solo la licenza dell’obbligo), con forti limiti per la competitività del sistema.
Le strategie del PTRC sono, in primo luogo, puntare sull’innovazione, sulla ricerca e sulla formazione, in un
passaggio da forme di crescita “estensiva” a forme di cooperazione territoriale (ad esempio, collegamenti
più intensi tra università, istituzioni di ricerca e di formazione, reti di impresa, distretti produttivi). L’investimento sull’economia della conoscenza (“la quarta rivoluzione industriale”, viene detto) è un altro degli
aspetti caratterizzanti gli scenari di sviluppo tracciati dal PTRC che, rispetto al DocUP 2000-6, si presenta
più chiaro e articolato, sia nella costruzione di un quadro analitico delle opportunità e delle criticità del territorio regionale, sia degli orientamenti per il futuro. La competitività del sistema produttivo regionale oltre
che da fattori quali infrastrutture, logistica e impresa viene vista in dipendenza dal grado di efficienza della
Pubblica Amministrazione e dalla qualità della spesa pubblica (circa il 60% della finanza regionale è dedicato a investimenti nella sanità), dalla crescita del “capitale umano” (investimenti nella direzione dell’uso delle nuove Tecnologie della Informazione e Comunicazione, ecc.) , dalla capacità del Veneto di relazionarsi
con altri territori (in questo senso l’interesse all’Euroregione con Friuli-Venezia Giulia, Carinzia, alcune
aree della Slovenia e della Croazia, e all’Euroregione Adriatica).
In secondo luogo (ma in stretta relazione con il punto precedente), la priorità è valorizzare con apposite politiche le città, che sono individuate come il patrimonio del Veneto, pur nella cornice del “sistema agropolitano”, in quanto luoghi dell’elaborazione delle idee, delle relazioni interpersonali, dell’incontro, della costruzione di reti, ovvero, non solo luoghi centrali rispetto ai fattori materiali dello sviluppo100. Tra le politiche
99
Al 2005 (statistiche elaborate dalla Regione Veneto), il 69% della superficie agricola coltivata in veneto risulta a seminativi, contro il 56% della media nazionale nello stesso anno; le percentuali di coltivazioni permanenti, di prati e pascoli sono conseguentemente più basse in veneto, rispetto alle medie nazionali.
100
Per approfondire il cambiamento delle aree urbane e delle città sono stati individuati, sulla base di una serie di parametri (cluster analysis), 6 gruppi tipologici di Comuni così denominati: 1) le centralità (le città capoluogo e alcuni Comuni di media dimensione come Castelfranco, San Donà di Piave, Cittadella, Jesolo, Mira, ecc.); 2) i territori del benessere e della solidità produttiva (si tratta complessivamente di un centinaio di Comuni assai prosperi, che si sviluppano di
solito intorno alle centralità territoriali); 3) i poli della nuova crescita (si tratta di una cinquantina di Comuni collocati un
po’ in tutto il territorio regionale); 4) le aree ad alta intensità turistica (si tratta dei Comuni collocati nella riviera del
Garda, nelle valli dolomitiche, nell’altopiano di Asiago, nella fascia litoranea adriatica e nella zona termale euganea); i
Comuni della medietà veneta (si trovano prevalentemente nelle zone Obiettivo 2).
urbane vengono comprese: politiche abitative e di riqualificazione urbana, di miglioramento dei servizi, della mobilità intraregionale e dell’accessibilità (con l’indicazione di “porte polifunzionali” all’ingresso delle
città), della diffusione delle conoscenze e delle informazioni, della partecipazione della cittadinanza attiva,
di controllo del costo delle aree, ecc. Il che può significare “razionalizzare” e “mettere in coerenza” il territorio: dare forma alla “villettopoli”, rivedere le reti stradali, autostradali, ferroviarie promuovendo strumenti
che impediscano il proliferare di nodi del terziario in prossimità di ogni nuovo casello autostradale (in questo senso intervenie la nuova Legge Urbanistica); riqualificare gli spazi industriali produttivi dismessi, ancor
prima che accordarne la nascita di nuovi. E, non ultimo, decidere che cosa fare per Marghera, che costituisce
l’anomalia da sempre in Veneto, essendosi configurata come il modello della grande industria delle partecipazioni statali, dei sindacati, della concentrazione degli stabilimenti e della domanda di occupazione, in rottura non solo rispetto alla laguna e a Venezia (pur rispondendo ad un preciso progetto di “modernizzazione”
di Venezia, concepito con l’allora Piano Volpi, che inventa il sito industriale di Marghera e le localizzazioni
turistico-culturali del Lido di Venezia) , ma anche rispetto al modello della piccola-media impresa veneta;
zona della subcultura politica “rossa” nei decenni del Veneto “bianco”. I processi di graduale dismissione
degli stabilimenti della chimica e del recupero industriale hanno impegnato negli ultimi quindici anni risorse
finanziarie, anche comunitarie, e risorse umane ingenti. In questo quadro di inseriscono gli investimenti per
il disinquinamento (diventato un terreno di sperimentazione di rilevanza internazionale, oltre che una nuova
industria), per il rilancio e la riorganizzazione delle attività portuali, per la conversione delle aree industriali
dismesse attraverso tentativi di incubazione di attività produttive ad alto valore aggiunto e tecnologico (con
nascita del Parco Scientifico Tecnologico “Vega”). Ciò nonostante, Marghera resta un nodo problematico,
per molti versi ancora in discussione e sostanzialmente pluripianificato, con la conseguenza che si creano
aree di interferenza e di conflitto tra le decisioni politiche e le previsioni e disposizioni degli strumenti urbanistici regionali, provinciali, comunali, dell’Autorità portuale, ecc.). Solo per fare qualche esempio delle
contraddizioni non risolte: si continua a praticare il trasporto del petrolio in laguna, data la persistenza di
raffinerie e di stabilimenti di vario tipo, in un paradosso giuridico-legale; il polo della chimica è stato confermato, con opportuni adeguamenti per rispettare le normative di sicurezza ambientale e sanitaria , e dopo
lunghe contrattazioni tra sindacati, Stato, Regione Veneto, Comune di Venezia, rappresentanti delle industrie. In generale, ci sono forti resistenze allo smantellamento di alcune attività, pur al limite della compatibilità con l’ambiente lagunare, per interessi particolari, da parte dei sindacati (sono ancora molti i lavoratori
legati all’industria) e dell’Ente Zona Industriale; la bonifica in molte zone deve ancora essere compiuta e costituisce un fattore che alza notevolmente il costo delle aree, rispetto ai prezzi di mercato).
Provando a fare sintesi dell’insieme di politiche ed interventi ipotizzati dal PTRC, evidenziamo le seguenti
priorità:
- rilanciare e sostenere le funzioni commerciali dei centri storici urbani con specifici programmi di recupero (su questo, abbiamo visto, vi è stato un apposito investimento da parte del DocUP
2000-2006);
- razionalizzare la localizzazione (vs dispersione) degli insediamenti produttivi, artigianali e industriali, favorendo la costituzione di aree di espansione intercomunali (utilizzando a tal fine anche tecniche perequative e fiscali intercomunali), rimuovendo le attività che costituiscono usi impropri (in
quanto invasivi rispetto ai centri abitati o in difficile compresenza con altre funzioni); contenendo le
nuove zone produttive e selezionando il tipo di produzioni;
- localizzare i nuovi centri direzionali e del terziario all’esterno dei centri storici urbani;
- tutelare il territorio agricolo favorendo la specializzazione delle produzioni e lo sviluppo rurale (politica perseguita già attraverso l’Iniziativa Comunitaria Leader e il Piano di Sviluppo Rurale);
- gestire i problemi di conservazione e tutela ambientale;
- proseguire con la realizzazione delle nuove opere infrastrutturali (previste dal Piano Regionale dei
Trasporti) colmando il gap che penalizza il Veneto e il NordEst nelle relazioni transalpine con l’Europa e nelle relazioni con il litorale alto adriatico;
- definire apposite politiche di sviluppo, dedicate ai problemi della “montagna industrializzata”;
- incentivare l’internazionalizzazione delle piccole medie imprese e l’acquisizione delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione, nonché l’adozione di sistemi di gestione ambientale
e di programmi di sviluppo sostenibile del territorio;
- aumentare l’efficacia del sistema della Pubblica Amministrazione e della spesa pubblica.
Nel PTRC viene inoltre fatto riferimento esplicito agli orientamenti comunitari (nella fattispecie degli obiettivi di convergenza, competitività regionale e occupazione, cooperazione territoriale europea). Proprio nella
promozione dell’economia della conoscenza l’obiettivo-città è posto al centro di politiche della ricerca, innovazione e formazione del capitale umano. Pertanto il Documento Programmatico del 2004 prevede investimenti nella direzione di:
- migliorare l’accessibilità ai centri urbani fornitori dei servizi definiti avanzati;
- immettere il sistema delle città venete nella rete dei grandi sistemi urbani europei (con particolare riferimento al “Corridoio V”, che dovrebbe attraversare la regione Veneto per tutta la sua lunghezza,
e al “Corridoio I”, sull’asse del Brennero fino al Tirreno);
- assegnare alle città che compongono il reticolo urbano veneto gerarchie di ruoli e funzioni, con la ricapitalizzazione delle città polo (Verona, Padova, Venezia) e della città pedemontana (Vicenza, Treviso e poli minori), con la realizzazione del progetto “strade e paesaggio” (che interessa la Pedemontana, il Passante di Mestre);
- riqualificare le periferie urbane (attraverso azioni del tipo: restauro e recupero del patrimonio edilizio degradato; creazione di centri di aggregazione; riorganizzazione della viabilità interna; ammodernamento delle attività commerciali e artigianali; attivazione delle comunità locali su progetti di
cambiamento);
- sviluppare le nuove tecnologie della informazione e comunicazione e diffondere le competenze rispetto al loro uso.
8. Note sulle linee programmatiche 2007-2013 della Regione Veneto
Nella fase iniziale, e per parti significative di elaborazione, la stesura del Documento Strategico Regionale
2007-13 è stata esternalizzata a società di consulenza e a professionalità di altri enti101. Le varie Direzioni regionali e i diversi settori responsabili dell’elaborazione di piani e politiche per ambiti specifici di intervento
sono stati scarsamente coinvolti nella fase di elaborazione del Documento Strategico Regionale, dal punto di
vista dell’ideazione e dell’analisi. Inoltre, la consultazione delle parti economiche e sociali, degli enti locali
si è prodotta nell’ambito di pochi incontri, dal carattere piuttosto formale, con le rappresentanze di settore e
di categoria componenti il partenariato istituzionale102. Non c’è stata l’intenzione di investire in un ampio
processo concertativo e partecipativo, come hanno fatto invece altre Regioni, alcune sulla scia della loro
consolidata tradizione negoziale (come la Toscana, l’Emilia-Romagna), altre tentando di forzare e innovare
il metodo partecipativo, come nel caso della Regione Puglia, che ha affiancato al percorso concertativo classico forme di coinvolgimento della cittadinanza attiva , tentando la mobilitazione dell’intero territorio regionale attraverso vari canali ed iniziative di coinvolgimento. L’approccio della Regione Veneto ha fatto pensare alla riproposizione di un modello di programmazione e di decisione che associa modalità di tipo tecnico e
burocratico (l’elaborazione del documento è affidata a “specialisti” della materia, che ragionano in merito
alle scelte di politiche sulla base di una conoscenza di tipo esperto, professionale) a quelle “dell’influenza
politica” (l’ascolto degli interlocutori-chiave tra gli attori di politiche del territorio regionale avviene secondo interazioni diadiche e comunque non c’è l’interesse a socializzare i contenuti emergenti). Vi è da osservare che la posta in gioco, sotto il profilo finanziario, è di per sé scarsamente rilevante per la Regione Veneto, nel senso che le risorse disponibili attraverso i fondi strutturali costituiscono una piccola percentuale del
bilancio regionale. È pertanto evidente che soltanto attraverso un forte investimento simbolico e politico, e
la partecipazione degli attori locali, il processo di redazione del piano e gli interventi previsti possono assumere realmente valore.
Quest’orientamento era stato analizzato criticamente in studi precedenti, relativi al ciclo di Programmazione
2000-6, e focalizzato nei termini di una scelta, comune a un certo numero di regioni, che lasciava sostanzialmente intatte le logiche amministrative previgenti, riducendo quasi a zero le occasioni di apprendimento e le
101
Il Documento Strategico Regionale Fondi Strutturali 2007-2013 è stato elaborato da un gruppo di consulenti, che
sono docenti dell’Università di Ca’ Foscari di Venezia (Dipartimento di Scienze Economiche) e dell’Università degli
Studi di Trieste (Dipartimento di Scienze Politiche).
102
Il Documento Strategico Regionale è stato presentato, nella sua prima stesura (preliminare), alla riunione del Tavolo
di Partenariato sui Fondi Strutturali nella riunione del 02/12/2005, conformemente a quanto stabilito dal “Protocollo di
intesa tra Regione del Veneto, Parti Sociali e Autonomie per l’istituzione e la disciplina del tavolo di concertazione regionale”. A seguito di questa riunione sono state trasmesse varie osservazioni che hanno integrato il documento adottato
con deliberazione della Giunta Regionale del Veneto n. 3346 del 08/1172005.
opportunità di innovazione che le stesse politiche di coesione avevano rappresentato in molti casi, anche rispetto alla formazione di competenze interne alle amministrazioni regionali (Fargion, 2006, 146). Queste
analisi avevano sottolineato inoltre come vi fosse una sostanziale differenza tra l’esternalizzazione nella fase
progettuale che “proprio per la sua rilevanza strategica, non può non incidere negativamente sull’immagine
della Regione e sulla sua possibilità di emergere e di farsi riconoscere come attore in grado di comporre e
veicolare all’esterno gli interessi territoriali”, e l’esternalizzazione di momenti più strettamente tecnici “quali la gestione delle procedure di spesa o – al limite- la raccolta degli elementi informativi necessari al monitoraggio (…), che può risultare funzionale al rafforzamento della Regione stessa” (Fargion, ibidem). D’altra
parte, osservando la struttura del rapporto elaborato dai tecnici incaricati, vediamo che si tratta di una sintesi
del quadro generale delle politiche attuate dalla Regione Veneto negli ultimi anni103. Il pregio di questo studio sta nell’analizzare e soprattutto nel far presente il complesso sistema di interdipendenze messe in atto da
una molteplicità di provvedimenti e di corsi d’azione, in cui la Regione e le sue varie Direzioni sono impegnate. In un certo senso il Documento è in parte uno strumento d’analisi, in parte di rappresentazione, capace di fotografare l’esistente e di spingersi nella simulazione di scenari futuri, ipotizzando una permanenza di
alcuni andamenti di sviluppo, così come di alcuni fattori problematici Da questa sorta di rapporto sullo stato
dell’arte emerge quanto l’azione della Regione sia influente in moltissimi campi di attività e quanto, al contempo, siano numerosissime le poste in gioco nel territorio, il che rende particolarmente complicato orientarsi rispetto al cambiamento e agli effetti delle politiche. Possiamo ipotizzare che la Regione abbia ritenuto
utile chiedere ad un osservatore esterno di ricomporre questo quadro d’analisi delle politiche recenti e in
corso di attuazione e degli effetti da queste prodotte. Tecnicamente, gli scenari presentati sono in qualche
modo desunti dall’interpretazione degli andamenti dell’economia e della società nel Veneto, nell’ipotesi che
gli attuali orientamenti fossero mantenuti e in considerazione dell’intreccio con variabili esogene (quali, il
contesto d’interazione interregionale, internazionale, europeo…). In tal modo vengono valutati l’andamento
demografico e i processi di redistribuzione della popolazione nel territorio regionale, l’intensità dei fattori di
pressione e di consumo del suolo, l’evoluzione dei flussi turistici, l’andamento dei vari settori della produzione economica, dei trend di occupazione, ecc.La valutazione delle varie politiche raccoglie i dati disponibili sull’impatto delle iniziative e dei progetti, ove realizzati, sulle strategie di piani regionali settoriali e generali (dal piano di gestione delle risorse idriche, energetiche, dei rifiuti, alla formazione e al Piano Regionale di Sviluppo) e su specifiche Leggi Regionali (come quella di Disciplina dei distretti produttivi, del 2003).
L’analisi dell’implementazione del DocUP Obiettivo 2 (2000-6) costituisce soltanto un capitolo del rapporto
redatto, assumendo peraltro a riferimento la valutazione intermedia dello stato di avanzamento dei progetti e
il vecchio complemento di programmazione.
Gli obiettivi restano quelli della riduzione dello squilibrio tra parti del territorio Veneto, con maggiore enfasi sulla promozione dell’innovazione e della ricerca al servizio delle imprese e dell’economia, in un rafforzamento del sistema di relazioni tra Università, Enti Locali, Imprese e settori produttivi, e sulla protezione e
valorizzazione delle risorse ambientali.
Non si colgono però chiare le criticità e le opportunità dello sviluppo veneto, da questa diagnosi, e soprattutto non si individuano le priorità su cui investire nella prossima programmazione.
La concettualizzazione di territorio che se ne ricava è legata più alla visione settoriale dei problemi e all’individuazione analitica delle interconnessioni tra situazioni problematiche e politiche d’intervento, che ai
“territori delle politiche” e al sistema di interazioni territoriali.
La concezione delle risorse, delle chance e delle fragilità è basata su una valutazione delle risorse e dei problemi esistenti in termini di “stock” (cioè, come fattori “dati”) più che in termini di mobilitazione degli attori locali su progetti di territorio. Non ci sono rappresentazioni e quadri di analisi su che cosa fanno altri attori nel territorio, e su come lo fanno e con quali effetti; in questo senso, la costruzione di un “quadro strategico” è affidata a modelli econometrici, che delineano scenari104. Infine, nulla si dice di quello che fanno le
città come “attori” e “imprenditori di politiche”.
Una prospettiva diversa si apre invece nella seconda fase della programmazione regionale, con la redazione
del POR competitività 2007-13, che impegna direttamente gli uffici regionali e la Programmazione Regionale e che vede maggiormente coinvolti gli attori territoriali, attraverso vari percorsi di consultazione e di con103
Vengono analizzate le politiche per singoli settori della programmazione regionale; i programmi d’iniziativa comunitaria; gli accordi della programmazione negoziata, le politiche strategiche, etc.
104
Oltre al Documento Strategico la Regione ha dovuto attrezzarsi di un Quadro territoriale infrastrutturale; anche per
questo è stato fatto uso di un modello econometrico, stimato su dati provinciali.
certazione (vengono attivati appositi Forum, entro iniziative di e-democracy; si realizzano più riunioni del
Tavolo di Partenariato e incontri allargati nel territorio). Si osserva un vero e proprio salto di qualità nella
stesura del documento, sul piano culturale e dell’investimento politico, da parte dell’amministrazione regionale.
A monte, vi è da considerare che ci sono delle novità rilevanti che vengono introdotte con la programmazione 2007-2013. In primo luogo, si assiste ad una ridefinizione degli Obiettivi che avevano regolato la programmazione 2000-6 (territorializzare gli obiettivi di politica entro la definizione di “aree target” è stata una
tendenza che ha sempre caratterizzato la politica di coesione). Con il superamento della zonizzazione, cadono i meccanismi che avevano portato ad una distinzione dei territori tra aree svantaggiate e territori competitivi, con una stigmatizzazione dei primi.
Il nuovo programma regionale per la spesa dei fondi strutturali appare fortemente ancorato, sul piano culturale, alla cornice della nuova regolazione comunitaria. Sensibilmente agli orientamenti strategici della Commissione per la politica di coesione 2007-13, e alle priorità fissate con la Strategia di Lisbona, il POR Veneto punta ad una profonda revisione dei tradizionali modelli di sviluppo regionali. In particolare, l’enfasi sulla
consonanza tra i temi-guida del POR e il corpo di obiettivi e principi-base dell’UE appare finalizzata alla costruzione di retoriche di giustificazione e di legittimazione, che avvallino l’urgenza di una svolta concreta
verso la sostenibilità dello sviluppo, la ricerca di strategie di innovazione e di innalzamento complessivo
della qualità della produzione, la valorizzazione delle risorse umane e ambientali. Sono, queste, le premesse
per un discorso pubblico sui valori della sostenibilità, di cui la Regione si fa attore, con strategie esplicite,
incorporando “l’obiettivo di sostenibilità dello sviluppo” nella sua agenda politico-programmatica (in altri
termini la sostenibilità viene presentata come la vera posta in gioco). Da primi segnali, in questa fase è piuttosto l’implementazione locale a destare perplessità per la rapida riorganizzazione di logiche di interesse territoriale particolare, legate alla mediazione dei partiti, altamente discrezionali, o per il riemergere del ruolo
di singoli esponenti politici, anche nella veste di consiglieri che investono personalmente nella direzione
della politica di coesione (anche per competenze professionali, esperienze biografiche e curriculari) e “che
colgono nei fondi strutturali una chance di carriera aggregando, non sempre con successo, intorno a sé delle
reti di rappresentanza che associano soggetti diversi del territorio regionale in un ruolo di imprenditoriale”
(Lippi, in Fargion, Morlino, Profeti, 2006, 209).
Interessante notare come i dati statistici e le misurazioni di tipo quantitativo vengano riutilizzati per produrre
una rappresentazione del territorio adeguata e credibile rispetto alla svolta verso la sostenibilità . Quelli che
erano le zone prima svantaggiate (aree obiettivo 2 e in sostegno transitorio nel DocUP 2000-6), perché al di
fuori dei trend di sviluppo economico delle aree metropolitane e delle zone centrali della Regione, vengono
adesso rappresentate per il differenziale positive che presentano. Vengono strategicamente valorizzate la relativamente bassa densità di popolazione e la minore congestione delle aree produttive, residenziali, delle arterie del traffico; la presenza di risorse-parco e di zone ambientalmente rilevanti; la minore pressione di fenomeni di marginalità e degrado sociale, di immigrazione clandestina e, in generale, la migliore qualità di
vita. Le aree rurali-urbanizzate vengono inquadrate come cerniere interessanti 105. Inoltre, viene dedicata
maggiore attenzione alle città e alla definizione di una politica per le città, con richiami espliciti alla visione
elaborata nell’ambito del PTRC. Così, si ipotizzano azioni per il potenziamento del ruolo strategico delle
centralità urbane, con interventi per la riqualificazione delle periferie, la valorizzazione degli spazi collettivi,
il recupero della dimensione dell’area rurale-urbana del Veneto (“molto spesso, luoghi senza qualità”), la
“capitalizzazione” della città pubblica, nei termini della maggiore capacità di soddisfare le domande di servizi, anche in termini qualitativi, ma anche della valorizzazione dei luoghi significativi e rappresentativi della città stessa (ad esempio, “le porte delle città”). Attenzione specifica è dedicata inoltre al sistema di Venezia-Porto Marghera e al nodo di Mestre.
Gli investimenti per le imprese vengono collocate nella cornice delle misure per la “innovazione ed economia della conoscenza”, con uno spostamento di interesse dagli investimenti a carattere materiale, infrastrutturale, alla cultura imprenditoriale: “l’innovazione non può essere confinata al solo ambito delle dotazioni
tecnologiche, poiché esistono diversi casi in cui la fonte decisiva di innovazione si è situata nella capacità
imprenditoriale di combinare e adattare in modo originale soluzioni esistenti per nuovi usi (…) Per molte
“categorie di innovazione, legate si all’input che all’output di innovazione, il Veneto registra indici il cui valore è basso” (POR Veneto, 2007, 31).
105
Per la classificazione delle aree, viene utilizzato il sistema di classificazione OCSE, che distingue tra: aree rurali,
significativamente rurali, rurali-urbanizzate, urbanizzate , comuni urbani.
La produzione di energia, in particolare da fonti rinnovabili, la diminuzione dei costi e dei carichi ambientali
costituiscono altri assi rilevanti di intervento, assieme ad un rinnovato interesse per la
Cooperazione interregionale e transregionale, nell’ipotesi che il “Veneto possa assumere un ruolo di coautore nella politica internazionale italiana ed europea”.
Allegato
Il territorio del Veneto (106)
Nei paragrafi che seguono sono riportati dati di tipo statistico, ove possibile aggiornati, sulle dinamiche socio-economiche e sugli andamenti demografici (Fonti: Elaborazioni Regione Veneto; Istat). Per alcuni aspetti, tuttavia, si è ritenuto fosse importante riportare quei dati statistici che sono stati assunti a riferimento per
la elaborazione del DocUP Veneto 2000-6 e, successivamente, per la formulazione del Documento Strategico Regionale e del POR 2007-2013.
Dinamiche demografiche.
Il Veneto ha una superficie di 18.399 kmq, pari al 6,1% dell’intero territorio nazionale. È caratterizzato da
una morfologia molto varia: montagna, collina, ampia zona pianeggiante e zona costiera. Comprende un totale di 581 comuni e, alla fine del 2006, conta una popolazione di 4.773.554 abitanti, per la quale si colloca
al 5° posto tra le regioni italiane 107. La densità abitativa media regionale è molto elevata rispetto alla media
nazionale (circa 259 ab/kmq) e anche rispetto alla maggior parte delle aree che in Europa presentano caratteristiche simili, ma si osservano notevoli discontinuità tra aree: in particolare, la provincia di Belluno (dove
una parte del territorio è montuosa e, quindi, scarsamente popolata) ha una densità abitativa di 58 ab./kmq e
la provincia di Rovigo (che comprende il grande delta del Po e molte aree ancora agricole) ha una densità
abitativa di 137 ab./kmq, mentre la provincia di Padova ad esempio ha una densità di 416 ab./kmq. Complessivamente la crescita della popolazione negli ultimi 40 anni è stata di oltre 900.000 abitanti, con incrementi
medi annui non paragonabili a quelli di altre Regioni del Nord-Est ed una forte concentrazione nel cuore
metropolitano della regione. Nel 1961 i residenti erano circa 3.850.000, nel 1981 circa 4.200.000, nel 2001
circa 4.500.000. Nell’ultimo quinquennio, in particolare, il tasso di crescita è risultato addirittura triplicato;
gli specialisti del settore compongono scenari che da qui al 2020 prevedono un ulteriore sensibile aumento,
dovuto in larga misura al numero crescente di cittadini immigrati o nati da genitori immigrati.
Nei grafici e negli studi del DocUP 2000-6 (che fanno riferimento a dati ed elaborazioni precedenti al 2000),
viene mostrato l’andamento piuttosto differenziato della popolazione nelle varie Province, con un lieve incremento complessivo del numero di abitanti, registrato soprattutto nelle Province di Vicenza, Treviso e Verona, che bilancia il decremento registrato invece nelle Province di Rovigo, Belluno e Venezia. In queste
stesse zone si concentrano gli indici più alti di vecchiaia, a causa della storia passata di emigrazione per ragioni di ricerca di occupazione (soprattutto negli anni del dopoguerra e delle esondazioni del Po, che provocarono una vera e propria emorragia di popolazione, fino al dimezzamento, in molti paesi) e di fattori piuttosto recenti di declino e di difficile congiuntura economica (per la crisi di alcuni settori come il tessile, il calzaturiero, i mobilifici e la più generale situazione di sofferenza dell’agricoltura). Il movimento anagrafico
del 2006 mostra un andamento positivo per tutti e 7 i capoluoghi, se pure ancora con delle differenze significative.
La maggior parte dei comuni del Veneto conta una popolazione inferiore ai 5.000 ab., e quelli con meno di
1000 ab. sono assai numerosi. La popolazione veneta si concentra nelle aree urbane che si dilatano in tutto il
territorio circostante ad ampio raggio (i comuni di prima cintura e quelli di seconda cintura hanno oramai lo
stesso numero di abitanti), con la dissoluzione della struttura di tipo agricolo che caratterizzava il Veneto
fino agli anni ’70 e la formazione di un sistema insediativo e produttivo denso. In particolare, si distinguono
l’area tra Venezia e Padova, che presenta una completa continuità urbana, l’area estesa che s’innerva a partire dai centri di Vicenza e di Treviso e l’irradiazione della città di Verona verso i comuni contermini, a formare un sistema urbano-rurale (visualizzazioni interessanti di questi fenomeni si trovano nelle tavole di analisi del PTRC, Regione Veneto).
La presenza straniera nel Veneto è molto elevata e presenta livelli costanti di crescita. Dai dati relativi riportati nel DocUP 2000-6, il Veneto risultava essere la quarta regione italiana per numero di permessi rilasciati;
tuttavia, in quegli anni si disponeva soltanto di stime approssimative del fenomeno, che facevano riferimen106
Alla ricognizione ed elaborazione dei dati contenuti nel presente allegato ha collaborato la dott.ssa Mara Tognon.
107
La popolazione è così distribuita: 3.636.197 ab. in pianura; 789.022 ab. in collina; 348.335 ab. in montagna (dati al
2006). Le province di Vicenza e di Padova sono quelle che contano il maggior numero di comuni (rispettivamente, 121
e 104 comuni); la provincia più popolosa è Padova, seguita da Verona e da Treviso.
167
to all’aumento delle iscrizioni registrato nel 1996, di conseguenza alla legge Dini e alla regolarizzazione di
molti immigrati (per quanto, nonostante l’aumento delle regolarizzazioni negli anni seguenti, il numero di
clandestini sia rimasto elevato). Alla fine del 2005 la percentuale di cittadini stranieri regolarmente residenti
risultava essere del 5,7% (contro il 3,9% della media nazionale), ovvero più che raddoppiata rispetto al
2001. In Veneto sono presenti circa 190 nazionalità, ma quasi la metà degli stranieri è composta da romeni,
marocchini, albanesi, serbi e cinesi. L’allargamento dell’UE con l’inserimento di nuovi 10 Stati Membri e, a
livello nazionale, la “regolarizzazione” avvenuta a seguito delle leggi del 2002 hanno indotto un aumento di
presenze (censite) della popolazione straniera, in particolare di soggiornanti regolari originari dell’Europa
orientale. Il 6.5% degli stranieri provenienti dall’Est Europa che sono stati regolarizzati in Italia tra il 2002 e
il 2003 si sono concentrati proprio in Veneto. Le Province si maggiore confluenza sono state quelle di Vicenza, Verona, Treviso e Padova, in minore misura Venezia, Belluno e Rovigo.
Nelle zone obiettivo 2 si ha una minore concentrazione di popolazione straniera: quasi la metà degli immigrati ha inoltre un’età tra i 15 e i 44 anni. Attualmente oltre il 60% della popolazione straniera residente
ha una età compresa tra i 15 e i 44 anni; il 21%, inoltre, ha meno di 15 anni (si tratta di percentuali ancor più
alte di quelle medie nazionali). Questo fattore è particolarmente rilevante in quanto, da un lato, contribuisce
allo svecchiamento della popolazione del Veneto (che ciò nonostante nel complesso risulta tra le regioni più
vecchie d’Italia); dall’altro, sia garantisce un mercato di manodopera per alcuni settori dell’economia, sia costituisce una nuova domanda di servizi (soprattutto socio-sanitari).
Per quanto riguarda l’istruzione, il Veneto risulta (dati al 2006) avere percentuali di laureati e di possessori di diploma superiore minori a quelle nazionali; dal 2001 al 2006, inoltre, la percentuale di iscritti all’università, tra i giovani tra i 19-26 anni, è aumentata di tre punti e mezzo, contro i 5 punti dell’incremento medio nazionale. Più alta invece in Veneto la percentuale di coloro i quali posseggono qualifica senza accesso.
Situazione economico-produttiva, mercato del lavoro.
Il Veneto è la regione italiana che negli ultimi trent’anni è passata da una condizione di povertà (fino al
1970 il reddito medio dei suoi abitanti era inferiore alla media nazionale italiana) ai vertici europei per ricchezza diffusa. Dato lo schema di urbanizzazione diffusa, i tempi del pendolarismo per l’accesso ai servizi e
alle funzioni essenziali (scuola, lavoro, centri commerciali e del divertimento, ecc.) sono relativamente contenuti. I dati sulla mobilità delle persone (anno 2006) mostrano una distanza media degli spostamenti di 11.8
km, con una durata media di 20.5 min.; dal censimento del 2001 si osserva una variazione percentuale, rispetto al 1991, degli spostamenti per studio (-4,9%) e un aumento degli spostamenti per lavoro (+ 5,8%). Per
quanto riguarda il trasporto merci su strada, da (origine) e per (destinazione) il Veneto, si registra un progressivo incremento annuo, per percentuali di crescita considerevoli, con il conseguente aggravio delle condizioni di congestione delle linee di traffico principali. Coerentemente con le descrizioni della città diffusa,
la più alta concentrazione di veicoli si registra sulle strade principali che attraversano (per valori decrescenti) le province di Padova, Venezia, Vicenza, Treviso e Verona. Significativamente minore la circolazione
nelle province di Rovigo e di Belluno. Un enorme aumento in valori percentuali tra il 2001 e il 2006 si registra rispetto al traffico negli aeroporti (Venezia, Verona, Treviso), sia rispetto alle merci che ai passeggeri.
Quanto alla consistenza delle aree produttive per Provincia, indicativamente a Verona vi è la maggiore concentrazione, con 2.780 aree per circa 86.0000.000mq di superficie; segue Vicenza, con 2.318 aree e
75.000.000mq; Treviso con 2.032 aree e 74.000.000mq; Padova, con 2.428 aree e 70.000.00mq; Venezia,
con 540 aree e 55.000.000mq; Rovigo con 1.053 aree e 42.000.000mq; Belluno, con 352 aree e
19.000.000mq di superficie. A queste superfici devono essere aggiunti gli edifici localizzati in zona impropria. Va inoltre osservato che si tratta di cifre destinate ad aumentare, per le previsioni di espansione contenute nei PRG comunali e approvate negli ultimi anni. Quanto alla concentrazione, la densità è molto alta, rispetto alla media regionale, in Provincia di Venezia e in Provincia di Belluno, denotando una specificità delle politiche di insediamento industriale in queste aree.
I dati disponibili sul PIL (2004) mostrano che il prodotto interno lordo per abitante (in parità di potere d’acquisto) è superiore in Veneto, rispetto alla media italiana di circa il 4%, e rispetto alla media UE25 di circa
il 5%. In realtà, l’economia veneta è uscita da un calo: nel 2004, infatti, ha registrato segnali di ripresa, frutto anche degli investimenti fatti nel 2003, ma l’incremento positivo si registra per variazioni percentuali minori alla media nazionale e soprattutto alla media UE25 (dati 2003-4). Secondo i dati forniti dal RAE, nel
Veneto sarebbero le imprese di media dimensione a trainare la ripresa, mentre le imprese minori mantengo168
no un andamento stabile e le grandi imprese mostrano una dinamica convincente grazie ad elevati aumenti
del fatturato. Complessivamente, il numero delle imprese tra il 2003 e il 2006 è aumentato. Rispetto alle
quote di imprese venete per settore economico (dati al 2006), i maggiori valori percentuali si trovano, in ordine decrescente, nel settore commercio, agricoltura e pesca, costruzioni, attività manifatturiere, immobiliari
ed informatica. Dal punto di vista settoriale le produzioni che registrano una crescita più elevata (dati al
2004) sono quelle di macchine elettriche ed elettroniche, metalli e prodotti in metallo e gomma-plastica;
mentre i settori del tessile-abbigliamento-calzatura continuano a registrare un calo se pur contenuto rispetto
agli anni precedenti. In generale, rispetto al valore aggiunto delle produzioni, si osservano differenze notevoli tra settori di attività economica: spicca il settore servizi, con ben al di sotto l’industria, e l’agricoltura su
valori minimi. Interessanti le differenze, in valori percentuali, delle esportazioni per provincia (dati al 2006):
Vicenza ha di gran lunga la maggiore quota, seguita da Treviso, Verona, Padova, Venezia, Belluno, Rovigo.
I principali mercati sono la Germania, la Francia, gli USA, seguiti da molti altri paesi europei.
Per quanto concerne il settore terziario, il turismo ha segnalato ottimi margini di crescita (passando dai
circa 51 milioni di presenze del 1997 ai 56 milioni di presenze del 2005, agli oltre 59 milioni del 2006) al
punto che il Veneto è diventata la prima regione turistica d’Italia, confermando le “città d’arte” quali poli
d'attrazione principali, ma offrendo un repertorio assai diversificato (tra soggiorni montani e marini, luoghi
termali, percorsi enogastronomici, beni culturali e monumentali –solo le ville venete sono 3.477–, ecc.) . Gli
incrementi riguardano arrivi e presenze, fruizione delle strutture alberghiere e extralberghiere (che si presentano abbastanza ben distribuite nel territorio regionale), sia da parte di turisti italiani che stranieri. L’assetto
organizzativo per la gestione del settore è stato profondamente modificato dalla Legge Regionale 33/2002
“testo unico in materia di Turismo”.
Il mercato del lavoro si presenta nel complesso stabile, seppur vi siano delle riduzioni degli occupati nei
settori di produzione in crisi. Il tasso di occupazione è in Veneto maggiore di circa il 7%, rispetto a quello
medio in Italia, e negli ultimi anni è cresciuto con un andamento simile a quello italiano. Il DocUP 2000-6
restituiva il quadro di un forte squilibrio tra occupazione maschile e femminile, anche se questa registrava un
lieve aumento tra il ’93 e il ’98 ((Figura 6) e, in generale, un fenomeno di disoccupazione femminile presente in tutto il territorio.
Attualmente (dati al 2006) i tassi di disoccupazione più elevati si presentano nella Provincia di Venezia, seguita da Rovigo, Padova, Verona, mentre si registrano aumenti in tutti i settori dell’occupazione extracomunitaria. Va infine ricordato che in Veneto l’utilizzo della modalità di lavoro part-time si presenta nella regione con un’alta percentuale, circa 11,1% del totale. Analizzando la struttura degli occupati per settore di attività (Istat, 2006) in Veneto settori di rilievo sono quello delle trasformazioni industriali, dei servizi, del
commercio (in questi ultimi due l’occupazione femminile raggiunge indici elevati). Nel decennio tra il 1996
e il 2006, è calato notevolmente il numero di occupati nel settore agricoltura, mentre è aumentato quello nei
settori industria e costruzioni (nonostante le sofferenze nel settore dell’industria tessile, abbigliamento, calzaturiero) e soprattutto dei servizi, particolarmente in ambiti di attività commerciale (prodotti alimentari, al
dettaglio e non, alberghi, ristoranti e servizi turistici, servizi avanzati alle imprese).
Distretti produttivi del Veneto. Scenari di sviluppo.
La Legge Regionale 8/2003 “Disciplina dei distretti produttivi ed interventi di politica industriale locale” ha
come principio-guida “l’auto-promozione” del distretto108; gli altri aspetti caratterizzanti, rispetto a molte
delle esperienze italiane e d europee, sono il non richiedere necessariamente la contiguità geografica delle
aree interessate e l’estendere la nozione di distretto anche a realtà non manifatturiere. Si definiscono distretti
produttivi le aree territoriali caratterizzate da elevata concentrazione di piccole imprese (almeno 80, comprendenti almeno 250 addetti), con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e la popolazione residente nonché alla specializzazione produttiva dell’insieme delle imprese.
108
Secondo la legislazione vigente, le Regioni avevano attribuite competenze in materia di politiche per i distretti industriali; alle Regioni non spettava solo la definizione degli ambiti territoriali, ma anche la definizione delle risorse e delle
iniziative per progetti di sviluppo a sostegno delle piccole medie imprese. La metodologia utilizzata per la loro individuazione faceva riferimento ai dati forniti dall’Istat e dunque secondo una logica top-down e completamente indipendente da analisi approfondite sul territorio.
169
La Legge Regionale per i distretti produttivi è stata promossa nella cornice della formazione di nuovi soggetti politici (come l’Euroregione) e comunque di economie macroregionali, ove l’aggregazione d’impresa e
lo sviluppo di reti lunghe sono elementi essenziali per la competitività sulla scena internazionale. In particolare, la creazione di alleanze all’interno dei settori produttivi è favorita dal Sistema dei Patti per lo Sviluppo
dei Distretti. I patti sono programmi triennali di attività nei quali le imprese, gli enti e le istituzioni locali, le
Camere di Commercio e le Associazioni di Categoria, il mondo della finanza locale ma soprattutto gli imprenditori veneti si uniscono per realizzare progetti comuni di innovazione tecnologica, ricerca e sviluppo,
marketing e promozione del prodotto, penetrazione nei mercati internazionali, specializzazione dei processi
produttivi e delle maestranze, creazione di reti ed iniziative commerciali109. Con il bando del 2003 sono stati
riconosciuti e finanziati (per un totale di 17 milioni di Euro) 28 distretti produttivi, con il bando del 2004 ne
sono stati riconosciuti e finanziati 12 (per un totale di 17 milioni di Euro). Sulla base delle relative peculiarità produttive i 40 distretti vengono aggregati in 11 macroaree;110 l’attribuzione del distretto alla Provincia
viene data sulla base della Camera di Commercio di riferimento del Distretto in cui si concentra il maggior
numero di imprese sottoscrittici il relativo Patto.
Così distinguiamo le macroaree (dati al 2005):
Turismo (Distretto termale euganeo, PD; Distretto veneto delle attrezzature alberghiere, TV; Distretto turistico del Garda, VR; Distretto turistico delle Province di Venezia, Rovigo, Treviso e Vicenza, VE; Distretto
Veneto dei Beni Culturali, VE)
Meccanica (Distretto dell’occhiale, BL; Packaging, VI; Distretto veneto della giostra, RO; Venetoclima –
Distretto veneto della termomeccanica, VR; Distretto veneto del condizionamento e della refrigerazione industriale, PD, Distretto industriale della meccanica e Subfornitura del Veneto, PD, Distretto della Meccatronica, VI)
Tessile (VeronaProntoModa Distretto veneto dell’abbigliamento, VR; Distretto Veneto Sistema Moda, TV)
Chimica (Distretto Regionale della Gomma e delle Materie Plastiche, TV)
Logistica (Distretto logistico veronese, VR; Distretto padovano della logistica, PD; Portualità, intermobilità
e logistica nelle Province di Venezia e Treviso, VE; Distretto interprovinciale della cantieristica nautica veneziana, VE)
Trasformazione Agroalimentare (Distretto del prosecco di Conegliano-Valdobbiadene, TV; Sviluppo Agroittico della Provincia di Venezia, VE; Patto per lo sviluppo del settore ittico, RO; Distretto veneto Lattiero
Caseario, TV; Distretto Veneto del Vino, VR; Distretto Ortofrutticolo veneto, VR)
Produttivo Mobili (Distretto del mobile d’arte di Bassano, VI; Distretto trevigiano del legno arredo, TV; Distretto del mobile classico della Pianura Veneta, VR)
Pellame e Scarpe (Distretto calzaturiere veronese, VR; Sviluppo del distretto calzaturiero veneto, VE; Distretto dello sportsystem di Montebelluna, TV, Distretto vicentino della concia, VI)
Tecnologie (Distretto del grafico-cartaio veneto, VR; Distretto veneto dell’informatica e del tecnologico
avanzato, VR)
Oggettistica (Sviluppo del distretto del vetro artistico di Murano, VE, distretto produttivo argentieri del Veneto, PD; Distretto della ceramica-terracotta, VI; Distretto orafo, VI)
Edilizia (Distretto trevigiano della bioedilizia, TV; Distretto del marmo e delle pietre del Veneto, VR).
Appartengono alle aree obiettivo 2 il Patto per lo sviluppo del settore ittico, RO; Sviluppo Agro-ittico
della Provincia di Venezia, VE; il Distretto dell’occhiale, BL; Distretto veneto della giostra RO; e, in parte,
il Patto di sviluppo per il distretto del mobile classico della Pianura e i Patti di sviluppo per la logistica.
109
Una volta ottenuto il riconoscimento formale dalla Regione, ogni distretto deve nominare un proprio rappresentante
che svolge un ruolo molto importante per la politica regionale. Tutti i rappresentanti infatti prendono parte alla Consulta
dei Distretti, organo consultivo che discute sia in riferimento alla politica regionale per lo sviluppo locale che le priorità
in materia di investimenti.
110
Non sancite dalla legge, sono state identificate come realtà produttive regionali significative: il “vetro piano”, che ha
il suo fulcro a Venezia; la “logistica” a Rovigo, mediante la realizzazione dell’interporto; la “chimica” a Venezia, sul
presupposto dell’Accordo di Programma Quadro disciplinato dal DM 12/02/1999 (e successive integrazioni).
170
Quanto agli scenari di sviluppo, in un orizzonte di breve e medio termine, si prevede un forte ridimensionamento del settore manifatturiero (entro i prossimi 5-10 anni è ipotizzabile una perdita dal 30% al 50% delle
imprese); i settori abbigliamento, calzaturiero, oreficeria, prodotti per la casa e elettrodomestici registrano
segnali di crisi; l’occhialeria ha già perso il 25% delle imprese e si prevede questo trend nei prossimi anni. A
fronte di ciò, la delocalizzazione e l’internazionalizza-zione appaiono sempre più una vitale necessità per le
imprese. I settori strategici individuati per gli investimenti nel prossimo decennio sono: nanotecnologie e
biotecnologie, tendenzialmente intersettoriali e potenziali “motori” del sistema produttivo nel suo complesso.
Secondo elaborazioni di Sviluppo Italia Veneto, gli epicentri di eccellenza del digitale nanotech e biotech si
concentreranno nelle aree di Venezia-Padova-Treviso; Agroalimentare e Ittico soprattutto nella Provincia di
Rovigo; Meccatronica nel veronese; Meccatronica-web tourism e energetico nell’area del bellunese. In questa direzione un progetto importante della Regione Veneto è: “Veneto Net”, ovvero, la realizzazione di reti
di sinergie, collaborazioni ed interoperabilità, attraverso la progettazione di clusters (aggregazioni fisiche)
dove c’è maggiore concentrazione e il collegamento in reti (fisiche o virtuali) i centri di formazione, di ricerca, di produzione del territorio regionale.
171
Toscana, territori plurali e nodi critici
di Massimo Bressan, Armando Dei, David Fanfani
Introduzione
Provare a leggere, comprendere ed interpretare le forme insediative del territorio toscano richiede un
esercizio di integrazione di modi e strumenti di analisi riferiti sia alla dimensione sociale ed economica che a quella più strettamente fisica degli ambienti insediativi. Dal diverso accento dato a queste due polarità dell’analisi scaturiscono immagini relativamente diversificate che sono peraltro ben
rappresentate nel quadro dei diversi studi che si sono occupati di analizzare le forme dello sviluppo
territoriale ed economico in Toscana nel secondo dopoguerra111. Si tratta fra l’altro di una serie di
immagini legate alla programmazione e gestione delle dinamiche dello sviluppo che, per almeno
trent’anni ha strutturato un particolare modello territoriale ed economico di tipo industriale.
Il nostro contributo cerca di descrivere come i tentativi di interpretazione abbiano tenuto in considerazione le peculiarità territoriali, le modalità di interazione fra queste, i percorsi di sviluppo locale.
Ne deriva una lettura evolutiva delle rappresentazioni ed interpretazioni territoriali che cerca di cogliere gli aspetti rilevanti dei processi insediativi sia attraverso le fonti censuarie che tramite i vari
documenti regionali che hanno analizzato i processi di trasformazione. In secondo luogo la parte interpretativa del contributo viene svolta attraverso la ricostruzione di quelle che sono, alla luce delle
dinamiche di trasformazioni più recenti, le strategie progettuali o le “visioni” che ai livelli di governo di area vasta (documenti nazionali e regionali di programmazione e pianificazione fisica) sono
attualmente prodotti o in via di definizione. Questo evidenziando anche limiti e criticità che possono costituire in prospettiva un serio pregiudizio nel rafforzamento del sistema insediativo regionale.
Il rapporto fra le diverse letture del territorio regionale, dinamiche di trasformazione in atto, azioni
progettuali e di sviluppo locale viene poi colto in relazione a quelle che sono state e sono le azioni e
gli strumenti orientati in maniera “esplicita” alle politiche urbane e sperimentati in Toscana in un
contesto dove però si evidenzia una certa difficoltà a riconoscere la rilevanza del tema della governance urbana ai diversi livelli come strumento per favorire competitività, coesione ed innovazione
del sistema urbano regionale.
Il territorio
L’industrializzazione leggera e la fase della polarizzazione
La prima interpretazione rilevante del processo di sviluppo territoriale post bellico della Toscana
viene prodotta da Giacomo Becattini che, per conto dell’IRPET, sviluppa intorno alla metà degli
anni ’70 una ricerca sulla forma dello sviluppo toscano che, coniugando dimensione socio economica e territoriale, individua la nota immagine delle “quattro toscane” costituita dalla campagna urbanizzata, dalle aree turistico industriali costiere, dalle aree urbane e la campagna (Becattini, 1975).
L’interesse di questa prima elaborazione, costituita fra l’altro in stretta interazione e supporto alle
politiche della recentemente costituita istituzione regionale, sta nel fatto che per la prima volta, interpretando la relazione fra forme dello sviluppo economico regionale e modello territoriale, rende
conto della peculiarità e articolazione del modello toscano di sviluppo individuando specifiche tipo111
Per un quadro relativamente sintetico ma esaustivo di tali ricerche si veda: Innocenti
“Toscana”, in Clementi A. Dematteis G., P.C. Palermo (1997); e Fanfani D. 1999.
172
R.,
1996,
a
cura
di,
logie –in particolare la campagna urbanizzata e le aree turistico industriali- che collocano la crescita
industriale in stretta relazione con i caratteri fisici e di capitale sociale del territorio.
L’analisi di Becattini evidenzia, forse per la prima volta, e con una forza probabilmente non riscontrabile in successivi tentativi, oltre che la peculiarità del modello di sviluppo toscano, la costituitiva
“policentricità” del territorio toscano non riconducibile ai più classici modelli interpretativi “centro
periferia” della tradizione della analisi economica e senz’altro più complesso rispetto ad una lettura
orientata a cogliere soprattutto il processo di metropolizzazione in atto nella toscana centrale, anticipando in una certa misura anche il modello interpretativo della “terza italia” di Bagnasco.
Sicuramente uno degli elementi di lettura più interessanti di questo modello è rappresentato dalla
“campagna urbanizzata” tramite la quale viene colto uno specifico modo e forma territoriale di “accoppiamento” fra organizzazione produttiva – in gran parte riconducibile alle forme della industrializzazione leggera e dei distretti - ed articolazione e forma dell’insediamento, legato in gran parte
alla grana fine della maglia insediativa storica e alla sua relazione con le forme della organizzazione
sociale mezzadrile.
Le altre aree - turistico industriali, campagna ed aree urbane - troveranno modalità di articolazione
diverse declinando il rapporto città-campagna secondo forme alternativamente gerarchiche o di
stretta integrazione (si pensi per esempio alle aree della Toscana del medio valdarno e della costa
settentrionale e alle polarità della Toscana centro meridionale, Siena, Arezzo, Grosseto).
Anche negli anni che seguono la pubblicazione del lavoro di Becattini l’IRPET sviluppa ricerche
orientate a cogliere la articolazione delle forme territoriali e socio economiche dello sviluppo toscano, in un momento in cui lo sviluppo stesso pare evidenziare i segni del raggiungimento di una “maturità precoce” (Bianchi G., 1986) ove la crescita dimensionale industriale sembra non oltrepassare
che in rari casi la soglia della impresa medio grande, mentre la produzione di valore individua un
crescente contributo del settore dei servizi. Si colloca in questo contesto la elaborazione sviluppata
da Giuliano Bianchi che articola maggiormente, rispetto alle aree tipologiche di Becattini, le forme
territoriali del sistema regionale Toscano (Bianchi 1986). Seppure ancora fortemente legata ad indicatori ed elementi costitutivi di carattere prevalentemente socio economico, l’immagine della Toscana prodotta da Bianchi sembra rendere meglio conto della rilevanza esercitata dalla pluralità di
diversi contesti locali nel favorire e generare specifiche declinazioni dei percorsi di sviluppo. Bianchi in particolare evidenzia l’emergere – oltre che dell’area metropolitana policentrica della Toscana
centrale - anche di un insieme di sistemi urbani che specificano meglio le partizioni delle “quatto toscane”, in particolare il sistema Lucca-Versilia, quello della Valdelsa, del Valdarno superiore e della
Val di Cornia a confine fra le province di Livorno e Grosseto.
In ogni caso il tema del territorio aperto –in particolare collinare e montano- rimane anche nella rappresentazione di Bianchi un tema insoluto, un ambito sostanzialmente residuale rispetto ai più dinamici e centrali ambiti urbani e metropolitani.
Il rafforzamento del policentrismo regionale e l’emergere delle aree “periferiche”
Fra la metà degli anni ’80 e i primi anno ’90 il paradigma delle rappresentazioni delle forme insediative e delle immagini connesse relative al territorio regionale toscano sembra ulteriormente arricchirsi e complessificarsi in relazione a quello cha appare un costante processo di consolidamento socio-economico e anche demografico dei centri e dei comuni minori accompagnato da forme relativamente nuove di valorizzazione territoriale legate in particolare ai valori ambientali e storico culturali.
Fra i vari contributi prodotti in quel periodo vale la pena richiamare quello di de Luca che, mantenendo sullo sfondo il frame delle quattro toscane, lo articola in alcuni sistemi che costituiranno il
punto di riferimento per la costruzione delle politiche regionali di pianificazione e programmazione
in corso in quegli anni: zone interne, costa settentrionale, bacino dell’Arno, aree metropolitane (Firenze-Prato-Pistoia e Pisa-Livorno), sistema turistico meridionale (de Luca 1991.
173
Successivamente un lavoro che –con particolare accentuazione degli aspetti socio economici e di interdipendenza fra i centri- sviluppa un quadro aggiornato al 1991 è quello realizzato per l’IRPET
(Vettoretto 1994). Le morfologie sociali che emergono consentono una interpretazione delle relazioni territoriali regionali che evidenzia il rafforzarsi di una rete relazionale policentrica e di complementarità fra i vari centri. Tale interpretazione è peraltro confermata da alcuni lavori volti allo studio dei processi di sub-urbanizzazione sull’intero territorio nazionale e che evidenziano – per la Toscana – l’accresciuto ruolo svolto dai comuni di corona metropolitana e posti al di sotto di una certa
soglia dimensionale nel costituire i punti di riferimento non solo per lo spill over dei centri capoluogo, ma anche per la allocazione di attività economiche e produttive. Peculiare del lavoro di Vettoretto è l’intento di descrivere in maniera specifica le diversità del fenomeno urbano nel territorio regionale connesse alle diverse morfologie sociali.
Questo consente di specificare i contenuti urbani dei sistemi individuati da De Luca cogliendo la
loro parziale sovrapposizione in ragione dei diversi livelli di osservazione ed in particolare evidenziando:
- quattro diversi sistemi urbani nel bacino dell’Arno (Lucca-Altopascio-Nievole, Valdarno inferiore, superiore, Aretino);
- due sistemi urbano-rurali incentrati su Grosseto e Siena;
- un insieme di città compatte, alcune legate al modello della piccola impresa (Prato, Pistoia, Lucca, Arezzo) altre più caratterizzate da specifiche forme di centralità gerarchica (Pisa. Livorno, Firenze, Siena, Grosseto) ;
- una distinzione all’interno delle aree dello sviluppo diffuso individuando quelle di tipo tradizionale (Valdarno, Valdelsa, Valdinievole, bacino del Serchio) da una con caratteristiche di tipo metropolitano collocata nell’area della Toscana centrale con l’esclusione dei suoi fuochi urbani.
L’indagine di Vettoretto evidenzia in sostanza, nel contesto di un evidente policentrismo delle forme insediative, una forte diversificazione e pluralità esplicativa delle dinamiche urbane all’interno
di sistemi territoriali che si era soliti osservare attraverso il paradigma della omogeneità e richiamando così anche per alcune aree della Toscana l’immagine della “scomposizione metropolitana”
(Dematteis 1988).
La stessa ricerca Itaten sulle forme del territorio italiano tende al riconoscimento di una pluralità di
“ambienti insediativi” che arricchisce ulteriormente il quadro abbozzato dalle ricerche dell’IRPET
attraverso l’incrocio di elementi di carattere geografico, ambientale ed economico; nella sostanza,
evidenzia la lunga durata di alcune strutture territoriali che persistono malgrado i processi di omologazione trainati dal modello della industrializzazione leggera.
Il modello proposto dalla ricerca Itaten rileva e tiene conto, in consonanza con alcuni aspetti emersi
anche dalla ricerca di Vettoretto, dell’emergere e rafforzarsi di un processo di valorizzazione delle
aree considerate marginali e periferiche in altre ricerche – la collina interna, la montagna, la costa
meridionale - e che si esprime attraverso l’attivazione di iniziative economiche e di impresa legate
al turismo culturale ed ambientale, alle produzioni agroambientali tipiche e di qualità, ad una diversa cultura dell’abitare e alla tenuta dei legami di appartenenza fra luoghi ed abitanti anche nel caso
questi ultimi fossero andati a lavorare o risiedere in aree urbane centrali. La dinamicità ed il ruolo
economicamente attivo di questi contesti è peraltro confermata da alcune più recenti ricerche di carattere prevalentemente economico orientate a cogliere sotto il profilo qualitativo la base economica
e i saldi contabili interno-esterno (commercio, addetti, residenti, redditi, consumi) dei diversi sistemi economici locali della Toscana e, di conseguenza, a analizzare i vari trade off fra questi e con
l’esterno del sistema (Bacci, cit.) regionale.
In ogni caso anche tramite queste ultime ricerche si evidenzia una dinamicità economica che, seppure relativamente dipendente dalla capacità industriale, di reddito e di spesa dei principali sistemi ed
aree urbane della regione costituisce comunque un quadro di aree non più marginali ma legate ad un
modello di sviluppo integrato ove ad una buona dinamica del settore turistico e primario si accompagna una significativa crescita nel settore dei servizi all’impresa e alla persona.
174
La descrizione delle dinamiche : la struttura insediativa e l’armatura urbana
L’evoluzione ed i dati più recenti confermano gli aspetti evidenziati. Le dinamiche demografiche
sviluppatesi fra il 1991 ed il 1995 confermano il consolidarsi di un processo di “diffusione concentrata” intorno ad alcune principali direttrici strutturate da un sistema policentrico di polarità urbane.
(cfr. Regione Toscana 1998) che configura un sistema urbano policentrico e a debole gerarchizzazione. La suburbanizzazione (dinamiche più lente o negative del core rispetto ai comuni limitrofi)
interessa alcuni ambiti minori del bacino idrografico dell’Arno - dalla val di Sieve fino a Pisa e Livorno - e i sistemi territoriali di Arezzo e Siena. Le aree di declino interessano alcuni sistemi appenninici e della collina interna, nonché il sistema urbano fiorentino in cui il core perde decisamente
popolazione. In sostanza, intorno alla metà degli anni ’90, si configurano alcune principali direttrici
di consolidamento insediativo che riguardano:
- la direttrice costiera;
- la direttrice Firenze –Arezzo e le ramificazioni in Val di Chiana;
- la direttrice Montecatini-Siena attraverso la Val di Nievole;
A queste prime direttrici caratterizzate da una tendenza alla urbanizzazione diffusa si aggiunge la
area urbana della Toscana centrale che va da Firenze a Pisa attraverso Prato, Pistoia e Lucca. L’armatura urbana è dunque rappresentata da un sistema a più centri interconnessi da un insieme di città
piccole e medie in cui lo stesso capoluogo regionale assume un profilo di complementarità e sovrapposizione; in questo quadro i sistemi distrettuali mantengono una relativa autonomia e radicamento,
sia dal punto di vista della base occupazionale che della rete di servizi alla persona e all’impresa. Il
sistema metropolitano centrale si configura così secondo un modello non gerarchico o di espansione
diffusiva, ma come vero e proprio “sistema di sistemi” (IRPET 1994).
Le ipotesi interpretative e le immagini che abbiamo sinteticamente richiamato hanno costituito di
fatto il frame rispetto al quale si sono sviluppate le politiche della programmazione e di governo del
territorio. Tuttavia dal punto di vista della pianificazione territoriale questo è avvenuto recuperando
solo in maniera marginale le ricerche sviluppate e le loro ricadute territoriali. I dati sulla struttura insediativa ricavabili dall’ultimo censimento confermano sostanzialmente sia l’andamento di lungo
periodo sia le dinamiche evidenziatesi a metà degli anni ’90.
Sia i dati sugli andamenti provinciali che quelli relativi ai comuni mostrano il consolidarsi insediativo di alcune aree della fascia costiera e del sistema urbano policentrico della Toscana centrale. Si
conferma così un movimento di lungo periodo che vede concentrarsi la maggiore densità di abitanti
nella media e bassa valle dell’Arno ed in particolare intorno alle città di Firenze, Prato, Livorno e
Pisa.
L’altra importante conferma è quella che riguarda i dati sulla periurbanizzazione che vedono rafforzarsi ed ampliarsi il movimento degli abitanti ed abitazioni dalle principali polarità urbane (con la
non trascurabile eccezione di Prato) del sistema della Toscana centrale verso i comuni di cintura urbana di secondo livello e lungo le principali direttrici che connettono al capoluogo regionale (Chianti, Mugello, Val di Sieve, area fiorentina sud-est, empolese), configurando così una sistema metropolitano fiorentino allargato. Tale dato è anche confermato dalla evidenza per la quale i principali
poli urbani attrattori continuano a mantenere la prevalenza della base economica - e quindi degli addetti sugli attivi - mentre avviene il contrario per i comuni di corona ove la funzione residenziale
tende a prevalere su quella produttiva - più attivi che addetti. Ciò è confermato anche dall’indicatore
di incremento del patrimonio edilizio che, seppure con dettaglio provinciale, mostra una dinamica
maggiore delle province limitrofe a quella Fiorentina, ed in particolare pratese e pistoiese.
Le dinamiche di cambiamento del sistema insediativo urbano
175
Il PRS facendo riferimento alla struttura morfologica e socio economica dell’armatura insediativa
definisce tre macro aree che consentono di tematizzare le principali “figure insediative” della regione. Esse riguardano:
- l’area metropolitana della Toscana centrale;
- l’area costiera metropolitana Livorno-Pisa-Lucca;
- la Toscana meridionale.
La prima area viene descritta come il principale “motore” economico della regione, che di fatto, sia
dal punto di vista dei servizi che della produzione industriale svolge il ruolo prevalente nella produzione del reddito e nel costituirsi come “antenna “ e finestra della Toscana rispetto alle dinamiche e
alla domanda globale. Da notare come in questa area un importante profilo industriale – che di fatto
costituisce il 75 % della “base per l’esportazione” verso il resto della Toscana e l’estero - conviva
con un rilevante carattere “post industriale” ove il PIL riconducibile al settore dei servizi si aggira
intorno al 70%, percentuale quasi uguale alla occupazione nel medesimo settore.
Problematica appare in questo contesto al situazione legata alla forte pressione delle dinamiche insediative e della mobilità connessa. In termini di abitanti infatti l’area metropolitana fiorentina allargata ospita circa 1.430.000 abitanti112 –pari a circa il 40 %.della popolazione regionale - i cui spostamenti, in particolare pendolari, mettono costantemente in crisi un sistema infrastrutturale e di accessibilità ampiamente inadeguato.
Restringendo il campo di osservazione all’area metropolitana fiorentina (il sistema metropolitano in
senso stretto) si osserva la tendenza all’allargamento del campo di sub urbanizzazione – in parte
orientato verso l’Empolese Valdelsa - con la perdita di popolazione della maggior parte dei comuni
di corona (in particolare sud orientale) e la tenuta dei pochi rimanenti, mentre la rilevante crescita di
Prato è da attribuire alla cospicua immigrazione extracomunitaria.
In ogni caso la tendenza alla flessione demografica dell’area della Toscana centrale è solo parzialmente attenuata se prendiamo in considerazione il sistema metropolitano che, nella sua versione ufficiale, è costituito dai comuni delle province di Firenze, Prato e Pistoia . Qui il saldo è pari a
19.054 abitanti in meno fra i censimenti del 1991 e del 2001, poiché i saldi positivi di Prato e Pistoia (rispettivamente +10.642 e + 3.881) non riescono a contenere il “crollo” di Firenze (-33.577).
Nella parte nord occidentale della regione viene riconosciuto dal PIT e dal PRS 2000-05 un sistema
insediativo di area vasta di carattere policentrico tendente ad assumere, in particolare in certe sue
parti, il carattere della conurbazione o dell’urbanizzazione diffusa con propaggini verso Lucca e
Massa Carrara. Tale sistema è di fatto riconducibile a quella che il PIT stesso identifica come Area
metropolitana Livorno-Pisa-Lucca. Il PRS riconosce a questo contesto una notevole potenzialità di
riequilibrio e complementarità rispetto al sistema metropolitano centrale in ragione della significativa dotazione di servizi di livello urbano superiore riconducibili in particolare alla logistica, alle
strutture aeroportuali, di ricerca universitaria ed innovativa e fieristiche.
A ciò si accompagna peraltro un importante tessuto produttivo che, malgrado la flessione e crisi verificatasi nell’industria pesante durante gli anni ’80 e ’90, presenta ancora numerose aziende ed attività di punta in diversi settori, dai trasporti ai settori lapideo e della carta, alla chimica e la cantieristica. A queste caratteristiche va aggiunta una buona dotazione di infrastrutture che rende plausibile
l’ipotesi di questo territorio come affaccio della Toscana verso l’Europa ed il Mediterraneo, in un
contesto continentale tendente a rafforzare la prospettiva regionalista, ma anche come ambito alternativo di attraversamento nord sud della toscana in alternativa alla direttrice appenninica.
Se aggiungiamo a queste caratteristiche la non trascurabile dotazione di patrimonio paesistico ambientale e culturale è comprensibile il ruolo strategico che la Regione attribuisce all’area costiera di
riequilibrio ed innovazione dello sviluppo regionale anche in direzione della Toscana centrale e me112
Viene considerata in questo caso la perimetrazione ufficiale”allargata” dell’area che comprende tutti i comuni delle
province di Firenze, Prato e Pistoia.
176
ridionale. Nel contesto dell’analisi di area vasta la Toscana centro meridionale presenta un profilo
meno definito in particolare in rapporto alle interazioni e ruoli dei diversi sistemi insediativi. Il sistema insediativo è maggiormente rarefatto e polarizzato intorno ad alcuni nuclei urbani centrali che
presentano, in luogo di un sistema strutturato e riconoscibile di rapporti interni, relazioni diversificate con i gli altri sistemi regionali.
Malgrado ciò, in tale territorio si manifesta una rilevante potenzialità dal punto di vista della armatura infrastrutturale e della accessibilità: le importanti trasversali est-ovest (due mari) e Firenze-Siena e nord-sud (direttrice Arezzo Firenze, Valdelsa, e tirrenica). A tale caratterizzazione insediativa
si accompagna un importante funzione di eccellenza riconducibile sia al settore agroalimentare e
delle produzioni tipiche che trova in Grosseto il suo principale punto di riferimento sia a quello del
turismo ambientale e culturale che può appoggiarsi a risorse naturalistiche, storico culturali ed ambientali di assoluta eccellenza.
In tutto ciò può innestarsi il ruolo innovativo svolto sia dal polo universitario senese con la sua rete
estesa sia ad Arezzo che a Grosseto sia dal polo creditizio senese in grado di supportare numerose
iniziative di sviluppo anche nel settore dei servizi e dell’impresa innovativa.
Le tendenze insediative dell’area evidenziano anche in questo caso una sensibile decrescita dal punto di vista degli abitanti che, seppure leggermente inferiore all’area metropolitana fiorentina, esprime in maniera chiara una significativa e comune tendenza delle maggiori polarità urbane.
Emerge dagli elementi presi in considerazione una struttura urbana regionale in cui il policentrismo
ed il ruolo di complementarità fra le diverse aree e centri pare rafforzarsi rispetto ad una polarizzazione decrescente intorno al nucleo fiorentino, ove, tuttavia, e per certi aspetti insieme al polo pisano, si individuano ancora le principali attività e funzioni di livello superiore in grado di produrre
servizi per l’innovazione e di presidiare alcune reti di connessioni con l’esterno.
In generale, anche attraverso la verifica degli andamenti relativa ai comuni di maggiore consistenza
urbana, si osserva il progressivo trasformarsi delle dinamiche di suburbanizzazione rilevate a metà
degli anni ’90 (cfr. Emanuel 1997 e PIT 2001) in un vero e proprio processo di “disurbanizzazione”
o declino urbano, il cui significato, in termini di dinamica urbana, chiede ovviamente di essere approfondito attraverso la analisi di altri indicatori riferiti non solo alle quantità fisiche ma anche alle
dinamiche economiche e di innovazione dei sistemi urbani.
In effetti la lettura condotta attraverso la ricostruzione delle morfologie sociali della regione, volta
in particolare a cogliere i caratteri di maggiore o minore urbanità del sistema insediativo regionale
porta in qualche modo ad attenuare l’immagine di declino legata agli indicatori di carattere quantitativo e, per converso, ad evidenziare la crescente integrazione e complementarità fra le caratteristiche
delle diverse aree.
Anche in questo caso la Toscana centrale si evidenzia come area caratterizzata dalla maggiore dinamicità, ove Firenze svolge il ruolo di unico e vero polo urbano di rango superiore e dove gli altri sistemi locali integrano tale funzione attraverso la attività manifatturiera, i servizi e la attivazione di
importanti economie legate al turismo. Ciò che si evidenzia rispetto a tale quadro, in parte come fatto controintuitivo, è semmai la forte dinamicità di imprese presenti nella parte nord occidentale della regione (Mugello, Val di Sieve e parte “appenninica” pratese-pistoiese) dato che probabilmente
richiederebbe ulteriori approfondimenti.
Interessante è poi il chiaro emergere di un “motore” turistico-terziario, evidenziato peraltro dai già
richiamati studi dell’IRPET, concentrato prevalentemente nella parte sud occidentale della regione
ma con significative propaggini verso Arezzo e la val di Chiana.
Dal punto di vista del dinamismo socio economico si segnala un ritmo più lento soprattutto per
quanto riguarda il sistema costiero e le aree appeniniche di Lucca e Massa, dato questo abbastanza
prevedibile. Va comunque sottolineata la presenza di importanti polarità urbane lungo la costa che –
177
nel caso di Piombino, Rosignano, Livorno e Pisa - presentano un significativo dinamismo soprattutto nell’ambito dei servizi al turismo e all’impresa.
Interpretazione delle trasformazioni territoriali e politiche regionali e nazionali
Immagini di territorio, pianificazione e programmazione regionale
Nell’ambito degli strumenti di programmazione il PRS 2000-2005 recupera il quadro di riferimento
costituito dalle “Toscane della Toscana” e messo a fuoco da Cavalieri. In particolare viene sottolineato il ruolo strategico dei sistemi urbani –sia aperti che interni- e dei sistemi manifatturieri di
PMI, come elementi traenti della produzione di ricchezza e di attivazione economica per l’economia
regionale. Viene inoltre colto il ruolo strategico dell’area metropolitana fiorentina allargata113 e del
nodo urbano del capoluogo ove in sostanza si costituisce il “nodo” di interazione e scambio fra il sistema globale e la rete insediativa ed economica regionale. Il modello interpretativo che ne deriva è
relativamente coerente con l’immagine dell’armatura insediativa ed urbana messa a punto nel decennio precedente ed evidenzia e conferma la pluralità urbana e di ambienti insediativi che caratterizza il sistema regionale e che influisce ed interagisce decisamente con la dimensione socio economica
In particolare la lettura effettuata dal PIT individua la centralità delle aree urbane che, comprendendo i “sistemi urbani aperti” (sostanzialmente le aree distrettuali e manifatturiere), l’area metropolitana centrale fiorentina e i sistemi “turistico industriali della costa”, raggiunge in pratica l’80% della
ricchezza prodotta in termini di PIL regionale.
L’area metropolitana fiorentina di fatto appare il nodo centrale dell’intero sistema economico regionale in ragione della sua rilevanza e centralità in termini di dotazione di servizi di rango sovralocale
e di base produttiva in gran parte orientata alla esportazione. Le criticità di questo ambito sono in
gran parte legate alla sottodotazione infrastrutturale che di fatto non riesce a sostenere la mobilità all’interno dell’area stessa producendo gravi diseconomie ed esternalità ambientali e di fatto riducendone la capacità attrattiva e depotenziando anche l’immagine internazionale di Firenze stessa.
Grandi potenzialità sono poi individuate anche nell’area vasta costiera. Qui, un sistema urbano policentrico incentrato soprattutto sul triangolo Pisa, Livorno, Lucca, mostra una elevata dotazione infrastrutturale e di servizi di rango territoriale –in particolare logistici- tali da eccedere –a differenza
dell’area Fiorentina- la stessa domanda. (fra gli altri il polo sanitario ed universitario di Pisa, l’aeroporto, il porto di Livorno, l’area fieristica di Carrara). Le stesse connessioni infrastrutturali di area
vasta appaiono di valore strategico ed in grado di formare una dorsale occidentale alternativa a quella nord-sud passante per Firenze. In questo contesto si tratta per il PRS di sviluppare politiche integrate e coordinate che permettano di valorizzare appieno relazioni di complementarità e sinergiche
fra le diverse città del sistema anche al fine di evitare diseconomiche ed inutili sovrapposizioni di
ruoli e funzioni e di cogliere appieno le potenzialità di porta verso il Mediterraneo che questa area
presenta. Da questo punto di vista non vanno sicuramente trascurati gli importanti aspetti legati alle
risorse culturali, ambientali e storiche di cui questa area è ricca e che rappresentano un ulteriore motivo di attrattività.
Meno evidente appare il profilo ed il ruolo del sistema inseditativo della Toscana meridionale incentrato sui nodi urbani di Arezzo, Siena e Grosseto. In questo caso l’interazione e le dinamiche urbane sono molto più rarefatte ed accentrate anche se, in prospettiva, questo sistema può sviluppare
un ruolo strategico attestandosi sulla direttrice di collegamento est-ovest fra le due coste. Inoltre la
buona e minuta grana infrastrutturale e “permeabilità” dell’area configura un livello di accessibilità
adeguato sia al raggiungimento delle principali polarità urbane della regione, ma anche una adeguata fruizione del territorio aperto e dei vari sistemi locali di tipo turistico rurale legati anche a forme
di residenza periodica da parte degli abitanti urbani.
113
Comprendente cioè anche i sistemi di Prato-Pistoia e dell’Empolese..
178
Nel PRS 2000-2005 appare semmai debole la lettura sistemica dei diversi tematismi territoriali individuati con una non chiara definizione delle strategie e delle relazione fra i diversi ambiti territoriali
di area vasta. Inoltre non è particolarmente sviluppata la connessione con le previsioni e le stesse
strategie territoriali del PIT riferite ai sistemi territoriali di programma. A tale riguardo, nel caso del
Piano di Indirizzo territoriale della Toscana (PIT), approvato definitivamente nel 2001, alcuni indirizzi e norme circa l’uso delle risorse naturali ed essenziali del territorio vengono ricondotte ad alcuni schematici “sistemi territoriali di programma” – la Toscana dell’Appennino, dell’Arno, della Costa ed Arcipelago, le aree interne e meridionali - che recuperano solo in parte la ricchezza dei contributi prodotti negli anni più recenti. Da questo punto di vista la L.R. 1/2005 per il governo del territorio introduce importanti punti riguardo ad una maggiore specificazione del tema delle politiche urbane all’interno degli strumenti di governo territoriale.
In primo luogo la legge orienta i diversi livelli di pianificazione verso il rafforzamento del modello
insediativo policentrico emerso nel corso degli anni, facendone un vero e proprio punto di forza per
il perseguimento di obiettivi di sostenibilità di sviluppo ed uso delle risorse. (cfr. art. 1, c. 2, lett. b).
Costituisce poi oggetto di specifica trattazione il tema della qualità prestazionale del patrimonio insediativo riconducendolo in particolare sia agli aspetti di tipo progettuale ed ambientale, ma anche
ad una efficace dotazione di infrastrutture per la mobilità ed ad una rete multilivello di attrezzature
di servizio anche di tipo commerciale.
Sviluppo economico, ambiente insediativo e mobilità: alcune criticità
L’interpretazione del profilo socio economico del territorio toscano e della multiformità delle forme
di sviluppo locale evidenziata a fine degli anni ’90 da Cavalieri viene sostanzialmente confermata
anche dai più recenti approfondimenti dell’IRPET (Bacci) già citati e incentrati sulla analisi della
base per l’esportazione dei diversi sistemi economici locali.
Tuttavia a tale tipo di analisi, che restituisce una realistica immagine dello spessore di trasformazione - in particolare dei cosiddetti sistemi turistico industriali ove funzione e caratteri urbani convivono con importanti economie legate al territorio aperto – e dei vari sistemi industriali aperti ed urbani, non coglie alcune importanti criticità e diseconomie legate alla crescente congestione e degrado
funzionale ed ambientale dell’area più antropizzata della regione. Le dinamiche insediative evidenziate e la crescente “polarizzazione estesa” intorno al sistema policentrico della Toscana centro occidentale (la Toscana dell’Arno) comportano infatti il concentrarsi di tutta una serie di problematiche legate ad aree di intensa urbanizzazione. In particolare si evidenziano alcune criticità ambientali
legate nello specifico alle emissioni atmosferiche dovute alla produzione di energia e agli intensi
flussi di mobilità (gas serra e acidificanti) e alle attività agricole (nitrati).
In particolare per quanto riguarda i trasporti e la mobilità, la bassa percentuale di utilizzazione dei
mezzi pubblici – con un indice di motorizzazione superiore a quello di tutte le altre aree metropolitane italiane - ed un trasporto merci incentrato sui piccoli operatori con basso livello di strutturazione anche in termini di servizi non banali, comporta una accentuazione della congestione ed una utilizzazione senz’altro sub ottimale della stessa rete viaria. E gli stessi grandi operatori – solo il 3%
sul totale - non presentano un livello tecnologico adeguato.
Lo stesso trasporto merci ferroviario risente di una carenza del sistema della intermodalità che al
momento non sviluppa in maniera adeguata le relazioni funzionali e logistiche fra i due principali
interporti della Toscana (Gonfienti (Po) e Guasticce (Li) ), gli aeroporti di Pisa e Firenze e le principali piattaforme produttive della Toscana centrale.
Gli scenari del cambiamento impongono un’attenta presa in carico di una situazione estremamente
critica relativa anche alla rete stradale rispetto alla quale gli interventi previsti nei prossimi anni –
anche tenendo conto di una crescita più debole rispetto a quella verificatasi negli anni precedenti179
non potranno essere migliorativi del funzionamento e del carico della rete ma al massimo evitare ulteriori peggioramenti (Regione Toscana-Irpet, 2005).
Qualità dell’abitare pianificazione territoriale e programmazione dello sviluppo: alcune linee di
azione ed interpretazioni progettuali
L’elevato livello di congestione e l’impatto di questo sull’ambiente urbano e territoriale della Toscana centrale viene interpretato nei vari strumenti di programmazione regionale e territoriale come
il principale elemento di freno per la costituzione di un sistema insediativo ad elevata qualità dell’abitare e dei servizi alla persona e all’impresa.
In particolare nel nuovo Piano di Indirizzo territoriale regionale (PIT), fin dalla fase di avvio del
procedimento si individuano linee tematiche prioritarie e progetti strategici orientati ad un elevamento “prestazionale” del sistema territoriale regionale e ad una qualificazione di insieme dell’ambiente insediativo incentrata sul mantenimento e la tutela delle risorse “patrimoniali” ed identitarie
dei diversi ambiti regionali.
Le linee guida del PIT puntano in sostanza ad un “riposizionamento” regionale nel contesto europeo
recuperando – e mantenendo in stretta sinergia programmazione dello sviluppo e pianificazione territoriale - i temi forti derivati dal documento dello Schema di sviluppo dello spazio europeo, e nello
specifico riferiti a:
- policentrismo urbano;
- partenrship e sinergia fra città e territorio aperto;
- accessibilità materiale ed immateriale del territorio;
- conservazione, tutela attiva e sviluppo del patrimonio culturale ed ambientale della regione.
In considerazione delle linee guida evidenziate il documento di avvio del procedimento per il nuovo
PIT coglie in particolare alcune finalità ed obiettivi di carattere generale che vanno poi a condizionare la selezione di alcuni progetti strategici. Tali obiettivi fanno riferimento a :
- tutela delle risorse e valorizzazione delle identità del territorio;
- governance multilivello;
- competitività del sistema produttivo incentrata sulla qualificazione di infrastrutture e servizi,
qualità del sistema della produzione, relazione e sinergia fra i vari poli universitari e con il mondo delle imprese;
- ricerca ed innovazione orientata alla qualificazione del sistema insediativo;
- specificazione dello SSSE attraverso al individuazione di quattro progetti strategici per la competitività;
- sinergia e coordinamento fra Piano regionale di sviluppo e PIT;
- produzione di “immagini locali” in grado di rappresentare la unicità dei diversi territori e di valutare la coerenza rispetto ad essi delle diverse politiche e progetti sia integrati che di settore.
In questo contesto, come detto, gli obiettivi generali vengono specificati in particolare attraverso
quattro strategie di rango regionale con, almeno teoricamente, un forte impatto sui principali fattori
di innovazione territoriale. Tali strategie, in estrema sintesi, riguardano:
- la mobilità e la logistica con particolare riferimento alla “piattaforma logistica costiera” nel più
ampio quadro di un riequlibrio modale regionale e delle relazioni con le principali direttrici europee e di valorizzazione dei nodi portuali;
- la qualità del sistema insediativo e l’area centrale metropolitana, rafforzando i nodi del sistema
policentrico attraverso una migliore integrazione con le risorse regionali e con i vari ambiti insediativi locali;
- la ricerca applicata e la innovazione tecnologica favorendo gli aspetti di spill over e di relazione
fra poli universitari ed imprese toscane per accrescere la competitività del sistema;
180
-
le reti ecologiche ed i grandi corridoi ambientali, al fine di riconoscere il sistema delle aree protette come risorsa regionale a supporto di una più generale e continuità del sistema ambientale
regionale.
Alcuni dei temi territoriali toccati dalle linee guida per il nuovo PIT sono peraltro presenti nei documenti e negli obiettivi costituiti nell’ambito della elaborazione del Documento strategico nazionale
del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti (MIITT 2005).
In questo caso la Toscana è interessata da un insieme di ipotesi tematiche di assetto ed intervento in
generale riconducibili alla individuazione della “piattaforma territoriale” Asse dell’Arno.
Il documento del MITT partendo dalla considerazione della esistenza di un “radicato tessuto urbano” che, esito di processi storici di lunga durata, esprime elevati livelli di vitalità socio economica e
propensione alla innovazione, propone per il sistema territoriale che si articola lungo il corso dell’Arno da Firenze a Pisa alcuni temi di azione riconducibili a:
- valorizzazione e recupero funzionale e fruitiva dell’asta dell’Arno sia nelle sue valenze ambientali che di cabotaggio;
- un miglioramento dei collegamenti sul nodo di Firenze, inteso come snodo strategico dei collegamenti nazionali con quelli di livello secondario e metropolitano;
- il ruolo culturale e scientifico di Pisa, orientato allo svolgimento di polo per la innovazione e di
“porta” sulle reti lunghe globali attraverso la struttura aeroportuale;
- la valorizzazione e potenziamento del sistema portuale livornese come testata di una più ampia
piattaforma logistica connessa all’intero sistema produttivo della toscane centrale attraverso gli
interporti di Guasticce e Prato.
Il “progetto di territorio” definito attraverso lo scenario della piattaforma territoriale dell’Arno è a
sua volta specificato e strutturato attraverso una serie di progetti complessi di ultima generazione
che fanno riferimento alla stessa azione del MIITT. I diversi programmi si articolano partendo dalla
comune natura di complessità territoriale che contraddistingue i luoghi e i temi di questo ambito regionale sviluppandone specifici tematismi. I diversi progetti fanno riferimento in particolare a :
- recupero e riqualificazione del sistema policentrico fra Firemze e Pisa supportato dalla “infrastruttura naturale” dell’Arno in vista anche del recupero di fruibilità e cabotaggio del fiume stesso (programma complesso Sis.Te.MA);
- recupero, valorizzazione e potenziamento funzionale dei nodi portuali complessi cosituiti dalle
strutture dalle dotazioni di servizio retroportali caratterizzanti i nodi di Piombino, Livorno e
Carrara (programma complesso Porti & Stazioni);
- potenziamento e riqualificazione del nodo di Scandicci (Fi) come porta di accesso al nodo metropolitano Fiorentino e come snodo fra i diversi livelli e direttrici infrastrutturali (Programma
complesso Piani strategici e Piani urbani della mobilità).
Elementi di politiche urbane
Gli indirizzi e gli strumenti orientati alla definizione ed attuazione di politiche urbane in Toscana si
inseriscono in un contesto programmatorio e di pianificazione relativamente complesso e nel quale
giocano un ruolo rilevante e di inquadramento i già citati PRS 2000/05 ed il Piano di Indirizzo territoriale redatto ai sensi della L.R. 5/95 e tutt’ora vigente. Tramite questi due piani si costruisce il
contesto strategico e gli obiettivi generali e sostantivi cui orientare le diverse politiche di intervento
sul sistema insediativo ed in particolare urbano.
Alcuni di questi punti sono stati già indicati in precedenza, vale la pena richiamarli sinteticamente:
- il PRS coglie il ruolo strategico, per lo sviluppo regionale, giocato dai due principali contesti
metropolitani della regione e che interessano la media e bassa valle dell’Arno. Qui si rileva un
grande potenziale di innovazione e capacità produttiva, purtroppo “frenato” da elevati livelli di
congestione e disordine insediativo causa ed effetto di bassa qualità progettuale e qualità “prestazionale” dell’ambiente insediativo stesso;
181
-
il PIT indica per la risorsa “città ed insediamenti” la necessità di ovviare ai problemi individuati
anche dal PRS tramite una migliore armonizzazione di funzioni centrali e la riqualificazione diffusa di molti tessuti “densi” e centri minori al fine di valorizzare il policentrismo “naturale” della struttura urbana regionale. Particolare rilievo assumono fra l’altro nel PIT indirizzi relativi
alla “rete dei capisaldi delle funzione e dei servizi” orientati a:
- valorizzare le peculiarità produttive dell’economia toscana tramite la rete dei
centri espositivi, le sinergie tra strutture e ed economie di scala, il rafforzamento dei servizi esistenti;
- la localizzazione di sedi universitarie e di centri di ricerca in modo da favorire il massimo coordinamento di carattere territoriale tra le sedi universitarie e la specializzazione dei poli di ricerca
per ottenere economie di scala (e) la massima integrazione con i sistemi produttivi locali...;
- potenziare il sistema dei poli di interesse turistico per incrementare la qualità dell’offerta, promuoverne l’integrazione con altre attività economiche, specialmente l’agricoltura114.
I documenti regionali più recenti confermano di fatto e precisano questi indirizzi di politica territoriale ed urbana. Si sottolinea in particolare la stretta integrazione fra i già ricordati quattro obiettivi
strategici del PIT in fase di costruzione e lo stesso Documento strategico regionale della Toscana
elaborato come contributo per la definizione del Documento strategico nazionale a cura del Ministero della economia e delle finanze (Regione Toscana 2005).
Il DSR richiama alla necessità di sviluppare politiche urbane in grado di produrre innovazione territoriale attraverso l’integrazione del patrimonio urbano policentrico regionale e dei suoi diversi modelli di sviluppo con il vasto patrimonio culturale ed ambientale che può contribuire anch’esso alla
convergenza di coesione e competitività del sistema regionale. Pure essendo l’urbano una dimensione “implicita” nei diversi documenti comunitari, tale dimensione può essere recuperata, per il DSR,
tenendo insieme i diversi obiettivi che dalle varie politiche settoriali emergono (innovazione, competitività, ambiente, accessibilità).
Il modello da seguire è quello derivato dal PIC Urban che dal punto di vista degli obiettivi di innovazione, integrazione e riqualificazione degli ambiti urbani ha depositato un interessante insieme di
buone pratiche ed esperienze.
In sostanza si può osservare come sia il documento di avvio del procedimento di definizione del
nuovo PIT sia il DSR si muovano in stretta continuità con gli obiettivi generali di politiche urbane
definiti già nel PSR 2000/05 e nel PIT vigente. Ciò che semmai emerge è la tendenza a recuperare
una maggiore integrazione fra territorio aperto e sistemi urbani attraverso una lettura che li integra
al fine di una possibile ridefinizione (o rafforzamento) dei vari modelli insediativi locali.
A fronte di questa impostazione di carattere generale – e con ovvio riferimento al periodo di programmazione in fase di conclusione – non si può certo osservare una precisa coerenza nella “storia”
degli interventi operativi riconducibili alle politiche urbane. Questo non solo per la relativa carenza
di linee operative strategiche e di indirizzi per le realtà locali da parte della Regione, ma anche per
la pluralità di strumenti operativi definiti ai diversi livelli nell’ambito dei cosiddetti “programmi
complessi” o “innovativi” cui non ha corrisposto una effettiva pratica di governance strategica da
parte dei diversi soggetti promotori, coordinatori ed attuatori. .
Va inoltre osservato come buona parte delle criticità del sistema insediativo toscano discendano da
fenomeni di problematica accessibilità –esterna ed interna- alle principali aree urbanizzate della regione. A tale riguardo si presentano in particolare due problemi non trascurabili sulle politiche urbane e che riguardano da un lato la difficoltà nei documenti regionali a riconoscere le relazioni fra gli
assetti funzionali del sistema regionale ed i modelli di mobilità presenti e, dall’altro, la diffusa difficoltà operativa su tali questioni dovuta agli acuiti limiti di bilancio del settore pubblico.
114
A quelli citati si aggiungono altri temi relativi alla grande distribuzione commerciale, completamento della rete ospedaliera regionale, ottimizzazione di reti per il trasporto energetico e telecomunicazione, sistema dei parchi e delle aree
protette. Cfr. De Luca, 2003 a cura di, pp. 100-102.
182
Questa serie di limiti, peraltro comuni a molte realtà regionali essendo derivati in gran parte dal
contesto nazionale, ha prodotto alcune conseguenze non trascurabili riconducibili in particolare a:
- prevalente orientamento “residenziale” degli interventi, con debole incisività sugli aspetti strutturali dei problemi (infrastrutture, ambiente, trasporti, etc);
- scarsa cumulabilità delle esperienze, e prevalenza di interventi di carattere episodico con debole
influenza sul sistema urbano nel suo insieme;
- in alcuni casi riduzione della portata innovativa degli strumenti utilizzati (p.e.contratti di quartiere) a favore di una applicazione più ordinaria e banale.
Si può in sostanza osservare che le politiche urbane in Toscana si sono attuate attraverso alcune pratiche in sé relativamente virtuose ma non in grado di esprimere un modello “esplicito” di intervento
ed una pratica attiva e non “adattiva” orientata alla trasformazione e riqualificazione dell’ambiente
insediativo nel suo insieme.
Esulano forse parzialmente da questo quadro, anche per le caratteristiche stesse del programma, le
due esperienze di PRUSST ammesse a finanziamento per la regione Toscana: il PRUSST “Terre senesi” riguardante 53 comuni della provincia di Siena e la Provincia stessa e il PRUSST “Edilizia ed
urbanistica nelle aree limitrofe alle stazioni” riguardante le province di Pistoia, Prato e Firenze e
svariati comuni compresi e limitrofi alla linea ferroviaria Roma-Milano.
Il primo dei due programmi in particolare (Giannini 2004) ha sviluppato un rilevante approccio integrato alla innovazione territoriale cercando di tenere insieme obiettivi di riqualificazione fisica del
territorio e dimensione dello sviluppo locale. I temi al centro del programma riguardano: accessibilità, rafforzamento urbano, consolidamento produttivo. Di rilievo in questa esperienza sono risultate
in particolare le capacità di coordinamento e governance espresse attraverso il processo, fatto per
niente scontato dato l’elevato numero di enti e soggetti aderenti al programma. In particolare vale la
pena sottolineare gli aspetti relativi a:
- comprensività e partenariato del programma (sussidiarietà e approccio bottom up);
- estensione territoriale e multidimensionalità tematica;
- capacità di mobilitazione di risorse pubbliche e private (€ 452.589.477 di inv. pubblico e €
565.178.586 di invest. privato al 2003).
Maggiormente selettivo dal punto di vista degli obiettivi è invece risultato il PRUSST relativo all’asse della Toscana centrale collocato lungo la linea ferroviaria Roma Milano. Qui, pur essendo
maggiore il numero delle province promotrici del programma –Pistoia, Prato e Firenze- in realtà è
risultato meno strutturato ed estensivo il coinvolgimento dei comuni e degli attori locali, essendo il
programma stesso meno ampio anche dal punto di vista degli obiettivi.
In questo caso la tematica si è incentrata prevalentemente sul miglioramento della accessibilità alle
centralità attestate sulle aree ferroviarie e alle stazioni ferroviarie stesse, implicando anche un obiettivo di valorizzazione immobiliare di edifici e funzioni collocate in quegli stessi ambiti.
Il programma stesso, pur avendo mobilitato un investimento totale pari a € 500.788,078, ha manifestato una più debole capacità di mobilitazione di interessi ed investimenti privati, mentre i principali
interventi hanno riguardato la realizzazione o adeguamento funzionale di stazioni di livello metropolitano collocate all’interno o in prossimità dei principali centri.
Dal punto di vista degli obiettivi di miglioramento della qualità dell’ambiente urbano vale la pena
accennare –dato anche il numero delle realtà locali interessate e dei tematismi trattati- all’insieme
delle esperienze di Agenda 21 locale attualmente attive in Toscana.
Al di là del numero consistente delle esperienze e della diversità dei modelli partenariali (cfr. tabella) è opportuno segnalare che molte di queste si situano in contesti a spiccata caratterizzazione urbana collocati in gran parte nell’area metropolitana centrale. Va ricordato, per esempio, a tale riguardo
che il maggior numero di processi attivati riguardano le province di Firenze e di Pisa e che le 16
Agenda 21 cofinanziate nel 2002 con bando regionale interessano un territorio su cui si colloca ben
183
il 65% della popolazione regionale.115 L’insieme delle varie AL21 si è inoltre costituito, nel Luglio
2002, in una rete di coordinamento regionale finalizzata a rendere più rapidi ed efficaci i principi
dello sviluppo sostenibile per una migliore integrazione fra programmazione economica, sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo.
In particolare si segnala, dal punto di vista delle azioni a maggiore impatto urbano - il carattere innovativo di alcune esperienze volte alla costituzione volontaria di aggregazioni comunali per un
coordinamento efficace di azioni conoscitive e di intervento (AL21 area omogenea fiorentina), alla
promozione di protocolli di responsabilità ambientale e sociale all’interno nel sistema di imprese
(AL21 Provincia di Lucca, AL21 Comune di Empoli, Comune di Rosignano M.mo), alla promozione della efficienza energetica e delle fonti rinnovabili nella gestione del patrimonio comunale (Comune di Massa).
Alcune esperienze hanno forse, in maniera implicita, tuttavia costituito un patrimonio di interventi
che hanno più che altrove definito una cumulatività degli interventi che di fatto hanno prodotto specifici e leggibili effetti sul piano del miglioramento dell’ambiente di vita, della innovazione del tessuto urbano e della innovazione delle pratiche di governance territoriale.
Per motivi di ordine diverso si possono prendere ad esempio i due casi di Livorno e Prato ove, con
stili e strumenti diversi, si è segnalata una relativa capacità innovativa delle politiche di intervento
sulla città.
Livorno: Programmi complessi e riconversione urbana
Il comune di Livorno con una delibera dell’ottobre 2005 individua un ampio ambito urbano che si
estende dalla fortezza vecchia nel centro antico fino ai più recenti quartieri ultrapopolari posti nel
quadrante nord della città, anch’essi soggetti a sensibili fenomeni di degrado fisico e socio economico denominati con i caratteristici nomi di “corea” e “shangai” assai diffusi in Toscana per realtà di
questo tipo.
Le prime proposte per queste aree –presentate ai sensi della L. 179/92- riguardano la zona del cosiddetto quartiere storico della “Venezia” e l’ambito prossimo alle mura lorenesi. Tali proposte vengono adottate dal comune nell’ambito del PRU dei quartieri nord e successivamente finanziate a livello ministeriale tramite il bando nazionale relativo appunto ai Programmi di Riqualificazione Urbana.
Malgrado l’interesse convogliato su queste due aree, il successivo bando e selezione comunale per
la presentazione di proposte relative al PRU dei quartieri nord trascura in maniera rilevante le proposte avanzate dai privati per privilegiare l’iniziativa dell’ATER provinciale relativa al quartiere
Shangai e per orientare le proposte verso il quartiere Corea ove però la presenza dei privati è assai
debole rispetto alla proposte per “mura lorenesi e “Venezia”.
Il quartiere Shangai –edificato intorno agli anni ’30- è costituito essenzialmente da edilizia pubblica
con una certa presenza di attività commerciali, aree dismesse compresa quella della vecchia stazione
ferroviaria S.Marco. Qui la proposta progettuale dell’ATER viene meno al requisito di un coinvolgimento di soggetti privati nel progetto e la successiva attuazione del PRU avviene tramite la realizzazione di un Piano di Recupero ai sensi della L. 457/78 e della L.R. 59/80 e la utilizzazione del
PIC URBAN II relativo proprio a quell’area e sul quale ci soffermeremo più avanti.
Per quanto riguarda invece il quartiere Corea –limitrofo al precedente- si tratta di un’area edificata
per ospitare essenzialmente persone sfollate durante la guerra ed immigrati dal Polesine successivamente all’alluvione. La amministrazione comunale utilizza, successivamente al finanziamento del
PRU, un contratto di quartiere II per intervenire in maniera integrata in questo contesto affrontando
gli elementi di criticità emergenti a livello fisico e socio economico e sperimentando metodologie
115
Si veda il sito Web della Regione Toscana all’indirizzo:
-http://www.rete.toscana.it/sett/pta/svilsost/agenda21/enti.htm
184
evolute di recupero in questi ambiti e in quelli relativi al rafforzamento della partecipazione e del
ruolo attivo degli abitanti.
In questo contesto di pluralità di azioni si inserisce la partecipazione del Comune di Livorno al bando per il PIC Urban Italia che viene appunto orientato nel 2000, con apposito bando, a sviluppare gli
interventi già attivati per l’area dei quartieri nord della città.
Secondo le caratteristiche di Urban II l’insieme degli interventi, in parte recuperati da precedenti
PRU, presenta un approccio multidimensionale toccando temi relativi alla qualità urbana, alla occupazione ed integrazione sociale, formazione, qualità ed innovazione tecnologica nel recupero.
Anche dal punto di vista gestionale, inoltre, il programma urban viene sviluppato tramite un approccio innovativo facendo riferimento ad una società di gestione a prevalente capitale pubblico – la
SPIL (società porto industriale di Livorno) s.p.a. che gestisce i processi di trasformazione e deindustrializzazione dell’area livornese e che presenta di fatto le caratteristiche di una società di trasformazione urbana.
Le aree interessate da Urban II livorno sono ancora una volta, come dicevamo, quelle relative ai
quartieri nord –Shangai, Corea, Venezia, Mura Lorenesi e Fortezza Medicea, sistema dei canali- con
l’aggiunta di una ulteriore attenzione posta al sistema delle infrastrutture ed in particolare alla vecchia stazione ferroviaria di S.Marco e alle connessioni dell’area portuale con le principali arterie
esterne. La impostazione sistemica dell’intervento individua quattro specifici tematismi riferibili a:
- percorsi tematici per la valorizzazione del patrimonio storico/culturale;
- sistema dell’area ferroviaria S.Marco;
- sistema dei quartieri popolari;
- rete dei fossi e dei percorsi d’acqua da bonificare.
Il programma ottiene il finanziamento massimo per i comuni fuori area obiettivo 1 e pari a 5,06
Meuro. Il contributo ulteriore a quello ministeriale –comprensivo di risorse private e di altri enti
pubblici- deve raggiungere almeno il 50% dell’investimento totale previsto. Il programma si avvia
dal 2003 tramite un primo stralcio che riguarda il quartiere Shangai per il completamento di un centro scolastico (€ 2.230.000,00) ed interventi su plessi scolastici e per un parco pubblico (€
60.000,0).
Malgrado la relativa contraddittorietà di alcune scelte dell’amministrazione –legate anche alla debole capacità orientativa relativa alle politiche urbane ed all’ttuazione dei programmi complessi da
parte della Regione cui si accennava in precedenza- si può rilevare come la individuazione strategica di uno specifico settore urbano di intervento da parte del comune abbia consentito il cumularsi ed
integrarsi di tutta una serie di strumenti e programmi di trasformazione urbana tale da favorire il formarsi di una capacità operativa e di governo dei processi di recupero utilizzabili anche nell’ambito
dell’ultima generazione di programmi complessi che abbiamo sinteticamente richiamato in precedenza.
Prato : trasformazione urbana e programmazione integrata
Nel caso di Prato, a differenza di Livorno, lo sviluppo di politiche urbane si attua non tanto facendo
ricorso alle diverse generazioni e tipologie di strumenti e programmi complessi bensì attraverso gli
strumenti della programmazione dei fondi strutturali, orientando le diverse misure ad interventi sulla infrastrutturazione fisica e qualità ambientale della città.
Nei principali interventi finanziati dal Docup, prevale nettamente il ricorso alle misure riconducibili
agli assi 2 e 3: “qualificazione territoriale” e “ambiente”.
In particolare le misure riferite al miglioramento delle performances ambientali del sistema produttivo ed insediativo – acquedotto industriale, depurazione delle acque, gestione del ciclo dei rifiuti fanno riferimento a percorsi e pratiche di partenariato fra soggetti pubblici ed attori privati sviluppatesi e consolidatesi nel corso degli anni. Gli interventi elencati nella tabella sono stati finanziati in
larga prevalenza attraverso i canali ordinari del Docup, altri sono stati inclusi nella modalità di at185
tuazione integrata, il PISL (progetto integrato di sviluppo locale). Il PISL di Prato raggiunge un elevato livello di integrazione che lo colloca in testa alla graduatoria della Regione Toscana. Il PISL si
articola intorno alla idea forza “Sistema distrettuale integrato pratese: competitività ed
innovazione”.
Pur nella impossibilità di descrivere singolarmente i diversi progetti si può osservare come la ripartizione degli investimenti, che ammontano a circa 32 milioni di euro, veda prevalere ancora i progetti riconducibili agli obiettivi di potenziamento delle dotazioni infrastrutturali e al miglioramento
delle prestazioni ambientali che sommati coprono oltre il 54% dell’ammontare dell’investimento.
Le azioni nel loro insieme, pur essendo debolmente orientate alla trasformazione ed intervento del
tessuto fisico dell’insediamento ed in particolare della sua parte residenziale, propongono tuttavia
interventi che sono comunque finalizzati, oltre che al potenziamento di alcune dotazioni infrastrutturali imprescindibili per la competitività del sistema locale (viabilità, reti tecnologiche, insediamenti produttivi), al rafforzamento del capitale sociale e cognitivo del sistema urbano con particolare riferimento al patrimonio culturale, capacità gestionali di impresa, rivitalizzazione del commercio
e delle culture produttive tradizionali.
Volendo individuare una qualche criticità nella impostazione del PISL, non potendo al momento valutarne efficacia ed impatto attuativo, va rilevato come, malgrado la modalità integrata di approccio,
risulti debole, ed in qualche modo penalizzante, la scarsa relazione di carattere strategico con gli
obiettivi individuati dagli strumenti di pianificazione territoriale, in particolare con il livello comunale di governo. Al di là infatti di una congruenza di carattere episodico e formale, si può avanzare
l’ipotesi che la “visione implicita” che emerge dal PISL non trovi un adeguato riscontro negli indirizzi ed azioni di governo territoriale.
La programmazione
La dimensione locale dell’intervento FESR 2000-2006 in Regione Toscana116
Nelle regioni del centro nord il principale strumento di utilizzo del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) è il “Docup” (documento unico di programmazione) obiettivo 2117, un programma
operativo che contiene innanzitutto la descrizione delle linee di intervento che vengono cofinanziate
dalle risorse pubbliche (comunitarie e nazionali) e le regole della loro attuazione. L’impianto regolatore dei Docup tende a mediare almeno tra due tendenze; la prima privilegia l’applicazione degli
incentivi definiti da norme nazionali e regolamenti europei, l’altra riduce la discrezionalità “automatica” degli incentivi con un più forte accento sulla negoziazione locale (o di filiera) intorno ad un
gruppo di obiettivi e istituzioni.
Nella gestione dei Docup, le regioni e le amministrazioni locali hanno seguito in questi anni percorsi differenti, legati al modello di sviluppo economico e territoriale, alle priorità del cambiamento definite dai documenti di programmazione e, naturalmente, alla capacità della regione di negoziare gli
interventi con gli investitori privati e pubblici. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante ed
implica, almeno da parte pubblica, una solida capacità di programmazione e gestione delle opere e
116
Gli autori ringraziano Roberto Caioli, autorità di gestione del Docup ob. 2 della Regione Toscana, Albino Caporale,
dirigente presso la DG Sviluppo economico della Regione Toscana e Francesco Callisti, della società Ecoter di Roma,
responsabile del servizio di assistenza tecnica al Docup ob. 2 della Regione Toscana, per l’accesso ai dati dell’archivio
di monitoraggio.
117
L’articolo 4 del reg CE 1260/99 definisce l’ambito di azione dei fondi strutturali nei territori definiti come “obiettivo
n. 2”: “Le regioni in cui si applica l'obiettivo n. 2 sono quelle aventi problemi strutturali la cui riconversione economica
e sociale deve essere favorita e la cui popolazione o superficie sono sufficientemente significative. Esse comprendono,
in particolare, le zone in fase di mutazione socioeconomica nei settori dell'industria e dei servizi, le zone rurali in
declino, le zone urbane in difficoltà e le zone dipendenti dalla pesca che si trovano in una situazione di crisi”.
186
dei servizi a livello locale: dai comuni alle varie aggregazioni di competenze che si formano intorno
a temi particolari, quali energia, salute, trasporti, ambiente, sicurezza, lavoro ed altri ancora.
Come ha mostrato una ricerca recentemente promossa dal Formez118, la presenza nei Docup di forme esplicite di programmazione integrata è un fatto ampiamente diffuso, sia pure con dimensioni finanziarie spesso limitate. Tuttavia, dopo oltre quindici anni di sperimentazione di interventi strutturali nei sistemi locali e regionali è evidente che l’integrazione delle politiche di intervento territoriale non viene limitata alle forme di programmazione dirette dalla principale autorità di gestione, la
Regione; l’esperienza maturata nei territori ha spinto progressivamente le istituzioni locali a progettare e utilizzare gli strumenti contenuti nei Docup in maniera funzionale alle particolari esigenze di
sviluppo. D’altro canto è proprio la scala regionale dell’intervento strutturale a richiedere la definizione di un approccio regolativo di carattere generale, lasciando alla programmazione e alle prassi
regionali il compito di declinare l’intervento sui territori, seguendo una logica di sussidiarietà.
Nella cornice che in Toscana struttura la programmazione regionale, il PRS “non governa solo le
azioni aggiuntive della programmazione, quelle cioè finanziabili con risorse libere, ma riconduce ad
unità organica il complesso delle azioni quale che sia la fonte delle risorse: regionale, statale, europea”. L’utilizzo dei fondi strutturali viene dunque regolato dal processo di programmazione regionale, che opera secondo una logica di sussidiarietà e sviluppo locale: “il complesso degli interventi e
delle risorse trova la sua integrazione a scala territoriale, ove convergono anche le volontà e le risorse degli attori locali” 119.
La Programmazione comunitaria 2000-2006 in Toscana
Nel periodo 2000-2006, a partire dalle indicazioni contenute dal PRS, la Regione Toscana ha provveduto alla definizione dei programmi di intervento cofinanziati dai Fondi Strutturali. Di seguito
viene fornito un quadro riepilogativo dei principali programmi attuati, e delle risorse stanziate globalmente per la realizzazione degli interventi.
I primi tre programmi, che sono descritti di seguito, tutti afferenti alla Programmazione FESR, rappresentano per dotazione finanziaria, il 43% del totale mobilitato in Toscana dalla Programmazione
dei Fondi Strutturali 2000-2006.
l Docup Ob.2 2000-2006
L’Obiettivo generale del Docup della Regione Toscana è orientato alla “riqualificazione e riconversione dei sistemi produttivi e al sostegno dei processi di sviluppo quantitativo e qualitativo dell’occupazione, con particolare riguardo al principio delle pari opportunità e della sostenibilità ambientale degli interventi”. La strategia di intervento del Docup si sviluppa a partire da due principi guida
definiti dal PSR 1998-2000 che informano i criteri per l’allocazione delle risorse tra i diversi livelli
operativi del Programma e per la selezione degli interventi da ammettere a finanziamento. I due
principi guida consistono nel:
- fare sistema, principio questo che privilegia politiche in grado di rafforzare l’unitarietà dell’identità toscana e che trovano attuazione “mediante interventi che incrementano la capacità di
rafforzare le relazioni tra i sistemi locali, settori, filiere produttive”;
118
Montironi M. e Ricci C., a cura di, 2005 "I modelli regionali di programmazione", Formez Centro Formazione e
Studi, Progetto "Sostegno alla Progettazione Integrata nelle Regioni del Centro Nord", Tipografica La Piramide, Roma,
maggio 2005.
119
Il Documento Strategico Regionale (DSR), che definisce le linee strategiche della Regione per la prossima
programmazione dei fondi strutturali, indica i propri obiettivi mutuandoli dai principali documenti regionali di
programmazione, ovvero il PRS 2003-2005 e il Piano di Indirizzo Territoriale (PIT), confermando il radicamento dei
fondi strutturali nel quadro della programmazione ordinaria.
187
-
innovazione e qualificazione sulla base della sostenibilità dello sviluppo, che intende valorizzare
la competitività delle produzioni regionali attraverso il perseguimento della sostenibilità dello
sviluppo.
La strategia di intervento del Docup si articola in tre assi:
I - Sviluppo e rafforzamento PMI, nel quale sono state programmate 9 misure per interventi indirizzati a favore delle PMI della Regione;
II - Qualificazione territoriale, che prevede 8 misure contenenti interventi per la qualificazione delle
infrastrutture territoriali;
III – Ambiente, nel quale sono state programmate 8 misure per interventi in grado di ridurre i principali fattori di rischio ambientale presenti nelle aree di operatività del Programma. Un ulteriore quarto Asse è stato programmato per l’Assistenza Tecnica.
Le risorse finanziare assegnate al Docup per il periodo 2000-2006, ammontano a circa 1.232 milioni
di Euro, di cui 939,6 a titolo delle aree obiettivo 2, e 292,3 milioni di Euro assegnati alle aree con
Sostegno transitorio. A livello di assi prioritari la spesa complessiva del programma risulta così distribuita: Asse I - 491,4 milioni di Euro (39,9%); Asse II - 506,3 milioni di Euro (41,1%) Asse III 217,8 milioni di Euro (17,7%); Assistenza tecnica - 16,4 milioni di Euro (1,3%).
Sotto il profilo dell’attuazione finanziaria, il Docup ha pienamente conseguito gli obiettivi finora
programmati: alla metà del 2005 raggiunge un livello impegni dei beneficiari finali degli interventi
pari a circa 897 Meuro (73% del periodo 2001-2006) ed una spesa effettivamente sostenuta per oltre
604 Meuro, circa la metà del budget programmato. Anche dal punto di vista delle realizzazioni il
Docup si trova in una fase ormai piuttosto avanzata, con oltre la metà dei progetti finanziati già conclusi (2.737). Alla metà del 2005 il complesso delle misure del programma realizza 5.827 progetti
di investimento; di cui 4.071 realizzati da parte di misure di aiuto alle imprese, 894 progetti infrastrutturali, e 862 interventi di servizi al sistema delle imprese ed al territorio.
Il territorio nel Docup
L’individuazione delle aree di operatività del Docup è avvenuta nel rispetto di una logica di continuità con il passato; i territori ammissibili sono in gran parte gli stessi dei precedenti periodi di programmazione. La novità più rilevante riguarda l’inclusione delle cosiddette “aree urbane in crisi”;
alle città di Prato, Livorno e Massa Carrara, destinatarie per oltre quindici anni della assistenza del
FESR, si aggiungono alcune sezioni delle aree ad ovest e nord ovest del Comune di Firenze120, zona
di transizione verso la piana distrettuale e le interconnessioni con le reti di comunicazione.
La territorializzazione operata dalla Amministrazione Regionale ha interessato, seppure con intensità diversa tutte le province toscane. Nel complesso, il Docup interviene sull’82% del territorio regionale e su di una popolazione di oltre 1,8 milioni di abitanti, pari al 52,4% della popolazione totale toscana. Il Docup, che non identifica specifici sottosistemi locali, interviene dunque su di un ambito territoriale molto eterogeneo nel quale sono identificabili almeno 4 tipologie insiediative, sostanzialmente riconducibili ad altrettanti modelli subregionali che sono spesso utilizzati nelle analisi
socio-economiche:
• l’area costiera interessata da estesi fenomeni di deindustrializzazione dovuti a situazioni di crisi
della grande impresa, che hanno spesso determinato significativi fenomeni di criticità nel mercato del lavoro. In questo ambito l’opzione strategica individuata dal Docup consiste nella promozione di interventi in grado di accelerare la crescita del settore turistico;
• aree di piccola e piccolissima impresa relativamente alle quali la scelta del Docup è di favorire
la qualificazione e la crescita delle imprese;
120
Anche nel caso del Piemonte - il cui Docup ha dimensioni finanziarie simili alla Toscana - le zone ammissibili comprendono importanti aree urbane, come la “zona pedemontana settentrionale” e il polo metropolitano torinese. La popolazione toscana inclusa nelle aree di operatività del Docup è pari al 52,4% della popolazione totale, in Piemonte il 59%,
Liguria 70%; vedi il sito ufficiale del programma: http://www.docup.toscana.it e il sito del progetto Formez: http://sviluppolocale.formez.it/centronord
188
•
zone a vocazione rurale, che rischiano di andare incontro a fenomeni di emarginazione, a favore
delle quali il Docup ha programmato interventi in grado di favorire la promozione della ricchezza ambientale e paesaggistica del territorio;
• aree urbane, dove le maggiori criticità sono legate ai fenomeni di immigrazione, il Docup prevede interventi consistenti nella realizzazione di infrastrutture sociali destinate all’inclusione e al
reinserimento sociale.
La possibilità di utilizzare gli strumenti previsti dal Docup in relazione alle particolari problematiche territoriali era demandata nelle precedenti esperienze attuative alla capacità di programmazione
delle Amministrazioni Locali, che non erano direttamente coinvolte nella gestione del Programma.
La scelta della Regione di rendere più effettivo il coinvolgimento del territorio nella attuazione del
Docup 2000-2006 emerge concretamente nella scelta, operata di in sede di riprogrammazione, di destinare il 30% delle risorse stanziate per il secondo triennio (2004-2006) al finanziamento di PISL
(Piani Integrati di Sviluppo Locale).
La progettazione locale integrata nel DocUP – L’esperienza dei PISL
Le esperienze di programmazione integrata in Toscana (Montironi et al. 2005) sono state numerose;
prime fra tutte quelle legate ai fondi strutturali, i patti territoriali (Mef 2003; Freschi 2001), ma anche
gli accordi di programma quadro e le intese istituzionali. Tuttavia è con il “Piano regionale di sviluppo” (PRS) per gli anni 2003-2005 (approvato dal Consiglio Regionale il 18 Dicembre 2002) che
la Giunta Regionale delinea un percorso teso al superamento dell’approccio di natura settoriale nella
programmazione delle politiche di sviluppo territoriale.
Parallelamente alla discussione del testo del PRS la Direzione Generale dello “Sviluppo
economico” aveva già avviato alcune forme di sperimentazione di programmazione integrata: il
“Progetto pilota integrato sul sistema moda della Toscana” (PPI) e successivamente quello orientato
al settore della meccanica e denominato "2, 3 e 4 ruote" costituiscono i primi tentativi di applicazione delle indicazioni contenute nel PRS. Nel Docup approvato dalla Commissione con Decisione
C(2001) n. 2725 del 27 Settembre 2001, si legge: “La Regione promuoverà l'elaborazione di programmi intersettoriali denominati "Progetti Integrati di Sviluppo Locale", i quali, frutto di un'ampia
concertazione condotta su base locale, comprenderanno interventi a largo raggio, tanto sul sistema
produttivo che sulle risorse umane.”
L’introduzione di una prassi di programmazione concertata con i livelli territoriali all’interno delle
modalità di attuazione e gestione del Docup avrebbe l’effetto di integrare gli interventi e le politiche
promosse dai regolamenti e dagli indirizzi politici comunitari attraverso i due fondi. Ma lo scopo
principale era quello di promuovere in modo diffuso, anche nelle amministrazioni locali, la capacità
di gestione di programmi complessi, integrati, e nel quadro di obiettivi di sviluppo ampiamente concertati e, possibilmente, condizionali121.
Il modello di progettazione integrata viene definito con regole e procedure contenute in due documenti: il “Disciplinare di progettazione e selezione” e “Disciplinare di attuazione 122”. Ogni singolo
PISL deve essere localizzato in un ambito territoriale circoscritto ed interamente compreso all’interno delle aree ammissibili del Docup; si configura come un insieme di operazioni pubbliche e private, articolate mediante integrazione progettuale in un determinato ambito territoriale al fine di perseguire alcune finalità:
- realizzazione funzionale degli interventi che fanno riferimento ad Assi prioritari, Misure/Azioni
diverse (integrazione funzionale);
121
Sulla condizionalità come cardine della regolazione dei programmi integrati, vedi: Bressan Massimo e Caporale
Albino,, 2002, “L’irruzione del territorio nelle politiche di sviluppo. Programmazione negoziata, Fondi strutturali e
«nuova programmazione»”, in Sviluppo locale, IX, 19, 2002.
122
Il primo approvato con la Delibera della Giunta Regionale N 31 del 20 Gennaio 2003, il secondo con la Delibera
N .637 del 05-07-2004.
189
-
produzione di una catena logica di decisioni che evidenzi l’integrazione nel contesto e negli impatti generati anche attraverso l'integrazione di interventi contenuti in altri programmi comunitari, nazionali e regionali (integrazione di contesto);
- coinvolgimento di una pluralità di soggetti pubblici e privati nella realizzazione di interventi di
interesse comune per la soluzione di specifici problemi di interesse del territorio di riferimento
(integrazione istituzionale);
- conseguimento degli obiettivi locali di miglioramento ambientale (integrazione del livello ambientale).
La principale caratteristica del PISL consiste nella sua natura di “progetto”, all’interno del programma Docup; un progetto locale esalta l’unitarietà degli interventi che il Programma comprende e utilizza le modalità di attuazione e il sistema dei controlli previsti nel Complemento di programmazione. Un vincolo importante che viene dato alla programmazione locale riguarda le misure che possono contribuire alla sua attuazione. L’autorità di gestione decide di escludere, con diverse motivazioni, alcune misure di incentivo diretto alle imprese, inclusa la ricerca industriale, la misura orientata
alla creazione di reti tra imprese ed enti di ricerca, ed altre di carattere infrastrutturale. Non è prevista una responsabilità a livello del singolo progetto, ma è la Provincia a mediare tra gli interessi locali coalizzati intorno all’idea di progetto. Le Province hanno presentato 14 domande di PISL123. Il
complesso delle operazioni per cui viene richiesto il finanziamento sono 684 per un ammontare di
quasi 385 milioni di euro di investimenti complessivamente previsti. I progetti sono prevalentemente di carattere infrastrutturale, circa l’80% delle operazioni, mentre il resto riguarda “manifestazioni
di interesse” presentate da imprese per la realizzazione di operazioni da finanziare nell’ambito di
misure in “regime di aiuto”. La distribuzione delle domande presentate con riferimento agli assi
prioritari e alle misure interessate del Docup mette in evidenza:
• una forte concentrazione nell’ambito delle misure dell’Asse 2 – Qualificazione territoriale,
sia del numero di operazioni presentate che della quantità di risorse richieste: circa il 68%
del totale dei progetti presentati ed al 67% delle risorse complessivamente richieste al Docup
da parte dei PISL. Le misure che presentano il maggior numero di richieste sono la Misura
2.1 Infrastrutture per il turismo e commercio seguita dalla Misura 2.2 – Infrastrutture per la
cultura e dalla Misura 2.4 – Infrastrutture per i settori produttivi. In queste tre misure si concentra il 93% dei progetti presentati e delle risorse richieste nell’ambito dell’Asse 2;
• seguono a notevole distanza gli altri due Assi prioritari del Docup. Asse 1 – Sviluppo e rafforzamento PMI, 18% delle proposte presentate e 13% delle risorse finanziarie richieste;
• il gruppo delle misure dell’Asse 3 – Ambiente: proposte presentate pari al 14% del totale dei
progetti candidati nell’ambito di tutti i PISL; risorse complessivamente richieste pari al 19%
del totale dei PISL. La distribuzione interna a questo Asse evidenzia una forte concentrazione (con oltre la metà dei progetti e delle risorse) nella Misura 3.9 - Difesa del suolo e sicurezza idraulica.
Il processo di valutazione complessiva da parte del NURV e dell’Autorità Ambientale si conclude
con l’approvazione di 10 PISL. Le operazioni ammissibili sono state classificate sulla base del grado di integrazione; ed in particolare come: operazioni integrate; operazioni meno integrate, ma funzionali e dunque ammissibili; operazioni non integrate che quindi vengono escluse. Le operazioni
integrate e funzionali sono il 70% di tutte le operazioni ammissibili e rappresentano l’insieme delle
operazioni finanziabili. Una ulteriore riduzione dei progetti finanziati deriva dalla scelta regionale,
dettata dai vincoli di carattere finanziario, di procedere al finanziamento delle sole operazioni “integrate”.
123
Vedi i Rapporti annuale di esecuzione per gli anni 2003-4: http://www.docup.toscana.it/gestione/monitoraggio/monitoraggio.htm
190
Il Programma Regionale delle Azioni Innovative (PRAI) 2002-2003
Il ciclo di programmazione FESR 2000 – 2006 ha destinato una quota di risorse pari all’1% del totale per il finanziamento di “azioni innovative” che consentissero la sperimentazione di nuove modalità di intervento in grado di innovare il mainstreaming dell’operatività dei fondi strutturali in tre
ambiti identificati dalla Commissione Europea124: (i) economia regionale basata sulla conoscenza e
l'innovazione tecnologica; (ii) società dell'informazione al servizio dello sviluppo regionale;
(iii)identità regionale e sviluppo sostenibile.
La Regione Toscana ha promosso il Programma Regionale di Azioni Innovative denominato “Innovazione Tecnologica in Toscana” (PRAI-ITT) il cui obiettivo generale era di stimolare i processi di
innovazione tecnologica nelle imprese toscane attraverso la costituzione di “reti di cooperazione tra
imprese, centri di ricerca, università, istituzioni pubbliche locali, centri per l’innovazione, centri di
servizi alle imprese, agenzie formative e organismi finanziari”. L’esperienza maturata con l’attuazione del PRAI è stata utilizzata per l’elaborazione di misure di intervento che hanno trovato applicazione del Docup 2000-2006 della Regione Toscana.
Il principale elemento di novità del programma consiste nella definizione del beneficiario finale dei
sussidi pubblici: la rete di imprese e altre istituzioni impegnate nella produzione e trasferimento di
innovazione. Il Programma era infatti orientato a stimolare la creazione di reti di cooperazione strutturata tra imprese e centri di produzione e trasferimento dell’innovazione, in grado di proporre e sviluppare progetti pilota di processi di trasferimento di tecnologia “dal mondo della ricerca scientifica
a quello della produzione industriale, riproducibili in tutte le aree della Regione” 125.
Il PRAI, che riprende e sviluppa le esperienze realizzate nei precedenti programmi comunitari denominati RITTS e RIS, ha una dotazione iniziale di risorse pari a 6 milioni di euro che vengono destinate all’implementazione di 6 linee di azione. Le Azioni previste dal Programma coinvolgono contesti territoriali diversi per disposizione geografica e caratterizzazione socioeconomica. I territori interessati dal Programma sono i Sistemi Locali di Produzione specializzati nelle produzioni tradizionali, le aree rurali caratterizzate dalle produzioni agroindustriali, le aree a declino industriale e i tre
poli universitari regionali di Firenze, Pisa e Siena.
Il Programma ITT parte dall’identificazione dei bisogni delle imprese per definire metodi operativi
per il trasferimento tecnologico e per la diffusione dell’innovazione. Sono state individuate due distinte tipologie di imprese rispetto alla domanda di innovazione126: a) piccole e medie imprese dei
settori tradizionali; b) piccole e medie imprese operanti in settori high-tech. Una delle finalità principali del programma consiste nel rendere proattivi gli agenti dei processi innovativi in tutte le fasi
del Programma: dalla presentazione delle linee progettuali alla loro implementazione.
I costi ammissibili delle attività finanziate ammontano a 6,7 milioni di euro, una cifra che supera
quella contenuta nel piano finanziario iniziale. Questo esito è stato reso possibile soprattutto dalla
disponibilità dei privati a coprire quote di contribuzioni maggiori rispetto a quelle contenute nel piano finanzario iniziale, indice questo della buona accoglienza del Programma da parte del sistema
produttivo regionale.
Sono stati finanziati 14 progetti pilota su 36 proposte progettuali. Le reti costituitesi hanno coinvolto 136 PMI che hanno avviato relazioni di cooperazione con il sistema regionale della ricerca universitaria e del trasferimento di innovazione tecnologica. Riguardo alla distribuzione geografica dell’intervento, tutte le province hanno presentato proposte progettuali, con picchi significativi per le
Province di Pisa (12 progetti, 6 dei quali presentati a valere della prima azione, 3 sulle terza azione)
e di Firenze, anticipando dunque i risultati degli interventi analoghi che sono stati realizzati succes-
124
Comunicazione del 31-01-2001, COM (2001) 60-005
Regione Toscana, PRAI ITT; “Innovazione tecnologica in Toscana” - Programma Regionale di Azioni Innovative
2002-2003 (cfr. www.innovazione.toscana.it).
126
Cfr. PRAI ITT, pagg 13-14.
191
125
sivamente con il Docup . La distribuzione geografica delle proposte progettuali avanzate riflette il
carattere territoriale delle specializzazioni produttive regionali.
Assumendo il dato della presentazione dei progetti quale “indicatore” della propensione all’innovazione e di efficacia della fase progettuale, le prevalenze territoriali sembrano confermare alcune formulazioni sul dibattito relativo a (i) le differenze “intra-territoriali”; (ii) alla relazione tra la propensione ad innovare e i fenomeni di tipo distrettuale e cooperativo; (iii) al legame tra la propensione
ad innovare e la presenza sul territorio di soggetti con elevate competenze tecnologiche. Come largamente sottolineato in letteratura la capacità relazionale è la leva principale per consentire l’avvio
e la strutturazione di percorsi innovativi nei sistemi di piccola impresa. L’elemento determinante per
favorire lo sviluppo e la diffusione delle prassi innovative è dunque la presenza di efficaci procedure per la gestione delle relazioni, formali ed informali, tra imprese e i soggetti che promuovono ricerca e trasferimento tecnologico.
L’esperienza realizzata dal Programma ha confermato la presenza e il ruolo centrale di questi attori
nel coordinamento delle reti. Questi attori agiscono all’interno dei centri di innovazione e trasferimento, Università, grandi imprese committenti delle attività di ricerca, fornitori di servizi, enti locali, clienti innovativi, piccole imprese, altre infrastrutture tecnologiche127. Questi attori si configurano
dunque come i soggetti intorno ai quali costruire le future politiche per la promozione dell’innovazione proprio in virtù della loro capacità di coordinare e stabilizzare le relazioni tra i nodi costitutivi
delle potenziali reti di innovazione.
Il PIC URBAN II del Comune di Carrara
L’Iniziativa Urban II 2000-2006 ha finanziato nella Regione Toscana il solo programma proposto
dal Comune di Carrara. Il programma interessa una buona porzione di territorio cittadino, 28
Kmq128 situati nella parte collinare storica della Città che comprende la zona di escavazione del
marmo a monte, il centro urbano più antico, e altre zone adiacenti, nella quale vivono circa 35.000
abitanti129. Dal punto di vista urbanistico l’area presenta una situazione critica dovuta alla coesistenza di funzioni diverse, tra loro conflittuali. Si trovano infatti al suo interno: ambiti residenziali, strade di comunicazione con elevato traffico di mezzi pesanti, emergenze storico artistiche e imprese
produttive.
Per questo l’area bersaglio del PIC costituisce un luogo privilegiato per la sperimentazione di politiche di intervento di integrazione e riqualificazione che possono diventare esperienze pilota anche
per altri ambiti cittadini. Per fare fronte a queste molteplici criticità, il PIC Urban II di Carrara prevede l’attuazione di un insieme integrato di azioni riconducibili a tre principali assi di intervento:
Asse 1 - Riurbanizzazione plurifunzionale ed ecocompatibile degli spazi urbani; Asse 2 - Imprenditorialità e promozione turistica e culturale; Asse 3 - Strategia di lotta contro l’esclusione e la discriminazione.
L’obiettivo perseguito dal Programma è di quello di creare le condizioni per una “Città Sostenibile”
nei suoi aspetti fisici, sociali e culturali e di fornire opportunità di posti di lavoro in vari settori e
con più iniziative integrate e legate all’identità storica, produttiva e artistica della “città del marmo”.
In questo senso il Programma presenta una forte integrazione nei propri interventi, che aggrediscono
il problema del degrado urbano nei diversi aspetti nei quali si manifesta: inoltre esso si presenta
strettamente integrato con il complesso degli interventi programmati su scala locale. Tra gli esempi
più significativi di questa integrazione va ricordato l’intervento destinato alla realizzazione di un by
pass urbano (seconda misura del primo asse di intervento) in grado di dirottare al di fuori del centro
urbano il traffico pesante generato dal trasporto di materiale lapideo. L’intervento finanziato da Ur127
Russo M. e Rossi F., 2005, Stimolare l’innovazione con strumenti innovativi: reti di partenariato e sviluppo locale nei
programmi innovativi, Paper presentato al Congresso dell’Associazione Italiana di Valutazione, Catania 17-19 marzo
2005.
128
Quasi il 40% dell’intero territorio comunale, cui corrispondono 71 kmq.
129
Per la precisione 34.635 pari a quasi il 53% della popolazione totale del comune di 65.692 abitanti.
192
ban è parte di un progetto più ampio che prevede la realizzazione di una strada, denominata “Strada
del Marmo”, destinata al traffico generato dalla locale industria lapidea, che viene finanziata anche
con fondi del Docup e del CIPE.
Le risorse del programma ammontano complessivamente a 27,419 milioni di euro. La quota preponderante di queste risorse è assegnata al primo asse prioritario (15,590 milioni di euro, pari al 56,9%
delle risorse totali) che prevede interventi di tipo infrastrutturale (diretti alla produzione di beni pubblici specifici secondo la tassonomia utilizzata più avanti per l’analisi degli interventi del Docup).
Al secondo asse prioritario, che prevede sia interventi di natura infrastrutturale volti a rilanciare l’economia del marmo e il turismo culturale, che incentivi diretti alle imprese locali, il Piano finanziario assegna poco meno del 32% delle risorse. Al terzo asse prioritario infine sono state assegnate risorse per 1,6 milioni di euro, destinate alla realizzazione di infrastrutture per il superamento dell’esclusione sociale.
Sul fronte attuativo, dopo un avvio reso difficile dall’evento alluvionale che nel 2003 ha interessato
l’area di intervento e che ha costretto a riconsiderare la realizzazione di alcune azioni programmate,
nel corso del biennio successivo si è registrato un andamento positivo. Alla data del settembre 2005
l’avanzamento finanziario del Programma era arrivato ad utilizzare il 45% circa delle risorse. L’avanzamento del Programma è dovuto in buona parte agli interventi infrastrutturali del primo asse
prioritario, che hanno generato più dei due terzi della spesa complessiva effettuata al settembre
2005. In particolare alla data considerata erano stati portati a conclusione i lavori del lotto relativo
alla realizzazione del by pass urbano, più altri interventi di recupero ambientale programmati nella
prima misura del primo asse prioritario.
La distribuzione della spesa pubblica nelle classi
Il Docup ob. 2 ha alimentato un ampio ricorso a misure di incentivo agli investimenti delle imprese
e al rafforzamento delle economie esterne localizzate. La percentuale delle risorse pubbliche concentrate in questo tipo di interventi è prossima al 56%. I “vantaggi per efficienza” dei sistemi produttivi locali sono la finalità principale del programma; vi sono compresi, tanto gli incentivi alle imprese che infrastrutture legate alle particolarità dei sistemi produttivi locali. I vantaggi per innovazione concentrano poco meno del 9% della spesa prodotta dal Docup e per il 90% alimentano la
spesa delle imprese. Il consolidamento delle “capacità” dei territori attraverso la costruzione di beni
pubblici concentra poi la quota restante delle risorse finananziarie del Docup (35%).
La modalità prevalentemente adottata dal Docup (“incentivi diretti alle imprese”) produce forme automatiche di allocazione delle risorse, quali i regimi di aiuto alle imprese; essa ha un peso finanziario consistente, circa il 45% della spesa pubblica totale. Le due modalità orientate alla “creazione di
beni pubblici” raccolgono insieme il 55% circa delle risorse pubbliche, con la prevalenza degli interventi orientati ai territori (“vantaggi per incremento delle capacità dei territori”) rispetto alla produzione o rafforzamento di economie esterne nei sistemi produttivi locali.
I beni pubblici generici sono prevalenti rispetto agli specifici; ciò evidenzia come sia stato effettivamente realizzato l’orientamento regionale teso a completare l’insieme degli investimenti infrastrutturali già avviati nel territorio, in una fase (il periodo di programmazione 2000 - 2006) che si prospettava allora, con l’allargamento dell’Unione Europea alle porte, come l’ultima possibilità di beneficiare di un consistente sostegno strutturale.
La spesa pubblica nei SLL
Vediamo come si è concentrata nel territorio regionale la spesa pubblica attivata con il Docup . Per
cogliere meglio le caratteristiche delle prassi che sono state attuate a livello comunale presentiamo
193
di seguito alcune rappresentazioni della concentrazione della spesa pubblica (fondi nazionali e
FESR) nei sistemi locali del lavoro ISTAT; in questo modo, oltre a descrivere in modo più completo le aree urbane, si colgono anche le strategie dei distretti industriali e delle aree manifatturiere
comprese nell’obiettivo 2. L’analisi viene condotta sui dati di attuazione del Docup Ob. 2 anni
2000-2006, dal momento che esso mette a disposizione un archivio di monitoraggio che consente di
effettuare una capillare analisi territoriale per specifiche categorie di interventi.
I Sistemi Locali del Lavoro (SLL) che ricevono l’intervento dei fondi strutturali in Toscana sono 53
ma la spesa pubblica si concentra fortemente in alcuni di questi: infatti, come evidenziato dalla tabella successiva, oltre due terzi circa della spesa pubblica si concentra nei primi 15 SSL, che hanno
ricevuto un contributo superiore ai 10 milioni di euro.
I primi 5 SLL per dimensione finanziaria sono anche quelli che comprendono i principali poli urbani regionali (Firenze, Prato, Pisa, Livorno e i due SLL di Massa e Carrara, che ai fini di questa analisi consideriamo aggregati), essi concentrano il 40% della spesa pubblica totale.
Segue un gruppo di 3 tre importanti poli produttivi: il distretto industriale conciario di S. Croce sull’Arno, il polo meccanico di Pontedera e quello siderurgico di Piombino. Questi SLL concentrano il
10% della spesa pubblica totale.
Due capoluoghi di provincia, Siena e Grosseto, poi Cecina in provincia di Livorno (oltre 15 milioni
di euro), e Follonica in provincia di Grosseto (quasi 13 milioni di euro), per un ulteriore 10%.
Chiudono la lista tre SLL nei quali la spesa pubblica ha superato i 10 milioni di euro; sono aree parzialmente rurali, localizzate nelle province di Massa Carrara (Aulla), Pistoia (S. Marcello Pistoiese)
e Pisa (Volterra).
La tabella seguente mostra, per ogni SLL, il numero dei Comuni, la popolazione (la popolazione
compresa nell’obiettivo 2 non coincide sempre con la popolazione residente nel SLL), le operazioni
finanziate e l’indice di concentrazione della spesa130.
Come si vede la concentrazione della spesa è piuttosto accentuata nel primo gruppo, cui corrispondono importanti aree urbane, in particolare Prato e Livorno. Unico valore basso è quello di Firenze,
che comprende un ampio numero di Comuni e dunque disperde maggiormente la spesa, pur sempre
all’interno dell’area metropolitana. Anche i SLL di Pisa e Grosseto presentano un’alta concentrazione della spesa all’interno del SLL.
La lettura della morfologia territoriale dell’intervento pubblico (tab. 4) presenta modelli di combinazione delle categorie di intervento che differiscono anche sensibilmente l’uno dall’altro e che lasciano intravedere strategie locali che emergono dall’apparente casualità della concentrazione degli incentivi. L’interpretazione della concentrazione della spesa pubblica nei singoli SLL deve tenere
conto sia degli interventi che sono stati promossi dai territori nelle precedenti programmazioni che
della integrazione tra gli interventi del Docup con quelli riconducibili ad altri strumenti, come ad
es., il PRAI, Urban, la programmazione negoziata 131, il Fondo per le Aree Sottoutilizzate (FAS)132 e
così di seguito.
Se si considerano le diverse classi di spesa, l’intervento pubblico attuato con il Docup presenta su
base territoriale una notevole differenziazione. La spesa per l’innovazione, che nel complesso costituisce una parte secondaria degli interventi del Docup, assume invece un forte rilievo nei sistemi lo130
L’indice di concentrazione varia tra 0 (quanto ciascun comune del SLL riceve la stessa quota di finanziamento) e 1
(quando uno solo dei comuni riceve l’intero finanziamento). È ottenuto con la seguente formula: dove cv rappresenta il
coefficiente di variazione del finanziamento, n è il numero dei comuni e il massimo che il coefficiente di variazione può
raggiungere, nel caso di massima concentrazione.
131
Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione, La lezione dei Patti
territoriali per la progettazione integrata territoriale nel Mezzogiorno, 2003; Freschi A.C., 2001 “Capitale sociale, politica e sviluppo locale. L’esperienza dei Patti in Toscana”, in Stato e Mercato, n. 3, 2001, pp. 451-486.
132
MEF – DPS, “Il Fondo per le Aree Sottoutilizzate Elementi informativi sull’attuazione nel 2004-2005”, Roma
Settembre 2005 (http://www.dps.mef.gov.it).
194
cali di Firenze e, in particolare, di Prato: i due SLL insieme concentrano il 60% della spesa regionale nei “vantaggi per innovazione”. La composizione degli interventi finanziati nei due SLL è tuttavia piuttosto diversa: fortemente caratterizzata dagli investimenti privati a Prato e più equilibrata a
Firenze, dove agli investimenti delle imprese si affiancano un certo numero di progetti di enti pubblici nel rafforzamento delle reti tecnologiche e nella ricerca. Nel SLL di Prato quasi il 30% della
spesa deriva da incentivi all’investimento delle imprese nella “ricerca industriale precompetitiva” e
nella innovazione133 tecnologica, concessi sul bando dalla misura 1.1.
Sempre nell’ambito degli interventi diretti a favorire la capacità innovative regionale, va sottolineato il dato del SLL di Pisa, dove il 10% della spesa deriva da interventi diretti alla creazione di reti
tra imprese ed enti di ricerca in specifici cluster produttivi. Anche in questo caso il dato dipende dalle caratteristiche del contesto territoriale, dove sono localizzate una parte rilevante delle istituzione
presenti in Toscana per le attività di innovazione e trasferimento tecnologico (CNR, Università, istituti di istruzione superiore) e dalla capacità del Docup di programmare interventi in grado di mobilitare la capacità progettuale locale. L’intervento del FESR per il sostegno alle attività innovative in
questo sistema locale risulta ancora più rilevante qualora si consideri anche l’attuazione del PRAI,
dove 12 delle 36 idee progettuali di rete sono state candidate da soggetti attivi nella provincia pisana.
Il SLL di Firenze presenta una forte concentrazione di incentivi diretti alle imprese, maggiore della
media regionale, e un peso notevole degli interventi mirati alla creazione di beni pubblici specifici.
Si tratta del recupero di immobili di rilevanza storica, della valorizzazione dei centri storici ed aree
commerciali naturali, realizzazione di impianti per il trattamento dei rifiuti, una serie di interventi
che migliorano le condizioni di localizzazione per le attività economiche e dei servizi per i cittadini
residenti.
Le aree urbane di Prato e di Livorno fanno registrare una notevole concentrazione di spesa negli interventi volti alla realizzazione di economie esterne (generiche nel primo caso, generiche e specifiche nel secondo caso) in grado di aumentare la capacità competitiva delle sistemi produttivi locali.
A produrre questa concentrazione di spesa sono stati, nel caso di Livorno, l’insieme degli interventi
condotti sull’area portuale e quelli per il trattamento dei rifiuti industriali; nel caso di Prato invece la
spesa in questa classe è stata spinta dagli interventi di completamento delle infrastrutture avviate nei
precedenti cicli di programmazione del FESR (Interporto, depurazione delle acque, ecc.).
Nell’area di Massa-Carrara più della metà della spesa si concentra negli incentivi diretti alle imprese, un livello che non raggiungono neppure i SLL degli altri poli industriali. Nel solo sistema locale
di Massa le spese per la realizzazione di beni pubblici generici sono stati realizzati attraverso la prosecuzione di interventi avviati nei precedenti cicli di programmazione FESR, mentre a Carrara questa tipologia di interventi è stata realizzata anche attraverso l’attuazione del Programma di Iniziativa
Comunitaria Urban II.
Nel SLL di Santa Croce sull’Arno si regista un sostanziale bilanciamento tra gli incentivi diretti alle
imprese e gli interventi volti alla creazione di beni pubblici. La presenza di un sistema produttivo
molto attivo ha determinato una alta concentrazione di spesa, pari al 40%, negli interventi diretti a
favore delle imprese; considerando il 13% di spesa diretto allo sviluppo delle economie esterne (realizzato attraverso interventi sul sistema viario e insediativo), più della metà della spesa locale è stata
diretta al sostegno del sistema produttivo locale. La forte concentrazione di spesa che si registra per
la creazione di beni collettivi generici deriva in gran parte dagli interventi svolti sul sistema delle
depurazione delle acque, già interessato dai precedenti periodi di programmazione.
Gli interventi per la realizzazione di beni collettivi mostrano una notevole concentrazione nei SSL
di Volterra e di San Marcello Pistoiese dove sono stati realizzati interventi di promozione ambienta133
Va ricordato a questo proposito che nel biennio 2004-2002, le esportazioni tessili pratesi subiscono una contrazione
del 10%: nello stesso periodo si registra una diminuzione di quasi 500 unità (9,5%) nello stock delle imprese attive sul
territorio.
195
le e culturale del territorio. La presenza di rilevanti problemi ambientali, in buona parte legate alle
attività produttive svolte in loco, ha determinato una forte concentrazione della spesa nella creazione di beni pubblici nei Sistemi locali di Follonica e di Piombino. In questi territori, rientranti nell’area costiera secondo quanto definito dal Docup, l’attuazione del Programma ha fatto registrare, accanto a interventi diretti a migliorare la situazione ambientale dell’area, numerose azioni dirette ad
accrescere le potenzialità turistiche del territorio: significativi in questo senso sono stati gli interventi realizzati sul Parco della Val di Cornia, che prosegue un’esperienza avviata nei precedenti periodi
di programmazione FESR.
Conclusioni
Il quadro territoriale e la programmazione dell’intervento pubblico regionale
Fin dai primi anni ’70, con i contributi di Becattini e dell’Irpet, la riflessione sulle forme territoriali
dello sviluppo locale in Toscana ha evidenziato una pluralità di modelli di territorializzazione dello
sviluppo economico connessa al portato identitario di lunga durata con le sue determinati di carattere goemorfologico e culturale.
La struttura fisica regionale ha condizionato lo sviluppo di un sistema insediativo policentrico che,
pur nel costituzione di una armatura urbana forte, in particolare collocata nella Toscana centro-occidentale (valle del’Arno), non ha evidenziato quei processi di polarizzazione metropolitana che una
interpretazione “lineare” della crescita economica avrebbe potuto far supporre.
La pluralità delle Toscane e dei suoi modelli di sviluppo locale resta dunque lo sfondo ad un sistema
insediativo di tipo policentrico che, anche nelle sue aree di maggiore densificazione – soggette peraltro in alcune parti alle “patologie” della diffusione urbana - mostra di poter contare più sulle potenziali complementarità fra i diversi centri che sul raggiungimento di economie di agglomerazione
legate ad un modello urbano di tipo gerarchico.
Le rilevazioni censuarie più recenti e le stesse analisi tese ad osservare i diversi gradienti delle
“morfologie sociali”, i documenti strategici della programmazione e pianificazione regionali confermano questo quadro interpretativo che comunque non esclude il valore di centralità e connettività
sovralocale espresso da specifici “sistemi urbani aperti” sostanzialmente identificabili con il capoluogo regionale, il polo universitario pisano e con alcuni (pochi) sistemi territoriali di piccola impresa.
In questo contesto insediativo si manifestano peraltro alcune criticità non trascurabili riconducibili
in particolare all’elevato livello di congestione della parte di territorio più densamente abitata la
quale manifesta elevati problemi di accessibilità interna ed esterna e conseguenti pressioni ambientali legati sia al sistema delle acque che alle emissioni gassose.
Ogni concreto approccio allo sviluppo locale – come sostiene Becattini 134 - deve essere di tipo integrato: «produzione e riproduzione sociale si alimentano a vicenda. Anzi sono, in definitiva, la stessa
cosa». Un’affermazione che esalta l’interdipendenza tra i sistemi produttivo e sociale. Proprio in
virtù di questa relazione il sistema locale viene definito come un luogo di accumulazione di esperienze produttive e un luogo di produzione di nuova conoscenza. Questa proprietà del sistema deve
essere considerata centrale da qualsiasi approccio teso alla valorizzazione dei saperi locali nelle politiche di intervento sul territorio.
Rispetto alla descrizione delle immagini della Toscana, che ha cercato di tenere in stretto collegamento fattori socio economici e forme del territorio, si inserisce la recente tendenza del governo re-
134
Becattini, G., 2001, “Metafore e vecchi strumenti. Ovvero: della difficoltà d’introdurre il “territorio” nell’analisi economica”, in G. Becattini, M. Bellandi, G. Dei Ottati e F. Sforzi, a cura di, Il caleidoscopio dello sviluppo locale. Trasformazioni economiche nell’Italia contemporanea, Torino, Rosenberg & Sellier, 2001 p. 22.
196
gionale verso un rafforzamento della integrazione e coordinamento fra obiettivi, strategie e strumenti della programmazione alle diverse scale e la pianificazione territoriale.
Questo processo inizia con la legge regionale 5/95 “norme per il governo del territorio”, si consolida
negli anni con la successiva legge 49/99 sulla programmazione regionale, con il Piano Regionale di
Sviluppo 2000-06, il Piano Regionale dello Sviluppo Economico (PRSE) 2001-2005, la definizione
del Docup ob. 2 e i connessi strumenti operativi come il PISL;viene ulteriormente definito con la
LR 1/05 che sostituisce la L.R. 5/95 e che introduce ad ogni livello di pianificazione lo “statuto del
territorio” assunto dalla stessa revisione della L.R. 49/99 (L.R. 61/04) come dato preliminare alla
definizione degli obiettivi di sviluppo locale.
In questo contesto di inquadramento normativo e di dinamica territoriale si inseriscono le elaborazioni di programmazione e pianificazione più recenti della Regione Toscana costituite dai primi indirizzi del PIT (piano di indirizzo territoriale) e del PRS, entrambi attualmente in fase di elaborazione.
La sostanziale consonanza analitica ed interpretativa (anche con il DSR) di questi due documenti
porta alla definizione di 4 obiettivi strategici su cui si dovranno concentrare le strategie ed azioni di
sviluppo territoriale (cfr. pag.21) e che -in particolare i primi tre riferiti alla piattaforma logistica occidentale, alla qualità degli ambienti insediativi metropolitani e alle reti di innovazione economicasono in stretta relazione con le questioni legate alla politiche urbane e ai vari strumenti di intervento.
Su questo tema, tuttavia, l’indagine rivela una certa debolezza delle esperienze condotte in Toscana
nell’ultimo decennio, almeno per quanto riguarda una adeguata valorizzazione delle opportunità offerte dai “programmi complessi”, negoziali ma anche necessariamente selettivi.
L’applicazione di questi programmi è apparsa fortemente condizionata, con alcune eccezioni, dalla
carenza di forti linee strategiche e linee guida regionali in grado di consentire la individuazione di
gerarchie e regole nelle logiche di intervento.
La episodicità territoriale ed eterogeneità di stili progettuali di intervento non ha forse consentito di
mettere a frutto tutte le potenzialità ascrivibili a questi strumenti di innovazione.
Per converso, una relativa efficacia –almeno dal punto di vista dell’inquadramento strategico- è stata evidenziata da quegli strumenti che, come i PRUSST, consentono di operare più su di una logica
di sistema probabilmente più adatta al profilo policentrico della armatura urbana regionale.
In sintesi si può osservare che i limiti di questo genere di azioni possono essere probabilmente ricondotti ad una debole specificazione e territorializzazione dei temi urbani ed insediativi nel PIT vigente con una non adeguata integrazione rispetto ai temi strategici enunciati nel PRS 2001-05. Tale
criticità sembra tuttavia essere affrontata nella attuale impostazione di governo del territorio ed in
particolare nel più stretto coordinamento fra i nuovi strumenti –PIT e PRS attualmente in fase di
elaborazione.
La gestione dell’intervento del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale in Toscana
La spesa pubblica del Docup
Riguardo alle finalità degli interventi finanziati, la spesa del Docup è stata caratterizzata soprattutto
da interventi volti ad incidere sulla competitività dei sistemi produttivi locali (che da sola produce il
56% della spesa complessiva). Circa un terzo della spesa (35,3%) è legata a interventi volti ad aumentare la “capacità dei territori”; infine soltanto il 9% della spesa riguarda gli interventi diretti all’innovazione.
197
Se si considerano le modalità perseguite, prevalgono gli incentivi diretti alle imprese, che hanno
prodotto circa il 45% della spesa; le due modalità volte alla “creazione di beni pubblici” raccolgono
insieme poco più del 55% delle risorse pubbliche, con una prevalenza degli interventi orientati ai
territori (“vantaggi per incremento delle capacità dei territori”) rispetto alla produzione o rafforzamento di economie esterne nei sistemi produttivi locali.
Gli interventi per la realizzazione di beni pubblici generici sono prevalenti rispetto a quelli per la
realizzazione di beni pubblici specifici; ciò evidenzia come sia stato effettivamente realizzato l’orientamento regionale teso a completare l’insieme degli investimenti infrastrutturali già avviati nel
territorio, in una fase (il periodo di programmazione 2000 - 2006) che si prospettava allora, con l’allargamento dell’Unione Europea alle porte, come l’ultima possibilità di beneficiare di un consistente sostegno strutturale.
Nel quadro dell’attuazione del Docup gli interventi volti a favore della capacità innovativa del sistema regionale hanno concentrato complessivamente una parte minoritaria di risorse (meno del 9%
della spesa complessiva). La parte maggiore di questa spesa (79,1%) è stata realizzata attraverso il
ricorso a incentivi diretti alle imprese. Un peso molto limitato hanno assunto, in questa finalità, le
azioni volte a realizzare beni pubblici, generici e specifici.
Le distribuzione territoriale della spesa pubblica
La distribuzione territoriale della spese pubblica presenta una notevole concentrazione: infatti i due
terzi circa della spesa complessiva è localizzata in 15 SLL (sui 53 inclusi nell’area di operatività del
Docup).
All’interno dei SLL, la composizione della spesa, sia per le finalità perseguite che per le modalità
adottate, presenta molte differenziazioni. La variabilità dei modelli di spesa pubblica che emerge
dall’archivio di monitoraggio del Docup per SLL lascia trasparire una certa intenzionalità nell’utilizzo dei fondi disponibili. Inoltre, l’analisi della localizzazione della spesa mostra come, spesso, le
strategie di sviluppo perseguite dai territori siano indipendenti dai singoli strumenti finanziari, ma
dipendano molto di più dalla capacità di mobilitare “prassi integrate” nella gestione dell’intervento
pubblico, come emerge, ad es., nel caso di Massa Carrara, dove l’intervento Urban ha accompagnato l’attuazione del Docup.
La concentrazione di interventi tesi alla realizzazione di beni pubblici generici è maggiore in aree
quali Prato, Massa Carrara e Livorno, che partecipano ai fondi strutturali da molti anni ed hanno già
avuto modo di avviare la realizzazione di buona parte delle infrastrutture “strategiche”, che nelle
fasi più recenti sono state completate o migliorate.
La spesa per l’innovazione, che nel complesso costituisce una parte secondaria degli interventi del
Docup (il 9% circa), assume un forte rilievo nei SLL di Firenze e, in particolare, di Prato: i due SLL
insieme concentrano il 60% della spesa regionale nei “vantaggi per innovazione”. Nel SLL di Prato
quasi il 30% della spesa deriva da incentivi all’investimento delle imprese nella “ricerca industriale
precompetitiva”.
Nel SLL di Pisa il 10% della spesa deriva da interventi diretti alla creazione di reti tra imprese ed
enti di ricerca in specifici cluster produttivi. Anche in questo caso il dato dipende dalle caratteristiche contestuali; nell’area sono localizzate importanti istituzioni di ricerca e trasferimento tecnologico (CNR, Università, ecc.) che hanno mobilitato la propria capacità progettuale intorno alle finalità
del Docup e anche del PRAI.
Il ciclo di programmazione 2000-2006 ha rappresentato per la Toscana un’occasione per rafforzare
ulteriormente la capacità progettuale degli enti locali e dei privati intorno ad obiettivi di sviluppo regionale e a complessi strumenti di gestione dell’intervento pubblico.
Il Docup non seleziona gli interventi su base territoriale, l’offerta che esso rappresenta è, in altri termini, largamente indifferenziata. Tuttavia, laddove emerga su scala locale la capacità di integrare
198
strumenti e soggetti diversi, allora il Docup diviene una buona opportunità per incidere sulle esigenze specifiche del territorio.
Le modalità di gestione del Docup sono state arricchite con un approccio progettuale integrato
(PISL) che ha promosso una maggiore inclusione istituzionale nelle fasi di coordinamento degli attori locali e nella selezione delle operazioni.
Gli aspetti critici nella gestione dei PISL riguardano la fase di progettazione; l’assenza di un’autorità di gestione al livello di ogni singolo progetto integrato ha avuto l’effetto di ridurre la capacità selettiva delle province – che avevano il compito di raccogliere le operazoni ammissibili sul territorio
– e di ritardare la valutazione delle operazioni che è stata effettuata in seguito dalle strutture regionali competenti.
La concentrazione urbana della spesa
Il Docup, che non identifica per le sue azioni specifici sottosistemi locali, interviene su di un ambito
territoriale molto eterogeneo nel quale sono comprese anche le aree urbane. L’inserimento di alcuni
frammenti dell’area metropolitana fiorentina nel territorio di operatività del Docup risponde alle indicazioni del Regolamento CE 1260 del 1999 che prevedeva l’inclusione di aree urbane in crisi. In
questi contesti si raccomandava di intervenire in maniera consistente nella realizzazione di infrastrutture sociali destinate all’inclusione e al reinserimento sociale.
L’analisi condotta per finalità, modalità e localizzazione dell’intervento evidenzia che, nell’ambito
delle politiche urbane:
- Il Docup è intervenuto in modo massiccio nelle aree urbane, il 40% della spesa pubblica è concentrata nei soli SLL di Firenze, Prato, Livorno, Pisa e Massa Carrara. All’interno dei SLL “urbani” le operazioni sono mediamente più concentrate nel Comune centrale (in particolare nei
casi di Prato e Livorno) rispetto a quanto accada negli altri SLL.
- Le operazioni finanziate nei SLL “urbani” riguardano in gran parte la costruzione di economie
esterne a vantaggio dei sistemi produttivi localizzati, la dotazione infrastrutturale dei territori, le
connessioni con l’esterno e un consistente investimento delle imprese. Un insieme di operazioni
ampio e complesso, che comprende anche interventi di carattere sociale, benché non siano certamente il tipo prevalente.
- Il SLL di Firenze presenta una forte concentrazione di incentivi diretti alle imprese, maggiore
della media regionale, e un peso notevole degli interventi mirati alla creazione di beni pubblici
specifici. Si tratta del recupero di immobili di rilevanza storica, della valorizzazione dei centri
storici ed aree commerciali naturali, realizzazione di impianti per il trattamento dei rifiuti, una
serie di interventi che migliorano le condizioni di localizzazione per le attività economiche e dei
servizi per i cittadini residenti.
La configurazione della spesa regionale nei contesti urbani evidenzia come vi sia spazio per un
maggiore coinvolgimento delle autorità locali nella gestione delle politiche territoriali. La quantità
degli interventi infrastrutturali e la notevole mobilitazione dei soggetti privati sono stati intercettati
dalla pianificazione urbanistica e da altre forme di programmazione locale, liberando esperienze che
possono essere maggiormente integrate nella futura programmazione regionale.
Il prossimo periodo di programmazione del FESR (anni 2007-2013) vedrà una presenza ancora
maggiore della cosiddetta “dimensione urbana”. Il nuovo regolamento dei fondi strutturali parla
esplicitamente di risanamento urbano, si richiama “agli aspetti positivi dell’esperienza di Urban” e
prospetta forme di programmazione integrata tra autorità di gestione di livello regionale e le autorità
urbane, delegate alla attuazione degli interventi.
Occorre tuttavia evidenziare anche i limiti dell’obiettivo 2 specie in direzione di quelle aree che
sono definite “residuo urbano”: terreni, interi isolati, aree industriali dismesse in attesa di una nuova
destinazione o dell’esecuzione di progetti sospesi per varie e talvolta complesse configurazioni di
proprietà o ragioni finanziarie. L’intervento pubblico in simili contesti deve in primo luogo coordi199
nare l’azione di numerosi attori pubblici e concordare la partecipazione degli interessi privati. Processi complessi che raramente riescono ad essere contenuti nelle scadenze come nelle procedure del
Docup, se non per alcuni segmenti progettuali.
200
Appendice: L’intervento dell’Obiettivo 2 nei sistemi locali del lavoro
Per analizzare l’impatto del Docup sui sistemi locali del lavoro proponiamo una classificazione degli interventi che tiene conto del dibattito recente sviluppatosi fra sociologi ed economisti in materia
di sviluppo locale. La classificazione viene applicata ai dati dell’archivio di monitoraggio del Docup
ob. 2 della Regione Toscana. L’archivio dei progetti è stato realizzato dalla autorità di gestione attraverso un incarico di assistenza tecnica135 e contiene alcune informazioni sui progetti che sono stati approvati e finanziati. L’archivio viene alimentato sulla base di una serie di incontri periodici con
i responsabili di misura e i soggetti attuatori e contiene alcune informazioni riferite a 5.292 progetti
finanziati al 15 Gennaio 2005 per un costo totale136 di 1.622.121.173 euro e una spesa pubblica pari
a 564.536.075 euro. Il contributo pubblico del Docup ammonta a circa 1.200 milioni di euro, all’inizio del 2005 quasi la metà delle risorse erano già state utilizzate. La spesa è distribuita tra gli anni
2003 e 2004 in modo equilibrato. A partire da questa base dati abbiamo attribuito ad ogni progetto
tre ulteriori codici:
- il primo corrisponde alla classificazione delle operazioni (“settore di intervento per categoria e
sotto-categoria”) proposta dalla Commissione europea nei documenti preparatori alla programmazione dei fondi strutturali nel periodo 2000 - 2006 137 e poi frequentemente adottata dalle regioni nella stesura del Complemento di programmazione del Docup ob. 2 e POR ob. 1. Il codice
CE consente di operare una più agevole comparazione con altri casi di programmazione regionale del FESR; infatti, mentre la denominazione delle azioni del Docup è condizionata da scelte
particolari, il raccordo tra azione regionale e codice comunitario consente una più chiara attribuzione del progetto ad una categoria di intervento. Occorre inoltre considerare che per ogni azione del Docup possono risultare più categorie di intervento CE e questo è un ulteriore supporto
alla corretta attribuzione di un progetto ad una “famiglia di interventi”;
- il secondo codice è riferito al sistema locale del lavoro (SLL) cui appartiene il comune dove ha
luogo l’intervento138. I Sistemi Locali del Lavoro costituiscono uno strumento di analisi utilizzato dall’Istat per indagare la struttura socio-economica dell’Italia secondo una prospettiva territoriale139. Essi rappresentano i luoghi della vita quotidiana della popolazione che vi risiede e lavora. Si tratta di unità territoriali costituite da più comuni contigui fra loro, geograficamente e statisticamente comparabili140. Il vantaggio dell’utilizzo del SLL consiste nella possibilità di rappresentare la diversità dei modelli di concentrazione degli interventi nel territorio regionale e di
radicare tali modelli alle caratteristiche proprie di ogni SLL: urbano, rurale, manifatturiero, terziario e così via;
- ai progetti è stato infine assegnato un ulteriore codice corrispondente ad una delle nove classi
che sono state create per classificare le azioni secondo gruppi di interventi che siano allo stesso
tempo limitati nel numero (9 rispetto alle decine di azioni e classi UE), e fondate su categorie
analitiche consensuali e dunque già discusse in letteratura141. Le nove classi (descritte di seguito)
sono il prodotto dell’incrocio delle tre modalità generali con cui il Docup interviene: (i) Incenti135
L’incarico è stato attribuito per gara alla società Ecoter srl di Roma.
Il costo totale del progetto non è tuttavia disponibile in 589 casi (11%), mentre l’indicazione dell’ammontare del
contributo pubblico è sempre presente.
137
Vedi, ad es., DOCUMENTO DI LAVORO 1. Vademecum per i piani e i documenti di programmazione dei Fondi
Strutturali. CE, DG XVI POLITICA REGIONALE E COESIONE, Coordinamento e valutazione delle operazioni.
138
L’indicazione del Comune in cui si realizza l’intervento è assente in 693 casi (13%) che raccolgono 43 milioni di
contributo pubblico.
139
I Sistemi Locali del Lavoro – Censimento 2001. Dati definitivi, Comunicato stampa diffuso dall’Istat, disponibile al
link http://dawinci.istat.it/daWinci/jsp/MD/download/sll_comunic_solo_testo.pdf
140
Sui Sistemi Locali del Lavoro quali unità di indagine per le analisi territoriali si rimanda a Sforzi F. , I Sistemi locali
del Lavoro, ISTAT, 1997.
141
Esempi di beni collettivi in: Le Gales, Voelzkow 2001 pag. 1; di economie esterne in: Bellandi 2003; di esternalità
Scott 2001; Barca 2005; Trigilia C., 2005, ed altri ancora.
201
136
vi diretti alle imprese; (ii) Creazione di beni pubblici generici; (iii) Creazione di beni pubblici
specifici; con le sue principali finalità: (iv) Vantaggi per efficienza (dei Sistemi Produttivi Locali); (v) Vantaggi per incremento delle capacità (dei territori); (vi) Vantaggi per innovazione.
La classificazione è stata elaborata a partire dalle definizioni di alcuni dei concetti centrali nella letteratura economica e sociologica sullo sviluppo locale, quali: “bene collettivo” ed “economie esterne”. Il termine locale/località è qui inteso come dimensione “universale”. Si considera locale una
parte rilevante delle relazioni sociali ed economiche, quelle che sono radicate in un particolare contesto territoriale. Le reti produttive – scrive ad es. Le Gales - hanno reso le imprese sempre più dipendenti dall’ambiente locale in cui sono inserite, “pertanto i contesti locali sono divenuti importanti in quanto fonti di economie esterne …” (Le Gales, Voelzkow 2001 pag 10). Marco Bellandi distingue tra economie esterne intangibili e tangibili. Le prime riguardano risorse cognitive e normative, l’ambito del flusso culturale e delle relazioni sociali; le seconde comprendono infrastrutture,
beni materiali e servizi. In questi ultimi casi si parla anche di economie di specializzazione (che generano vantaggi in termini di uso efficiente di capacità produttive già formate). L’analisi di un programma FESR pone naturalmente un maggiore accento sui beni tangibili, mentre l’inclusione nel
modello di analisi anche degli interventi FSE darebbe maggiore spazio per quelle che Bellandi chiama “economie di apprendimento”, che a loro volta producono vantaggi nei processi di formazione
delle capacità umane. Tuttavia, la finalità “vantaggi per innovazione” contiene processi che, pur non
avendo tra i destinatari direttamente le persone, rappresentano il risultato di complesse interazioni
che richiedono normalmente il supporto di uno “scambio di idee e approcci originali entro i campi
di produzione, ricerca e affari” (cfr. Bellandi, 2003 157).
Per quanto riguarda poi il contributo della programmazione comunitaria allo sviluppo di un insieme
di regole tese ad includere maggiormente gli enti locali nella gestione degli strumenti di intervento
(le risorse normative), emerge l’esperienza dei progetti integrati territoriali coordinati dalle province
(PISL), che hanno prodotto un chiaro cambiamento nella direzione di un superamento della divisione del lavoro che aveva sempre caratterizzato, nelle programmazioni precedenti, il ruolo della Regione rispetto a quello degli altri enti locali. In precedenza il coinvolgimento delle province era
sempre stato molto limitato, in sostanza la Regione, preoccupata per i tempi di spesa e le regole della CE, promuoveva un pacchetto di interventi in maniera coerente con il Programma Regionale di
Sviluppo (PRS), mentre gli enti locali dovevano preoccuparsi di ricomporre la loro strategia di sviluppo all’interno degli assi, misure e azioni del Docup. Il programma dunque non era intervenuto
fino ad allora in maniera attiva nella costruzione delle linee di programmazione locale. L’analisi
della effettiva allocazione delle risorse pubbliche consente dunque di delineare una immagine più
interattiva sul modo in cui i soggetti istituzionali e i partner privati hanno contribuito a perseguire
gli obiettivi di sviluppo regionale.
Le nove classi di spesa
La dotazione finanziaria delle classi si determina sulla base della (i) concentrazione dei contributi
pubblici allocati nelle azioni per decisione della autorità di gestione e, soprattutto nel caso degli incentivi diretti alle imprese142, (ii) della domanda alimentata dalle imprese e dagli altri beneficiari nel
corso della attuazione del programma. Le prime tre classi comprendono quegli interventi che producono vantaggi nei termini di incremento delle capacità dei sistemi produttivi locali nelle varie modalità previste: incentivi diretti alle imprese e creazione di beni pubblici.
Classe Ns. 1 Sistemi produttivi locali (Vantaggi per incremento delle capacità dei Sistemi produttivi locali / Incentivi diretti alle imprese). Questa classe contiene azioni dell’asse 1 che intervengono
direttamente a sostegno degli investimenti delle imprese migliorandone le capacità di adattamento e
142
Il tasso di contribuzione pubblica è, in questi casi, limitato: le azioni incluse nella classe 1 hanno, ad es., una contribuzione media inferiore al 20%.
202
di crescita. Si tratta dei contributi in conto interesse, capitale e rimborsabile previsti dalle L.598/94 e
L.488/92. I beneficiari sono privati.
Le classi 2 e 3 raggruppano quegli interventi che potenziano alcuni beni collettivi locali, in particolare, le economie esterne che aumentano la competitività dei sistemi produttivi. Qualora gli effetti
degli interventi producano benefici particolari ad alcuni sistemi locali, ad es., abbassando i costi di
particolari servizi, allora rientrano nella classe 3.
Classe Ns. 2 Economie esterne (g) (Vantaggi per incremento delle capacità dei Sistemi produttivi
locali / Creazione di beni pubblici generici). Questa classe contiene azioni dell’asse 2 e 3 finalizzate
prevalentemente al miglioramento delle caratteristiche delle aree produttive e di aree dismesse; interventi di potenziamento della rete e servizi telematici; realizzazione e potenziamento di infrastrutture private di recupero e trattamento rifiuti.
Alcune delle principali operazioni per ammontare del contributo pubblico assorbito (che varia, nei
casi descritti, da 18 a 4 milioni di euro) sono elencate di seguito: “Opere di urbanizzazione e completamento dell’Interporto di Prato” – (Azione 2.3 Infrastrutture di trasporto); la “Bonifica-escavo
del Porto di Livorno e adeguamento argini interni sottovasca n.1” – (Azione 2.3 Infrastrutture di trasporto); il “Rifacimento completo forni, sistemi di alimentazione, controllo” – Pontedera (Azione
3.4 Infrastrutture rec. tratt. rif./Pubblici); “Implementazione dell'impianto di selezione e valorizzazione dei rifiuti per la realizzazione di un impianto per la produzione di CDR e di materiali da destinare ad un impianto per la produzione di energia elettrica e/o termica” – Prato (Azione 3.4 Infrastrutture rec. tratt. rif./Pubblici); il “Miglioramento delle condizioni di sicurezza ed ambientali del
Porto di Marina di Carrara” – (Azione 2.3 Infrastrutture di trasporto).
Classe Ns. 3 Economie esterne (s) (Vantaggi per incremento delle capacità dei Sistemi produttivi
locali / Creazione di beni pubblici specifici). In questa classe sono comprese azioni dell’asse 1 e 2 le
cui finalità riguardano: la qualificazione dei servizi turistici, la realizzazione di nuove aree produttive e il recupero di aree dismesse, varie azioni di marketing territoriale.
Le principali operazioni per ammontare del contributo pubblico assorbito (che varia, nei casi descritti, tra i 5 e i 3 milioni di euro) sono elencate di seguito: “Impianto post-trattamento Solvay“ –
Bibbona, SLL di Cecina, provincia di Livorno (Azione 3.3); “Zona per insediamenti produttivi di
Campotizzoro” – Pistoia (Azione 2.4.2); “Realizzazione di piattaforma per il trattamento rifiuti industriali del ciclo siderurgico e inerti da costruzione e demolizione” – Livorno (Azione 3.4); “Costruzione nuovo depuratore area ex Cersam” – Massa (Azione 3.3) “Potenziamento Canale dei Navicelli - I lotto” – Livorno (Azione 2.3 Infrastrutture di trasporto).
Le successive tre classi comprendono quegli interventi che producono vantaggi nei termini di incremento delle capacità dei territori o sistemi locali nelle varie modalità previste: incentivi diretti alle
imprese e creazione di beni pubblici.
Classe Ns. 4 Impresa e ambiente (Vantaggi per incremento delle capacità dei territori / Incentivi
diretti alle imprese). Questa classe contiene azioni dell’asse 1 che intervengono a sostegno degli investimenti delle piccole e medie imprese mirati alla produzione di servizi collettivi e all’adeguamento a normative di tutela ambientale, finalità perseguita anche con una azione dell’asse 3 rivolta
agli investimenti effettuati da grandi imprese, nel quadro della disciplina comunitaria degli aiuti di
stato per la tutela dell’ambiente (2001/C37/03). Le principali operazioni private finanziate con questa misura sono descritte sinteticamente come segue: “Selezione e carico calcare” (San Vincenzo,
SLL Piombino, provincia di Livorno); “Nuovo gruppo distillazione” (Rosignano marittimo, SLL
Cecina, provincia di Livorno); “Interventi per riqualificazione ambientale” (Volterra, SLL Volterra,
provincia di Pisa); “Nuovo sistema produzione energia” (Scarlino, SLL Follonica, provincia di
Grosseto); “Miglioramento processo e recupero rifiuti”. Il contributo pubblico assorbito da questi
progetti varia da 2 a 6 milioni di euro, mentre i progetti finanziati attraverso le altre azioni hanno un
ammontare medio di contributo pubblico assai più limitato.
Le classi 5 e 6 raggrupano quegli interventi che potenziano alcuni beni collettivi locali, in particolare la dotazione infrastrutturale e di servizi dei territori, siano essi prevalentemente rurali o urbani.
203
Qualora gli effetti degli interventi producano benefici particolari ad alcuni sistemi territoriali, ad es.,
migliorando le condizioni di localizzazione o di accesso a beni o servizi, allora essi rientrano nella
classe 6.
Classe Ns. 5 Beni collettivi (g) (Vantaggi per incremento delle capacità dei territori / Creazione di
beni pubblici generici). Questa classe contiene azioni degli assi 2 e 3 che intervengono nella valorizzazione dei beni culturali e naturali attraverso investimenti materiali e il potenziamento dei servizi;
rafforzamento del turismo e dei servizi di carattere sociale e del lavoro; efficienza del sistema energetico, sviluppo delle fonti rinnovabili, infrastrutture per il ciclo delle acque e dei rifiuti; riassetto
delle aree industriali.
Le principali operazioni finanziate in questa classe sono: “Completamento Impianto di Depurazione
- II e III lotto” – Azione 3.3 (Fucecchio, SLL Santa Croce Sull'Arno); “Completamento Centro per
l'Impiego” – Azione 2.6.2 (Livorno); “Bonifica e sistemazione ambientale ex cantiere di carico della
pirite a Scarlino Scalo (quota parte)” – Azione 3.6 (SLL Follonica); “Revamping impianto di selezione e trattamento RSU” – Azione 3.4 (SLL Portoazzurro); “Beni culturali del territorio“– Azione
2.2.1 (SLL Chiusi); “Recupero e valorizzazione del complesso monumentale Rocca Sillana” – Pomarance – Azione 2.2.1 (SLL Pomarance); “Bonifica e risanamento ambientale con arborizzazione
e progetto di reindustrializzazione sito "Ex Tassara"” – Misura 3.7 (SLL Massa). Il contributo pubblico assorbito da questi progetti varia dai 3,5 ai 5,5 milioni di euro.
Classe Ns. 6 Beni collettivi (s) Vantaggi per incremento delle capacità dei territori / Creazione di
beni pubblici specifici. Questa classe contiene azioni degli assi 2 e 3 che intervengono nella valorizzazione dei beni culturali e naturali attraverso investimenti materiali e il potenziamento dei servizi;
rafforzamento del commercio, turismo e del marketing territoriale, dei servizi di carattere sociale e
del lavoro; efficienza del sistema energetico, sviluppo delle fonti rinnovabili, infrastrutture per il ciclo delle acque e dei rifiuti; riassetto delle aree industriali, difesa del suolo e sicurezza idraulica.
Le principali operazioni finanziate in questa classe sono: “Impianto di selezione e compostaggio di
Pian delle Cortine di Asciano“ - Azione 3.4 (SLL Siena); “Scuola Internazionale Alta Formazione”–
Azione 2.6.1 (SLL Volterra); “Funivia Cutigliano-Doganaccia” - Azione 2.1.1 (SLL San Marcello
Pistoiese); “Teatro Goldoni” e “Acquario” - Azione 2.2.1 (Livorno); “Impianto Idro "LUCCHIO" –
Azione 3.2 (SLL San Marcello Pistoiese). Il contributo pubblico assorbito da questi progetti varia
dai 2,2 ai 5,4 milion di euro.
Le ultime tre classi comprendono quegli interventi che producono vantaggi, tanto alla comunità delle imprese che ai cittadini, per incremento delle capacità di innovazione e di accessibilità alle reti di
circolazione delle informazioni e conoscenza nelle varie modalità previste: incentivi diretti alle imprese e creazione di beni pubblici.
Classe Ns. 7 Impresa e innovazione (Vantaggi per innovazione / Incentivi diretti alle imprese).
Questa classe contiene alcune forme di incentivo all’investimento delle imprese nella “ricerca industriale precompetitiva” e nella innovazione tecnologica contenute nell’asse 1. Si tratta di agevolazioni nella forma di bonus fiscale e crediti di imposta per attività di ricerca ed innovazione
(L.140/1997) e investimenti produttivi (L.341/95, come modificata dalla L.266/97). La “ricerca precompetitiva” viene intesa come un aiuto diretto alle PMI per la realizzazione di progetti di ricerca
industriale attraverso studi di fattibilità, piani, progetti o disegni per prodotti, processi produttivi o
servizi, compresa la creazione di un primo prototipo non idoneo a fini commerciali; la “ricerca industriale” viene altresì definita come un aiuto diretto alla ricerca pianificata o ad indagini critiche
miranti ad acquisire conoscenze utili a mettere a punto o migliorare prodotti e processi produttivi.
La contribuzione pubblica ai progetti delle imprese non supera, in questi casi, i 300 mila euro.
Le classi 8 e 9 raggrupano quegli interventi che potenziano alcuni beni collettivi locali, in particolare modelli di rafforzamento della connessione tra imprese e centri della ricerca e trasferimento tecnologico. Qualora gli effetti degli interventi producano benefici particolari ad alcuni sistemi produttivi locali o gruppi di imprese, ad es., migliorandone la capacità di cooperazione e di sviluppo di
prodotti innovativi, allora essi rientrano nella classe 9.
204
Classe Ns. 8 Beni di connessione (Vantaggi per innovazione / Creazione di beni pubblici
generici). Questa classe contiene due azioni dell’asse 2 mirate alla produzione di applicazioni informatiche e servizi telematici per il monitoraggio ambientale e territoriale.
Le principali operazioni finanziate in questa classe riguardano i “Laboratori meteorologia e modellistica ambientale” – SLL Firenze, Livorno e Grosseto; “Servizi telematici e di comunicazione diretti
alle PMI” – SLL di Siena, Grosseto, Massa e Livorno. Il contributo varia da 300 mila a 2 milioni di
euro.
Classe Ns. 9 Reti di innovazione (Vantaggi per innovazione / Creazione di beni pubblici
specifici). Questa classe contiene due azioni dell’asse 1 di incentivo alla creazione di reti tra imprese ed enti di ricerca in specifici cluster produttivi.
I due principali progetti finanziati con l’Azione 1.7.1 sono stati realizzati dal Consorzio Pisa Ricerche (“FORMAT - FORma e MATeria tra tradizione e innovazione in Toscana”) e comprendevano
una serie di strumenti di animazione e promozione della innovazione tecnologica nei cluster produttivi nelle aree Obiettivo 2 e di Sostegno Transitorio per un importo complessivo di 1,5 milioni di
euro. Altri 14 progetti di importo minore riguardavano reti tra imprese ed enti di ricerca.
205
Lazio, tra competitività e divergenze
di Pietro Elisei
Il Lazio è caratterizzato da evidenti disomogeneità territoriali. Nel sistema laziale coesistono aree
che presentano parametri socio-economici paragonabili a quelli delle più avanzate regione europee,
e altre che potrebbero a rigore rientrare nel novero di quelle in ritardo di sviluppo; il DocUP
2000-2006 avverte questa caratteristica: “ad aree che si avvicinano al PIL pro capite delle più ricche
regioni d’Europa, si contrappongono aree che solo dieci anni fa rientravano a buon titolo tra le aree
in forte ritardo di sviluppo”
Il Lazio, la regione più a sud del centro-nord, ha il reddito pro capite più alto dopo la Lombardia: le
recenti valutazioni sull’economia regionale confermano, infatti, il Lazio come seconda regione per
il contributo al PIL nazionale (DEPFR 2005-2007).
Gli indicatori regionali del terzo e quarto rapporto economico di coesione sociale confermano le affermazioni contenute nel DocUP: il Lazio risulta tra le regioni più ricche d’Europa.
Le condizioni di programmazione che sono state presenti in vista del periodo 2007-2013 sono esattamente il contrario delle precedenti: un contesto ad alta crescita ed un futuro che molto probabilmente riporterà il PIL verso valori più contenuti 143. Un futuro, comunque, che si presenta ricco di
opportunità, e sul quale insistono fattori esterni di competitività urbana che, data la configurazione
del Lazio, ruotano forzatamente intorno all’area metropolitana romana (per gli effetti indotti dalla
TAV, gli investimenti nell’area di Civitavecchia o nell’aeroporto di Fiumicino); ed altri che rigurdano la regione nel suo insieme (il consolidamento del turismo e del settore terziario, il potenziamento
di alcuni settori industriali, un settore agricolo di qualità, ma soprattutto tutti quei nuovi settori produttivi che ruoteranno intorno all’economia della conoscenza).
I settori produttivi
La distribuzione della forza lavoro per settori produttivi presenta una suddivisione singolare. Una
lettura ragionata di questi indicatori evidenzia la particolarità del sistema laziale.
Il settore dominante del sistema produttivo è quello dei servizi, seguono l’industria e l’agricoltura.
Le percentuali medie degli impiegati nei settori produttivi della realtà laziale si discostano da quelli
nazionale e da quelli europei (vedi tabella qui di seguito).
21. Addetti in % nei settori produttivi
AGRICOLTURA (%)
INDUSTRIA (%)
SERVIZI (%)
EU 25 (III)
5,4
28,8
65,8
EU 27 (IV)
6,2
22,7
66,1
LAZIO (III)
3,3
19,9
76,7
LAZIO (IV)
1,5
18,7
79,8
ITALIA (III)
5,0
31,8
63,2
ITALIA (IV)
4,2
30,8
65
Lazio: percentuali medie degli addetti nei settori produttivi. Fonte III e IV rapporto coesione economica e sociale.
Questi dati confermano il rafforzamento del settore dei servizi, a scapito soprattutto del settore agricolo. Le trasformazioni in atto inerenti alla struttura produttiva regionale hanno diminuito il valore
aggiunto dal settore primario e aumentato l’importanza del terziario. Nell’ultimo settennio il processo di terziarizzazione ha interessato anche il settore dell’industria riportando una considerevole contrazione del suo valore aggiunto (-5,2%, Eurostat). Nonostante la prestazione negativa del settore
143
Secondo le stime di Unioncamere, il PIL del Lazio continuerà a crescere nei prossimi anni: + 1,8 per cento nel 2008,
+ 1,7 per cento nel 2009 e + 1,6 per cento nel 2010.
206
agricolo 144 (-7,1%, Eurostat) e di quello industriale, l’economia laziale ha evidenziato una crescita
notevolmente superiore alla media nazionale: questo è connesso ad un considerevole ampliamento
delle attività terziarie: in particolare, le attività immobiliari, professionali, i servizi commerciali e
sanitari. Il sistema produttivo laziale si differenzia da quello tipico italiano, legato principalmente ai
settori del tessile e del manifatturiero. L’economia laziale, per circa l’80%, è connessa ad attività
terziarie, un valore di gran lunga maggiore rispetto al resto della nazione(69-70%), influisce su questo dato la presenza di Roma. La capitale, infatti, è già da lungo tempo una città che vive principalmente di terziario.
L’economia laziale è spinta in alto, in particolare, da alcuni settori produttivi industriali come il chimico-farmaceutico, la produzione e distribuzione di energia, gli apparecchi elettro-meccanici, la
carta e la stampa 145.
Le aree della produzione
Le aree industriali del Lazio sono da sempre state d’appoggio ad un’economia prevalentemente
orientata ad altro. Cultura, tradizione ed expertise locale producono infatti una notevole ricchezza
attraverso servizi di qualità indirizzati al turismo: alla soddisfazione di bisogni immateriali e simbolici; alle relazioni e comunicazione; nonché al loisir e alle attività di entertainement ed ‘evasione’.
L’industria in senso stretto si inserisce dunque nel Lazio negli interstizi di un tessuto produttivo che
valorizza principalmente il commercio e il turismo. Le aree produttive laziali si possono raggruppare in tre tipologie:
a) i pochi distretti industriali (per esempio, i prodotti per l’arredamento di Civita Castellana, carta e
poligrafiche a Sora, l’area dell’abbigliamento della Valle del Liri, l’area del marmo dei Monti Ausoni, il polo del travertino nell’area di Tivoli, il distretto dell’elettronica a Rieti, il polo romano dell’audiovisivo);
b) alcuni consorzi di sviluppo industriale (il Consorzio per lo Sviluppo Industriale Roma – Latina,
Consorzio per l'Area di Sviluppo Industriale della Provincia di Frosinone, Consorzio per il Nucleo
di Industrializzazione di Rieti – Cittàducale, Consorzio di Sviluppo Industriale del Sud Pontino Castagneto);
c) e infine, nei Sistemi Produttivi Locali (per esempio, l’Area dell'innovazione del Reatino, Area
dell'elettronica della Tiburtina, Area dell'audiovisivo del Comune di Roma). A questi si deve aggiungere d) il distretto tecnologico di Castel Romano e altri centri per l’innovazione.
Il Lazio non rappresenta di certo la regione col maggior numero di distretti industriali classici, in
parte per la frammentarietà del territorio, in parte per l’azione attrattiva e le dinamiche di concentrazione produttiva ed economica nella capitale, che determinano un indotto considerevole nelle aree
limitrofe all’area metropolitana. Ciò nonostante, alcune aree laziali risultano particolarmente vivaci.
I distretti industriali riconosciuti della regione sono tre, e operano in differenti comparti produttivi
146
. Le aree di sviluppo industriale e terziario registrano, accanto ai sistemi metropolitani, rilevanti
incrementi di popolazione e aumenti nella costruzione degli edifici. Il tasso di occupazione è maggiore nell’area metropolitana di Roma e nei sistemi metropolitani. Sembra che accanto alla forza,
ormai consolidata, della capitale, si affermino socio-economicamente anche i sistemi metropolitani,
144
Questo calo del settore agricolo è in linea con quello registrato a scala nazionale (-1,8%, Sole 24 Ore). È da rilevare
che, invece, il numero di addetti del comparto agricolo Laziale è in crescita. A fronte di un calo dell’1,6% dell’imprese
nel 2006, c’è stato un incremento occupazionale pari al 65% (Censis, 2007).
I lavoratori del settore agricolo raggiungono ora le 52.000 unità. Quindi, in realtà, si può notare una tendenza di
sviluppo positiva di questo settore.
145
Il contributo percentuale all’esportazione dei diversi settori era, nel 2004 (Rapporto sull’economia del Lazio 2005):
prodotti chimici-fibre sintetiche (37,8), macchine elettriche e ottiche (16,9), mezzi di trasporto (13,3), macchine e apparecchi meccanici (5,8), prodotti petroliferi (5,2), alimentare (3,7), prodotti in gomma e plastica (3,1), tessile (3,1), prodotti in metallo (2,7), prodotti minerari (2,4).
146
Distretto della ceramica: Civita Castellana; distretto del Tessile: Isola del Liri; distretto del marmo: Monti Ausoni.
207
e si affaccino nuove realtà territoriali, quali le aree di sviluppo industriale e del terziario, in crescita
demografica ed economica.
L’attuale paradigma interpretativo dello sviluppo regionale è quello della messa a rete dei diversi
poli produttivi. Questo paradigma interpretativo dello sviluppo policentrico influenza le scelte relative al sistema infrastrutturale.
La strategia territoriale legata a questo modello è stata sintetizzata nel QRT (Quadro di Riferimento
Territoriale). La legge regionale 38/99, sul governo del territorio, fa assurgere lo schema del QRT a
livello di Piano Territoriale Regionale (PTRG).
I sistemi di sviluppo policentrico fanno perno sulla capacità di creare ricchezza e sviluppo economico da parte di network di città, di piccole o medie dimensioni, le quali sviluppano competenze regionali altamente specializzate.
I fondi strutturali e la competitività
Edilizia, servizi e turismo sono i settori chiave del regione Lazio, che registra una situazione economica non infelice in termini bruti di indicatori di crescita: come già detto, è la regione con il PIL
pro-capite più alto in Italia, dopo la Lombardia; e tra le prime regioni d’Europa con ancora margini
di crescita in alcuni settori chiave produttivi (turismo e offerta alberghiera in primis).
In questi ultimi anni è evidente una maggiore attenzione verso possibili integrazioni tra le politiche
ordinarie e gli strumenti di sviluppo territoriale, un confronto che nel passato ha dato vita in Italia a
degli incontri interessanti alla fine degli anni ’60147, e che forse è pronto a raccogliere i frutti del
processo lanciato all’inizio degli anni ’90 dalla programmazione complessa. Nel nuovo settennio
2007-2013, i programmi regionali, nazionali e comunitari enunciano la volontà di dialogo tra la programmazione economica e quella territoriale.
In particolare, il DocUP Lazio 2000-2006 era stato predisposto alla fine degli anni ’90 nel momento
in cui si attuava una politica nazionale di forte controllo del deficit pubblico e dell’inflazione, legata
al rispetto dei criteri di Maastricht; ed in cui si rilevava una debole crescita economica.
La regione Lazio aveva goduto -dopo il 1998, anche in virtù degli incentivi connessi al Giubileo
2000 che hanno sospinto le costruzioni, servizi e turismo- di un periodo di ripresa che l’aveva condotta al sorpasso del tasso medio di crescita nazionale nel 2002 (l’apporto dell’economia laziale alla
crescita del PIL nazionale nel 1998 ha superato il 10%). Il DocUP per l’Ob.2 si è andato formando,
quindi, in un contesto a bassa crescita e con davanti l’incognita del Giubileo.
Il DocUP 2000-2006, esposto in maniera dettagliata nei prossimi paragrafi, ha investito circa 840
milioni di euro, che alla fine del 2004 risultavano impegnati per il 70,5%. Gli investimenti destinati
ad aumentare la competitività delle imprese -in overbooking- e quelli indirizzati a potenziare le reti
-sia materiali che immateriali – risultano attivati con maggior rapidità. È evidente anche l’investimento nelle categorie di interventi legati alla qualità urbana, nel risanamento territoriale, nella qualità sociale, e nell’aiuto alle imprese. D’altra parte, invece, è sorprendente il poco investimento nelle
economie fondate sulla conoscenza, considerando l’alta concentrazione nel Lazio di persone che
hanno le capacità di innescare processi fondati sulla knowledge economy (Roma è la prima città italiana per presenza di “classe creativa”, 24,62% della forza lavoro)148.
147
Si fa riferimento al Progetto 80 e al lavoro dei Comitati Regionali della Programmazione Economica (CRPE). I
CRPE non erano organi burocratici, ma una larga assemblea rappresentativa delle autonomie locali elettive, delle camere di commercio, delle università, dei sindacati e delle maggiori associazioni di categoria. Attorno ai piani elaborati dal
CRPE ci fu una intensa partecipazione delle molte realtà e dei vari ambienti esistenti nella regione. Gli studi e i progetti
vennero alla fine consegnati al governo regionale quanto questo venne costituito a séguito delle elezioni della tarda primavera 1970.
148
La classe creativa include le seguenti categorie: imprenditori, dirigenti pubblici e privati, manager, ricercatori, tutte le
«professioni» dall’avvocato al medico, oltre a lavoratori in ambito culturale e artistico a elevata specializzazione. Un
primato già stabilito nel 1991, ma che in poco più di dieci anni ha visto aumentare i creativi dal 13,66 al 24,62% della
popolazione. La capitale precede Genova, Trieste e Napoli, solo settima Milano. (Corriere della sera del 07.01.06)
208
Considerando invece i progetti in base ai fattori di competitività, il maggior numero di investimenti
è rivolto al sostegno di economie esterne di connessione finanziaria, mentre il numero minor di progetti riguarda i “beni collettivi di connessione”. In altre parole, il DocUP sostiene più le singole imprese, in particolare le PMI e meno il miglioramento dei servizi tecnologici o la capacità delle imprese di creare modelli organizzativi complessi.
Per quanto riguarda gli indicatori di competitività in senso stretto, la tabella, qui di seguito, riporta i
valori di alcuni indicatori che misurano gli obiettivi di Lisbona. Nella tabella si comparano i dati di
Lazio, Emilia Romagna, Lombardia, Italia ed UE27.
23. Confronto tra indicatori relativi agli obbiettivi di Lisbona
Crescita
del PIL
2004%media
di variazione
annua
(ob. 3%)
PIL procapite
2004
(UE27=1
00)
Europa
2,3
100
Italia
1,3
107
Emilia Ro1,1
130
magna
Lombardia
1,2
142
Lazio
1,7
132
Elaborazione su dati Eurostat
Tasso di
occupazione
2005
(ob.
70%)
Tasso di disoccupazione
(3%=piena
occupazione)
Spesa in
R&D
espre
ssa in
% del
PIL
Spesa
in
R&D
finanziata
da imprese
Investimenti in
rapporto
al PIL
% di investimenti
nel mamifatturiero
Occupati
nel manifatturiero
ad alta
tecnologia
Occupati nei
servizi
ad alta
intensità di conoscenza
70
63
71
9
7,7
3,8
1,9
1,1
1,2
64
47
58
n.d
19
20
n.d.
20
25
n.d.
1,1
1,2
n.d.
15
14
68
63
4,1
7,7
1,2
1,9
67
25
18
16
26
13
1,6
1,2
18
20
Si nota che il Lazio ha ancora ampio margine di recupero sugli indici di occupazione/disoccupazione, investe ancora poco rispetto al PIL, ha delle imprese che non ri-investono in ricerca e sviluppo,
ma cresce più delle altre regioni.
Roma sposta decisamente l’occupazione Laziale verso il settore terziario. L’industria raggiunge una
percentuale discreta, ma è ben al di sotto della media nazionale e continentale. Il settore agricolo si
attesta leggermente al di sotto delle medie prese come riferimento. Le politiche di sviluppo regionale, nonostante questa marcata presenza del polo urbano della capitale, mirano negli ultimi anni a
proporre investimenti che valorizzino le diverse aree della regione. Quest’atteggiamento supera la
visione che per anni ha messo le politiche a servizio della capitale. Le attuali scelte strategiche mirano a cogliere “le convenienze reali che si determinano nei diversi bacini locali” (DocUP). Questo
sguardo verso il “Lazio senza Roma” mira a sviluppare una competitività territoriale che parte dalle
potenzialità delle diverse aree, adottando un modello di sviluppo policentrico. Le capacità competitive delle province laziali, sono ben al di sotto però di quella romana. Solo le province meridionali
mostrano una certa vivacità, lo stesso non si può dire delle altre. L’attuale paradigma interpretativo
dello sviluppo regionale è quello della messa a rete dei diversi poli produttivi. Questo paradigma interpretativo dello sviluppo policentrico influenza le scelte relative al sistema infrastrutturale. La
strategia legata a questo modello è stata sintetizzata, come sopra esposto, nel QRT (Quadro di Riferimento Territoriale). Non solo il PTRG, ma anche il PRG (Piano Regolatore Generale) di Roma, è
stato fondato su una visione policentrica dello sviluppo della città. Considerando il peso relativo
dell’area della provincia romana, non solo in senso geografico, il PRG romano è uno strumento che
ha molto peso nell’innescare ed orientare le trasformazioni territoriali laziali. Il discorso sul policentrismo è stato coniugato nel caso del PRG romano (approvato nel 2003, ma frutto di un lavoro iniziato nei primi anni ’90) ad una strategia flessibile e orientata più verso la gestione per politiche dell’area metropolitana: il planning by doing. Il nuovo PRG di Roma ha però il notevole difetto di non
gettare lo sguardo al di là del confine comunale, non ha affrontato il problema di gestione dei flussi
tra la città consolidata e il suo Umland, ma soprattutto non si relaziona alle dinamiche regionali e
interregionali. Sono proprio questi, invece, i punti su cui soffermare l’attenzione, perché forieri di
209
notevoli inefficienze a scala urbana, metropolitana e regionale. Tornando al PTRG, questo stabilisce
gli obiettivi generali e particolari delle politiche territoriali regionali, dei programmi di sviluppo e
dei piani di settore con valenza territoriale. I contenuti di questo piano generale si articolano intorno
a tre sistemi principali: il sistema ambientale, portatore di valori storico-monumentali, tradizionali,
paesistici, naturalistici, le cui esigenze di salvaguardia attiva condizionano l’assetto del territorio); il
sistema insediativo, con le sue strutture fisiche che ospitano tutte le funzioni e le attività a servizio
della popolazione; il sistema relazionale, con le infrastrutture della mobilità (ferro, gomma, acqua,
aria, flussi di informazione) e le relative reti.
Accanto al PTRG si devono considerare anche i piani paesistici regionali come strumento di governo e tutela del del territorio. Si tratta di ventinove piani territoriali paesistici previsti dalla
L.R.24/98, quando saranno tutti approvati, ne mancano due, sarà avviato anche il percorso di adozione del PTPR (Piano Territoriale Paesistico Regionale): l’unico piano d’area vasta nel Lazio. Il
PTPR muove dagli input e dalle opzioni politiche contenute nello SSSE (Schema di Sviluppo Spaziale Europeo) ed applica i principi della convenziona europea del paesaggio. Gli obiettivi di questo
piano, riguardanti la qualità paesaggistica, dovranno relazionarsi alle azioni e agli investimenti di
sviluppo economico e produttivo.
Questa combinazione di diversi strumenti, sia di programmazione sia di pianificazione, si pone nell’ottica dell’integrazione delle risorse, della negoziazione delle strategie e della decentralizzazione
degli investimenti, siano essi legati alle politiche strutturali dell’unione sia nazionali. La regia regionale è comunque ben visibile, soprattutto nei modi in cui ha deciso di coordinare lo sviluppo dei sistemi locali.
Sistemi locali e densità urbane
Il DocUP Lazio ha curiosamente giudicato che l’asse III (valorizzazione dei sistemi locali), dotato di
un terzo della spesa ammissibile, sia quello con meno impatto sulla competitività e sull’innovazione. Al contrario, il potenziamento delle infrastrutture e il risanamento dei centri urbani dovrebbero
sostenere la competitività. In altre parole, il DocUP non legge in senso competitivo le azioni indirizzate allo sviluppo locale. Le azioni locali, fatta eccezione per la realizzazione di infrastrutture materiali, sono considerate dotate di un potenziale indifferente di fronte all’avanzamento dell’innovazione e della competizione regionale. Gli strumenti messi in campo dal DocUP per la valorizzazione
dei sistemi locali sono nove Piani d’Area, o ambiti territoriali, che mirano a mettere a sistema le diverse iniziative della programmazione negoziata, accordi e intese territoriali, procedendo dapprima
ad un’analisi territoriale, e individuando successivamente una strategia d’integrazione degli strumenti di programmazione già presenti sul territorio. La zonizzazione dell’Ob. 2 esclude l’area urbana di Roma, tuttavia il maggior numero di progetti è stato attivato proprio nella provincia della capitale. Dopo Roma, la provincia con più progetti è quella di Frosinone, seguono Latina, Rieti e Viterbo. La maggior parte dei progetti riguarda investimenti in aree di pregio turistico, culturale ed ambientale (220 progetti attivati); seguono gli interventi nell’ambito infrastrutturale nelle aree urbane e
nelle aree marginali degradate (131 progetti attivati); infine, 80 progetti sono stati avviati per i parchi. La valorizzazione delle aree e dei beni a fini turistici e ricettivi è stata privilegiata in termini di
iniziative attuate nelle diverse province, investendo particolarmente nei centri storici e nel risanamento urbanistico. La strategia adottata per lo sviluppo dei sistemi locali non concentra le risorse su
un settore specifico, ma tende a ridistribuire pressoché equamente le risorse nelle diverse sottomisure. È forte la tentazione di parlare di città-regione quando si esamina il contesto territoriale laziale,
ma questo è vero solo in parte. Se da una parte è evidente che l’area urbanizzata della capitale si
comporta da attrattore di flussi di diversa natura (persone, merci, capitale, informazione…), è anche
certo che l’armatura urbana laziale individua altre importanti poli urbani. Questi si collocano, considerando la densità urbana, nella parte nord della provincia di Latina e al centro della Ciociaria. Un
polo urbano di notevole interesse è anche quello dei Castelli Romani, situato a ridosso della capitale. Meno consistenti si presentano le agglomerazioni urbane nelle province di Viterbo e di Rieti. La
210
crescita demografica del Lazio registra ormai da alcuni anni una tendenza piuttosto debole (0,2 %
variazione media annuale dal 1995 al 2004: Commissione 2007); la presenza di stranieri residenti e
soggiornanti controbilancia i saldi naturali prossimi allo zero e permette un riequilibrio della bilancia demografica. La popolazione si concentra quasi per la metà nell’area della capitale (49,8%, Istat
2001). Sono sempre più evidenti movimenti di migrazione interna, soprattutto verso la zona a nordest (valle del Tevere, bassa Sabina) di Roma che si sta caratterizzando come bacino di espansione
suburbano. Si noti che i comuni con densità di popolazione particolarmente bassa (al di sotto della
soglia di 50 ab/kmq) tendono a perdere la popolazione residente. Si tratta di un numero rilevante di
comuni (104) che, sebbene ospiti solo il 2,6% della popolazione laziale, comprende comunque più
di un quarto della superficie regionale (Istat, 1991, 2001).
Piani, programmi e azioni
Nelle intenzioni affioranti dalla lettura dei documenti ufficiali relativi ai fondi strutturali si scorge
francamente l’intenzione dei policy maker di integrare politiche di diversa origine, in maniera tale
da aumentarne l’efficacia. Nel Lazio esiste formalmente una strategia di ricerca di coerenza dei processi di sviluppo regionali. Le forme di integrazione coltivate dal DocUP sin dal suo concepimento
sono più evidenti con gli strumenti della programmazione economica, mentre si ha l’impressione
che non ci sia un dialogo parimenti robusto con gli strumenti della pianificazione.
24. La zonizzazione del Docup: aree e popolazione comprese in VA e percentuali
Territorio
Superfi- Quota di territorio
Popolazione Quota di popolazione
cie
regionale
(Ab)
regionale
(Kmq)
(%)
(%)
Obiettivo 2
7.780
45,2
1.102.990
21,1
Phasing Out
5.300
30,8
708.671
13,6
Totale
13.080
76,0
1.811.661
34,7
Densità
(Ab/Kmq)
141,7
133,7
138,5
Esistono due percorsi, da una parte quello della programmazione, dall’altra quello della pianificazione. Il primo conosce meno il territorio e procede partendo da considerazioni di carattere macroeconomico, unendole alle priorità che la politica fa assurgere a direttrici dello sviluppo. Il secondo
parte da una maggiore conoscenza del territorio, ma spesso non è abbastanza solido nell’indicare
strategie che possano anche dare risposte sul breve periodo, e non si sforza di indicare come dialogare con gli investimenti economico-produttivi: L’uno è più strategico, l’altro più attento alla dimensione normativo-prescrittiva; i margini per un dialogo costruttivo esistono, ma spesso non sono
individuati o perseguiti con la dovuta considerazione. Il DocUP laziale si è posto nell’ottica, inoltre,
di attivare azioni innovative e a sostegno della competitività. Le tre keywords che caratterizzano l’obiettivo 2 nel Lazio, sono proprio: innovazione, competitività, PMI. Il DocUP 2000-2006 si è formato, come commentato precedentemente, nel contesto socio-economico di fine anni ’90, in cui si
attuava una politica nazionale di forte controllo di alcuni indicatori macroeconomici (deficit pubblico e inflazione) ed al tempo stesso di rilevava una debole crescita economica, a comparazione con
quella degli gli anni ’80 e ’70. La regione Lazio aveva nel triennio ’95- ’97 un tasso medio di crescita pari allo 0,2 (Istat); è tra il 1998 e il 2001 che è iniziata la ripresa laziale (crescita media pari a
1,5), fino al sorpasso della media nazionale, avvenuto nel 2002. Tra il 1995 e il 2001 il PIL del Lazio misurato in termini reali (con i valori del 1995) passava da circa 92.000 milioni a quasi 101.000
milioni di euro (Istat). Dal ’96 al 2000, anni in cu si gettavano le basi dell’attuale DocUP, l’apporto
dell’economia laziale alla crescita del PIL nazionale risultava di discreta entità, mentre nel 1998 e
nel 2001 tale apporto ha superato il 10%. Nel 1998 l’economia laziale ha goduto di una crescita alquanto elevata che si mostra straordinaria non tanto per la sua entità, quanto per la discontinuità innescatesi rispetto alla moderata crescita degli anni precedenti. Il fattore che ha maggiormente agito
sulla crescita laziale nel 1998 è stata l’introduzione degli incentivi connessi alle celebrazioni del
Giubileo 2000, che hanno sospinto l’espansione del settore delle costruzioni e di alcuni rilevanti
211
comparti dei servizi connessi al turismo. C’è da considerare l’influenza che hanno avuto su così
grande crescita altri elementi endogeni al sistema produttivo regionale, come si vedrà nei paragrafi
successivi. La programmazione inerente al DocUP 2000-2006 (Obiettivo 2) della Regione Lazio
pone la questione dell’interazione tra gli strumenti indirizzati alla programmazione negoziata e gli
obiettivi del sistema di pianificazione regionale. Da una parte gli strumenti di programmazione locale integrata, dall’altra le tutele e gli indirizzi posti dagli strumenti della pianificazione territoriale.
Allo stesso tempo, Il DocUP Lazio si prefigge un’integrazione dei meccanismi di cofinanziamento
afferenti a tre diversi livelli di governance: l’Unione Europea, lo Stato e la Regione. Infine, una sinergia con gli altri programmi comunitari implementati sul territorio (e.g. Leader Plus, Equal, Life
II…), ma soprattutto con il POR Ob.3. Nel seguito di questo articolo si leggeranno le azioni del DocUP sotto diverse angolature cercando di far emergere il percorso che si sta delineando attraverso la
sua implementazione, in un ambiente amministrativamente e politicamente macchinoso, nel quale
non è facile costruire interazioni costruttive con altri programmi e piani complessi e pluriobiettivo
(la tabella sinottica, qui di seguito, evidenzia piani e programmi nel Lazio).
25. Principali strumenti della pianificazione regionale e della programmazione regionale
PIANIFICAZIONE REGIONALE
PROGRAMMAZIONE REGIONALE
- Piano Territoriale Regionale Generale
- PO Fesr 2007-2013
(PTRG)
- PO Fse 2007-2013
- Piano Territoriale Paesistico Regionale
- PSR 2007-2013
(PTPR)
- DPEFR 2006-2008
- Piano dei Parchi
- DPEFR + DocUP 2000-2006
- Autorità di Bacino Regionale
- Gli ambiti territoriali del DocUP (9 Piani
- Piani provinciali
d’Area 2000-2006)
- Piani Regolatori Generali (378 comuni - 65%
- Leader + (10 PAL – Piani di Azione Locale:
del territorio coperto da PRG)
Alta Tuscia, Aniene, Basso Lazio, Colli TuQualità dell’aria:
scolani, Isole Pontine e golfo, Monti Predesti- Piano di risanamento: approvazione degli inni, Reatino, Sabina, Versante laziale PNA,
dirizzi strategici (DGR 538/2004)
Sabino Tiburtino Comicolano Prenestino.) integrazione col PSR (Piano di Sviluppo Rura- Piano d’azione per il risanamento della qualile)
tà dell’aria
Energia:
- Patti territoriali (662/1996), 5 Patti: Patto di
Frosinone, Area Sud Pontina, Area Nord Pon- Piano Energetico Regionale(DGR 45/2001)
tina, Patto di Pomezia, Patto di Rieti
Suolo:
- Patti territoriali (14/98), 3 Patti: Patto territo- Piano di assetto idrogeomorfologico dell’auriale di Ostia, Patto territoriale per le Periferie
torità di bacino di rilevo nazionale del fiume
Metropolitane, Patto Territoriale delle Colline
Tevere (DPCM 10/11/2006)
Romane
- Piano stralcio assetto idrogeologico dell’auto- Contratti d’area, Contratto d’area Montalto di
rità di bacino di rilievo nazionali dei fiumi
Castro
Liri-Garigliano a Volturno (DPCM
12/12/2006)
- PRUSST, 7 Programmi di Recupero Urbano e
Sviluppo Sostenibile: Asse Tiburtino, Castelli
- Piano di assetto idrogeologico dell’autorità di
Romani e Prenestini, Golfo di Gaeta e Monti
bacino di rilievo interregionale del fiume FioAurunci, Latium Vetus, medio bacino del Liri,
ra (delibera adozione piano 06/04/2006)
S. Pietro In Tuscia
- Piano di assetto idrogeologico dell’autorità di
- Programmi Integrati ambiente-Cultura-Turibacino di rilievo interregionale del fiume
smo
Tronto (delibera adozione piano 18/02/2005)
- Programma Integrato Litorale
- Piano stralcio assetto idrogeologico dell’autorità dei bacini regionali (delibera adozione
- I distretti industriali
piano 18/12/2005)
- I consorzi industriali
Rifiuti:
- I Sistemi Produttivi Locali (aree dell’innova- Piano dei rifiuti e delle bonifiche (DCR 112
zione
10/07/2002)
- I distretti tecnologici
- Piano Emergenza Rifiuti (Decreto commissa- Il piano di sviluppo rurale 2000-2006 (PSR)
riale 65 del 15/07/2003)
- Il programma Leader +
Trasporti:
- Il Programma di promozione del turismo
212
-
Linee guida del piano regionale della mobilità, dei trasporti e della logistica
-
montano
Il programma integrato per lo sviluppo territoriale del Lazio
Il DocUP si è posto nell’ottica di implementare le strategie comunitarie e nazionali, la conoscenza
approfondita degli aspetti territoriali però è stata collocata in secondo piano. Attraverso l’asse III ha
cercato di individuare delle aree di progetto (gli ambiti territoriali) collegabili ad aggregazioni territoriali che avrebbero dovuto rimandare ad aree aventi progetti di sviluppo condiviso. Dalle indicazioni prioritarie (nazionali e comunitarie) si è creata la griglia in cui sono state incanalate le attività
del Complemento di Programmazione. L’integrazione è stata prevista, ad esempio, tra gli obiettivi
del DocUP e del NAP (Piano Nazionale per l’Occupazione), proprio sui temi dell’occupazione, dello sviluppo e dell’imprenditorialità. Il DocUP ha, inoltre, promosso una serie di azioni sinergiche
con il Fondo sociale(FSE- Ob.3)149. Un altro percorso rilevante di integrazione è quello che gli investimenti dell’Ob.2 hanno perseguito insieme al PSR (Piano di Sviluppo Rurale). L’approccio della
regione Lazio è stato, per quanto riguarda i fondi strutturali, quello di provare ad innescare delle sinergie tra i tre strumenti finanziari comunitari: FESR, FSE. FEOGA.
L’intelaiatura delle politiche di sviluppo e della coesione economica e sociale nel Lazio hanno coltivato un orientamento di ricerca di sinergie. Infatti, è individuabile anche un dialogo con le politiche
nazionali, in particolare con gli Accordi di Programma Quadro APQ, fondato su settori di azione
comune. I settori degli APQ sono: risorse naturali, risorse umane, risorse culturali, città, reti e nodi
di servizio e, infine, sistemi locali di sviluppo. E’ evidente il richiamo agli assi dell’Obiettivo 2.
La struttura del programma
Il DocUP laziale è stato articolato in 5 assi:
ASSE 1: Valorizzazione ambientale
ASSE 2: Potenziamento delle reti immateriali e materiali
ASSE 3: Valorizzazione dei sistemi locali
ASSE 4: Miglioramento della competitività delle imprese
ASSE 5: Assistenza tecnica
La tabella , qui di seguito, evidenzia gli impegni di spesa per asse (dati RAE dicembre 2004), quindi
post-revisione di metà periodo 2000-2006150. Appare evidente come gli investimenti che si sono riusciti ad attivare con maggior rapidità sono stati quelli destinati ad aumentare la competitività delle
imprese (Asse IV, 115,8%), asse da subito in overbooking, e quelli indirizzati a potenziare le reti
(Asse II, 70,3%), sia materiali che immateriali.
26. Impegni di spesa per asse
Spesa ammissibile in
milioni di
euro
149
Spesa ammisibile in
% rispetto
all'asse di
riferimento
Spesa ammisibile in
% rispetto
al valore
totale del
Il POR Obiettivo 3 assegna, seguendo le disposizioni comunitarie, una specifica riserva alle aree dell’Obiettivo 2.
Tale riserva si definisce, come si ricorda nel POR: nella progettazione di interventi specificamente ed esclusivamente
destinati alle risorse umane riferibili alle aree Obiettivo 2 e la previsione di titoli di precedenza per l’accesso delle persone residenti in aree Ob. 2 a determinate fattispecie di azioni programmate nell’ambito della generalità delle misure
dell’Obiettivo 3 (bandi specifici per le aree Obiettivo 2 e/o esplicitazione di specifiche riserve dentro i bandi generali);
nell’attribuzione di una riserva finanziaria pro capite riferita alle persone residenti od operanti in aree Obiettivo 2, indicativamente pari ad almeno il 5% in più rispetto alle risorse destinate alla generalità dei soggetti residenti o operanti nella Regione Lazio; nell’estensione alle Province, per le risorse da esse gestite, dell’impegno di destinare fondi addizionali
alle aree Obiettivo 2.
150
Quest’analisi, essendo stata effettuata nel 2005, non considera gli ultimi due anni del DocUP.
213
DocUP
ASSE 1 - VALORIZZAZIONE AMBIENTALE
Valorizzazione del patrimonio ambientale regionale
Sistema di raccolta e trattamento rifiuti
Produzione di fonti energetiche rinnovabili
Azioni di controllo, monitoraggio e informazione ambientale
TOTALE A1
ASSE 2 - POT. RETI MAT. E IMM.
Rete viaria e sistemi intermodali
Rior e adeg del sistema idrico e di risa delle acque
Marketing territor.
Reti immateriali
Innovazione tecnologica
TOTALE A2
€ 59
€ 26
€ 10
€8
€ 103
57%
25%
10%
8%
100%
7%
3%
1%
1%
12%
€ 115
€ 76
€ 13
€ 21
€ 16
€ 240
48%
32%
5%
9%
7%
100%
14%
9%
2%
2%
2%
29%
Infrastrutture e territorio
Valorizzazione aree di pregio turistico, culturale e ambientale
Qualificazione e valorizzazione dei sistemi parco
TOTALE A3
€ 174
€ 104
€ 31
€ 310
56%
34%
10%
100%
21%
12%
4%
37%
MIGLIORAMENTO DELLA COMPET. IMPRESE
aiuti pmi
strumenti finanziari per innovazione
Internazionalizzaz
terzo settore
TOTALE A4
€ 115
€ 28
€ 15
€ 15
€ 173
66%
16%
9%
9%
100%
14%
3%
2%
2%
21%
ASSISTENZA TECNICA
TOTALE A5
€ 15
€ 15
100%
100%
2%
2%
TOTALE ASSI
€ 842
100%
L’asse più dotato di risorse è stato quello dedicato alla valorizzazione dei sistemi locali, impegnate
però con qualche difficoltà (erano impegnate al 54% a fine 2004). Se guardiamo ai valori assoluti
degli investimenti programmati per gli assi, l’aiuto alle imprese si colloca in terza posizione, nonostante sia quello in cui le risorse finanziarie siano state collocate con maggior rapidità. Indietro, negli impegni di spesa, è stato anche l’asse della valorizzazione ambientale (asse I, 48,1% a fine
2004). Gli investimenti che hanno interessato le aree urbane sono caduti principalmente nell’asse
III. La regione Lazio ha sviluppato per quest’asse il sistema dei piani d’area, un sistema decisamente
complesso che non ha destato grande eco. Operando una lettura sintetica degli interventi realizzati,
si può ricondurre l’azione del DocUP sul territorio a questi interventi:
ASSE 1: consolidamento, bonifiche di dissesti, ricostruzioni di litorali, raccolta differenziata, realizzazione di piattaforme ecologiche, impianti fotovoltaici, avvio agende 21 locali, e diversi interventi
di ingegneria naturalistica.
ASSE 2: completamento e potenziamento di nodi di scambio ferroviari, completamento e realizzazione di reti fognarie, realizzazione di impianti di depurazione, attrazione degli investimenti nel Lazio (marketing territoriale), reti immateriali (market place, osservatorio, business lab), ricerca e tra214
sferimento tecnologico nei poli di eccellenza (linee d’azione per l’innovazione tecnologica, vedi paragrafo sui contesti produttivi), cooperazione interregionale ed internazionale per l’innovazione.
Nell’asse 2 rientra il progetto più grande finanziato dal FESR nel Lazio: la Bretella di collegamento
trasversale Nord-Pisana-Logistica-porto (Civitavecchia), 20 mil. di investimento pubblico.
ASSE 3: Opere di urbanizzazione primaria e secondaria, parcheggi, opere di recupero e riqualificazione di aree urbane, ristrutturazione di manufatti, completamento di incubatori di impresa, opere di
recupero ambientale e naturalistico, interventi su musei e archivi storici, qualificazione e valorizzazione dei sistemi parco.
ASSE 4: aiuti alle imprese (ampliamenti, acquisto macchinari), studi di fattibilità, sviluppo tecnologie, internazionalizzazione e marketing, aiuti cooperative sociali.
Come è evidente, il DocUP abbraccia un insiemi di interventi sparigliati tra loro in diverse aree della regione. Non c’è concentrazione geografica e tematica.
Vantaggi territoriali e capacità di innescare sviluppo
Un’altra lettura del DocUP- Lazio si può effettuare attraverso chiavi interpretative meno legate alle
strutture amministrativo-burocratiche e più vicine alla realtà sociale ed economica della quotidianità. In particolare, si richiama nell’analisi il rapporto con il territorio e quelle sue funzioni che strutturano la sua capacità di competere. Questo tipo di lettura parte dall’ipotesi che la competitività locale è funzione non solo della capacità delle imprese, ma dal rapporto delle imprese con l’ambiente
locale e i suoi fattori di contesto (Porter 1996; Putnam 1993). Il ragionamento allora deve passare
dal considerare le internalità delle economie, che sono patrimonio delle organizzazione delle singole
aziende, alle esternalità, frutto dell’organizzazione collettiva della regione considerata nel suo complesso.
Partendo da questo presupposto e differenziando le economie esterne in due tipi intangibili (risorse
legate alla conoscenza e alle normative: capacità relazionali, capitale sociale, culturale) e tangibili
(infrastrutture, servizi, innovazione tecnologica e comunicativa) è interessante interpretare l’azione
del DocUP attraverso le categorie interpretative delineate dalla ricerca (cfr. appendice al cap. precedente).
Queste categorie evidenziano l’investimento in qualità urbana, nel risanamento territoriale, nella società dell’informazione, nella tecnologia, nella qualità sociale, e così via151.
27. Progetti e investimenti del DocUp Lazio per tipo di beneficio collettivo promosso
No.
Prog.
beni collettivi di connessione
economie esterne di connessione (ai mercati reti
lunghe)
151
No. Prog.
in %
Investimento
totale
FESR,stato, regione
(mil. di €)
(mil. di €)
% investimento pubblico
privati
% investimento privato
(mil. €)
3
0,1%
€ 10
€ 10
100,0%
€0
0,0%
85
1,8%
€ 11
€7
66,6%
€4
33,4%
Beni collettivi di connessione: realizzazione e potenziamento delle reti telematiche per le aree industriali ed attrezzate e per il sistema dei Poli e dei Parchi tecnologici, società dell’informazione e dell’innovazione. Economie esterne di
connessione:consolidamento ed estensione della rete dei contact point, promozione della cooperazione con altri paesi,
servizi reali per l’internazionalizzazione. Economie esterne di connessione finanziaria:accrescere l’attrattività delle aree
territoriali regionali per gli investimenti dall’esterno, PMI Fondo di pre-investimento, PMI Fondo per l’innovazione,
PMI fondo di capitale di rischio per i processi di innovazione, servizi reali per le PMI, aiuti per gli investimenti per le
imprese artigiane e delle piccole imprese, aiuti per gli investimenti delle imprese giovanili e femminili, aiuti per gli investimenti nelle PMI, sostegno agli investimenti delle PMI attraverso il fondo unico regionale, fondo di garanzia.
215
economie esterne di connessione finanziaria
infrastrutture
3260
69,8%
€ 900
€ 206
22,9%
€ 694
77,1%
237
5,1%
€ 222
€ 221
99,5%
€1
0,6%
qualità urbana
risanamento territoriale
qualità territoriale e ambientale
qualità sociale (incentivi
terzo settore)
servizi di miglioramento
tecnologico
TOTALE
330
139
265
7,1%
3,0%
5,7%
€ 135
€ 147
€ 77
€ 108
€ 106
€ 75
80,0%
72,1%
96,8%
€ 27
€ 42
€2
19,9%
28,5%
3,2%
341
7,3%
€ 37
€ 16
42,5%
€ 21
57,5%
8
0,2%
€ 10
€9
83,2%
€2
16,8%
4668
100,0%
€ 1.550
€ 756
48,8%
€ 793
51,2%
Elaborazione dell’autore su dati del DocUP Lazio (Nov.2005)
28. Progetti e investimenti del DocUp Lazio per tipologia di vantaggi promossi
No.
Prog.
vantaggi per efficienza
vantaggi per
qualità territoriale
vantaggi per
sviluppo e capacità (qualità
sociale)
3348
Investimento
totale (mil.
di euro)
€ 921
971
€ 582
37,6%
€ 509,00
67,3%
€ 73,00
9,2%
341
€ 37
2,4%
€ 15,50
2,1%
€ 21,00
2,6%
vantaggi per
sviluppo e innovazione (miglioramento
tecnologico)
8
€ 10
0,7%
€ 8,57
1,1%
€ 1,73
0,2%
TOTALE
4668
€ 1.550
Investimento
totale in %
Investimento
pubblico in
%
29,5%
Investimento
privato
Investimento
privato in %
59,4%
FESR,
stato,regione
(mil.di euro)
€ 223,00
€ 698,00
87,9%
100,0%
€ 756,07
100,0%
€ 793,73
100,0%
Fonte: elaborazione dell’autore su archivio progetti del DocUP Lazio (nov. 2005)
Questo percorso interpretativo mira a far emergere a) i vantaggi che stanno innescando gli investimenti (e.g. vantaggi per efficienza e per qualità territoriale) e b) i processi di sviluppo (e.g. lo sviluppo della capacità sociale e lo sviluppo dell’innovazione)152.
Le tabelle indicano che il maggior numero di progetti ricade nella categoria “economie esterne di
connessione finanziaria”; il numero dei progetti più basso ricade, invece, nella categoria “beni collettivi di connessione”.
Questo mette in evidenza come questo DocUP guardi alle PMI e si occupi poco di società dell’informazione e di miglioramento dei servizi tecnologici. Questo tipo di lettura analitica mette in luce
degli aspetti essenziali del DocUP laziale. Sia procedendo attraverso un’analisi che fissi l’attenzione
152
Vantaggi per efficienza: beni collettivi di connessione, economie esterne di connessione (ai mercati reti lunghe), economie esterne di connessione finanziaria. Vantaggi per qualità territoriale: infrastrutture, qualità urbana risanamento
territoriale, qualità territoriale e ambientale.
216
sul numero di progetti, sia, invece, andando a osservare le quantità di denaro investite, il DocUP Lazio consiste soprattutto in aiuto alle PMI; infrastrutture materiali; risanamento urbano, territoriale e
ambientale.
In altre parole, l’investimento in processi innovativi a sostegno di un’economia basata sulla conoscenza non è centrale negli investimenti della regione. Se teniamo conto che in Europa (Observatory
Reprot SMEs, 2003) le micro imprese (da 0 a 9 impiegati) sono il 92% e le piccole (10-49 impiegati) sono il 7%, e il Lazio non è in controtendenza, potremmo leggere questa scelta d’aiuto alle imprese quasi come un vincolo inamovibile. Invece, è sorprendente lo scarso investimento nella conoscenza, sol se si considera l’alta concentrazione nel Lazio, soprattutto a Roma di persone che hanno
le capacità di innescare processi fondati sulla knowledge economy. Roma è considerata infatti la
prima città italiana per classe creativa, pari secondo alcune stime, al 25% della forza lavoro della
città.
Se a queste considerazioni aggiungiamo le priorità del programma di Lisbona e le priorità che emergono dalle linee guida della Commissione Europea per il nuove sessennio 2007-2013 ci accorgiamo
che il DocUP Lazio non ha guardato con la dovuta attenzione ai tavoli in cui si stanno giocando le
partite dell’innovazione.
Il Lazio è tra le regioni italiane in cui vi è la maggior concentrazione di attività in R&S, sul versante
del trasferimento tecnologico, però, si rilevano notevoli criticità che incidono sulla competitività regionale dei beni e dei servizi prodotti. Le criticità si rilevano e si evidenziano soprattutto a) nello
scarso dialogo tra contesti produttivi , università e centri di ricerca, b) scarsa propensione all’innovazione da parte delle micro-imprese (costituiscono il 90% delle imprese), l’innovazione filtra solo
nelle medio-grandi, c) bassa registrazione di brevetti, molto al di sotto sia della media nazionale, sia
di quella europea, d) basso tasso di esportazione tecnologica. Questo discorso, in effetti, non può
solo passare attraverso l’Ob.2, ma, al di là dell’investimento basso in processi innovativi, è mancata
nel DocUP una strategia che abbia gettato solidamente le basi per un dialogo tra le imprese e le opportunità in fieri nella società dell’informazione.
Uno sguardo in avanti: i possibili futuri del Lazio
La divergenza del Lazio, nonostante le buone performance sui dati economico-finanziari, è correlata
ad un insieme di fattori che fanno ancora somigliare questa regione, per alcuni aspetti, ad una zona
da obiettivo convergenza (ex ob.1). I settori produttivi (turismo, edilizia, servizi) che ora alimentano
“la locomotiva Lazio” non sono né particolarmente innovativi, né così stabili e protetti da fattori
economici esogeni, non controllabili dall’azione locale. Il settore delle costruzioni, certamente un
campo produttivo non particolarmente innovativo e tradizionalmente non legato ad una forza lavoro
altamente qualificata, continua a svolgere un ruolo dominante. Le trasformazioni urbane in atto nell’area metropolitana romana sono rilevanti, la conseguenza è l’intensificazione dell’urban sprawl e
la proliferazione di grandi mall, cittadelle del consumo che a loro volta necessitano di lavoratori non
particolarmente qualificati. Su questo punto si deve tener conto anche del fatto che il passaggio dal
nuovo al vecchio piano regolatore a Roma ha sdoganato milioni di metri cubi, che adesso rischiano
di compromettere molte aree della campagna romana. Non solo l’area urbana metropolitana romana
è a rischio. Il territorio laziale è disseminato di piani regolatori non coordinati, e non sempre accurati, che individuano aree di espansione edilizia ed industriali al di là di ogni logica sociale, economica e demografica .
In realtà questo settore potrebbe esser foriero di innovazioni attraverso la proposizione e l’implementazione di tecnologie avanzate, soprattutto nel campo dei materiali e delle energie rinnovabili,
ma nessuno dei nuovi quartieri che stanno nascendo nel Lazio presenta caratteristiche tali da poter
assurgere a modello di quartiere basato su scelte tecnologiche e modelli abitativi avanzati. Il settore
del turismo è consolidato, ma anche qui ci sono ampi margini di miglioramento dell’offerta, sia dal
punto di vista qualitativo che quantitativo, altre regioni italiane presentano maggiori performance a
fronte di opportunità turistiche decisamente minori. Anche sotto questo aspetto, il Lazio riesce a va217
lorizzare solo parzialmente le sue potenzialità territoriali. Infine, due punti cruciali: lo scarso investimento delle imprese nella ricerca (vedi tabella sui parametri di Lisbona nel Lazio) ed un sistema
infrastrutturale non adeguato a supportare gli enormi flussi (persone e beni) in entrata e in uscita
dall’area metropolitana romana; in più, manca una chiara visione strategica che metta a sistema gli
hub, attuali ed in potenza (Civitavecchia, Orte, Fiumicino, Ciampino, Viterbo, Latina), delle reti infrastrutturali laziali.
La crescita economica finanziaria c’è, inutile negarlo, ma qual è la sua qualità e quale il suo grado di
sostenibilità (ambientale, sociale ed economica)?
Il Lazio è una regione in controtendenza, il suo PIL sale nel momento in cui il resto della nazione
sta vivendo uno dei periodo di crescita più bassi degli ultimi anni. Nel 2004 la ricchezza territoriale
del Lazio è aumentata del 3,8 %, il tasso più elevato in assoluto fra tutte le regioni italiane. È difficile parlare ancora di effetto Giubileo, ma probabilmente ancora troppo presto per sbilanciarsi su posizioni ottimistiche, anche se già si parla di modello Lazio. Le aspettative realistiche sono quelle di
un rallentamento di questa crescita. Come si è analizzato in questo articolo non è solo Roma e la sua
provincia che stanno trainando l’economia laziale, il “Lazio senza Roma”, soprattutto le province di
Latina e Frosinone dimostrano una discreta diversificazione dei settori produttivi.
Senza voler a tutti i costi sintetizzare, si rischia di banalizzare la complessità di questa regione, si
possono individuare tre macro-regioni: il Lazio settentrionale, caratterizzato da territori aventi una
più che buona qualità ambientale, ma con settori industriali decisamente poco produttivi e probabilmente “troppo di nicchia” e con agricoltura e silvicoltura che giocano ancora un ruolo importante; il
Lazio centrale, decisamente Roma-centrico, soggetto a periurbanizzazione, caratterizzato da altissima produzione in tutti i settori, ma che brucia anche molta della ricchezza prodotta: un motore urbano ad alta potenza (qui si produce quasi il 70% della ricchezza laziale), ma ad alto consumo e, quindi alto grado di inefficienza; il Lazio meridionale, anch’esso caratterizzato da fenomeni di urban
sprawl, che ha ancora una buona percentuale di agricoltura, ma non quella qualità ambientale che si
riscontra nel nord della regione, qui l’industria è molto più sviluppata e più che sufficientemente diversificata. Il Lazio produce ricchezza, ma non crea né margine né equa redistribuzione: questa ricchezza viene prodotta principalmente nell’area metropolitana e proprio lì viene fondamentalmente
consumata. Un futuro centrato su modelli di sviluppo sostenibile passa attraverso la revisione di
questo meccanismo perverso. Questa revisione non può essere francamente operata da uno strumento come il DocUP, ma questo potrebbe esser reso sinergico ad un disegno di sviluppo che metta al
centro tutti quei temi che possano rendere appetibile vivere nel Lazio.
Mettere a punto strategie competitive in un disegno organico per lo sviluppo regionale significa stabilire dei limiti ai disequilibri regionali. Una gestione efficiente delle questioni territoriali può aiutare in questo senso ad impostare un futuro in cui a) si metta a freno l’inefficiente consumo di risorse,
b) si faciliti l’accesso ai diversi servizi, c) si ponga la dovuta attenzione alle questioni ambientali, d)
si dia spazio alla cultura e alle iniziative a carattere sociale, e) si promuovano e sostengano nuove
forme di imprenditorialità, meglio se innovativa e creativa.
Il primo limite va individuato nei servizi di accessibilità e mobilità. L’alto consumo del motore laziale è decisamente legato alla difficoltà a spostarsi all’interno del sistema metropolitano, proprio
laddove si stanno incrementando i fenomeni di periurbanizzazione. Questo incide profondamente
sulla qualità della vita (e.g. alto stress, notevole consumo di tempo), sui costi spesi in energia non
rinnovabile e sui costi legati all’alto numeri di incidenti. Questi fattori non rendono appetibile il territorio ad investimenti esterni, se da una parte esiste chi può garantire i fattori di conoscenza, utili ad
innescare forme di economia innovative e competitive, dall’altra mancano i requisiti base, quelle
amenities, che possano spingere ad investire nel sistema “Roma con Lazio”.
Questo limite ferma la capacità di attrarre investimenti sul territorio, difficilmente operazioni di
marketing territoriale potranno aver successo se persiste una situazione di disagio nelle connessioni
inter-urbane dell’area metropolitana romana (inefficienza delle reti di trasporto su media e lunga di218
stanza, in particolare quelle su ferro), ed una situazione di perdurante inadeguatezza del sistema di
trasporto dentro la metropoli.
Il secondo limite va ricercato nella qualità e nei costi dei servizi. Anche questo punto richiede il disegno di strategie che ridefiniscano e aggiornino gli standard di qualità e che incontrino le effettive
esigenze dei cittadini.
Il terzo limite riguarda l’investimento in ambiente. Questo è da intendersi soprattutto nell’incentivare l’uso di energie rinnovabili e nel facilitare l’attecchimento e la diffusione di tutta una serie di business innovativi legati all’uso di energie alternative. Attenzione deve esser posta anche alla gestione dei rifiuti, questi devono esser considerati una risorsa e come tali dovrebbero essere trattati, anche questo settore potrebbe essere un terreno fertile dove far crescere nuove iniziative imprenditoriali innovative e creare occupazione. È, inoltre, da rammentare che in Europa ogni anno 350.000
persone muoiono prematuramente a causa dell’inquinamento dell’aria nelle città, questo ci fa capire
la necessità e l’importanza di tutti quei progetti indirizzati al miglioramento della qualità dell’aria
nei contesti urbani e industriali. Infine, non abbassare la guardia su tutte le iniziative inerenti alla tutela della risorsa acqua e dell’uso e consumo del suolo.
Il quarto e il quinto limite si occupano dei disequilibri relativi alle condizioni socio-economico e
culturali. Si devono attuare delle politiche che permettano di eliminare la condizione di perifericità
di alcune parti del territorio regionale. Una perifericità che è a carattere urbano, periurbano e rurale.
Attuare delle iniziative che evitino la formazione di cluster socialmente polarizzati. Attuare pratiche
che siano in grado di aprire dialoghi tra differenti comunità e soprattutto tenere alto il livello di formazione scolastica e professionale. Un territorio competitivo e innovativo si fonda su un capitale
umano e sociale ben strutturato e soprattutto dotato di contenuti e qualità creative in grado di creare
quelle unicità che differenziano i territori e li portano a raggiungere punte di eccellenza nei diversi
settori (economici, sociali, culturali, ambientali…).
I possibili futuri del Lazio passano attraverso la capacità di definire un approccio territoriale integrato che sappia definire i limiti di una strategia coerente. Una strategia che in primis parta dal territorio, nel senso che abbia una maggiore conoscenza delle esigenze territoriali e sia in grado di prevedere interventi sintonici rispetto a queste necessità.
219
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AUTORI
Nataša Avlijaš: dottoranda presso il Dipartimento di Studi Urbani, Università degli Studi di Roma Tre.
Marco Bellandi: professore di Economia Applicata dell’Università di Firenze, Dipartimento di Scienze Economiche.
Massimo Bressan: docente di Antropologia Urbana all'Università di Firenze, e ricercatore dell'Iris Prato.
Annalisa Caloffi: dottore di ricerca, titolare di assegno di ricerca presso il Dipartimento
di Scienze economiche dell’Università di Firenze.
Marco Cremaschi: professore di Politiche Urbane, Dipartimento di Studi Urbani, Università degli Studi di Roma Tre.
Armando Dei: direttore Iris, Prato
Anna Paola di Risio:consulente Dps, Ministero dello Sviluppo Economico
Pietro Elisei: dottore di ricerca, titolare di assegno di ricerca presso il Dipartimento di
Studi Urbani, Università degli Studi di Roma Tre.
David Fanfani: : ricercatore in Urbanistica presso l’Università di Firenza.
Francesco Gastaldi: ricercatore in Urbanistica presso l’Università IUAV di Venezia.
Francesca Gelli: ricercatore in Scienze Politiche presso l’Università IUAV di Venezia.
22
Elenco Tabelle e Schemi
(da rifare e controllare la numerazione)
Parte I
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Tavola sinottica dei Docup
Relazioni tra istituzioni regionali e comunali
Presupposti, frame cognitivi e intenzioni
Pratiche, potenziali e situazioni problematiche
Popolazione residente per grande comune e anno di censimento
Incidenza e variazione addetti alle funzioni superiori
La gerarchia urbana
Autore-Argomentazione principale
Quadro interpretativo fattori di competitività – Assi e misure di Docup e
POR
10. Le politiche per le aree urbane nei Por e Docup
11. Sintesi della distribuzione di frequenza delle misure per ripartizione
12. Incrocio finalità e target spaziale delle politiche urbane
13. Quadro cronologico dei programmi europei e degli strumenti di program-
mazione in Italia
14. Programmi complessi: soggetti coinvolti e risorse finanziarie
15. Categorie di intervento per strumenti e politiche per le aree urbane
16.
17.
18.
19.
20.
Sintesi della distribuzione di frequenza delle misure per ripartizione
Popolazione residente nei maggiori comuni per anno di censimento
I grandi sistemi urbani
Articolazione del sistema urbano in Italia
Incrocio strutture e target degli interventi rivolti all’innovazione nelle politiche delle
Regioni italiane Ob2
Parte II
Regione Lazio
21. Impiegati per settori produttivi
22. Settori produttivi delle province laziali
23. Valori di alcuni indicatori che misurano gli obiettivi di Lisbona
24. Dati significativi del DocUP Lazio
25. Principali strumenti della pianificazione regionale e della programmazione regionale
26. Impegni di spesa per asse
27. Il DocUp Lazio secondo particolari categorie interpretative-A
28. Il DocUp Lazio secondo particolari categorie interpretative-B
Regione Piemonte
29.
30.
31.
32.
33.
34.
35.
36.
37.
Fondi strutturali in Piemonte dal 1989 al 2004
Indicatori delle economie provinciali (2005)
Caratteristiche area interessata dal DOCUP Ob. 2
Informazioni finanziarie del DOCUP Ob. 2
Struttura del DOCUP Ob. 2
Analisi SWOT
Promozione internazionale del Piemonte
Promozione e sviluppo del turismo
Investimenti attivati per misura
22
38.
39.
40.
41.
42.
43.
44.
45.
Analisi dei Patti Territoriali
Infrastrutturazione per il sistema produttivo
Investimenti attivati per misura
Numero progetti – Contributi pubblici – Investimenti attivati
Tutela Ambientale
Zone di intervento
Diffusione della società dell’informazione
Ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico
22
Elenco Figure
Parte I
13. Specializzazione produttiva dei comuni
14. Tasso di laureati in % sulla popolazione attiva
15. Variazione intercensuaria degli addetti
16. Tasso di attività per comune
17. Tasso di attività femminile per comune
18. Tasso di attività giovanile per comune
19. SLL Urbani per classi di popolazione
20. SLL Urbani per tasso di addetti alle mansioni superiori
21. SLL Urbani per classi di laureati
22. SLL Urbani per classi di laureati in materie scientifiche
23. SLL Urbani per traffico aeroportuale complessivo
24. SLL Urbani per traffico aeroportuale prevalente (naz. o internaz.)
25. Diagramma Scenari
23