Tra giudizio psichiatrico e assistenza pubblica: donne internate nel

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Tra giudizio psichiatrico e assistenza pubblica: donne internate nel
Tra giudizio psichiatrico e assistenza
pubblica: donne internate nel manicomio
di Roma alla fine dell’Ottocento
di Laura Schettini
L’uso della cartella clinica è ormai prassi consolidata nella ricerca storica
sulla follia. Luogo d’incontro di documenti, voci e sguardi diversi le
cartelle cliniche sono punto di partenza per uno studio delle relazioni
tra istituzioni, individuo, famiglia, società all’interno di linee di ricerca
nuove e originali. Gli archivi dei manicomi raccolgono la vicenda medica
degli uomini e delle donne internate e questa vicenda si snoda attraverso
momenti e carte differenti: la relazione medica che accompagnava la
persona in manicomio, l’anamnesi, il diario del ricovero, i documenti
giudiziari, i racconti dei testimoni, le lettere e carte autografe prodotte
dalle donne e dagli uomini durante l’internamento. Un insieme di congetture, ipotesi, giudizi, osservazioni, giustificazioni che finiscono per
costituire lo spazio entro cui prendono forma le figure – il medico, la
donna e l’uomo internato, il vicinato, la famiglia, le guardie, lo psichiatra
– e la rappresentazione che questi soggetti avevano l’uno dell’altro, le
strategie di controllo sociale, le condizioni di vita, ma anche le astuzie e
i patemi. Una rete documentaria, dunque, che rende possibile allungare
lo sguardo ben oltre le mura manicomiali.
Lo scenario entro cui si colloca il mio lavoro è la città di Roma alla
fine dell’Ottocento. I mutamenti economici, sociali e culturali che caratterizzarono l’età contemporanea ricaddero sulla vita degli individui e dei
gruppi spesso in modo traumatico e le città sembravano essere il luogo
dove maggiormente si rese esplicito il conflitto. Il volto delle popolazioni
urbane mutò drasticamente risolvendosi, in gran parte dell’Europa industriale, in vistosi fenomeni di disgregazione sociale. Contadini inurbati,
artigiani impoveriti, lavoratori saltuari, donne sole arrivate in cerca di un
impiego domestico, mendicanti e vagabondi, prostitute, pullulavano le
vie delle città costituendo una continua minaccia all’ordine tradizionale,
soprattutto perché erano soggetti sradicati dalle culture d’origine e non
riaggregati intorno a strutture sociali alternative nelle città moderne. Le
città apparivano ai contemporanei turbolente, pericolose, ingestibili. Criminalità e pauperismo sembravano confondersi, assumendo un carattere
Dimensioni e problemi della ricerca storica, n. /
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di massa: le cronache del tempo erano ricche di continui richiami all’aumento incontrollato dei furti, dei borseggi, del meretricio, delle truffe,
dell’alcolismo. Decine di migliaia di persone erano di fatto disponibili alla
trasgressione delle norme e delle leggi sulla spinta di bisogni immediati,
primo fra tutti la fame. Da parte loro, oltre ad incarnare il disordine e
la pericolosità sociale, le donne e gli uomini dei ceti popolari subirono
e agirono profonde modificazioni all’interno della loro vita quotidiana.
L’accresciuta complessità del mondo del lavoro e delle relazioni familiari,
la mobilità come tratto fondamentale della vita urbana, significarono in
molti casi un carico maggiore di responsabilità e il peggioramento delle
condizioni di vita ma anche, per alcuni soggetti, l’incontro con nuovi
possibili modi di vivere l’esistente.
In generale, uno degli elementi più rilevanti del periodo fu che
migliaia di persone si ritrovarono prive di quelle tradizionali strutture
di riferimento – la famiglia, la piccola comunità – che in qualche modo
avevano assolto alla funzione di assorbire o regolare gli squilibri che si
producevano nella vita individuale.
Il tentativo da parte delle autorità di gestire pauperismo, criminalità
e devianza si giocò su più piani. Da una parte la sicurezza sociale fu
garantita con strumenti di polizia, accentuando la sorveglianza nei confronti di oziosi, vagabondi, prostitute, donne immorali, ambulanti. In
molti casi, come in quello delle giovani nubili dei ceti popolari, l’assenza
del tradizionale controllo familiare fu superata con il dispiegamento del
controllo poliziesco: a queste giovani donne bastava spesso essere trovate da sole la sera nelle strade della città per essere arrestate e registrate
come prostitute.
Altro livello di intervento fu la separazione massiccia degli «individui pericolosi» tramite il ricovero o la reclusione in apposite istituzioni:
carceri, postriboli, manicomi, istituti assistenziali femminili per donne
sole come le orfane, le malmaritate, le ex prostitute, le vedove ecc. La
mappa dei luoghi di ricovero della Roma ottocentesca assolveva a una
funzione assistenziale e di controllo che, come già detto, in altri contesti,
soprattutto nei piccoli centri abitati o nelle campagne, sarebbe stata coperta dalle strutture parentali. Spesso gli istituti incrociavano funzioni
e ruoli l’uno con l’altro: è, per esempio, tristemente alto il numero di
donne e uomini poveri, di alcolisti, di vedove, di prostitute che finivano
nei manicomi invece che in altri istituti assistenziali. Allo stesso tempo
era molto frequente che la biografia delle persone marginali si svolgesse
passando attraverso più istituzioni: molte donne internate in manicomio
provenivano dal carcere, dagli ospedali, dai conservatori e viceversa.
Il quintuplicarsi degli internamenti manicomiali tra l’ultimo trentennio dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento costituì, quindi,
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una delle risposte ai problemi della marginalità, della povertà, della sicurezza sociale, della moralità pubblica, della mobilità, vissuti in termini di
ordine pubblico. L’internamento manicomiale è un fenomeno che, certo,
riguardò uomini e donne. Ma esso assume caratteristiche profondamente
diverse per i due sessi quando è messo in relazione con le cause che lo
produssero, con le conseguenze provocate nelle vite individuali, con il
valore che l’ambiente sociale attribuiva a tale esperienza. Differente era,
inoltre, il sapere psichiatrico sulla follia degli uomini e delle donne.
Rosa B. fu condotta nel manicomio romano S. Maria della Pietà nell’ottobre del . Aveva  anni e morì l’anno successivo mentre era ancora
internata. Dai documenti raccolti nella sua cartella clinica sappiamo di
lei che era vedova e aveva quattro figli; era di condizione sociale «povera
artigiana». Il medico che redasse la modula informativa per ottenerne
il ricovero, raccontò:
Tenta di suicidarsi e già una volta ne è stata distolta. Fugge dal domicilio dove
crede di essere inutile e a carico degli altri, per questo vuole porre termine alla
sua esistenza. Teme sempre che la vogliono arrestare e che l’attende qualcuno
che le vuole male. È taciturna e preoccupata dell’impotenza al lavoro.
L’impotenza al lavoro si tradusse, per Rosa B., in un sentimento di inutilità
e, peggio ancora, nella paura di essere di peso agli altri. Fatto, questo,
che trova il suo posto all’interno della tipologia di economia familiare
diffusa tra i ceti popolari della Roma ottocentesca che esigeva il lavoro
di ogni membro. Uomo, donna o fanciulli dovevano provvedere al
proprio sostentamento in maniera autonoma andando a lavorare fuori
casa, con mestieri e ritmi spesso diversi tra loro. Non stupisce, dunque,
che quanti non erano in grado di sfamarsi con il proprio lavoro fossero
percepiti e si percepissero un peso per gli altri. Erano i ritmi lavorativi,
le condizioni abitative, l’insufficienza delle reti di rapporti all’interno
della piccola comunità di quartiere a rendere sempre più improbabile il
mantenimento a casa di individui improduttivi o addirittura necessitanti
di cure. Nell’ultimo ventennio del XIX secolo furono internate nel manicomio romano più di cinquecento vedove. Sappiamo che proprio le donne
in stato vedovile erano la categoria (in confronto alle nubili, ai celibi,
agli ammogliati, ai vedovi e alle maritate) che al suo interno conosceva
il maggior numero di internate. Furono gli stessi contemporanei a non
lasciarsi sfuggire il nesso tra l’alto numero delle vedove in manicomio e
le loro condizioni sociali:
Nella donna le gravi condizioni inerenti allo stato vedovile fanno risentire, più
che nell’uomo, le conseguenze tremende della funzionalità cerebrale. La donna
nello stato vedovile quasi sempre si dibatte nelle questioni finanziarie, lasciate
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LAURA SCHETTINI
insolute dalla morte del marito, e più spesso anche nella preoccupazione del
sostentamento alla vita, che coi nostri ordinamenti sociali per la massima parte
dipende dalla produzione del lavoro maschile.
La storiografia più recente e più attenta allo studio della vita quotidiana
delle donne in età moderna e contemporanea ha messo in luce, come
già detto, che il lavoro delle donne era un fenomeno molto diffuso tra
i ceti popolari e che non sempre esso è leggibile come pura e semplice
integrazione del salario maschile. Rimane intatta, comunque, l’immagine
che ci restituisce lo psichiatra romano quando parla delle preoccupazioni
e degli stenti vissuti dalle vedove e dalle donne sole. A questo proposito,
sono proprio le biografie delle donne internate al S. Maria della Pietà a
parlare nel modo più chiaro e vivo. Artemisia B. fu internata nel manicomio romano nell’ottobre del  su richiesta del carcere delle Mantellate
dove era reclusa. Quando giunse in manicomio la donna aveva  anni.
Prima di essere arrestata viveva a Roma senza fissa dimora, era vedova e
aveva quattro figli. Il racconto della sua storia prima che varcasse la soglia
dell’istituto è affidato al diario del primo giorno di ricovero:
[...] Confessa di aver alquanto abusato di vino. Ha sofferto patemi d’animo per la
morte del marito e per essersi trovata senza mezzi di sussistenza. Provò a fare la
donna di servizio ma non reggeva alla fatica e dovette lasciare. Trovandosi senza
casa una sera seguì un uomo che l’aveva invitata ad andare con lui e l’accompagnò
a Porta Pinciana vicino le mura e volle avere con lei rapporti sessuali. Dopo di
quello si avvicinarono quattro uomini ai quali pure cedette per paura. Passò la
notte a Via Veneto, poi la mattina andò a Villa Borghese. Le pareva che tutti la
seguissero. Aveva bisogno di urinare e non poteva rimanere un momento sola. Si
sentiva la mente confusa, era irritata e allora cominciò a gridare: «l’avete con me,
cosa volete?» e si alzò le vesti in pubblico. Venne arrestata e condotta al carcere
delle Mantellate per offesa al pudore. Dal carcere fu condotta al manicomio.
Irene M. aveva  anni nell’agosto del  quando entrò in manicomio. Anche lei era vedova e aveva tre figli. Nella modula informativa,
là dove erano richieste notizie circa la condizione sociale della paziente,
era scritto: «attendente alle faccende di casa, si impegna a guadagnarsi
il vitto». Poi, a proposito delle cause della follia della donna lo stesso
documento così recitava:
L’essere stato tre anni fa il marito condannato a cinque anni di galera dove poi
morì lasciandola con gli affari di famiglia intrecciati e con due figli piccoli. Le
preoccupazioni per le forti spese per le vicende processuali del marito a cui è
stata costretta dal giudice e a cui non ha saputo far fronte.
Ancora le preoccupazioni economiche e quelle per l’avvenire dei figli
dietro l’internamento manicomiale di un’altra donna. Clementina F.
fu portata al S. Maria della Pietà nel maggio del  dopo che per mesi
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aveva ripetutamente minacciato di volersi uccidere e di voler uccidere i
figli. Aveva cinquant’anni, tre figli ed era vedova. Le cause a cui ricondurre
la follia della donna erano indicate nella modula informativa redatta dal
medico di Acquapendente, paese in cui la donna viveva, nella «spossatezza
fisica e morale, di costituzione debole per una vita di stenti». La donna,
continuava la modula,
guardava il bestiame fino al settembre del , ora è massaia al podere nuovo
senza alcuna serva in aiuto, è sovraccarica di faccende e pensieri. A ciò si aggiunga che nella partizione del podere non vi erano scorte per loro per la cattiva
annata.
Altri numerosi frammenti di vite conservati presso l’archivio del S. Maria
della Pietà tessono il racconto della miseria, della fatica, degli stenti ma
anche delle aspirazioni e dei progetti diffusi tra le donne dei ceti popolari
della Roma a cavallo tra i due secoli. Donne, questa volta, non vedove ma
comunque sole all’interno di un contesto familiare da mandare avanti.
I mariti erano assenti perché lontani o semplicemente perché estranei
alle preoccupazioni della vita quotidiana. Angela M. fu internata in
manicomio due volte: la prima per quasi un anno tra il  e il , la
seconda nel  quando morì pochi giorni dopo il suo arrivo nell’istituto.
Il documento dove meglio si ricostruisce la sua vicenda risale al primo
ricovero. Appena giunta in manicomio fu portata in sala d’osservazione
dove il dott. Giannelli, allora primario del manicomio romano, redasse
una relazione:
Nata a Roma, di anni , maritata, donna di casa, analfabeta, cattolica. [...] La
malata è vissuta sempre in famiglia di povere condizioni. [...] Partorì dieci figli
di cui due morirono al momento del parto, altri sei per malattie diverse, due
sono viventi, un maschio e una femmina. La malata negli ultimi  o  anni ha
sofferto deficienza di mezzi igienici ed alimentari. Dapprima il marito che era in
America le riservava dei denari, da qualche anno non se ne hanno nuove. Ella
è stata sempre buona, tranquilla e molto religiosa. Si mostrava discretamente
intelligente nella sfera dell’attività pratica alla quale era dedicata. L’inizio della
psicosi è da ascrivere alla morte di una sorella che l’aiutava e con la quale essa
viveva. I fenomeni morbosi apparsero circa  mesi fa e si svolsero lentamente.
Passava molte ore taciturna temendo per l’avvenire della figlia di  anni. In un
raptus si gettò nel pozzo. Al momento della visita del medico fiscale era in grave
stato di depressione psichica, faceva atti di disperazione e rispondeva sensatamente e dopo molte insistenze alle domande che le si facevano.
Marianna F. fu internata al S. Maria della Pietà nel maggio del  e
vi rimase fino alla sua morte avvenuta nell’aprile dell’anno successivo.
Anche per lei le notizie relative alla sua vicenda sono quelle riportate dal
foglio della sala d’osservazione.
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F. in P. Marianna del fu Salvatore, anni , ha un figlio di anni . Donna di casa
nullatenente, analfabeta, affetta da psicosi maniaco depressiva. [...] Ha sofferto
di bronchite acuta e di infezione puerperale, negli ultimi tempi difetta di mezzi
alimentari. Ha il carattere piuttosto malinconico, di frequente interrotto da scatti
allegri. Poco intelligente alla sfera dell’attività pratiche cui era dedicata. Due volte
in seguito a disgrazie cadde in uno stato di eccitamento a fondo angoscioso. La
prima disgrazia rimonta a circa quindici anni fa quando le cadde la casa che per
lei costituiva un buon capitale perché ne affittava una parte. Con la casa andarono perduti molti beni. La seconda disgrazia, cinque anni fa, fu la morte della
figliastra a cui era molto affezionata. Durante il giorno gridava, esprimeva ad alta
voce il suo estremo rammarico. Seguirono dei periodi depressivi. [...] L’inizio del
recente attacco è avvenuto  giorni fa lentamente con decorso intermittente. È
diventata eccitabile, non voleva vedere nessuno, si rifiutava di uscire di casa, di
prendere il cibo, se la prendeva con il marito fino a prenderlo a morsi.
Maria D. fu internata, nell’ottobre del , nel manicomio romano
perché aveva manifestato propositi suicidi. Nella modula che accompagnò
la donna in manicomio è scritto che aveva  anni, un marito, due figli
e faceva la negoziante:
Ha un eccesso di ambizione per i figli i quali per ragioni di studio e di condotta
lasciarono recentemente a desiderare (non passarono gli esami). Da dieci anni
si trova da sola ad accudire il negozio e ha dispiaceri per non poter accudire
ad un tempo negozio e casa. In contraddizione con la propria posizione florida
teme di essere rovinata, di essere la rovina dei suoi figli, di non possedere nulla.
Ha il timore che le venisse revocata la patente per dei conti sbagliati. Fu molto
impressionata dalla minaccia del marito di mandare il figlio in marina. È schiava
del dovere, ha la tendenza ad accumulare.
Questi racconti hanno parlato di vite spese investendo energie, impegno,
responsabilità. Di contro è interessante guardare, attraverso le parole
scritte nel  dallo psichiatra Francesco Del Greco, come il sapere
psichiatrico del tempo diede fondamento scientifico alla prevalenza, tra
la popolazione manicomiale femminile, di questa tipologia di donna.
L’organismo della donna è a prevalenza emotivo, e cede, si plasma agli effetti
più diversi. La sua disposizione prevalente non è verso il pensiero astratto e la
volontà, bensì verso i riflessi psichici e tutte quelle risonanze organiche, che negli
apparati della generazione, nelle vicende della maternità, dalla gravidanza al parto,
all’allattamento, trovano adeguato fondamento costituzionale e biologico.
Già molto è stato scritto negli ultimi anni per decostruire lo stereotipo
che riconosceva la “femminilità” nella natura emotiva e sensibile delle
donne e nella loro naturale propensione a realizzarsi ed esaurirsi nella
maternità; altrettanto indagato è stato il nesso tra questo stereotipo e il
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DONNE INTERNATE NEL MANICOMIO DI ROMA ALLA FINE DELL’OTTOCENTO
sapere psichiatrico. La psichiatria di fine Ottocento arricchì con argomenti
scientifici, caratterizzati da una presunzione di certezza intrinseca, la
rappresentazione del femminile comune all’epoca: folli, pazze, isteriche,
erano, allora, prima di tutto le donne che, in virtù della propria malattia,
esprimevano una trasgressione ai valori “naturali” del genere femminile.
Dal punto di vista quantitativo il grande serbatoio degli internamenti
manicomiali femminili era costituito dalle donne che trasgredivano la
morale sessuale corrente, da quelle affette dalla brama di affermarsi nelle
professioni (le maestre, per esempio), dalle artiste, dalle viaggiatrici, dalle
bambine irrequiete e vivaci. La costruzione sociale di una “natura femminile”, sebbene pesò principalmente proprio nella definizione del confine
tra normalità e anormalità, ebbe un ruolo rilevante anche nei confronti
di altre questioni. Qui, in particolare, vorrei soffermarmi sull’uso che si
fece di questo modello quando gli psichiatri si interrogarono sull’alto
numero di donne internate per «malinconia» o «mania». Riprendendo,
di nuovo, le parole di Francesco Del Greco si scopre che
[è] la donna somaticamente meno disposta a variare; dal lato psichico meno
disposta agli sforzi aggressivi, verso il di fuori, contro l’ambiente esterno. Una tal
cosa vuol dire, che nella donna v’ha minore attitudine alle affermazioni personali
ed allo sforzo. E ciò viene confermato dal predominio delle forme lipemaniacoansiose nelle donne. La lipemania, fra gli altri sintomi, importa una sfiducia
profonda, un sentimento di intima impotenza e di umiltà, di coercizione del
mondo ambiente su noi. […] Questa minore tendenza alle affermazioni personali, a sforzi verso il mondo esterno, va connessa ad intelligenza meno operosa,
meno volta a processi di astrazione e di sintesi, meno volta all’incremento della
volontà, del pensiero e del carattere.
La dicotomia tra ragione e emotività, tra uomo e donna servì a sostanziare, in questo caso, l’idea che vi fosse una biologica inadeguatezza delle
donne a far fronte alla crescente complessità della vita quotidiana. Tutte
ripiegate sulla loro funzione di madri, nell’ambiente domestico le donne
non avevano, per gli psichiatri del tempo, gli strumenti per “essere” nel
mondo in rapida trasformazione di fine Ottocento. Il ripetersi, nelle cartelle cliniche a proposito delle possibili cause della follia, di voci quali «la
spossatezza fisica e morale», «i patemi», «le preoccupazioni» si ancorava,
così, alla stessa costituzione somato-psichica delle donne e non provocava
alcun rimando all’ambiente e alle condizioni sociali di appartenenza.
Per la moltitudine di povere che popolavano la Roma di fine Ottocento la sopravvivenza era, quindi, una preoccupazione quotidiana a
cui facevano fronte barcamenandosi all’interno del mercato del lavoro,
vivendo di espedienti e, in generale, ricorrendo a tutte le risorse disponibili. Proprio guardando alla molteplicità di risposte, scelte o costrette,
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LAURA SCHETTINI
messe in campo dalle donne dei ceti popolari durante i momenti di crisi
e trasformazione sociale, acquista visibilità un fenomeno dalle dimensioni
non trascurabili. Si tratta dell’alto numero di donne povere che, tanto in
età moderna che in età contemporanea, ricorsero all’uso della propria
sessualità come una risorsa economicamente rilevante. Quella appena
usata è una definizione dai confini volutamente larghi proprio per permettere di abbracciare nella sua complessità una realtà molto articolata e
spesso difficile da ricostruire. Le prostitute ufficialmente registrate, quelle
clandestine ma che, comunque, da questa attività ricavavano la fonte
primaria di sostentamento, le donne che si prostituivano occasionalmente
per integrare gli scarsi guadagni di attività lavorative precarie, quelle che
si affidavano alle relazioni sessuali per ricavarne benefici estemporanei
(non necessariamente soldi ma anche abbigliamento e altri beni), le
giovani cresciute in strada che vivevano di espedienti e si prestavano nei
momenti di bisogno alla prostituzione: l’uso della sessualità come risorsa, evidentemente, era una scelta plausibile per un largo e molto vario
numero di donne povere. Furono gli stessi contemporanei a evidenziare
come quantificare e controllare il fenomeno dei commerci carnali fosse
particolarmente difficile proprio perché coinvolgeva un numero sostenuto di donne che non solo non si erano registrate come prostitute ma
che, soprattutto, in buona parte neanche ricorrevano in modo lineare
e continuato a quest’attività. Così, il direttore del manicomio romano,
Augusto Giannelli, ci tenne a precisare, nel momento in cui pubblicò
un censimento degli uomini e delle donne internate distinte secondo le
professioni, che:
Di più il numero delle prostitute che entrano nel manicomio con tale dichiarazione
professionale, è sempre molto al disotto di quello reale. L’etichetta “donna di
casa” serve a coprire molta merce avariata, e non ultima certo la prostituzione
clandestina e palese.
L’ambizione a una schedatura completa e aggiornata della prostituzione,
lo zelo moralizzatore e l’aspirazione al controllo sociale capillare delle
autorità ecclesiastiche e di polizia produssero, a Roma come negli altri
centri urbani della penisola, ondate di irruzioni nelle locande, di retate
nei luoghi di ritrovo, di perquisizioni di postriboli, di appostamenti, che
hanno lasciato una mole documentaria ricchissima. Altri luoghi in cui
cercare le tracce di queste donne, soprattutto di quelle dai profili più
incerti, sono gli istituti per donne penitenti, i manicomi, gli ospedali, le
parrocchie ecc. Le vie attraverso cui le donne che si prostituivano giungevano in manicomio erano molteplici. In genere si trattava di donne che
adescando i clienti o mostrando «le proprie fattezze» per strada costituivano pubblico scandalo, oppure erano donne che vivevano una condizione
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DONNE INTERNATE NEL MANICOMIO DI ROMA ALLA FINE DELL’OTTOCENTO
fortemente marginale e conducevano una vita dissoluta o, semplicemente,
donne che arrivavano in manicomio per altre ragioni e per le quali, in
seguito alle informazioni raccolte dai medici tra i familiari e i conoscenti,
la prostituzione diventava centrale nel racconto clinico. Maria Assunta
C. fu internata in manicomio il  marzo . Proveniva dal carcere de
Le Mantellate da dove fu trasferita perché procurava disturbo.
Con ordinanza  corrente mese il Tribunale ha disposto che la prostituta nelle
carceri di questa città C. Maria Assunta di Pietro, di anni , da Roma, venga,
con le cautele richieste dal caso, ricoverata provvisoriamente nel manicomio
di Roma. Prego la signoria vostra illustrissima a voler fare nel più breve tempo
possibile esecuzione alla suddetta ordinanza.
Tracce della sua storia si ritrovano nell’anamnesi redatta dal direttore del
manicomio romano al momento del suo arrivo:
È la penultima di cinque sorelle, tre maritate si industriano nel commercio,
una nubile di anni  vive con i genitori. Il padre è bevitore e spesso ubriaco.
Secondo lei ha molto contribuito a porla sulla via torta. Frattanto non nega che
nell’adolescenza le piaceva invece che stare con la madre al negozio che commerciava in terraglie, girovagare con le compagne. Tutto ciò favorito dall’abitudine
molto egoistica del padre e della madre che andavano a mangiare all’Osteria e
davano alle figlie - soldi perché comprassero quel poco cibo che volevano. Un
giorno aveva  anni era stata a S. Pietro in Montorio si rincasò tardi e trovò il
padre ubriaco che la cacciò via. Alle due dopo mezzanotte si ritrovò per strada
e incontrò tal Giulio materassaio che la invitò a dormire con lui e vi si recò.
Essendo stata deflorata quella notte dopo una settimana questo legame era ito
in fumo e si diede alla prostituzione e commise qualche furto. È stata condannata  volte: una per furto, due per oltraggio alle guardie. Inoltre ha scontato
due anni d’ammonizione e uno di sorveglianza. Asserisce che durante questo
periodo ha condotto vita tranquilla e faceva le sue faccende di giorno e stava la
notte a casa essendovi obbligata. Ha naturalmente il suo magnaccia da cui era
spalleggiata in caso di rissa. Al carcere delle Mantellate ove era ricoverata dice
che bisognava strepitare per avere vitto migliore e che siccome non era tenuta a
freno si lasciava andare ad insolenze contro le monache. Per ordine del Tribunale
è stata internata nel Manicomio.
Al contrario di Maria Assunta C., che rimase in manicomio solo pochi
giorni, un’altra donna, Virginia M., definita prostituta come lei, fu internata in manicomio per due volte e in entrambe le occasioni vi rimase
per circa due anni. Il primo ricovero durò dal dicembre  al febbraio
del . La richiesta d’internamento, il  dicembre , era stata redatta
dalla Pia Casa del Rifugio, dove Virginia M. era ricoverata:
Da qualche mese dà segni di alienazione mentale, assale le sue compagne a
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pugni e a morsi tentando di strangolarne qualcuna. Ha tentato di scappare dal
rifugio e passa intere giornate a piangere, senza parlare, senza prendere cibo.
Ha manifestato l’intenzione di andare nei postriboli. La notte non dorme quasi
mai, urla e piange.
Per il secondo internamento, iniziato il  dicembre , il certificato
medico che l’accompagnò era a firma del dott. Ponzi:
Ricoverata nel Pio Rifugio in Trastevere è stata in manicomio altra volta per tre
anni e mezzo e ne uscì nel febbraio del . Da quell’epoca in poi è rimasta
alquanto calma però di quanto in quanto essa era presa da accessi di mania furibonda e menava a tutti e distruggeva quanto le capitava sotto mano. Da due giorni
si trova in uno stato di agitazione tale che doveva essere strettamente sorvegliata
da più persone a ciò che non faccia strage di compagne e di cose. Malgrado la
grande sorveglianza questa mattina appena alzata dal letto ha tagliuzzato con
le forbici un lenzuolo riccamente ricamato ed ha passato tutta la giornata in
agitazione per cui è urgente ricoverarla nel locale manicomio.
Giunta in manicomio spettò al medico dell’istituto compilare l’anamnesi
della nuova paziente:
Rimase in casa di parenti fino all’età di dieci anni e allora uno zio che abusò della
sua inesperienza e per parecchio tempo usò con lei il coito senza che essa ne
risentisse alcun danno perché fisicamente era già grande. Verso questa epoca la
principessa Gabrielli ebbe pietà di questa fanciulla che vedeva sempre in mezzo
alla strada e la mise in educazione al monastero delle Sette Sale. Qui stette fino
forse a vent’anni, essa non sa precisare l’epoca. Si mostrava sempre deficiente
psichicamente e una prova la si ha che le fecero fare la comunione a  anni. Le
mestruazioni si presentarono a  anni e sono state spesso in questi ultimi tempi
dolorose. Uscita dal monastero fu in casa di certi parenti ma un giorno in seguito
ad un diverbio li abbandonò, vagò per le vie della città si accompagnò con un
uomo con il quale passò la notte. Poi non sa dire se fu in casa di prostituzione.
Dice che fu messa alla Pia casa del Rifugio. Da qualche mese fu assalita da alienazione mentale perché assaliva le compagne e quindi fu ricoverata.
Anche Matilde G., indicata come prostituta, portata in manicomio con
procedura d’urgenza il  aprile , era già stata internata una volta.
La donna era nata e viveva a Roma senza fissa dimora, aveva  anni. Al
momento del primo ricovero, avvenuto dal  al  novembre del ,
il manicomio romano richiese alla Questura i precedenti penali della
donna:
La prostituta G. Matilde ha subito più condanne per oltraggio e violenza alle
forze pubbliche, una rapina, per offese al buon costume, per ubriachezza, per
contravvenzione al regolamento sul meretricio. Per quanto risulta da questi atti
la G. ha sempre menato vita oziosa e scostumata abbandonandosi spesso all’eb-
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DONNE INTERNATE NEL MANICOMIO DI ROMA ALLA FINE DELL’OTTOCENTO
brezza, a disordini, ad atti contrari alla pubblica decenza. In modo che quando
per tali reati veniva tratta in arresto opponeva resistenza agli agenti operanti. Da
questi atti stessi si rileva pure che la G. fu sottoposta a visita medica nel  dal
dott. Malpieri il quale ebbe a dichiararla affetta da dermatite causata da malattia
sifilidica, nel marzo  dal dott. Procacci il quale allora non riscontrò in essa
sintomi di alienazione mentale. Ieri sera fu arrestata sul Corso Umberto I dopo
che per lungo tratto da P.zza del Quirinale a SS. Apostoli aveva con oscenità
insultato i passanti, senza alcuna ragione aveva pronunciato ad alta voce sconce
frasi all’indirizzo di sua maestà, aveva oltraggiato gli agenti di P. S. causando
grande pubblicità. Tradotta in corpo di guardia continuava negli stessi accessi
sputando fino ad esaurirsi contro le guardie, le frasi più ripugnanti e depravate
le lanciò contro gli agenti emettendo urli alti e continuati, inveendo anche contro
chi per calmarla la invitava a addurre le sue discolpe.
Fino al momento in cui venne portata in manicomio per la seconda volta
perdiamo le sue tracce. Poi, nell’aprile del , appena giunse al S. Maria
della Pietà, furono annotate alcune notizie relative ai suoi trascorsi sul
diario del reparto:
Interrogata sa esattamente le sue generalità, ha esatta nozione di tempo e di
luogo, dice di essere stata condotta qui senza alcun motivo: camminava per
strada quando le guardie l’hanno arrestata. Racconta del padre che è morto 
anni fa improvvisamente e della madre che morì tubercolotica quando ella era
bambina. È figlia unica, mestruata a  anni, da bambina ha fatto la modella, a 
anni fu con violenza deflorata da uno scultore. Ha in seguito avuto altri amanti
senza condurre mai vita di vera prostituzione. Anche attualmente fa la modella.
Ricorda che fu altre volte nell’Istituto: prima  anni fa, poi  anni fa perché era
eccitata in seguito ad ingestione di vino. Le piace il vino e dice che quando ne
beve un po’ di più canta. Ripete che ieri non aveva commesso proprio nessun
atto che richiedeva di farla ricoverare in Manicomio, nega di aver fatto atti osceni.
Prega di esser mandata via al più presto possibile. Domandata perché le guardie
senza ragione l’avrebbero mandata qui essa fa le spallucce, nega ciò che è scritto
nella modula e dice: «lo sapranno loro, io non lo so». Confessa che spesso la
portano in carcere, che dieci giorni fa la portarono imprigionata perché cantava
di sera. Nega di aver mai avuto mali venerei, non ha casa, dorme dove si trova
in qualunque albergo, non trovando alcuna stanza da affittare. Passa le giornate
in campagna fuori le porte e si dà ai suoi clienti dove si trova.
Giuseppina B. fu internata nel manicomio romano il  agosto .
Aveva  anni, era nubile e orfana di entrambi i genitori. Nella sua storia,
raccolta nella modula informativa che la accompagnò in manicomio,
povertà, marginalità, devianza sembrano intrecciarsi indissolubilmente
sin dall’infanzia tanto che la sua biografia fu scandita dalla permanenza
in diversi istituti di ricovero.
L’inferma è cresciuta sulla via mendicando sin dalla tenera età, demoralizzata. La

LAURA SCHETTINI
famiglia fu poverissima, ignorante, di condotta poco buona. I fenomeni della pubertà si presentarono normali. Le funzioni della sessualità si iniziarono assai presto
con amplessi sessuali frequenti. Ha avuto tre gestazioni, l’ultima sei mesi fa finì
con aborto con feto a termine. Il carattere dell’inferma è stato sempre irrequieto
con tendenze erotiche accentuatissime, ha esercitato come occupazione unica e
preferita il meretricio clandestino. Non ha sentimenti affettuosi verso i suoi e non
è dedita a pratiche religiose. È stata arrestata per porto d’armi insidiosa.
Disposizioni morbose ereditate e acquisite: ha sofferto qualche volta deficienza di
mezzi igienici e alimentari, quando ha potuto ha abusato di vino. Come disposizione ereditaria acquisita: alcolismo del padre.
Se sia stato altre volte attaccato da pazzia o da altra speciale e rilevante infermità:
l’inferma è rimasta cieca durante il secondo anno di vita in seguito a svuotamento
degli occhi per ulceri perforanti della cornea consecutivi a vaiolo. È stata affetta
da vaiolo e da sifilide. Quasi ogni anno è stata ricoverata in qualche ospedale
di Roma. L’anno scorso passò dall’ospizio dei ciechi al manicomio dove restò
poche settimane.
Cause fisiche e morali più conosciute: mancanza di educazione, demoralizzazione
derivata dall’ambiente nel quale è vissuta.
Epoca dello sviluppo della pazzia e se intermittente o continua: da molti anni allo
stato latente si manifestarono i primi sintomi tanto che dallo scorso anno acquistarono una forma acuta e violenta. Il decorso dello stato morboso dell’inferma è
intermittente ma l’intermittenza è sempre dovuta o a dissimulazione o a possibilità
materiali di avere contatti sessuali.
Descrizione degli atti commessi come contrassegno della pazzia o qualificazione o
diagnosi della medesima: la B. è isteroepilettica. Gli attacchi epilettici comparsi
la prima volta da circa un anno, si rinnovano raramente ogni  giorni. Dopo
ha convulsioni isteriche di breve durata. Stato di agitazione con furore, voleva
picchiare tutti, pronunciava parole sconce ed atti sconci per la strada.
Un motivo sembra incrociare le storie finora raccontate. Le fonti ci
restituiscono un’immagine di queste donne fortemente segnata dalla
povertà ma anche, forse soprattutto, dalla solitudine. Si tratta di donne
orfane, nubili; di donne, cioè, nella cui vita quotidiana sembrano mancare innanzitutto figure di maschi adulti. Quella rappresentata è una
solitudine relativa, di tipo sociale, più che una solitudine assoluta, di
tipo relazionale e affettiva. Nulla fa pensare, infatti, che queste donne
non avessero attivato reti di relazioni o forme di convivenza alternative,
come quelle tra donne consanguinee nella stessa condizione. A causa
della struttura del mercato del lavoro femminile, fortemente caratterizzato
da attività precarie, poco qualificate, incerte e dal generale persistere di
retribuzioni più basse rispetto agli uomini, questa marginalità per appartenenza familiare si legò quasi sempre a un processo di indebolimento
economico e sociale. È all’interno di questo quadro che sembra trovare
spazio, per tante donne, l’uso venale della sessualità. È una riflessione,
questa, che non attraversò il mondo degli psichiatri che operarono tra

DONNE INTERNATE NEL MANICOMIO DI ROMA ALLA FINE DELL’OTTOCENTO
la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento in Italia. Per gli
uomini di scienza quelli, piuttosto, furono gli anni di un’intensa circolazione di idee a proposito delle ultime forme morbose scoperte, delle
categorie nosografiche da adottare, dei censimenti, degli esperimenti,
dei risultati dell’osservazione empirica; era, in sostanza, la stagione non
solo dell’estendersi del controllo psichiatrico a un numero sempre più
ampio di comportamenti e ambiti, ma anche della fortuna di un sapere
psichiatrico che sapeva sapientemente spiegare e rimandare la devianza,
il disagio, a una dimensione organica. Ed era proprio a livello organico
che la donna, per la scienza psichiatrica del tempo, presentava dei limiti
particolarmente sfavorevoli:
per la costituzionale debolezza psico-nervosa nelle funzioni più elevate, e per
l’instabile temperamento, è forse la donna, a parità di condizioni, più dell’uomo
volta ad impazzire.
E puntualizzava De Tilla:
Ora chi non comprende che il sistema nervoso più impressionabile rende la donna
più facile all’emozioni. [...] Ciò che le rende più esposte a quei turbamenti nervosi,
che secondo il Legrand de Saulle costituiscono il tipo dello spasmo isterico e ci
spiega il perché della maggiore predisposizione a quei turbamenti dell’encefalo
e sue dipendenze, che costituiscono la nevrosi isterica.
Una delle donne di cui prima si è raccontata la vicenda, Giuseppina B.,
fu, appunto, internata con diagnosi di isteria. In generale questa era una
delle ragioni più ricorrenti dell’internamento manicomiale femminile.
Nell’ultimo ventennio del XIX secolo furono condotte nell’istituto romano
circa trecento donne a cui fu diagnosticata l’isteria, vale a dire quasi il
% del numero complessivo di internate nello stesso periodo. L’isteria
era una nevrosi, un turbamento dell’encefalo che poteva manifestarsi,
era detto, in mille modi: attraverso la forte suggestionabilità, la fragilità
emotiva, la menzogna, l’agitazione, il capriccio, il nervosismo, gli eccessi
sessuali, la mancanza di pudore, la brama di libertà, la passionalità, il girovagare impazzito, i troppi «lavori mentali» e, infine, le crisi convulsive.
Queste ultime, poi, apparivano intrise di un forte simbolismo sessuale,
sembrando a più di uno psichiatra che gli spasmi del corpo dell’isterica
simulassero il coito. Ciò che fece la fortuna di questa forma morbosa fu
proprio l’ampia gamma di possibilità che offriva di risolvere in termini
scientifici, medici e, quindi, tra le mura manicomiali, una poliedricità
di casi, comportamenti, stili di vita femminili e di legarli, così, solo in
seconda battuta alle evidenti contraddizioni sociali ed economiche del
tempo. Sono ancora una volta le parole del giurista De Tilla, nella sua

LAURA SCHETTINI
ricostruzione delle cause determinanti dell’isteria, a dirci molto sul carattere storicamente determinato di questa malattia:
a) Le influenze morali, le emozioni, i dispiaceri, tutto ciò insomma che è capace
di eccitare fortemente il sistema nervoso, può in un dato momento rompere
l’equilibrio delle funzioni cerebro-spinali e determinare l’isterie.
b) Fra queste influenze morali va messa principalmente l’educazione; supponete
dei fanciulli che […] si diano precocemente a leggere dei romanzi e voi vedrete
che ha ragione il Tissot di dire: «se vostra figlia legge romanzi a  anni, a 
anni avrà attacchi di nervi!».
c) Così ancora la posizione sociale ha una influenza grandissima: l’isterie è più
frequente nelle infime classi sociali, meno frequente nelle classi medie, nella
così detta borghesia; […] più frequente ancora nelle classi più elevate; nelle
infime classi sociali le privazioni di ogni genere, la miseria sovreccitano il
sistema nervoso, così come nelle più elevate l’abuso dei piaceri mondani, la
vita lasciva, le mille incitazioni per la frequenza delle conversazioni, dei balli,
delle rappresentazioni teatrali.
Tutte le storie raccontate sembrano avere come punto di partenza, come
luogo dove si combinarono gli eventi significativi per i destini successivi
di queste donne, la famiglia. Era l’eccesso di responsabilità, di fatiche, di
preoccupazioni a proposito della sopravvivenza propria e dei propri figli
che aveva fatto da sfondo all’internamento manicomiale delle donne vedove – o comunque sole nella gestione della vita materiale – come Artemisia
B., Irene M., Angela M. e le altre; allo stesso tempo era la provenienza da
famiglie disagiate o, ancora, l’assenza proprio di una famiglia a sembrare
determinante nel percorso di marginalità e prostituzione vissuto da Matilde G., Giuseppina B., Virginia M., Maria Assunta C.
Le grandi trasformazioni di fine Ottocento ricaddero all’interno della
famiglia producendo torsioni, squilibri, mutamenti nei ruoli e soprattutto
rendendo la questione della sopravvivenza una scommessa quotidiana
in cui ogni componente era coinvolto. Quelli, come visto, erano gli anni
in cui gli istituti di ricovero e di reclusione servirono spesso a contenere
quanti erano improduttivi e di peso all’interno delle famiglie dei ceti
popolari. Negli ultimi due decenni dell’Ottocento furono internati al S.
Maria della Pietà circa trecento bambini e bambine sotto i  anni. Per
quanto riguarda le bambine, nelle cartelle cliniche che ho visionato, i
motivi che giustificavano l’internamento manicomiale erano, prevalentemente, la deficienza etica e l’amoralità. In alcuni casi, poi, si faceva più
esplicitamente riferimento all’impossibilità, per le famiglie povere, di
tenerle a casa, specie se di carattere irrequieto.
Adele B. aveva  anni quando fu internata in manicomio su ordine
della Regia Questura di Campo Marzio, nel gennaio del . Viveva a

DONNE INTERNATE NEL MANICOMIO DI ROMA ALLA FINE DELL’OTTOCENTO
Roma, era nubile e orfana di madre. Il certificato medico, del  gennaio
, con cui si richiedeva l’internamento fu redatto dal dott. Procacci,
medico fiscale della stessa Questura:
Le ragioni per cui i suoi parenti poveri domandano il ricovero di questa giovinetta
è il non poter essi tener su di lei una fortissima sorveglianza e la giovinetta essendo
affetta da idiotismo e non sapendo giudicare dei pericoli che la minacciano fugge
di continuo dalla casa e nella sua incosciente curiosità frequenta vie e ritrovi dove
può restare vittima involontaria e quindi va ricoverata.
La ragazza fu accompagnata in manicomio, come usuale, da una modula
informativa in cui brevemente si annotò:
Nulla da parte della madre, il padre fu ricoverato più volte in manicomio per
alcolismo. I genitori erano cugini di primo grado e quasi coetanei. La madre morì
di tisi polmonare. Il padre, vivente è sempre dedito al vino. Sin da bambina fu
educata da una zia, poverissima donna. Ebbe regolare sviluppo psichico, non
ebbe traumi al cranio, non patì di mezzi igienici e non ha abusato di vino.
Dopo l’ammissione in manicomio di lei si perde ogni traccia. L’unico altro
documento disponibile risale al  settembre , ben dodici anni dopo.
Sono alcune annotazioni scritte sul diario del ricovero:
L’inferma B. prima presentando deficienza mentale è un’inferma che può benissimo stare in casa. Nel manicomio lavora continuamente in aiuto alle infermiere.
È pulita e curante della sua persona. Presenta solo un carattere irritabile che può
in gran parte essere dovuto a quello stato mentale speciale in cui si trovano le
antiche malate del manicomio. Se ne propone la dimissione.
Adele B., invece, non fu dimessa e morì in manicomio alcuni mesi dopo,
nel marzo del .
Rinalda G. giunse in manicomio a  anni nell’agosto del . La
richiesta era stata inoltrata dall’Ospizio di S. Michele dove tre anni prima
la ragazza era stata messa a ricovero in seguito alla morte del padre. La
modula informativa dove si tracciarono i motivi che rendevano necessario l’internamento in manicomio era stata redatta a cura dell’Ospizio
stesso:
G. Rinalda, ricoverata presso l’Ospizio di S. Michele sin dal novembre ,
è nata il ... Grado di cultura elementare. Una sorella ricoverata al Manicomio per pazzia morale, un fratello in Casa di correzione, il padre è morto
investito da un tram ed era carbonaio. La madre va a servizio e fa la lavandaia.
La famiglia era ed è in estrema miseria. Sviluppata regolarmente, ha sofferto di
mezzi igienici e alimentari. Si mostrava poco intelligente. La causa dell’attuale
malattia è l’ereditarietà, fu sempre deficiente. Insensibile alla lode, al premio, al

LAURA SCHETTINI
castigo, rimproverata ride, incapace di fissare lo sguardo, mancanza di attenzione,
umore variabilissimo, incorreggibile, carattere litigiosissimo, insofferente di freno,
disobbediente, non rispetta l’autorità, è sudicia e disordinata. Insolentissima, ha
movimenti incoordinati, è moralmente insensibile. Pericolosa per i suoi istinti
antisociali, specialmente poi per l’ordine e per la moralità.
Rinalda G. fu, quindi, condotta in manicomio. Il racconto del suo arrivo
e delle sue reazioni al nuovo istituto è affidato al diario del ricovero di
qualche giorno dopo:
Entrata il  agosto era tranquilla, credeva di venire a trovare la sorella che è
degente al Guardaroba Vecchio ed ha seguito senza difficoltà la suora, la sera
ha dormito tranquilla e quando il giorno seguente l’hanno condotta al bagno
ha compreso che doveva rimanere qui e si è messa a piangere protestando di
non essere matta. Ma si è calmata presto: è rimasta indifferente tutto questo
altro tempo. Si è abituata alle abitudini del reparto, parla volentieri con le altre
malate, si è familiarizzata subito e si mantiene come se fosse da molti anni qui,
vede volentieri la sorella, si mantiene educata, docile a quello che le ingiungono
la suora e l’infermiera, mangia volentieri, dorme bene è rimasta anche tranquilla
quando ha visto in parlatorio la madre, domenica scorsa. Interrogata dà esattamente le sue generalità, è ben orientata nel luogo e nel tempo. Racconta che
da tre anni è nel ricovero di S. Michele; fu rinchiusa in seguito alla morte del
padre. Nei primi tempi vi stava bene poi hanno cominciato a darle fastidio le
compagne, le facevano dispetti ed ebbe perciò vari litigi. Confessa di aver qualche
volta risposto male alla Sottoprefetta la quale del resto era una ragazza come
lei e aveva solo incarico di sorveglianza quando era assente la maestra. Nega di
aver mai fatto qualcosa di sconveniente contro questa e altre maestre. Confessa
di non aver sempre fatto il suo dovere e dopo varie richieste avvisa che ciò era
perché non si trovava volentieri in quell’ambiente rinchiusa e rimpiangeva il
tempo in cui andava alla scuola comune dove la maestra le voleva un gran bene
mentre all’istituto tutti la prendevano sottocchio. Nega di aver fatto cose grosse
tali da giustificare l’internamento in Manicomio, nega quanto è asserito nella
Modula; dice solo che ha perduto un anno perché negli ultimi tempi non era
più attenta a scuola, facilmente si metteva a ridere per scempiaggini che faceva
qualche compagno etc. Durante l’interrogatorio si nota: percezione rapida,
risposta pronta e a tono, il soggetto mostra di comprendere bene ciò che le si
accusa, cerca con ogni sforzo di giustificarsi ma non sempre la critica regge ed
essa stessa si accorge di addurre a volte discorsi non opportuni. Non traspare
una soverchia emotività, sembrerebbe che essa non senta molti affetti, doveri
etc. Parla con tono di voce abitualmente calmo, solo si esalta un poco al pensiero
di restare qui o di dover andare ai Deficienti e protesta che ciò non avverrà. Si
mostra invece indifferente a tornare al S. Michele. Dai vari esami fatti non si
rilevano nel soggetto disturbi tali da giustificare l’internamento: tutto si riduce
ad una deficienza etica con indisciplinatezza senza atti pericolosi a sé e agli altri.
Non è il caso perciò di trattenerla.

DONNE INTERNATE NEL MANICOMIO DI ROMA ALLA FINE DELL’OTTOCENTO
L’intenzione di dimetterla, comunicata all’Ospizio di S. Michele probabilmente per verificare la possibilità di portarla nuovamente lì, provocò
una risposta dell’Ospizio, datata  settembre , dai toni decisamente
accesi che però offre anche la possibilità di accedere a qualche ulteriore
notizia:
In replica alla lettera di codesta spettabile Direzione in data .. mi pregio
dichiarare che la ragazza G. Rinalda sin dai primi giorni della sua dimora in questo
Istituto si mostrò di indole indisciplinata e ribelle ad ogni freno. Risultando però
da informazioni che la ragazza prima di entrare in Istituto era vissuta per difetto
di vigilanza nella massima libertà ed a ciò va imputata quella sua intolleranza
per ogni regola disciplinare si sperava che poco alla volta avrebbe migliorato
la propria condotta. Invece malgrado i rimproveri amorevoli e le riprensioni
severe, le minacce di espulsione, i castighi, nulla si poté ottenere. E nel dubbio
che il carattere del tutto straordinario della ragazza, e la insensibilità morale di
cui dava prova potessero dipendere da squilibrio morale questa commissione
prima di far pratiche perché venisse riconsegnata alla madre diede incarico alla
direttrice dell’Istituto femminile di farla visitare dal Prof. Mingazzini appunto
per farne verificare lo stato mentale. Avendola il Professore riconosciuta e dichiarata «deficiente di mente» vennero fatte le dovute pratiche per farla ricoverare
in Manicomio nella fiducia che qualora dopo qualche tempo di cura la si fosse
riconosciuta utile per la sua salute avrebbe potuto essere trasferita all’Istituto dei
deficienti. Stando così le cose certo non senza meraviglia apprendo ora la dimissione dal codesto Manicomio della povera G. e debbo dichiarare a senso di qualsiasi
responsabilità che questa commissione amministrativa non può assolutamente
ammettere nell’Ospizio essendo dimostrato che per essa sono del tutto deficienti
ed inefficaci i mezzi educativi di questo Istituto la cui disciplina poi sarebbe di
nuovo e gravemente perturbata dalla sua riammissione. Né questa commissione
intende assumersi la responsabilità di riconsegnare alla famiglia una ragazza che
dai certificati medici non risulta essere nel pieno possesso delle facoltà mentali,
si prega perciò la Spettabile Direzione, ove ritenga la G. del tutto sana di mente,
specie ora dopo le cure prestatele in Manicomio, di riconsegnarla direttamente
alla famiglia non intendendo, lo ripeto, assumere su tale atto, la benché minima
responsabilità. Qualora invece riconoscesse nella medesima un vizio parziale di
mente qualche altra cosa di anormale, potrà disporre senz’altro che la medesima
venga internata in un Istituto di Deficienti, avendo la G. per il suo stato di miseria
il diritto di essere curata a spese della Pubblica Beneficenza.
Rinalda G. fu dimessa, perché non pazza, il  settembre ; le fonti,
però, non dicono come si svolse successivamente la sua vicenda, se fu
condotta in qualche altro istituto o se fu rimandata presso la famiglia.
Dietro l’incontro tra un’altra bambina e il manicomio ritorna il motivo
dell’irrequietezza, della mancanza di disciplina.
Giulia M. rimase al S. Maria della Pietà per circa due mesi, quando
aveva  anni. Viveva ed era nata a Nazzano Romano e, infatti, la relazione

LAURA SCHETTINI
medica del  agosto  mediante cui se ne richiedeva l’internamento
era a firma del medico condotto del paese:
Il sottoscritto medico chirurgo condotto in questo comune certifica che M. Giulia
di anni  di Francesco e di Adele M. da circa sette anni cominciò a dare segni
di alienazione mentale e tali fenomeni a seconda di quanto raccontano i genitori
iniziarono dopo una operazione subita alla regione parietale sinistra. Fin da quell’epoca l’inferma si è sempre mostrata ribelle ad ogni comando dei genitori, ha
frequenti accessi di ira e di pianto, incosciente dei propri atti la ragazza cambia
di sovente i propri abiti e talvolta rimane nuda senza che in lei si riscontri alcun
sentimento di pudore. I genitori dell’inferma hanno sempre goduto e godono
perfetta salute e nessuna traccia di lesione nervosa si riscontra in linea diretta e
collaterale. Da quanto sopra si è detto si certifica dal sottoscritto che l’inferma
deve dichiararsi pericolosa per sé e per gli altri.
Ancora una volta è il diario di reparto compilato pochi giorni dopo l’ammissione della ragazza a offrire qualche traccia in più sulla sua persona:
L’inferma conferma i dati contenuti nella modula informativa solo nega di essersi
spogliata nuda però si giustifica con la frase che «la tussicavano». Confessa di
essere sempre in giro, scappava di casa e non faceva niente. Racconta che non
ha mai avuto convulsioni, non urina in letto, riconosce che spesso non ubbidiva
ai suoi genitori, che li faceva inquietare con le sue cattiverie; in questo però non
faceva il danno di nessuno le piaceva di giocare e di correre. Vuole andare a casa.
L’inferma non ha presentato durante il periodo di osservazione pericolosità per
sé e per gli altri. Essa mostra un lieve grado di deficienza mentale e può essere
sorvegliata fuori dell’istituto, non presentando gli estremi voluti dalla legge per
l’internamento definitivo se ne propone la dimissione.
Anche in questo caso, in seguito alla comunicazione delle imminenti dimissioni della ragazza, il soggetto deputato ad accoglierla, il Comune di
Nazzano in vece della famiglia, rispose con una lettera, il  ottobre ,
chiedendo al manicomio di trattenere ulteriormente l’inferma perché la
madre era malata e la famiglia non aveva i mezzi per mantenerla.
Infine, la storia di Emma S.. Una storia significativa, da una parte
per la giovane età dell’internata che aveva appena  anni al momento
del ricovero, dall’altra perché la sua è una vicenda che si rappresenta
prevalentemente come una storia che si svolse all’interno del manicomio.
Di lei mancano notizie relative all’ambiente familiare e sociale mentre,
contrariamente a quanto solitamente accadeva, vengono raccolte diverse
notizie sulla sua vita all’interno dell’istituto romano. Qui la bambina
rimase per più di quattro anni. Emma S. era già stata internata nel 
nel manicomio romano e aveva usufruito, senza esito, di un periodo di
dimissioni in prova durato tre mesi. Al suo rientro, l’ agosto del , fu

DONNE INTERNATE NEL MANICOMIO DI ROMA ALLA FINE DELL’OTTOCENTO
mandata nella sezione tranquille. Di circa un mese dopo è questa prima
relazione:
È stata ricondotta in manicomio dopo un periodo di dimissioni in prova durato
tre mesi per la irrequietezza del suo carattere e perché la famiglia aveva notato
il ricomparire con maggiore intensità dei movimenti scomposti. Il suo contegno
ora è abbastanza corretto però non vuole rispondere alle domande che le si
rivolgono e spesso piange perché vuole tornare presso la madre.
Due anni dopo, il  gennaio , l’autorità sanitaria si occupò nuovamente di lei nel diario del ricovero:
La paziente durante il suo ricovero ha mostrato una deficienza etica rilevante,
è indisciplinata, dispettosa all’eccesso. Adopera parole triviali ed oscene con le
altre malate, fa discorsi sudici, quando vede gli uomini si dà a cantare a voce alta
canzone a colorito sessuale e fa dei gesti allusivi alla pornografia. È in rapporto
sempre con altre malate che hanno la stessa tendenza di essa. Mostra una voluttà
nel far dispetti anche alle vecchie e alle quali che non possono reagire. Per la sua
condotta nel reparto se ne richiede il trasferimento.
Emma S. fu, dunque, trasferita nel reparto delle semi-agitate, da dove il
medico, il  febbraio , relazionò: «La piccola ricoverata terrorizzata
dalle grida delle altre malate chiede di essere messa in un reparto più
tranquillo». Fu, dunque, nuovamente trasferita e condotta nel reparto
delle tranquille dove i suoi comportamenti furono ancora oggetto, il 
aprile , di un rapporto:
L’inferma S. sta continuamente con altre due ragazzette del reparto con le quali
tiene continuamente discorsi ludici e contegno osceno. È necessario trasferirla
alla Guardaroba vecchia.
Giunta al Guardaroba vecchia non mancò, pochi giorni dopo, di essere
protagonista di un’ennesima relazione:
Assume un carattere indisciplinato, risponde con arroganza ed insulta tutti se
unita con un’altra ragazza il cui cognome è Nedi, quindi se ne richiede il trasferimento al reparto agitate non essendo qui una camera di isolamento.
L’ultima relazione, che chiude la vicenda manicomiale della giovane
Emma S. è del  ottobre , pochi giorni prima di essere dimessa:
Nel tempo di degenza alla sezione deficienti non si sono affatto ripresentati gli
stati collerici e di eccitamento maniaco. L’inferma ha risentito pure beneficio
dallo speciale ambiente e dagli speciali sistemi educativi avendo essa più che
una vera e propria deficienza etica una grande suggestibilità. È diventata docile

LAURA SCHETTINI
e amorevole con le compagne, affezionata con le superiori, amante del lavoro,
desiderosa di distinguersi per buona condotta. Certo non si è modificato il primitivo temperamento isterico, anche ora è facile a cambiare umore, a indispettirsi
per qualche contrarietà, a fare qualche malignità specie sotto forma di accusa
falsa nei confronti di qualcuna di cui si sente offesa. È pure soggetta a piccoli
accessi erotomani, a qualche passioncella ideale omo ed eterosessuale. Ma sono
tutti fenomeni passeggeri che non si estrinsecano in atti veramente pericolosi e
scandalosi. Così pure non si può garantire che in altro ambiente la sua leggerezza,
la sua capricciosità non la metta sopra una cattiva strada nella quale essa venga
a perdersi irreparabilmente. Ma poiché basterebbe un’energica sorveglianza
e educazione familiare ad impedire tutto ciò, con lo spirito della nuova legge
l’inferma non può essere allo stato attuale più trattenuta nel manicomio.
In Italia l’incontro tra la ricerca storica e le vicende della psichiatria
avvenne, in maniera diffusa, a partire dalla fine degli anni Settanta del
Novecento. La nascita di un largo interesse per questi temi è strettamente
legata al fatto che proprio in quegli anni il modello psichiatrico tradizionale, quello cioè fortemente centrato sugli internamenti manicomiali, era
al centro di un acceso dibattito e oggetto di profonde critiche. Diversi
elementi avevano progressivamente messo in crisi proprio la rappresentazione che la psichiatria aveva storicamente offerto di sé: quella, cioè, di
una scienza neutra che era – ed era stata – in grado di emancipare dalle
loro miserabili condizioni le persone folli. Da una parte, a partire dagli
anni Sessanta, alcune forti sollecitazioni alla psichiatria provennero dal
suo interno: le terribili condizioni di vita nei manicomi, gli internamenti
pluridecennali, gli scarsi risultati ottenuti nell’ambito del reinserimento
sociale delle persone folli spinsero, in alcune città, psichiatri e personale
addetto nelle strutture sanitarie a realizzare alcune esperienze di prassi
alternativa alla segregazione manicomiale. In generale si stava progressivamente delineando un nuovo orientamento in seno alla psichiatria
fortemente critico verso le finalità e i metodi fino ad allora perseguiti.
Dall’altra parte, in quegli stessi anni, furono pubblicati alcuni lavori di
largo respiro, e con larga diffusione, che avevano per oggetto la nascita
e la diffusione della psichiatria e dei manicomi, la funzione assolta da
questi istituti, le dinamiche di potere e di governo che interpretavano.
Opere come quelle di Michel Foucault e Klaus Dörner introdussero le
vicende legate alla psichiatria in una dimensione di dibattito pubblico,
svincolandole da un ambito di discussione ristretto agli “addetti ai lavori”.
Di più: il rilievo dato ad alcuni elementi – l’aspetto quantitativo degli
internamenti manicomiali, la relazione tra crescita della popolazione
manicomiale e momenti di trasformazione sociale, la provenienza sociale delle persone internate, le costruzioni simboliche legate alle diverse
declinazioni della follia – saldò la storia della psichiatria moderna alla

DONNE INTERNATE NEL MANICOMIO DI ROMA ALLA FINE DELL’OTTOCENTO
storia della formazione degli Stati nazionali, a quella delle classi, alla storia
della relazione tra i generi.
L’ampia diffusione, poi, durante gli anni Settanta del movimento
per la chiusura dei manicomi, che riprese molti di questi temi, contribuì
ulteriormente a creare un clima di fermento culturale e politico intorno
ai diversi aspetti della realtà psichiatrica italiana. La storiografia italiana,
che partecipò a questo generale interesse per i manicomi e la psichiatria,
si orientò prevalentemente verso quei temi che sembravano essere stati
tradizionalmente ignorati. Innanzitutto il contesto politico e sociale entro
cui si affermò il trattamento istituzionale della follia, le diverse esperienze
locali di organizzazione e gestione dei manicomi, il profilo delle persone internate, i diversi orientamenti succedutisi all’interno del sapere
psichiatrico, le terapie, le cure, i rimedi adottati, le ricadute prodotte
dall’ascesa di una nuova e potente categoria professionale nelle borghesie di fine Ottocento, le relazioni tra potere centrale e poteri periferici.
La questione che emergeva con più forza e che via via fu approfondita
era quella dello sbilanciamento, avvenuto nella storia delle pratiche e
del sapere psichiatrico, verso l’azione repressiva, di controllo sociale,
coattiva, a discapito degli interventi terapeutici. Si trattava non solo
dell’inumanità dei trattamenti psichiatrici più diffusi (l’elettroshock, la
contenzione, le chirurgoterapie, gli internamenti pluridecennali) ma anche
della circostanza, affatto casuale, che a essere oggetto di tale intervento
erano – ed erano stati – prevalentemente gli uomini e le donne delle classi
povere. Proprio l’esigenza di dare visibilità e fare la storia della massa,
fino a allora indistinta, degli uomini e delle donne che avevano subito gli
internamenti manicomiali portò, per lo più a partire dagli anni Ottanta,
la ricerca storica all’utilizzo di nuove fonti, come la cartella clinica. Da
parte sua, la ricchezza di informazioni e spunti offerti da questo tipo di
fonte, a cui ho già accennato, finì con il suggerire nuove linee di ricerca.
Oltre a indagare le vicende della psichiatria rivolgendosi alle grandi
questioni – la nascita dei manicomi, le dinamiche di controllo sociale
cui si prestarono ecc. – la ricerca che ha tenuto conto del vissuto e delle
esperienze delle donne e degli uomini internati ha avuto l’occasione di
misurarsi con nuovi quesiti e nuove questioni. Proprio perché la cartella
clinica rappresenta una fonte documentaria che spinge lo sguardo oltre le
mura manicomiali, essa fornisce importanti informazioni sulle condizioni
di vita, sulle forme di occupazione, sul grado di cultura, sugli orientamenti
sessuali, sulle reti parentali, di quella fetta di popolazione, non irrilevante,
che incrociò gli istituti manicomiali. A oggi è stato possibile affrontare
molte questioni a partire da uno sguardo ravvicinato sulle donne e sugli
uomini internati. Penso, per esempio, ai lavori dedicati al modo in cui la
psichiatria si occupò, nei saperi e nelle pratiche, delle donne o a quelli

LAURA SCHETTINI
che hanno usato gli archivi dei manicomi per inoltrarsi sul terreno delle
ricadute delle due guerre mondiali sulla popolazione.
Restano molte altre possibili linee di ricerca ancora da esplorare
compiutamente. Tra queste credo ce ne sia almeno una particolarmente
interessante, relativa al grado di aderenza tra le norme e i saperi, da una
parte, e i comportamenti e le pratiche dall’altra. Come recentemente è
stato auspicato più volte, sarebbe interessante indagare in che misura alla
costruzione di una norma, per esempio riguardante la condotta sessuale
o la morale pubblica, corrispondesse effettivamente un adeguamento dei
comportamenti e in che misura, invece, venissero messe in campo, dai
soggetti colpiti, astuzie e vere e proprie strategie di resistenza. E ancora:
quanto il sapere psichiatrico, con il suo carico di prescrizioni e di ritrovati
nel campo delle terapie e dell’indagine cliniche, avesse realmente una
puntuale traduzione negli istituti manicomiali.
Note
. A. De Bernardi (a cura di), Follia, psichiatria e società. Istituzioni manicomiali, scienza
psichiatrica e classi sociali nell’Italia moderna e contemporanea, FrancoAngeli, Milano ;
G. Pomata, Madri illegittime tra Ottocento e Novecento. Storie cliniche e storie di vita, in
“Quaderni storici”, ; A. Pastore, P. Sorcinelli (a cura di), Emarginazione, criminalità
e devianza in Italia fra ’ e ’, FrancoAngeli, Milano .
. E. Sori (a cura di), Città e controllo sociale in Italia tra XVIII e XIX secolo, FrancoAngeli,
Milano ; G. Montroni, Le strutture sociali e le condizioni di vita, in G. Sabbatucci, V.
Vidotto (a cura di), Storia d’Italia. . Il nuovo stato e la società civile, Laterza, Roma-Bari
.
. Cfr. M. Palazzi, Donne sole. Storia dell’altra faccia dell’Italia tra antico regime e
società contemporanea, Bruno Mondadori, Milano .
. M. Pelaja, Matrimonio e sessualità a Roma nell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 
e, della stessa autrice, Scandali. Sessualità e violenza nella Roma dell’Ottocento, Biblink,
Roma .
. L’Archivio storico del S. Maria della Pietà (da qui in poi ASSMP) raccoglie le cartelle
cliniche in ordine cronologico, basandosi sulla data di dimissione o morte. La data di
morte di Rosa B. è il ...
. La modula informativa era uno stampato di quattro facciate di cui gli altri istituti
di ricovero e penitenziari, le Questure e i Comuni afferenti al manicomio possedevano o
potevano richiedere le copie. Essa costituiva la relazione che accompagnava la persona
in manicomio e ne riportava i dati anagrafici, le notizie sulla famiglia e l’ambiente sociale,
le abitudini, i comportamenti che motivavano l’internamento manicomiale. Essa faceva
parte della cartella clinica della persona internata che raccoglieva, oltre alla modula informativa, un foglio denominato “atto di notorietà” attraverso cui, di fronte alle autorità
civili, i conoscenti delle persone per cui si richiedeva l’internamento, dichiaravano che
era notorio che il soggetto fosse folle o pericoloso; il diario di ricovero dove i medici dell’istituto annotavano notizie rilevanti relative alla degenza in manicomio del paziente; le
lettere o testimonianze autografe della persona internata; la documentazione di carattere
amministrativo.
. Pelaja, Matrimonio e sessualità, cit.
. Questo non vuol dire che in manicomio ci fossero più vedove che, per esempio,
nubili. Semplicemente si vuol far notare che mettendo in rapporto la popolazione manicomiale con la popolazione complessiva della provincia di Roma, entrambe divise per
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DONNE INTERNATE NEL MANICOMIO DI ROMA ALLA FINE DELL’OTTOCENTO
stato civile, il rapporto tra vedove internate e vedove esistenti risulta più alto ( mentecatta
vedova ogni . abitanti vedove) rispetto agli altri stati civili.
. A. Giannelli, Studi sulla pazzia nella Provincia di Roma, Tip. L. Cecchini, Roma
, pp. -.
. Cfr. in proposito anche A. Groppi (a cura di), Il lavoro delle donne, Laterza,
Roma-Bari .
. ASSMP, dimessa l’...
. Ivi, dimessa il ...
. Ivi, dimessa l’...
. Ivi, deceduta l’...
. Ivi, deceduta il ...
. Ivi, dimessa il ...
. L’opera a cui mi riferisco di seguito è F. Del Greco, L’individualità somato psichica della donna e le sue frenopatie, in “Il manicomio moderno”, ; in particolare le
pp. -.
. Ivi, p. .
. Cfr. in proposito V. P. Babini, F. Minuz, A. Tagliavini, Le donne nelle scienze
dell’uomo, FrancoAngeli, Milano ; G. Swain, L’anima, la donna, il sesso e il corpo.
Metamorfosi dell’isteria alla fine dell’Ottocento, in “Sanità, scienza e storia”, ; B. Iaccarino, Considerazioni introduttive sull’evoluzione dei modelli di psicopatologia femminile,
in “Giornale storico di psicologia dinamica”, .
. Del Greco, L’individualità somato psichica della donna, cit., pp. -.
. Cfr. L. Ferrante, Il valore del corpo, ovvero la gestione economica della sessualità
femminile, in Groppi (a cura di), Il lavoro delle donne, cit.; Pelaja, Matrimonio e sessualità,
cit.
. Giannelli, Studi sulla pazzia, cit., p. .
. ASSMP, dimessa il ...
. Ivi, dimessa il ...
. Il conservatorio del Rifugio di S. Maria in Trastevere, fondato nel , era un’istituzione assistenziale che accoglieva esposte, orfane, ragazze pericolanti, donne pentite,
malmaritate e vedove, con l’intento, tramite la reclusione e la rigida disciplina interna di
avviarle a destini femminili “normali”. Cfr. A. Groppi, I conservatori della virtù. Donne
recluse nella Roma dei papi, Laterza, Roma-Bari .
. ASSMP, dimessa il ...
. Ivi, morta il ...
. Sulla diffusione di questo fenomeno, tanto in età moderna che in età contemporanea, cfr. Palazzi, Donne sole, cit.
. L’organicismo psichiatrico è quella corrente di studi che pone in un’alterazione
dell’organismo la sede della malattia mentale. Per un approfondimento sull’uso e l’abuso
di questa espressione da parte della storiografia che si è occupata di psichiatria cfr. V. P.
Babini, Organicismo e ideologie nella psichiatria italiana dell’Ottocento, in F. M. Ferro (a
cura di), Passioni della mente e della storia. Protagonisti, teorie e vicende della psichiatria
italiana tra ’ e ’, Vita e pensiero, Milano .
. Del Greco, L’individualità somato psichica della donna, cit., p. .
. A. De Tilla, Isterismo e delitto, in “La Domenica giudiziaria”, .
. L’isteria è anche uno degli argomenti più compiutamente studiati dalle donne
che si sono occupate di storia della psichiatria e controllo sociale. A questo proposito si
possono vedere Swain, L’anima, la donna, il sesso e il corpo, cit.; Iaccarino, Considerazioni
introduttive, cit.; R. Bettica, Piccola storia dell’isterismo e dell’ipocondria, in “Rassegna di
Studi psichiatrici”, ; S. Cremonini, Isteria e devianza femminile nella seconda metà
dell’Ottocento, in Sorcinelli, Emarginazione, criminalità, cit.; De Tilla, Isterismo e delitto,
cit.; S. Resnik, Isteria, in Enciclopedia Einaudi, Torino ; M. A. Trasforini, Corpo
isterico e sguardo medico, in “Aut-Aut”, ; Id., Il codice isterico, in “Dei delitti e delle

LAURA SCHETTINI
pene”, .
. E. Tanzi, Trattato delle malattie mentali, Società editrice Libraria, Firenze ; L.
Bianchi, Trattato di psichiatria ad uso dei medici e degli studenti, Napoli .
. Ivi, pp. -.
. Giannelli, Studi sulla pazzia, cit., p. .
. ASSMP, deceduta il ...
. Ivi, dimessa il ...
. Ivi, dimessa il ...
. Ivi, dimessa il ...
. Cfr. a questo proposito la nascita e lo sviluppo della “nuova psichiatria”, vale a
dire di una significativa corrente di opposizione interna agli ambienti psichiatrici che ebbe
una parte rilevante nella battaglia per la legge , per la chiusura dei manicomi. Come è
noto, figura di spicco di questo movimento fu lo psichiatra Franco Basaglia che nel ,
a Parma, aveva pubblicato il volume Che cos’è la psichiatria?, che poi divenne un testo
di riferimento per il dibattito sulla psichiatria. In generale, a questo proposito, cfr. G.
Jervis, Manuale critico di psichiatria, Feltrinelli, Milano  e G. Pagliaro, L’alienità come
costruzione sociale, Cleup, Padova .
. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli ; K. Dörner, Il
borghese e il folle, Laterza, Bari .
. La bibliografia dedicata alla storia della psichiatria è, ovviamente, molto vasta. Un
utile repertorio bibliografico è P. Guarnieri, La storia della psichiatria: un secolo di studi
in Italia, Olschki, Firenze .
. Una delle prime memorie autografe di internati a essere pubblicata era stata,
appunto, ritrovata nella cartella clinica della paziente, nel manicomio di Ancona; si tratta
di A. Conti, Manicomio . Gentilissimo Sig. Dottore questa è la mia vita, Mazzotta,
Milano .
. Cfr. a questo proposito, per quanto riguarda l’Italia, A. Gibelli, L’officina della
guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati-Boringhieri, Torino  e P. Sorcinelli, La follia della guerra. Storie dal manicomio negli anni Quaranta,
FrancoAngeli, Milano .
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