L`internamento psichiatrico nei manicomi provinciali. p. 1

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L`internamento psichiatrico nei manicomi provinciali. p. 1
INDICE
Abbreviazioni
p. III
Introduzione
p. V
Capitolo I: L'internamento psichiatrico nei manicomi provinciali.
p. 1
-
La legge del 1904 e il regolamento del 1909.
p. 4
-
L'internamento psichiatrico civile e l'azione del fascismo.
p. 9
-
Una molteplicità di soggetti.
p. 16
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Neutralizzare una minaccia: il caso dell'avvocato S.
p. 21
-
Lotta alla degenerazione e lotta politica.
p. 26
-
Etilismo, degenerazione e sovversione.
p. 31
-
Antifascismo e pericolosità sociale.
p. 36
-
Paranoia e pericolosità.
p. 44
-
La costruzione del maniaco.
p. 50
Capitolo II: L’internamento psichiatrico nei manicomi giudiziari.
p. 59
-
Criminalizzazione del delitto politico e politicizzazione del delitto comune.
p. 60
-
L’irresponsabilità penale e la non punibilità.
p. 67
-
Le misure di sicurezza.
p. 72
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Devianza, follia ed antifascismo nei tribunali ordinari.
p. 78
-
Antifascismo e follia nel Tribunale Speciale: le perizie sui delinquenti politici.
p. 82
-
L’isterica.
p. 88
-
L’ipersensibile.
p. 100
-
Il depresso.
p. 107
Capitolo III: L'internamento psichiatrico in condizioni di detenzione.
-
Carcere e confino.
p. 115
p. 117
-
Lo spazio, il corpo ed il tempo.
p. 121
-
L’osservazione della personalità e le punizioni.
p. 129
-
Prisonerizzazione, istituzionalizzazione e sindromi da detenzione.
p. 135
-
Gli strumenti di contenzione.
p. 139
-
Storie di manicomi e di Resistenza.
p. 143
Capitolo IV: La vita in manicomio.
p. 151
-
L'ingresso in manicomio e l'osservazione psichiatrica.
p. 153
-
Le regole e le occupazioni.
p. 160
-
Le considerazioni cliniche ed il riesame della pericolosità.
p. 164
-
Le terapie.
p. 168
-
Contenzione e trattamento disciplinare.
p. 173
-
La sorveglianza, gli abusi, le connivenze e la resistenza degli psichiatri.
p. 177
-
Deliri paranoici e deliri politici.
p. 189
Bibliografia
p. 199.
Abbreviazioni
ACS Archivio Centrale dello Stato
ANPPIA Associazione Nazionale Perseguitati Politici Antifascisti
AOPAn Archivio ex Ospedale Psichiatrico Ancona
AOPFi Archivio ex Ospedale Psichiatrico Firenze
AOPMc Archivio ex Ospedale Psichiatrico Macerata
AOPMo Archivio ex Ospedale Psichiatrico Mombello
AOPPg Archivio ex Ospedale Psichiatrico Perugia
AOPRoma Archivio ex Ospedale Psichiatrico Roma
AOPSs Archivio ex Ospedale Psichiatrico Sassari
AOP Vl Archivio ex Ospedale Psichiatrico Volterra
AOPGVl Archivio Ospedale Psichiatrico Giudiziario Volterra
ASBo Archivio di Stato di Bologna
ASAn Archivio di Stato di Ancona
ASMc Archivio di Stato di Macerata
ASPg Archivio di Stato di Perugia
b. busta
CC Cartella clinica
CLN Comitato di Liberazione Nazionale
CPC Casellario Politico Centrale
DDAAGGRR Divisione Affari Generali e Riservati
f. fascicolo
MVSN Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale
ONB Opera Nazionale Balilla
OND Opera Nazionale Dopolavoro
OVRA Organizzazione di Vigilanza e Represione dell’Antifascismo
III
PCdI Partito comunista d'Italia
PCI Partito comunista italiano
PNF Partito nazionale fascista
PSI Partito socialista italiano
TSDS Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato
URSS Unione delle repubbliche socialiste sovietiche
IV
INTRODUZIONE
“Torna la luce”
Nel 1947, nel mezzo di una situazione politica interna ancora non del tutto
stabilizzata,All'indomani della fine della seconda guerra mondiale, il Tribunale di Roma inviò i
carabinieri al Santa Maria della Pietà per sequestrare la cartella clinica di Secondo Biamonti, che
aveva denunciato i medici, gli infermieri ed il personale di sorveglianza del manicomio romano e
del manicomio provinciale di Aversa, dove era stato ininterrottamente internato dal 1934 al 1944. 1
Biamonti conservava un pessimo ricordo dell'ospedale romano:
Il luogo dove mi hanno tenuto rinchiuso per tanti anni, e cioè al Padiglione XVIII del Santa Maria
della Pietà, à tutte le apparenze di una prigione anziché di un ospedale: mura alte 7 metri, tre cancellate ed un
portone esterno oltre tutte le altre porte interne, di guisa che, calcolando anche la cancellata dell'ingresso
principale, una persona che si trova rinchiusa nel cortile dove si va a prendere aria, per raggiungere il
piazzale esterno dove c'è la fermata del tram in modo clandestino, dovrebbe superare ben sette sbarramenti.
Vi si trovano complessivamente, nei due piani che costituiscono il cosidetto padiglione di sicurezza sopra
menzionato, una sessantina di celle di varie dimensioni con sbarre alle finestre e con porte massicce fornite
di spioncino come nelle galere. E' vero che per mitigare la brutta impressione che produce nell'animo del
visitatore simile locale, le monache hanno avuto la delicatezza di collocare dei vasi di fiori nel corridoio
dell'ingresso, ma ciò non impedisce che dando uno sguardo alle finestre che si trovano alle due estermità del
corridoio, si possono osservare con un senso di oppressione al cuore i due cortili (uno specialmente è
orribile) dove si aggirano eccitati o depressi, secondo i casi, i ricoverati chiamati criminali per delitti che
hanno commesso e che si distinguono dagli altri che non hanno commesso alcun delitto e che sono tenuti nei
padiglioni più aperti con vigilanza piuttosto blanda e che possono uscire a passeggio nel parco. Questo è
considerato come un privilegio grande, perché i criminali, viceversa, non possono uscire dal padiglione per
nessun motivo, a meno che non vengano trasferiti ad altri ospedali, e perfino la S. Messa nei giorni di festa la
devono ascoltare dentro una piccola cappella fatta costruire appositamente accanto al refettorio, per timore
che portati nella Cappella centrale vicino alla Direzione assieme a tutti gli altri facciano scivolare qualche
biglietto di contrabando fuori per i parenti o amici. Praticamente dunque è stato calcolato dai costruttori di
simile galera che neanche un topo riuscirebbe ad uscire.2
Anni prima, la sorella si era rivolta a Mussolini per chiederne la dimissione, ma in modo
invano:
Duce, poiché solo l’intervento della Eccellenza Vostra può ridare la vita ad un disgraziato, io mi
permetto di indirizzare a Voi la più sommessa preghiera nello interesse di mio fratello Biamonti Secondo,
privo di padre e di madre, attualmente internato nel manicomio di Aversa […] Duce, mio fratello non è
pazzo, egli è veramente ravveduto ed intende dare la prova di voler fedelmente servire il suo paese. Il
Direttore del manicomio, da me personalmente interrogato, in voce e per iscritto, ha dichiarato che non è
giunto il momento ancora; ma io Vi assicuro e Vi ripeto che mio fratello non è affatto malato di mente e che
la vita che egli mena in quel manicomio è una continua e straziante tortura, come si rileva dalle invocazioni
1
AOPPRoma “Santa Maria della Pietà”, Archivio cartelle cliniche, Biamonti Secondo, Decreto di sequestro, 27
febbraio 1947 e Verbale di sequestro del 18 marzo 1947.
2
Ivi, Copia della denuncia di Secondo Biamonti., s.d..
V
che mi fa pervenire e dalle preghiere che mi ha rivolto a voce nelle visite da ma fattegli. Prego pertanto la
Eccellenza Vostra di dire la parola di bontà verso il ravveduto; ne ordini la visita medica di controllo da parte
di uno psichiatra; lo faccia trasportare frattanto in altro luogo perché ad Aversa geme addirittura; ma lo
perdoni perché egli, in questo momento, dopo aver amaramente scontato il fio delle sue fobie, non desidera
che di essere perdonato.3
Chi era Secondo Biamonti, il cui fascicolo conservato nel Casellario Politico presso
l’Archivio Centrale dello Stato reca sul dorso l’annotazione «infermo di mente per mania politica»?
Quali erano state le «non poche tribolazioni umane» che, così come avrebbe recitato un necrologio
successivo alla sua morte - avvenuta il 12 settembre del 1977 - aveva dovuto pagare «per coerenza
ai suoi ideali di libertà e di giustizia»? 4 Cosa intendeva dire la sorella quando, con un’altra lettera
del 1940 spedita al Ministero dell’Interno - nel frattempo Secondo aveva lasciato la Sezione civile
del manicomio di Aversa per essere trasferito all’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà di
Roma - sosteneva che «avrebbe potuto fare una regolare carriera, adeguata alle sue doti
intellettuali», se, «verso il 1930», non fosse stato «colpito da una forma di alienazione mentale,
sboccata da una falsa ideologia politica sovversiva»? 5 Perché nel giugno del 1943, con la flotta
angloamericana che ormai si preparava a sbarcare in Sicilia, posto di fronte all’ennesima richiesta di
liberazione e affidamento alla sorella, il Ministero rispose con un nuovo diniego - nonostante il
parere positivo dell’ospedale - giustificando quella scelta come dettata dal particolare «momento
politico»?6 Che relazione c’era tra la politica repressiva del regime fascista, la “mania politica”
annotata sul suo fascicolo e il fatto che il 17 giugno del 1944, undici giorni dopo la liberazione della
capitale, i sanitari proposero «la dimissione» perché ormai «non presenta[va] più gli estremi per la
dimora in un ospedale psichiatrico»? 7
3
ACS, CPC, b. 609, f. 98184, Biamonti Secondo, Ministero dell’Interno, 17 luglio 1935, La lettera della sorella, del 3
giugno 1935, è allegata.
4
La citazione si riferisce al necrologio stampato per il terzo anniversario della morte, che recitava: «Passò attraverso
non poche tribolazioni umane per coerenza ai suoi ideali di libertà e di giustizia. Esempio a noi d’integrità morale e di
profonda umiltà. Le ricompense terrene gli furono avare ma il Signore l’ha trovato degno di Sè e con meritato amore
l’ha accolto nella pace del Suo Regno Celeste. Nel trigesimo della sua morte la moglie, la figlia, il genero e i parenti
tutti lo ricordano devotamente». Per le fotografie, il necrologio ed altri ricordi familiari gentilmente mostratimi e fatti
fotografare, nonché per le preziosissime interviste rilasciatemi, ringrazio Maria Rita Biamonti, figlia di Secondo,
Ferdinando Poggiarono, genero e Fabio Lorenzo Melloni De Vecchis, nipote. Le testimonianze di Maria Rita Biamonti
e di Ferdinando Poggiaroni sono state registrate su supporto audiovisivo il 14 marzo 2012. Quella di Fabio Lorenzo
Melloni De Vecchis, invece, è stata registrata il 28 gennaio 2012. Da ora in poi le citazioni riferite a tali fonti verranno
utilizzate segnalando solo il nome dell’intervistato.
5
ACS, CPC, b. 609, f. 98184, Biamonti Secondo, Ministero dell’Interno, 11 febbraio 1940, La lettera della sorella è
allegata.
6
La risposta negativa del Ministero alla richiesta di parere sulla dimissione di Biamonti proveniente dalla Questura di
Roma - che esponeva invece i pareri positivi raccolti tra l'Ospedale Santa Maria della Pietà e la Questura di Littoria,
dove si trovava la sorella di Biamonti che si era offerta per custodirlo – è riportata in una nota a penna a margine della
richiesta stessa; cfr. Questura di Roma, 25 maggio 1943.
7
AOPPRoma “Santa Maria della Pietà”, Archivio cartelle cliniche, Biamonti Secondo, Diario Clinico, Annotazione del
17 giugno 1944.
VI
Secondo Biamonti, per come lo ricordano i suoi familiari, era innanzitutto una persona
estremamente buona e gentile, preparata, di vasta cultura, generosa nell’animo. Lo stesso carattere
viene confermato dalla sua cartella clinica: un ricoverato «molto rispettoso col personale e con
tutti», «calmo e tranquillo»: «legge[va] quasi sempre». 8 Biamonti era inoltre un servitore dello Stato
e da servitore dello Stato si sarebbe comportato anche quando, dopo la Liberazione e la nuova
riassegnazione al personale del Ministero dell’Interno nell’Italia postfascista, spiccò la denuncia
citata, nella quale descrisse la situazione dei ricoverati e i soprusi che a loro danno si erano
verificati durante il regime fascista.9 Per i «politici» nel padiglione di sicurezza - scrisse - la
situazione era stata «pietosa» e il trattamento disciplinare «barbaro e spietato». Raccontò di torture
subite dagli internati antifascisti, di cui aveva solo sentito parlare ma che, per quanto era riuscito «a
constatare», corrispondevano «in gran parte a verità». Come quando, nel mezzo di un’estate, G. ricoverato successivamente all’assassinio di un deputato fascista - era stato legato al letto e, appena
aveva cominciato ad urlare per la sete, era stato abbeverato con dell’acqua bollente. Gli erano state
poi strappate le unghie dei piedi, ma era stato detto al medico che se l’era strappate da solo. Anche
ad altri ricoverati «politici», e specialmente a «quelli di razza ebraica», erano state inflitte «ogni
sorta di sevizie». Dai suoi ricordi sappiamo che
quella parte del personale più fanatica che commetteva simili abusi, si faceva trasferire dalla Direzione nello
stesso padiglione dove venivano trasferite le vittime, per impedire che raccontassero ai parenti i
maltrattamenti subiti. Perfino qualche giorno innanzi l’ingresso degli alleati a Roma, nel famigerato
padiglione 18 i ricoverati vennero sottoposti ad improvvise e frequenti perquisizioni (due volte nella stessa
giornata) e vennero puniti con ferocia inaudita se trovati in possesso di qualche mozzicone di matita nelle
tasche o nei pagliericci ed ogni volta che si recavano nella latrina dovevano far vedere la quantità di carta di
giornale che adoperavano [questi accorgimenti servivano ad evitare che gli internati comunicassero con
10
l'esterno ndr].
Secondo Biamonti, classe 1899, era cresciuto in una famiglia benestante di Veroli. Il padre,
un medico, aveva sempre sognato per il figlio una carriera nell’amministrazione pubblica. Finita la
8
Ivi, Diario Clinico, Annotazione del 7 gennaio 1938 e del 14 gennaio 1930. Da lettore instancabile, anni dopo la sua
dimissione Secondo Biamonti si sarebbe cimentato nella stesura di un romanzo, rimasto inedito ed intitolato Torna la
luce. L’opera narra la vicenda di alcune donne che durante il fascismo avevano visto disgregarsi la propria famiglia.
Uno dei protagonisti maschili era stato costretto ad espatriare, per motivi politici. Altri erano stati condannati al confino.
Solo alla fine della seconda guerra mondiale la famiglia si sarebbe potuta riunire.
9
Prima di concludere la sua denuncia e di lasciare la capitale per raggiungere la nuova residenza dell’Alta Italia
(Sondrio) che gli era stata assegnata dall’Amministrazione Ministero dell’Interno, Biamonti formulò alcune proposte
orientate al «mutamento della concezione carceraria di tali cosiddette case di salute», dove in realtà i ricoverati
subivano «un trattamento da ergastolani e non da malati». Tra i suggerimenti: la visita medico-psichiatrica semestrale
dei ricoverati, una riforma del regolamento disciplinare che permettesse ai malati di uscire dall’istituto per poter
riprendere il contatto con il mondo esterno e «l’abolizione immediata» dei padiglioni criminali e di sicurezza, che
rappresentavano «una vergogna per la nostra civiltà»;cfr. AOPPRoma “Santa Maria della Pietà”, Archivio cartelle
cliniche, Biamonti Secondo, Copia della denuncia di Secondo Biamonti., s.d...
10
Ivi, Copia della denuncia di Secondo Biamonti., s.d.. Per le notizie sulla riassunzione in servizio di Biamonti e sulla
sua destinazione cfr., inoltre, Ministero dell’Interno, DGAAGG e personale, Divisione del personale, Fascicoli riservati,
Versamento 1939, b. 21 bis, Foglio intestato Archivio di Stato di Roma, 5 marzo 1946 e Testimonianza di Maria Rita
Biamonti.
VII
scuola dell’obbligo lo fece iscrivere agli studi superiori ma con lo scoppio della Grande guerra
Secondo venne inviato nel 1917 prima sul fronte italiano e poi su quello francese. Si congedò con il
grado di tenente di fanteria, diverse onorificenze e la croce di guerra.11
Le agitazioni politiche del Biennio rosso non lo lasciarono indifferente. Studente della
facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze, dopo il 1921 si avvicinò al partito
comunista insieme ad un compagno, anch’egli più tardi condannato dal Tribunale Speciale.12
Terminati gli studi, per «assecondare la volontà» del genitore, partecipò ad un concorso per
segretario di prefettura e lo vinse.13 Quando, però, al momento dell’assunzione venne «invitato a
presentare la scheda per la sua adesione al Partito» fascista, «non aderì alla richiesta» dicendo «di
volerci pensar sopra».14 Dopo l'assunzione in servizio, prima in Nord Italia, poi al centro, al Sud, di
nuovo al centro ed infine a Parma, procrastinò l'iscrizione al PNF per cinque anni, fino alla morte
del padre. Visto allora sciogliersi l’impegno affettivo che lo legava al genitore, nel febbraio del
1930 scrisse al Prefetto, sostenendo di voler «rassegnare le dimissioni dall’impiego perché» di «idee
bolsceviche e contrarie al regime nazionale». 15
Visto il tenore delle missiva, il Prefetto ritenne opportuno «farlo visitare da un sanitario» e
questi «ne consigliò il ricovero in una casa di salute»; anche «in considerazione» del fatto che in
passato aveva sofferto di «nevrastenia», “eredità” delle trincee della prima guerra mondiale. Dopo
tre giorni Secondo fu dimesso e consegnato alla sorella, essendo stato «riconosciuto irresponsabile
per quanto» aveva «scritto», ma «non pericoloso a sé ed agli altri». 16
Collocato in aspettativa, fece alcune domande per il rilascio del passaporto poi decise di
provare ad espatriare clandestinamente. Ci riuscì passando per Ventimiglia: «con molta eleganza,
ma con molto pericolo», avrebbe poi scritto al cognato.17 Arrivò prima a Nizza e poi a Parigi, dove
si avvicinò ai gruppi antifascisti. Fece anche alcuni investimenti, tra i quali l’acquisto di un’edicola,
che però furono presto penalizzati dall’estendersi della crisi economica. Decise allora di
raggiungere l’URSS per «cercar lavoro», e, nonostante avesse ottenuto soltanto un visto turistico,
partì comunque. A Mosca, secondo l’Ambasciata italiana, Biamonti «dovette constatare che anche
per un comunista non» era «facile adattarsi alla vista sovietica». Messosi in contatto con alcuni
emigrati italiani, questi lo sottoposero «ad un lungo interrogatorio», alla fine del quale venne deciso
che non «era possibile per il momento recargli aiuto», in quanto considerato «non già una “vittima
11
ACS, CPC, b. 609, f. 98184, Biamonti Secondo, Prefettura di Frosinone, 31 ottobre 1934.
Ivi, Questura di Frosinone, Verbale d’interrogatorio del 25 ottobre 1934.
13
Ivi, Ambasciata d’Italia in Urss, 5 giugno 1934.
14
Ivi, Ministero dell’Interno, 17 luglio 1935, La lettera della sorella, del 3 giugno 1935, è allegata.
15
Ivi, Questura Roma, 15 luglio 1930.
16
Ibidem.
17
Ivi, Questura di Roma, 4 novembre 1931
12
VIII
politica” ma semplicemente una “vittima capitalistica”». 18 Era stato cioè costretto ad emigrare non
perchè perseguitato dal fascismo, ma perché si trovava in una situazione di povertà economica
determinata dalla crisi internazionale.
Nella Mosca della prima metà degli anni Trenta, il significato pratico di quella formula
consisteva nell’impossibilità di ottenere il permesso di residenza in una città, necessario per trovare
lavoro. Con un decreto del gennaio del 1933, infatti, era stato specificato che la possibilità di
risiedere in città doveva essere negata - oltre agli elementi «non produttivi» ed ai kulaki - anche ai
«rifugiati dall’estero» che non godevano «dello status di emigrati politici». 19 A Biamonti fu allora
consigliato di recarsi di nuovo in Francia, «a combattere sul fronte dell’antifascismo; la III
Internazionale avrebbe ripreso in esame il suo caso in seguito». Nonostante questa chiusura, e «per
quanto» da parte delle autorità italiane ci si aspettasse che «il viaggio in Russia e soprattutto i
contatti con i comunisti italiani» fossero riusciti a menomare «notevolmente» la «sua fede», davanti
all’ambasciatore italiano in URSS, Biamonti continuava a dirsi «profondamente comunista». Ad
ogni modo, il diplomatico interessò la «Società di assistenza per gli italiani» per sostenere
economicamente il rientro a Parigi dell’ex segretario di prefettura. 20 Una volta tornato in Francia,
Biamonti si recò al consolato italiano e fece richiesta di rimpatrio gratuito in quanto indigente.21
Il Ministero dell’Interno non si oppose alla richiesta, ma, al momento del rimpatrio, ordinò
alla P.S. dell’ufficio di frontiera di Bardonecchia di fermare Biamonti e di condurlo a Frosinone,
dove il prefetto lo avrebbe dovuto sottoporre ad «opportuno interrogatorio». 22 Qui Biamonti
ammise i suoi contatti con alcuni antifascisti italiani emigrati all'estero: da Alceste De Ambris si era
fatto «raccomandare per poter ottenere il permesso di soggiorno a Parigi», mentre a Mosca era
entrato in contatto con Giovanni Germanetto e Francesco Misiano.23 La perquisizione del bagaglio
18
Ivi, Ambasciata d’Italia in Urss, 5 giugno 1934. Le testimonianze della figlia e del nipote confermano questo pessimo
ricordo dell’URSS serbato da Secondo Biamonti. Al nipote diceva che il comunismo sovietico era troppo duro ed
inadatto agli italiani. Dopo la Liberazione Biamonti restò comunque vicino al Pci, la figlia ricorda le domeniche al
circolo del partito e le sere d’estate passate alla festa de “L’Unità”; cfr. testimonianze di Maria Rita Biamonti e Fabio
Lorenzo Melloni De Vecchis.
19
Elena Dundovich, Francesca Gori, Emanuela Guercetti, L’emigrazione italiana in URSS: storia di una repressione, in
Id. (a cura di), Gulag. Storia e memoria, Feltrinelli, Milano 2004, p. 197.
20
ACS, CPC, b. 609, f. 98184, Biamonti Secondo, Ambasciata d’Italia in Urss, 5 giugno 1934.
21
Ivi, Ministero dell’interno, 21 agosto 1934.
22
Ivi, Ministero dell’interno, 10 ottobre 1934.
23
Alceste De Ambris, classe 1874, socialista sin dal 1892, tra i fondatori dell'Unione sindacale italiana e poi
interventista durante la prima guerra mondiale. Negli anni Venti assunse posizioni antifasciste e dovette espatriare in
Francia, dove diede vita alla Concentrazione antifascista, una delle più grandi organizzazioni degli italiani emigrati
all'estero per motivi politici. Morì a Brive nel dicembre del 1934. Giovanni Germanetto, classe 1885, internato durante
la prima guerra mondiale per "propaganda sovversiva", nel 1921 si iscrisse al Pcdi. Emigrò a Mosca dove ricoprì la
carica di dirigente del Soccorso Rosso Internazionale. Nel 1946 rientrò in Italia per un periodo poi si recò ancora una
volta in Unione Sovietica, dove morì nell'ottobre del 1959. Francesco Misiano, classe 1884, socialista e contrario alla
guerra, condannato per diserzione nel 1915, partecipò ai moti spartachisti di Berlino e nel 1921 fu tra i fondatori del
Pcdi. Eletto alla Camera, fu aggredito da un gruppo di deputati fascisti e fatto uscire dal Parlamento, come gesto di
punizione per la sua passata diserzione. Alla fine la sua elezione venne annullata. Nel 1924 raggiunse l'URSS, dove era
stato chiamato a svolgere la sua attività di produttore cinematografico per conto del Soccorso Rosso Internazionale.
IX
fece rinvenire varie tessere dell’“Associations des Amis de l’Union Sovietique” e dell’“Association
des Ecrivans et Artistes revolutionneires”, alcune lettere, ritagli di giornale e un biglietto d’ingresso
per assistere alla sfilata dell’Armata rossa in occasione del Primo maggio 1934.24
Il materiale sequestrato dimostrava come all’estero Biamonti avesse svolto un’intensa vita
sociale e politica. Aveva partecipato ad assemblee e dibattiti, raccolto appunti di economia
distribuiti nelle aule dell’Università di Parigi, frequentato lezioni scientifiche nell’Università di
Marburgo, in Germania, dove si era fermato per alcuni giorni a casa di un professore conosciuto in
Italia. In una sala parigina, dove si ritrovavano individui «iscritti ad ogni partito», aveva tenuto egli
stesso una conferenza, leggendo un suo scritto intitolato Où allons nous? Guerre ou revolution? di
cui aveva conservato l'originale. Ai convenuti aveva parlato della spinta dei diversi capitalismi
nazionali ad estendere le proprie sfere d’influenza, dell’innalzamento delle barriere doganali e delle
altre cause economiche che erano state alla base della prima guerra mondiale: «l’eprit scioviniste
continuerait à jouer son rôle nefaste à cause du lourd fardeau du préjugé de race» - aveva aggiunto
- «selon l’expérience passée et récent de l’histoire […] actuellement on marche plus vers la guerre
que vers la révolution». 25 Era il gennaio del 1933. Alla fine del mese Hitler sarebbe salito al potere
in Germania.
Nella stessa conferenza, Biamonti aveva anche attaccato direttamente la personalità del capo
del fascismo, stigmatizzandone alcuni caratteri, ridicolizzandolo e probabilmente provocando
dell'ilarità nel pubblico che lo stava ascoltando. Partendo da alcune riflessioni stimolate dalla lettura
dei Colloqui con Mussolini che il giornalista tedesco Emil Ludwig aveva pubblicato l’anno
precedente, Biamonti aveva descritto il capo del governo come sospeso tra la considerazione del
grande talento di uomo di Stato - che gli tributavano alcuni - e le caratteristiche di dittatore
sanguinario affetto da deliri di persecuzione e di grandezza che gli riconoscevano altri. In generale,
aveva detto l'ex segretario di prefettura, allo stato embrionale tali deliri assumevano spesso forme
diverse e difficilmente riconoscibili, come la vanità o l’orgoglio. Tra queste forme e le manie di
grandezza esistevano tante possibilità intermedie che rasentavano la patologia, e che, per questo,
Morì a Mosca nell'1936, dopo essere stato emarginato dalla sua attività e dal partito in seguito all'accusa di
deviazionismo, durante l'avvio del terrore staliniano; cfr., rispettivamente, AAVV, Dizionario biografico degli italiani,
Volume XXXIII, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1987, ad nomen; Ivi, Volume LIII, 2000, ad nomen e
Volume LXXV, 2011, ad nomen.
24
ACS, CPC, b. 609, f. 98184, Biamonti Secondo, Prefettura di Frosinone, 31 ottobre 1934; cfr. anche Questura di
Frosinone, Verbale d’interrogatorio del 25 ottobre 1934 e Ambasciata d’Italia in Urss, 5 giugno 1934. Di Germanetto e
Misiano, Biamonti disse all’ambasciatore che vivevano come dei «veri borghesi» e che godevano «di un potere
illimitato nei confronti degli altri italiani».
25
Ivi, Questura di Frosinone, Verbale d’interrogatorio del 25 ottobre 1934. Copia della relazione è allegata.
X
rendevano impossibile separare in modo netto la pazzia dallo stato normale, anche nel caso di
Mussolini.26
Dopo il fermo a Bardonecchia nell'ottobre del 1934 e il trasferimento a Frosinone a
disposizione della Questura, Biamonti cominciò ad essere interrogato, finché, dopo alcuni giorni, il
Ministero dell’Interno scrisse ancora, questa volta disponendo un nuovo esame psichiatrico da
effettuarsi sull’arrestato.27 Non essendo presente nella provincia di Frosinone nessun manicomio, la
prefettura affidò la visita al direttore dell’ospizio di Ceccano. Questi, dopo un «minuzioso esame»,
scrisse:
Si rivela per un individuo abbastanza colto, di facile eloquio, dotato di ottima memoria. Si intrattiene con
ricchezza di particolari sulle sue avventure e sulle peregrinazioni in terre straniere […] Nel complesso dei
ragionamenti del soggetto risulta che egli è un delirante lucido, tutto preso da un complesso ideativo assurdo
ed insensato [...]. Il soggetto inoltre presenta, nel campo dell’affettività, un ottundimento sentimentale, per
cui i nobili sentimenti superiori di famiglia, di patria, di religione, non destano in lui nessuna reazione
emotiva […] Dall’insieme del nostro minuzioso esame e dal contegno serbato dal soggetto da circa cinque
anni, emerge che il Biamonti è un psicoastenico a costituzione paranoide. Per questa infermità mentale egli
si rivela pericolosissimo, dal punto di vista sociale, e perciò se ne propone l’internamento in un Ospedale
Psichiatrico.28
Il 16 novembre fu portato nel manicomio provinciale di Aversa, il cui direttore fu avvertito subito
del fatto che una eventuale dimissione non sarebbe potuta avvenire «senza il preventivo nulla osta»
della prefettura di Frosinone.29 Dopo tre anni, come abbiamo detto, in seguito alle richieste della
sorella, venne trasferito all’Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma e lì sarebbe
restato fino al giugno del 1944. Prima che Biamonti partisse per l’ospedale romano, però, il
direttore del manicomio di Aversa inviò un certificato spiegando quello che aveva potuto osservare
rispetto al comportamento del malato:
Durante il periodo di osservazione in questo Ospedale psichiatrico presentò disordini psichici che lo
fecero ritenere affetto da psicosi paranoidea, malattia mentale a decorso cronico, difficilmente guaribile.
Anche presentemente l’infermo, che si proclama filo-bolscevico, affetto da “morbo di Lenin”, esprime vivaci
concezioni deliranti a contenuto persecutorio politico, ritenendo d’esser fatto segno a persecuzioni ordinate
26
Ibidem. Una parte della relazione di Biamonti così recitava : «Objet de particulière attention pour tous ceux qui
aiment la paix, doit être la figure du chef et peut-être du fondateur de l’imperialisme italien, différemment jugé selon les
interêts et les opinios politiques. Il y en a de ceux qui l’ont defini un homme de grand talent et sympatique, comme
l’écrivain Ludwig qui lui a posé trois cents questions sur des arguments les plus variés; et de ceux qui, au contraire, le
considérent un dictateur sanguinaire et, en même temps, un fou proie de la folie des grandeurs (mais à ce sujet, il faut
juger avec beaucoup de prudence parce que c’est très difficile à connaître, avec précision, cette forme de folie, car elle
se trouve sous forme de vanité ou d’orgueil à l’état embryonaire chez nous tous, et parce que entre l’orgueil-même, à un
degré élevé appartenant à une personnalité normal, et la paranoïa délirant, il existe toute une suite de revendications qui
frôlent la pathologie et il n’y a pas de frontière nette entre la folie et l’état normal)». Gli appunti letti da Secondo
Biamonti, che comprendono 23 pagine di scritti, nella parte dedicata allo stato mentale di Mussolini risultano
marcatamente evidenziati in rosso da un funzionario di P.S.. L’intervista di Ludwig a Mussolini venne raccolta nella
primavera del 1932, nell’atmosfera e nell’euforia del «decennale» della marcia su Roma; cfr. Emil Ludwig, Colloqui
con Mussolini, Mondadori, Verona 1965.
27
ACS, CPC, b. 609, f. 98184, Biamonti Secondo, Ministero dell’interno, 4 novembre 1934.
28
Ivi, Breve relazione sullo stato di Biamonti Secondo, 6 novembre 1934 (copia). Il corsivo è mio.
29
Ivi, Prefettura Frosinone, 16 novembre 1934. Il corsivo è mio.
XI
dal Governo Fascista, per cui di quanto in quanto si fa eccitato e clamoroso e grida contro il duce e contro il
re. Talvolta, in seguito a vivaci allucinazioni diventa pericolosissimo; così, la notte del 7 luglio 1936, verso
le ore 3,30, in seguito a disturbi psicosensori aggrediva il personale di guardia, minacciava ed ingiuriava i
militi fascisti che prestano servizio d’infermieri […] Frattanto, in rapporto alle sue condizioni deliranti ed ai
disturbi sensori, questo infermo - come spesso i dementi paranoidi ed altri psicopatici - anche dopo
scomparse le allucinazioni è fermamente convinto della realtà di quanto avvenuto nelle crisi allucinatoriedeliranti, e lancia accuse insussistenti contro il personale e l’Istituto. Ne parla nei suoi colloqui con la sorella
Flora, che viene spesso a vederlo, la quale, da profana, crede a tutto quello che le dice il fratello e ne fa
oggetto di reclami e ricorsi alle Autorità.30
La prima considerazione da fare leggendo questi documenti è che, secondo le parole dello
stesso direttore, erano i militi fascisti a prestare servizio d’infermieri nel manicomio campano.
Possiamo immaginare quanto la motivazione ideologica potesse influenzare il grado di coercizione
nell’approccio del personale sanitario o di sorveglianza verso i ricoverati, specie per quelli segnalati
come antifascisti. Su questo punto, anche se relativo al caso tedesco, lo studio di Daniel Goldhagen
dimostra quanto il fattore umano possa rivelarsi determinante nell’esecuzione di direttive
criminali.31 Tuttavia non va dimenticato che per gli occupati nell'amministrazione pubblica, in
qualsiasi settore questa operasse - dall'istruzione alla previdenza, dalla sicurezza alla sanità l'appartenenza al PNF od alle organizzazioni del regime era una condizione propedeutica. Il
personale, quindi, non solo dei manicomi, ma di qualsiasi ospedale, non poteva non essere fascista.
La seconda riguarda la diagnosi di psicosi, che, per metà era costituita dall’osservazione
clinica del soggetto, per l’altra metà poggiava sul contegno serbato dallo stesso nei cinque anni
precedenti. Come a dire che la devianza nasceva dalla sua condotta politica, visto che, se si
escludono i reati di espatrio clandestino - commesso per sfuggire al fascismo - e di attività
antinazionale all’estero - svolta contro il fascismo - null’altro di penalmente rilevante pesava sul suo
passato. Le segnalazioni della polizia - sempre prodighe di descrizioni particolareggiate in tutti i
casi in cui i fatti potessero più o meno mostrare una particolare devianza morale degli antifascisti, al
fine di rilanciare i pregiudizi sulla collateralità tra marginalità, devianza e dissenso politico, nel suo
caso non segnalavano nessuna anormalità nella condotta sociale.
Sin dalla seconda metà dell’Ottocento la psichiatria si è imposta come «branca specializzata
dell’igiene pubblica» che, per giustificare il suo intervento nella società, deve mostrarsi in grado di
percepire «un determinato pericolo» anche là dove nessun altro poteva ancora vederlo.32 Lo
psichiatra ha assunto contemporaneamente il ruolo di medico e di tutore dell’ordine, chiamato ad
esprimere nella sua azione non solo l’ideologia medica ma anche quella dominante in una
30
Ivi, Questura di Roma, 31 gennaio 1938; nel documento viene riportata interamente la relazione del direttore.
Daniel Johan Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’olocausto, Mondadori, Milano 1997.
32
Michel Foucault, Gli Anormali. Corso al Collège de France 1974-1975, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 110-112.
31
XII
determinata organizzazione sociale in un dato periodo.33 Da questo punto di vista, allora, quanto
sostenuto dal direttore dell’ospizio di Ceccano rispetto alla sostanziale insensibilità di Biamonti
verso i nobili sentimenti superiori di famiglia, di patria di religione, non va visto solo come
l’individuazione di una scarsa affettività o dell’incapacità di porsi in relazione con il mondo
circostante - che potevano essere registrati come segni embionali di una patologia - ma anche come
la segnalazione di un pericolo latente, rappresentato dalla sua incapacità di disciplinarsi ai valori di
“Dio, Patria, Famiglia” che il regime aveva tracciato sui muri di tutta Italia.
L’ultima considerazione riguarda la diagnosi: psicoastenico a costituzione paranoide che, a
parere del direttore del Santa Maria della Pietà, era soggetto a crisi allucinatorie-deliranti. Una
definizione decisamente funzionale a far apparire come “pericolosissimo” un individuo
apparentemente normale. Per la criminologia degli anni Trenta, infatti, «grande interesse»
suscitavano quelle forme di criminalità che si sviluppavano in conseguenza di «deliri sistematizzati,
ossia di forme paranoiche» che rappresentavano «l’accentuazione» di un «preesistente
temperamento paranoide». I paranoici potevano essere divisi in due tipi: quello «comune» e quello
«criminale». Il primo, «solo occasionalmente» poteva essere «spinto al delitto», mentre il secondo,
«in conseguenza della sua particolare costituzione mentale», entrava molto spesso «in conflitto con
la società, per il fatto che la sua intransigenza» gli impediva «di sottostare e di adattarsi» alle
«leggi» della «collettività» e lo spingeva ad interpretare «come delle vessazioni quelle norme
generali di disciplina» che organizzavano la «vita comune». 34
Mario Sbriccoli ha sottolineato come il fascismo trasformò in leggi penali i capisaldi della
propria «ideologia politica»: il riconoscimento allo Stato di una propria morale e di una propria
etica che si identificavano con quella del regime, «l’idea fascista della famiglia», la visione
maschilista del rapporto tra i sessi, l'identificazione della religione cattolica come religione dello
Stato.35 Se, allora, tramite l’elevazione a tutela penale della propria visione della società, tutti i
diversi aspetti della vita sociale vennero progressivamente politicizzati secondo un preciso stile di
vita fascista - la maternità, l’infanzia, la scuola, il lavoro, il dopolavoro e persino le vacanze - quale
33
Franco Basaglia , Franca Basaglia Ongaro (a cura di), La maggioranza deviante. L'ideologia del controllo sociale,
Einaudi, Torino 1971, p. 20.
34
Benigno Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale. Applicata alla pedagogia emendativa, alla
polizia ed al diritto penale e penitenziario, Anonima Romana Editoriale, Roma 1931, pp. 277-279. Di Tullio, era
docente di antropologia criminale all’università di Roma e presso la scuola superiore di polizia. Sul suo manuale e sulle
sue definizioni delle diverse “costituzioni delinquenziali” torneremo a parlare nel terzo capitolo.
35
Mario Sbriccoli, Codificazione civile e penale, in Id., Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi ed inediti
(1972-2007), Giuffré Editore, Milano 2009, p. 987. Nel nuovo codice i delitti contro lo Stato vennero affrontati nel
capitolo denominato “Dei delitti contro la personalità dello Stato”. Il codice Zanardelli aveva affrontato gli stessi temi
inserendoli in un apposito capitolo, denominato però - la differenza è sostanziale - “Delitti contro la sicurezza dello
Stato”. Con la nuova definizione, l’oggetto di tutela giuridica si spostava dal diritto d'esistenza dello Stato alla
protezione di tutti gli interessi politici che lo Stato riconosceva come prioritari rispetto all'affermazione di una propria
personalità; cfr. anche Guido Neppi Modona , Marco Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, in Luciano
Violante (a cura di), Storia d'Italia. La criminalità, Annali, Einaudi, Torino 1997, pp. 789-795.
XIII
era il limite che restava a dividere le leggi politiche da quelle dell’organizzazione sociale? Quale era
il confine che separava la devianza e la pericolosità politica dalla pericolosità sociale, elemento,
quest’ultimo, che giustificava il ricovero coatto in manicomio?
I manicomi e il fascismo
Il manicomio nasce come istituzione preposta al controllo di quella «particolare forma di
devianza sociale che è l'alienazione» e rappresenta «il più sofisticato dispositivo terapeutico e
insieme segregante» elaborato nel corso del dell'Ottocento e del Novecento.36
In Italia, differentemente da altri paesi come la Francia o l'Inghilterra, l'avvio di quelli che
Klaus Dörner ha definito processi di «segregazione della non ragione» non si era determinato
all'interno di una cornice statuale già formata e ben consolidata. 37 La storia della psichiatria si era
intrecciata con le vicende politiche nazionali sin dal Risorgimento.38
Nel 1865, nel pieno del processo di unificazione politico-amministrativa, alle province era
stato affidato il compito di mantenere i «mentecatti poveri» e di costruire edifici pubblici a loro
destinati.39 Da quel momento gli psichiatri erano stati chiamati a confrontarsi con il problema della
uniformazione delle procedure e delle regole che disciplinavano i diversi modi di trattare la follia
negli stati preunitari, mentre la classe dirigente del nuovo Stato con la necessità di amministrare
l'edilizia manicomiale acquisita.40 L'affermazione della psichiatria come scienza clinica e la
36
Alberto De Bernardi, Malattia mentale e trasformazioni sociali. La storia dei folli, in Id. (a cura di), Follia,
psichiatria e società. Istituzioni manicomiali, scienza psichiatrica e classi sociali nell'Italia moderna e contemporanea,
Franco Angeli, Milano 1982, pp. 12-13
37
Ferruccio Giacanelli, Appunti per una storia della psichiatria in Italia, introduzione al volume di Klaus Dörner, Il
borghese e il folle. Storia sociale della psichiatria, Laterza, Roma-Bari, 1975, p. XI.
38
Carlo Livi (1823-1877), ad esempio, che nel 1873 sarebbe diventato direttore dell'Ospedale psichiatrico San Lazzaro
di Reggio Emilia, aveva preso parte ai moti del 1848; insieme ad altri studenti universitari, si era poi arruolato tra i
volontari in alcune battaglie della prima guerra d'indipendenza; cfr. AAVV, Dizionario biografico degli italiani, cit.,
Volume LXV, 2005, ad nomen.
39
Articolo 174 , comma 10, Legge n. 2248 del 20 marzo 1865 per l'unificazione amministrativa del regno d'Italia.
Prima dell'unificazione erano i comuni a provvedere al ricovero dei maniaci.
40
A Venezia la Sezione per malati di mente nell'Ospedale dell'isola di San Servolo era stato istituita nel 1725. In
Toscana, negli anni ottanta dello stesso secolo, l'Ospedale San Bonifazio di Firenze era stato riadattato a casa per malati
di mente, diretta da Vincenzo Chiarugi, uno dei fondatori dell'impostazione razionale e scientifica nella trattazione del
problema della malattia mentale. Il decreto fondativo con il quale Gioacchino Murat aveva istituito ad Aversa un
ricovero per i malati di mente risale invece al 1813. La restaurazione borbonica avrebbe mantenuto la struttura,
affiancandola alla “Real casa dei matti” di Palermo, inaugurata nel 1824. Lo stesso anno era stato inaugurato il
manicomio “Santa Margherita”, a Perugia, e nel 1829 il “San Benedetto” di Pesaro, entrambi nel territorio pontificio.
L'Ospedale San Lazzaro di Reggio Emilia era stato trasformato in “Stabilimento Generale delle Case de' Pazzi degli
Stati Estensi” con un decreto del 1821. La struttura aveva cominciato a funzionare nel XII secolo come ricovero dei
lebbrosi ai quali, dal XVI secolo, si erano aggiunti “invalidi, epilettici, storpi, sordumuti, ciechi e paralitici”. Dal XVIII
aveva cominciato ad ospitare solo i “mentecatti poveri”. Roma ospitava da secoli un ricovero di mendicità poi
trasformato in manicomio: il Santa Maria della Pietà, dal nome della confraternita che lo aveva istituito in un monastero
in occasione dell'Anno Santo 1550, come ospedale per i pellegrini; per le informazioni sulla fondazione di alcuni degli
ospedali psichiatrici cfr. la pagina web del SIUSA (Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenza Archivistiche)
dedicata al progetto “Carte da legare”, avviato nel 1999, con l'obiettivo di censire e valorizzare gli archivi dei
manicomi: www.siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=profist&Chiave=1&RicProgetto=carte
XIV
crescente esigenza di controllo sociale stimolata dalle trasformazioni introdotte dalla seconda
rivoluzione industriale avevano poi trovato sbocco nella costruzione di nuovi manicomi o nel
riammodernamento dei vecchi.41
L'edificazione di nuovi istituti deputati all'internamento psichiatrico si era protratta fino a
dopo l'approvazione della Legge del 1904, con l'obiettivo di dotare tutte le province del regno di
adeguate strutture. Il nuovo complesso del Santa Maria della Pietà - progettato secondo lo spirito
del «manicomio-villaggio» e realizzato tramite la costruzione di diversi edifici distribuiti su
centocinquanta ettari di terreno, collegati da circa sette chilometri di strade - era stato inaugurato da
Vittorio Emanuele nel maggio del 1914. Era il manicomio più grande d'Europa.42
Negli stessi anni, l'affermazione del potere medico-psichiatrico si era estesa fino alle pieghe
del potere giudiziario. L'idea di manicomio criminale come luogo di «cerniera fra la psichiatria e la
41
Nel 1871 cominciò a funzionare il manicomio di Racconigi, in provincia di Cuneo. Altre provincie piemontesi
ospitavano già ospedali per pazzi: a Torino (1728), Alessandria (1850) e Novara (1875). Anche a Macerata il nuovo
manicomio provinciale venne inaugurato nel 1871. La sede era stata individuata in un convento cinquecentesco. Nel
1873, i folli di Parma ospitati in un ex convento furono trasferiti in una villa ducale a Colorno, a quindici chilometri dal
capoluogo. Quattro anni dopo la decisione sarebbe diventata definitiva. Nello stesso periodo, sotto la direzione di Carlo
Livi, il manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia venne riammodernato procedendo all'allargamento dei padiglioni e
alla creazione di nuovi laboratori scientifici. Nel 1881, la provincia di Napoli sostituì una precedente struttura destinata
ai malati di mente con un fabbricato nel centro della città. Nel 1890, ne divenne direttore lo psichiatra Leonardo
Bianchi, futuro relatore della Legge sui manicomi e gli alienati, che si adoperò subitò per dar corso alla progettazione ed
alla costruzione di un nuovo e più grande ospedale, ultimato nel 1909 e dal 1927 intitolato ad egli stesso. La Sezione per
dementi all'interno dell'ospedale per i poveri di Volterra fu inaugurata nel 1888. Nei decenni successivi, con la
costituzione della Sezione giudiziaria, la struttura ospitata dalla cittadina toscana sarebbe diventata una delle più grandi
in Italia. L'Ospedale psichiatrico Vincenzo Chiarugi di Firenze - detto di San Salvi, dal nome del quartiere dove era
stato costruito - venne aperto ufficialmente nel 1891, come risposta alle condizioni di sovraffollamento in cui versava la
Casa per malati di mente San Bonifazio. Il nuovo ospedale psichiatrico di Quarto, a Genova, venne costruito nel 1895,
sostituendo progressivamente la vecchia struttura progettata sul modello panoptico. Quello di Ancona nell’autunno del
1901. Tra il 1871 ed il 1901, nel Meridione vennero costruiti quattordici nuovi manicomi. Alcuni, come quello di
Teramo, avevano cominciato a funzionare come sezioni dell’ospedale civile. Il manicomio bolognese detto “di
Sant'Isaia” venne ristrutturato nel 1907, anche grazie al lascito testamentario dello psichiatra Francesco Roncati, che ne
era stato direttore fino al 1905. Al termine dei lavori l'ospedale ne avrebbe assunto il nome; cfr. Daniela Caffaratto, Gli
archivi degli ex ospedali psichiatrici in Piemonte, in Luigi Contegiacomo, Emanuele Toniolo (a cura di), L'alienazione
mentale nella memoria storica e nelle politiche sociali: “Chisà che metira fuori un calcheduni da stomanicomio”, Atti
del Convegno di Studi promosso e organizzato dall'Archivio di Stato di Rovigo in collaborazione con il Dipartimento di
Salute Mentale dell'Azienda ULSS 18 di Rovigo e l'Associazione Archivistica Italiana - Sezione Veneto, 11-12
dicembre 2003, Minelliana, Rovigo 2004, pp. 59-66; nello stesso volume cfr. anche Marzia Moreni, Storia
dell'Ospedale psichiatrico di Colorno, pp. 68-69 e Aurelia Casagrandre, L'Opsedale psichiatrico provinciale
“Francesco Roncati” in Bologna, p. 87; Maria Palma, Il censimento degli Ospedali Psichiatrici nelle Marche
nell'ambito del progetto “Carte da legare” e Evio Hermas Ercoli, Dall'ospizio dei mentecatti al manicomio di
Macerata, entrambi in Giovanni Danieli (a cura di) Manicomi marchigiani. Le follie di una volta, il lavoro editoriale,
Ancona 2008; Marzio Dall'Acqua, Maristella Miglioli, Maurizio Bergomi, Considerazioni di metodo per la storia della
psichiatria. Una ricerca sul San Lazzaro di Reggio Emilia, in “Quaderni Storici”, n. 49, Ancona-Roma, aprile 1982, pp.
309-311; Candida Carrino, Gli archivi dei manicomi in Campania, in Candida Carrino, Nicola Cunto, La memoria dei
matti. Gli archivi dei manicomi in Campania tra XIX e XX secolo e nuovi modelli di psichiatria, Filema, Napoli 2006,
pp. 74-78; Donatella Lippi, San Salvi. Storia di un manicomio, Olschki, Firenze 1996; Massimo Quaini, Il modello
panoptico nel primo manicomio di Genova, in "Movimento operaio e socialista", Anno III, n. 4, ottobre dicembre 1980;
Gabriella Boyer, Appunti per una storia del manicomio di Ancona, in “Storia e problemi contemporanei”, n. 60, a.
XXV, maggio-agosto 2012, p. 175; Annacarla Valeriano, L’ospedale psichiatrico Sant’Antonio Abate di Teramo nelle
lettere degli internati (1892-1917), in “Storia e problemi contemporanei”, n. 60, a. XXV, maggio-agosto 2012, p. 141.
42
Bruno Tagliacozzi, Adriano Pallotta, Scene da un manicomio. Storia e storie del Santa Maria della Pietà, Edizioni
Magi, Roma 2004, pp. 27-28.
XV
giustizia penale» aveva cominciato ad imporsi a partire dal 1870. 43 -Nel 1872 era stata prodotta la
prima inchiesta sul numero dei pazzi criminali internato nei manicomi. Lo stesso anno Cesare
Lombroso aveva pubblicato il suo primo studio sull'argomento - Sull'istituzione dei manicomi
criminali in Italia - al quale erano seguiti i lavori di altri psichiatri, criminologi e penalisti. Al
crescere del dibattito era seguita la nascita della casa penale invalidi - sezione maniaci di Aversa: il
primo embrione di manicomio criminale italiano, ospitato inizialmente da un ex convento e poi
ampliatosi negli anni fino ad includere una fortezza aragonese.
Come vedremo più avanti, una prima sistemazione legislativa era stata contemplata solo nel
1889, con il Codice Zanardelli, che aveva identificato il ricovero in manicomio criminale (senza
nominarlo mai all'interno del codice) come «misura di sicurezza». Tuttavia, il ritardo nella
legislazione non aveva frenato la realizzazione di nuove strutture: nel 1886, una antica villa
medicea appena ristrutturata era stata riaperta come manicomio criminale, a Montelupo Fiorentino.
Nel 1897 sarebbe stato inaugurato anche il manicomio criminale di Reggio Emilia, ricavato
all'interno di un convento nel cuore della città. Reparti per gli imputati in osservazione psichiatrica
a fini giudiziari sarebbero stati invece predisposti in alcuni manicomi civili, come il Santa Maria
della Pietà o i manicomi di Imola o di Nocera Inferiore.44
Le strutture destinate a stabilimenti per i ricoverati erano state pensate e realizzate
rispettando i principi di classificazione ed individualizzazione del trattamento clinico acquisiti dalla
psichiatria.45 Come è stato ricordato per il manicomio di Reggio Emilia - ma lo stesso discorso
potrebbe essere esteso a tutte le altre realtà, dato che il tema era ampiamente discusso ed
approfondito in sede scientifica - «l'architettura, gli edifici, i padiglioni, ogni minimo particolare
43
Ferruccio Giacanelli, Il medico, l'alienista, in Frigessi, Giacanelli, Mangoni, Cesare Lombroso. Scritti scelti, cit., p.
34.
44
Renzo Villa, "Pazzi e criminali": strutture istituzionali e pratica psichiatrica nei manicomi criminali italiani (18761915), in "Movimento operaio e socialista", Anno III, n. 4, ottobre - dicembre 1980, pp. 371-375. Per una descrizione
dei manicomi criminali di Aversa, Montelupo Fiorentino e Reggio Emilia e dell'umanità dolente che li popolava cfr.
Luigi Rusticucci, Nelle galere. Storia di Clinica criminale con la descrizione dei penitenziari e dei manicomi italiani,
Società editrice Partenopea, Napoli 1925, pp. 135-154, 165-188 e 223-240; sullo stesso tema cfr. anche Giovanna Fanci,
L'istituzione del manicomio criminale nel dibattito delle scienze penalistiche tra XIX e XX secolo, Tesi di laurea in
Storia del diritto penale, Relatrice Prof.ssa Isabella Rosoni, Università di Macerata, Facoltà di Giurisprudenza, Anno
accademico 1998-1999, pp. 262-337.
45
Luigi Scabia, Direttore del manicomio di Volterra e psichiatra dalle convinzioni innovative rispetto al trattamento dei
malati, aveva esposto in un trattato quali dovevano essere le migliori regole da rispettare per la costruzione di un
manicomio. La struttura doveva essere edificata in un luogo sano ed elevato rispetto al mare, in luogo asciutto ed areato.
Doveva avere molta spazio intorno e perciò doveva essere abbastanza distante dal centro di una città ma non troppo;
meglio se costruito nei pressi del capoluogo della provincia, che, in quanto città più popolosa, oltre a fornire il numero
più elevato di malati avrebbe fornito anche i beni ed i servizi necessari all'ospedale. Esistevano molte tipologie
strutturali da poter seguire: i manicomi si costruivano come un corpo di fabbrica unico, ad un piano o su più livelli. I
padiglioni potevano essere contigui o sparsi nello spazio circostante. La scelta tra le diverse possibilità doveva essere
basata sulle considerazioni rispetto alle risorse ed alla sorveglianza (più i padiglioni erano distanti più la sorveglianza
diventava dispendiosa); cfr. Luigi Scabia, Trattato di terapia delle malattie mentali: ad uso dei medici e degli studenti,
Unione Tipografico Editrice, Torino 1900, pp. 431-438.
XVI
non era lasciato al caso, ma era studiato nella duplice funzione terapeutica e custodialistica».46
Donne e uomini venivano sistemati in complessi separati che venivano ulteriormente frazionati e
divisi in padiglioni destinati ai malati in osservazione, ai malati tranquilli, ai semiagitati, agli agitati,
ai pericolosi e, a volte, ai sudici, ai clamorosi e ai criminali. Le soluzioni architettoniche venivano
adottate cercando di stemperare gli aspetti segreganti dettati dalle esigenze di custodia. Le scelte
edificatorie, «l'importanza assegnata all'orientamento spaziale, alla luce ed alla salubrità»,
segnavano passi avanti importanti rispetto al «modello panottico di tipo carcerario» che era stato
utilizzato fino a quel momento.47
L'adozione dei principi che fondavano il sistema open door, nonostante il contesto italiano
fosse stato caratterizzato da numerose resistenze all'adozione delle pratiche manicomiali suggerite
dalle nuove acquisizioni della scienza psichiatrica, in parte aveva influenzato le scelte sulle
soluzioni da adottare e sull'organizzazione degli spazi manicomiali.48 Le finestre dei manicomi,
seppur protette da inferriate, a volte erano state fatte forgiare «con motivi vegetali e simmetrici». 49
In alcuni casi, collaborando alla progettazione degli edifici, gli psichiatri stessi avevano chiaramente
espresso la volontà di non voler costruire «un nuovo luogo di reclusione» ma un luogo dove
potevano essere riprodotte le «condizioni della vita libera», senza mura evidenti a circondare il
complesso.50
Il simbolo dell'armonia, della pace e della creazione di condizioni di tranquillità come
elementi di cura era rappresentato dal parco dell'ospedale. Il Santa Maria della Pietà ne inglobava
uno molto grande, con alberi ad alto fusto, giardini ed alte siepi dietro alle quali stavano nascoste le
reti di recinzione. Il muro di sicurezza era stato previsto solo per delimitare il padiglione XVIII,
quello destinato ai criminali.51 Anche a Montelupo Fiorentino, erano gli alberi che accompagnavano
il visitatore sin dal «bellissimo» viale d'ingresso a controbilanciare l'impatto con «la massa grande
ed oscura del manicomio criminale». Ampi cortili esterni erano destinati al passeggio dei malati
tranquilli, mentre per i pericolosi in isolamento erano stati fatti allestire «cortiletti di passeggio
46
Dall'Acqua, Miglioli, Bergomi, Considerazioni di metodo per la storia della psichiatria, cit., p. 312.
Vinzia Fiorino, Fonti psichiatriche: archivi di carte, archivi di idee, in Contegiacomo, Toniolo, L'alienazione mentale
nella memoria storica e nelle politiche sociali, cit., p. 102.
48
L'open door, detto anche «sistema scozzese», prevedeva l'organizzazione della parte del manicomio destinata ai
tranquilli sul modello di un villaggio, con un relativo alto grado di libertà al suo interno e senza barriere o impedimenti
strutturali apparenti; cfr. Peloso, La guerra dentro, cit., p. 221, nota 28. Sin dagli anni Settanta dell'Ottocento, una
accurata indagine condotta sui «tipi edilizi manicomiali» italiani si era conclusa auspicando l'abbandono dell'adozione
delle «forme simmetriche» o «a stretto rigore di geometria», perché inevitabilmente producevano «quel complesso che
richiama[va] alla mente un luogo di reclusione»; cfr. l'intervento dell'architetto F. Azzurri al Secondo congresso della
Società freniatrica italiana, Aversa 1877, in Del Peri, Il medico e il folle, cit., p. 1116.
49
Francesca Mannucci (a cura di), Ospedale neuropsichiatrico di Macerata. Inventario dell’archivio (1822-1998),
Relazione storica presentata al termine della inventariazione dell'Archivio dell'Ospedale psichiatrico di Macerata, p. 8.
50
Boyer, Appunti per una storia del manicomio di Ancona, cit., p. 174.
51
Tagliacozzi, Pallotta, Scene da un manicomio, cit., p. 28.
47
XVII
individuali».52 I tetti rossi, romanzo di memorie e ricordi di Corrado Tumiati - psichiatra che aveva
lavorato prima nel manicomio di Pesaro, poi in quello di Siena ed infine, dal 1913, in quello di
Venezia - fornisce un descrizione privilegiata delle impressioni che potevano essere ispirate
dall'osservazione del parco di un manicomio e del brulicare della vita che vi si svolgeva: grandi
alberi «rigidi, contorti» e «solenni»; «squarci d'azzurro fra i rami verdissimi. Sotto le fronde un
popolo bizzarro oscilla senza mèta in un clamore confuso».53
Il Regolamento del 1909 aveva previsto che ogni manicomio non potesse ospitare «che il
numero di alienati consentito dalla capacità dei locali di cui dispone». 54 Tale disposizione venne
tuttavia smentita nel volgere di qualche tempo, ed il sovraffollamento cominciò a caratterizzare le
condizioni dei manicomi.55 Già nel 1925 il manicomio di Trieste giunse ad ospitare
settecentocinquanta malati su un totale di cinquecento posti.56 Nel 1930, il numero di pazienti
registrati nei padiglioni di Mombello, oltre 3700, fece aggiudicare al manicomio lombardo il
primato nazionale.57
Il cronico ritardo nell'approntare risposte all'aumento degli internamenti costrinse il fascismo
a cimentarsi con l'edificazione di nuovi ospedali psichiatrici provinciali: a Bisceglie (1922-1933),
Rovigo (1930), Agrigento (1931), Reggio Calabria (1932), Siracusa e Trapani (1934), Vercelli
(1937) e Varese (1939).
Dall'inizio degli anni venti problemi simili avevano cominciato ad
attanagliare anche i manicomi giudiziari, provocati dal «numero sempre crescente di criminali» che
perdevano «il senno nelle segrete delle varie case di pena». 58 Con l'intento di tamponarli, erano stati
ultimati i lavori dell'istituto messinese di Barcellona Pozzo di Gotto (nel 1925), la cui costruzione
era stata interrotta dopo il terremoto del 1908 e, negli anni successivi alla marcia su Roma si erano
fatti eseguire lavori di ampliamento anche ad Aversa. Nel 1939, il Ministero di Grazia e Giustizia
52
Rusticucci, Nelle galere, cit., pp. 165-166.
Corrado Tumiati, I tetti rossi. Ricordi di manicomio, Marsilio, Venezia 1987, p. 13.
54
Articolo 3 del Regio Decreto n. 615, Regolamento sui manicomi e gli alienati.
55
Il sovraffollamento aumentava le difficoltà che gravavano sull'intervento medico, diagnostico e terapeutico.
Un'inchiesta condotta da Gustavo Modena nel 1926 rilevò che la proporzione tra il numero di medici presenti negli
ospedali psichiatrici pubblici e i ricoverati era di uno ogni centotrentotto. Nelle «Case di cura per abbienti», definizione
utilizzata nella redazione dell'inchiesta per indicare le cliniche psichiatriche private, la proporzione si riduceva ad un
medico ogni diciannove ricoverati; cfr. Romano Canosa, Storia del manicomio in Italia dall'unità ad oggi, Feltrinelli,
Milano 1979, pp. 154-155, nota n. 8.
56
Valeria Paola Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, il Mulino, Bologna 2009,
p. 62.
57
Secondo l'opinione del capo della provincia di Milano, dove insisteva lo stesso manicomio di Mombello, le ragioni
dell'«imponente» aumento del numero dei ricoverati registrato all'inizio degli anni Trenta andavano ricercate
nell'affacciarsi dei primi effetti della crisi economica, che poneva le famiglie di fronte alla necessità di rinunciare
all'affidamento in custodia previsto dall'articolo 69 del Regolamento del 1909, in quanto dovevano poi provvederne al
mantenimento; cfr. Del Peri, Il medico e il folle, cit., p. 1127.
58
Rusticucci, Nelle galere, cit., p. 224.
53
XVIII
stipulò infine una convenzione con l'Ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere per
l'apertura della nuova, ed ultima, sezione giudiziaria.59
Durante il fascismo, lo spirito seguito nella progettazione e nella costruzione degli ospedali
psichiatrici restò invariato rispetto al periodo precedente. Secondo Emilio Padovani, affermato
psichiatra già nel dopoguerra e primo direttore dell'Ospedale psichiatrico di Rovigo - che aveva
contribuito a portare a compimento e ad attivare dal 1930 - il nuovo manicomio corrispondeva «a
pieno alle moderne esperienze dell'assistenza psichiatrica». Una relazione pubblicata nel 1931 nella
rivista “Note e Riviste di Psichiatria” ne avrebbe elogiato l'«armoniosa edilizia» e «la felice
organizzazione».60 Ogni padiglione dello stabilimento per criminali alienati di Barcellona Pozzo di
Gotto, invece, ospitava un'area di circa mille metri quadrati destinata al passeggio, e poi vigne, orti,
larghe zone alberate e giardini, che, a parere del suo direttore Vittorio Madia, dovevano infondere
«una nota di gaiezza» a quel «luogo di dolore». Il 6 maggio del 1925, all'inaugurazione, era
intervenuto anche il ministro Alfredo Rocco. L'anno successivo sarebbe stata invece posta una
lapide, a testimonianza della collocazione del fascio littorio sull'ingresso principale: l'emblema recitava l'epigrafe - era stato innalzato «su questo calvario di vivi» come «simbolo di luce e di
commossa umanità».61 Il manicomio di Vercelli, infine, uno degli ultimi ad essere inaugurato dal
fascismo (nel 1937), ospitava tredici padiglioni, tra i quali uno destinato ai paganti con «camerette
ad uno o due letti», corredate dai «più moderni conforti igienici». Solo i cortili per gli agitati erano
delimitati da un muro di cinta; tutti gli altri da rete metallica. Le sbarre alle finestre erano ridotte al
minimo. Al piano terra del padiglione per tranquilli e in tutti i locali destinati a refettorio o ai bagni,
scriveva con una punta d'orgoglio Eldo Broggi, il primo direttore dell'istituto, non esistevano
«inferriate». L’interno di tutti i padiglioni era «molto luminoso, ben areato», tinteggiato con colori
«armonici e riposanti».62
Al di là delle intenzioni manifestate dagli psichiatri e dai progettisti, le impressioni destate
nei pazienti dall'architettura manicomiale - descritte efficacemente nella denuncia di Biamonti citata
all’inizio - difficilmente andavano oltre l'angoscia e l'oppressione, provocate dalle porte di ferro, dai
59
Per le informazioni citati sulla fondazione dei manicomi giudiziari e dei manincomi privinciali cfr.
www.siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=profist&Chiave=1&RicProgetto=carte
60
Luigi Pesaresi, Il luogo dei sentimenti negati. L'Oospedale Psichiatrico di Rovigo (1930-1997), Minelliana, Rovigo
1999, pp. 64-65.
61
Vittorio Madia, Il Manicomio Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in Estratto dalla “Rivista di diritto
penitenziario”, n. 4, luglio-agosto 1932, Tipografia delle Mantellate, Roma 1932, pp. 4-8.
62
Eldo Broggi, L’ospedale psichiatrico provinciale di Vercelli, Società anonima vercellese, Vercelli 1939, in E.
Lomonaco, Storia del manicomio di Vercelli, Tesi di specializzazione presso l'Università degli studi di Bologna, Facoltà
di Medicina e Chirurgia, Scuola di specializzazione in Psichiatria, Anno accademico 1979-1980, pp. 50-52.
XIX
cancelli e dalle mura: dovunque «sbarre e sbarre; prigione più tremenda del carcere giudiziario»,
scrisse ad esempio nelle sue memorie una ex internata nel manicomio a Siena.63
Antifascisti in manicomio
Dalla lettura delle 44.540 biografie di antifascisti schedati nel Casellario politico centrale
curate da Adriano Dal Pont per i Quaderni dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani
- che contengono informazioni sulla nascita, la professione e l’orientamento politico dei singoli
soggetti, nonché alcune sommarie indicazioni sul loro percorso repressivo - sono emersi 473 casi l’1,06% del totale - di donne e uomini sottoposti ad internamento psichiatrico che, molto spesso,
aggiunsero questa forma di segregazione alle loro precedenti esperienze di reclusione nelle carceri o
nelle isole di confino.64 Le biografie tratte dai Quaderni, inoltre, permettono di raggruppare gli
antifascisti finiti in manicomio in base al luogo di nascita. Ciò rende possibile vedere come, in certe
province, il ricorso alla misura manicomiale a carico di oppositori schedati nel CPC fosse pari a zero come nel caso Piacenza - mentre in altre, come a Caserta, territorio in cui ricadeva la cittadina di Aversa
- che ospitava sia il manicomio civile Santa Maria Maddalena, che per anni aveva funzionato come
unica sede di ricovero per malati di mente di tutto il Meridione, sia quello criminale - fosse superiore al
7 per cento.65
E’ possibile allora ipotizzare che sia esistito un rapporto preciso ed esplicito tra psichiatria,
segregazione psichiatrica e repressione dell’antifascismo?
Già Dal Pont, nella introduzione ai Quaderni, si diceva colpito dal «considerevole numero di
sovversivi internati in manicomio», suggerendo come spesso si trattasse di una «misura repressiva e
non terapeutica, dato che il ricoverato» - come dimostra il fitto scambio di comunicazioni che
intercorreva tra questure ed ospedali psichiatrici - «era comunque sottoposto a stretta vigilanza
poliziesca».66 Alcune ricerche pubblicate negli ultimi anni su singoli casi o su singole realtà
manicomiali hanno contribuito a far emergere le vicende di soggetti schedati come antifascisti poi
transitati negli ospedali psichiatrici.67 Come già sottolineato da Massimo Moraglio, però, ancora
63
Margherita Adamo, Centodieci e droga, in Saverio Tutino (a cura di), Diario italiano. Memorie, diari, epistolari
dell’Archivio di Pieve Santo Stefano, n. 2, Giunti, Firenze 1991, p. 27, 30 luglio 1940. Nata nel 1902 e figlia di un
ufficale dell'esercito, l'autrice aveva cominciato ad abusare di morfina e nel 1940 era stata internata nel manicomio di
Siena in osservazione.
64
Adriano Dal Pont, (a cura di), Antifascisti italiani nel Casellario Politico Centrale, Edizioni Anppia, Roma 1994,
Quaderni 1-19.
65
Su 103 nati in provincia di Caserta e schedati nel CPC, 8 transitarono per i manicomi. Il confronto tiene conto del
numero degli schedati in CPC proveniente da ogni provincia in rapporto a quanti tra questi sono poi finiti in manicomio.
Il confronto tiene conto anche dei possibili cambiamenti di residenza.
66
Ivi, Quaderno 1 p. 21, Introduzione.
67
Cfr., ad esempio, Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare. I volti e le storie, Manifestolibri, Roma 2009, pp. 34-40;
Massimo Tornabene, La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra fascismo e Liberazione, Araba Fenice, Boves
XX
non esiste una visione d’“insieme”, e per ora possiamo solo «presumere» - poiché «occorrerebbero
studi specifici» e distribuiti su varie parti del territorio nazionale - l’«uso manifestatamene politico
del manicomio» da parte del fascismo italiano.68
Il dato raccolto dalla lettura dei Quaderni dell’ANPPIA si può incrociare con i risultati di
due approfondimenti archivistici, relativi al periodo che va dal 1922 al 1943: il primo presso
l’Archivio di Stato di Bologna e il secondo presso quello di Macerata, dove, come negli altri archivi
di Stato periferici, sono conservati i fascicoli degli oppositori delle varie province che le questure
avevano attenzionato pur non ritenendoli abbastanza pericolosi da dover essere inseriti nel
Casellario politico centrale. Dal punto di vista quantitativo i dati emersi permettono di delineare una
prima, ipotetica, proiezione su scala nazionale. Rispetto ai fascicoli aperti dal Ministero dell’Interno
e conservati nel Casellario politico il numero degli antifascisti manicomializzati nel periodo preso
in esame è di 4 nel caso di Macerata e di 24 nel caso di Bologna. Il loro numero aumenta tuttavia di
molto se si considerano anche gli internamenti psichiatrici di antifascisti schedati solo dalle autorità
locali, passando a 7 nella cittadina marchigiana e a 39 nel capoluogo emiliano. Estendendo queste
proporzioni anche agli altri archivi provinciali, il totale degli oppositori politici internati in
manicomio crescerebbe quindi in modo significativo, probabilmente fino al migliaio di casi. 69
Probabilmente, in molti di questi internamenti la segregazione manicomiale potrebbe essere
considerata come una misura “classica” di difesa sociale da quei gruppi marginalizzati e
tendenzialmente pericolosi che, dalla fine del XVIII secolo, avevano ossessionato medici, psichiatri,
criminologi e giuristi impegnati a combattere sia la degenerazione sociale che le sue manifestazioni,
come la recidiva, la prostituzione, il vagabondaggio, l’ozio o la diffusione dell’alcolismo.70
Tale ossessione si sarebbe rafforzata nel corso del XIX secolo (specie a seguito dei
sanguinosi fatti della Comune di Parigi, che avevano dato la spinta decisiva agli studi sulla
psicologia delle folle ed alla diffusione del pregiudizio che associava il consumo di alcool e la
criminalità al sovversivismo) nel corso del quale si sarebbe operata anche una ridefinizione «in
termini razziali» delle classi lavoratrici, considerate inferiori e barbare. Anche «l’inuguaglianza
2007, pp. 79-82 e Paolo Francesco Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (19221945), Ombre corte, Verona 2008, pp. 45-54;
68
Massimo Moraglio, Dentro e fuori il manicomio. L’assistenza psichiatrica in Italia tra le due guerre, in
«Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del 900», Anno IX, n. 1, gennaio 2006, pp. 32-33.
69
La ricerca sui fondi dell’Archivio di Stato di Bologna è stata facilitata dall’importante lavoro di archiviazione
dell’anagrafe dell’intera categoria A8 (consultabile anche in rete) presentata in occasione della giornata di studi “Male
Qualità”. Controllo di polizia e azione giudiziaria tra Otto e Novecento nella carte dell’Archivio di Stato di Bologna,
promossa dall’Archivio di Stato di Bologna il 22 ottobre 2010. Le informazioni sugli schedati comprendono, oltre ai
dati anagrafici, alcune sommarie indicazioni sull’applicazione di misure giudiziarie o di polizia e sull’adozione di
misure di sicurezza. La ricerca nell’Archivio di Stato di Macerata, meno corposo di quello bolognese - nella categoria
A8 sono conservate infatti soltanto 27 buste - è stata condotta dal sottoscritto.
70
Luis Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Laterza, Bari 1976; Michel
Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 11-25 e pp. 43-59.
XXI
sociale di fronte alla malattia» sarebbe divenuta una conferma della «degenerazione fisica e morale
del proletariato».71 Il Novecento non si sarebbe discostato da questa impostazione giungendo anzi a
rafforzare il presunto legame tra il “vizio del bere”, la marginalità e la militanza rivoluzionaria.
L’economista Maffeo Pantaleoni, ad esempio, considerato che l’alcool e la sifilide diffusi tra i bassi
ceti sociali provocavano la lesione dei centri nervosi inibitori, avrebbe sostenuto che il consenso
riscosso dai socialisti tra i lavoratori potesse essere spiegato dall’esistenza di vizi biologici
ereditari.72
Nel giudizio delle autorità, l’abuso di alcool si accompagnava ad altri fenomeni, come il
vagabondaggio, l’ozio o una sessualità disordinata. Sul tema della devianza torneremo anche più
avanti, ma per ora possiamo sottolinearne alcuni aspetti. Il primo riguarda le fonti utilizzate, che, in
larga parte, provengono dagli archivi di polizia e degli istituti psichiatrici. Questo tipo di archivi
sono stati definiti come «archivi dell’emarginazione», in quanto dalla documentazione in essi
presente risulta sempre «più facile trovare il punto di vista delle classi dominanti» (spesso
stereotipato) ed «il dispiegarsi delle loro strategie di controllo» piuttosto che la narrazione delle
forme di resistenza delle classi subalterne.73 Il secondo aspetto da sottolineare riguarda i pregiudizi
sulla presunta collateralità tra devianza e sovversivismo, che non scomparvero durante il Ventennio,
ma anzi si rafforzarono ulteriormente, fino a prevedere forme di accanimento giudiziario verso
quegli individui provenienti da quella parte di popolazione marginalizzata, reietta e disperata che si
mostravano meno inclini a subordinarsi alle regole. In un libro del 1930, ad esempio, pubblicato a
commento del progetto del nuovo codice penale in via di approvazione, il magistrato Baldassarre
Cocurullo scrisse, a proposito delle misure di sicurezza che il codice introduceva a corredo o in
alternativa ad una condanna, che «merito» del progetto era quello di «aver riconosciuto che la
categoria più numerosa dei delinquenti», per i quali queste misure si rendevano «assolutamente
necessarie», era «quella composta dagli individui viventi nei bassifondi sociali; vagabondi,
sfruttatori, esercenti di ignobili mestieri». Secondo il magistrato, infatti, oltre ad isolare i più
pericolosi, le misure di sicurezza dovevano servire anche e soprattutto a strappare «l’individuo dalle
abitudini viziose» e ad imporgli «abitudini di lavoro» e norme di vita.74 Erano i poveri, gli esclusi, i
71
Enzo Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, il Mulino, Bologna 2002, p. 129. Per l’associazione tra
alcoolismo e sovversivismo tra i comunardi cfr. Alain Corbin, I massacri nelle guerre civili della Francia (1789-1871),
in Gabriele Ranzato, Guerre Fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 243;
Pier Maria Furlan, Rocco Luigi Picci, Alcol, alcolici, alcolismo, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 134-135 e Jean
Charles Sournia, Alcolismo. Storia e problemi, Società editrice internazionale, Torino 1991, p. 129; Sul dibattito
provocato all’indomani della comune dalla presenza di numerosi recidivi tra i capibarricata cfr. Paolo Marchetti,
L'armata crimine. Teoria e repressione della recidiva in Italia. Una genealogia, Cattedrale, Ancona 2008, pp. 112-113.
72
Angelo Ventrone, Il nemico interno. Immagini, parole e simboli della lotta politica nell’Italia del Novecento, Roma,
Donzelli, 2006, p. 14.
73
Antonio Gibelli, Emarginati e classi lavoratrici. Le ragioni di un nodo storiografico, in "Movimento operaio e
socialista", anno III, n. 4, Ottobre – dicembre 1980, p. 365.
74
Baldassarre Cocurullo, I moventi a delinquere, Edizioni La Toga, Napoli 1930, pp. 313-314.
XXII
diseredati, ad essere considerati, anche durante il fascismo, come maggiormente pericolosi e
refrattari ad accettare le regole di condotta sociale. Ogni «morto di fame è un uomo pericoloso» avrebbe fatto dire nel 1941 Elio Vittorini ad un suo personaggio delle Conversazioni in Sicilia, un
poliziotto fascista in servizio su un treno - «capace di tutto», di rubare, «tirare coltellate» e «di darsi
anche alla delinquenza politica».75
Poveri e marginali erano quindi esposti più di altri alla volontà disciplinare del regime, che
in essi continuava a vedere un potenziale pericolo per la società e che nel manicomio avrebbe
quindi riconosciuto un efficace strumento di custodia, se non addirittura uno strumento di
segregazione perpetua. Questa visione, va ricordato, si sarebbe peralro prolungata anche negli anni
a venire, ben oltre la fine del fascismo e l’affermazione delle istituzioni democratiche e
repubblicane. Quando nel 1969, ad esempio, alcuni studenti universitari occuparono il manicomio
di Colorno, lo fecero come atto di protesta contro la «medicina classista», che, come nei decenni
precedenti, sembrava basarsi ancora sull’idea che «soltanto i poveri» erano «matti». 76
Che dire però degli internati psichiatrici antifascisti che non avevano mai manifestato nessun
segno di devianza nella condotta sociale? E’ possibile pensare che, per quelli che non bevevano,
non frequentavano bassifondi e postriboli e ai quali persino le relazioni di polizia riconoscevano una
buona condotta morale, il segno della follia a volte potesse essere riconosciuto nell’antifascismo
stesso, nell’internazionalismo o nel marxismo? Potremmo ipotizzare che, in qualche caso, sia stata
questa alterità politica ad essere medicalizzata?
Già nel periodo liberale era stato studiato il rapporto tra criminalità, follia e tendenze
politiche sovversive e libertarie. Nel 1872, Cesare Lombroso aveva spiegato la Comune di Parigi
come «l’effetto d’una pazzia epidemica» scatenata da una molteplicità di fattori: le «passioni
concitate per la sconfitta» di Sedan, l’«abuso dell’assenzio», la presenza di alcuni «furbi» e di
alcuni «ideologhi» e il «grande numero di alienati ambiziosi, omicidi e finti paralitici, liberati
troppo presto dai manicomi», che nella concitazione di quei momenti avevano trovato «un terreno
propizio» per associarsi e mettere in pratica gli «sciagurati loro sogni». 77 Qualche anno dopo, in
seguito alla serie di attentati contro monarchi e capi di Stato che sconvolsero l’Europa e gli Stati
Uniti nell’ultima parte dell’800, il criminologo torinese si sarebbe persino spinto ad individuare un
75
Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, Einaudi, Torino 1978, p. 20.
Fabrizio Dentice, Soltanto i poveri sono matti, in “L’Espresso”, Anno XV, n. 7, 16 febbraio 1969, p. 6. Zygmunt
Bauman ha notato che, mentre nei secoli passati le classi pericolose avevano goduto comunque di un disegno di
reintegro nella società, oggi, specie dopo il passaggio dallo Stato “inclusore” attraverso il sistema di protezione sociale
allo Stato impegnato a garantire solo l’incolumità personale, quelli che comunemente vengono considerati «inadatti»,
«inassimilabili», «esclusi», coloro verso i quali «non si può concepire nessuna funzione utile da far loro svolgere» non
sembrano più godere di questa possibilità di reintegro. Essi non sono soltanto membri di «classi in eccesso», quindi, ma
“superflui” e destinati a restare esclusi «in via permanente»; cfr. Zygmunt Bauman, Modus vivendi. Inferno ed utopia
nel mondo liquido, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 26-28 e 77-79.
77
Cesare Lombroso, Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di scienze e lettere, 1872, in Delia Frigessi , Ferruccio
Giacanelli, Luisa Mangoni, Cesare Lombroso. Scritti scelti, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 192-193.
76
XXIII
carattere «congenito o ereditario» nell’accentuato «spirito di rivolta» che accomunava alcuni
anarchici.78 Anche durante la prima guerra mondiale - nel corso della quale divenne normale
accettare in maniera disciplinata l’idea di uccidere o di farsi uccidere e patologico invece l’insorgere
preponderante dell’istinto di conservazione che spingeva a ribellarsi, a fuggire, ad impazzire o a
simulare la follia - la tendenza di fondo sembra essere stata quella di far risalire i fenomeni
psicopatologici più che alle inedite, drammatiche e spaventose caratteristiche del conflitto, alla
«degenerazione costitutiva delle classi inferiori» e alla loro «inadeguatezza antropologica e
culturale ad affrontare grandi e nobili compiti». 79 Nel caso di disertori o simulatori, che si
professavano anche sovversivi o rivoluzionari, inoltre, sembra essere stato proprio questo secondo
elemento a rivestire un ruolo principale nella medicalizzazione.80
Con il fascismo non scomparvero le tracce di questa tendenza a spiegare l’adesione ad
ideologie politiche considerate sovversive anche attraverso il ricorso a caratteri psicopatologici.
L’anno successivo all’emanazione della Legge per la difesa dello Stato, ad esempio, alcuni
psichiatri espressero la convinzione che ragione e follia trapassassero l’una nell’altra e che l’oggetto
di studio e di intervento medico non doveva essere più rappresentato solo da quegli «speciali
individui» chiamati folli, ma da tutti gli «utopisti, teorici, inconcludenti» ed «eccentrici» dei quali,
si diceva, «ai tempi beati dell’anarchismo di Stato» la «Camera antifascista» era stata «pregna». 81
Che dire, invece, delle motivazioni che avevano accompagnato l’amnistia per i delitti politici
promulgata per il decennale della marcia su Roma? In quell’occasione, non si perdonarono tanto
degli individui a cui riconosciore la dignità di oppositori politici, ma degli «illusi» che erano stati
«traviati» da «tristi passioni».82
Più o meno accentuate, queste posizioni sulla possibile inferiorità mentale o sull’anormalità
dei sovversivi non si trovavano tuttavia soltanto nella scienza e nella legge penale, ma anche nella
cultura e nel senso comune. Ad esempio, in un libro autobiografico pubblicato nel 1933,
significativamente intitolato Tra manicomio e bolscevismo, Aldo Mandrilli - soldato italiano
78
Cesare Lombroso, Gli anarchici. Psicopatologia d’un ideale politico, Claudio Gallone Editore, Milano 1998, p. 87.
Antonio Gibelli, Guerra e follia. Potere psichiatrico e patologia del rifiuto nella Grande guerra, in “Movimento
operaio e socialista”, Anno III. N. 4, ottobre-dicembre 1980, p. 464. Sulle psicosi di guerra e sulla psichiatria durante la
prima guerra mondiale cfr. Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica ed identità personale nella prima guerra
mondiale, Il Mulino, Bologna 1985; Bruna Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzioni e disobbedienza
nell’esercito italiano (1915 – 1918), Bulzoni, Roma 2001 e Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La Grande guerra
e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
80
Cfr., ad esempio, la vicenda del soldato Aldo, scappato per non partire per il fronte, che al direttore del manicomio di
Padova aveva dichiarato di essere «socialista rivoluzionario e di non poter uccidere» mentre, «alzando fieramente il
capo», recitava «brani di opere anarchiche», cit. in Bruna Bianchi, Le ragioni della diserzione. Soldati ed ufficiali di
fronte a giudici e psichiatri (1915-1918), “Storia e problemi contemporanei”, n. 10, 1992, p. 25.
81
E. Rossi, natura delle reazioni antisociali, in «Il manicomio», n. 40, 1927, cit. in Claudio Pogliano, Scienza e stirpe:
eugenica in Italia (1912 – 1939), in «Passato e presente», n. 9, 1984, pp. 93-94.
82
Vincenzo Maiello, La politica delle amnistie, in Luciano Violante (a cura di), Storia d’Italia. La criminalità, Annali
XII, Einaudi, Torino 1997, p. 960.
79
XXIV
catturato in combattimento - raccontava che, tra le varie esagerazioni che aveva messo in opera nel
tentativo di ingannare i medici austriaci, una volta era anche saltato su una sedia ed aveva
incominciato a proferire «un torrente di parole senza nesso e senza senso», lanciando «tali urli» ed
arrabbiandosi e tranquillizzandosi «tante volte quante», diceva, «lo avrebbe fatto un socialista»,
caricaturizzando in questo modo l’immagine, nel 1933 ridotta a solo ricordo, dell’“oratore
rivoluzionario” che, da un pulpito, parla alla folla. Alla fine, «con aria soddisfatta e tenendo il capo
eretto come un ispirato», era sceso dalla sedia ed aveva preso la «via per il ritorno» alla sua baracca,
«con passo lento e studiato».83 Riferendosi alla guerra civile spagnola, invece, nella primavera del
1937 “Civiltà Fascista” sostenne che quella che aveva colpito il paese iberico poteva essere
considerata come una vera e propria forma di pazzia: la «pazzia bolscevica». 84 In coincidenza con la
guerra di Spagna, nelle immagini di progadanda cominciò a radicalizzarsi anche il ricorso alla
raffigurazione della brutalità e della «subumanità» del comunismo e dei comunisti.85 Nel 1940, poi,
sarebbe stato Guido Manacorda a definire compiutamente quali erano gli elementi in grado di
spiegare in profondità la «creazione, costruzione e sviluppo del bolscevismo» e, nello stesso tempo,
l’innata «tragedia» destinata ad accompagnare i suoi seguaci: il «materialismo storico» marxista, la
«mistica messianica e materialistica», l’assunzione a credo della «razionalità automatizzata» e
l’«ottimismo a tinte vagamente rousseauniane». La combinazione di questi elementi permetteva
«l’accettazione e l’applicazione pratica di principi antitetici», come, ad esempio, la coesistenza di
una «rigida ascetica» con il «costume e il gusto barbarico della strage e dei supplizi», oppure della
«fede mistica accanto alla vita meccanizzata», o, ancora, della «costruzione scientifica accanto alla
ingenua e grossolana utopia». L’«uomo bolscevico» era un «assetato di gioia», portato a «credere, a
disperatamente credere, in una felicità terrena e in una libertà di natura integralmente
raggiungibili». Si comprendeva bene, allora, perché «egli non» rifuggisse «da alcun mezzo, anche il
pù crudele, per raggiungere al più presto il suo mirabile scopo.86
L’ossessiva ricerca della felicità e la convinzione che questa fosse possibile erano dunque gli
elementi che, secondo Manacorda, giustificavano agli occhi dei comunisti il ricorso a qualsiasi
nefandezza, evidenziando così la loro bestialità e la loro inferiorità. A conclusioni simili, ma riferite
a tutto l’antifascismo, compreso quello democratico, era giunto un paio d’anni prima anche Antonio
Vallejo Nágera, professore di psichiatria all’Accademia militare di sanità di Madrid e protagonista
dell’“importazione” in Spagna delle teorie di Lombroso. Nel 1938, all’interno del campo di
83
Aldo Mandrilli, Tra manicomio e bolscevismo (1917-1920), Mondadori, Verona 1933, p. 64. Mandrilli riuscì alla fine
ad essere riconosciuto pazzo ed a far ritorno in Italia. Tra le varie situazione create dallo stesso per simulare la pazzia,
anche un piccolo incendio e la stesura di un trattato di pace intitolato Jus Gentium. Finita la guerra, restò nell’esercito
italiano e si imbarcò per Odessa, dove gli eserciti dei paesi occidentali stavano combattendo contro l’Armata rossa.
84
Sandro Volta, Le origini della rivoluzione bolscevica di Spagna, “Civiltà Fascista”, Anno IV, n. 4, aprile 1937, p. 254.
85
Ventrone, Il nemico interno, cit., p. 16. cfr. Anche la riproduzione di un manifesto italiano del 1936 a pp. 136-137.
86
Guido Manacorda, Il Bolscevismo, Sansoni editore, Firenze 1940, pp. 265-266
XXV
prigionia di San Pedro de Cardeña, Nágera aveva infatti diretto dei test sperimentali su 297
volontari delle Brigate internazionali, volti ad indagare la «biopsicologia del fanatismo marxista».
Sebbene le sue conclusioni fossero state dettate «più da una necessità ed un’urgenza ideologica che
ispirate a principi di analisi scientifica», Nágera avrebbe comunque sostenuto che il soggetto
«mentalmente inferiore ed incolto» trovava «nella politica marxista i mezzi per facilitarsi la lotta
per la vita». Il «semplicismo» del «credo» nell’«eguaglianza sociale», inoltre, favoriva
l’«assimilazione» della dottrina anche da parte di «individui mentalmente inferiori», che, «incapaci
di ideali spirituali», come la patria o la religione, trovavano la «soddisfazione dei loro appetiti
bestiali» nei «beni materiali» offerti dal «comunismo e» dalla «democrazia». 87
Il caso spagnolo dimostra come tracce di analisi scientifiche orientate alla ricerca di cause
biopsichiche che spiegassero l’adesione all’antifascismo non sono presenti solo negli archivi
italiani. Rispetto alla medicalizzazione del dissenso, il caso sovietico - dove un sano di mente
internato in un ospedale psichiatrico poteva sentirsi dire direttamente da un rappresentante del
ministero dell’interno: «noi la curiamo non da una malattia, ma dalle sue convinzioni» - è
sicuramente il più conosciuto.88 Altri casi, invece, restano tuttora meno indagati. Anche in Grecia,
durante la dittatura dei colonnelli, la psichiatria sembrò condividere con l’autorità statale, oltre
all’«aspirazione alla protezione sociale», anche la «proiezione sovversiva della diversità intesa sia
come comportamento eccentrico personale sia come proiezione di un modello alternativo e
organizzato di ristrutturazione della società». Gli oppositori di sinistra, specie i comunisti, venivano
chiamati «miasma», ovvero «uomini ed idee che infettano», mentre, significativamente, l’isola che
dalla fine della guerra civile fino al 1967 aveva ospitato una colonia di malati mentali, cominciò da
quell’anno ad essere contestualmente utilizzata anche come campo di concentramento per i detenuti
politici. In una delle rare testimonianze raccolte, un sopravissuto ha ricordato come poteva capitare
di riconoscere nel gruppo dei matti anche diversi ex compagni, che nel passato erano impazziti per
le torture.89 Una sorte analoga a quella di diversi antifascisti italiani, colpiti da forme di alienazione
mentale durante gli interrogatori ed i processi del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato.
Centoventidue dei 473 antifascisti schedati ed internati nei manicomi italiani sono morti
segregati, più di un quarto del totale; per molti altri invece non è stato possibile risalire a nessuna
87
Per la ricostruzione delle sperimentazioni sui volontari delle Brigate Internazionali cfr. Javier Rodrigo, Vencidos.
Violenza e repressione politica nella Spagna di Franco (1936-1948), Ombre corte, Verona 2006, pp. 96-102, per le
citazioni cfr. pp. 98-99 e 101.
88
Mario Corti (a cura di), Le testimonianze del tribunale Sacharov sulla violazione dei diritti dell’uomo nell’Unione
sovietica, La Casa di Matriona, Milano 1976, pp. 133-158; la citazione è a p. 158.
89
Thodoros Megaloeconomou, La deportazione nella Grecia democratica del dopo-colonnelli. Storia e metafore, in
Diego Fontanari , Lorenzo Toresini, Psichiatria e nazismo, Atti del convegno svoltosi a San Servolo il 9 ottobre 1998,
Collana dei Fogli di informazione, n. 27, Centro di documentazione di Pistoia editrice, Pistoia 2002, pp. 93 e 95.
XXVI
notizia che testimoniasse la dimissione. Sei antifascisti sono morti ricoverati prima dei trenta anni,
ventitre tra i trenta e i quaranta, mentre in molti dei trentacinque casi di morte tra i quaranta e i
cinquanta anni, l’ingresso in manicomio risaliva a otto, dieci o quindici anni prima.90 Un numero
nettamente maggiore rispetto ai decessi - suicidi compresi - che la stessa fonte ha registrato tra gli
antifascisti reclusi nelle altre istituzioni totali, come il carcere o il confino. 91 i E’ necessario però
evitare di rappresentare le istituzioni psichiatriche come una realtà univoca ed unanimemente
orientata alla repressione degli antifascisti manicomializzati. Alcuni psichiatri, che rivestirono
anche il ruolo di direttori di manicomio, si “scontrarono” infatti con il fascismo sin dagli anni
successivi alla marcia su Roma: come Arnaldo Pieraccini - socialista dal 1892, neutralista convinto
e per questo più volte aggredito e tenuto sempre sotto sorveglianza durante il regime - o Luigi
Scabia, autore del citato trattato sulle caratteristiche edilizie che un manicomio avrebbe dovuto
rispettare - oggetto di persecuzioni fasciste sin dal 1928, considerato dalla PS come «un massone di
vecchia data» e «filoaventiniano» - deceduto nel 1934 dopo essere stato costretto a dimettersi da
Direttore del manicomio di Volterra senza aver trovato nessun sostegno nella Società italiana di
psichiatria.92
L’atteggiamento autonomo di alcuni psichiatri, che a volte emerge dai documenti o dalle
testimonianze, getta tuttavia luce sulla volontà del regime di occupare politicamente anche gli
ambiti propri della medicina mentale. Guglielmo Lippi Francesconi, ad esempio, direttore del
manicomio di Maggiano a soli 36 anni, entrò in conflitto con il fascismo locale dopo una perizia in
cui aveva attribuito alle persecuzioni subite parte della responsabilità del suicidio di un antifascista.
Il «segretario politico della zona» era anche il capo del personale dell’ospedale, circostanza che
evidenzia un controllo diretto del regime sugli infermieri e sul personale di sorveglianza deputato
alla cura e alla custodia dei malati, anche di quelli “politici”, e che rende chiara quale potesse essere
la capacità di interdizione delle autorità politiche nelle scelte che poi operativamente dovevano
organizzare la vita all’interno di un ospedale psichiatrico. L’intromissione del fascismo, inoltre, non
riguardava soltanto aspetti gestionali e di sorveglianza, ma, cosa molto importante, anche quelli
scientifico-diagnostici. Sempre Francesconi, ad esempio, secondo una testimonianza rilasciata dal
figlio, a volte riceveva “indicazioni” dal «federale», che chiedeva «che quel tale non doveva essere
90
Trentuno antifascisti sono segnalati come morti in manicomio tra i 50 e i 60 anni, 17 tra i 60 e i 70 anni, 17
antifascisti e 10 oltre i 70.
91
Erving Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, Einaudi, Torino 2003. Il
numero dei decessi avvenuti in carcere o al confino riportati nei quaderni dell’ANPPIA è di poco superiore a 160. Al
confino, oltre che per malattie croniche come la tubercolosi, si poteva morire per peritonite, per febbri infettive, per
fame e persino per assideramento; (cfr. Dal Pont, Antifascisti italiani, rispettivamente quaderno 1 p. 22. A. S.; quaderno
3 p. 106. B. G.; quaderno 11 p. 47. L. U.) In carcere, invece, oltre che per malattie polmonari croniche - lo stabilimento
penale di Pianosa ospitava un reparto destinato a tutti i detenuti politici colpiti da questo tipo di patologie - si poteva
morire anche per perigastrite, per emorraggia cerebrale o anche per una semplice polmonite, se le cure venivano negate
(Ivi, quaderno 17 p. 252, S. B.; quaderno 6 p. 197, C. A.; quaderno 17 p. 130, S. E.).
92
Peloso, La guerra dentro, pp. 55-63; La citazione è a p. 57.
XXVII
dichiarato malato di mente, quell’altro sì». Nel 1944, dopo essere stato allontanato dalla direzione
dell’ospedale per essersi rifiutato di consegnare le liste dei pazienti ebrei, Francesconi fuggì insieme
alla famiglia e trovò rifugio in un convento di frati. Catturato durante una rappresaglia, venne
ucciso dalle Brigate nere con due colpi alla nuca, insieme alla moglie e ad un figlio di dodici anni. 93
Se alcuni psichiatri hanno conservato la propria autonomia e indipendenza di fronte alle
pressioni politiche, rendendo impossibile, con la testimonianza lasciata dalle loro azioni, la
generalizzazione dello stereotipo di carnefice per ogni singolo appartenente alla classe medicopsichiatrica, anche per gli antifascisti internati in manicomio sembra difficile generalizzare lo
stereotipo delle vittime. I documenti evidenziano come il ricovero psichiatrico a volte potesse
rappresentare una via di fuga rispetto ai provvedimenti di polizia, specie per chi poteva pagarsi il
mantenimento in una casa di cura privata e beneficiare di tale forma di ricovero alternativa, prevista
dalla legge, di cui generalmente beneficiavano individui che, oltre che sulle proprie risorse
finanziarie, potevano contare anche su consolidate relazioni sociali utili a raccogliere le
autorizzazioni necessarie a non finire in un manicomio civile.94 In altri casi è l’azione dei familiari,
tesa a raccomandare terapie ed interventi medici, a segnalare la presenza di una riconosciuta
necessità di ricovero e di cure.95 Tuttavia, è indubbio che in alcune delle vicende che prenderemo in
considerazione le circostanze e i percorsi che hanno condotto gli oppositori in manicomio lasciano
immaginare un uso spregiudicatamente punitivo dell'internamento psichiatrico, protratto fino alle
estreme conseguenze: come per il giovane pistoiese ed ex ardito del popolo I., trovato impiccato
all’«inferriata della sua cella» nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, dove era
stato rinchiuso dopo essere stato arrestato per essersi ribellato agli agenti di sorveglianza al
confino.96
Un’ultima considerazione va fatta rispetto alla memoria di quegli antifascisti che dal
manicomio sono riusciti ad uscire, a volte dopo anni o decenni di internamento. I superstiti, almeno
93
Paolo Tranchina, Intervista al Prof. Pierluigi Lippi Francesconi, in Fontanari, Toresini, Psichiatria e nazismo, cit.,
pp. 36-42; la citazione si trova a p. 37; cfr. anche Peloso, La guerra dentro, cit., pp. 55-56.
94
Cfr. ad esempio il caso di G., di origini nobili, ex capitano dei granatieri e mutilato di guerra. Arrestato nel gennaio
del 1927 per delle grida contro Mussolini e di inneggiamento al re in un circolo della capitale, nel luglio successivo il
giudice istruttore dichiarò il “non luogo a procedere” per infermità di mente. G. venne così internato in una casa di cura,
prima a Bologna e poi a Firenze. Il suo fascicolo non contiene le consuete relazioni periodiche sulla condotta morale e
politica. I pochi documenti presenti sono stati stilati a due, tre, cinque anni di distanza l’uno dall’altro. Nel 1941 venne
segnalato il suo trasferimento da Bologna a Firenze, presso la casa di cura “Fiesole Poggio Sereno”. Il 5 agosto, il
Tribunale civile del capoluogo toscano revocò il decreto di internamento in casa di salute emesso precedentemente. Il 3
novembre successivo, la pretura emise una nuova ordinanza di internamento in una casa di cura. Nel 1942 tornò
definitivamente libero; cfr. ACS, CPC, b. 1761, f. 30826.
95
AOPPVolterra, Cartelle Cliniche, Deceduti, 1927, n. 5895 del Registro progressivo delle cartelle cliniche, (Archivio
in corso di sistemazione), Lettera del 16 settembre 1927 e Telegramma del direttore dell’Ospedale psichiatrico di
Volterra del 18 novembre 1927; cfr. anche ACS, CPC, b. 5544, f. 109698.
96
ACS, CPC, b. 1698, f. 108463, Prefettura Pistoia, 13 marzo 1928 e Prefettura Pistoia, 12 giugno 1928; cfr. anche S.
Corvisieri, La villeggiatura di Mussolini. Il confino da Bocchini a Berlusconi, Baldini & Castoldi, Milano 2004, pp. 9496.
XXVIII
nei due casi in cui è stato possibile parlare con i familiari, hanno preferito tacere su quella loro
particolare esperienza, come capita spesso a chi ha vissuto in condizioni di estrema oppressione.
Secondo Biamonti aveva raccontato alla figlia ed al nipote le vicende vissute durante la prima
guerra mondiale, il periodo passato in Francia con gli antifascisti fuoriusciti e le asprezze del
comunismo sovietico, tuttavia non disse mai nulla dei nove anni passati in manicomio. Non siamo
in grado di sapere se raccontò quella dolorosa vicenda alla moglie (si sposò nel 1947) perché,
comunque, questa non disse mai niente alla figlia.97 Stesso discorso può essere fatto per Carino
Longo, un giovane comunista di Fubine arrestato nel 1936 per attività cospirativa che, dopo tre
ricoveri in sette anni, di cui l’ultimo per quattro anni consecutivi, giunto l’armistizio prese parte alla
Resistenza e solo nel dopoguerra riuscì a ricostruirsi una vita. Anche lui non parlava mai di quella
esperienza con i familiari. Ai suoi quattro figli, mentre aveva spesso raccontato della sua vita da
partigiano, aveva detto pochissimo delle punizioni e delle umiliazioni subite in carcere e al confino
e nulla dei lunghi anni passati in manicomio.98 L’ampia memorialistica prodotta dagli antifascisti
nel secondo dopoguerra, infine, non accenna quasi mai ad esperienze di internamento psichiatrico,
né dirette né indirette, a testimonianza dell’oblio in cui determinate vicende venivano fatte cadere.
In effetti, se carcere e confino, pur restando luoghi di detenzione dura, fornirono alla nuova
classe politica dell’Italia repubblicana la possibilità di costruire legami ed esperienze poi rivendicate
come percorso formativo, per la detenzione in manicomio non si può dire la stessa cosa.
Quest’ultima, infatti, rappresentava un’onta indelebile, nulla di cui poter andar fieri, come dimostra
la vicenda di Giuseppe Massarenti, che, dopo la liberazione di Roma, si sarebbe rifiutato di lasciare
l’ospedale psichiatrico senza aver prima ottenuto «la dichiarazione di falsa perizia firmata dai due
medici» che lo avevano dichiarato «pazzo ai tempi del suo internamento».99
Massarenti era nato a Molinella nel 1867. Per quello che fece per la sua gente, per il suo
territorio, e anche per le privazioni e le sofferenze sopportate durante il fascismo, nel secondo
dopoguerra sarebbe stato ricordato come Il “Santo” del socialismo italiano.
Protagonista degli scioperi bracciantili e della creazione delle prime cooperative in Emilia
Romagna, dall’inizio del 1900 fino al 1906 Massarenti fu costretto a rifugiarsi in Svizzera. Tornato
a casa ricominciò la sua attività a sostegno del cooperativismo, finché, nel 1908, divenne il primo
sindaco socialista del suo paese. Restò tale, quasi ininterrottamente, fino al 1921. In quel periodo,
secondo un articolo pubblicato all’indomani della sua morte, a Molinella si difese sempre «il giusto
97
Testimonianza di Maria Rita Biamonti e Fabio Lorenzo Melloni De Vecchis.
ACS, CPC. b. 2829, f. 120959, Longo Carino, e Intervista ad Antonio (Mauro) Longo, figlio di Carino, registrata su
supporto audiovisivo a Fubine (Al), il 28 luglio 2011. Nella stessa occasione ho raccolto anche la testimonianza di
Francesca Cerrina, moglie di Longo. Ringrazio la famiglia Longo per avermi accolto e ospitato e per la loro preziosa
testimonianza. Da ora in poi le citazioni riferite a tali fonti verranno utilizzate segnalando il nome dell’intervistato.
99
ASBo, Questura, Categoria A8, Defunti, b. 28, f. Massarenti Giuseppe, A Molinella si attende Massarenti, il “Santo”
del socialismo italiano, “Il giornale dell’Emilia, 10 aprile 1948.
98
XXIX
pane della povera gente», si crearono «case per tutti», «cooperative di consumo», scuole, asili.100
Con Massarenti sindaco, Molinella diventò la «località simbolo del socialismo riformista emiliano»
e le sue «cooperative» richiamarono l’attenzione degli «squadristi bolognesi e ferraresi». Così, il 12
giugno del 1921, la cittadina fu occupata, e subito dopo cominciò la caccia a Massarenti, che fu
bandito dal paese e costretto nuovamente ad emigrare.101 Raggiunse Roma in solitudine, e vi restò
fino al 1926, anno in cui fu mandato al confino. Tornato nella capitale - ormai più che sessantenne prese alloggio in un modesto albergo, e da lì cominciò ad inviare diverse lettere per chiedere
un’attenuazione della sorveglianza nei suoi confronti, ma senza esito. Dopo qualche tempo,
terminarono anche le risorse economiche che gli abitanti di Molinella - che non lo avevano mai
dimenticato - erano riusciti ad inviargli. Impossibilitato a pagare i conti, cominciò allora a vivere
per strada. Nel gennaio del 1935 la polizia intercettò una sua lettera, indirizzata ad un vecchio
compagno socialista, nella quale si diceva «costretto a passare le giornate nelle latrine pubbliche»
per ripararsi «dal freddo».102 Una mattina del settembre del 1937 lo svegliò la PS, nel nuovo
modesto alloggio che era riuscito a trovare. Fu portato prima in questura, poi al policlinico, poi alla
Clinica delle malattie nervose e mentali dell’università, ed infine, dopo dodici giorni di
osservazione, all’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà, a Roma. Diagnosi: delirio
paranoico.103 Dopo la liberazione della capitale ricevette anche le visite di Pietro Nenni e Palmiro
Togliatti, ma restò sempre fermo sulla sua posizione: sarebbe uscito solo quando la perizia
psichiatrica che lo aveva fatto internare sarebbe stata dichiarata falsa. 104 La sua indignazione di
fronte a quell’ingiustizia è stata riassunta in uno scritto consegnato allo psichiatra Ferdinando
Cazzamalli, che nell’immediato dopoguerra prese in esame il caso:
Sono stato interdetto a seguito dell’internamento arbitrario in manicomio. Sono stato escluso dai diritti civili,
minorato moralmente, rovinato fisicamente e intellettualmente con la sottrazione di dieci anni di esistenza. Il
giudice competente deve sentenziare ora che quella diagnosi deve essere distrutta, perché soltanto con la
restituita integrità morale e civile la libertà ha valore. Ciò che chiedo è giustizia, e non solo per me, ma anche
per la sostanza stessa della riparazione di un arbitrio, dai pericoli del quale in un paese civile tutti i cittadini
devono sentirsi al riparo.105
Nel gennaio del 1945, dopo le insistenze di Nenni, fu trasferito in una clinica medica, ma
non riuscì ad ottenere la dichiarazione che aveva richiesto, né ci riuscì il comitato in suo sostegno
che nel frattempo si era formato. Massarenti tornò a Molinella solo nel 1948. Il giorno dopo la sua
100
Ivi, G. Tibalduci, Lutto di popolo per la morte di Massarenti, “Il pomeriggio”, 31 marzo 1950.
Mimmo Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista (1919-1922), Mondatori, Milano
2003, pp. 80, 338.
102
ASBo, Quest. Cat. A8, Defunti, b. 28, f. Massarenti Giuseppe, Ufficio di P.S. di Molinella, 10 gennaio 1935.
103
Peloso, La guerra dentro, cit., p. 50.
104
Marco Poli, Giuseppe Massarenti. Una vita per i più deboli, Marsilio, Venezia 2008, p. 426.
105
Ferdinando Cazzamalli, Vita ed opere dell’apostolo socialista. Nel Trigesimo della morte di Giuseppe Massarenti,
“Il Salvatore”, Anno IV, n. 5, 11 maggio 1950, p. 7
101
XXX
morte, avvenuta il 31 marzo del 1950, il Presidente della Repubblica Enrico De Nicola giunse nella
cittadina per partecipare al funerale e salutò la salma con un bacio in fronte, «quasi a testimoniare la
riparazione dell’Italia alle colpe del fascismo» nei confronti dell’ormai defunto socialista.106
Le parole usate da Massarenti ci dicono che l’uso del manicomio come strumento di
persecuzione implicava anche la squalifica morale dell’internato, la sua espulsione dal perimetro
della normalità, la fine della sua esistenza civile. Potrebbe allora essere questa ricerca di un di più di
persecuzione - per mezzo della morte civile - la chiave di lettura adatta a spiegare alcuni degli
internamenti psichiatrici subiti dagli antifascisti di cui parleremo. Ridurre a “pazzo” un oppositore
politico significava trasformare le sue idee e le sue affermazioni in deliri, ridicolizzarlo al cospetto
degli altri, minarne irrimediabilmente la credibilità. Come aveva scritto Cesare Lombroso già alla
fine del XIX secolo riferendosi agli anarchici (le sue riflessioni sul delitto anarchico, come
vedremo, durante il fascismo sarebbero state estese a tutta l’opposizione politica) la «repressione
violenta», la persecuzione di un delinquente politico, magari attraverso la condanna a morte o il
carcere, era cosa, per quanto possibile, da evitare, perché si correva il rischio di trasformarlo in un
martire. Internarlo in manicomio, invece, presentava meno rischi, perché mentre «i martiri sono
venerati», dei «matti si ride, ed un uomo ridicolo» - per chi detiene il potere e cerca di conservarlo «non è mai pericoloso».107
106
107
Poli, Giuseppe Massarenti, cit., p. 471.
Lombroso, Gli anarchici, cit., p. 100.
XXXI
CAPITOLO I
L'Internamento negli ospedali psichiatrici provinciali.
Il primo canale di accesso degli antifascisti in manicomio che prenderemo in considerazione
è rappresentato dall'internamento psichiatrico nei manicomi provinciali: l'internamento civile, che
colpiva soggetti che non avevano commesso nessun reato e, conseguentemente, non dovevano
subire nessun processo. Nello stesso tempo l'inernamento civile era diverso anche da un
provvedimento di PS. Non si doveva infatti riunire nessuna Commissione provinciale per i
provvedimenti di polizia, come invece avveniva, lo vedremo nel terzo capitolo, per la diffida,
l'ammonizione politica o l'assegnazione al confino. Potevano essere sufficienti una segnalazione, un
ordinanza di pubblica sicurezza ed un certificato medico per far rinchiudere d’urgenza un soggetto.
Senza clamori, senza proteste, in silenzio.
Tuttavia, a condurre gli schedati politici in manicomio non era soltanto una decisione
d’autorità, ma un percorso nel quale ognuno dei soggetti giocava il proprio ruolo: il regime, ai suoi
più alti livelli, che in qualche caso indicò il ricorso all’internamento psichiatrico per uno specifico
schedato politico; le autorità periferiche di pubblica sicurezza - questure, prefetture e podestà - nel
ruolo di esecutori degli ordini superiori ma anche protagoniste esse stesse di episodi nei quali
sembra emergere una volontà punitiva più che sanitaria; gli schedati politici poi manicomializzati,
infine, che con le loro condotte e loro azioni contribuirono a far maturare negli organi di polizia le
convinzioni sulla loro pericolosità e sulle presunte intenzioni di nuocere al regime. Convinzioni che
a volte potevano essere fondate, altre volte basate solo sulle testimonianze di soggetti più o meno
interessati, altre ancora costruite intorno a teoremi insussistenti e falsati dalla interpretazione
paranoica di fatti e circostanze insignificanti.
Dai documenti emerge che più che da una singola causa molto spesso il ricorso al
manicomio sia stato determinato dall’emergere di concause integratesi tra loro. Se le ragioni
dell'internamento potevano essere molteplici e tra loro concomitanti, le procedure seguite restarono
però sempre le stesse: quelle previste dalla Legge sui manicomi e gli alienati del 1904, rimasta
invariata fino alle prime riforme della fine degli anni Sessanta ed alla definitiva riforma Basaglia,
con la legge 180 del 1978. La rivoluzione fascista, che negli anni avrebbe progressivamente
aumentato le distanze che la separavano dall'Italia liberale, con la definitiva messa a bando della
libertà di stampa, delle libertà sindacali e politiche e infine con la soppressione della Camera dei
deputati e la sua sostituzione con la Camera dei fasci e delle corporazioni, si fermò davanti alle
porte dei manicomi, dimostrando, almeno rispetto alle norme che regolavano l'internamento e la
1
gestione delle strutture, una sostanziale continuità con i governi precedenti.
La Legge del 1904, come vedremo, presentava in sé caratteristiche di flessibilità ed elasticità
d’interpretazione che la resero permeabile ad un regime impegnato sin dall'inizio a mettere fuori
gioco gli oppositori ed a colpire il dissenso, con ogni mezzo. In particolare, la possibilità di
internare d'urgenza un soggetto, quanto meno per il tempo necessario all'osservazione, si dimostrò
particolarmente efficace e malleabile alle esigenze della repressione politica. Nell’amplissima
maggioranza degli internamenti psichiatrici di schedati politici il ricovero venne disposto ricorrendo
a questa procedura, che si caratterizzava per l’elevata arbitrarietà della decisione e per la coazione
della dinamica. A volte gli antifascisti furono portati in manicomio dopo essere stati svegliati nelle
loro abitazioni all’alba o nel cuore della notte, o raccolti per strada e caricati in macchina, oppure
dopo essere stati catturati alla frontiera.
I casi che sono stati esaminati mettono in luce diverse personalità e diversi percorsi
individuali, caratterizzati dalla militanza politica o dalla devianza e dalla marginalità, o dall'insieme
di questi fattori. Questa circostanza rende necessario stabilire una differenziazione tra coloro per i
quali la schedatura di polizia era contemporanea alle segnalazioni del loro squilibrio mentale e
coloro, invece, per i quali questa risaliva a tempi precedenti. Una differenziazione tra coloro che,
volendo semplificare, erano già pazzi e nelle azioni, intenzioni ed opinioni prodotte nella loro follia
avevano dato modo di pensare ad un’appartenenza politica classificabile genericamente come
dissenso antifascista, e coloro che erano prima antifascisti e soltanto dopo sarebbero diventati, o
sarebbero stati rappresentati, come dei malati mentali. Nel primo caso, le possibilità che nel
manicomio fossero ricercate delle soluzioni punitive sembrano ridursi. Le segnalazioni stilate sul
conto di questo tipo internati, che potremmo chiamare “pazzi antifascisti”, restituiscono biografie
segnate, almeno apparentemente, dalla devianza sociale o dai segni di un'effettiva alienazione
mentale. Nell’altro caso, che viceversa potremmo chiamare degli “antifascisti impazziti”, le
segnalazioni sullo squilibrio mentale miravano invece a screditare delle personalità che, seppur
integre dal punto di vista della condotta sociale e morale, erano abbondantemente segnate dal tratto
della pericolosità politica, e a quel punto il riconoscimento della follia trasformava velocemente i
soggetti da oppositori in minacce sociali. Nello stesso tempo, per gli antifascisti impazziti si
evidenziano maggiormente le finalità persecutorie dell'internamento psichiatrico, che, come
vedremo, trovano riscontro nelle forzature impresse alle leggi ed alle procedure seguite, a
testimonianza della volontà politica che sottointendeva il ricovero.
Il caso di A., operaio del livornese e soldato nella prima guerra mondiale, potrebbe essere
rappresentativo del primo gruppo. Sconosciuto alle autorità di polizia, nel 1935 inviò una lettera alla
Società delle nazioni ed al Negus d'Etiopia, chiedendo di essere arruolato come volontario
«nell'esercito abissino» che da poco aveva cominciato a difendersi contro l’aggressione italiana.
2
Significativamente, insieme alla definizione di «antifascista» annotata a margine della descrizione
del «colore politico», il suo fascicolo conserva quella di «squilibrato mentale» scritta a fianco della
richiesta di indicazione di segni particolari, come cicatrici, tatuaggi, «deformità» ed altro. Era già
stato ricoverato una volta nel 1928.1
Diversamente, L. era conosciuto alle autorità sin da prima della marcia su Roma per essere
stato un «fervente repubblicano, intelligente e battagliero». Come A., anche L. era un ex
combattente, caratteristica che accomuna molte delle vicende che tratteremo. Nato a Pisa nel 1886,
in gioventù era emigrato a Montebelluna, dove si era avvicinato ai repubblicani e, insieme alla
moglie, era stato impiegato nella segreteria dell'onorevole Guido Bergamo, nel periodo in cui il
parlamentare - già interventista di sinistra e decorato sette volte in guerra, fondatore dei Fasci di
combattimento a Bologna da cui se ne era poi distaccato ed era stato eletto in parlamento nel 1921 aveva trasformato il trevigiano in una roccaforte del partito repubblicano. Dopo l’affermazione del
fascismo, L. aveva cominciato ad esercitare la professione di viaggiatore di commercio e la polizia
sospettava che nei suoi frequenti viaggi trovasse più di un’occasione per dedicarsi alla propaganda.
Il 9 giugno del 1925, giorno antecedente il primo anniversario del rapimento di Matteotti, venne
arrestato perché aveva convinto alcune donne ad esporre una fotografia del deputato socialista con
«un lumicino e dei fiori rossi». Nel maggio del 1927, venne diffidato dalla questura di Treviso e,
dopo poche settimane, venne rimpatriato a Pisa: a quel punto cominciò il suo calvario. Non riusciva
a trovare lavoro e, «trovandosi disoccupato e senza mezzi di sussistenza», cominciò a vivere una
«vita turbolenta». Decise di tornare dalla moglie e dai due figli che cominciavano a risentire
economicamente della sua assenza, cosa che fece nel maggio del 1928, ma venne quasi subito
arrestato e condannato ad un mese e mezzo di carcere, scontati i quali venne ricondotto a Pisa.
Scrisse allora una lettera a Mussolini, inviandone una copia anche alla prefettura, dove si diceva
«senza mezzi» e incapace di «resistere». Era troppo «lontano» dalla famiglia: non poteva né
«aiutarla» né «vigilarla». Doveva assolutamente raggiungerla. Non negava i suoi trascorsi
repubblicani e rivendicava i suoi meriti di «primissimo interventista» e combattente. La lettera
arrivò sul tavolo della segreteria particolare del capo del governo il 20 luglio 1928. L. era già stato
fatto internare nel reparto di osservazione dell’ospedale di Pisa: la prefettura sosteneva fosse stato
colpito da nevrastenia. Dopo più di sei mesi passati in ospedale, il 24 gennaio del 1929 venne
1
A., classe 1889, già in passato aveva sofferto di paranoia depressiva e per questo era stato ricoverato in manicomio nel
1928, poi dimesso in affidamento perché considerato non pericoloso. Alla lettera al Negus ne seguirono altre - al re, al
papa, a Stalin ed a Hitler - e a quel punto venne internato d’urgenza. Nel marzo del 1937 venne dimesso dal manicomio
e affidato in custodia alla moglie. Un successivo internamento venne disposto all'inizio dell'agosto del 1940, questa
volta provocato dalla spedizione di una lettera al governo turco. Dopo poche settimane, venne nuovamente affidato alla
moglie. A distanza di un anno inviò un'altra lettera, stavolta all'Istituto Nazionale fascista della Previdenza Sociale, alla
quale seguì un ulteriore ricovero. Nel febbraio del 1942 uscì definitivamente e ritornò dalla moglie; cfr. ACS, CPC, b.
1350, f. 80874, Prefettura Genova, 2 gennaio 1936; Prefettura Livorno, 9 gennaio 1936; Prefettura Livorno, 23
settembre 1936; Prefettura Livorno, 2 agosto 1940; Prefettura Livorno, 20 settembre 1940; Prefettura Livorno, 28
ottobre 1941; Prefettura Livorno, 13 febbraio 1942.
3
internato nel manicomio di Volterra.2
La legge del 1904 e il regolamento del 1909.
La legge denominata “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati - Custodia e cura degli
alienati” era stata approvata nel febbraio del 1904. Essa stabiliva che dovevano essere «custodite e
curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale» qualora
risultassero «pericolose a sé od agli altri» o provocassero «pubblico scandalo». In via ordinaria,
l’ammissione dei ricoverati poteva essere chiesta da familiari, dai tutori e «da chiunque altro»,
sempre in tutela degli «interessi degli infermi e della società». Ogni autorità locale di pubblica
sicurezza poteva ordinare il ricovero «in via provvisoria», ma soltanto «in caso di urgenza» e sulla
«base di un certificato medico». Dopo un periodo «di osservazione», che non avrebbe dovuto
superare i trenta giorni, l’eventuale internamento definitivo sarebbe stato deliberato dal tribunale
locale, «in base alla relazione del direttore del manicomio». A quest’ultimo veniva riconosciuta la
«piena autorità» sugli aspetti sanitari, economici ed organizzativi dell’istituto, mentre restavano in
carico alle province le spese per il mantenimento degli alienati poveri; la vigilanza sul
funzionamento degli istituti era affidata al Ministero dell’Interno ed ai prefetti.3
Arrivata abbondantemente in ritardo rispetto al resto d’Europa, la legge fu una risposta
«all’impressionante aumento dei ricoverati» che si era registrato negli anni delle profonde
trasformazioni sociali, politiche ed economiche introdotte in Italia dalla seconda rivoluzione
industriale.4 Infatti, dal 1875 ai primi anni del Novecento, gli internamenti negli istituti per alienati
avevano fatto registrare una progressione costante, sia in termini assoluti che in proporzione al
totale degli abitanti. Alla fine del 1902, in un clima di urgenza e necessità alimentato dalla
pubblicazione dei risultati di un’inchiesta condotta sull’ospedale psichiatrico di Venezia, il ministro
Giolitti presentò un progetto di legge che avrebbe provocato uno scarso dibattito parlamentare e non
sarebbe stato approvato prima di aver recepito le istanze del mondo psichiatrico, che riuscì alla fine
a far reinserire il principio della piena autorità della direzione medica sul funzionamento interno dei
manicomi. Un principio che era stato sempre presente nei progetti elaborati in precedenza, anche se
poi erano rimasti lettera morta. Luigi Lucchini - giurista liberale e tra i pochi parlamentari ad
sollevare delle perplessità nel corso del dibattito - definì «sconfinato e quasi dispotico» il potere che
si stava così riconoscendo agli psichiatri.5
2
ACS, CPC, b. 1455, f. 18120, Lettera di L. a Mussolini, 6 luglio 1928; Prefettuta Pisa, 16 agosto 1928; Prefettura Pisa,
Scheda biografica del 26 settembre 1928; Prefettura Pisa, 22 ottobre 1928; Ministero dell’interno, 5 novembre 1928;
Prefettura Pisa, 24 gennaio 1929; Prefettura Pisa, 21 gennaio 1930.
3
Legge 14 febbraio 1904, n. 36, Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati.
4
Moraglio, Dentro e fuori il manicomio, cit., p. 17.
5
Babini, Liberi tutti, cit., pp. 18-19. I magistrati vennero spinti ad affidarsi «completamente all’avviso» del direttore
4
Le preoccupazioni di Lucchini si sarebbero poi rivelate fondate. Il numero dei ricoverati nei
diversi ospedali psichiatrici, che già era cresciuto progressivamente tra gli anni settanta
dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo - passando da 12.913 ricoverati del 1875 ai 36.845 del
1902 - non trovò un freno nell’individuazione della magistratura come autorità deputata alla
decisione sull’internamento definitivo (la Legge prevedeva infatti che fosse il tribunale, su parere
del direttore, a disporre l'internamento definitivo o la dimissione, dopo un massimo di trenta giorni
di osservazione). Già nel 1905 i ricoverati erano aumentati ancora, arrivando a superare le 39.500
unità.6
La procedura d'internamento d'urgenza da eccezione divenne subito regola, trasformandosi
da garanzia per la cura del malato, nel caso in cui familiari e conoscenti restassero inerti di fronte
alla malattia, in un'arma di «attacco alla libertà individuale» dei soggetti, colpiti senza che nessuno
potesse intervenire in loro difesa, in quanto in essa non erano previste le testimonianze giurate, che
fondavano invece la procedura ordinaria.7
Un’interpretazione delle ragioni di questa progressione del numero dei ricoveri schiacciata
troppo sulla relazione immediata tra internamento e andamento delle strategie repressive e di
controllo sociale sarebbe però riduttiva e correrebbe il rischio di «limitare la comprensione della
complessità qualitativa del fenomeno». 8 La Legge del 1904 non va infatti considerata come la
registrazione di una volontà meramente repressiva esercitata dal potere politico e subita, loro
malgrado, dagli psichiatri, ma piuttosto come l’intreccio tra i propositi di una classe politica che «si
richiamava» all’assunto della «pericolosità del malato di mente» - per «pregiudizio» e «per una
logica di difesa sociale dalle classi subalterne» - e la volontà di una parte del «sapere medico» che
da tempo spingeva per partecipare alla riforma delle istituzioni finalizzata «alla repressione dei
comportamenti antisociali o comunque criminosi».9 Alla fine, la sintesi dell'intreccio di queste due
volontà fu trovata nell’individuazione della pericolosità sociale e del pubblico scandalo come criteri
unici per l’internamento.10 Criteri che denotano un certo ancoraggio della legge all’orizzonte
psichiatrico dell’ultimo trentennio dell’Ottocento, orientato a riconoscere nelle manifestazioni della
personalità i segnali della degenerazione e a ricercare il «nucleo essenziale» della follia nella
«irriducibilità» alla disciplina morale e sociale, nella «resistenza», nella «disobbedienza». 11
psichiatrico, che doveva presentare la relazione medica su cui si sarebbe basata la decisione del tribunale; cfr. Romano
Canosa, Storia del manicomio in Italia dall'unità ad oggi, Feltrinelli, Milano 1979, p. 114; per un approfondimento del
dibattito parlamentare cfr. pp. 112-118.
6
Ivi, p. 91 e Moraglio, Dentro e fuori il manicomio, cit., p. 17.
7
Patrizia Guarnieri, Matti in famiglia. Custodia domestica e manicomio nella provincia di Firenze (1866-1938), in
"Studi storici", a. 48, n. 2, aprile-giugno 2007, p. 486.
8
Francesco Del Peri, Il medico e il folle. Istituzione psichiatrica e sapere scientifico tra Ottocento e Novecento, in
Franco Della Peruta (a cura di), Storia d’Italia. Malattia e medicina, Annali VII, Einaudi, Torino 1984, pp. 1129.
9
Ivi, pp. 1129-1130.
10
Babini, Liberi tutti, cit., p. 19.
11
Foucault, Gli anormali, cit., p. 110.
5
Gli psichiatri erano stati chiamati ad esercitare nella gestione dell’ordine pubblico «un ruolo
che in passato era stato esclusivamente della polizia e dei giudici».12 Al riconoscimento della
posizione centrale dei direttori nella gestione dei manicomi, inoltre, corrispose la loro piena
responsabilizzazione, di fronte allo Stato ed alla società, rispetto ai pericoli che gli alienati
avrebbero potuto provocare.
Il Regolamento che completava la legge del 1904 (“Regolamento sui manicomi e sugli
alienati”, approvato con Decreto del 16 agosto del 1909) all'articolo 64 stabilì infatti che qualora il
direttore avesse ritenuto guarito l'internato avrebbe potuto dimetterlo in via di prova, ma sotto la sua
completa responsabilità. Le dimissioni sarebbero poi diventate definitive solo con un decreto del
presidente del tribunale che esercitava la propria giurisdizione nel territorio: decreto successivo ad
una richiesta del procuratore del re motivata da una relazione del direttore del manicomio sullo stato
di mente del ricoverato che egli riteneva ormai guarito. Questa piena responsabilizzazione trovava
deroga soltanto nella possibilità sancita dall'articolo 66 dello stesso Regolamento, che prevedeva la
possibilità di dimissione in «esperimento», ovvero la riconsegna alla famiglia dell'alienato che
aveva dimostrato di aver raggiunto «tal grado di miglioramento da poter essere curato a domicilio».
Anche in questo caso, la responsabilità sulle azioni che nel futuro avrebbe potuto commettere
ricadevano sul direttore, che però, in virtù di quanto previsto dal successivo articolo 69, poteva
liberarsene attraverso una richiesta presentata dalla famiglia, discussa ed approvata dal tribunale
riunito in camera di consiglio, che doveva anche accertare le necessarie condizioni per la cura e la
custodia del malato.13
Questa responsabilizzazione esponeva la «psichiatria manicomiale» al rischio di ridursi ad
esercitare un ruolo di «ancella della polizia», trasformando i manicomi in «contenitori» dei malati
che disturbavano l’ordine pubblico. Di tale rischio si mostravano consapevoli alcuni psichiatri. Sin
dall’approvazione della legge, riprese infatti la discussione sulle nuove forme di assistenza
extraospedaliera, sulla psicoanalisi e sulle tecniche di custodia manicomiale, come il sistema di
ospedalizzazione open-door o le pratiche no-restraint, di cui tratteremo in seguito14 Tuttavia, nella
12
Canosa, Storia del manicomio in Italia, cit., p. 98.
Art. 64, 66 e 69 Regio decreto n. 615 del 16 agosto 1909, Regolamento sui manicomi e sugli alienati. In caso di
dimissioni in prova o su richiesta della famiglia, previste dagli articolo 64 e 69, il direttore del manicomio ne avrebbe
dovuto dare comunicazione, oltre al procuratore del re, anche all'autorità di PS. Nel caso delle dimissioni “in via di
esperimento” previste dall'articolo 66, oltre al procuratore del re ed all'autorità di PS, l'avvenuta dimissione doveva
essere comunicata anche al sindaco (poi podestà) del comune di residenza dell'alienato. La custodia domestica dei
malati di mente prevista in questi articoli non costituiva peraltro una possibilità inedita introdotta dalla nuova
legislazione, richiamava anzi forme di assistenza psichiatrica extramanicomiale sperimentate nella Toscana del periodo
postunitario. La ricerca di un'alternativa alla segregazione suscitava da tempo speranze di cambiamento tra gli psichiatri
che guardavano con preoccupazione l'affermarsi del binomio malattia mentale - pericolosità sociale; cfr. Guarnieri,
Matti in famiglia, cit., pp. 480-486 e 516.
14
Moraglio, Dentro e fuori il manicomio, cit., pp. 18-19. Per un approfondimento del dibattito psichiatrico negli anni a
cavallo tra la legge del 1904 e l’inizio della prima guerra mondiale cfr. Babini, Liberi tutti, cit., pp. 15-49. Abbiamo
accennato nell'introduzione al sistema di ospedalizzazione chiamato open-door, promosso da psichiatri nordamericani e
nordeuropei che chiedevano che i manicomi fossero costruiti senza muri di cinta, sbarre alle finestre ed altri mezzi di
13
6
pratica si riprodussero le dinamiche registrate nei decenni precedenti, che avevano visto il ricorso al
ricovero coatto indirizzarsi generalmente verso settori sociali ben precisi: quelli della marginalità e
della devianza. Nel 1891, lo psichiatra Augusto Tamburini - allievo di Carlo Livi e fondatore,
insieme ad Enrico Morselli, della “Rivista sperimentale di Freniatria” - aveva rilevato che
«l’aumento dei ricoverati, più che dai pazzi» era dovuto alla presenza di idioti, pellagrosi, paralitici,
epilettici alcoolisti e «degenerati morali», che avevano trasformato i manicomi nello «scarico» delle
«famiglie», degli «ospedali, dei ricoveri e delle carceri». 15 Dopo la riforma del 1904, non cambiò
quasi nulla; si continuò sempre ad entrare in manicomio «non perché malati, ma perché nocivi,
improduttivi, oziosi, di pubblico scandalo». 16 Alla vigilia della prima guerra mondiale, i ricoverati
avrebbero raggiunto la cifra di 54.311 unità, quasi un italiano e mezzo ogni mille abitanti.17
La deflagrazione del conflitto si trasformò per gli psichiatri in «uno spartiacque epocale». 18
Il problema della «selezione biologica dei soldati», «finalizzata alla razionalizzazione ed
intensificazione dello sforzo bellico» - la necessità, cioè, di dividere i sani dai mentalmente malati
per coadiuvare i tribunali militari nella ricerca dei simulatori, dei disertori e “trattare” quelli che
invece avevano lasciato le linee perché veramente colpiti da forme di shell-shock - fece aumentare il
potere riconosciuto agli psichiatri e fece avvicinare la neuropsichiatria all’eugenetica. 19 La scienza
psichiatrica, così come prima aveva proceduto alla patologizzazione del disordine e della devianza,
ora, con il conflitto, procedette a patologizzare l’emotività, la paura, il rifiuto.20 Gli atteggiamenti
pacifisti cominciarono ad essere considerati «segni di debolezza del giudizio critico». Dopo la
disfatta di Caporetto, tra i consulenti d’armata l’interpretazione della diserzione cominciò a
riallacciarsi all’antropologia criminale ed alle teorie sulla degenerazione. La fuga venne considerata
«un atto antisociale», una forma «impulsiva di difesa da un ambiente al quale non ci si era riusciti
ad adattare», un segno «di inferiorità».21 Si dovette constatare che, da fattore rigenerante come era
stato ipotizzato da chi era stato favorevole all'intervento, la guerra si stava trasformando in «una
fucina di traumatizzati, di sovraffaticati, di denutriti». Dal punto di vista eugenetico, l’attenzione
cominciò a focalizzarsi sul fatto che nelle trincee erano i migliori a perire, e gli altri, i superstiti,
erano masse di uomini mutilati nel corpo e nella psiche, minorati al punto che - come scriveva nel
1916 lo psichiatra socialista Ferdinando Cazzamalli - le donne avrebbero potuto sposarsi
limitazione. Per no-restraint, invece, si intende l'abolizione di ogni mezzo di contenzione. Sul tema torneremo
nell'ultimo capitolo.
15
Augusto Tamburini, Relazione a S. E. Ministro dell’interno sulla ispezione dei manicomi del Regno, in “Rivista
sperimentale di freniatria e medicina legale”, 1891, ora in F. Del Peri, Il medico e il folle, cit., p. 1114.
16
Babini, Liberi tutti, cit., p. 19.
17
Moraglio, Dentro e fuori il manicomio, cit., p. 17.
18
Ivi, p. 21.
19
Francesco Cassata, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 65-66.
20
Antonio Gibelli, Guerra e follia. Potere psichiatrico e patologia del rifiuto nella Grande guerra, in “Movimento
operaio e socialista”, Anno III. N. 4, ottobre-dicembre 1980.
21
Bianchi, Le ragioni della diserzione, cit., p. 29.
7
principalmente con «una gioventù tarata», con il conseguente incremento di una «progenie» debole,
«a mortalità elevata» e «predisposta a disordini psichici».22
La guerra non ebbe conseguenze psichiche solo sui soldati chiamati al fronte, ma anche
all'interno, nelle retrovie. Dal punto di vista dell’impatto psicologico sulla popolazione civile, se va
considerato che l’aumento delle necessità collettive ridusse le patologie individuali e fece registrare
un calo drastico del numero dei suicidi, è importante ricordare come la guerra produsse sia l’acuirsi
di fenomeni di fanatismo - che presero anche le sembianze dell’«aggressione distruttiva» verso i
gruppi sociali, politici e religiosi considerati responsabili della disfatta di Caporetto - sia la
ricomparsa di forme di «millenarismo» legate alla «percezione della guerra come apocalisse, come
punizione divina». Per molti, il sacrificio avrebbe potuto trovare senso solo «nella realizzazione
futura di un mondo nuovo».23 L’attesa di un futuro migliore era presente e diffusa soprattutto tra i
soldati, e, unitamente alla convinzione che fosse finalmente giunto il momento di far pesare quale
fosse stato il tributo di sangue pagato, avrebbe poi fatto da sfondo al clima politico generatosi nel
primo dopoguerra, caratterizzato dagli scioperi e dalle manifestazioni contro il caroviveri.24 Ciò in
parte spiega perché la partecipazione al primo conflitto mondiale sia un dato abbastanza diffuso
nelle biografie degli schedati antifascisti internati che andremo ad esaminare, per i quali il
fasciscolo di polizia spesso era stato aperto durante le agitazioni del Biennio rosso. La
partecipazione al conflitto inoltre, lo stato d'animo da questa prodotto e le difficoltà, anche mentali,
a reinserirsi nella vita normale dopo un'esperienza così devastante, potevano essere lette anche
come cause dell'avvicinamento di alcuni alle posizioni più estremiste. Dell'ex soldato G., ad
esempio, per spiegare la sua adesione al socialismo, si diceva che, terminata la guerra e «tornato a
casa col grado di sergente», mal si disponesse «a riprendere il suo mestiere di contadino». Fu
«appunto in tale periodo di incertezza che, a causa del suo stato d'animo un po' depresso, si lasciò
alquanto trasportare dala corrente sovversiva»: parlava «spesso di socialismo e dei vantaggi che da
22
Ferdinando Cazzamalli, Problemi eugenetici del domani. Guerra e degenerazione etnica, in “Quaderni di
psichiatria”, a. III, luglio - agosto 1916, cit. in Cassata, Molti, sani e forti, cit., pp. 58-60.
23
Giovanna Procacci, Gli effetti della Grande Guerra sulla psicologia della popolazione civile, in Storia e problemi
contemporanei, n. 10, 1992, pp. 76-88.
24
L’attesa dei soldati per il futuro è testimoniata dalle memorie scritte da P. durante la sua degenza nel manicomio di
Macerata. Al ricordo della guerra e dei compagni morti, Pietro univa deliri di tipo religioso sul perdono dei nemici, sulla
pace e sul futuro del mondo. Dopo la ritirata di Caporetto, in cui dovette camminare quasi per un mese «per mettersi in
salvo», Pietro aveva incominciato «ad essere melanconico, pauroso e triste». Aveva anche tentato di suicidarsi. Tornato
a casa per una licenza, aveva iniziato a manifestare segni di «squilibrio mentale»: la notte non dormiva più, ma
«fischia[va], canta[va] e suona[va] il mandolino. Mangia[va] sfrenatamente e fuma[va] moltissimo». Il 28 dicembre del
1918, quando la guerra era ormai terminata, venne ricoverato nel manicomio di Macerata perché la famiglia non era in
condizioni di gestirlo. In una lettera alla madre, si diceva «certo di non essere né pazzo né nevrastenico», aggiungendo:
«Lo sai bene come ho passato i lunghi anni lontano da te, tra il rombo del cannone e lo scoppio della mitraglia e con la
morte sempre vicino. Ora mi sembra giunta l’ora di svago». Quindi chiese cioccolata ed un vestito buono, con gemelli e
cravatta, per andare a Roma; cfr. AOPMc, Cartelle cliniche, Uomini dimessi, 1919, (data di dimissione, 31 gennaio
1919), Certificato medico 27 dicembre 1918, Municipio di Tolentino, Ordinanza di internamento del 27 dicembre 1918;
Lettera di P. del 31 dicembre 1918 e Quaderno di P., 10 gennaio 1919.
8
esso sarebbero derivati alle masse operaie e ai contadini».25
Secondo Leonardo Bianchi - psichiatra, deputato e direttore del manicomio provinciale di
Napoli, che della Legge sui manicomi e sugli alienati era stato il relatore - il conflitto aveva
provocato un «impressionante aumento della follia» e l’inizio della «degenerazione della razza». Di
fronte alle nuove necessità, la Legge doveva essere riformata. Il principio della sola pericolosità
sociale doveva essere rivisto, poiché «coi criteri restrittivi ed esclusivamente di Pubblica Sicurezza»
la legge contribuiva «indubbiamente all’incremento della follia», in quanto «un numero non
indifferente di epilettici, di nevrastenici, di imbelli» non sarebbero mai entrati in manicomio perché
non considerati socialmente pericolosi, restando perciò liberi «di inquinare il consorzio civile». 26 A
causa della centralità della categoria di «pericolosità sociale», aggiungeva inoltre Bianchi, i
manicomi avevano sempre di più rafforzato le loro caratteristiche di strutture deputate alla custodia
degli alienati più che alla loro cura, trasformandosi in «istituti di isolamento e di sequestro dei
malati». Quello che si chiedeva, in sostanza, era l’eliminazione della categoria della pericolosità:
non tanto per poter internare di più, quanto per orientare i manicomi verso la funzione terapeutica,
liberandoli da quella custodialistica. Si chiedeva inoltre - ma questo aspetto, come il precedente,
sarebbe restato lettera morta - la cancellazione delle disposizioni che prevedevano la responsabilità
del direttore nel caso di dimissioni in prova di un alienato, qualora la condotta di quest’ultimo, da
ex degente fosse sfociata in comportamenti illegali o comunque dannosi per sé o per gli altri.27
L'internamento psichiatrico civile e l'azione del fascismo.
L'approccio del fascismo verso la legge del 1904 ed il trattamento delle malattie mentali
seguì tuttavia una direzione opposta a quella auspicata da Leonardo Bianchi, il direttore del
manicomio di manicomio di Napoli che della Legge era stato relatore. I pregiudizi sul binomio
malattia mentale-pericolosità si rafforzarono, e, in linea con la visione fascista del rapporto tra Stato
ed individuo, nel corso del ventennio il regime non solo non mise mai mano ad una riforma che
tendesse a valorizzare gli aspetti terapeutici nell'approccio legislativo al trattamento della malattia
mentale, come richiesto da alcuni psichiatri, ma anzi ne consolidò gli aspetti autoritari e
repressivi.28
25
ASMc, Questura, Radiati, b. 25, f. S. G., Carabinieri di Tolentino, 7 settembre 1931. Il corsivo è mio.
Leonardo Bianchi, A proposito della riforma della legge sui Manicomi e sugli alienati, in “Rivista sperimentale di
freniatria”, 1922, cit. in Moraglio, Dentro e fuori il manicomio, cit., p. 21.
27
Leonardo Bianchi, A proposito della riforma della legge sui Manicomi e sugli alienati, in “Rivista sperimentale di
freniatria”, 1922, cit. in Canosa, Storia del manicomio in Italia, cit., p. 158.
28
Sulla visione fascista del rapporto tra Stato ed individuo appaiono significative le parole usate dal Ministro Alfredo
Rocco nella sua presentazione al nuovo codice penale del 1930. Il fascismo considerava la società (ovvero «l’organismo
riassuntivo della serie indefinita delle generazioni») e lo Stato (che di questa era l’«organizzazione giuridica») come
portatori di «fini propri», superiori a quelli dell’individuo e all'individuo stesso, ridotto ad «un elemento infinitesimale e
26
9
Nel 1926, un manuale teorico-pratico sui manicomi ribadì la convinzione che la funzione
dell’internamento psichiatrico fosse una «funzione di tutela della parte sana e normale della
società», volta ad «eliminare» - sia pure «temporaneamente» - tutti coloro che potevano risultare
pregiudizievoli per l'ordine pubblico e la «pubblica morale». Il personale che operava nei manicomi
durante il fascismo continuava perciò a formarsi professionalmente intorno a questi principi, che
consideravano la malattia mentale come un fattore di disturbo e l'alienato come un deviato.29 Il
«concetto di pericolosità sociale» venne anzi esteso e furono rafforzati gli elementi più
marcatamente legati al controllo poliziesco, attraverso la previsione di disposizioni che miravano a
responsabilizzare al massimo la famiglia e la classe medica, i due soggetti che per primi si
sarebbero dovuti accorgere dei segni dello squilibrio e che per primi dovevano essere chiamati a
segnalarlo. Dopo la messa fuori gioco delle opposizioni politiche e l'avvio della fascistizzazione
della società italiana, ad esempio, in materia di controllo delle malattie mentali l’approvazione del
codice penale del 1930 introdusse nuovi reati come la «omessa custodia» degli alienati o la «omessa
denunzia».30 Il nuovo codice dispose anche l'obbligo di iscrizione nel Casellario giudiziario dei
ricoverati, norma contestata da diversi psichiatri membri della Lega italiana di igiene e profilassi
mentale, come Eugenio Tanzi - triestino, direttore del manicomio di Firenze, che nel 1905 aveva
scritto un Trattato di psichiatria diventato poi il testo di riferimento per la formazione degli
psichiatri nella prima parte del Novecento - e Giulio Cesare Ferrari - già fondatore della “Rivista di
psicologia” e direttore del manicomio di Imola - oltre allo stesso Leonardo Bianchi.31
Negli anni del fascismo il numero degli italiani internati in manicomio continuò a far
registrare un costante aumento. Se fino al 1926 questo incremento fu più contenuto - la percentuale
crebbe solo dello 0,2 per mille sulla popolazione totale, rispetto alla vigilia della guerra - nel
periodo tra il 1927 e il 1941 si assistette ad una progressiva crescita: i ricoverati passarono da
62.127 a 94.946. Ogni anno un nuovo record, sia rispetto al totale dei degenti che alla popolazione
residente. Secondo Massimo Moraglio, nel caso italiano questi numeri rendono legittimo
posticipare la fine del «Grande internamento» - ovvero la crescita esponenziale dei ricoveri
registrata in tutte le società occidentali a partire dalla seconda metà dell'Ottocento - al termine del
secondo conflitto mondiale.32
L’aumento dei ricoverati psichiatrici si inserisce all’interno della più vasta politica fascista
transuente dell’organismo sociale, ai cui fini deve subordinare la propria azione e la propria esistenza» Alfredo Rocco,
Relazione a S. M. il Re del ministro guardasigilli presentata nell'udienza del 19 ottobre 1930 per l'approvazione del
testo definitivo del Codice penale, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1930, pp. 10-11.
29
Camillo Marini, L'assistenza manicomiale pubblica nelle leggi, nella dottrina, nella giurisprudenza. Manuale teorico
pratico ad uso delle amministrazioni provinciali e comunali, dei manicomi e dei privati, Casa editrice libraria,
Viareggio 1926, cit. in Guarnieri, Matti in famiglia, cit., p. 488.
30
Babini, Liberi tutti, cit., pp. 94-95 e la nota n. 79 a pp. 312-313.
31
Guarnieri, Matti in famiglia, cit., p. 488.
32
Moraglio, Dentro e fuori il manicomio, cit., pp. 31-32.
10
d'igiene della razza che prese corpo a partire dal discorso dell’ascensione del maggio 1927, quando
il capo del governo parlò per la prima volta di “lotta per la salute fisica della razza” e la politica
demografica divenne un obiettivo del regime, simbolico oltre che politico. Un obiettivo che era
stato teorizzato dallo stesso Mussolini negli anni della prima guerra mondiale, quando aveva
prefigurato per l'Italia il destino di trasformarsi in un «arsenale», dove tutti erano chiamati a
lavorare al meglio per il perseguimento di una finalità comune.33
Giunto al governo, Mussolini restò convinto che la forza dell’Italia, industrialmente arretrata
e priva di materie prime, si sarebbe dovuta basare sul numero. Cominciarono allora ad essere
implementate politiche intese a rafforzare l’integrità e la sanità fisica e morale degli italiani
attraverso interventi sulla maternità, sull’infanzia, sulla sanità in generale, come la creazione
dell’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia o dell’Opera Nazionale Balilla, l’organizzazione di
colonie elioterapiche per i bambini, la massiccia incentivazione dell’attività sportiva, gli interventi
sull’organizzazione sanitaria.34 Nel 1933, prefigurando i compiti di «bonifica umana e sociale» di
quello che doveva diventare lo «Stato allevatore», Annunziato Caratozzolo chiese di permeare
anche la medicina di «quell’attivismo che la politica» fascista stava manifestando in «ogni» altro
«congegno della vita economica e sociale, e che, a maggior ragione», si doveva «portare nel regno
della passività, della malattia e della degenerazione». Secondo Caratozzolo era necessario l’avvio di
una profilassi «totalitaria», mirante alla «selezione pedagogica dei bambini anormali», per separarli
dagli altri ed aiutarli nella «lotta per l’esistenza», costruendo «una piccola comunità di uomini
inferiori, costretti anche essi a mantenere i ranghi dell’ordine sociale, nelle sue necessità, ma una
comunità» comunque «sempre meno infelice» di quelle che sarebbero state costruite con la
«reclusione» negli istituti per minorati.35 Nello stesso anno, Nicola Pende affermò invece che il
«deviante» doveva essere paragonato alla «cellula maligna di un tumore» che minacciava «la
stabilità e la validità» di tutto l'organismo sociale.36 Più tardi, alla vigilia dell’approvazione delle
leggi razziali, l’affermato medico endocrinologo e professore universitario sarebbe giunto alla
teorizzazione di una «scienza dell’ortogenesi», ovvero «l’arte di migliorare continuamente il
bilancio biologico della nazione, liberandolo» dalla «massa dei mediocri e degli improduttivi», dei
«mediocri della salute fisica, dei mediocri morali, dei mediocri intellettuali», soggetti che
33
Angelo Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Donzelli, Roma 2003,
p. 280.
34
Carl Ipsen, Demografia totalitaria. Il problema della popolazione nell'Italia fascista, Il Mulino, Bologna 1992, pp.
87-102 e 205-273; Giovanna Vicarelli, Alle radici della politica sanitaria in Italia. Società e salute da Crispi al
fascismo, il Mulino, Bologna 1997, pp. 279-301.
35
Annunziato Caratozzolo, Lo Stato allevatore, Alberto Morano Editore, Napoli, 1933, pp. 75-84. Le ctazioni sono a p.
75, 78, 83-84.
36
Nicola Pende, Bonifica umana razionale e biologia politica, Bologna 1933, cit. in Cassata, Molti, sani e forti, cit., p.
197. Pende (1880-1970) studiò le ghiandole endocrine ed i rapporti tra le attività di queste e la costituzione biologica,
dalle quale derivò il concetto di biotipo. Professore universitario a Messina, Cagliari, Bari, Genova e Roma.
11
sottraevano «ogni anno miliardi alla ricchezza nazionale».37
Medici e scienziati svolsero il loro ruolo nell’elaborazione, accettazione e diffusione del
razzismo italiano, soprattutto a partire dalla svolta aggressiva nella politica estera successiva alla
guerra d’Etiopia ed alle leggi del 1937, che proibivano i matrimoni tra gli italiani ed i “sudditi
coloniali”.38 Nel 1938 si assistette all’introduzione delle Leggi razziali e, negli anni successivi, tra il
1939 ed il 1941, la percentuale degli internati psichiatrici raggiunse la cifra massima: 2,12 ogni
mille abitanti. Poi, con l'avanzare della guerra, la cifra tornò a scendere, ma in questo caso
dovrebbero valere le considerazioni già fatte a proposito dell’impatto psicologico nella popolazione
provocato dalla mobilitazione generale durante il primo conflitto mondiale.39
Rispetto all’uso del manicomio a fini eugenetici ogni accostamento del caso italiano con i
programmi nazisti risulterebbe fuori luogo. Il ricorso all’«eutanasia come mezzo di profilassi
sociale» è una specificità tedesca che non trova «equivalente nella storia del XX secolo», e furono
proprio i medici del Terzo Reich a rappresentare «una delle categorie professionali più nazificate». 40
Sebbene considerasse la diversa appartenenza razziale e l'ereditarietà come cause predisponenti alle
malattie neurologiche e mentali, la psichiatria italiana non ricoprì un ruolo centrale
nell'elaborazione della legislazione razzista, come era invece avvenuto in Germania.41
Come vedremo anche nel prossimo capitolo, la posizione contraria della Chiesa cattolica,
unitamente agli obiettivi popolazionisti del regime, rese impossibile dar corso anche in Italia a
politiche eugenetiche negative, volte cioè all’eliminazione dei tarati. Tuttavia, almeno dal punto di
vista pseudoscientifico, l’impegno a diffondere convinzioni e pregiudizi circa la necessità di operare
una selezione qualitativa della popolazione era alto. La rivista “La difesa della razza”, ad esempio,
sin dalle prime uscite propagandò l'adozione di misure più dure nella lotta alla degenerazione,
concentrando l'attenzione sull'ereditarietà delle malattie mentali - tra le quali la paranoia e la
nevrastenia - e sui possibili rimedi, dal certificato prematrimoniale obbligatorio alla sterilizzazione
dei malati.42 “Razza e Civiltà”, rilanciando le già descritte preoccupazioni di Nicola Pende,
37
Nicola Pende, Scienza dell’ortogenesi, Bergamo s.d. (1938), cit. in Giorgio Cosmancini, Scienza ed ideologia nella
medicina del Novecento: dalla scienza egemone alla scienza ancillare, in Storia d’Italia, Malattia e medicina, Annali,
7, Einaudi, Torino 1984, p. 1263, nota 14.
38
Giorgio Israel, Pietro Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, il Mulino, Bologna 1999. Sul razzismo coloniale
cfr. Nicola Labanca, Il razzismo coloniale italiano, in Burgio, Nel nome della razza, cit. pp. 145-163.
39
Per i dati statistici cfr. la tabella in Moraglio, Dentro e fuori il manicomio, cit., p. 17.
40
Traverso, La violenza nazista, cit., pp. 142, 146.
41
Ferruccio Giacanelli, Tracce e percorsi del razzismo nella psichiatria italiana della prima metà del Novecento, in
Alberto Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia, 1870 - 1945, Il Mulino, Bologna
1997, pp. 390-392; sul tema dell'apporto della scienza italiana al razzismo cfr. anche Roberto Maiocchi, Scienza italiana
e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze 1999.
42
Una delle prime uscite de “La difesa della razza” sul tema è caratterizzata da una raccolta di foto ad elevato impatto
emotivo che mostrano bambini e neonati affetti da cecità, acrocefalia, microcefalia diplegica, ma anche adulti affetti da
nevrastenia e paranoia; cfr. Impediamo che nascano degli infelici, in “La difesa della razza”, a. I, n. 6, 20 ottobre 1938,
s-p.. A questo seguiranno altri articoli, dei quali a titolo di esempio citiamo quello del professore della Facoltà di
medicina e chirurgia dell'Università di Cagliari, Luigi Castaldi, Eredità delle attitudini psichiche, in “La difesa della
razza”, a. III, n. 3, 5 dicembre 1939, pp. 26-31; insieme a quelli di Giovanni Marchiori, Propaganda eugenica o misure
12
sottolineava invece come gli stati spendessero ogni anno «miliardi per il mantenimento e
l'educazione degli anormali di ogni genere». La rivista non lesinava inoltre critiche all’impianto
della Legge del 1904, sostenendo che, a causa della «classica formula» dell'assenza di pericolo per
sé e per gli altri, dai manicomi continuavano ad essere dimessi - e, per contro, a non essere ammessi
- individui tarati, che, lasciati colpevolmente «liberi di contrarre matrimonio» e «di generare»,
avrebbero potuto trasmettere ai «figli la triste eredità della loro malattia». In tal modo, si insisteva,
ci si sarebbe dovuti aspettare «un continuo incremento del numero degli anormali» e un «continuo
aggravamento delle infermità da essi trasmesse», qualora non si fosse finalmente giunti ad «una
politica razziale basata su igiene e profilassi rigorose, se non addirittura drastiche». 43
Per i casi di ricovero psichiatrico degli schedati politici, l’orizzonte cronologico che
abbraccia il ventennio fascista sembra essere diviso in due periodi. Considerando anche le
informazioni contenute nelle biografie curate da Dal Pont, degli oltre cinquecento antifascisti per i
quali si sono potute raccogliere notizie sull’internamento, sia giudiziario che civile, sono una decina
quelli per i quali esso è stato disposto nel quadriennio 1922-1926. Tra questi Argo Secondari, il
fondatore degli arditi del popolo della capitale.44 Come a dire che negli anni segnati da una più alta
conflittualità politica - dall'istituzionalizzazione delle persecuzioni al delitto Matteotti, seguito dagli
attentati a Mussolini e dalle leggi speciali - il ricovero psichiatrico non venne utilizzato dalle
autorità come mezzo di repressione. Dal 1927 in avanti, invece, negli anni caratterizzati
dall’estensione del controllo politico su ampi settori istituzionali (dalla magistratura, agli altri
apparati dello Stato, fino al controllo delle carriere professionali) e da un’elevata stabilità (basata,
oltre che sul consenso, sul disincanto, sul disinteresse, sul qualunquismo e, non ultima, sulla paura)
il ricorso all’internamento psichiatrico degli oppositori sembra essersi affiancato all'adozione dei
più noti strumenti per la repressione del dissenso.45 Tutti i restanti casi di antifascisti
coercitive?, a. III, n. 18, 20 luglio 1940, pp. 18-23 e Guido Landra, Il certificato prematrimoniale, in “La difesa della
razza”, a. IV, n. 16, 20 giugno 1941, pp. 24-26. La rivista ospitò anche un dibattito tra i lettori nella rubrica
Questionario, alla quale giunsero numerose lettere di favorevoli e contrari alla sterilizzazione.
43
L'aumento dei malati di mente - e nell'articolo si evidenziava come i casi conosciuti fossero solo quelli dei pazzi
pericolosi, in quanto gli anormali che vivevano in libertà sfuggivano alle statistiche - era dovuto ai progressi della
tecnica e dell'organizzazione socio-economica, che aveva «reso inoperante il processo di selezione naturale»,
provocando un «aumento di tarati, pazzi, criminali» ed «ineducabili». Se ambiente ed ereditarietà erano «i fattori
principali» che determinavano «le caratteristiche della prole», era questa la tesi della rivista, ad una selezione naturale
che non funzionava più si doveva allora sostituire una selezione artificiale, basata sia sul risanamento degli ambienti
urbani sia su altri mezzi, tra i quali la segregazione manicomiale; cfr. Arnaldo Fioretti, Crepuscolo di civiltà?, in “Razza
e Civiltà”, a. 1, n. 5-6-7-, luglio settembre 1940, pp. 397-413. Le citazioni sono a pp. 400.
44
Argo Secondari, ex tenente degli arditi, anarchico, tra i fondatori degli arditi del popolo. In seguito ad una pesante
aggressione squadrista da cui era uscito con il cranio fracassato, avvenuta qualche giorno dopo la marcia su Roma,
venne ricoverato due volte e poi, nel 1924, rinchiuso definitivamente nel manicomio provinciale di Rieti. Dopo
l’internamento, il fratello avrebbe tentato invano di portarlo negli Stati Uniti, dove viveva e lavorava come medico, ma
le autorità non rilasciarono mai il permesso. Secondari morì in manicomio il 17 marzo del 1942. I funerali si svolsero in
maniera «strettamente privata» perché i fascisti avrebbero letto «come una provocazione» lo svolgimento di una
cerimonia pubblica; cfr. Eros Francescangeli, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista
(1917-1922), Obradek, Roma 2000, p. 145.
45
L’adesione manifestata al regime, se disarticolata fino alle scelte individuali, si fa sfumata ed ambigua, in alcuni casi
13
manicomializzati che abbiamo esaminato sono infatti successivi a questo periodo, con un’ulteriore
differenziazione tra i pochi ricoveri precedenti il 1930 ed il più significativo numero fatto registrare
a partire da quell’anno. Successivamente, con lo scoppio della seconda guerra mondiale, date le
necessità belliche e i crescenti problemi logistici di organizzazione e di gestione di migliaia di
internati civili e di prigionieri di guerra, le dinamiche di intervento sarebbero poi state caratterizzate
da una elevata intercambiabilità tra repressione politica e scienza psichiatrica, facendo rilevare
svariati casi di soggetti definiti “internato politico” ma ricoverati in manicomio o di altri schedati
come “squilibrati di mente” ma trasferiti nei campi d'internamento. 46 Le contingenze belliche
sembrano fare da sfondo anche agli internamenti di alcuni partigiani e antifascisti dalmati e sloveni
arrestati dopo l’occupazione italiana del 1941-1943.47
Con il fascismo la vigilanza della PS entrò nei manicomi. Il Ministero dell’Interno e le
autorità di PS continuavano a pretendere notizie sugli antifascisti ricoverati. A volte, quando la
degenza si protraeva per lunghi anni, la prosecuzione della vigilanza poteva dar vita a rimostranze
degli stessi militi, in quanto questa era ritenuta inutile, quasi ridicola, visto che gli schedati si
trovavano già custoditi, per di più tra i pazzi: circostanza che faceva percepire come irrazionale
qualsiasi azione volta a raccogliere elementi rispetto alla condotta politica. I carabinieri di San
Giovanni in Persiceto, ad esempio, chiamati dal questore di Bologna a riferire su A. - bracciante,
schedato come repubblicano e internato in manicomio nel marzo del 1932 - scrissero:
si trova tuttora rinchiuso al locale ricovero dementi tranquilli. Pertanto, questo comando non può fornire
neisuoi riguardi le chieste informazioni, poiché in detto luogo di cura non esplica alcuna attività e quindi non
è possibile controllare la sua condotta politica, anche per le sue menomate facoltà mentali.48
basata su precisi calcoli di convenienza personale che portavano ad accettare alcune norme come giuste e a
disapprovarne altre. Circostanza molto diversa dalla Germania nazista, dove si assistette invece a quella che l’autore
chiama “transazione psicologica”, ovvero lo scambio accettato dall’opinione pubblica tedesca tra un miglioramento
delle condizioni di vita e l’ingresso nella società della fedeltà e del controllo, all’interno della quale per vivere era
sufficiente e necessario non appartenere né per scelta né per nascita a nessuno dei gruppi individuati come nemici:
disabili, malati mentali, comunisti, gay, rom, sinti, ebrei, testimoni di geova, obiettori di coscienza, dissenzienti,
cospiratori, ecc.; cfr. Paul Corner, Consenso e coercizione. L’opinione popolare nella Germania nazista e nell’Italia
fascista, in “Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ‘900”, a. VI, n. 3, Luglio 2003, pp. 425-445.
46
Peloso, La guerra dentro cit., pp. 48-49.
47
Dal Pont, Antifascisti italiani nel Casellario politico centrale, cit., quaderno 10, p. 316, M. K.; quaderno 12, p. 117,
M. M.; quaderno 12, p. 137, S. M.; quaderno 14, p. 277, M. P.; quaderno 17, p. 179, C. S.. Sull’occupazione italiana
della Jugoslavia cfr. Angelo Del Boca, Italiani brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 237259 e Costantino Di Sante, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia ed i processi negati (1941-1951), Ombre corte,
Verona 2005.
48
A., classe 1899, bracciante, schedato come repubblicano. Arrestato il 24 maggio del 1931 perché, di fronte a due
fascisti, disse: «abbasso il re abbasso la regina, W la repubblica». Durante l’interrogatorio ritrattò parzialmente,
cercando forse di trovare benevolenza nelle nuove dichiarazioni: «si andrebbe molto meglio se si facesse la Repubblica,
capeggiata dal nostro grande Mussolini, mandando tutti in pensione e rimanesse solo la Milizia». Fino a quel momento
non aveva dato luogo a rilievi politici o morali. Il Tribunale speciale nel marzo del 1932 lo assolse per insufficienza di
prove. Nella sentenza veniva specificato che teneva sempre discorsi sconclusionati ed era da considerarsi «incapace»
anche quando aveva offeso il re e la regina. Dalle carceri di Roma il 16 marzo del 1932 venne trasferito a Bologna, a
disposizione della questura. Il giorno dopo, per ordine del questore, venne fatto visitare da un medico, che riscontrò
«sintomi di esaltazione con mania di persecuzione». Venne prima portato al manicomio Roncati di Bologna, poi
trasferito a San Giovanni in Persiceto, dove si trovava internato ancora nell’estate del 1940; cfr. ASBo, Questura Cat.
14
Più complessivamente, sembra che il fascismo avesse trovato nell’impianto della Legge del
1904 gli strumenti adatti per una politicizzazione del controllo e della gestione dell'alienazione
mentale e, in taluni casi, per il “trattamento psichiatrico” del dissenso politico. Mentre per la
repressione giudiziaria dell’antifascismo il regime dovette sia inasprire le pene previste dal Codice
penale per il delitto politico che istituire una magistratura apposita - il Tribunale Speciale per la
Difesa dello Stato - in campo psichiatrico non fu necessario dar corso né ad una riforma legislativa
né alla creazione di nessun binario separato. Ciò perché, come abbiamo visto, le applicazioni che la
psichiatria e alcune disposizioni della Legge sui manicomi permettevano resero inutile intervenire
in sede legislativa ed operare una rottura con la legislazione liberale. La Legge del 1904 e il
Regolamento del 1909 contenevano norme che si sarebbero mostrate capaci di soddisfare la volontà
del regime che mirava a cancellare, anche in campo psichiatrico, le garanzie riconosciute
precedentemente all'individuo posto di fronte all'azione repressiva e disciplinare dello Stato.
In una società dove il controllo sociale era fortemente penetrante come quella fascista, il
fatto che, oltre ad una serie di soggetti individuati, al secondo articolo della Legge era prevista la
possibilità per qualsiasi autorità di P.S. di ricorrere all’internamento d’urgenza e per chiunque altro
di richiamarne la necessità moltiplicava per gli schedati politici le possibilità di essere segnalati
come squilibrati mentali. L'elevata interpretabilità dei concetti di pericolosità sociale o pubblico
scandalo - che, come previsto dal primo articolo, erano alla base del ricovero psichiatrico - permise
invece l'aggiornamento dei vecchi pregiudizi sulla follia alla luce delle esigenze dell’idea fascista di
normalità e di devianza. La “responsabilizzazione del direttore” di fronte allo Stato ed alla società,
infine, prevista dagli articoli del Regolamento del 1909, giocò un ruolo determinante nella
permanenza in manicomio di alcuni antifascisti, per i quali, di fronte al parere negativo della PS,
delle questure o persino del Ministero dell'Interno, nessuno poteva avere il coraggio di assumersi i
rischi derivanti da una loro dimissione.
Sulle dimissioni di uno schedato politico, infatti, si manifestavano maggiormente le
ingerenze degli uomini e delle strutture preposti alla vigilanza politica. Alle Direzioni psichiatriche
veniva sempre chiesto di informare la PS nel caso di liberazione di un antifascista dal manicomio:
una circostanza che di per sé era una forma di pressione e si trasformava in un freno allo sviluppo di
un'azione medica libera e cosciente.49 Nel caso di Giuseppe Massarenti, gli agenti che lo
accompagnarono al Santa Maria della Pietà specificarono agli infermieri che se fosse stato dimesso
A8, Radiati, b. 135, f. R. A., Carabinieri Bologna, Processo verbale di arresto, 24 maggio 1931; Questura Roma, 8
marzo 1932; Tribunale speciale per la difesa dello Stato, sentenza del 27 febbraio 1932; Copia di certificato medico,
senza data; Questura di Bologna, 7 maggio 1932; Carabinieri San Giovanni in Persiceto, 17 dicembre 1938; Carabinieri
San Giovanni in Persiceto, 5 luglio 1940 (in questo ultimo documento è contenuta la citazione utilizzata nel testo).
49
A volte la necessità di scrivere alla questura veniva annotata direttamente sulla copertina della cartella clinica, come
promemoria; cfr. ASPg, AOP Santa Margherita, b. 200 (Uomini), Cartella clinica n. 14304 o ASPg, AOP Santa
Margherita, b. 192 (Uomini), Cartella clinica n. 13931.
15
doveva essere direttamente riconsegnato alla polizia.50 Secondo Biamonti, come abbiamo visto, non
poteva invece essere dimissionato dal manicomio di Aversa «senza il nulla osta» della Prefettura di
Frosinone.51 Tempo dopo, tuttavia, quando questa si sarebbe detta favorevole alla fine della sua
permanenza al Santa Maria della Pietà (dove era stato nel frattempo trasferito), sarebbe stato il
Ministero dell'Interno a rispondere con un diniego, giustificando quella scelta con la pericolosità di
Biamonti e con le particolari condizioni del «momento politico», rappresentate dall'imminente
sbarco angloamericano in Sicilia.52
Di fronte a queste sollecitazioni politiche, difficilmente un direttore psichiatrico poteva
trovare la forza di opporsi e di dimettere il ricoverato, quando sarebbe restata sua la responsabilità
per i comportamenti che questo avrebbe potuto assumere in futuro. In un contesto in cui era la
fedeltà allo Stato (e quindi al fascismo) a determinare l'accesso al lavoro, alla carriera e al quieto
vivere, inoltre, è facile immaginare quale potesse essere il costo da pagare per i medici che avessero
voluto mostrare maggiore autonomia: la rinuncia all'affermazione professionale, al futuro, alla
tranquillità, persino alla vita, come abbiamo visto nell'introduzione a proposito di Guglielmo Lippi
Francesconi, direttore dell'Ospedale psichiatrico di Volterra che aveva dato rifugio ad oppositori,
partigiani ed ebrei e che sarebbe stato ucciso nel 1944 dai nazifascisti.
Una molteplicità di soggetti.
Nella maggioranza dei casi di internamento negli ospedali psichiatrici provinciali, la
procedura seguita per gli antifascisti fu quella d’urgenza, prevista dal secondo articolo della legge
del 1904, che disponeva che l'autorità locale di PS «poteva ordinare il ricovero in via provvisoria,
sulla base di un certificato medico». Sin dai tempi dell’approvazione della riforma, questa deroga
alla prassi ordinaria si era subito trasformata da eccezione in consuetudine largamente praticata.
In ordine gerarchico, la prima autorità di PS che poteva determinare un ricovero d’urgenza
era il podestà. Nelle aree periferiche, nelle campagne lontane dalle città e dai centri - dove non
esistevano uffici di polizia né questure - i podestà di nomina fascista - che dal febbraio del 1926
avevano sostituito i sindaci - provvedevano in prima persona ad emettere l’ordinanza per ricovero
degli alienati, in quanto titolari della funzione di Pubblica Sicurezza. Per gli antifascisti che
venivano internati dall’autorità comunale, spesso (ma non sempre, come vedremo) la condotta
50
Diario clinico di Giuseppe Massarenti, 2 dicembre 1937, in Cazzamalli, L'avventura di Giuseppe Massarenti, cit., p.
28.
51
ACS, CPC, b. 609, f. 98184, Biamonti Secondo, Questura di Roma, 31 gennaio 1938.
52
Ivi, Biamonti Secondo, Questura di Roma, 25 maggio 1943. La risposta negativa del Ministero alla richiesta di parere
sulla dimissione di Biamonti proveniente dalla Questura di Roma - che esponeva invece i pareri positivi raccolti tra
l'Ospedale Santa Maria della Pietà e la Questura di Littoria, dove si trovava la sorella di Biamonti che si era offerta per
custodirlo - si evince in una nota a penna a margine della richiesta stessa.
16
politica rivestiva un ruolo marginale rispetto alla già fortemente compromessa condotta morale.53
L'intervento del podestà, inoltre, poteva essere provocato da autorità ad esso sovraordinate, come i
questori o i prefetti. Fu il prefetto di Livorno, ad esempio, a chiedere al podestà di Campiglia
Marittima di far ricoverare A., l’autore della lettera inviata nel 1935 al Negus d'Etiopia nella quale
chiedeva di essere arruolato come volontario nel suo esercito.54
Per l’internamento d’urgenza, come abbiamo detto, era necessario un certificato medico.
Nelle questure o nelle prefetture la presenza di un medico non era prevista, situazione questa
sottolineata dal criminologo Benigno Di Tullio, che sosteneva che i medici di polizia, grazie alle
loro conoscenze bio-sociologiche, avrebbero potuto certamente coadiuvare i funzionari nella
prevenzione dei delitti.55 Quando un questore voleva far visitare un antifascista, allora, doveva
ricorrere ad un medico fiduciario. Quello che fece nel 1932, ad esempio, la Questura di Bologna
dopo aver ricevuto la sentenza del Tribunale Speciale che, in considerazione del suo stato mentale,
assolveva A., il giovane di cui abbiamo parlato poco sopra, per il quale i carabinieri di San Giovanni
in Persiceto avrebbero lamentato l'eccessiva vigilanza richiesta, persino quando A. si trovava nel
manicomio di Imola, ormai internato da molti anni.56 Anche nel caso del comunista P., ricoverato
nel 1942 dopo aver esternato la sua ostilità antitedesca, al fine di reperire la necessaria dichiarazione
di un sanitario che ne attestasse la pericolosità la questura impegnò un proprio «medico di fiducia»,
facendolo visitare direttamente negli uffici della PS.57 La necessità di reperire il certificato sembra
53
S., ad esempio, calzolaio e bracciante considerato «di pessima fama», «ozioso e vagabondo abituale», «prepotente ed
ineducato», tra il 1899 ed il 1933 aveva subito trentatre procedimenti giudiziari per reati comuni conclusisi poi con
trenta condanne. Nel luglio del 1926 era stato anche condannato ad otto mesi di carcere per offese al capo del governo.
In cella si rese protagonista della ripetizione dello stesso reato. Venne internato una prima volta nel 1932, come
alcolizzato, poi dimesso e nuovamente interanto alla fine del 1935, ancora dimesso e nuovamente internato fino al 13
aprile del 1936, quando era stato fatto uscire per l'ennesima volta. Ad appena quattro giorni dall'ultima dimissione, il
podestà di Torgiano, suo comune di origine, chiese al questore che S. venisse ricoverato «in qualche istituto di
beneficenza o del genere», date «le sue condizioni di miseria» e «per evitare fatti o atti contro la quiete pubblica». Il
questore rispose dicendo che non era possibile trovare una sistemazione, ad ogni modo, «qualora le sue condizioni
psichiche» fossero ancora peggiorate, consigliava al podestà di ricorrere ad un nuovo ricovero d'urgenza. Ciò
effettivamente avvenne (non sono stati tuttavia rinvenuti documenti relativi all'ultimo ricovero, né nel fascicolo di
polizia né nella cartella clinica) e il 9 febbraio del 1937, a cinquattraquattro anni, Secondo morì nel manicomio di
Perugia; cfr.: ASPg, Questura, Radiati, b. 15, f. 16, Carabinieri Todi, 16 agosto 1930 e Scheda biografica, 6 settembre
1930; Scheda biografica, 6 settembre 1930 e Certificato giudiziale, 5 giugno 1934; Scheda biografica, 6 settembre
1930; Carabinieri Todi, 19 marzo 1933; Carabinieri Perugia, 4 dicembre 1935; Questura Perugia, 11 gennaio 1936;
Foglio senza intestazione, 21 febbraio 1936; Foglio senza intestazione, 14 aprile 1936; Podestà di Torgiano, 17 aprile
1936; Foglio senza intestazione (a firma del questore di Perugia), 15 maggio 1936; Carabinieri Perugia, 27 marzo
1937; cfr. anche ASPg, AOP “Santa Margherita”, b. 192, (Uomini), Cartella clinica n. 13391.
54
ACS, CPC, b. 1350, f. 80874, C. Abdon; Prefettura Livorno, 23 settembre 1936.
55
Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., pp. 304-308.
56
ASBo, Questura Cat. A8, Radiati, b. 135, f. R. A., Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, sentenza del 27
febbraio 1932; Copia di certificato medico, senza data; Questura di Bologna, 7 maggio 1932.
57
ACS, CPC, b. 1698, f. 12443, Prefettura Livorno, 15 dicembre 1942. P., classe 1903, orfano (i genitori morirono nel
1918 probabilmente in seguito alla guerra o alla febbre spagnola), crebbe nel «ricovero di mendicità» di Livorno fino al
1921, anno in cui uscì e si iscrisse al partito comunista. Era «poco rispettoso delle autorità», capace di fare propaganda
ed era stato «sorpreso» dalla polizia «a spacciare manifestini sovversivi». Nel 1926 era stato ricoverato perché colpito
da sifilide, che gli aveva «prodotto un foro dal palato al naso» e gli aveva causato «la sordità». L’anno successivo venne
denunciato per delle lettere di solidarietà con Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, arrestati negli Stati Uniti e
condannati a morte dopo essere stati accusati di essere dei terroristi anarchici. Dopo aver accumulato una serie di
17
aver caratterizzato anche la dinamica del ricovero coatto di Giuseppe Massarenti. Un ordine del
giorno indirizzato al Ministero della giustizia nel 1947, approvato da un comitato costituitosi con lo
scopo di ottenere giustizia per l'ex sindaco di Molinella, lo avrebbe detto chiaramente: Massarenti
era stato «rapito e internato nel manicomio di Roma» a causa di «intrighi politici tramati» dal
«cessato regime», e la «illegale costrizione» era stata giustificata «con pretesti impugnati dalla
scienza».58
A Roma, dove Massarenti si trovava, era la Clinica universitaria per le malattie mentali a
funzionare da reparto di osservazione del Santa Maria della Pietà.59 Nei casi estremamente urgenti,
il ricovero di un potenziale alienato poteva avvenire addirittura senza certificato medico, che
sarebbe stato poi prodotto dai sanitari della clinica stessa.60 Sebbene ciò possa sembrare plausibile
per coloro che venivano sorpresi, magari per strada, in atteggiamenti pericolosi o di pubblico
scandalo, Giuseppe Massarenti, come sappiamo, mai, nemmeno velatamente, aveva manifestato la
volontà di nuocere a se stesso o di compiere un qualsiasi attentato; intenzione che, lo vedremo più
avanti, avrebbe invece accomunato le vicende di altri antifascisti ricoverati in manicomio.
Massarenti venne svegliato alle sei di un mattino del settembre 1937 in una delle malsane stanze
dove era costretto a rifugiarsi, dopo essere stato privato di tutto dalla persecuzione del regime. Ai
pesanti colpi alla porta dei due agenti di polizia seguì l’intimazione a salire nella loro macchina e
seguirli, cosa che fece senza il minimo tentativo di ribellione. Non venne nemmeno portato
direttamente alla Clinica universitaria, ma, in maniera inusuale, venne prima fatto passare al
Policlinico, e poi, solo poche ore dopo la sua registrazione negli elenchi dell'ospedale, alla Clinica,
dove arrivò non solo senza certificato medico che ne motivasse il ricovero in osservazione, ma
anche senza ordinanza della PS. Dopo dodici giorni, fu trasferito al Santa Maria della Pietà - da
dove sarebbe stato dimesso dopo più di sei lunghi anni. Al momento dell'ingresso venne registrato
precedenti politici, nel dicembre del 1942, di fronte all’ennesima diffida, P. aveva dichiarato di «non poter promettere di
non più ricadere nelle mancanze» contestategli, perché sentiva «istintiva avversione per la borghesia e tutte le autorità
costituite». Agli agenti che gli avevano fatto notare l’inopportunità di quelle parole, aveva risposto che era «nato così e
che fin da ragazzo» aveva provato «sentimenti anarchici» e non li avrebbe mai abbandonati. Alla presentazione del
verbale, accanto alla sua firma, aveva voluto scrivere: «con riserva». Conseguentemente il questore lo aveva fatto
visitare. Gli era stata diagnosticata «una forma mentale a tipo paranoico» che si manifestava «con idee irriducibili di
avversione alla guerra ed in particolare alla Germania». Per tale motivo doveva «essere messo nella impossibilità di
nuocere». Venne portato nella sezione civile del manicomio di Volterra; cfr. ACS, CPC, b. 1698, f. 12443, Prefettura
Livorno, 21 ottobre 1926 e Prefettura Livorno, 15 dicembre 1942. Per un approfondimento delle tematiche legate
all’adolescenza durante il primo conflitto mondiale cfr. Bruna Bianchi, Crescere in tempo di guerra. Il lavoro e la
protesta dei ragazzi in Italia. 1915 - 1918, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia 1995.
58
ASBo, Questura, Cat. A8, Defunti, b. 28, Massarenti Giuseppe, Procura della Repubblica Bologna, 9 gennaio 1947.
59
Il regolamento del 1909 prevedeva che le cliniche psichiatriche universitarie potessero funzionare da reparto di
osservazione a servizio degli ospedali psichiatrici provinciali. Quando un soggetto veniva portato in modo coatto in una
di queste cliniche, al pari del ricovero in osservazione in manicomio, doveva essere accompagnato da un'ordinanza di
pubblica sicurezza e da un certificato medico.
60
Questa circostanza mi è stata spiegata dal professor Roberto Tatarelli durante un colloquio avuto il 20 settembre 2012.
Tatarelli, psichiatra, professore di Psichiatria presso la Facoltà di Psicologia dell'Università “Sapienza” di Roma, in
servizio dal 1969 e dopo cinque anni psichiatra del Santa Maria della Pietà fino alla sua definitiva chiusura. Ringrazio il
professore per la disponibilità mostrata.
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come proveniente dal Policlinico, anzi, dalla sezione neuropsichiatrica del policlinico (altro compito
al quale assolveva la Clinica universitaria), che nel frattempo aveva preparato il necessario
certificato medico da allegare all’ordinanza, che stavolta la PS aveva predisposto.
La dinamica dell'internamento è immaginabile. I poliziotti, su mandato del questore, che si
presentano in ospedale, registrano un paziente e poi lo conducono direttamente in osservazione
psichiatrica, sostenendo che il soggetto che accompagnano è un pericoloso squilibrato mentale
proveniente da uno dei reparti dell'ospedale stesso. Il medico che interroga più volte il soggetto e
sente ripetere da questo sempre la solita storia: che è un perseguitato dalla polizia, che è stato
confinato, arrestato, pedinato per mesi e sorvegliato per anni (circostanze vere, secondo quanto
testimoniato dai documenti di polizia). Supponendo che il medico non sapesse chi fosse la persona
che si trovava davanti - ipotizzando cioè, la sua assoluta buonafede - è possibile ipotizzare che
l'effetto psicologico rappresentato dalla presenza degli uomini in divisa lo condusse inevitabilmente
a trarre conclusioni diagnostiche che riconoscevano nel racconto del paziente gli elementi del
delirio di persecuzione suggerito dalla Questura. Massarenti venne infatti considerato un paranoico,
e tale diagnosi sarebbe stata poi confermata dai medici del Santa Maria della Pietà. La motivazione
del passaggio in più effettuato dagli uomini della PS, invece, si potrebbe spiegare con la necessità di
dare una parvenza di legalità al ricovero. La Questura trattava l’internamento psichiatricopdi una
delle figure simbolo del socialismo italiano come se stesse trattando il ricovero di un qualsiasi
malato che, durante la permanenza in un ospedale, avesse manifestato segni di squilibrio mentale.
Come abbiamo detto, però, al Policlinico l'ex sindaco di Molinella ci era stato portato in modo
arbitrario, con l’inganno e solo per il tempo necessario alla sua registrazione.61
Pur nell'assoluta elasticità riconosciuta dalla Legge del 1904 all'interpretazione delle
circostanze che rendevano urgente un ricovero in manicomio, la Questura di Roma, come abbiamo
visto per Massarenti, quando le necessità del controllo politico diventavano pressanti non si faceva
scrupolo ad operare delle forzature per eliminare le residuali garanzie che dovevano tutelare gli
individui. Questi strappi alla procedura diventano più evidenti man mano che da questori e prefetti
si sale in ordine gerarchico lungo la scala delle autorità preposte alla sicurezza che provocarono
degli internamenti psichiatrici, che, in ordine, potevano essere il Ministero dell’Interno, la Divisione
affari generali e riservati della polizia, la Segreteria particolare del capo del governo e poi
Mussolini. Questi soggetti effettivamente non determinavano l’internamento in manicomio degli
antifascisti ma chiedevano alle questure o alle prefetture di muoversi in tal senso. La
politicizzazione di questori e prefetti rappresenta perciò un elemento che potrebbe contribuire a
spiegare alcuni ricoveri psichiatrici che, almeno apparentemente, sembrano più dettati da
61
Ferdinando Cazzamalli, L’avventura di Giuseppe Massarenti. Per la libertà e la dignità del cittadino, STEB, Bologna
s.d., pp. 12-16.
19
considerazioni politiche o di ordine pubblico che da un’effettiva pericolosità sociale.62
La registrazione di un'azione del Ministero volta a provocare un ricovero psichiatrico
rappresenta di per sé un intervento di tipo politico. Tale intervento peraltro era del tutto legittimo, in
quanto il secondo articolo della Legge del 1904 disponeva che «l'ammissione degli alienati nei
manicomi» poteva essere richiesta, oltre che «dai parenti» o dai «tutori», anche da «chiunque altro»
lo facesse «nell'interesse degli infermi e della società»; e chi, più del Ministero dell’Interno, poteva
essere depositario di questo interesse?
Dobbiamo considerare, inoltre, che durante il fascismo il controllo sociale e la repressione
politica si erano eretti a sistema, e che dietro la definizione di “chiunque altro” poteva celarsi
un’infinità di soggetti interessati a provocare un ricovero.63 Dal 1927 avrebbe preso avvio la
riorganizzazione dello schedario politico, poi ribattezzato Casellario politico centrale. Le attività di
intelligence non vennero tuttavia affidate soltanto alle autorità di PS.
Anche altri organismi partecipavano al dispiegamento di un capillare sistema di «controllo
delle masse». Interi settori della società vennero infatti «chiamati dal regime a condividere le
funzioni di polizia politica», sia con la partecipazione alle organizzazioni fasciste - come il partito,
le associazioni giovanili, quelle del dopolavoro o quelle femminili - che con il diretto
coinvolgimento nel sistema, come ad esempio per alcune professioni particolari (portieri,
albergatori o affittacamere) attraverso il rilascio di una tessera abilitante che teneva conto della
condotta politica e, immaginiamo, della predisposizione alla collaborazione con la polizia.64 Di
62
I prefetti erano considerati gli «esecutori intelligenti delle direttive del regime» nonché le estensioni periferiche di
un'amministrazione statale fortemente centralizzata. Se, tra la marcia su Roma e la fine degli anni Venti, la presenza nel
ministero dell'interno di personale proveniente dall'esperienza liberale aveva frenato una piena politicizzazione delle
nomine e delle carriere, con l'inizio degli anni trenta la situazione si rovesciò, e le nomine di prefetti politici (intendendo
con questi quelli provenienti dalle fila del PNF e non da quelle dell'amministrazione pubblica) aumentarono
progressivamente. Nel 1937, con la promulgazione di un decreto che di fatto fotografava la situazione esistente, si cercò
di tutelare le carriere amministrative stabilendo che almeno i 3/5 dei prefetti provenissero dall'Amministrazione
pubblica. Discorso diverso va fatto per i questori, direttamente impegnati sul terreno dell'ordine pubblico e della lotta
contro le opposizioni. Già con il regio decreto n. 762 del 18 marzo 1923 venne prevista la possibilità di nomina
temporanea a questore di persone estranee alle carriere nella PS. Chi fosse stato in grado di mostrare “singolare capacità
e rinomanza” si sarebbe poi visto confermare l'effettività del grado grazie ad una norma che tendeva a favorire il
personale civile dello Stato. Grazie a questi passaggi divenne questore effettivo, ad esempio, Umberto Albini, ferrarese
che aveva vissuto gli anni dello squadrismo più duro al fianco di Italo Balbo; cfr. Giovanna Tosatti, Il prefetto e
l'esercizio del potere durante il regime fascista, in “Studi storici”, a. 42, n. 4, ottobre-dicembre 2001; la citazione è a p.
1030.
63
Il controllo sociale era basato sia su meccanismi di repressione indiretta (come le maggiori difficoltà a trovare lavoro
per coloro che erano politicamente sospetti) sia su efficienti meccanismi di repressione diretta, come il Tribunale
speciale, il carcere o il confino di polizia; cfr. Paul Corner, Fascismo e controllo sociale, in “Italia contemporanea”, n.
228, settembre 2002, pp. 381-405.
64
Nel 1927 furono inoltre istituite altre “banche dati”, come lo schedario delle carte d’identità, dove dovevano essere
registrati tutti i sospetti in linea politica, o l’anagrafe centrale degli stranieri. A questo apparato si affiancavano qualche
centinaio di informatori, divisi per vari livelli di collaborazione: i confidenti retribuiti con compenso mensile, quelli
ricompensati di volta in volta ad ogni servizio, in misura variabile in base al grado di importanza attribuito alla
confidenza, e gli agenti segreti scelti tra la PS; cfr. Giovanna Tosatti, La repressione del dissenso politico tra età
liberale e fascismo. L’organizzazione della polizia, in “Studi storici”, a. 38, n. 1, gennaio-marzo 1997, pp. 238-252. Le
citazioni sono a p. 239 e p. 242; sullo stesso tema cfr. Mauro Canali, Le spie del regime, il Mulino, Bologna 2004 e
Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell'OVRA. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Bollati
20
fronte a questo apparato non era quindi difficile trovare qualcuno che - per premura, per scrupolo,
per convinzione, per convenienza, ma anche per vendetta o per punizione - sotto l’ombrello della
tutela dell'interesse della società segnalasse uno schedato politico anche solo per un minimo
accenno di anormalità, vera o presunta. Dopo l'approvazione del Codice penale del 1930, che, come
abbiamo detto, introdusse il reato di omessa custodia dei malati mentali, ogni segnalazione su un
sospetto squilibrato metteva poi automaticamente in moto quella catena di responsabilità che
accompagnava la gestione dei potenziali alienati di cui non si conosceva ancora l'effettiva
pericolosità sociale. Quando una segnalazione di intervento proveniva da un’autorità fascista, le
responsabilità si caricavano inevitabilmente di un preciso significato politico e più era alto il grado
dell’autorità che si muoveva per provocare un internamento, più queste responsabilità diventavano
stringenti.
Nel caso di V., ad esempio, uno jesino schedato come comunista che a più riprese aveva
pronunciato offese al capo del governo, fu il capomanipolo della MVSN a chiedere una visita
d'osservazione perché convinto che bisognasse «togliere» di mezzo quello «sconcio».65 Nel caso di
Secondo Biamonti, invece, come abbiamo visto nell’introduzione, fu il ministero dell’interno. Nel
caso che ci apprestiamo a descrivere, secondo lo scambio di informazioni contenute nel fascicolo di
polizia, sembra lecito pensare che l'ordine di ricoverare il soggetto sia stato impartito addirittura
dallo stesso Mussolini.
Neutralizzare una minaccia: il caso dell'avvocato S.
S., schedato come socialista sin dal 1897, proveniva da una famiglia benestante. Studente
universitario iscritto a legge, terminò gli studi a Siena, poi cominciò a «prender pratica
nell’avvocatura» a Firenze, «nello studio dell’On. Lucchini»: l'unico che, come abbiamo visto,
durante la discussione sull'approvazione della Legge sui manicomi e gli alienati avrebbe
Boringhieri, Torino 1999.
65
V. Era considerato Di regolare condotta morale e proveniente da una famiglia «di retti principi morali, politici e
penali». La mattina del 29 marzo 1935 - alla vigilia dell’aggressione all’Etiopia - avvicinò alcuni militi e disse loro «Io
vado in c… a tutti i fascisti. Volete i soldi per far la guerra, pigliatevela in c…». I militi lo portarono subito dai
carabinieri e chiamarono a deporre alcuni testimoni. Il capomanipolo della MVSN, nella sua dichiarazione, disse che
conosceva V. da diversi anni e poteva affermare che questi era «uno dei più accesi comunisti di Jesi» e che aveva
«sempre svolto opera denigratrice contro il regime». Per questo non lo riteneva «pazzo, come molti» facevano, ma «un
matricolato birbo», che sfruttava «questa credenza per poter impunemente sfogare la sua bile politica». Ad «ogni
modo», aggiungeva, era convinto che bisognasse «togliere questo sconcio» e quindi o internarlo in manicomio o
rinchiuderlo in carcere. Dopo l'esame dei testimoni, V. venne ammonito. Il 4 maggio del 1938 sarebbe stato
effettivamente internato nel manicomio di Ancona, avendo manifestato «segni di alienazione mentale». Al locale
commissariato di PS, il questore avrebbe raccomandato di avvertire l'ospedale per far «conoscere in precedenza»
l’eventuale sua dimissione, «trattandosi di persona di sentimenti avversi al regime». Nell’aprile del 1942 si trovava
ancora in manicomio; cfr. ASAn, cat. A8, Quest. An “politici 1940-1943”, b. 76/b, M. V., n. 24, Questura di Ancona, 16
dicembre 1932; Carabinieri Jesi, 1 aprile 1935; Carabinieri Jesi, deposizione del Comandante del reparto della
M.D.I.C.A.T. di Jesi, 29 marzo 1935; Prefettura Ancona, 1 maggio 1940; Commissariato PS Ancona - Archi, 23 aprile
1942.
21
manifestato dubbi sul rispetto delle garanzie dei cittadini. Chiamato militare in ritardo per via degli
studi, dopo una licenza per convalescenza, interrotta d'autorità perché aveva partecipato a delle
manifestazioni politiche, S. fece perdere le proprie tracce. Il 3 marzo del 1902 fu dichiarato
«disertore». Da una sua cartolina inviata a Firenze si scoprì che aveva raggiunto Lugano. Nel
gennaio del 1904, il console d’Italia riferì che si trovava ad Annemasse, in Alta Savoia. Quello che
insospettiva e che aveva «attratto l’attenzione della polizia» erano le «visite» che negli ultimi tempi
riceveva: dall’inizio di quell’anno, infatti, «frequenta[va] assiduamente tal Mussolini Benito, noto
anarchico italiano», ed insieme a lui scriveva articoli da spedire ai giornali socialisti della penisola.
Dopo quel periodo in Svizzera, passato fianco a fianco con il futuro capo del fascismo, S. rientrò in
Italia, nel 1905, «essendo stato revocato il mandato d’arresto» a suo carico.66
Passarono altri anni: la prima guerra mondiale, il biennio rosso, la marcia su Roma, il delitto
Matteotti. L'avvocato socialista aveva avviato nel frattempo la sua professione in uno studio legale a
Siena - «notoriamente conosciuto come di pertinenza» di un «massone particolarmente inviso» ai
fascisti - che venne «invaso e danneggiato» nella notte tra il 27 e il 28 settembre del 1925, «in
seguito all’eccitamento provocato» dalle notizie sugli «incidenti» di Firenze scatenati dal fascismo
contro la massoneria.67 Si trasferì allora a Roma, ma la passata militanza socialista e soprattutto la
schedatura di polizia continuavano a causargli dei problemi. Per poter ottenere un passaporto per
recarsi a Londra, ad esempio, dove doveva rappresentare una società in una transazione, dovette
ricorrere ad un esposto. Il documento, secondo il questore, non poteva essere rilasciato nei tempi
normali in quanto era stato «necessario procedere ad ulteriori accertamenti». S. riuscì a partire ma
in ritardo, perdendo la possibilità di concludere l’affare. Dopo un anno, di fronte alla necessità di
dover nuovamente recarsi all’estero, si trovò ancora di fronte agli ostacoli creati dalle questure.
Inviò ancora un esposto al Ministero dell’Interno, in cui lamentava «le forme spasmodiche»
raggiunte dalla PS di Roma nell’«accanimento» contro la sua persona: «una situazione intollerabile
per un vecchio professionista e per un uomo d’affari», scrisse. Persino gli alberghi rifiutavano di
ospitarlo, tanto erano «noiati dalle continue visite della polizia». 68 Si rivolse allora all'amico di un
66
ACS, CPC, b. 1844, f. 26089, tutte le citazioni si trovano in Prefettura di Siena, scheda biografica.
Ivi, Ministero dell’interno, copia della lettera della prefettura di Siena del 28 gennaio 1926. In un ultimo tentativo di
ricostituzione del settembre 1925, la massoneria indisse un’assemblea a Palazzo Giustiniani, sede del Grande Oriente
d’Italia. Dopo quella prova di forza, Mussolini decise di ricorrere agli squadristi. In Toscana cominciò allora una caccia
all'uomo contro i massoni, protrattasi nelle giornate tra il 25 settembre e il 5 ottobre, dopodiché intervennero le autorità
a fermare le violenze. Farinacci, che era stato duramente attaccato per la sua passata adesione alla massoneria, fu uno
dei più accesi sostenitori dell'operazione. Alla fine il bilancio ufficiale fu di diversi uffici abitazioni e negozi di massoni
distrutti e di quattro morti ufficiali, mentre le ricostruzioni contano i decessi in almeno otto. Farinacci era stato espulso
dal Grande Oriente d’Italia nel 1916, «quando aveva cercato di imboscarsi per non andare in guerra»; cfr. Aldo A. Mola,
Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, Milano 1992, pp. 567-569 e Anna Maria
Isastia, Massoneria e fascismo: la grande repressione, in Zeffiro Ciuffoletti - Sergio Moravia, La Massoneria. La
storia, gli uomini, le idee, Mondatori, Milano 2004, pp. 220-221; cfr. anche la nota n. 148 a p. 236.
68
ACS, CPC, b. 1844, f. 26089, Questura Roma, 20 maggio 1928; Biglietto postale della Prefettura di Milano, 24 luglio
1928; Copia dell’esposto di S. inviato al Ministero dell’Interno del 19 ottobre 1929, allegato a Ministero dell’Interno,
31 ottobre 1929.
67
22
tempo ed inviò un telegramma a Mussolini.69 A questo seguì una lunga lettera, «a illustrazione e
chiarimento del telegramma» precedente, dove accusava le autorità senesi e romane per gli intralci
subiti.70
Alla fine le circostanze lo costrinsero a dichiarare il fallimento della società che
amministrava, costatogli, a suo dire, oltre sei milioni di lire, cioè «tutto» il suo «patrimonio». 71
Ridotto sul lastrico, ricominciò a scrivere altri esposti, chiedendo di essere risarcito per la
distruzione del suo studio avvenuta nel settembre del 1925. Non trovando nessun riscontro, scrisse
una nuova lettera a Mussolini, contenente alcune riflessioni - che lui chiamava «meditazioni di san
Michele», il santo del giorno della devastazione del suo studio di avvocato - nelle quali si diceva
«disperato» e minacciava di vendere al miglior offerente alcune vecchie lettere che l'allora “noto
anarchico” gli aveva inviato ai tempi in cui si conoscevano.72
Questa mossa potrebbe essere certo considerata il gesto di un uomo disperato che cerca di
giocare - è proprio il caso di dire - le ultime carte in suo possesso. Anche la conclusione a cui S. era
giunto, secondo la quale il principio di ogni male andava ricercato nella distruzione del suo studio
di avvocato per mano dei fascisti e, conseguentemente, la ricerca di risarcimento da parte di colui
che lì rappresentava più di tutti, andrebbe letta come un’interpretazione dei fatti propria del “delirio
di persecuzione”. Mettendo da parte queste ed altre possibili considerazioni sulla reale situazione
mentale dell'avvocato senese, quello che invece vale la pena evidenziare è che, non appena quegli
69
«Prefettura Siena et Regia Procura Roma aggiogate carro interessi miei nemici et concorrenti da oltre quattro mesi
impediscono rinnovo mio passaporto come mezzo sicuro raggiungere mio fallimento con rovina mia famiglia - stop Finalmente ieri procuratore rilasciò nulla osta ma poche ore dopo Regia Procura ritirava nulla osta impedendo rinnovo
passaporto rendendo inevitabile mia rovina - stop - Così ottavo annuale Regime vedrollo nell’aspetto rapace dei torvi
clienti della Prefettura di Siena et della Regia Procura di Roma - stop - Ossequi»; cfr. ACS, CPC, b. 1844, f. 26089,
Copia del telegramma di S. del 23 ottobre 1929, allegato a Ministero dell’Interno, 31 ottobre 1929.
70
Ivi, Lettera di S., 31 ottobre 1929. S. avvertì Mussolini anche del fatto che se a causa del mancato rilascio del
passaporto gli fosse stato impossibile chiudere le pratiche avviate e definite sin dall’estate precedente, non avrebbe
avuto «altra via che depositare e dichiarare il fallimento» della sua società, che a quel punto sarebbe stato causato «per
volontà degli organi governativi» e «a beneficio d’interessi privati».
71
Ivi, Lettera di S. del 5 novembre 1930, allegata a Prefettura Siena, 13 novembre 1930.
72
Ivi, Biglietto del Segretario particolare del Capo del governo, 1 ottobre 1930. La lettera e le “meditazioni” sono
allegate. Il testo delle tre meditazioni è il seguente: «Caro Mussolini, si compie oggi giusto un lustro che mi fu
devastato il mio studio, prodotto di trenta anni di lavoro, nel quale mi ero anche occupato per te. E te lo ricordo oggi
che, sotto la tua personale dominazione nazionale, sono ridotto all’elemosina ed alla fame. Sappi che tutte queste
meditazioni le ho scritte a corpo vuoto per digiuno. Non so se sia frutto del vuoto del ventricolo, ma penso oggi lecito
fare ciò che finora mi parve obbrobrioso, e non mi sembra che tu possa avertene a male. Nel frugare le carte per
riordinarle trovai alcune tue missive che mi fece piacere averle ritrovate e che ora custodisco gelosamente, e non avevo
alcuna idea di disfarmene per cui mi parve offesa la proposta fattami da un’affarista di venderle per Cinquecento
sterline. Oggi la cosa non mi pare così offensiva né così bassa. Dopotutto, se sono stato privato di tutti i miei beni e di
ogni tutela giuridica, se la mia famiglia ed io languo [sic!] se posso con quella somma (ne domanderò 1000), pagare i
debiti, fare studiare i miei 3 figli, quali scrupoli debbo avere? Intanto mi toglierò dallo stato di oppressione nel quale mi
trovo e potrò lavorare ancora per questi pochi giorni che mi rimangono per sistemare i miei tre figli. Né tu puoi avertene
a male, che nelle lettere vi è niente che ti faccia torto, e la situazione attuale, senza tua colpa, mi è stata creata per cause
che hanno la radice prima in te. Se questo proposito non è affetto dalla mala suada fames (lo ricontrollerò a stomaco
vuoto) lo attuerò. Per ora scrivo subito a Londra […] Dal San Michele dell’anno III mi sono sentito mutilato: e giorno
per giorno mi è stato tolto qualche parte dei miei averi; e mi è stata preclusa qualche via, anzi qualunque via abbia
intrapreso a camminare per salvarmi. Non so quello che farò per dare pane ed istruzione ai miei figli. Farò tutto il
possibile! Non so come uscirò da questa situazione, fuori che col suicidio. Tu sai che non mi suicido: preferirei
uccidere. Non credo che fosse nel tuo programma ridurmi alla disperazione».
23
scritti arrivarono a destinazione, il segretario particolare del capo del governo Alessandro
Chiavolini - colui che aveva svolto il ruolo di organizzatore dell’ufficio politico di Mussolini sin
dalla sua prima elezione del 1921 - stilò una nota per la Direzione generale di PS segnalando «per i
provvedimenti del caso» il «noto avvocato», che «continua[va] a scrivere delle lettere
sconclusionate, adoperando termini intollerabili» e «dimostrando di non essere nella pienezza delle
proprie facoltà mentali».73 Lo stesso giorno, alle prefetture Roma e di Siena ed alla Questura di
Roma arrivò un telegramma del Ministero dell’Interno nel quale si pregava di «disporre» che fosse
rintracciato e «subito internato in manicomio, per accertare le sue condizioni di mente». 74
L'immediata reazione del Ministero potrebbe essere spiegata dalle parole usate da S. nelle
lettere - specie quelle con le quali dichiarava che avrebbe preferito uccidere piuttosto che suicidarsi
- e con la necessità di mettere al sicuro un paranoico che puntava direttamente al capo del governo e
che si trovava pericolosamente in circolazione tra la Toscana e la capitale. Ma il problema era un
altro, e lo si capisce dal contenuto del telegramma che il ministero inviò a Siena e a Roma il giorno
seguente, ordinando alle due questure di «provvedere subito ad accurate perquisizioni» allo «scopo
rinvenire et sequestrare» le «lettere» di «S.E. Capo del Governo» che l’avvocato toscano «avrebbe
ricevuto tempi passati et che conserverebbe gelosamente per venderle» agli «avversari del
regime».75 Benché disperato, infatti, S. aveva dimostrato di poter realmente trattare la cessione di
quella speciale corrispondenza. Il suo passato di giovane avvocato ben introdotto negli ambienti del
socialismo italiano dell’inizio del Novecento lo poteva rendere “riconoscibile” anche negli ambienti
antifascisti della fine degli anni Venti. Qualche mese prima, «in via confidenziale» la Divisione di
polizia politica era venuta a conoscenza che a Parigi S. aveva già cercato di avere un colloquio con
fuoriuscito chiamato Modigliani, e tutte le circostanze farebbero presumere si trattasse di Giuseppe
Manuele Modigliani, l’avvocato che si era costituito parte civile nel processo Matteotti. Questi
aveva deciso di «non avvicinarlo personalmente, ma di farlo incontrare con una persona di secondo
ordine» per capire cosa volesse, e la cosa sarebbe finita lì.76
Sappiamo tuttavia che ogni mattina, Mussolini cominciava la giornata con un colloquio con
il capo della polizia.77 E' quindi molto probabile che queste informazioni fossero in suo possesso e
che, incapace di ricordare cosa avesse scritto in quelle lettere, quali tipo di riflessioni o quali altre
informazioni potessero venir fuori, fosse più preoccupato dalle possibili conseguenze politiche
provocate dalla diffusione di notizie compromettenti piuttosto che dai rischi per la sua incolumità.
La PS di Firenze riuscì a catturare S. quasi immediatamente. La sera del 2 ottobre 1930,
mentre si trovava nel caffè dell’albergo dove dormiva, l'avvocato fu avvicinato da uno sconosciuto
73
Ivi, Biglietto del Segretario particolare del Capo del governo, 1 ottobre 1930.
Ivi, Ministero dell’Interno, Telegramma del 1 ottobre 1930.
75
Ivi, Ministero dell’Interno, Telegramma del 2 ottobre 1930.
76
Ivi, Foglio intestato “Divisione Polizia politica con appunto in data 19 dicembre 1929.
77
Corner, Fascismo e controllo sociale, cit., p. 392.
74
24
che gli domandò chi fosse, e, secondo la sua descrizione, lo pregò
di seguirlo in questura dove il Capo di gabinetto mi aspettava. Io risposi che data l’ora tarda e la mia
stanchezza sarei andato l’indomani mattina, ma egli insisté, aggiungendo che aveva condotto anche
l’automobile, per il che io, vista inutile ogni resistenza, annuii, e, salito nell’automobile, fui condotto in
questura. Colà non vidi alcun funzionario, ma nella stanza dove mi trovavo entrò un tipo, che mi si qualificò
dottore, senza specificare se in Legge od in Medicina (anzi i presenti mi dissero in Legge), e quando gli
domandai se era Commissario o segretario egli evitò di rispondermi schermendosi con un gesto che non
diceva nulla. Costui approfittando del mio stato d’ignoranza mi fece dei discorsi, per me strampalati, conditi
di insolenze, e si ritirò. Allora fui perquisito ed obbligato a vuotare le tasche. Dopo di che fui fatto salire
nella stessa automobile, e, senza aggiungere verbo, fui condotto al Manicomio di San Salvi e fatto
rinchiudere nella Clinica. Di straforo venni allora a sapere che quel figuro, trovato in questura, era un medico
al servizio della medesima, e che io ero stato oggetto di una visita per stabilire le mie condizioni di mente
[…] Capii allora tutta l’infamia perpetrata ai miei danni. Non potendo rinchiudermi in carcere, si volevano
sbarazzare di me seppellendomi vivo in Manicomio, dal quale non si esce che minorati. Il parere necessario
del medico era stato facilmente ottenuto da un essere lubrico come il fango materno, ed altri esseri si
sarebbero trovati che all'occorrenza avrebbero avallato e collaudato il suo parere.78
Per il prefetto di Firenze, S. era sembrato «affetto da eccitamento maniaco». Era stato perquisito,
così come la sua camera d’albergo, ma non si era trovato niente: delle lettere non c’era traccia. 79 La
Prefettura di Siena fece allora perquisire anche le abitazioni del fratello e della famiglia.80 Dopo
qualche giorno di interrogatori ammise di conservare le lettere in una cassaforte, ma rifiutava di dire
dove fossero le chiavi: per il momento il prefetto poté assicurare soltanto la più «scrupolosa
vigilanza» su quella cassetta di sicurezza.81 Finalmente, l’8 ottobre quest'ultima fu aperta con la
forza. Dentro c'erano solo delle copie della «nota corrispondenza». Gli «originali» erano stati
depositati presso un notaio londinese.82
La corrispondenza non aveva nulla di compromettente per Mussolini. Erano alcune lettere
del periodo tra il dicembre del 1907 e il febbraio del 1908, nelle quali il futuro capo del fascismo
chiedeva delle intercessioni rispetto alla concessione di un mutuo ipotecario presso il Monte dei
Paschi di Siena ed un aiuto, dopo «l’abilitazione all’insegnamento del francese», per essere
impiegato nella stessa città «quale insegnante privato di lingue moderne». 83 Insomma, nulla di più
che delle banalissime raccomandazioni, vizio di cui sembra aver sofferto anche colui che doveva
modellare l'italiano nuovo. Quando, poco più di due settimane dopo, il prefetto di Firenze chiese
«disposizioni» in merito alle imminenti dimissioni del «querelomane» S., in quanto non dava
«titolo» per una «definitiva associazione in manicomio», sulla missiva, a penna, venne annotato che
era stato «conferito con Sua Eccellenza il Capo» del governo e l’esito di quel colloquio era stato:
78
ACS, CPC, b. 1844, f. 26089, Lettera di S. del 5 novembre 1930, allegata a Prefettura Siena, 13 novembre 1930.
Ivi, Telegramma cifrato Prefettura di Firenze, 3 ottobre 1930.
80
Ivi, Telegramma cifrato Prefettura di Siena, 3 ottobre 1930.
81
Ivi, Telegramma cifrato Prefettura di Siena, 5 ottobre 1930.
82
Ivi, Telegramma cifrato Prefettura di Siena, 5 ottobre 1930 e Copia senza data della lettera di S. all’Amministrazione
della provincia di Roma.
83
Ivi, Copia senza data della lettera di S. all’Amministrazione della provincia di Roma. Copia delle lettere a Mussolini
è contenuta nel corpo del testo.
79
25
«ammonizione».84
S. aveva provato a tirar su un po' di denaro utilizzando tutti i possibili espedienti, fino a
“sfiorare” la figura del capo del governo e a diventare, in quel preciso frangente, un potenziale
disturbo per il fascismo. L’internamento in manicomio in questo caso sembra essere servito quel
tanto necessario a metterlo fuori gioco per trovare quelle lettere delle quali, finché non si conobbe il
contenuto, si ignorava la reale pericolosità. Il manicomio funzionò come uno strumento, quindi,
veloce ed efficace. Una volta che si comprese che nelle lettere non c’era nulla di compromettente,
tale strumento venne abbandonato, tornando ai più consoni mezzi di controllo e di sorveglianza che
erano stati reintrodotti dal regime, come appunto l’ammonizione. Questa ipotesi sembra suffragata
anche dal fatto che la diagnosi di ricovero fu «alcoolismo»:85 una diagnosi evidentemente forzata se
pensiamo che, nei centoquattordici fogli che compongono il suo fascicolo, mai una volta la condotta
di S. venne associata all’abuso di alcoolici, nonostante, come vedremo nelle prossime pagine, le
autorità di PS spesso usassero questa associazione in chiave strumentale, per poter meglio disegnare
intorno al dissenso politico i tratti della devianza sociale. Non dovremmo allora chiederci se
l'avvocato toscano fosse stato o meno pazzo, se veramente un ubriacone e quale fosse la forma di
psicosi che lo aveva colpito, ma quanto tempo avrebbe passato in manicomio se quelle lettere
fossero risultate realmente compromettenti.86
Lotta alla degenerazione e lotta politica.
Nelle vicende di alcuni schedati antifascisti internati d’urgenza in un manicomio civile dopo
aver vissuto un’esistenza caratterizzata da condanne ed ammende varie per ubriachezza e/o per reati
contro le autorità (oltraggio), le persone (aggressione), la proprietà (furto) o la morale pubblica
(prostituzione, lenocinio), la manifestazione di un generico dissenso agì da corollario alla devianza
sociale. Per il ricovero di questi soggetti, le autorità di PS continuarono a seguire la procedura che
avevano seguito per decenni: un ordinanza d'internamento, un certificato medico spesso
scarsamente compilato e poi l'accompagnamento coatto in manicomio. Parallelamente, anche la
convinzione circa la pericolosità sociale dei malati mentali era stata mutuata dagli anni precedenti,
ed era rappresentata dallo spettro della degenerazione, apparso nella seconda metà dell’Ottocento:
la preoccupazione, cioè, che a causa della combinazione di fattori ambientali propri delle società
moderne e di fattori fisici e morali, si sarebbe assistito ad un progressivo declino dell’uomo europeo
e, secondo i principi del darwinismo sociale, ad un suo inevitabile collasso nella lotta con razze più
84
Ivi, Prefettura Firenze, 24 ottobre 1930.
ASFi, OPPFi “Vincenzo Chiarugi, detto di San Salvi”, registro annuale dei ricoverati, Uomini, 1930, annotazione 380
del 2 ottobre 1930.
86
Salvatore D. morì a Siena nel 1933; cfr. Prefettura Siena, 10 aprile 1933.
85
26
giovani e forti.87
Secondo Max Nordau, medico ungherese, sionista ed allievo di Cesare Lombroso - al quale,
nel 1892 aveva dedicato Entartung, il suo trattato sulla degerazione che lo aveva fatto affermare
come divulgatore del concetto - la degenerazione poteva essere combattuta dalla temperanza dei
comportamenti, tramite sane «abitudini di lavoro» e «una modalità sessuale» appropriata «allo
scopo»: la procreazione.88 L’idea di un’ingegneria sociale basata sulla regolamentazione dei
processi riproduttivi si era diffusa rapidamente in tutta Europa ed accomunava diverse sensibilità
politiche, conservatori, liberali e socialisti. A Parigi, nello stesso periodo, era stato dato alle stampe
il volume Les sélections sociales, del francese Georges Vacher De Lapouge, che esprimeva la
necessità della selezione eugenetica quale rimedio alle storture che l’evoluzione stava producendo.
Il «socialismo», a parere di De Lapouge, o sarebbe stato «selezionista» o non si sarebbe mai
realizzato.89
In Italia «l’allarme per le degenerazioni» era stato lanciato nel 1889 dall’antropologo
romano Giuseppe Sergi nel volume Le degenerazioni umane. Secondo Sergi i degenerati erano i
pazzi, i criminali, le prostitute, i mendicanti e i «parassiti» che vivevano alle spalle della società in
genere. Per il trattamento di questi soggetti, quando la loro condizione non era dovuta a
deformazione fisica o malattia, Sergi auspicava leggi «severamente repressive»; i residui della
«filantropia» - sosteneva - dovevano essere messi «a tacere». 90 Come abbiamo visto
precedentemente. Durante la prima guerra mondiale, oltre a riaffermare l'inferiorità delle classi
sociali inferiori (elemento che secondo alcuni psichiatri contribuiva a spiegare i casi di simulazione,
di diserzione e di follia che si verificavano tra le truppe), medici ed alienisti avevano posto la
questione della progenie concepibile dai soldati superstiti, tantissimi dei quali minorati nel fisico e
nella psiche.
Il fascismo, conquistato definitivamente il potere, fissò nel Testo Unico delle Leggi di PS,
(prima del 1926 e poi del 1931), le regole da attivare per il controllo dei degenerati e delle classi
pericolose, oltre che dell'alienazione mentale. Il provvedimento dell'ammonizione, ad esempio,
87
Per degenerazione si intende il mutamento in senso negativo dei caratteri essenziali di un soggetto, in questo caso la
popolazione o una razza. Il concetto era stato definito dallo psichiatra francese Bénédict Augustine Morel (1809-1873),
che nel 1857, con la pubblicazione del Traité des dégenérescens phisique, intellectueles et morale des l’espèce humaine,
aveva affermato la trasmissibilità ereditaria delle malattie e la loro trasformazione, nei passaggi generazionali, in
«deviazioni dal normale tipo umano»; cfr. Renzo Villa, La critica antropologica: orizzonti e modelli di lettura alla fine
del XIX secolo, in Burgio (a cura di), Nel nome della razza, cit., pp. 407-422.
88
George L. Mosse, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 94-95.
89
George Vacher de Lapouche, Les selections sociales. Cours libre de Science Politiques professé a l’Université de
Montpellier, 1889 - 1889, Paris, 1896, in Claudia Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini
ottocentesche agli anni trenta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, pp. 14 e nota n. 29 a p. 25; cfr. anche Nicoletta
Giove, Le razze in provetta : Georges Vacher de Lapouge e l'antropologia sociale razzista, Padova, Il poligrafo, 2001.
90
Giuseppe Sergi, Le degenerazioni umane, Milano, Dumolard, 1889 cit. in Claudio Pogliano, Eugenisti, ma con
giudizio, in Burgio, Nel nome della razza, cit., pp. 424-427. Relativamente alla posizione dei socialisti italiani cfr.
Marco Gervasoni, «Cultura della degenerazione» tra socialismo e criminologia alla fine dell’Ottocento in Italia, in
“Studi storici”, a. 38, n. 4, ottobre-dicembre 1997, pp. 1087-1119.
27
venne previsto non solo per coloro che erano designati dalla «pubblica voce» come oppositori
politici, ma anche per gli oziosi, i vagabondi abituali, i «diffamati» per i delitti di prostituzione o di
traffico di sostanze stupefacenti. Nella parte dedicata alle «Disposizioni relative alle persone
pericolose per la società», invece, venne stabilito che «gli esercenti» una qualsiasi «professione
sanitaria», non solo i medici specialisti, avevano l'obbligo di «denunziare all'Autorità locale di PS,
entro due giorni, le persone da loro assistite o esaminate» che risultavano «affette da malattia di
mente o grave infermità psichica». L'obbligo si estendeva anche per le persone affette «da cronica
intossicazione prodotta da alcool o da sostanze stupefacenti».91
Più avanti, con la promulgazione delle leggi razziali, fu la pubblicistica pseudoscientifica a
reinterpretare strumentalemente le teorie sulla degenerazione. La rivista “La difesa della razza” le
utilizzò ad esempio per spiegare l’inferiorità razziale degli inglesi o dei francesi, le cui città
pullulavano di slums, bordelli e periferie degradate - veri e propri centri di degenerazione e di
propagazione della devianza sociale - e i cui governi, differentemente dall’Italia e dalla Germania,
non avevano saputo abbandonare le seduzioni ed i vizi della modernità per proiettarsi nel
rafforzamento dei propri popoli e concorrere così al mantenimento del dominio dell’uomo
europeo.92 Per il settimanale diretto da Interlandi, al netto della sua appartenenza politica lo stesso
De Lapouge era stato «un pioniere del razzismo», che tuttavia, nella democratica Francia, «non»
aveva trovato «comprensione» e «rispetto». 93
La degenerazione era figlia di patologie conseguenti comportamenti considerati immorali,
l’abuso di alcool e la prostituzione soprattutto. Naturalmente anche la tubercolosi, dipendente
dall’ambiente in cui si viveva più che dalla condotta assunta, poteva avere effetti negativi sui
caratteri delle degenerazioni future. La tubercolosi si poteva tuttavia combattere attraverso
interventi di risanamento delle situazioni più disperate, ad esempio migliorando la salubrità delle
città o delle abitazioni, e su questo fronte l’impegno del governo era alto.94 Le malattie provocate
dal disordine sessuale o dall’alcool, invece, potevano e dovevano essere combattute non tanto con
un intervento sull’ambiente ma con un intervento sull’uomo, volto a disciplinarlo.
La sifilide aveva cominciato a manifestarsi in Italia sul finire del XV secolo, con l’invasione
91
Cfr. gli articoli 153, 164-165 del Regio decreto n. 773 del 18 giugno 1931, Testo unico delle leggi di PS..
Alfio Cimino, Il disordine morale della Francia, in “La difesa della razza”, a. II, n. 9 5 marzo 1939, p. 34 (in una
vignetta tedesca a corredo dell’articolo, una donna grassa che rappresentava la Francia se ne sta sdraiata a fumare
oppio); Armando Tosti, Degenerazione della razza anglosassone, in “La difesa della razza”, a. IV, n. 6, 20 gennaio
1941, pp. 28-30; cfr. anche il numero speciale dedicato alla documentazione della inciviltà dell’Inghilterra, “La difesa
della razza”, a. VI, n. 11, 5 aprile 1943.
93
Giorgio Montandon (Professore di etnologia dell’università di Parigi), Vita ed opere di Vacher De Lapouge, in “La
difesa della razza”, a. IV, n. 12, 20 aprile 1941, p. 24.
94
Cesare Agostani, inaugurando nel 1929 un corso di tisiologia nella Facoltà di medicina dell’Università di Perugia, di
cui era preside, si rivolse ai medici presenti come si sarebbe rivolto «ad un esercito», che doveva muoversi «ordinato» e
«disciplinato» in «una lotta» senza «quartiere»: «la difesa dalla tubercolosi» era «difesa della razza», lo aveva detto lo
stesso Mussolini; cfr. Giacanelli, Tracce e percorsi del razzismo nella psichiatria italiana della prima metà del
novecento, cit., p. 400.
92
28
francese di Roma e dell’Italia meridionale. Il problema della sua diffusione, essendo una malattia
sessualmente trasmissibile, era legato strettamente a quello del controllo della prostituzione ed era
stato energicamente affrontato già dalle classi dirigente postunitarie, con stringenti normative sul
meretricio e l’istituzione di sifilicomi, dove ricoverare coloro che si ritenevano responsabili del
contagio.95 Qualche mese dopo la marcia su Roma, il fascismo approvò il Regolamento per la
profilassi delle malattie veneree e sifilitiche, entrato in vigore nel marzo del 1923. In un successivo
intervento del 1929, la normativa avrebbe stretto ancor di più le maglie del controllo, giungendo a
considerare sospetti tutti coloro che rifiutavano di sottoporsi alla visita medica. 96 La certezza che la
sifilide provocasse malattie trasmissibili ereditariamente, «sicuramente» fino «alla terza
generazione», sostanziava le preoccupazioni di medici e criminologi. Nel 1931, Benigno Di Tullio
propose la denuncia obbligatoria dei malati.97
Oltre che nei rischi per la degenerazione della razza, la pericolosità della sifilide era insita
nel decorso della malattia, che poteva determinare psicosi irreversibili e, a quel punto, per il
soggetto colpito spesso si aprivano le porte del manicomio. Il decorso della sifilide sembra spiegare
l’internamento psichiatrico di A., già arrestato nel 1923 durante alcune indagini sulla debole
organizzazione comunista delle Marche meridionali e ammonito nel 1927. A. venne internato nel
manicomio di Macerata nel maggio del 1931 con una diagnosi di demenza paralitica.98
Probabilmente aveva contratto l'infezione nei giorni di licenza passati nelle retrovie del fronte (era
un ex combattente) in uno dei bordelli per soldati che il regime avrebbe poi assunto come modello
di «postribolo igienico» da riproporre nell'Italia fascista.99 Ciò coinciderebbe anche con i tempi di
incubazione della demenza - fino a 15 o 20 anni - e sarebbe compatibile con le notizie raccolte su
A., che, a parere del medico, aveva sempre presentato un «carattere morale» assolutamente
«normale».100
Oltre alle malattie come la sifilide, anche l’ereditarietà delle tare psichiche rappresentava un
95
Vincenzo Giovanni Pacifici, Prostituzione e sifilide nella politica legislativa del Piemonte sabaudo e dell’Italia
liberale. (1848-1891), in “Clio. Rivista trimestrale di studi storici”, a. XLVI, n. 2, 2012, pp. 265-281.
96
Giorgio Gattei, La sifilide: medici e poliziotti intorno alla «Venere politica», in Franco Della Peruta (a cura di), Storia
d’Italia, Malattia e medicina, Annali, VII, Einaudi, Torino 1984, pp. 793-795.
97
Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., pp. 301-302.
98
La reazione di Wassermann praticatagli dopo il ricovero (test sierologico che, attraverso l’analisi della reazione del
paziente, mira a stabilire la presenza di malattie che intaccano la composizione cellulare dell’organismo) risultò
positiva. La diagnosi era esatta, Aurelio soffriva di sifilide; AOPMc, Cartelle cliniche, Uomini deceduti, 1931, n. 23 sul
registro d'ammissione, Foglio Notizie storiche, 7 maggio 1931; Comune di Colmurano - Ordinanza per l’ammissione di
un demente al manicomio, 8 maggio 1931; Diario Clinico, 9 maggio 1931; Tabella nosografica e Certificato del
Laboratorio provinciale d’igiene, 19 maggio 1931. La sua scheda biografica, stilata dopo l'arresto del 1923, lo aveva
descritto come «comunista spinto», inscritto al partito sin dal 1922, «fermo nelle sue idee […] di carattere eccitabile
[…] pronto ad insorgere se dovesse presentarsi il momento opportuno» e «capace di prendere parte ad un’azione contro
i poteri costituiti; cfr. ACS, CPC, b. 151, f. 73806, Prefettura di Ascoli Piceno, Scheda biografica, 23 agosto 1923.
99
Gattei, La sifilide, cit., p. 793.
100
La citazione riportata nel testo sulla normalità della condotta morale di A. è stata estratta dallo Foglio notizie del
malato, che doveva essere compilato a corredo del certificato medico che accompagnava l'ordinanza del podestà; cfr.
AOPMc, Cartelle cliniche, Uomini deceduti, 1931, n. 23 sul registro d'ammissione, Foglio Notizie storiche, 7 maggio
1931; Lettera del 20 novembre 1933.
29
fattore di degenerazione che interessò le vicende di alcuni antifascisti poi internati in manicomio.
Secondo la scheda di polizia sul conto del comunista umbro L., ad esempio, la «mania di
persecuzione» di cui questi soffriva e che lo rendeva assai «pericoloso» era conseguenza delle «tare
ereditarie» che accomunavano altri membri della sua famiglia: un fratello si era suicidato e due
delle sue sorelle si trovavano in manicomio. Ex combattente della prima guerra mondiale ed ex
legionario fiumano, L. era stato licenziato dalle ferrovie per attività sindacale e aveva una «cattiva
fama per i suoi precedenti e per il suo carattere violento ed aggressivo». 101 I carabinieri lo
consideravano «chiuso, misantropico, antisocievole». Su di lui veniva mantenuta «una costante
vigilanza», al fine di «prevenire e reprimere» gli «atteggiamenti» che avrebbero potuto «acquistare
carattere di pericolosità».102 Nell’agosto del 1933, in occasione della visita a Perugia di Mussolini e
Starace, venne arrestato e poi rinchiuso in manicomio. Sulla sua vicenda torneremo più avanti.103
Anche sul conto del giovane N. la polizia sospettavano la presenza di tare ereditarie come
fattore scatenante la follia, alla quale però si associavano specificità ambientali. Rimasto orfano sin
da piccolissimo (il padre e la madre erano morti di tubercolosi), N. aveva ereditato un patrimonio di
circa mezzo milione di lire ed era cresciuto insieme ad una sua zia socialista schedata, abituandosi a
condurre una vita «randagia e dissipata». L'ambiente dove viveva e le «infermità fisiche e psichiche
del giovanotto, derivanti dalle infermità di entrambi i genitori», secondo la PS avevano avuto «una
deplorevole influenza sul suo temperamento». In una perquisizione operatagli in casa nel marzo del
1930 gli trovarono un libro di Marx ed una rivoltella; aveva appena sedici anni.104 Qualche tempo
dopo espatriò clandestinamente, raggiungendo prima la Francia e poi, sotto il falso nome di Carlo
Guevara, la Spagna, dove, secondo una segnalazione della polizia, si arruolò nelle Brigate
internazionali, ricoprendo il ruolo di ufficiale all'interno di un battaglione misto italo-tedesco.105
Uscito dalla Spagna prima della fine del conflitto, quando tentò di rientrare in Italia venne arrestato
a Ventimiglia e condotto a Napoli.106 Portato in carcere ed interrogato, probabilmente provò a
dissimulare la sua posizione, raccontando che, essendo stato segnalato da alcuni giornali anarchici che lo avevano denunciato per essersi recato in un consolato italiano a cercare aiuto - aveva
cominciato ad usare il nome Carlo Guevara per sfuggire alle rappresaglie degli antifascisti, che,
sempre secondo la sua versione, lo avevano poi obbligato ad arruolarsi nelle Brigate internazionali,
101
ASPg, Questura, Schedati, b. 37, f. 16, R. L., Prefettura Perugia, Scheda biografica 5 settembre 1930.
Ivi, Carabinieri Perugia, 9 giugno 1933.
103
Ivi, Foglio senza intestazione, 20 dicembre 1933 e Copia certificato medico, 20 dicembre 1933.
104
ACS, CPC. b. 2819, f. 41874, Alto commissariato per la provincia di Napoli, Scheda biografica, 25 marzo 1930.
105
Ivi, Prefettura Napoli, 12 giugno 1937. La notizia era stata riferita da un reduce del Corpo di spedizione italiano
inviato da Mussolini ad aiutare i franchisti, che era originario dello stesso paese di N.. Per le informazioni sull'espatrio
cfr. Copia della comunicazione del Ministero dell'Interno, 28 maggio 1936 Alto commissariato per la provincia di
Napoli, 4 giugno 1936 e Divisione polizia politica, 7 luglio 1936. Nell’elenco degli antifascisti italiani volontari nelle
Brigate internazionali N. non compare né con il nome proprio né con lo pseudonimo Carlo Guevara; cfr. AA. VV. La
Spagna nel nostro cuore. 1936-1939. Tre anni di storia da non dimenticare, AICVAS (Associazione Italiana
Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna), Milano 1996.
106
ACS, CPC. b. 2819, f. 41874, Prefettura Napoli, 23 gennaio 1939.
102
30
dalle quali aveva però disertato dopo appena tre giorni.107
Le violenze e le torture messe in opera durante gli interrogatori, come vedremo anche
successivamente, potevano avere effetti devastanti per la psiche. Furono infatti sufficienti un paio di
mesi di carcere preventivo e N. cominciò a manifestare «confusione mentale, disturbi
psicosensoriali, notevole dissociazione con incoerenza nel pensiero e nell'azione, facile impulsività
con tendenza aggressiva». Venne ricoverato in manicomio giudiziario, in osservazione. Era
considerato uno «schizofrenico da ritenersi pericoloso a sé ed agli altri». 108 Venne poi trasferito
all'ospedale psichiatrico provinciale “Leonardo Bianchi”, poiché, a parere dei medici, la malattia di
cui soffriva «non era suscettibile di guarigione». Poteva perciò essere tenuto segregato per sempre,
e visto che ancora non aveva subito nessun processo tanto valeva espellerlo dal circuito
penitenziario e seppellirlo in un manicomio, dove morì il primo marzo del 1942, qualche settimana
dopo aver compiuto ventinove anni.109
Etilismo, degenerazione e sovversione.
Come abbiamo detto, il consumo di vino, acquaviti ed altri alcoolici diffuso tra le classi
lavoratrici aveva cominciato ad essere considerato come un fattore di sovversione e di disordine
sociale sin dai tempi dellla Comune di Parigi.110L'alienista francese Benedicte Augustin Morel, ad
esempio, aveva trovato conferme alla sua teoria sulla degenerazione della discendenza degli
alcoolisti in seguto ad alcuni esami eseguiti proprio su un gruppo di figli di comunardi. 111
In Italia, Cesare Lombroso aveva esposto le teorie molto simili a quelle di Morel nella
conferenza Il vino nel delitto, nel suicidio e nella pazzia, tenutasi nel 1880, lo stesso anno
dell'approvazione della prima legge sul commercio degli spiriti. Lombroso sosteneva che l'alcool
fosse la causa di tanti delitti perché molti uomini erano «tratti dall'ubriachezza al delitto», molti altri
delinquevano «per poter ubriacarsi», altri ancora, «i vigliacchi», perché «nell'inebriamento»
107
Ivi, Foglio senza intestazione, Verbale di interrogatorio, 22 dicembre 1938. A parere degli agenti, le dichiarazioni
avevano confermato che N. era un elemento «da tenere in considerazione per i contatti avuti» con «noti antifascisti» e
con «gli ambienti sovversivi»; cfr. Ivi, Divisione polizia politica, 28 gennaio 1939. Nel documento dattilografato, al
fianco di quasi tutti i nomi fatti da N., il funzionario della Divisione di polizia politica aggiunse a matita il numero di
fascicolo corrispondente nel Casellario politico centrale.
108
Ivi, Prefettura Napoli, 29 aprile 1939 e Prefettura Napoli, 2 maggio 1939.
109
Ivi, Prefettura Napoli, 8 dicembre 1939 e Prefettura Napoli, 5 marzo 1942.
110
Un medico testimone della repressione dei rivoltosi parigini, scrisse che era stato l’alcool a presentarsi «come una
personificazione armata»: nelle «vie delle città, sui bastioni, presso le caserme, nei viali e nei giardini devastati della
periferia», ad agitarsi ed a vociare «nelle riunioni pubbliche», con «il fucile in spalla» e, sulle labbra, «il singhiozzo» e
alcuni «brandelli» della «Marsigliese»; cfr.; J. V. Laborde, Les Hommes et les actes de l’insurrecion de Paris devant la
psychologie morbide, Parigi, 1872, in Sournia, Alcolismo. Storia e problemi, cit., pp. 128-129.
111
Scriveva Morel: «abbiamo proceduto all’esame mentale di centocinquanta ragazzi da dieci a diciassette anni […]
Essi, in effetti, sono proprio i degni figli dei loro padri, questi assassini ed incendiari precoci, sulla cui fisionomia
depravata è impresso il triplo marchio della loro degenerazione intellettuale, fisica e morale […] Volti sgradevoli e
talora repellenti, teste senza simmetria e senza armonia, stature al di sotto della media»; cfr. Sournia, Alcolismo. Storia e
problemi, cit., pp. 123-127 e p. 136.
31
trovavano «il coraggio necessario alle nefande imprese». I «bevitori» inoltre, sosteneva il
criminologo torinese, generavano «figli delinquenti».112
A quasi cinquanta anni di distanza, l'atteggiamento del fascismo rispetto all'alcool fu
ambivalente. Nel tentativo di trovare un equilibrio tra le esigenze della politica demografica e il
sostegno alle produzioni nazionali, Mussolini parlò di se stesso come di un «parco bevitore» che
tuttavia, da uomo di governo, cercava di «favorire il consumo di vino». 113 La legislazione fascista
avrebbe anche prodotto, tra il 1925 ed il 1933, una serie di provvedimenti volti a tutelare la
produzione nazionale, il più importante dei quali la Legge n. 1164 del 1930, “Disposizioni per la
difesa dei vini tipici italiani”.114 Nello stesso tempo, alcune pubblicazioni si impegnarono a
sostenere che non era affatto dimostrato che il «vino» fosse dannoso per «la natalità».115
Tuttavia, l’associazione tra alcool, degenerazione e pericolosità sarebbe rimasta sempre
presente. I numeri rappresentavano una pesante realtà. Oltre 1343 soggetti vennero internati in
manicomio perché colpiti da psicosi alcooliche solo tra il 1926 ed il 1928. Una media di quasi 450
casi l’anno che potrebbe essere estesa tranquillamente anche al periodo successivo. Secondo alcune
rilevazioni condotte alla fine degli anni Trenta, invece, si erano registrate 582 morti per alcoolismo
acuto e cronico nel 1937, 481 nel 1938 e appena venti in meno nel 1939.116 In queste cifre “La
difesa della razza” avrebbe trovato gli argomenti validi per riproporre studi che evidenziavano
come, nella metà dei casi, la prole di un genitore alcoolizzato fosse composta da individui sterili,
mentre, nella restante metà, o nascevano morti o sarebbero diventati degli «individui tarati». A più
riprese la rivista razzista pubblicò anche il celebre disegno raffigurante l'albero genealogico con la
«spaventosa discendenza di un’ubriacona», che, su poco meno di novecento eredi distribuiti in
ottantatre anni, aveva fatto registrare quaranta alcoolizzati, sessantasette ladri, sette assassini e più
di trecento tra prostitute e vagabondi.117
Anche alcuni dei ricoveri psichiatrici che hanno coinvolto degli schedati politici potrebbero
essere spiegati all’interno delle pratiche di controllo sociale attivate per combattere la potenziale
pericolosità degli alcoolisti e per contrastare i rischi della degenerazione della razza, ma, prima di
fare qualche esempio, è necessario soffermarsi su una considerazione preliminare.
I documenti di PS riflettevano i pregiudizi che si erano affermati nei decenni precedenti in
112
Furlan, Picci, Alcol, alcolici, alcolismo, cit., pp. 140-145.
Ludwig, Colloqui con Mussolini, cit., p. 114.
114
Cfr. legge n. 1164 del 10 luglio 1930, in “Gazzetta Ufficiale del regno d'Italia”, a. LXXI, n. 204, 1 settembre 1930.
pp. 3434-3436.
115
Eugenio Cacace, recensione al libro di Tommaso Giacalone Monaco, Il mito enòfobo, in “Bibliografia fascista.
Rassegna mensile a cura della confederazione nazionale dei sindacati fascisti professionisti ed artisti”, Anno VII, n. 2-3,
febbraio-marzo 1932, p. 133.
116
Per la difesa antialcoolica della razza, in “Il diritto razzista. Rivista del diritto razziale italiano - Rivista
internazionale del diritto razziale”, a. II, n. 5-6, settembre-dicembre 1940, p. 227.
117
Lino Businco, Salute della famiglia, forza della razza, “La difesa della razza”, Anno II, n. 4, 20 dicembre 1938, p.
37-38 e Marcello Ricci, Eugenetica e razzismo, in “La difesa della razza”, Anno II, n. 6, 20 gennaio 1939, s.p..
113
32
merito alla colleralità tra alcool, classi pericolose e sovversione. La storia della formazione dello
stesso partito socialista italiano sembrava confermare questa relazione.118
Durante il fascismo, i frequentatori di osterie erano operai e artigiani che preferivano l’umile
e spontaneo intrattenimento delle carte e del bicchiere di vino a quello obbligato dell’Opera
nazionale dopolavoro.119 Dopo la marcia su Roma, inoltre, una volta chiuse con la forza le case del
popolo e le camere del lavoro, le osterie sarebbero tornate a svolgere la funzione di unici luoghi
praticabili per una qualche forma di socializzazione politica diversa da quella imposta dal regime.120
Questa circostanza spiega anche i numerosi documenti riguardanti denunce, arresti o processi legati
non solo alle esclamazioni di qualche avvinazzato, ma anche a discorsi, commenti su notizie
d’attualità, riunioni avvenute sui pancacci da taverna.121 Non sorprende, allora, che le questure
raccomandassero agli agenti in servizio di vigilanza di controllare sempre «le osterie, i caffè di
basso ordine ed i locali in cui notoriamente» si ritrovavano «persone sovversive o sospette». 122
Queste premesse sono necessarie a distinguere casi di internamento psichiatrico che
sembrano effettivamente dettati dall'abbrutimento provocato dall'alcool prima ancora che dal
dissenso politico - nel senso che erano state le condizioni di ubriachezza vissute in un determinato
momento a porre il soggetto in posizione di contrasto rispetto al regime - da altri per i quali la
segnalazione sui presunti eccessi nel bere sembra essere utilizzata come strumento per screditare
ulteriormente l’opposizione politica, secondo una logica quantitativa che assecondava i pregiudizi
118
Quando ancora non disponevano di spazi propri deputati all’aggregazione politica, i socialisti avevano rappresentato
l'osteria come “il parlamento del popolo”, secondo la definizione che ne aveva dato Honoré De Balzac.
Successivamente, dopo la costruzione delle camere del lavoro e dei circoli, nonostante il PSI si fosse impegnato in una
lotta senza tregua contro la diffusione dell’alcool - sintetizzata nel motto di Filippo Turati “Libro contro Litro” - agli
occhi delle classi dominanti esso sarebbe comunque restato il partito la cui prima sezione italiana era stata fondata in
un’osteria; cfr. Renato Monteleone, Socialisti o ‘ciucialiter’? Il PSI e il destino delle osterie tra socialità ed alcoolismo,
in “Movimento operaio e socialista”, Anno VIII, n. 1, gennaio-aprile 1985. Sull'atteggiamento delle organizzazioni del
movimento operaio verso l'alcool cfr. anche Antonio Gibelli, Emarginati e classi lavoratrici. Le ragioni di un nodo
storiografico, in "Movimento operaio e socialista", anno III, n. 4, ottobre-dicembre 1980, pp. 363-366.
119
Giovanni De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Bollati Bolinghieri, Torino
1995, p. 38.
120
Le osterie e le taverne si trasformarono in luoghi di “resistenza ludica” al fascismo. Il circolo garibaldino della città
di Macerata conserva al suo interno una foto scattata nell’aprile del 1930, dove si vede chiaramente il quadro
fotografico di Garibaldi posto al centro della parete principale che sovrasta per dimensioni quello raffigurante Benito
Mussolini, per giunta confinato in un angolo. Del nutrito gruppo di persone radunate per l’occasione e ritratte nella foto,
soltanto una si fece immortalare con il braccio teso. Nel 1936 il circolo contava ben 130 iscritti. Di questi solo un terzo
erano tesserati al Pnf. Anche la maggioranza dei membri del direttivo non era iscritta al partito. Negli anni precedenti si
erano verificati alcuni episodi che avevano destato l’attenzione delle forze di polizia, come il lancio di oggetti
(bicchieri, pagnotte di pane) contro l'immagine di Mussolini sulla parete. Nel febbraio del 1936 i carabinieri ne
proposero lo scioglimento, ma alla fine il circolo venne soltanto “normalizzato”, ad esempio tramite l’affissione sulle
pareti interne di manifestini recitanti slogan del fascismo; cfr. ASMc, Pref., b. 148, f. 16.2 “Associazioni”,
Comunicazione Carabinieri Macerata, 15 febbraio 1936.
121
La reazione delle autorità alle forme di «ribellismo generico e primitivo» che si manifestavano nei canti e nelle
esclamazioni di qualche avvinazzato era differenziata e risentiva sia di condizioni specifiche (posizione sociale del
soggetto, precedenti penali e politici, composizione dell’uditorio che poteva aver ascoltato) che delle condizioni
oggettive del contesto, date «dalla situazione interna o internazionale in cui il malcapitato» capitava «di alzare il
gomito», che, a seconda della maggiore o minore esigenza di repressione politica, poteva determinare una condanna più
o meno dura; cfr. Gianpasquale Santomassimo, Antifascismo popolare, in “Italia contemporanea”, a. XXXII, n. 140,
luglio-settembre 1980, pp. 54-55.
122
ASMc, Pref., b. 148, f. 16 “Ordine pubblico”, Riservata Questura Macerata, 26 agosto 1936.
33
delle classi dominanti, in quanto, più sovversivi singolarmente intesi venivano segnalati per le loro
debolezze verso l’alcool, più l’abuso di alcool poteva essere identificato come un carattere proprio
del sovversivismo, e, per estensione, dell’antifascismo.
La vicenda di A., ad esempio, classe 1870, dedito anche all'ozio e al vagabondaggio - altri
caratteri della devianza sociale sottolineati nei documenti di polizia - sembra essere riferibile al
primo gruppo. Arrestato e confinato nel 1931 per delle frasi offensive verso il capo del governo
pronunciate all'interno di un'osteria, A. venne internato nel manicomio interprovinciale di Perugia
nel marzo del 1933, qualche giorno dopo essere tornato nel suo comune d’origine. 123 Nel foglio
informazioni allegato al certificato medico era stato descritto come un «povero vagabondo», un
«ubriacone» dal «temperamento violento» e «ribelle» che aveva «ereditato dal padre il vizio del
bere».124 Due settimane dopo il ricovero venne registrata la sua morte: paralisi cardiaca da delirium
tremens.125 Dinamiche simili sembrano spiegare anche i due ricoveri subiti dal cameriere romano
M., sospettato di aver strappato dei manifesti fascisti proprio perché squilibriato di mente ed
alcoolista. Anche nel suo caso la schedatura di antifascista assume i contorni di un elemento
peggiorativo di una condotta morale già pericolosa.126
Diversamente, invece, per altri antifascisti manicomializzati la schedatura politica risale agli
anni precedenti le prime segnalazioni sulle psicosi alcoliche, e le informazioni relative ai presunti
eccessi nel bere sono sporadiche, quasi “mirate” a rappresentarne un’immagine socialmente
deviante.
Di A., operaio, classe 1896, sappiamo che si avvicinò ai socialisti sin dalla fine della prima
123
A Viterbo, nel 1931, dopo essere entrato in un esercizio pubblico, A. aveva chiesto da bere e si era sentito rifiutare il
bicchiere perché la gestrice del locale aveva notato che era già ubriaco. Allora aveva cominciato a parlare con due
ragazzi, e dopo un po' aveva detto loro che «Mussolini, anziché mettere a posto l'Italia» mandava «tutti a chiedere
l'elemosina», ripetendo la frase anche quando i presenti gli intimarono di stare zitto. I carabinieri si trovarono davanti un
individuo «malridotto» e «semi-abbrutito dal vino». Le circostanze avevano portato il prefetto a concludere che le frasi
non erano state pronunciate per convincimento politico, ma erano state «piuttosto l'inconsulto sfogo di un disgraziato».
Per tale motivo, invece di essere deferito al Tribunale Speciale, venne proposta l'assegnazione al confino comune per tre
anni; cfr. ACS, CPC, b. 388, f. 110801, Ministero dell'interno, Copia della lettera della prefettura di Viterbo, 29
dicembre 1931; Per l’internamento in manicomio cfr. ASPg, AOP Santa Margherita, b. 178 (Uomini), Cartella clinica n.
13261, Comune di Baschi, Ordinanza per l'ammissione di un demente al manicomio, 16 marzo 1933.
124
Ivi, Comune di Baschi, Modulo informativo, 16 marzo 1933. Prima di essere internato, aveva cercato più volte di dar
fuoco ai mobili dell'abitazione di un amico che lo ospitava e da quel momento era stato trattenuto perché, secondo il
Diario clinico, in preda al delirio cercava «di far del male» a chiunque gli passasse a tiro. Il medico registrò quanto
riferitogli dal messo comunale che lo aveva accompagnato in manicomio. A non aveva nessun parente, «spesso» si
ubriacava e diventava «molesto», girava «da un paese all'altro senza scopo», «varie volte era stato in prigione» ed era
«stato un accanito sovversivo»; cfr. Ivi, Diario Clinico Nosografico, cenno del 16 marzo 1933.
125
Ivi, Dorso della cartella clinica, Registro nosografico dell'infermo.
126
Cameriere, romano, classe 1897, già ammonito per i pessimi precedenti penali. Nel 1937 sospettato di aver strappato
da un muro alcuni manifesti di un gruppo fascista rionale. Nessuno lo aveva visto, ma, dato che era «ritenuto uno
squilibrato», i sospetti erano ricaduti su di lui. Era «ritenuto capace di commettere stranezze di ogni genere, specie
quando» si trovava «in stato di ubbriachezza», cosa che capitava con «con una certa frequenza». Era stato già due volte
internato in manicomio. La PS cercò di indagare quali effettivamente fossero le sue idee politiche, ma non era stato
«possibile raccogliere elementi certi al riguardo», perché, trattandosi di uno squilibrato e «pervicace ubbriacone», egli
seguiva solo ciò che gli diceva «il suo cervello malato»; ACS, CPC, b. 4523, f. 134791, Copia Ministero dell’interno
inviata al questore di Roma, 17 giugno 1937 e Copia lettera della questura di Roma, 4 agosto 1937.
34
guerra mondiale, alla fine della quale era stato congedato la medaglia d’argento. La sua scheda di
polizia registra una espressione fisionomica «esaltata» e, tra i segni particolari, un «piccolo
tatuaggio sul viso»;127 caratteristica, quella del tatuaggio, che già Lombroso aveva classificato come
diffusa nelle «infime classi sociali» e rivelatrice delle tendenze criminose.128 Prima della marcia su
Roma A. era stato coinvolto in uno scontro con dei fascisti. Nel 1928 era stato arrestato per canti
sovversivi, mentre, nel maggio dell'anno successivo, trovandosi in «stato di manifesta ubriachezza»,
aveva tentato di picchiare due camice nere che vivevano nel suo paese. Da quel momento in poi
venne considerato «capace di commettere atti inconsulti», in quanto «persona alquanto squilibrata
mentalmente» con forti «sentimenti di rancore verso i fascisti». 129 Un anno dopo la prefettura di
Pavia informò il ministero che era stato fatto ricoverare nell'ospedale psichiatrico di Voghera.130
Un altro esempio di come la visione delle condotte degli schedati politici potesse
repentinamente cambiare nelle descrizioni di polizia quando, alle notizie sul presunto squilibrio
mentale, si sommavano quelle sul consumo di alcool - e di come queste segnalazioni potessero poi
condurre al ricovero in manicomio - è rappresentato da G., bracciante del fabrianese, anch’egli ex
reduce della prima guerra mondiale. Nell'aprile del 1927, G. venne arrestato a Terni, accusato di
«aver inneggiato al comunismo» e di «aver incitato gli operai a combattere il fascismo».131
Denunciato al Tribunale Speciale per cospirazione contro i poteri dello Stato, fu condannato a 2
anni e sei mesi di reclusione.132 In un primo tempo, ad una richiesta di informazioni la polizia
rispose che risultava «di buona condotta morale e penale» e, dato il suo «carattere alquanto
volubile», il suo atteggiamento rispetto al regime «non era affatto tenuto in considerazione». 133
Tuttavia, ad un anno di distanza da quelle sommarie informazioni lo stesso commissariato
comunicò di aver saputo i motivi per cui, in passato, G. era stato rimpatriato dalla Francia: era stato
indicato come un «pazzoide ed alcolizzato».134 A quel punto il suo percorso fu segnato. L'8 maggio
del 1929, dopo essere stato liberato grazie ad una richiesta di condono della pena presentata dalla
moglie ed accolta per le misere condizioni in cui versava la famiglia, venne ricoverato d'urgenza nel
manicomio di Ancona, con un ordinanza del podestà di Fabriano. La diagnosi era «dipsomania»,
una forma di nevrosi che conduceva i soggetti colpiti ad assumere grandi quantità di alcool in poco
127
ACS, CPC, b. 2011, f. 22528, Prefettura Pavia, Scheda Biografica, 16 dicembre 1929.
Cesare Lombroso, Archivio per l’antropologia e la etnologia, 1874, in Delia Frigessi, Ferruccio Giacanelli, Luisa
Mangoni (a cura di), Cesare Lombroso. Delitto, genio, follia. Scritti scelti, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 426428.
129
ACS, CPC, b. 2011, f. 22528, Prefettura Pavia, Scheda Biografica, 16 dicembre 1929.
130
Ivi, Prefettura Pavia, 15 maggio 1930; Prefettura Pavia, 21 agosto 1942; Prefettura Pavia, 28 agosto 1942. Nel 1942,
dopo dodici anni di segregazione, riuscì ad evadere, ma venne riacciuffato sette giorni dopo e riportato in manicomio.
Non sono state rinvenute notizie relative ad una sua eventuale dimissione.
131
ASAn, cat. A8, Quest. An “politici 1940-1943”, b. 86/a, f. n. 124, Ministero dell'interno, 18 aprile 1927.
132
Ivi, Foglio senza intestazione, 2 febbraio 1931; Questura di Ancona, 18 dicembre 1928 e Questura Terni, 12 agosto
1927.
133
Ivi, Copia della lettera del commissariato di PS Fabriano, 9 ottobre 1927.
134
Ivi, Commissariato di PS Fabriano, 13 agosto 1928.
128
35
tempo. A distanza di soli dieci giorni, Gustavo Modena, in quel tempo ancora direttore del
manicomio del capoluogo marchigiano, lo dimise e lo fece accompagnare in questura, così come gli
era stato richiesto.135 Tuttavia, dopo qualche settimana la PS lo fece internare di nuovo d'urgenza, e
stavolta l'ammissione fu definitiva.136 Nel 1939 ancora si trovava ricoverato, «affetto da demenza
precoce terminale», malattia giudicata «ormai cronica ed inguaribile». 137
Antifascismo e pericolosità sociale.
Il primo articolo della Legge del 1904 sui manicomi e gli alienati disponeva che dovevano
essere «essere custodite e curate» nei manicomi le persone affette da alienazione mentale solo
«quando» queste risultassero «pericolose a sé o agli altri» o provocassero «pubblico scandalo». Il
fascismo non cambiò questa impostazione, tuttavia aggiornò la prassi della difesa sociale secondo le
proprie esigenze specifiche e secondo lo spirito totalitario, e, come abbiamo detto, trovò nell'elevata
elasticità della nozione di pericolosità sociale e pubblico scandalo la chiave con la quale aprire le
porte del manicomio per i soggetti più diversi.
L'elevata interpretabilità dei due concetti, ad esempio, spiega l’internamento psichiatrico di
personalità irriducibili ad una piena fascistizzazione, in quanto presentavano caratteri antitetici a
quelli che, nella rivoluzione antropologica immaginata dal regime, dovevano formare l’«italiano
nuovo»: mito fondato sulla base dell'esperienza di guerra e dei principi della «rispettabilità in
uniforme», ispirati all'autocontrollo, al militarismo, alla gerarchia, all'organicità del corpo sociale e
contrapposti all'idea di «rispettabilità borghese», che aveva segnato gli anni dell'Italia liberale. 138
La donna e l'uomo fascisti dovevano essere procreatori sani e sempre pronti a guerreggiare.
Il Concordato del 1929 aggiunse anche l'appartenenza alla Chiesa di Roma come carattere
nazionale. A fronte di questi canoni di definizione della normalità, inevitabilmente anche alcuni
omosessuali, cristiani non cattolici e pacifisti finirono per ingrossare il numero dei ricoverati. La
«medicalizzazione» dei primi venne costruita «su basi pseudoscientifiche», volte a tutelare
soprattutto la politica di miglioramento della popolazione attraverso la «repressione delle condotte
135
Nella relazione al Procuratore del re di Ancona che motivava la dimissione di G. Modena aveva scritto: «E’ stato qui
ricoverato perché ha commesso abusi alcoolici. Durante la sua degenza, però, non ha dimostrato nessun disturbo
psichico, nessuna idea delirante. Non rientra nelle condizioni previste dall’articolo 1 della legge»; cfr. ASAn, AOPAn,
(Anno 1929), b. 111-109, n. registro 486, Cartella clinica, Relazione al procuratore del re sulle condizioni di mente del
malato e Direzione sanitaria del Manicomio provinciale di Ancona, 17 maggio 1929.
136
ASAn, cat. A8, Quest. An “politici 1940-1943”, b. 86/a, f. n. 124, Commissariato di PS Fabriano, 17 marzo 1929;
Questura Ancona, 18 maggio 1929; Commissariato di PS Fabriano, 20 agosto 1929; Questura Ancona, 7 dicembre
1929.
137
Ivi, Commissariato di PS Ancona - Archi, 13 marzo 1939. Non sono stati rinvenuti documenti in grado di
testimoniare l’eventuale dimissione dal manicomio.
138
Emilio Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma- Bari 2002, pp. 238-239.
36
che mettevano a repentaglio la crescita demografica». 139 Per la minoranza religiosa dei pentecostali,
invece, erano le stesse modalità attraverso le quali si esplicava il loro culto che, secondo i medici,
facevano riscontrare dei tratti psicotici.140 Per i testimoni di Geova, infine, fu il pacifismo per fede a
funzionare da elemento predisponente l’intervento psichiatrico.141 Quando poi, con l'approvazione
delle leggi razziali, l'arianità entrò a far parte dei caratteri nazionali, anche le simpatie o la
riconoscenza verso gli ebrei sarebbero state medicalizzate.142 Lo scoppio della seconda guerra
mondiale, infine, ridisegnò ulteriromente i fattori di identificazione della pericolosità, aggiornando
139
Nelle dinamiche che ne provocavano l'internamento degli omosessuali, inoltre, un importante ruolo sembra essere
stato svolto anche dalle famiglie, che, per coprire la vergogna provocata dalla condota sessuale dei figli, ne chiedevano
l'internamento; cfr. Lorenzo Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista,
Feltrinelli, Milano 2005, pp. 209 e 216.
140
A partire dalla seconda metà degli anni trenta, in concomitanza con l'avvio della fase aggressiva in politica estera, il
controllo della polizia sulla «setta» dei pentecostali si fece più intenso. La questura della capitale chiese anche
«l’autorevole parere» del «prof. Sante De Sanctis» - psichiatra già direttore dell’Istituto di psicologia della Facoltà di
medicina dell’Università di Roma e professore di uno dei primi tre corsi di Psicologia istituiti nel Paese - che rispose
confermando che i loro riti, caratterizzati da un «libero sfogo alle manifestazioni psicomotorie» in un contesto «di una
intensa esaltazione mistica», potevano «favorire nei fedeli predisposti lo sviluppo di psicosi o quantomeno di fenomeni
isterici»; cfr. ASMc, Quest., Radiati, b. 11. G. Alfredo, Riservata Questura Roma, 8 giugno 1936. Sulle persecuzioni
fasciste rivolte alla minoranze cristiane cfr. Giorgio Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche. Direttive ed
articolazioni del controllo e della repressione, Claudiana editrice, Torino 1990.
141
Tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta, diversi giovani geovisti che in età di leva rifiutarono di
arruolarsi furono inviati in osservazione, poi in manicomio e riformati dopo essersi visti diagnosticare psicosi da «mania
religiosa» o da «paranoia religiosa»; cfr. Paolo Piccioli, L'obiezione di coscienza al servizio militare durante il
fascismo, in "Studi storici", a. 44, n. 2, aprile-giugno 2003, pp. 498-504. la citazione è a p. 504. Sul tema delle
persecuzioni ai testimoni di geova, nelle quali spesso giocarono un ruolo centrale gli appartenenti al clero cfr. anche
Paolo Piccioli, I testimoni di geova durante il regime fascista, in "Studi storici", a. 41, n. 1, gennaio-marzo 2000. Le
diagnosi di mania religiosa erano già in uso prima dell’unificazione nazionale in alcuni manicomi soggetti
all’amministrazione dello stato pontificio, all’interno di contesti socio-politici in cui ad agire da «potente fattore
discriminante» tra normalità e follia era anche il «corretto rapporto» con la religione; cfr. Paolo Giovannini, Manicomio,
famiglia e comunità locali, in "Storia e problemi contemporanei", n. 52, settembre 2009, p. 45.
142
A., ad esempio, schedato genericamente come antifascista, la mattina del 9 gennaio del 1943 venne fatto
accompagnare dal questore presso il manicomio di Ancona, in osservazione. Qualche giorno prima aveva fatto
recapitare ad una famiglia ebrea una lettera di solidarietà e ringraziamento, permettendosi anche di fare dell’ironia su
Mussolini. A. venne riconosciuto «nevropatico», ma il suo stato non era tale da renderlo «manicomiabile».
Probabilmente cercando di tutelarlo. (come vedremo, dopo il 1938 e l'allontanamento dello psichiatra ebreo Gustavo
Modena dalla Direzione del manicomio di Ancona, alcuni medici che vi erano andati a lavorare erano antifascisti ed
avrebbero poi partecipato alla Resistenza) i medici non esclusero inoltre che «un trauma psichico», come poteva essere
il carcere, avrebbe potuto rivelarsi capace di compromettere ulteriormente l'equilibrio mentale di A.. Il 15 febbraio
successivo venne dimesso e diffidato «ad adattarsi ai sacrifici che la guerra» imponeva. A. era stato già arrestato una
volta nel settembre del 1927, per apologia di attentato contro un fascista. Era stato inoltre ricoverato in manicomio già
nel 1938, ma era stato dimesso «per non riscontrata pazzia». Alcuni stralci della lettera che nel Natale del 1942 inviò
alla famiglia ebrea recitavano: «Preg. buona signora, La ringrazio con tutto il cuore del regalo che mi ha fatto e grazie
anche a S. E. l’Ammiraglio ed auguro loro che dio paghi tanta cristiana carità. Un pollo come quello costerà per lo
meno 100 lire ma la vostra carità non conta perché voi siete ebrei, (m’intende signora), conta sola la carità di quei
grandi benefattori del mondo intero che hanno mandato i popoli a mangiare le scorze delle patate […] In un suo
discorso Napoleone ha detto che, anche nelle famiglie povere, alla festa non doveva loro mancare un pollo, pur
sapendo, pover’uomo, che nelle famiglie povere (col suo sistema di governo) non c’è nemmeno il pane. Ebbene
signora, io oggi un pollo l’ho mangiato insieme ai miei figlioletti, ma la spesa di esso pollo l’ha sostenuta una famiglia
ebrea, cioè proprio una di quelle samueliche famiglie che il su lodato generoso Napoleone si fa un dovere di
perseguitare. Ma voi ripeto non siete ariani. Lasciate dunque il merito agli arianissimi, il diritto sacrosanto di far morire
di fame alla gente»; cfr. ASAn, cat. A8, Quest. An “politici 1900-1943”, b. 15, Sulla copertina la scritta “iscritto mod. 2
n. 545”, Commissariato PS Ancona porto, 16 settembre 1927, Questura di Ancona, 19 dicembre 1933; Foglio senza
intestazione, 28 dicembre 1942, in allegato il verbale di interrogatorio della donna ebrea e copia della lettera di A.;
Foglio senza intestazione (Prefettura di Ancona) indirizzato al Ministero dell’Interno, timbro di copia 31 dicembre
1942; Questura di Ancona, 9 gennaio 1943; Ospedale psichiatrico provinciale di Ancona, 3 febbraio 1943; Ospedale
psichiatrico provinciale di Ancona, 15 febbraio 1943; Verbale di diffida, Questura Ancona, 19 febbraio 1943.
37
il ventaglio di obiettivi perseguibili dall'internamento psichiatrico in base anche alle necessità date
dallo stato di belligeranza.143
Volendo considerare invece gli schedati politici ed il ruolo che, nel loro internamento
psichiatrico, svolse l’interpretabilità del concetto di pericolosità sociale, dobbiamo innanzitutto
soffermarci sul grado di assimilazione raggiunto durante il regime tra questa e la pericolosità
politica. Tutti e due i concetti vennero infatti considerati «disvalori», tra loro «equivalenti» e
meritevoli «di essere combattuti sullo stesso piano e con gli stessi mezzi». 144 Parole, atti o
intenzioni che mettessero in discussione l’ordine politico venivano letti come una minaccia
all’ordine sociale, e quindi come socialmente pericolosi. Il fascismo rappresentava la nazione e
questa era rappresentata dallo Stato. Per equivalenza, allora, il fascismo era lo Stato ed ogni forma
di opposizione doveva essere interpretata come una rottura del patto sociale tra lo Stato e il
cittadino, che, alla fedeltà e l’obbedienza di quest’ultimo, faceva corrispondere la garanzia della
sicurezza rispetto alle minacce interne, esterne, nonché rispetto all’azione repressiva dello Stato
stesso.
Una delle linee di demarcazione più profonde tra il fascismo ed i suoi oppositori era
sicuramente quella tracciata intorno alla rappresentazione della patria. La retorica fascista aveva
recuperato il bagaglio propagandistico della prima guerra mondiale, esaltando l’ideale patriottico e
candidandosi a definirne univocamente i destini. Così come era avvenuto per i socialisti neutralisti
alla vigilia della prima guerra mondiale, anche gli antifascisti cominciarono ad essere definiti
antitaliani.145A partire da questa identificazione tra fascismo e italianità, simbolicamente
rappresentata dall’appropriazione dei simboli nazionali - come la bandiera o l’inno - e dal parallelo
accostamento dei simboli fascisti ai simboli della nazione - fino a prevedere, come vedremo nel
143
Oltre al caso dell'anarchico livornese P., ad esempio, citato precedentemente ed internato in manicomio dopo essere
stato interrogato in Questura ed essersi definito di sentimenti irriducibilmente ostili alla Germania nazista, possiamo
citare quello di E., schedato come socialista sin dal 1897 ed arrestato nel 1930 e nel 1934 per ingiurie e offese al capo
del governo. Un mese dopo l'invasione della Polonia, un funzionario di PS segnalò gli «evidentissimi segni di squilibrio
mentale» che E. aveva cominciato a manifestare, ricordando che una paralisi lo aveva colpito ai centri nervosi. Era un
grafomane, scriveva continuamente degli esposti e secondo le autorità non doveva essere preso in considerazione, data
la sua «deficienza psichica». Non era «pericoloso», ma, visti i suoi trascorsi di socialista rivoluzionario, ne venne
disposta «la più diligente vigilanza». Sette giorni dopo l'ingresso dell’Italia in guerra, i carabinieri di Perugia
suggerirono al questore che era giunto il momento di internarlo «in un istituto psichiatrico, anche perché oltre a
professarsi contrario ai tedeschi» lasciava «trapelare la sua simpatia per i franco-inglesi» (non poteva essere inviato al
confino in considerazione della sua età avanzata). Il questore rispose dicendo che non poteva essere ricoverato
d’autorità perché era considerato non pericoloso, circostanza che ci dice che era stato già fatto visitare. Qualche giorno
dopo, il prefetto comunicò al Ministero che ai familiari ne era stato «consigliato» il ricovero psichiatrico. Ad appena un
anno di distanza lo si sarebbe indicato costretto a letto da mesi: incapace di alzarsi e «di usare le sue facoltà mentali».
Morì il 17 novembre del 1941; cfr. ASPg, Questura, Radiati, b. 28, f. 9, C. E., Prefettura di Perugia, Scheda biografica;
Foglio senza intestazione, 12 ottobre 1939; Foglio senza intestazione, 12 ottobre 1939; Carabinieri Perugia, 18 aprile
1940; Carabinieri Perugia, 17 giugno 1940; Carabinieri Città della Pieve, 20 giugno 1940; Foglio senza intestazione, 21
giugno 1940; Foglio senza intestazione, 25 giugno 1940; Carabinieri Città della Pieve, 12 giugno 1941; Prefettura di
Perugia, 6 luglio 1941; Ministero dell'interno, 19 luglio 1941 e Carabinieri Città della Pieve, 4 novembre 1942.
144
Tosatti, La repressione del dissenso politico tra età liberale e fascismo, cit., p. 253.
145
Angelo Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Donzelli, Roma 2003,
p. 213.
38
prossimo capitolo, la loro parificazione nella tutela penale - la militanza antifascista non poneva i
soggetti solo in posizione di alterità rispetto al regime e rispetto alla patria stessa, ma, come
sottolineato da Emilio Gentile, in una posizione di inferiorità «antropologica».146
I «fuoriusciti» rappresentavano l’incarnazione antipatriottica per eccellenza. 147 Erano
scappati dalle persecuzioni ed erano stati dipinti dal regime come vigliacchi che, con la stampa e
con le bombe, dall’estero operavano contro il fascismo, e quindi contro l’Italia. La Concentrazione
antifascista a Parigi, che univa gli espatriati non comunisti, era considerata dal Tribunale Speciale
come «associazione di senza patria». 148 Emblematica è anche la spiegazione data dalla rivista
“Rassegna penale” alla precedente introduzione del reato di «attività antinazionale all’estero», con
la Legge per la difesa dello Stato del novembre 1926. Secondo la rivista, il «fatto antinazionale» era
«per ciò stesso antifascista» e, conseguentemente, doveva «essere severamente represso quale
menomazione dell’autorità politica dello Stato».149
In campo psichiatrico era presente la convinzione che chi abbandonava la propria terra lo
facesse perché spinto da una molla patologica, secondo una reinterpretazione dell’adagio popolare
“chi sta bene non si muove”. Nel 1932, lo psichiatra norvegese Øegaard pubblicò la sua monografia
Emigration and Insanity nella quale sosteneva che l’emigrazione era determinata dalla costituzione
mentale, riscontrando come questa fosse un fenomeno sociale maggiormente presente in personalità
costituzionalmente psicopatiche o psicotiche.150 Dal punto di vista criminologico, invece,
l’attaccamento alla propria nazione era uno di quei «sentimenti superiori» su cui misurare le
distanze tra i normali e i «pazzi morali», individui, questi ultimi, pronti a compiere «il male per il
male», senza nessun intento egoistico, come «fine a se stesso» e per una «causa […] quasi sempre
sproporzionata».151 Con l’approvazione delle leggi razziali, anche in Italia cominciarono a
diffondersi pregiudizi pseudoscientifici sull’anormalità degli apolidi e degli sradicati, sul mito
146
Gentile, Fascismo, cit., p. 248.
Il participio passato indicava gli emigrati politici di quel tempo prodotti dall’«azione violenta che aveva portato al
potere il fascismo»; cfr. Carlo Alpi, Il «fuoriuscitismo», in Luigi Arbizzani, Alberto Caltabiano (a cura di), Storia
dell’antifascismo italiano - Testimonianze, , Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 127-128.
148
Claudio Longhitano, Il tribunale di Mussolini. Storia del Tribunale speciale (1926-1943), Edizioni ANPPIA, Roma
1995, pp. 138-139.
149
S. Longhi, Reati di antifascismo commessi all’estero, in “Rassegna penale”, 1929, ora in Longhitano, Il tribunale di
Mussolini, cit., p. 148. L’articolo 5 della legge 2008 del novembre 1926, “Legge per la difesa dello Stato”, disponeva:
«Il cittadino che, fuori da territorio dello Stato, diffonde o comunica, sotto qualsiasi forma, voci o notizie false,
esagerate o tendenziose sulle condizioni interne dello Stato, per modo di menomare il credito o il prestigio dello Stato
all’estero, o svolge comunque un’attività tale da recar nocumento agli interessi nazionali, è punito con la reclusione da
cinque a quindici anni e con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici […] Tutte le alienazioni dei beni fatte dal
condannato dopo commesso il reato e nell’anno antecedente a questo si presumono fatte in frode dello Stato, e i beni
medesimi sono compresi nella confisca o nel sequestro».
150
Delia Frigessi Castelnuovo, Michele Risso, A mezza parete. Emigrazione, nostalgia, malattia mentale, Einaudi,
Torino 1982, pp. 70-78.
151
Il pazzo morale era considerato durante il fascismo come «un amorale completo», incapace di «comprendere il
valore delle leggi» e di adattarsi «all’ambiente sociale», sempre «bugiardo» e «ribelle» e perciò «continuamente
pericoloso»: per tali soggetti «il delitto si presenta[va] non sotto forma di predisoposizione o di spinta, ma di necessità».
Quando alla pazzia morale si associavano anche forme di paranoia o nevrastenia la pericolosità dei soggetti si faceva
assoluta; cfr. Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., pp. 268-270.
147
39
dell’ebreo errante, degli zingari - che erano «materialisti, superstiziosi, areligiosi» e capaci di un
solo sentimento: «la musica» - o dei tramps, i vagabondi descritti da Jack London, individui che
non si erano mai «assoggettati ad una vita ordinata e disciplinata», sempre «ribelli alla consuetudini
di vita sociale» e sensibili a due soli comandamenti: «l’indipendenza» e «la libertà sconfinata». 152
L’assenza di sentimenti patriottici nel carattere, emersi in seguito all’intercettazione di
alcune lettere spedite ai familiari - che la polizia fotografava, richiudeva e faceva poi recapitare sembrano essere le ragioni che fecero da sfondo all'internamento in manicomio di M., giovane
operaio del bolognese e comunista già nel 1921, quando aveva vent’anni.153
M. non era un militante dell’antifascismo organizzato. Non era nemmeno molto avveduto
visto che scriveva molto spesso.154 Secondo il questore, dal contenuto delle sue lettere si
comprendeva che era «alquanto esaltato». 155 Al padre aveva scritto: «Di patrie n’ebbi una, e
siccome babbo per amore di libertà l’ho perduta, e siccome l’amore per la libertà mi spingerà a
cercarmi una terra senza patria, intendo più non averne e credo che come straniero potrei vivere
ovunque».156 Quando, nel 1930, raggiunse Algeri, il console italiano lo chiamò per un colloquio. Il
diplomatico riferì poi al Ministero che, mentre non era sembrato indifferente alla famiglia, altro
«tema» considerato «superiore», «l’argomento Patria non» aveva provocato in lui «alcun
sentimento visibile».157 Al console aveva detto di aver cambiato spesso alloggio e «padrone» e che
avrebbe continuato a farlo, «come se avesse la netta sensazione di sentirsi ovunque vigilato». Il
console, facendosene un merito, riferì di non aver fatto «nulla perché» quella percezione si
modificasse, lasciando M. con la convinzione di essere una preda in fuga.158
Quando, alla fine del 1938, M. tornò in Italia, venne arrestato alla frontiera e portato quasi
subito in manicomio. A far maturare le convinzioni sulla sua pericolosità sociale, come vedremo più
avanti, sarebbe stata l’errata interpretazione di alcuni passaggi di una lettera che, come voleva il
teorema criminologico che vedeva negli sradicati dei soggetti che potenzialmente erano capaci delle
azioni più efferate, orientarono il Ministero a pensare che la pazzia morale aveva portato M. a
152
Luigi Cesari, Considerazioni sulle cause del nomadismo, in “Razza e civiltà. Rivista mensile del Consiglio superiore
e della Direzione generale per la demografia e la razza”, a. II, n. 1, 23 marzo 1941, pp. 109-122. Le citazioni a pp. 114117. Sul mito dell’ebreo errante cfr. anche Giuseppe Cocchiara, La leggenda dell’ebreo errante, in “La difesa della
razza”, a. IV, n. 16, 20 giugno 1941, pp. 6-8; cfr. anche Jack London, Il vagabondo, in Id, La lotta di classe e altri saggi
sul socialismo (a cura di Alessandro Gebbia), Lerici, Cosenza 1977, pp. 135-156.
153
ACS, CPC, b. , f. 26449, Prefettura di Bologna, Scheda biografica del 22 agosto 1922 e annotazioni seguenti.
154
La corrispondenza aveva smesso di essere uno spazio privato già durante la prima guerra mondiale, con il controllo
delle lettere spedite dai soldati al fronte, e, come ha notato Franco Basaglia, bisogna considerare che cadono «sotto le
sanzioni» del controllo psichiatrico proprio coloro che oltrepassano il confine tra normalità e pazzia senza disporre di
«uno spazio privato dove poter esprimere al sicuro la propria devianza», e ciò è «una conseguenza logica di una
premessa implicita nel tipo di organizzazione sociale» in cui ci si trova ad essere «inseriti»; cfr. Basaglia, Basaglia, La
maggioranza deviante, cit., p. 32.
155
ACS, CPC, b. , f. 26449, Prefettura di Bologna, 11 febbraio 1929.
156
Ivi, Estratto della lettera del 19 giugno 1929 intercettata dalla polizia ed in parte ricopiata.
157
Ivi Consolato generale d’Italia, Telespresso del 27 marzo 1930.
158
Ibidem.
40
volersi impegnare in una qualche un’azione clamorosa, colpendo il “padre della patria” per
definizione: il re.
Come abbiamo detto, per poter comprendere il grado di politicizzazione di ogni singolo
antifascista internato in manicomio dovremmo chiederci se la schedatura di polizia del soggetto
risaliva ai tempi precedenti le manifestazioni dello squilibrio mentale o se invece era a queste
contemporanea. Per gli scritti o i discorsi che lasciavano intendere una più o meno vaga
appartenenza politica o l’espressione di un generico dissenso, inoltre, dovremmo esaminare anche i
contenuti ed il contesto entro il quale questi si produssero, che spesso aiutano a comprendere
l'effettiva razionalità mentale, o l'irrazionalità, degli schedati politici poi internati in manicomio. Nel
caso del meccanico milanese G., a esempio, l’internamento sembrerebbe essere stato dettato dalla
semplice necessità di garantire l’ordine pubblico ed eliminare un disturbatore, senza l’intervento di
nessuna precisa volontà politica.159 Anche nel caso di C. il ricovero sembra dettato dalla necessità di
eliminare un esaltato. La sera del 9 dicembre del 1937 C. nascose in un antro della stazione Termini
un foglio contenente un messaggio al popolo italiano, nel quale spiegava di aver «mentalmente»
comunicato al re che bisognava guardarsi dal «fascio e dal clero» e che, per il bene della nazione,
bisognava subito adottare leggi per legalizzare «il divorzio» e per costruire «l’uguaglianza tra il
ricco ed il povero». Il giorno dopo fece la stessa cosa. Il terzo giorno, mentre si accingeva a
compiere l'ormai consueta operazione, venne arrestato. Fornì spiegazioni «prive di senso logico» e
venne perciò ricoverato nella Clinica psichiatrica universitaria che, come abbiamo visto, a Roma
funzionava da reparto di preosservazione del Santa Maria della Pietà, dove venne inviato il giorno
successivo. Precedentemente, sul suo conto nessuno aveva mai segnalato segni di squilibrio mentale
e, benché si sapesse che era stato di idee sovversive, non era mai stato schedato perché aveva
sempre vissuto una «vita isolata».160 Alla fine del febbraio venne dimesso, affidato alla moglie con
l'obbligo di tornare a Camerino, suo paese natale, e diffidato dal fare ritorno a Roma, dove, dato «il
suo stato mentale anormale», avrebbe potuto «rendersi pericoloso». 161
Assolutamente di altro tenore, invece, gli scritti prodotti da Giuseppe Massarenti, con i quali
l’ex sindaco di Molinella mirava a denunciare la sua condizione di perseguitato, il controllo
asfissiante che veniva esercitato nei suoi confronti e la situazione di povertà ed emarginazione in
cui il regime lo obbligava a vivere. All’inizio di aprile del 1934, la situazione venne prospettata a
159
All’inizio del maggio 1928, attraversando Galleria Vittorio Emanuele, a Milano, «improvvisamente, come colto da
subitanea alienazione mentale», G. aveva cominciato a «gesticolare scompostamente» pronunciando frasi offensive
verso il re e Mussolini. Era uscito dall’ospedale psichiatrico di Mombello qualche giorno prima. Riportato in
manicomio, non sarebbe stato più dimesso. Morì più di dieci anni dopo, a cinquantadue anni, il 10 ottobre del 1938; cfr.
ACS, CPC, b. 997, f. 13905, Biglietto postale della prefettura di Milano, 15 maggio 1928 e Prefettura di Milano, 7
febbraio 1939.
160
ASMc, Archivio Questura, Radiati, b., 22, f. R. C., Questura di Roma, 5 gennaio 1938 e Copia del foglio scritto da
C., Roma, 9 dicembre 1937.
161
Ivi, Questura Roma, 27 marzo 1938.
41
Mussolini. Una volta bandito da Molinella, e dopo essere rientrato dal confino, sul conto di
Massarenti era stato previsto persino il «servizio di vigilanza con pedinamento». Dal settembre del
1932, gli agenti di polizia avevano smesso di seguirlo passo passo, continuando tuttavia a
sorvegliarlo. Massarenti si sentiva braccato e aveva cominciato a scrivere «lettere a conoscenti ed
amici, di vario colore politico», chiedendo sostegno ed aiuto, anche economico, data la sua
«situazione disperata». Era stato anche sfrattato dall’albergo dove dormiva, per via del mancato
pagamento della retta. Prima di andarsene aveva anche accusato il personale di avergli rovistato tra i
bagagli: circostanza affatto inverosimile se pensiamo al descritto legame di fedeltà che doveva
legare gli albergatori al Ministero dell’Interno. Ad ogni modo le autorità erano convinte che
Massarenti fosse stato colpito «da manie di persecuzione» e «pertanto» chiesero al capo del governo
quale provvedimento si dovesse adottare, «date le condizioni economiche criticissime» dell’anziano
socialista «nonché» il suo «stato mentale», che, si riteneva, peggiorava progressivamente. 162
Mussolini sapeva benissimo chi fosse Massarenti, tuttavia non rispose. Secondo il racconto
del molinellese Otello Pezzoli, il capo del governo ricordava anche come fosse fatto fisicamente l'ex
sindaco di Molinella, visto che, nel 1936, passeggiando vicino a Villa Borghese, lo aveva
riconosciuto e fatto fermare da un poliziotto per prendergli le generalità, probabilmente per avere
conferma che si trattasse proprio lui.163 Qualche mese dopo quell’incontro, Massarenti si rese
protagonista di un altro episodio di denuncia dei disagi che lo affliggevano, quando, raggiungendo
la residenza di Galeazzo Ciano, gli fece recapitare due lunghi memorandum. In uno esponeva la sua
visione sulla politica internazionale in relazione soprattutto alla situazione tedesca (i nazisti stavano
consolidando il proprio potere) ed alla possibile esplosione di un nuovo conflitto europeo (la guerra
civile spagnola era cominciata da poche settimane). Nell'altro, invece, descriveva gli abusi e gli
arbitri perpetrati dalla polizia romana nei suoi confronti. Questo secondo memorandum venne
inviato da Ciano al capo della polizia, e poi da questi al capo del governo. 164 Nello scritto
Massarenti diceva di incrociare «poliziotti in borghese» ovunque, «truccati in mille modi» ed intenti
a seguirlo per segnare con chiunque parlasse, cosa scrivesse, cosa leggesse. In un passaggio delle
trentadue pagine, aveva accennato anche a forme di sorveglianza esercitate attraverso marchingegni
che, più che dall’applicazione di nuove tecnologie in campo investigativo, sembrano derivare da
esagerazioni frutto della sua esasperazione, come «la sorveglianza auricolare e televisionistica».
Tuttavia, tutte le altre circostanze denunciate - il sequestro della corrispondenza, gli arresti della
sorella e di persone e a lui vicine, i continui pedinamenti e la vigilanza su ogni spostamento – erano
reali e sono testimoniate dai documenti conservati nei fascicoli di polizia. Sembrano allora
162
ACS, CPC, B. 3137, f. 3873, Massarenti Giuseppe, Appunto per S.E. il Capo del Governo, copiato il 30 marzo 1934.
Passeggiando vicino a Villa Borghese, Mussolini aveva incrociato lo sguardo di Massarenti, lo aveva riconosciuto e
lo aveva fatto avvicinare da un poliziotto per rilevarne le generalità.; cfr. Poli, Giuseppe Massarenti, cit., p. 409.
164
Sulle lettere di trasmissione del memorandum venne apposto il timbro “conferire”.
163
42
profetiche altre righe contenute nello scritto inviato a Ciano, nelle quali sosteneva che nel
costringerlo a vivere come un cane braccato e a dormire in una stanza che assomigliava ad una
«camera mortuaria» - senza acqua, riscaldamento, aria - la Questura romana voleva condurlo alla
«disperazione», fino al «Verano» (il cimitero monumentale della capitale) o «al manicomio», come
«già» - sosteneva Massarenti - un funzionario della PS aveva cominciato a far dire ad alcuni «suoi
emissari», impegnati a «spargere voce» negli ambienti di polizia e in quelli frequentati dall'anziano
socialista.165
Un intervento diretto di Mussolini negli internamenti psichiatrici di alcuni schedati politici
non è affatto escludibile. Lo abbiamo visto nel caso dell’avvocato S., descritto nei paragrafi
precedenti, quando il capo del fascismo aveva trovato nel manicomio uno strumento per togliere di
mezzo un soggetto che era diventato un elemento di disturbo. Appare allora plausibile che nel caso
di Massarenti la Questura romana abbia agito con lo stesso obiettivo, magari con il benestare dello
stesso capo del governo: eliminare un soggetto che si stava trasformando in un elemento di disturbo
che, peraltro, godeva di un'elevata considerazione sociale.
Questa ipotesi sembra confermata da una annotazione sul Diario clinico dell’ex sindaco di
Molinella. Secondo i medici del Santa Maria della Pietà, considerato il comportamento affatto
anormale tenuto nell’ospedale, l’internamento di Massarenti «probabilmente» era stato «cagionato»
dai suoi scritti.166 Con i suoi continui esposti e la sua corrispondenza, Massarenti stava gettando una
luce sinistra rispetto alle modalità usate dalle autorità della capitale e dal fascismo nel gestire la
vigilanza politica sulla sua persona; che era stata, restava e sarebbe restata una figura simbolo per i
socialisti italiani. I suoi scritti, per di più, erano tutt’altro che sconclusionati. I destinatari li
conservavano «come cose preziose e di alto valore morale». Venivano passati di mano in mano tra i
compagni, che tremavano «di commozione» sapendo che un giorno, «forse non lontano», sarebbero
diventati «documenti» in grado di testimoniare le persecuzioni da loro subite in nome dell'ideale
socialista.167 Prima di essere ricoverato al Santa Maria della Pietà secondo la dinamica anomala che
abbiamo descritto nei paragrafi precedenti, Massarenti stava preparando una lettera da inviare a
Roosevelt, che considerava l’unico attore che in campo mondiale avesse realmente a cuore la
pace.168 Nell’agosto del 1937 Massarenti ne aveva denunciato a Mussolini il furto, a suo dire
avvenuto per mano di agenti in borghese della PS romana. Oltre alla lettera, sosteneva, gli erano
165
ACS, CPC, B. 3137, f. 3873, Massarenti Giuseppe, Ministero degli affari esteri, 28 ottobre 1936. La copia del
memorandum di Massarenti consegnato a Ciano, che si compone di trentadue pagine, è allegata e la citazione relativa
alla volontà di farlo internare in manicomio si trova a p. 16.
166
Diario clinico di Giuseppe Massarenti, 2 dicembre 1937, in Cazzamalli, L’avventura di Giuseppe Massarenti, cit., p.
28
167
ACS, CPC, B. 3137, f. 3873, Massarenti Giuseppe, Copia della lettera indirizzata a Massarenti proveniente da
Novara, 25 dicembre 1934.
168
Purtroppo la lettera scritta per Roosevelt non è conservata né nel fasciscolo di polizia del Casellario politico centrale
né in quello dell'Archivio di Stato di Bologna. Non è stato quindi possibile visionarne il contenuto.
43
stati rubati un orologio e 2000 lire che alcuni molinellesi gli avevano inviato per aiutarlo.169
Qualche settimana dopo venne internato, accompagnato dai lamenti della donna, Bice, che aveva
scelto di ospitarlo nel suo peregrinare.170
Paranoia e pericolosità.
Massarenti era stato ricoverato perché considerato pericoloso per sé e gli altri, nonostante i
suoi atti di protesta non fossero mai andati oltre la compilazione delle lettere descritte. Il suo non
era un carattere violento. Se si escludovano le sue lamentele sugli arbitri della polizia, anche
secondo i medici del Santa Maria della Pietà che lo avevano tenuto in osservazione sembrava
normale; nelle settimane passate all'interno del manicomio si era contraddistinto per essere sempre
stato «tranquillo e docile».171 Massarenti appariva tuttavia ossessionato e la sua insistenza sulle
persecuzioni lo faceva giudicare paranoico. Era questo a renderlo pericoloso.
La «dimensione paranoica» è stata «una dato strutturale» per tutta la prima parte del
Novecento.172 Paranoici potevano diventare i perseguitati politici, che trovavano in quella patologia
una forma di difesa capace di «proiettare all’esterno» la dimensione conflittuale dell’Io, in una falsa
realtà dove le linee di separazione tra il bene e il male erano sempre nette e definite e la
rappresentazione della propria coscienza individuale non era soggetta a nessuna forma di
ambivalenza tra il giusto e lo sbagliato.173 Paranoici sembrano gli uomini che muovevano le fila dei
regimi totalitari ed autoritari, ossessionati dalla minaccia di un nemico interno (comparso sulla
scena politica europea durante la prima guerra mondiale e mai più scomparso) sempre in agguato e
sempre pronto a colpire con violenza la stabilità. Un nemico «spersonalizzato», che, «proprio per la
sua opaca oggettività», era «difficile o impossibile individuare e rappresentare» e che,
conseguentemente, doveva «essere iper-rappresentato, con l’enfatizzazione dei suoi tratti negativi»,
così da scagliargli contro «il massimo di energia politica».174 Un nemico che poteva apparire
incomprensibile alle stesse autorità fasciste, incapaci di considerare come razionali fatti o
dichiarazioni che mostravano l'opposizione all'ordine costituito di soggetti per i quali la condizione
sociale lasciava invece presumere una convenienza nel mantenimento dello status quo e dei rapporti
economici stabiliti. Come per C., studente «colto e intelligente», di «buona fama» e di famiglia
169
ACS, CPC, B. 3137, f. 3873, Massarenti Giuseppe, Copia del verbale di interrogatorio del 14 agosto 1937.
Ivi, Questura di Roma, 17 ottobre 1937.
171
Diario clinico di Giuseppe Massarenti, 2 dicembre 1937, in Cazzamalli, L’avventura di Giuseppe Massarenti, cit., p.
28
172
Marco Revelli, Processi politici e paranoia, in Simona Forti, Marco Revelli (a cura di), Paranoia e politica, Bollati
Boringhieri, Torino 2007, p. 190.
173
Massimo Recalcati, Paranoia ed ambivalenza, in Forti, Revelli (a cura di), Paranoia e politica, cit., pp. 258-287; per
la citazione cfr. p. 260.
174
Carlo Galli, Sulla guerra e sul nemico, in Forti, Revelli (a cura di), Paranoia e politica, cit., pp. 21-42; per la
citazione cfr. p. 35.
170
44
«facoltosa», che tuttavia era considerato un comunista agguerrito, nonostante al momento della sua
prima condanna, nel 1930, avesse solo ventidue anni.175 Amnistiato in occasione delle celebrazioni
per il decennale della marcia su Roma, «invece di dimostrare gratitudine verso il Duce per il
beneficio elargito» dichiarò «di essere certo di tornare presto in carcere perché le sue idee politiche»
non sarebbero cambiate.176 Dopo qualche mese, effettivamente, fu arrestato.177 Il 12 novembre del
1933, appena liberato dal carcere, venne fatto subito visitare dalla PS ed internato d'urgenza al
Santa Maria della Pietà, da dove sarebbe stato dimesso il 28 settembre dell’anno successivo. Di
nuovo libero tentò di salvarsi dalle persecuzioni cercando di espatriare clandestinamente, cosa che
riuscì a fare attraversando a nuoto le acque del Lago di Lugano nella zona di Ponte Tresa, mentre
due guardie di frontiera che lo avevano scoperto gli scaricavano addosso i colpi delle pistole
d'ordinanza, ferendolo alle gambe.178
Il «pazzo è come il cielo, come il mare, essenzialmente instabile e infido» - aveva scritto nel
1879 lo psichiatra Andrea Verga - capace di «improvvisi uragani». Chi mai avrebbe potuto
assicurare - si era chiesto retoricamente - che «colui che oggi è innocuo e tranquillo, lo sarà domani
e sempre?».179 A quasi cinquanta anni di distanza, la percezione della polizia e delle autorità fasciste
preposte al controllo sociale rispetto alla malattia mentale come fattore di elevata ed imprevedibile
pericolosità era rimasta la stessa.
Fino a quel momento, la storia d'Italia era stata contrassegnata da sanguinosi episodi che
avevano visto protagonisti uomini che, più o meno individualmente ed in circostanze più o meno
chiare, avevano attentato alla vita di sovrani e governanti.180 La psichiatria non era restata estranea a
queste vicende e più volte si era occupata dello studio e della custodia degli attentatori e dei segni
della loro degenerazione. Lombroso era ricorso all’isteria per spiegare perché gli anarchici potevano
essere, ad un tempo, «altruisti verso i deboli e capaci delle peggiori efferatezze» verso i borghesi e i
175
Nel luglio del 1930 venne arrestato a Roma insieme ad un comunista proveniente dalla Francia con volantini,
giornali e materiale per la produzione di stampe. Durante la perquisizione dell’abitazione gli venne trovata una
«cartolina di riconoscimento contenente la firma “Berto”» uguale ad un’altra trovata nella valigia dell’emissario.
Interrogato, ammise che a casa sua «si erano stampati manifesti ed altro materiale di propaganda». Venne indicato come
il «fiduciario per i collegamenti» del centro del partito «con i giovani». Denunciato per «propaganda sovversiva e
ricostituzione del partito comunista», nel novembre successivo venne condannato dal Tribunale Speciale a sette anni ci
reclusione. Il direttore del carcere riferì poi che C. aveva sempre tenuto «mediocre condotta», dimostrandosi
«indisciplinato» e sempre intento a «fare propaganda sovversiva fra i compagni», e per questo era stato «sottoposto ad
una sorveglianza particolare»; cfr. ACS, CPC, b. 3111, f. 82304, Prefettura Milano, Copia comunicazione Questura di
Roma, 14 agosto 1930 e Scheda biografica, 29 aprile 1933.
176
Ivi, Prefettura Milano, Scheda biografica, 29 aprile 1933.
177
Ivi, Prefettura Milano, 3 maggio 1933.
178
Ivi, Prefettura Milano, 26 dicembre 1933 e Questura Roma, 12 ottobre 1934.
179
Andrea Verga, Il manicomio e la famiglia, 1879, in Del Peri, Il medico e il folle, cit., p. 1130.
180
Ad esempio, Sante Geronimo Caserio (1873-1894, fornaio di umili origini, il padre era morto in manicomio,
anarchico) il 24 giungo del 1894 aveva ucciso con un pugnale il primo ministro francese Sadi Carnot. Luigi Lucheni
(1873-1910, italiano nato in Francia ed abbandonato in orfanotrofio dalla madre, anarchico) il 10 settembre del 1898
aveva colpito con un punteruolo l'imperatrice Elisabetta d'Austria, poi deceduta. Gaetano Bresci (1869-1901, di origini
contadine, emigrato negli Stati Uniti, anarchico) il 29 luglio del 1900 aveva ucciso con alcuni colpi di pistola Umberto
I, re d'Italia.
45
potenti.181 Al cadavere di Giovanni Passannante, l’anarchico di Salvia di Lucania che aveva provato
ad attentare alla vita di Umberto I nel 1878 e che, dopo un lungo periodo di ergastolo, era stato
rinchiuso nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, era persino stato estratto il cervello per
scopi scientifici. Dal 1936, anno della proclamazione dell'impero, il cervello di Passannante sarebbe
stato trasferito al museo criminologico di Roma ed offerto alla curiosità dei visitatori.182
Anche i primi anni del fascismo erano stati segnati dagli attentati. Soltanto Mussolini ne
aveva subiti quattro.183 Oltre a costruirgli intorno un alone di invulnerabiltà, dal punto di vista
legislativo tale escalation aprì la strada all'emanazione delle leggi eccezionali, culminate con la
Legge per la difesa dello Stato.184 In quel periodo, la psichiatria si era occupata del caso di Violet
Gibson, l’irlandese cattolica che si era trasferita a Roma e, dopo numerosi esercizi di tiro con la
pistola, il 7 aprile del 1926 aveva sparato al capo del governo mirando alla testa e ferendolo al
naso.185 Prima della Gibson in manicomio c’era finito anche un altro attentatore, G., il comunista di
Sondrio che il 12 settembre del 1924 aveva voluto vendicare l’assassinio di Matteotti uccidendo un
deputato fascista, Armando Casalini. Da quel momento il regime non lo avrebbe più “mollato”, fino
a quando, dopo il 25 luglio del 1943, sarebbe stato catturato dalla Guardia nazionale repubblicana
della neo costituita Rsi e deportato in Germania.186 Dopo la Gibson, invece, in manicomio transitò
181
Lombroso, Gli anarchici, cit., p. 80.
Solo nel 2007, e non senza polemiche, i resti dell’anarchico lucano sono finalmente potuti tornare nel suo paese
d’origine, ora Savoia di Lucania (dopo l’attentato al paese cambiarono nome come forma di risarcimento alla casa
regnante); cfr. Giuseppe Galzerano, Giovanni Passannante. La vita, l’attentato, il processo, la condanna a morte, la
grazia ‘regale’ e gli anni di galera del cuoco lucano che nel 1878 ruppe l’incantesimo monarchico, Galzerano editore,
Casalvelino Scalo 2004; cfr. anche il sito www.giovannipassannante.it Recentemente la figura dell'anarchico lucano ha
ispirato opere teatrali (L'innaffiatore del cervello di Passannante: l'anarchico che cercò di uccidere Umberto I di
Savoia, 2003, di Ulderico Pesce) e cinematografiche (Passanante, 2011, di Sergio Colabona)
183
Quello messo in opera da Zaniboni nel 1925, il colpo di pistola di Violet Gibson nell'aprile del 1926, quello
dell'anarchico Lucetti nel settembre del 1926 e, infine, quello di Bologna del 31 ottobre 1926, drammatico soprattutto
per l'epilogo, caratterizzato dal linciaggio del presunto attentatore, il quindicenne Anteo Zamboni.
184
Longhitano, Il tribunale di Mussolini, cit., pp. 39-50.
185
La Gibsoin non era pentita, sosteneva anzi che gli italiani avrebbero dovuto ringraziarla per quello che aveva tentato
di fare e si diceva dispiaciuta di non essere riuscita nel suo intento. Gli interessi a riconoscerla come folle erano
molteplici. Per la difesa, retta da Sante De Sanctis, il riconoscimento dell’infermità mentale avrebbe preservato la
Gibson dal carcere. Per l’accusa, che si muoveva per conto del governo, dichiarandola pazza si poteva negare qualsiasi
complotto e quindi l’esistenza di un’opposizione politica organizzata. Nell’agosto del 1926 la perizia si concluse
diagnosticando alla Gibson una forma «cronica» di «paranoia». La sentenza del Tribunale Speciale accolse tale tesi. Nel
maggio del 1927 Violet Gibson venne trasferita in una clinica psichiatrica del Regno Unito, dove morì nel giugno del
1956, dopo 29 anni di internamento; cfr. Babini, Liberi tutti, cit., pp. 83-87.
186
G., carpentiere, classe 1898. Prima dell’attentato non era mai stato segnalato per le sue idee politiche. Solo dopo
l’arresto si dichiarò comunista. Il processo durò molto tempo e terminò il 15 giugno del 1927 quando la Corte d’Assise
di Roma riconobbe la totale infermità mentale. Dal carcere di Regina Coeli venne trasferito al manicomio provinciale di
Roma, dove fu sottoposto a due lunghi periodo di osservazione, e dove, secondo la denuncia di Secondo Biamonti citata
nell'introduzione, subì pesanti torture. Nel 1931, il Giudice di sorveglianza ordinò il suo trasferimento nel manicomio
criminale di Aversa fissando in almeno quattro anni il termine per riconsiderare la sua posizione. Nel 1937, alla notizia
che sarebbe stato dimesso, il Ministero dell’Interno né ordinò l’assegnazione al confino. Del fatto venne informato
anche Mussolini. Il direttore del manicomio ricevette l’ordine di trattenere G., sarebbe passata la PS a prenderlo. Venne
portato alle Tremiti e, alla fine del periodo di condanna, ne venne disposto l’internamento per tutta la durata della
guerra. Nel maggio del 1944 venne fermato vicino Sondrio dalla Guardia nazionale repubblicana e rinchiuso
nuovamente, stavolta nel campo di concentramento di San Martino di Rosignano. Il 24 ottobre del 1944 venne prelevato
dai nazisti. Di lui non si ebbero più notizie; cfr. ACS, CPC, b. 1496, f. 49134, Ministero della giustizia, 30 dicembre
1931; Ministero dell’interno, 9 marzo 1937; Appunto per S.E. il Capo del Governo, 9 marzo 1937; Ministero di grazia e
182
46
anche A., comunista implicato nell'attentato alla fiera di Milano dell'aprile del 1928, fatta esplodere
per uccidere il re e invece letale per sedici innocenti. Alla fine del 1940, dopo undici anni di
internamento, la sorella, rimasta orfana, si rivolse al Ministero dell’Interno per essere autorizzata a
recarsi in Sicilia, a Barcellona Pozzo di Gotto, per «poterlo almeno vedere», convinta che non
l’avrebbe nemmeno riconosciuta. Nell’ultima estate del fascismo, A. sarebbe stato trasferito nella
«casa di redenzione sociale» di Niguarda, vicino a casa.187
Gesti più o meno isolati di singoli squilibrati mentali apparivano quindi sempre possibili e,
in un regime in cui tutto era riducibile ad uno e quell'uno era Mussolini, bisogna considerare che era
il capo del governo il primo degli obiettivi sensibili ai quali garantire inviolabilità. Ciò spiega, ad
esempio, il motivo per cui in occasione delle visite questo effettuava nelle province venisse
richiesto non solo il ricovero di tutti gli squilibrati «con manie a sfondo politico, per evitare
disordini», ma anche che in caso di dimissione di un ricoverato dal locale manicomio (qualsiasi
ricoverato, non solo gli schedati politici) venisse avvertita la Questura, affinché, durante la visita,
tutto filasse liscio.188 In second'ordine, la tutela dai possibili gesti sconsiderati di qualche folle
doveva essere estesa a tutti gli uomini che componevano l'articolazione del potere fascista.
Sarebbe un errore sottovalutare la minaccia che poteva essere percepita negli ambienti del
Ministero dell'Interno di fronte alle notizie sulle presunte ossessioni paranoiche di alcuni schedati
politici. Dai documenti analizzati emerge piuttosto che fu proprio la ricerca dell’inviolabità di
alcune figure a fare da cornice a diversi internamenti manicomiali.
L. ad esempio, il comunista umbro ex legionario fiumano di cui abbiamo nei paragrafi
precedenti, era stato arrestato dopo che un suo compaesano aveva riferito di avergli sentito dire,
giustizia, 3 maggio 1937; Prefettura di Napoli, 20 giugno 1937; Prefettura di Napoli, 28 giugno 1937; Ministero
dell’interno, 21 maggio 1941; Prefetto Capo della provincia di Sondrio, 26 maggio 1944; Prefettura di Sondrio, 31
maggio 1934; Prefettura di Sondrio, 16 ottobre 1944; Prefettura di Alessandria, 12 dicembre 1944.
187
A. era sospettato di essere stato tra i presunti esecutori dell’attentato. Il processo aveva coinvolto altri undici
imputati. A., classe 1903, era già stato segnalato nel 1920 come sospetto comunista e durante l’occupazione delle
fabbriche era stato “guardia rossa” alla Bianchi. Nel 1924, durante il servizio di leva, era stato scoperto mentre
distribuiva copie de “L’Unità”. Nel 1927 era stato ammonito. Durante il processo per la strage venne internato al Santa
Maria della Pietà, in osservazione. La sentenza della Commissione istruttoria del Tribunale Speciale escluse la sua
capacità di intendere e volere e ne ordinò il ricovero in manicomio giudiziario per tre anni, ma non sarebbe uscito prima
del 1943. Venne allora trasferito nel manicomio giudiziario di Aversa e poi in quello di Barcellona Pozzo di Gotto. Il 17
aprile del 1943 venne dimesso per ordine del Giudice di sorveglianza, avendo superato il riesame della pericolosità,
meccanismo di valutazione della condotta dei ricoverati in manicomio giudiziario di cui parleremo nell'ultimo capitolo.
Appena la notizia giunse al Ministero di Grazia e Giustizia venne subito disposta la sua traduzione nelle carceri
giudiziarie, a disposizione della Questura, che poi ordinò il suo ricovero nella casa di redenzione sociale. Il fascicolo
non coerva informazioni sulle vicende successive ; cfr. ACS, CPC, b. 681, f. 23217, Foglio senza intestazione, timbro
dello schedario 12 gennaio 1929; Prefettura Aquila, 2 marzo 1929; Prefettura Milano, 6 giugno 1929; Sentenza
Commissione istruttoria Tribunale Speciale, 23 marzo 1933; Copia Questura Napoli, 20 febbraio 1935; Prefettura
Milano, 9 gennaio 1941, la lettera della sorella è allegata; Ministero di Grazia e Giustizia, 4 maggio 1943 e Prefettura
Milano, 14 luglio 1943.
188
Peloso, La guerra dentro, cit., p. 46. L'autore fa l'esempio della visita di Mussolini a Genova, in occasione della
quale la Prefettura chiese di ricoverare sessantadue persone, per toglierle «qualche giorno dalla circolazione». Quando
Mussolini si recò in visita a Cuneo, invece, al direttore del manicomio di Pergine Emilio Rizzatti era stato chiesto dalla
Questura di segnalare tutti i ricoverati che in quei giorni erano stati dimessi, «in relazione alla prossima visita di S.E. Il
Capo del Governo in questa provincia»; cfr. Tornabene, La guerra dei matti, cit., pp. 79-81.
47
alludendo all’imminente visita di Starace e Mussolini in Umbria: «se mi fornissero una bomba o
una rivoltella andrei a Perugia» e li «ammazzerei». Dopo la visita, il Ministero dell'Interno ordinò il
suo rilascio poiché nulla risultava sul suo conto e non erano stati trovati altri testimoni che
confermassero la “soffiata”. Chiese tuttavia di ammonire L., ma il prefetto rispose esternando il
timore (non sappiamo quanto interessato, visto che l'ammonizione avrebbe permesso a L. di vivere
comunque in caso propria) che il nuovo provvedimento avrebbe potuto peggiorare le sue condizioni
mentali ed era quindi più conveniente sottoporlo a visita sanitaria e, semmai, «internarlo in una casa
di salute».189 Anche nel suo caso, come in quello di Massarenti, la procedura seguita appare
anomala. Seguendo le disposizioni del prefetto, i carabinieri lo fecero visitare da due medici, che ne
esclusero la pericolosità. Venne allora richiesta una visita specialistica, che però rimase inevasa, e,
alla fine, l’internamento venne disposto sulla base del certificato di un semplice medico condotto
che sottolineava le sue tare ereditarie e lo definiva un «paranoico pericoloso».190
Se il percorso che condusse L. in manicomio si era avviato con la denuncia di compaesano
iscritto al PNF, le notizie frammentate, nebulose ed imprecise fornite da un fiduciario della polizia
sembrano fare da sfondo all’intermento psichiatrico di A., bracciante, già arrestata il 17 maggio del
1930 perché, insieme ad un’altra quindicina di «giovani donne ferme su di un ponticello», si era
messa a cantare delle canzoni sovversive.191 Nel maggio successivo A. raggiunse Grenoble, per
partecipare al matrimonio di una sorella. Il viaggio di ritorno lo fece in treno, insieme al cognato. I
due si accomodarono in uno scompartimento dove trovarono un distinto «signore meridionale», una
giovane donna ed un informatore della polizia. Quest’ultimo avrebbe poi raccontato di aver sentito
il meridionale che, sebbene a voce alta avesse criticato «i connazionali fuoriusciti», in disparte
aveva riferito ad A. ed al cognato di prossimi attentati terroristici che sarebbero dovuti avvenire in
diverse città d’Italia. Qualche giorno dopo il Ministero chiese informazioni alla Prefettura. A. si
trovava nella sua residenza abituale e non dava luogo a sospetti. In ogni caso, assicurava il prefetto,
sarebbe stata opportunamente vigilata. Nel fascicolo del Casellario politico centrale non sono
conservati altri documenti che permettano di ricostruire le circostanze dell’internamento in
manicomio, fatto è che l’anno successivo fu portata al San Lazzaro di Reggio Emilia; aveva
189
ASPg, Questura, Schedati, b. 37, f. 16, R. L., Telegramma, 3 settembre 1933; Foglio senza intestazione (firmato dal
prefetto di Perugia), 23 novembre 1933; Ministero dell'Interno, 1 dicembre 1933.
190
Ivi, Carabinieri Perugia, 16 dicembre 1933; Copia certificato medico, 20 dicembre 1933. Il 20 dicembre 1933, giorno
stesso del suo internamento, il questore scrisse al direttore dell'ospedale psichiatrico chiedendo che, in caso di
dimissione, non solo fosse stata avvertita la PS ma L. venisse fatto presentare presso gli uffici della Questura. Il 29
aprile del 1944, dopo quasi undici anni di internamento e a poche settimane di distanza dalla liberazione dell'Umbria, L.
si trovava ancora rinchiuso nell’Ospedale psichiatrico di Perugia. Non sono state rinvenute notizie rispetto ad una sua
eventuale dimissione; cfr. Ivi, Foglio senza intestazione, 20 dicembre 1933 e Direzione ospedale psichiatrico
interprovinciale dell'Umbria, 27 dicembre 1933 e Foglio senza intestazione, 27 aprile 1944.
191
ACS, CPC, b. 2230, f. 72048, Prefettura Reggio Emilia, 22 novembre 1930. Il ritornello di una canzone recitava:
«Quando bandiera rossa si cantava trenta lire al giorno si pigliava, ora che si canta Giovinezza si va a letto con la
debolezza». Alle canzoni si alternavano grida di «A morte Mussolini» e «A morte i suoi seguaci». A. venne condannata
a 6 mesi di reclusione, 600 lire di mula e 300 di ammenda.
48
ventinove anni. Dieci anni dopo si trovava ancora segregata.192
Anche nel caso del giovane operaio bolognese M., espatriato in Francia e poi in Algeria e
segnalato dalla polizia per il contenuto antifascista ed antipatriottico delle sue lettere, le autorità di
polizia si convinsero che ci si trovasse di fronte ad un pazzo con intenzioni terroristico-suicide, e,
come abbiamo detto, fu l’interpretazione di alcuni scritti che M. inviò ai familiari a far maturare
quella convinzione.
Da Algeri M. si era trasferito a Palestro, dove si era spostato con una giovane donna con la
quale aveva messo al mondo due bambini. Col trascorrere del tempo quell’apparente idillio andò
tuttavia in frantumi. M. venne colpito da una forte depressione, si era convinto che la moglie non gli
volesse più bene, era diventato geloso fino all’ossessione. Venne allora fatto ricoverare nel
manicomio di Algeri, da dove, tuttavia, venne dimesso quasi subito perché giudicato non
pericoloso.193 Tornato a casa inviò l’ennesima lettera alla sorella, nella quale, dopo aver descritto la
sua disperazione ed il suo dolore, si disse pronto «a fare olocausto della sua vita per l’umanità».
Nell’attesa del momento giusto, avrebbe intanto raccolto «alcune sue memorie» che voleva
«lasciare agli italiani come saggio di virtù». 194
A quel punto negli ambienti del Ministero si scatenò l’allarme generale. Venne subito inviato
un dispaccio a tutti i questori ed i prefetti del regno, avvertendoli che se M. fosse rientrato doveva
essere subito arrestato. Venne avvertito il console di Algeri, al quale venne ordinato di non perderlo
di vista. Venne avvertito anche il Governatorato generale italiano in Libia, paventando che, poiché
qualche tempo dopo il re avrebbe dovuto visitare la colonia, l'obiettivo di M. fosse proprio quello di
colpire Vittorio Emanuele.195
In realtà non accadde nulla di tutto ciò, ma, quando all’inizio del dicembre 1938 provò a
rientrare in Italia con la sua famiglia, M. venne fermato a Bardonecchia, caricato su un auto tra le
lacrime della moglie e dei bambini e trasportato prima nelle carceri di Castelfranco dell’Emilia e
poi internato in manicomio. La moglie e i due figli vennero fatti salire su un treno e spediti a
Bologna. La donna scrisse diverse volte a Mussolini raccontando quanto successo. A suo avviso, M.
non era alienato ed era «stato oggetto di tale trattamento solo perché» molto tempo prima si era
occupato di politica. Era vero che, nel 1936, era stato prima ricoverato per la sua depressione e poi
192
Ivi, Ministero dell’Interno, 28 settembre 1931; Prefettura Reggio Emilia, 19 ottobre 1931; Prefettura Reggio Emilia,
14 febbraio 1938; Prefettura Reggio Emilia, 24 agosto 1942.
193
ACS, CPC, b. , f. 26449, Prefettura di Bologna, Scheda biografica, cenno del 20 gennaio 1936 e cenno del 18 aprile
1936; Ministero dell’Interno, 7 giugno 1938. Sull’assistenza psichiatrica nelle colonie europee ed in particolare nelle
colonie francesi dell’Africa occidentale cfr. Luigi Benevelli, La psichiatria coloniale italiana negli anni dell’impero
(1936-1941), Argo, Lecce 2010, pp. 65-74.
194
ACS, CPC, b. , f. 26449, Copia appunto Ministero dell’interno, 16 maggio 1938. La citazione in Ministero
dell’interno, Promemoria, s.d..
195
Ivi, Ministero dell’Interno, copia del dispaccio diretto ai prefetti del regno, 19 maggio 1938; Ministero dell’Interno,
copia del dispaccio diretto al Consolato di Algeri, 19 maggio 1938; Ministero dell’Interno, copia del dispaccio diretto ai
Governatorato generale in Libia, 19 maggio 1938.
49
era stato curato da uno psichiatra, ma il fatto che essa ed i figli avessero vissuto con lui tutto il
tempo successivo dimostrava che non era pericoloso, era anzi «un capofamiglia cosciente
nell’adempiere» i propri «doveri».196 Nonostante ciò, nel marzo successivo la Prefettura avrebbe
fatto sapere che i medici dell’ospedale psichiatrico bolognese non prevedevano «la possibilità di
una sua dimissione a breve scadenza, date le sue condizioni psichiche gravemente turbate».197
La costruzione del maniaco.
I fatti che condussero in manicomio M., come abbiamo appena visto, si svolsero tra la
primavera e la fine del 1938, quando in Spagna si stava ancora combattendo la guerra civile:
Franco, spalleggiato da Hitler e Mussolini, da una parte; i repubblicani, i volontari antifascisti e
l'auito interessato dell’Unione Sovietica dall’altra.
Durante le indagini era emerso un elemento sul conto dei familiari di M. che aveva
richiamato l’attenzione della PS: la sorella, che si trovava a Roma e che era destinataria delle
lettere, per un periodo di tempo aveva vissuto a casa di una donna sposata con un ex autista del
consolato dell’URSS, a Milano.198 Tale circostanza, apparentemente marginale, va letta nel contesto
degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, quando il «cospirazionismo» - nato con la Rivoluzione
francese e considerato come presupposto teorico in grado di dare una «spiegazione unitaria» ad
«ogni singolo evento», al fine di «azzerare il ruolo del caso e dell’imprevisto» - avrebbe raggiunto il
suo «apogeo», trasformando «il mito del complotto» in un «sistema di pensiero generalizzato».
L’allineamento coerente di circostanze di per sé insignificanti che tuttavia produceva
un’interpretazione apparentemente razionale degli eventi non era una prerogativa delle vittime. In
quegli anni, come abbiamo visto, anche i detentori del «potere politico» erano «preda di tragiche
derive paranoiche».199 Fino a che punto, allora, la scoperta di una relazione indiretta tra una
struttura del potere sovietico e M., comunista che diceva di volersi immolare per l’umanità e che si
trovava in NordAfrica nello stesso periodo in cui il re doveva visitare Libia può aver ingenerato
negli uomini della PS la convinzione che quello dell’attentato fosse un rischio reale?
Quello descritto non rappresenta l’unico caso in cui un fatto irrilevante, dopo aver gettato il
Ministero dell’Interno nell’apprensione, innescò i meccanismi che poi avrebbero condotto
all'internamento di un antifascista. Anche Secondo Biamonti annovera l’ossessione governativa per
il complotto tra le strumentali cause che esaltarono la percezione della sua pericolosità e che poi,
196
Ivi, Traduzione della lettera della moglie di M. a Mussolini, 3 gennaio 1939; Traduzione della lettera della moglie di
M. a Mussolini, s.d.; Prefettura di Bologna, 6 marzo 1939.
197
Ivi, Prefettura di Bologna, 6 marzo 1939.
198
Ivi, Questura di Roma, 21 maggio 1938.
199
Giorgio Barberis, L’ossessione del complotto tra rivoluzione e terrore, in Forti, Revelli (a cura di), Paranoia e
politica, cit., pp. 59-60.
50
sommandosi sia alle informazioni sulla nevrastenia di cui aveva sofferto alla fine della prima guerra
mondiale (dalla quale si era congedato come tenente di fanteria e con la croce di guerra) sia alla
volontà di punirlo, in una sorta di contrappasso, per le parole che così irriguardosamente aveva
utilizzato verso Mussolini nella conferenza che aveva tenuto in una sala parigina gremita di
antifascisti (durante la quale aveva descritto la personalità del capo del governo come sospesa tra la
vanità e l'orgoglio normali di un capo di Stato e la follia di un paranoico delirante affetto da manie
grandezza), lo condussero in manicomio.
Le prime informazioni sullo stato mentale di Biamonti risalgono al 7 febbraio del 1930,
giorno in cui, lo abbiamo accennato nell'introduzione, inviò una lettera al prefetto di Parma e
all’Ufficio personale del Ministero dell’Interno nella quale presentava «le dimissioni dall’impiego
per ovvi motivi di incompatibilità», poiché si diceva comunista e contrario all’«ordine nazionale».
Secondo un rapporto del capo del personale, nel comportamento tenuto da Biamonti non era mai
stato notato nulla che avesse potuto far sospettare della sua «linea politica». Si era stato notato,
invece, come «in quel periodo» avesse cominciato a dare «segni indubbi di alienazione mentale».
Questa interpretazione dei fatti appare tuttavia finalizzata a giustificare i colleghi ed i prefetti che
avevano lavorato con Biamonti piuttosto che a ricostruire realmente i fatti. Sostenere che fosse
semplicemente impazzito era conveniente per tutti; diversamente qualcuno avrebbe dovuto spiegare
come mai nessuno si era mai accorto di avere un comunista "in casa". Ad ogni modo, secondo
quella che venne presentata come una copia della sua lettera di dimissioni (l'originale non è presente
nel fascicolo di polizia e l'archivio che conserva i fondi intestati ai membri del personale del
Ministero non conserva nessun fascicolo sul suo conto, ma un solo un foglio) Biamonti si diceva
«affetto da oltre dieci anni della incurabile malattia di Lenin», improbabile autodiagnosi
successivamente ripresa dagli psichiatri del manicomio di Aversa.200
Subito dopo aver letto la lettera, il prefetto lo fece visitare dal professor Roncoroni, direttore
della clinica delle malattie psichiatriche di Parma, che lo riconobbe «affetto da grave malattia
mentale» e non responsabile rispetto alle «sue dichiarazioni».201 Dopo soli tre giorni venne tuttavia
dimesso e consegnato alla sorella, perché giudicato «non pericoloso», senonché scrisse al direttore
della clinica «per ottenere una dichiarazione attestante che la malattia» di cui soffriva non poteva
essere curata in patria, ma all’estero: un modo molto facile per ottenere un passaporto senza destare
sospetti. Per la questura di Roma, infatti, più che per curarsi, Biamonti voleva «espatriare per
200
ACS, CPC, b. 609, f. 98184, Biamonti Secondo, Ministero dell’Interno, Ufficio del personale, 10 maggio 1930. La
copia della lettera è allegata. Il documento originale non è stato rinvenuto né nel fascicolo di polizia né in quello
dell’archivio dell’Ufficio personale del Ministero dell’Interno, all'interno del quale il fascicolo su Biamonti non c'è (è
conservato solo un foglio singolo che riguarda la sua riassunzione al Ministero, nel 1946). Per il rimando del direttore
del manicomio di Aversa al «morbo di Lenin», del quale Biamonti diceva di essere affetto, cfr. Ivi, Questura di Roma,
31 gennaio 1938, che riporta interamente la relazione del direttore.
201
Ivi, Ministero dell’Interno, Ufficio del personale, 10 maggio 1930.
51
recarsi in ambienti antifascisti ed antinazionali».202
Sebbene tenuto sotto costante sorveglianza, non sembra che il libero girovagare dell'ormai
ex segretario di prefettura provocasse negli ambienti ministeriali una particolare apprensione. Nel
luglio del 1930 questi si recò a Levico, in villeggiatura. Nel settembre ritornò nella capitale, dalla
sorella, e dopo alcuni mesi chiese il rilascio del passaporto per recarsi a Parigi, per visitare
l’esposizione internazionale coloniale che si sarebbe tenuta nell’estate del 1931. La Questura di
Roma, confermando i sospetti manifestati precedentemente, si disse contraria al rilascio. Il
Ministero invece acconsentì, e, anche se Biamonti avrebbe poi rinunciato alla partenza - circostanza
che portò la Questura a ritirargli il documento - ciò conferma che non era ritenuto così pericoloso
come poi effettivamente avvenne.203
In ogni caso, nel settembre successivo, Biamonti salì ad Imperia e poi fece perdere le sue
tracce.204 Venne scovato a Parigi alla fine dell’anno, dopo aver ritirato 80.000 franchi dalla Banque
Française-Italienne pour l’Amerique de Sud, probabilmente necessari ad acquistare l’edicola ed a
fare gli investimenti che abbiamo accennato all'inizio di questo lavoro. Le informazioni
provenivano direttamente dalla Divisone di polizia politica e la notizia era stata fornita da un
fiduciario, che inviò anche una copia della carta di identità presentata per la riscossione della
somma di denaro. La Direzione affari generali e riservati chiese di conoscere se la somma fosse
stata spedita dall’Italia, da chi e a quale titolo.205
Questa fatto mise in moto un meccanismo che portò alla definizione dell’immagine di
Biamonti come quella di un potenziale terrorista, che poi si sarebbe autoalimentata e non l’avrebbe
più abbandonato. Gli uffici ministeriali entrarono in allarme, e, probabilmente, a ciò contribuirono
anche gli attentati dinamitardi che, nei mesi precedenti, si erano susseguiti a Bologna, Torino e
Genova per mano di Domenico Bovone, che alla polizia disse di aver conosciuto in Francia alcuni
fuoriusciti, senza però fare i nomi, che lo avevano coinvolto nella campagna terroristica.206 Il
regime, peraltro, da tempo dipingeva i fuoriusciti come dei «rinnegati», come un «pericolo sociale»:
sedicentii «esiliati» ma in realtà «cospiratori» che puntavano a «riprender forza» per mettere «in
esecuzione» sanguinosi «attentati di cui l’idea ossessiona[va] la loro immaginazione criminale». 207
202
Ivi, Questura Roma, 15 luglio 1930.
Ivi, Questura Roma, 15 luglio 1930; Prefettura Trento, 24 luglio 1930; Prefettura Trento, 22 settembre 1930;
Ministero dell’interno, Fonogramma dalla questura di Roma, 26 giugno 1931; Ministero dell’interno, Fonogramma alla
questura di Roma, 29 giugno 1931; Roma, 4 novembre 1931.
204
Ivi, Questura di Roma, 4 novembre 1931.
205
Ivi, Divisione polizia politica, 26 dicembre 1931.
206
Lorenzo Verdolini, Il fascismo e la costruzione del terrorista. Stampa e regime nel processo Bovone, in “Storia e
problemi contemporanei”, n. 55, settembre 2010. Il primo attentato portato a termine da Bovone avvenne a Bologna
nella notte tra il 30 ed il 31 maggio del 1931; il secondo a Torino, nella notte tra il 16 ed il 17 giugno successivo, ed il
terzo a Genova, dieci giorni dopo, sempre di notte. Il 5 settembre 1931, mentre tentava di aprirla, a Bovone scoppiò una
valigia piena di esplosivo . Nell'esplosione morì la madre e la sorella restò ferita. Bovone perse l’avambraccio sinistro.
Arrestato dalla polizia e giudicato dal Tribunale Speciale, venne fucilato a Forte Bravetta il 17 giugno 1932.
207
Rinnegati, in “Bibliografia fascista. Rassegna mensile a cura dell’Istituto nazionale fascista di cultura”, a. IV,
203
52
Con «speciale raccomandazione» venne ordinata a tutti i prefetti e al questore di Roma la
massima vigilanza affinché, nel caso il «comunista pericoloso perché esaltato e squilibrato di
mente» Secondo Biamonti fosse rientrato in Italia, venisse immediatamente fermato. 208 Qualche
giorno dopo fu avvertita anche l’Ambasciata italiana a Parigi, alla quale fu segnalata la sua presenza
e raccomandata la massima attenzione in quanto non si poteva «escludere» che egli potesse «servire
da strumento per atti criminosi da parte dei fuoriusciti».209
Il Ministero temeva dunque un possibile atto terroristico e fu l’insieme di circostanze (i
contatti di Biamonti con l’antifascismo a Parigi, il contesto in cui erano maturati gli attentati dei
mesi passati, l'ingente somma di denaro che aveva ritirato in Francia) a far maturare questa
convinzione. Fino ad allora, come abbiamo visto, il precedente psichiatrico costituito dalla visita
successiva alle sue dimissioni dall’impiego non aveva mai destato tali preoccupazioni. Da quel
momento, invece, tutte le segnalazioni sul suo conto assunsero sempre le considerazioni sullo
squilibrio mentale come carattere di esaltazione della sua pericolosità, fino al suo rimpatrio
dell’ottobre del 1934 e al successivo internamento in manicomio, ordinato dal ministero e ribadito
ad un questore che, almeno inizialmente, si mostrava titubante.210 La figlia, di fronte all'ipotesi che
le autorità fossero convinte che il genitore potesse trasformarsi in un omicida, dopo aver sorriso e
ricordato che del padre non ricorda nemmeno uno schiaffo, ha detto che l’unica dinamite che
avrebbe potutop usare Secondo Biamonti era costituita dalle sue parole.211 Le vicende successive
confermano questo scetticismo, a meno di non ritenere che nella primavera del 1946 il Ministero
dell’Interno avrebbe poi riassunto alle sue dipendenze un invasato terrorista.212
L’apparato di controllo sociale descritto precedentemente - fatto di agenti, informatori, spie e
confidenti - contribuiva attivamente alla costruzione dell’immagine del maniaco antifascista,
attraverso la raccolta e la diffusione delle notizie sui segni dello squilibrio mentale dei soggetti e
sulle loro intenzioni pericolose. Queste informazioni venivano poi rilanciate all’interno dei vari
uffici di pubblica sicurezza e reinterpretate adattando ai vecchi pregiudizi sulla pericolosità dei
malati mentali le esigenze specifiche della difesa del fascismo e dei suoi uomini.
Per Biamonti fu una circostanza insignificante rispetto alla sua militanza antifascista a
gennaio 1930, p. 57.
208
Ivi, Ministero dell’Interno, 26 gennaio 1932.
209
Ivi, Ministero dell’Interno, 2 febbraio 1932.
210
Ivi, Prefettura di Frosinone, 7 novembre 1934. Il 4 novembre precedente il Ministero aveva ordinato al prefetto di
sottoporre Biamonti ad una visita psichiatrica. Il prefetto eseguì l’ordine, ma, rispetto all’internamento, rispose dicendo
di aspettare più chiare disposizioni, motivando il suo attendismo con il fatto che nella provincia non c’era nessun
manicomio. Il ministero rispose limitandosi a notare la gestione di un alienato mentale rientrava nella «normale
competenza» della prefettura, che «pertanto» doveva «provvedere in conseguenza» e poi riferire; cfr. Ivi, Ministero
dell’Interno, Dispaccio telegrafico con timbro di spedizione dell’11 novembre 1934.
211
Testimonianza di Maria Rita Biamonti.
212
Per la riassunzione di Secondo Biamonti alle dipendenze del Ministero dell’Interno nel 1946 cfr. Ministero
dell’interno, DGAAGG e personale, Divisione del personale, Fascicoli riservati, Versamento 1939, b. 21 bis, Foglio
intestato Archivio di Stato di Roma, 5 marzo 1946. Nella busta sono contenuti corposi fascicoli contenenti informazioni
sul conto di ex dipendenti del ministero. Per Biamonti tuttavia è conservato solo il foglio citato.
53
scatenare i timori ministeriali e a dare il via alla serie di errate supposizioni che miravano a
neutralizzare improbabili intenzioni pericolose. Nella prossima vicenda che tratteremo, furono
invece le voci e le confidenze prodotte da anonimi personaggi a disegnare intorno ad un antifascista
lo stigma dell’alienazione. In quest’ultimo caso fu però la Questura a svolgere un ruolo propositivo,
costruendo, come appare dai documenti, testimonianze e prove sulla sua pericolosità. Il Ministero
dell’Interno, differentemente che nel caso di Biamonti, rimase in posizione di spettatore, benchè
costantemente informato e diligente nel tenere aggiornata la Segreteria particolare del capo del
governo sull'evolversi della situazione. Quattro elementi, oltre alla partecipazione alla prima guerra
mondiale, accomunano invece le due vicende: entrambi erano funzionari dello Stato; erano tutti e
due comunisti; si sarebbero visti diagnosticare forme di paranoia e sarebbero stati dimessi dal
manicomio, l’uno di Roma e l’altro di Perugia, all’indomani della liberazione delle due città.
Il tenente A., classe 1881, volontario della guerra di Libia e poi per tutto il primo conflitto
mondiale ufficiale in un reggimento di artiglieria da campagna, dopo la guerra venne assunto come
archivista presso il Distretto militare di Spoleto, dove, nel 1921, era stato segnalato dalla polizia per
essere «in relazione con i più accesi estremisti» del nascente partito comunista.213 Sottoposto ad
un’inchiesta interna e portato all’Ospedale militare di Perugia, gli venne diagnosticata una forma
«acuta di esaurimento nervoso». 214 Anche nel suo caso, come in quello di Biamonti, si escludeva
aprioristicamente che la scelta d’appartenenza fosse stata determinata da reali e ragionate
convinzioni, ma la si interpretava come frutto di uno stato patologico.
Dopo sei mesi di aspettativa tornò in servizio e passarono così sette anni, finché, nel
febbraio del 1928, si recò a trovare «un suo antico compagno d’armi» romano: un delatore che poi
riferì alla polizia di avergli sentito dire di volersi dotare di «mezzi speciali» per raggiungere
inosservato Palazzo Chigi e «sopprimere» tutti quelli che voleva. L'impianto accusatorio, oltre che
fantasioso, si basava solo su una testimonianza, e la denuncia al Tribunale Speciale si concluse con
il proscioglimento. A. passò comunque tre mesi in carcere, e, sebbene scagionato, sarebbe poi stato
“pensionato” dal ministero.215
213
ASPg, Questura, Schedati, b. 42, f. 24, Prefettura di Perugia, Scheda biografica, s.d..
ASPg, AOP Santa Margherita, b. 223 (Uomini), Cartella clinica n. 15324, Ospedale psichiatrico interprovinciale
dell’Umbria, Diario clinico, 8 luglio 1934.
215
Alla polizia venne detto che A. aveva raccontato di non aver potuto far carriera «perché ingiustamente perseguitato
dai suoi superiori per le sue idee politiche». Aveva inoltre aggiunto «che in Italia non v'era più libertà di pensiero e che
lui aveva scritto ripetutamente all'Ambasciata Russa», perché, «qualora fosse stato ulteriormente perseguitato», sarebbe
emigrato lì, dove, sempre secondo il racconto, avrebbe organizzato «un esercito rosso per abbattere il regime fascista e
principalmente per sopprimere il Capo di esso». Si era persino lasciato andare ad alcune considerazioni sugli attentati
precedenti, definendo «inadeguato» sia il fucile che voleva utilizzare Zaniboni che la «rivoltella» della Gibson.
L’esperienza di guerra lo aveva convinto che «adoperando mezzi chimici si poteva ottenere l'effetto senza richiamare
l'attenzione di nessuno». Si dovevano allora «congegnare» strumenti speciali, come degli anonimi ombrelli capaci di
non destare sospetti, per poi colpire «premendo al momento opportuno» un «bottone». Arrestato ed interrogato, A.
ammise di essere stato punito disciplinarmente per motivi politici e di aver scritto all'ambasciata russa, un'altra accusa
che gli si muoveva ma le lettere non erano state intercettate, per ottenere opuscoli e libri sul comunismo. Negò invece
tutto il resto. In una perquisizione praticatagli in casa gli venne trovata una pistola modello “Beretta” e nove cartucce
214
54
Accantonata la vicenda, continuò ad essere regolarmente vigilato senza tuttavia richiamare
l'attenzione; nel frattempo si trasferì a Roma con la moglie. Nel febbraio del 1934, un informatore
della Questura riferì di saperlo ancora una volta «preso dalla idea fissa di dover costruire un
congegno con aria compressa di piccole dimensioni, capace di lanciare silenziosamente un ago
avvelenato alla distanza di 20 - 25 metri, allo scopo di attentare alla vita» di Mussolini. Per mettere
in opera la sua idea criminosa, aveva aggiunto l’informatore, si era rivolto a dei conoscenti,
chiedendo loro di aiutarlo nella ricerca di un meccanico in grado di costruire «la macchina da lui
ideata».216 La Divisione di polizia politica pose l’attenzione sulla «pericolosa esaltazione» di A.,
sulla sua «capacità di commettere atti inconsulti» e sul suo «odio profondo» per il capo del governo,
confermato anche dalle dichiarazioni di una donna che diceva di essere stata la sua amante e che lo
denunciò alla Questura per minacce, aggiungendo che ripeteva spesso che «quanto prima sarebbero
arrivati i comunisti al potere e il sangue sarebbe corso per le strade»; una volta le aveva anche
proibito di acquistare una statua raffigurante la testa di Mussolini, gridando che «l'avrebbe
calpestata». Il documento della polizia politica arrivò sul tavolo del capo del governo all'inizio del
maggio del 1934. Vicino al timbro di ricevuta, a penna, venne aggiunto: «E' un esaltato. E'
opportuno inviarlo al confino».217
La Commissione provinciale per i provvedimenti di polizia eseguì pedissequamente l'ordine,
tuttavia A. passò soltanto solo pochi giorni al confino.218 Presentò subito ricorso e questo venne
accolto: le accuse, anche questa volta, erano basate solamente su voci e, seguendo la cronologia
dello scambio di informazioni, scopriamo che due testimoni che erano stati ascoltati dalla Direzione
generale di PS non avevano pienamente confermato le circostanze.219 Il 10 giugno 1934 il confino
gli venne commutato in ammonizione.220 Il Ministero dell'Interno aveva preventivamente avvertito
la Prefettura di Perugia che, sebbene non fossero stati raccolti «sicuri elementi di prova», A. era da
considerarsi «indubbiamente» come un «individuo pericoloso ed esaltato». Oltre al rimpatrio nel
suo territorio, era perciò necessario prevedere l'obbligo irrevocabile di «non ritornare a Roma».221
calibro 7,65; cfr. ACS, CPC, b. 4923, f. 8470, Questura Roma, 8 febbraio 1928 e ASPg, Questura, Schedati, b. 42, f. 24,
Copia della Raccomandata urgente Questura Perugia, 29 luglio 1958.
216
ACS, CPC, b. 4923, f. 8470, Questura Roma, 29 aprile 1934.
217
Ivi, Divisione polizia politica, 2 maggio 1934. Tra i timbri di ricevuta presenti sul documento uno recita la frase di
rito "Conferito con S.E. Il Capo del Governo".
218
ASPg, Questura, Schedati, b. 42, f. 24, Questura di Roma, 21 maggio 1934. In calce al documento della Questura è
stampata la data 17 marzo 1934 ma il timbro di ricevuta è del 21 maggio, e la successione temporale degli avvenimenti
suggerisce di pensare alla prima data come un errore di battitura.
219
Il primo disse che A. lo aveva conosciuto sempre per essere «tipo visionario ed esaltato» e che gli aveva parlato di
questa improbabile macchina per sparare aghi, da usare, tuttavia, non per attentare alla vita di Mussolini ma solo in caso
di «rivoluzione contro il fascismo». Il secondo testimone negò invece risolutamente che A. gli avesse mai parlato di tale
macchina, aggiungendo che, come A., anche l'altro testimone era un «mezzo mattoide»; cfr. ASPg, Questura, Schedati,
b. 42, f. 24, Ministero dell'Interno, 6 giugno 1934. Le copie dei verbali del 22 maggio 1934, 23 maggio 1934 e uno
senza data sono allegati.
220
Ivi, Foglio senza intestazione, 10 giugno 1934.
221
Ivi, Ministero dell'interno, 6 giungo 1934.
55
Qualche giorno dopo il trasferimento forzato a Perugia, la moglie, che era invece rimasta nella
capitale, scrisse alla polizia, dicendo di non aver avuto nessuna notizia dal marito né di sapere
alcunché sulla sua sorte.222
Nel frattempo A. Aveva cominciato a scrivere delle richieste volte a riscuotere la sua
pensione di guerra nel capoluogo umbro per poter così spedire del denaro alla moglie, che non
aveva altri mezzi di sussistenza. Alle sue invocazioni ogni volta venivano frapposti ostacoli
burocratici e ritardi amministrativi. Il 27 giugno, probabilmente infastidita dalle proteste, la
Questura di Perugia lo fece visitare da un dottore, che lo giudicò «in preda a qualche idea delirante
allo stato oppressivo, dovuto alle condizioni finanziarie in cui» si trovava, ma non pericoloso e,
specificò il medico, non si poteva procedere ad un ricovero «d'urgenza».223
A distanza di due settimane la Questura tornò alla “carica”. La prima occasione fu fornita da
una denuncia presentata l’8 luglio del 1934 dall’affittacamere dove A. aveva preso alloggio, che
dichiarò «impossibile» continuare ad ospitarlo, perché, a suo dire, era «sempre agitato», specie
quando si trovava da solo con la moglie, che era andata a trovarlo. 224 Il questore allora scrisse al
direttore del manicomio chiedendo che, benché fosse stato già visitato e considerato non pericoloso,
venisse verificata la possibilità di internare A. «almeno per il periodo necessario ad una completa
osservazione».225
Le circostanze ci permettono di ipotizzare che il direttore avrebbe dovuto nuovamente non
assecondare la questura e non procedere al ricovero d’urgenza; quantomeno non prima di aver
sentito anche la moglie, dato che questa, pur chiamata in causa, non si era associata alla
segnalazione dell’affittacamere. Un colloquio con la donna non si rese comunque necessario, dato
che il giorno dopo arrivò in questura la provvidenziale denuncia presentata da un milite fascista che
sosteneva di aver salvato A. la mattina stessa, mentre questi stava tentando di gettarsi «sotto un
tranvai».226 Se il problema non si era risolto segnalando la necessità di difendere gli altri da A., si
poteva ora risolvere segnalando la necessità di difenderlo da se stesso; peraltro uno dei suoi fratelli
in passato si era suicidato, e ciò, secondo le convinzioni scientifiche, pesava a suo sfavore,
dimostrando che dal lato familiare esistevano delle tendenze all’autodistruzione.227 Il direttore del
manicomio, che ancora non aveva risposto alla richiesta precedente e che, come vedremo, negli
anni seguenti si sarebbe dimostrato benevoplo verso A., fece «verbalmente» sapere che «stante la
222
Ivi, Foglio senza intestazione, 21 giugno 1934. Timbro di ricevuta Questura Perugia, 22 giugno 1934.
Ivi, Foglio senza intestazione, 27 giugno 1934; Foglio senza intestazione, 29 giugno 1934; Foglio senza intestazione,
29 giugno 1934. Dell’impossibilità di internarlo venne informato successivamente il Ministero dell’Interno.
224
Ivi, Foglio senza intestazione del 6 luglio 1934, firmato ed inviato alla questura di Perugia.
225
Ivi, Foglio senza intestazione, 7 luglio 1934
226
Ivi, 8 luglio 1934, indirizzato al questore di Perugia.
227
ASPg, AOP Santa Margherita, b. 223 (Uomini), Cartella clinica n. 15324, Ospedale psichiatrico interprovinciale
dell’Umbria, Storia clinica del malato, s.d. ma relativa al 1941.
223
56
nuova circostanza» accettava di ricoverarlo d’urgenza. 228 Il prefetto poté informare il Ministero
dell’Interno dell’avvenuto ricovero, mentre, per maggiore scrupolo, il questore scrisse al direttore
psichiatrico dicendo di voler essere preventivamente avvisato in caso di dimissione.229
Al dottore che lo interrogò al momento dell’ingresso in manicomio, A. si mostrò «calmo,
però preoccupato e pensieroso». Rispose «perfettamente bene alle domande». L’«agente di PS che
lo accompagnava», nonostante, come abbiamo potuto vedere, la PS e la Questura di Perugia non lo
avevano perso mai di vista, disse di non poter dir nulla del paziente: gli era «sconosciuto». A. allora
raccontò di essere stato un ufficiale dell’esercito, altri fatti salienti della sua vita ed i suoi precedenti
politici. Disse inoltre di sospettare che, per «troncare ogni relazione», la donna sposata con la quale
aveva avuto rapporti per diversi anni si fosse recata alla polizia per denunciarlo, additandolo «come
un pericoloso sovversivo». Bandito da Roma e obbligato a soggiornare a Perugia, aveva preso una
camera in affitto nel capoluogo umbro. Non si era ambientato però, e si era nutrito poco, perché
«preoccupato della sua situazione e perché riceveva scarse notizie dalla moglie». Quella mattina,
«senza aver fatto nulla», era stato «arrestato e condotto» negli uffici di polizia e da lì in
manicomio.230
All’inizio di agosto, probabilmente ignara, la moglie si recò di nuovo a Perugia. Preso
coscienza della situazione si fece assumere a servizio presso una famiglia del luogo, segno che
aveva deciso di restare più vicina al marito. Qualche giorno dopo, tuttavia, colpita da una crisi di
sconforto, ingurgitò una quantità letale di acido cloridico.231 La Questura, che aveva fatto internare
A. paventandone la volontà suicida, era rimasta completamente indifferente rispetto allo stato
mentale della moglie, che invece si tolse la vita. A. si trovava in ospedale e lì venne raggiunto dalla
notizia. Successivamente il direttore psichiatrico informò la Questura che lo stato di salute di A.
restava fermo «nelle stesse condizioni» e non era possibile stabilire quando si sarebbe potuto
dimettere.232
A. uscì nell’ottobre del 1936 e venne affidato al cognato. 233 Nel corso dei successivi otto
anni che sepravano quella prima dimissione dalla fine del fascismo sarebbe stato internato altre tre
volte, per «paranoidismo» o per «stato depressivo»: alla fine del 1939, nell'estate del 1940 e nel
marzo del 1941. Dopo l'estate del 1944, quando l'Umbria era stata già liberata e il fronte si era
spostato sulla Linea gotica, uscì definitivamente. Ad attenderlo la donna che, alla fine del 1940,
228
ASPg, Questura, Schedati, b. 42, f. 24, L’assenso verbale del direttore viene registrato in un appunto del questore
dell’8 luglio 1934, scritto sotto il Foglio senza intestazione del 7 luglio 1934 con il quale precedentemente era statoi
richiesto il ricovero.
229
Ivi, Foglio senza intestazione, 8 luglio 1934, firmato dal prefetto e Foglio senza intestazione, 9 luglio 1934, firmato
dal questore.
230
ASPg, AOP Santa Margherita, b. 223 (Uomini), Cartella clinica n. 15324, Ospedale psichiatrico interprovinciale
dell’Umbria, Diario clinico, 8 luglio 1934.
231
Morì la mattina dell’8 agosto 1934; cfr. Ivi, Foglio senza intestazione, 31 agosto 1934.
232
ASPg, Questura, Schedati, b. 42, f. 24, Foglio senza intestazione, 31 agosto 1934, firmato da un brigadiere di PS.
233
Ivi, Direzione Ospedale psichiatrico interprovinciale dell’Umbria in Perugia, 24 ottobre 1936.
57
aveva deciso di sposarlo nonostante sapesse che era stato internato in manicomio. Dopo la morte
dello sfortunato compagno, avvenuta nel novembre del 1951, fu lei a richiedere i benefici previsti
dalla legge n. 96 del 1955 per i perseguitati politici ed i loro familiari.234
234
ACS, Ministero dell’interno, Divisione affari riservati, sez. 1, cat. 793, perseguitati politici (1956-1960), b. 92, ad
nomen, Questura Perugia, 31 luglio 1958.
58
CAPITOLO II
L’internamento psichiatrico nei manicomi giudiziari.
La seconda modalità di internamento degli antifascisti in manicomio che descriveremo è
rappresentata dal ricovero coatto in un ospedale psichiatrico giudiziario di quanti, colpevoli di un
reato, venivano considerati penalmente irresponsabili perché incapaci di intendere e di volere.
Nel capitolo tratteremo preliminarmente alcuni aspetti legati ai cambiamenti che, tra età
liberale e fascismo, hanno interessato l’interpretazione e la trattazione penale del delitto politico, il
riconoscimento dell’imputabilità del reo - cioè della possibilità di celebrare un processo (che poteva
avvenire solo in presenza della sua accertata responsabilità) - e l’applicazione delle misure di
sicurezza previste dal codice penale, come appunto l’internamento in manicomio giudiziario.
Va però subito sottolineata è una sostanziale differenza rispetto alla prima modalità
d’internamento, costituita dalla diversa posizione giuridica degli antifascisti coinvolti e
conseguentemente dalle diverse finalità che la psichiatria era chiamata a raggiungere. Come
abbiamo detto, il ricovero d’urgenza nei manicomi civili, disposto secondo quanto stabilito dalla
legge del febbraio del 1904, colpiva degli individui liberi da qualsiasi pendenza penale ed era
disposto sulla base della definizione di pericolosità sociale, con tutte le implicazioni che a tale
definizione potevano seguire nella società fascista. Gli internati nei manicomi giudiziari, invece, si
trovavano nella posizione di rei. Non erano solo potenzialmente pericolosi ma avevano già
commesso dei delitti, che, nel caso specifico degli antifascisti, erano delitti politici. La finalità
originaria che veniva ricercata tramite il processo, perciò, era la condanna alla pena carceraria,
l’unica forma di pena legittimata a rappresentare un terreno di vera espiazione. L’internamento in
manicomio giudiziario disposto durante il processo rappresentava una deviazione da questa finalità
e, in molti casi, agli occhi delle autorità politiche appariva come una via di fuga dalla “giusta”
punizione.
Quando, nel corso di un processo, emergevano sospetti sulla possibile pazzia di un imputato,
si potevano avere esiti diversi: dalla sospensione del giudizio per infermità mentale sopravvenuta disposta dal giudice istruttore - all’assoluzione per riconosciuta incapacità di intendere e volere al
momento dei fatti. La psichiatria, attraverso lo strumento della perizia, veniva chiamata in causa per
analizzare lo stato di mente degli imputati e certificare la loro eventuale irresponsabilità. Dal punto
di vista dell’autorità giudiziaria, che nel caso dei reati politici commessi durante il fascismo era il
Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, i medici dovevano innanzitutto sgomberare il campo
da qualsiasi dubbio sull’eventualità che il reo stesse simulando, e per far ciò, come testimoniato dai
59
documenti, essi ricorrevano anche a tecniche come i test grafologici e strumenti come il
pletismografo, un macchinario impiegato per valutare lo «sviluppo della emozionabilità», registrato
attraverso l’esame delle «reazioni vasomotorie», della «pressione sanguigna» e della respirazione. 1
Con il pletismografo, ad esempio, nell’ambito di un processo istruito nel 1931 contro un
gruppo di giovani comunisti empolesi, venne esaminato il giovane R. che, dal carcere di Firenze,
era stato inviato in osservazione in manicomio per diverse volte proprio perché gli psichiatri non
riuscivano a stabilire se fosse un pazzo o un simulatore. Sottoposto a lunghi colloqui, ad esami dei
riflessi muscolari e della reattività al dolore (attraverso punture di spillo su buona parte del corpo e
soprattutto sulla lingua) a R. vennero infine applicate le fasce del pletismografo sulle braccia e su
una gamba, dove la pressione arteriosa avrebbe permesso di registrare la frequenza del battito
cardiaco. Quello che si voleva indagare, a prescindere dal fatto che esternamente sembrava non
manifestare nessuna reazione, era il suo reale grado di emozionabilità. Una volta azionato il
macchinario, lo psichiatra provocò l’attenzione di R. con una sequenza di «notizie a forte» impatto
emotivo, dicendogli, in progressione, che erano arrivati i suoi genitori ed il fratello per salutarlo;
che erano venuti per abbracciarlo per l’ultima volta, visto che era appena giunta la sentenza che
disponeva la sua condanna a morte; che nel frattempo era giunta la grazia del re e quindi non
sarebbe stato più giustiziato, e, infine, che doveva rimanere in manicomio per tutta la vita. Durante
la prova, il «ritmo cardiaco» era rimasto calmo, non «affatto influenzato», fornendo la prova,
secondo lo psichiatra, della sua «inaffettività completa» di R. e del suo «disinteresse assoluto» per
tutto ciò che avveniva «intorno a lui». Gli venne diagnosticata la schizofrenia e venne dichiarato
incapace di intendere e di volere e socialmente pericoloso. Dal manicomio non uscì più, nonostante
il Tribunale Speciale, nel frattempo, lo avesse assolto per insufficienza di prove.2
Criminalizzazione del delitto politico e politicizzazione del delitto comune.
1
Benigno Di Tullio, Antropologia criminale, Ditta Luigi Pozzi, Roma 1940, p. 278. La grafologia, nata all’incirca
all’inizio del XVII secolo, aveva interessato anche gli studi di Cesare Lombroso. In campo giudiziario, il contenuto di
uno scritto e l’analisi della grafia da tempo contribuiva a determinare la capacità d’intendere e volere. La scrittura
potrebbe essere considerata come «la proiezione tellurica dell’intero psichismo individuale», che, «analogamente al
braccio scrivente di un sismografo», traccia «il prodotto della individuale dinamica psiconervosa»; cfr. Vincenzo
Mastronardi, Sante A. Bidolli, Monica Calderaio, Grafologia giudiziaria e psicopatologia forense. Metodologia di
indagine nel falso grafico e la capacità d’intendere e di volere dalla grafia, Giuffrè, Milano 2001, la citazione è a p. IX.
2
In seguito all’assoluzione R. venne spostato dalla sezione giudiziaria dell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà
di Roma a quella civile. Dopo circa due anni venne trasferito all’ospedale psichiatrico “San Salvi” di Firenze, lo stesso
che, durante il processo, lo aveva dimesso due volte dichiarandolo simulatore e rimandandolo in carcere. Nel 1942,
secondo l’ultimo documento presente nel suo fascicolo, dal “San Salvi” sarebbe stato trasferito presso una clinica
psichiatrica. Non sono stati rinvenuti altri documenti che possano testimoniare una sua definitiva dimissione. ACS,
TSDS, Fascicoli processuali, b. 379, f. 3608, fascicolo processuale personale, B. R., Relazione di perizia psichiatrica sul
detenuto, 20 dicembre 1931; Tribunale speciale, Sentenza del 20 gennaio 1932; ACS, CPC, b. 357, f. 96024, Prefettura
Firenze, 30 marzo 1933 e Prefettura Firenze, 2 dicembre 1942.
60
Il codice Zanardelli del 1889, che sarebbe entrato in vigore all’inizio dell’anno successivo e
restato tale fino alla riforma fascista del codice penale, riconosceva una sorta di “nobiltà” al delitto
politico. Questo trattamento di favore era frutto della cultura giuridica liberale, che riconosceva nel
reo politico il protagonista del Risorgimento, colui che si era battuto contro le tirannie degli stati
pre-unitari. In questo quadro, il delitto politico non veniva considerato come lesivo nei confronti del
diritto comune e, di conseguenza, penalmente non era trattato come un illecito che intaccava valori
universalmente riconosciuti, ma che si rivolgeva contro l’organizzazione politica di uno determinato
Stato in un determinato periodo. Zanardelli stesso, nella sua relazione al re, aveva scritto che le
disposizioni in merito al delitto politico si erano ispirate ad una normativa che respingeva
«persecuzioni illiberali, inutili» e «talvolta dannose». All’imputato, insomma, veniva riconosciuto
uno status differenziato dal criminale comune, in quanto si aveva la convinzione che le sue azioni sebbene delittuose - fossero mosse da moventi che «almeno sul piano ideale» erano da considerarsi
come positivi, perché miranti ad ottenere un cambiamento in senso evolutivo dell’organizzazione
sociale.3 Il fascismo, sin dai tempi successivi alla marcia su Roma, sarebbe intervenuto su questo
aspetto, marcando una forte discontinuità con l'impostazione pro reo nella persecuzione giudiziaria
del delitto politico e mettendo in opera una serie di interventi normativi accomunati dalla volontà
«di disegnare sul piano tecnico come su quello culturale un delitto politico “peggiore” del più
efferato delitto comune», fino a trasformare la politicità del reato da condizione favorevole al reo ad
aggravante.4
La prima guerra mondiale rappresentò un terreno di sperimentazione anche dal punto di
vista dell’estensione delle tutela della sicurezza dello Stato e della criminalizzazione del delitto
politico. La mobilitazione totale per la lotta contro i nemici, specie quelli interni, fece accantonare
le garanzie dello stato di diritto. Il decreto Sacchi - emanato dopo la rotta di Caporetto e orientato a
colpire «tutti coloro che, con qualsiasi mezzo», commettessero od istigassero «a commettere fatti
che potessero deprimere lo spirito pubblico, a diminuire la resistenza del paese o a danneggiarne gli
interessi» - segnò un momento di passaggio. Con tale strumento non sarebbe più stata necessaria «la
presenza del dolo perché si configurasse il reato», e gli ampi margini che le disposizioni lasciavano
all’interpretazione avrebbero reso punibili comportamenti fino ad allora penalmente irrilevanti, che
però, nel contesto di guerra, potevano essere considerati devianti rispetto allo sforzo che la nazione
3
Floriana Colao, Il delitto politico tra Ottocento e Novecento. Da «delitto fittizio» a «nemico dello Stato», Giuffrè,
Milano 1986, pp. 11-12. L’istituzione di corti marziali e l’emanazione di leggi speciali volte alla repressione del
dissenso politico, che avrebbero caratterizzato la storia nazionale nell’ultima decade dell’Ottocento, erano state tuttavia
considerate necessarie, e giustificate dalla creazione di figure di reato particolari, dove il movente veniva «considerato
“non politico”, ma anarchico o sociale», tale perciò da essere ricompreso sotto la categoria del delitto comune; cfr.,
nello stesso testo, p. 300.
4
Ivi, pp. 326-327.
61
stava compiendo per la sua conservazione.5 La «normativa di guerra», dal punto di vista della
giustizia penale in materia di delitti contro la sicurezza dello Stato, va perciò considerata come un
momento di congiunzione tra le dichiarazioni degli stati d’assedio del 1894 e le leggi fascistissime
del 1926. Anche l’orientamento dell’azione penale sembra confermare questa tesi. Negli oltre 2.500
processi a carico di civili accusati di disfattismo e celebrati dai tribunali ordinari dopo il decreto
Sacchi, infatti, le condanne furono più gravi quando pronunciate a carico di imputati schedati o noti
come socialisti.6
Il fascismo, seguendo la linea di demarcazione sperimentata durante la Grande guerra tra ciò
che era da considerarsi nazionale e ciò che invece doveva essere considerato antinazionale, si era
presentato, già prima della marcia su Roma, come soggetto politico capace di incarnare i progetti, le
ragioni e i destini di tutto il Paese. Una volta giunto al potere applicò questa distinzione tra nazione
ed antinazione anche in materia di diritto penale. Ad esempio, la prima amnistia emanata dal
governo fascista, nel dicembre del 1922, rivolta soltanto a coloro che avevano commesso dei reati
«per fine nazionale», costituisce un caso «paradigmatico di uso “fazioso” del potere di clemenza».7
Alla politicizzazione dell’azione penale, inoltre, non partecipò solo il potere legislativo, ma, in
parte, anche i tribunali. Questi, con le loro sentenze, da un lato operarono una de-politicizzazione
dei reati commessi dagli antifascisti - al fine di attenuare il trattamento di favore che poteva essere
riconosciuto dal codice Zanardelli ancora in vigore - dall’altro procedettero all’elevazione a tutela
giuridica dei simboli fascisti, estendendo il reato di vilipendio prima previsto solo per i simboli
dello Stato - come la bandiera, l’esercito o i corpi di polizia - anche agli stendardi ed ai
“gagliardetti” della milizia e del PNF. Così, ad esempio, durante il processo per gli scontri di
Empoli, il pubblico ministero e l’avvocato di parte civile si impegnarono alacremente per
disconoscere la politicità dei moventi per i reati di cui erano accusati i 132 imputati, sebbene questi
fossero riferibili a fatti avvenuti durante una delle fasi più cruente degli scontri tra squadristi e
sovversivi precedenti la marcia su Roma.8 Già prima della costituzionalizzazione della MVSN,
5
Ad esempio pregare in chiesa per la fine del conflitto o rassicurare un conoscente sulla sorte del figlio, dicendo che
questi, forse, invece che morto era prigioniero degli austriaci; cfr. Ventrone, La seduzione totalitaria, cit., pp. 227-228.
6
Giovanna Procacci, La società come una caserma. La svolta repressiva nell’Italia della Grande Guerra, in
“Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del 900”, A. VIII, n. 3, luglio 2005, le citazioni a p. 424 e 443.
7
Maiello, La politica delle amnistie, cit., p. 961.
8
Sulla base di una falsa notizia - l’arrivo di squadristi chiamati ad occupare la città - e in un clima di tensione
caratterizzato dalle violenze verificatisi nei giorni precedenti a Firenze, la popolazione empolese, il 1 marzo del 1921,
all’ingresso in città di alcuni camion con a bordo marinai e carabinieri per lo più sprovvisti di divisa - che transitavano
diretti a sostituire dei ferrovieri in sciopero - si scagliò contro il convoglio usando pietre, forconi e pistole. Alla fine, tra
i carabinieri ed i marinai, si contarono nove morti. Il processo, che si celebrò nel 1924, si chiuse con una sentenza che,
pur tenendo conto che «i fatti» erano avvenuti «in occasione di movimenti politici», accolse le richieste del pubblico
ministero, affermando che «soltanto l’odio contro l’autorità, la cupidigia ed il fine di lucro» avevano rappresentato «la
spinta» che aveva mosso «l’azione degli imputati». Il pieno riconoscimento della politicità dei reati avrebbe aperto spazi
più ampi ai benefici dell’amnistie della fine del 1922 e dell’ottobre del 1923. Dei 132 imputati per quei fatti avvenuti
nel 1921, invece, alcuni furono condannati a pene superiori ai venti anni, fino a 24 e oltre, due morirono durante i primi
62
invece, alcune sentenze avevano riconosciuto ai suoi membri la qualità di pubblico ufficiale, con
tutte le conseguenze penali che ciò avrebbe potuto comportare, anche nel caso di una semplice
offesa pronunciata sul conto di un milite.9
Dopo la crisi Matteotti, e passato il momento di sbandamento provocato dall’indignazione
che si era diffusa nel paese, il fascismo procedette ad implementare quella che Mario Sbriccoli ha
definito «la prosecuzione» dello «squadrismo» tramite la legge penale. 10 Tra il 1925 e il 1926
furono promulgate le leggi sulle associazioni, sulla stampa e sugli espatrati politici. Quest’ultima si
rivelò particolarmente persecutoria, spingendosi persino alla perdita della cittadinanza e alla
confisca dei beni dei soggetti colpiti. Per garantire una maggiore fedeltà al fascismo da parte degli
apparati di giustizia penale, inoltre, alla fine del 1925 venne approvata la legge che prevedeva la
dispensa dal servizio per tutti i funzionari dipendenti di «qualsiasi Amministrazione dello Stato» quindi anche magistrati - se questi non avessero mostrato «piena garanzia di un fedele adempimento
dei loro doveri» o si fossero posti «in condizioni di incompatibilità con le generali direttive
politiche del Governo».11 In ultimo, e nel clima caratterizzato dal quarto attentato subito da
Mussolini, con la legge n. 2008 del 1926 venne istituito il Tribunale Speciale per la Difesa dello
Stato, composto da ufficiali della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale - l'organizzazione
creata nel 1923 con l'obiettivo di irriggimentare lo squadrismo, i cui membri prestavano giuramento
al regime e non al re - e da un relatore proveniente dall’esercito. Gli strumenti previsti per i processi
celebrati da questa nuova istituzione erano l’obbligatorietà incondizionata del mandato di cattura, la
non ammissibilità della libertà provvisoria, l’impossibilità per i condannati di impugnazione delle
sentenze. A quel punto, grazie anche all’introduzione di nuove fattispecie di reato - come la
punibilità del “concerto”, ovvero del semplice accordo raggiunto tra i rei in merito alla
commissione del delitto, senza che tale accordo fosse poi sfociato in una vera e propria
“associazione” che con opere e fatti avesse effettivamente condotto o tentato di condurre all’azione
delittuosa - la «politica criminale del regime» venne definitivamente orientata «in senso
giorni di interrogatorio, uno in carcere ed uno in manicomio. Per la descrizione dei fatti cfr. Paolo Pezzino, I fatti di
Empoli del 1° marzo 1921 e la fondazione dell’identità antifascista, in Id. (a cura di), La tradizione antifascista a
Empoli 1919-1948, Pacini, Empoli 2005, pp. 46-56; per il resoconto del processo e le motivazioni della sentenza cfr.
Colao, Il delitto politico tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 233-235; per le notizie sul decesso avvenuto in carcere cfr.
Dal Pont, Antifascisti italiani nel Casellario Politico Centrale, cit., quaderno 16 p. 347, S. V., condannato a 24 anni e
sei mesi di reclusione e morto nel carcere di Soriano Del Cimino il 28 luglio del 1933. Il decesso avvenuto in
manicomio, invece, è relativo ad A., condannato ad 8 anni e nove mesi di reclusione, poi internato nel manicomio di
Volterra alla fine del 1925 e successivamente in quello di Firenze, dove morì nel 1930; cfr. ACS, CPC, b. 109, f.
72900, Prefettura di Firenze, 8 maggio 1926; Prefettura di Firenze, 26 maggio 1926 e Prefettura di Firenze, 27 febbraio
1931.
9
Colao, Il delitto politico tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 283-299.
10
Mario Sbriccoli, Le mani nella pasta e gli occhi al cielo. La penalistica italiana negli anni del fascismo, in Id., Storia
del diritto penale e della giustizia. Scritti editi ed inediti (1972-2007), Giuffré, Milano 2009, p. 1016.
11
Articolo 1, Legge 24 dicembre 1925, n. 2300, Dispensa dal servizio dei funzionari dello Stato.
63
marcatamente autoritario».12 Al Tribunale Speciale fu riconosciuta anche la possibilità di disporre la
pena di morte, reintrodotta, almeno in un primo momento, solo per i reati politici, da eseguirsi
mediante fucilazione: quasi a simboleggiare la sostituzione delle precedenti condizioni di favore
con la vera e propria «militarizzazione del trattamento» riservato al delitto politico.13
Nel frattempo, si andava modificando anche l’orientamento dottrinario. Già nel passato intorno agli anni novanta dell’Ottocento e in conseguenza dell’allarme provocato dai numerosi
attentati anarchici in Europa e non solo - la giurisprudenza aveva cominciato ad affermare che il
delitto anarchico non doveva considerarsi delitto politico, ma comune. 14 L’Italia, tra il novembre ed
il dicembre del 1898, aveva anche ospitato la Conferenza internazionale per la difesa sociale contro
gli anarchici: uno sforzo diplomatico teso alla creazione di un sistema di difesa comune che aveva
coinvolto tutti gli stati europei - compresa la Russia e la Turchia - e che, nelle risoluzioni finali,
aveva sancito la possibilità di estradizione per i criminali anarchici, escludendoli così dalle
possibilità di riconoscimento dell’asilo politico. Ancora una volta, la conferenza aveva ribadito che
l’anarchismo non poteva essere considerato una dottrina politica e che i delitti anarchici erano delitti
comuni e come tali dovevano essere trattati.15
Nel 1929, dopo più di trenta anni dalla conferenza antianarchica ma ripartendo dagli stessi
concetti, il magistrato Baldassarre Cocurullo pubblicò la terza edizione di un suo corposo studio sui
moventi a delinquere, dove sosteneva che il vero limite del codice Zanardelli era stato proprio
quello di non aver stabilito criteri per riconoscere forza aggravante alle motivazioni politiche
quando queste stavano alla base del delitto. Ciò, secondo Cocurullo, aveva fatto perdere di vista
«come spesso il movente politico» presentasse «una maggiore pericolosità» ed indicasse «una
maggiore deviazione» del reo «dalle norme di condotta sociale». Già nelle precedenti edizioni del
suo libro - nel 1920 e nel 1927 - aveva sottolineato come un diverso approccio fosse assolutamente
da sconsigliare in questo tipo di reati, perché poteva condurre a degli eccessi paradossali. Anche
«l’anarchico», infatti, che commetteva «stragi e sparge[va] sangue innocente», sognava «un’era di
12
Neppi Modona, Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit., p. 769.
Colao, Il delitto politico tra Ottocento e Novecento, cit., p. 326.
14
Patrick Anthony Cavaliere, Anarchici alla sbarra. Delitto politico ed associazione a delinquere in Italia alla fine
dell'ottocento, in "Zapruder", n. 20, settembre-dicembre 2009, p. 17.
15
Francesco Tamburini, La Conferenza internazionale di Roma per la difesa contro gli anarchici (24 novembre – 21
dicembre 1898), in “Clio. Rivista trimestrale di studi storici”, Anno XXXIII, n. 2, aprile-giugno 1997. Il codice
Zanardelli trattava il delitto anarchico negli articoli 246-255, nella parte riguardante i Delitti contro l’ordine pubblico. A
cavallo tra i due secoli, le idee e le convinzioni sulla correlazione tra i delitti commessi dagli anarchici e quelli
perpetrati dai delinquenti comuni sarebbero penetrate persino nella narrativa per ragazzi. Ne Le meraviglie del Duemila
(romanzo di fantascienza pubblicato nel 1903, a tre anni di distanza dall'uccisione di Umberto I) Emilio Salgari aveva
immaginato che in futuro alle carceri sarebbero state sostituite delle isole galleggianti, costruite con ingenti somme di
denaro impiegate da ogni Stato «per sbarazzare la società dagli esseri pericolosi»: i «ladri impenitenti», gli «omicidi
sanguinari» e «gli anarchici più pericolosi». Isole predisposte per separare definitivamente gli indesiderati dalla società
e per essere affondate in caso di disordini; cfr. Emilio Salgari, Le meraviglie dell’anno 2000, Transeuropa edizioni,
Massa 2011, pp. 157-158.
13
64
pace e di amore»; potevano allora essere considerati sufficienti questi «moventi altruistici» - si
chiedeva il magistrato napoletano - a conferire un’aurea di “superiorità” ai suoi delitti? Ovviamente
no, e ciò che era stato valido in passato per il delitto anarchico - era questa la sua tesi - doveva
cominciare ad estendersi a tutti «i delitti politici in genere». 16
L’anno successivo la pubblicazione di Cocurullo, intervenne in tema di delitto politico anche
Benigno Di Tullio, psichiatra, criminologo e docente di antropologia criminale presso l’Università
di Roma e la Scuola Superiore di polizia. Di Tullio, che nel 1929 aveva anche vinto un premio
intitolato proprio a Lombroso, considerava la «costituzione delinquenziale» - definita l’insieme dei
caratteri fisici e psichici «di natura sempre degenerativa-regressiva» che, nei soggetti delinquenti,
davano «luogo ad una predisposizione verso un determinato comportamento sempre più o meno
antisociale» - un fattore essenziale dei comportamenti criminali. A suo giudizio, tuttavia, questi
ultimi restavano latenti fino a che fattori secondari non li spingevano ad emergere. Come per tutti i
delitti, anche per i delitti politici esisteva una «genesi biologica», benché - secondo Di Tullio generalmente «più complessa» e con un «carattere evolutivo superiore» rispetto a quella che stava
alla base della «comune criminalità». Quasi ad attenuare questa differenziazione, però, bisognava
ricordare sia che vi erano delitti che sembravano avere «un carattere politico» mentre non erano
altro «che delitti comuni mascherati», sia che, nella storia, «fra i rivoluzionari» era stato spesso
possibile riconoscere «i delinquenti atavici, i deboli di mente, i paranoici, i fanatici»; soggetti nei
quali era possibile riscontrare «il maggior grado di pericolosità». Esisteva anche «il delinquente
politico puro», certo, colui che commetteva reati in preda ad uno stato di passionalità dovuto a
motivi che non lo toccavano «individualmente, e di natura cioè nettamente ideale», ma non si
poteva non riconoscere che si trattava in realtà di pochi casi. Già Lombroso - continuava Di Tullio aveva sottolineato che le grandi rivoluzioni dell’Ottocento altro non erano state che «il mezzo e
l’occasione attraverso cui, individui che in circostanze ordinarie sarebbero stati delinquenti comuni»
avevano trovato «il modo di esplicare la loro capacità criminosa in forma diversa, e ciò in
conseguenza di quella» che era «la loro nota biologica fondamentale», il loro «carattere criminale»,
ovvero la «tendenza a risolvere violentemente le varie questioni» che si presentavano «nella loro
vita intima e sociale».17
Nelle sue riflessioni, Cesare Lombroso aveva riconosciuto al delitto politico una «funzione
sociale», in quanto questo spesso svelava alla classe politica «necessità latenti», poneva domande
nuove che nel tempo, prima o poi, sarebbero emerse, basti pensare al processo di integrazione delle
16
Cocurullo, I moventi a delinquere, cit., pp. 278-279.
Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., pp. 219 e pp. 236-238; vedi anche nota 120. Per le
notizie relative al conferimento a Di Tullio del Premio Lombroso cfr. “Bibliografia Fascista. Rassegna mensile a cura
dell’Istituto nazionale fascista di cultura”, Anno V, n. 5, maggio 1930, p. 403.
17
65
classi lavoratrici.18 Tale aspetto delle teoria lombrosiana - che, come vedremo, in parte sarebbe stata
invece esaltata e recuperata dalla criminologia del ventennio fascista - non poteva facilmente
conciliarsi con le necessità del regime in materia di giustizia penale. Alcuni penalisti, sin dagli anni
immediatamente successivi la marcia su Roma, avevano comunque superato questa contraddizione.
Se Lombroso aveva affermato la funzione sociale del delitto politico, Adolfo Zerboglio - che di
Lombroso era stato un allievo - nel 1924, pubblicando le sue Note critiche di un positivista
aggiornato, aveva già ridefinito il delitto politico come basato sui «più sordidi obiettivi
individuali». La «finalità politica» - secondo la sua esperienza - era diventata la «bandiera di
contrabbando» che in realtà celava «la sete di dominio e sopraffazione», e ciò era dimostrato anche
dal fatto che il «il grosso» della criminalità politica era composto da «delinquenti pazzi» o, al
massimo, da «volgari ed accorti sfruttatori dell’ingenuità e del sentimentalismo popolare». 19
Sul versante opposto rispetto alla criminalizzazione del delitto politico, si assistette alla
politicizzazione dei reati comuni. Secondo i principi che informavano le strategie di repressione del
fascismo, il diritto penale, da un lato, doveva recidere il legame con la tradizione moderna delle
«garanzie processuali» e «dell’incivilimento punitivo», mentre dall’altro doveva valorizzare al
massimo il «senso comune» che negli anni «si era incrostato» intorno ad alcune tesi «forti» dei
penalisti che si riconoscevano nella tradizione del positivismo della Scuola positiva. Come ad
esempio «l’idea del criminale come nemico interno» e dello Stato come «apparato preventivo e
repressivo» operante «contro ogni forma di devianza». Il diritto penale doveva cominciare ad essere
gestito come uno strumento, «come un’arma nelle mani dello Stato» affinché questo potesse
servirsene «contro i nemici della società». 20 Nel suo manuale di antropologia pubblicato a pochi
mesi di distanza dall’approvazione del nuovo codice, Di Tullio lo sottolineò vivamente: il diritto
penale doveva trasformarsi in «un organo di difesa sociale». 21
18
Luisa Mangoni, Una crisi di fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Einaudi, Torino 1985,
p. 123.
19
Zerboglio si era convinto dei limiti della definizione lombrosiana del delitto politico alla luce della «più modesta
pratica di vita» che, a partire dal disordine sociale del dopoguerra e dal Biennio rosso, aveva dimostrato
«l’inadeguatezza delle acquisizioni» precedenti; cfr. Adolfo Zerboglio, L’uomo delinquente. Note critiche di un
positivista aggiornato, Milano 1924, cit. in Colao, Il delitto politico tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 344-345.
20
Sbriccoli, Le mani nella pasta e gli occhi al cielo, cit., pp. 1003-1007. La Scuola Positiva era nata come reazione alla
concezione astratta e razionale del diritto penale rappresentata dalla Scuola Classica. Quest'ultima, nata nell'ambiente
politico e culturale dell'Italia liberale, prefigurava un sistema penale basato sul contrattualismo e sull'individualismo.
Francesco Carrara, uno dei massimi esponenti della Scuola Classica, considerava il delitto come “un ente astratto e
universale”, per il quale ogni valutazione sulle caratteristiche personali dell'agente erano irrilevanti. I principi della
Scuola Classica influenzarono la stesura del Codice Penale Zanardelli, del 1889. Secondo la Scuola Positiva, invece, il
delitto non doveva essere considerato come mera violazione dell'etica, alla quale doveva corrispondere una pena come
risarcimento, ma come un fatto “umano e sociale”: la società era chiamata a difendersi dai delinquenti e
l'interpretazione del delitto come fatto sociale, a partire dalle riflessioni di Cesare Lombroso sul delinquente nato,
veniva legata ad una concezione biologica; cfr. Filippo Sgubbi, Nicola Mazzacuva, Istituzioni di diritto penale.
Dispensa per il corso di diritto penale tratta dalle lezioni di Franco Bricola, Filippo Sgubbi, Nicola Mazzacuva, Pàtron
Editore, Bologna 1994, pp. 27-45.
21
Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., p. 294.
66
La confluenza di questi due percorsi - denobilitazione del delitto politico e politicizzazione
del delitto comune - trovò sintesi nel Codice del 1930. La pena di morte, introdotta nel 1926 solo
per i reati politici, venne così recepita dal codice ed estesa anche ai delitti di sangue più gravi, a
simboleggiare «una svolta repressiva che si voleva nettissima». 22 Il ministro Alfredo Rocco, nella
sua presentazione al nuovo codice penale del 1930, aveva definito «la potestà di punire» come una
«guerra contro attività nemiche» che dovevano «essere debellate nell’interesse dello Stato e della
società».23 Coerentemente con questa visione, le notizie sulle fucilazioni dei criminali comuni
condannati alla pena capitale avrebbero poi assunto la forma di «scarni e ben manipolati bollettini
di guerra».24
Complessivamente, molti dei principi fondamentali della Scuola positiva furono
«particolarmente idonei a legittimare» la «funzione punitiva» della pena realizzata dal fascismo con
il nuovo codice, a partire dalla visione del delinquente come «elemento negativo e disfunzionale del
sistema sociale». Questa vicinanza si era peraltro già espressa nell’adesione al regime di alcuni dei
suoi massimi esponenti, a partire da Raffaele Garofolo - che già nel 1926 era stato relatore della
legge per la difesa dello Stato e convinto sostenitore della pena di morte per i reati politici - e
soprattutto di Enrico Ferri, che della Scuola era considerato fondatore. Egli nella “Difesa sociale”
aveva infatti individuato il principale terreno d’incontro con il fascismo: era stato sufficiente
trasformare il concetto di “Difesa della società” in quello di “Difesa dello Stato”. Tali riflessioni
erano state trascritte nel 1926 in uno dei suoi ultimi articoli scientifici, dove il nascente regime
veniva rappresentato come la reazione politica e sociologica «agli eccessi dell’individualismo
democratico»; con esso la Scuola positiva avrebbe lavorato «per riaffermare i diritti della società, e
per essa dello Stato, alla preservazione sociale dalla criminalità».25
L’irresponsabilità penale e la non punibilità.
22
Sbriccoli, Codificazione civile e penale, cit., p. 987. Nel nuovo codice, i delitti contro lo Stato vennero affrontati nel
capitolo denominato “Dei delitti contro la personalità dello Stato”. Il codice Zanardelli aveva affrontato gli stessi temi
inserendoli in un apposito capitolo denominato però – la differenza è sostanziale – “Delitti contro la sicurezza dello
Stato”. Con la nuova definizione, l’oggetto di tutela giuridica si spostava dal diritto d'esistenza dello Stato alla
protezione di tutti gli interessi politici che lo Stato riconosceva come prioritari rispetto all'affermazione di una propria
personalità; Neppi Modona, Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit., p. 789-795.
23
Alfredo Rocco, Relazione a S. M. il Re del ministro guardasigilli presentata nell'udienza del 19 ottobre 1930 per
l'approvazione del testo definitivo del Codice penale, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1930, p. 5.
24
Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte. Consenso ed informazione, Franco Angeli, Milano 2000, p. 286. Le
condanne a morte per crimini comuni pronunciate dalla magistratura ordinaria nel corso del decennio 1931-1941 furono
131, delle quali 87 eseguite. Per il successivo biennio 1942-1943 esistono solo notizie frammentate. Il massimo ricorso
alla pena capitale sarebbe stato registrato nel 1939, alla vigilia della nuova guerra, con 27 condanne a morte e 21
fucilazioni effettivamente eseguite.
25
Colao, Il delitto politico tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 341-347.
67
L’articolo 46 del codice del 1889 definiva come non punibile il soggetto che, al momento
dei fatti, «era in tale stato di infermità di mente» da annullare «la coscienza o la libertà dei propri
atti». Qualora il giudice avesse considerato come «pericolosa la liberazione dell’imputato
prosciolto» ne avrebbe dovuto ordinare la consegna alle autorità di PS, che generalmente disponeva
l’internamento in un manicomio provinciale.26
Nell’articolo si possono rintracciare alcuni elementi che è giusto sottolineare. Il primo è che
non era il giudice che disponeva l’internamento, potere che restava in capo ancora alle autorità di
PS. Il secondo elemento è che nel testo approvato dalle camere non si faceva nessun riferimento al
manicomio giudiziario o criminale. Questa previsione, infatti, sarebbe stata regolata solo due anni
dopo, con il Regio Decreto n. 260 del 1 febbraio 1891 sul funzionamento degli stabilimenti
penitenziari.27 Il terzo aspetto, quello più importante, riguarda «l’elasticità della soluzione adottata»
dal codice Zanardelli. Quest’ultimo, infatti, e ciò era stato apprezzato molto dagli alienisti, non
prendeva in considerazione «solo la pazzia in senso stretto» ma qualsiasi stato mentale lontano
«dall’equilibrio normale», sia che esso fosse stato «abituale che transitorio», estendendo perciò i
margini del riconoscimento dell’irresponsabilità.28
Dopo la marcia su Roma, si assistette ad un progressivo ridimensionamento delle possibilità
di riconoscimento dell’irresponsabilità penale, e l’ambito dove ciò fu più evidente è quello forse più
legato al delitto politico: quello dei “delitti di folla”.
Ancora una volta, prima dell’intervento legislativo, fu la giurisprudenza a segnare i nuovi
orientamenti. Il codice Zanardelli prevedeva il riconoscimento di forme di parziale irresponsabilità
per i reati consumati dai singoli durante manifestazioni o assembramenti tumultuosi, e a ciò
corrispondevano diminuzioni della pena.29 Già nel 1921, però, nel mezzo dell’allarme sociale
provocato dal Biennio rosso, la Cassazione aveva cominciato a negare che «la passionalità della
26
Nel corso del dibattito parlamentare venne bocciata la proposta iniziale di prevedere per il giudice il potere di
internare in manicomio un reo riconosciuto irresponsabile «finché l’autorità competente» avesse considerato ciò
necessario. Il rischio paventato era quello di mettere nelle mani dei giudici la possibilità di inviare arbitrariamente in
manicomio «anche individui affetti da lieve infermità di mente e autori di reati non gravi», trasformando così il ricovero
in una «condizione detentiva ancora più pesante del carcere»; cfr. Assunta Borzacchiello, I luoghi della follia.
L'invenzione
del
manicomio
criminale,
p.
11,
www.museocriminologico.it/approfondimenti/pdf/manicomio_criminale.pdf, trovato il 5 ottobre 2009.
27
In esso si prevedeva l’istituzione dei “manicomi giudiziari” destinati «alla repressione ed alla cura» dei condannati a
pene maggiori di un anno colpiti da alienazione mentale e dei «giudicabili dementi prosciolti» ai sensi dell’articolo 46
del codice penale, che venivano trasferiti però in «in sezioni separate». Il trasferimento degli accusati o degli imputati
prosciolti avveniva in seguito ad un decreto del Ministero dell’interno; cfr. Art. 469 e 471 del RD 1 Febbraio 1891 n.
260, in Canosa, Storia del manicomio in Italia, cit., pp. 146-147, nota 15.
28
Marco Nicola Miletti, La follia nel processo. Alienisti e procedura penale nell'Italia postunitaria, in “Acta Histriae”,
n. 15, 2007, 1, p. 324.
29
Il concetto di “delitto di folla” è riconducibile alle riflessioni di Scipio Sighele sulla “folla delinquente” e alla
considerazione del reato consumato dal singolo all’interno di una folla in tumulto come frutto di uno stato patologico o
di un indebolimento parziale dei centri inibitori delle facoltà mentali, causato dalla suggestione del numero e
dall’eccitazione collettiva; cfr. Scipio Sighele, I delitti della folla studiati secondo la psicologia, il diritto e la
giurisprudenza, Bocca, Torino 1902.
68
folla» - nello specifico era il caso di uno sciopero - potesse costituire uno «stato patologico» di
«totale o parziale» infermità di mente. Il ritorno alle teorizzazioni sulla «“violenza del numero”» si
sarebbe poi fatto ancora più evidente un paio d’anni dopo: prima nel processo per i fatti di palazzo
D’Accursio, celebrato nel 1923, e poi in quello per i già descritti fatti di Empoli, dove la stampa si
sarebbe lanciata in una campagna volta a screditare gli imputati, esaltando «la bestialità dell’orda
comunista» e la «repellente fisionomia dei soggetti», e recuperando, inoltre, «l’accorta e
strumentale volgarizzazione delle popolari teorie lombrosiane» sui delinquenti nati. La “Nazione”,
riportando alcuni interrogatori, avrebbe persino segnalato come ad un’anziana donna fossero state
fatte domande sulla presunta preparazione di «brodi» con carne «di carabiniere».30
Con il nuovo codice del 1930 si assistette ad una generale restrizione delle possibilità di
riconoscimento dell’irresponsabilità penale, negata sia per la momentanea infermità causata
dall’assunzione di alcool, di sostanze stupefacenti o dall’influsso di particolari stati emotivi, sia per
i delitti commessi nella suggestione della folla.31 Secondo Alfredo Rocco, specie nel caso di
«delinquenti» o di «contravventori abituali» e «professionali», la «folla tumultuante» costituiva sì
«uno stato permanente di suggestività delittuosa», ma, più che determinare condizioni psichiche di
semicoscienza, forniva soltanto «occasioni per delinquere». 32 A commento delle nuove disposizioni
del codice, Benigno Di Tullio avrebbe poi attribuito alla «suggestione reciproca» la forza di far
emergere ciò che già era comunque presente «allo stato di latenza». A suo giudizio, coerentemente
con le sue riflessioni sulla delinquenza costituzionale, anche nel caso «dei delitti politici compiuti
30
Colao, Il delitto politico tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 228-235. Le citazioni si trovano a pp. 228 e 232. Il
riferimento a Cesare Lombroso rimanda allo studio sul Delitto politico ed alla narrazione dei «tristi giorni del settembre
1866», quando, secondo il criminologo piemontese, durante la rivolta palermitana del “sette e mezzo”, le donne
«tagliuzzavano, vendevano a rotoli e mangiavano le carni dei carabinieri»; cfr. Cesare Lombroso, Rodolfo Laschi, Il
delitto politico e le rivoluzioni in rapporto al diritto, all’antropologia criminale ed alla scienza di governo, Fratelli
Bocca, Torino 1890, pp. 228-229. Il processo per i fatti di palazzo D’Accursio riguardava gli scontri avvenuti a Bologna
il 21 novembre del 1920, data di insediamento della nuova amministrazione comunale socialista. Quel giorno, circa
trecento squadristi armati irruppero nella piazza antistante il palazzo comunale e gettarono nel panico la folla riunitasi
sotto. Le guardie rosse, che dovevano provvedere alla difesa, si mostrarono impreparate allo scontro militare, e, nella
concitazione del momento, gettarono nella piazza cinque bombe a mano, aumentando così il terrore della folla.
All’interno del palazzo, intanto, un membro del servizio d’ordine sparò ai consiglieri di opposizione, uccidendo un
avvocato del partito democratico-radicale e ferendo un ex combattente. Alla fine si contarono dieci morti. I fatti
fornirono il pretesto per la reazione squadrista che, da quel momento, dilagò per tutta l’Emilia; cfr. Franzinelli,
Squadristi, cit., pp. 62-63.
31
L’ubriachezza sarebbe stata considerata come causa di non imputabilità solo se causata da «caso fortuito o forza
maggiore» o se riconosciuta come «cronica», mentre avrebbe costituito un’aggravante nel caso in cui essa fosse stata
dichiarata come «abituale». Stesso discorso veniva fatto per le sostanze stupefacenti. Agli stati emotivi o passionali,
invece, non sarebbe stata riconosciuta nessuna esclusione o diminuzione dell’imputabilità. Con il nuovo codice,
secondo il pensiero del ministro, non sarebbero state più ammesse «fatalità organiche criminose» ed i «delinquenti per
tendenza» non sarebbero stati considerati come «infermi di mente né altrimenti predestinati al delitto», mentre la
«“pazzia morale”» avrebbe smesso di essere considerata una forma di infermità mentale per diventare «una formula per
designare la tendenza a delinquere».; cfr. gli articoli 90-95 del codice penale del 1930, in Ministero della Giustizia e
degli Affari di culto, Codice Penale, Libreria dell’Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1930, p. 73. L’articolo 85 del
codice stabiliva la condizione di imputabilità, ovvero la capacità di intendere e di volere, mentre l’articolo 87 disponeva
che chi si fosse «messo in stato di incapacità di intendere e volere al fine di commettere il reato, o di prepararsi una
scusa» era da considerare imputabile; per le citazioni della relazione cfr. Rocco, Relazione a S. M. il Re, cit., p. 29.
32
Rocco, Relazione a S. M. il Re, cit., p. 24.
69
sotto la suggestione collettiva» ci si trovava di fronte a manifestazioni di «sentimenti» antisociali
che già «preesistevano» nei rei.33
Ad ogni modo, la questione della responsabilità era da tempo centrale nel dibattito tra le
diverse scuole di diritto penale. I critici della Scuola positiva sottolineavano come questa avesse
concentrato troppo l’attenzione sulle caratteristiche del delinquente, correndo il rischio di far
immaginare una sorta di fatale predisposizione al delitto, fino a negare il libero arbitrio e quindi la
responsabilità individuale.34 Il già citato libro di Cocurullo sui moventi a delinquere, ad esempio, fu
salutato positivamente dall’Istituto nazionale fascista di cultura proprio perché si aveva la
convinzione che l’autore fosse riuscito a dare una «accettabile e chiara soluzione» al «problema
dell’imputabilità penale», fondando questa sul «gioco interiore» delle «forze fisiopsichiche» che
basavano le motivazioni del delitto, ovvero sul movente, che altro non era che «quel complesso di
rappresentazioni psichiche» che determinavano «la volontà».35 Dopo aver ricordato che non poteva
esserci delitto «se la causa dell’atto nocivo» non fosse «riscontrabile nella volontà dell’agente» - se
non fosse presente, cioè, anche una causa psichica - Cocurullo elaborò una serrata critica ad Enrico
Ferri, ravvisando in alcuni principi della Scuola positiva la volontà di sostituire la “responsabilità
sociale” alla “responsabilità morale”. Il nuovo codice penale in via di approvazione faceva bene,
quindi, a dar forza al principio della responsabilità morale che, secondo il magistrato, era fondato
«sulla innegabile esistenza di certe facoltà, che anche in un sistema di psicologia senz’anima»
facevano distinguere «l’uomo normale dal pazzo».36
Chi invece era decisamente meno critico verso Ferri e la Scuola positiva era Benigno Di
Tullio. La sua teoria sulla costituzione delinquenziale di origine biopsichica, però, poteva uscire
indebolita dal principio della responsabilità morale fissato dal nuovo codice. Per tale motivo,
nell’analizzare la questione della punibilità, il criminologo si prodigò a spiegare che i delinquenti
costituzionali erano si «anormali», ma non «pazzi»; erano cioè capaci di intendere e volere «rispetto
all’atto criminoso» ma incapaci di attivare «freni inibitori» e «controstimoli», compreso quello che
doveva far loro «sentire la forza intimidativa delle leggi». 37
33
Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., p. 237.
In un articolo che, anni dopo l’approvazione del codice del 1930, sarebbe apparso su “La difesa della razza” in
recensione ad un saggio del dottor Mikorey sull’Ebraismo nella psicologia criminale, si spiegava come fosse stato
l’«ebreo italiano» Cesare Lombroso il primo a «relativizzare il concetto di imputabilità» togliendo qualsiasi «carattere
etico o politico» al diritto dello Stato di punire. La presa di distanze dal determinismo era ormai definitiva e consolidata,
non va però dimenticato che, come vedremo, nonostante le posizioni strumentali e il linguaggio propagandistico della
rivista fondata dopo le leggi razziali, la criminologia del ventennio colse molte delle eredità del pensiero lombrosiano.
Per l’articolo citato cfr. Julius Evola, Psicologia criminale ebraica, in “La difesa della razza”, anno II, n. 18, 20 luglio
1939, p. 33.
35
Raffaele Onorato, Diritto e legislazione, recensione al libro I moventi a delinquere di Baldassarre Cocurullo, in
“Bibliografia Fascista. Rassegna mensile a cura dell’Istituto nazionale fascista di cultura”, Anno V, n. 9, settembre
1930, pp. 791-792.
36
Cocurullo, I moventi a delinquere, cit., pp. 5-26. Le citazioni sono a pp. 5 e 14.
37
Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., pp. 290-294.
34
70
Nell’individuazione della responsabilità, l’attenzione riservata allo studio della psicologia
dei delinquenti evidenzia come l’emergere della follia in un imputato fosse considerato un fattore di
disturbo rispetto alla finalità originaria del processo, cioè la condanna al carcere. L’internamento in
manicomio, benché giudiziario, poteva perciò essere visto come una fuga del reo dall’espiazione di
una giusta condanna penale. Possiamo presumere che tale rischio fosse sufficiente a formare nei
giudici la convinzione che ciò doveva essere, per quanto possibile, evitato, e che tale convinzione
probabilmente era più presente nei giudici della MVSN a capo del Tribunale Speciale, dotati di
maggiore convinzione ideologica e chiamati a sentenziare in merito a delitti politici. Ogni eventuale
simulazione doveva essere smascherata, magari tornando allo spirito della giurisprudenza dei primi
anni dell’Unità, che aveva visto le corti impegnate a combattere l’«eccessivo lassismo» dei tribunali
ed ogni possibile «grado di malizia» degli imputati, spirito che invece non aveva trovato la giusta
attenzione nel codice del 1889 che, come abbiamo detto, si era rifatto ad un concetto di
irresponsabilità «ad ampio raggio».38
A conferma di questa ossessione per la simulazione, è importante considerare anche la
risposta data dal ministro Rocco alla commissione parlamentare che aveva esaminato il progetto per
il nuovo codice. La commissione, infatti, aveva definito eccessiva la previsione, per i condannati
all’ergastolo, di un tempo minimo di dieci anni di internamento in manicomio giudiziario, a
prescindere da ogni eventuale riesame della loro pericolosità sociale e Rocco aveva risposto a
questa osservazione sostenendo che bisognava considerare «la facilità delle simulazioni» che «non
sempre la scienza» riusciva «a svelare in tempo». In tal modo, nel caso in cui in un delinquente
fosse maturata la decisione di provare a fingersi pazzo, la consapevolezza che «simulando» avrebbe
corso «il rischio di rimanere in manicomio giudiziario per non meno di dieci anni, molto
probabilmente» lo avrebbe spinto a trovare «più conveniente rinunciare» alla messa in scena. 39
Anche per la lotta alla simulazione, così come per l’evoluzione nella trattazione penale del
delitto politico, sembra centrale il passaggio della prima guerra mondiale. Durante il conflitto,
infatti, si era combattuta anche una «guerra nella guerra»: tra psichiatri e giudici militari da un lato,
e giovani soldati dall’altro, che, nel “fare i matti”, ricercavano un’alternativa all’uccidere o al farsi
uccidere dal nemico o da un plotone d’esecuzione.40 Un fenomeno tutt’altro che aveva anche reso
difficile «stabilire un confine certo» tra «la lucida finzione» e la psicopatia vera, dato che ci si
38
Miletti, La follia nel processo, cit., p. 323.
Rocco, Relazione a S. M. il Re, cit., p. 39.
40
Gibelli, L’officina della guerra, cit., pp. 152-163; la citazione è a p. 154. Sulle fucilazioni sommarie dei disertori e le
decimazioni di reparti ammutinati cfr. Enzo Forcella, Alberto Monticone, Plotone d’esecuzione. I processi della Prima
guerra mondiale, Laterza, Bari 1968 e Marco Pluviano, Irene Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella prima guerra
mondiale, Gaspari, Udine 2004.
39
71
trovava di fronte ad una massa considerevole di soggetti che realmente erano stati sottoposti a stress
fisici e psichici di portata mai vista precedentemente.41
Le misure di sicurezza.
Il concetto di “pericolosità sociale”, centrale rispetto alla visione della giustizia penale
incarnata dalla Scuola positiva ma che non era stato recepito dal codice Zanardelli, fu invece
accolto in pieno dalla riforma fascista del 1930.42 Secondo il ministro Alfredo Rocco, il sistema
proposto per il riconoscimento delle attenuanti e delle aggravanti che concorrevano a formulare
un’ipotesi di pena da espiare consentiva una «valutazione integrale dell’episodio delittuoso e della
personalità del delinquente». Secondo la Commissione che aveva esaminato il progetto di codice,
invece, su questo punto si conferiva «al giudice una eccessiva discrezionalità», fino a correre il
concreto rischio di «dar luogo a disparità di trattamento». A questa contestazione Rocco rispose che
era proprio quello che si voleva da «un codice nel quale la personalità del reo» aveva «non minore
considerazione» dei delitti che si erano effettivamente consumati. Era «logico», perciò, prevedere
che, «sia pure di fronte allo stesso reato», ad «una diversa personalità» corrispondesse «una diversa
responsabilità penale».43 Se a questa impostazione aggiungiamo quanto stabilito dal nuovo Testo
Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza - che sarebbe stato approvato nel 1931 ed avrebbe
riaffermato ed integrato quanto già stabilito nel 1926 - appare evidente come il fascismo non operò
«la riunione in chiave autoritaria» dei «due livelli di legalità» ereditati dalla tradizione liberale assicurati «da una legge di pubblica sicurezza che affiancava il codice penale e che lo arricchiva di
vere e proprie fattispecie di reato» destinate a sanzionare i propositi o le intenzioni degli
appartenenti alle classi pericolose - ma ne aggiunse un terzo, riguardante il dissenso politico.44 Le
decisioni in merito alla pene da comminare o alle misure di polizia da prevedere non sarebbero state
prese più solo in riferimento alla classe sociale di appartenenza del reo, ma anche in base alla sua
fedeltà alle istituzioni nazionali. L’essere considerato antifascista, allora, sia che si appartenesse
effettivamente ad organizzazioni clandestine, sia che, invece, si fosse stati schedati come tali magari
per una semplice battuta offensiva nei confronti del governo, non poteva far altro che aggravare la
propria posizione penale.
41
Gibelli, Guerra e follia, cit., p. 448 e 450.
Marco Marchetti, Cenni storici di psichiatria forense, in Franco Ferracuti (a cura di), Trattato di criminologia,
medicina criminologica e psichiatria forense, Vol. XIII, Psichiatria forense generale e penale, Giuffrè, Milano 1990, p.
11.
43
Rocco, Relazione a S. M. il Re, cit., pp. 10, 25.
44
Sbriccoli, Codificazione civile e penale, cit., pp. 989-990.
42
72
Oltre che sul terreno della Difesa sociale, di cui abbiamo già parlato, la vicinanza tra visione
fascista della giustizia penale e principi della Scuola positiva si evidenziò anche rispetto alle misure
di sicurezza destinate agli imputati non giudicabili perché riconosciuti folli ed ai condannati
impazziti in carcere. Sin dalle prime pagine della sua relazione, il ministro Alfredo Rocco sottolineò
che il loro «uso» era stato previsto in modo «ben ampiamente maggiore e più largo» rispetto a
quanto aveva fatto Zanardelli. Queste misure avevano in comune con gli ordinari provvedimenti di
polizia il fatto di essere considerate mezzi di «lotta contro le cause» dei reati e «non già contro gli
effetti». Si differenziavano dai provvedimenti di polizia, però, perché invece di essere ordinate
prima che un delitto fosse stato commesso, intervenivano «soltanto dopo» che questo fosse
avvenuto e colpivano i rei che non potevano subire un processo perché riconosciuti incapaci.45
Nel codice vennero previste misure di sicurezza detentive e non detentive, da attivarsi nei
confronti dei rei dichiarati “socialmente pericolosi”.46 Le «qualità» che permettevano il
riconoscimento della pericolosità sociale dovevano essere dedotte sia dalle circostanze relative al
reato - natura, gravità, intensità, pericolo cagionato - che da una serie di elementi che riguardavano
la personalità del reo, come «i motivi a delinquere», la «condotta» antecedente il reato e le sue
«condizioni di vita individuale, famigliare e sociale». 47 Sin dal progetto di riforma del codice
penale, era stato formulato l’auspicio che le misure di sicurezza fossero sempre disposte per i
condannati per sfruttamento della prostituzione, per i recidivi - in caso di dichiarazione di
«abitualità», «professionalità» o «tendenza a delinquere» - e per i condannati per associazione a
delinquere; fattispecie di reato che accomunava tutti gli oppositori politici provenienti dalla
cospirazione. Era stato inoltre chiesto che fosse previsto il ricovero in manicomio di coloro che,
finito di scontare una pena diminuita per il riconoscimento della seminfermità mentale, proprio per
tale motivo restavano «solo in parte» coscienti dei propri atti, rischiando, «con lo andar del tempo»,
di «andare incontro alla follia completa». L’«anormalità dell’individuo» avrebbe potuto infatti
costituire «la causa o una delle cause di un nuovo delitto»; per tale motivo, Baldassarre Cocurullo
aveva proposto il «ricovero» a «tempo indeterminato» per tutti quelli che considerava «difettosi»:
sia «per nevrastenie od arresti di sviluppo psichico» - come «l’imbecillità» - sia «per psicopatie
45
Rocco, Relazione a S. M. il Re, cit., p. 8.
Le misure di sicurezza detentive prevedevano l’assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro prevista
per i delinquenti imputabili e dichiarati pericolosi, il ricovero in casa di cura e custodia per i rei imputabili pericolosi, il
ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per i non imputabili pericolosi e il ricovero in riformatorio giudiziario per i
minori pericolosi. Le misure di sicurezza prevedevano la libertà vigilata, dal divieto di soggiorno in uno o più comuni,
dal divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche e dall’espulsione dallo Stato nel caso di cittadini
stranieri; cfr. Oronzo Greco, Roberto Catanesi, Malattia mentale e giustizia penale. La percezione della malattia
mentale e della pericolosità del malato di mente, Giuffrè, Milano 1988, p. 30.
47
Articoli 202-203 e 133 del Codice Penale del 1930.
46
73
neuropatiche» - come l’epilessia, l’isteria o la nevrastenia - sia, infine, «per psicopatie derivanti da
intossicazioni» da alcool o da sostanze stupefacenti.48
Differentemente da quanto era stato previsto dal Codice Zanardelli, il codice Rocco dispose
che le misure di sicurezza fossero ordinate dal giudice «nella stessa sentenza di condanna o di
proscioglimento». La loro revoca era possibile soltanto dopo il riesame della pericolosità, che
comunque non poteva essere effettuato dal giudice prima dello scadere di una delle altre novità
introdotte dal codice: il limite minimo di durata. Questa, nel caso di ricovero in un manicomio
giudiziario, poteva variare dai due anni per i prosciolti per riconosciuta infermità psichica,
alcoolismo cronico o sordomutismo, ai cinque per i prosciolti per fatti ai quali la legge attribuiva
pene non inferiori ai dieci anni, o ai dieci anni per i condannati alla pena di morte o all’ergastolo.
Nel «caso in cui la persona ricoverata» si trovasse ancora nella condizione giuridica di dover
«scontare una pena» detentiva o parte di essa, inoltre, «l’esecuzione di questa» sarebbe stata sospesa
«fino» al perdurare del «ricovero in manicomio». 49
Con il nuovo codice, il «carattere carcerario del manicomio giudiziario» ricevette «per la
prima volta un avallo specifico». 50 Essendo infatti destinato ad una pluralità di soggetti con
pendenze penali - prosciolti considerati socialmente pericolosi, imputati e condannati colpiti da
alienazione mentale, imputati e detenuti sottoposti ad osservazione psichiatrica - il manicomio
giudiziario sarebbe rimasto «saldamente» ancorato «al sistema penitenziario», per «struttura,
organizzazione e gestione».51 Il fatto che il suo funzionamento sarebbe stato disciplinato l’anno
successivo, all’interno della più ampia riforma del regolamento penitenziario e delle case di pena, di
cui parleremo più avanti, in buona parte testimonia proprio questo orientamento prevalentemente
detentivo a scapito di quello terapeutico.52
L’altra importante novità contenuta nel codice penale del 1930 era rappresentata dal
differimento del periodo di esecuzione della condanna per i detenuti sottoposti ad internamento
psichiatrico giudiziario. In tal modo veniva esclusa qualsiasi forma di complementarietà tra pena e
misura di sicurezza e, di fatto, veniva introdotta la possibilità di segregazione sine die dei
48
Cocurullo, I moventi a delinquere, cit., pp. 307-311. La citazione si trova a p. 311.
Articolo 205-208 e 222 del Codice Penale del 1930. Nel caso di infermità psichica sopravvenuta nei condannati alla
pena di morte per delitti politici o comuni, l’esecuzione della pena non veniva commutata de jure all’ergastolo commutazione che invece era stata richiesta dalla commissione parlamentare, ritenendo ripugnante mandare al patibolo
un soggetto che aveva affrontato un percorso di infermità e di guarigione - ma restava sospesa nella sua effettività. Si
sarebbe poi eventualmente provveduto tramite lo strumento della grazia a salvare dall’esecuzione i condannati guariti;
cfr. Rocco, Relazione a S. M. il Re, cit., p. 32.
50
Canosa, Storia del manicomio in Italia, cit., p. 161.
51
La situazione dei manicomi giudiziari sarebbe restata immutata sino alla seconda metà degli anni settanta, quando,
all’interno del più ambito dibattito sulla psichiatria, presero forma alcune aperture tendenti ad assicurare al «malato di
mente giudiziario» lo stesso trattamento sanitario di quello «civile»; cfr. Greco, Catanesi, Malattia mentale e giustizia
penale, cit., pp. 38-39.
52
Regio decreto 18 giugno 1931, n. 787, Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, in “Supplemento
ordinario alla Gazzetta Ufficiale” n. 147 del 27 giugno 1931
49
74
condannati. Tale ipotesi non si discostava molto da quello che, molti anni prima, aveva teorizzato
Cesare Lombroso rispetto alla necessità dell’istituzione del manicomio criminale: luogo pensato per
«gli individui riconosciuti abitualmente pericolosi», dal quale, specie se «già sottoposti a vari
processi», una volta internati non avrebbero dovuto «essere mai dimessi». 53 D’altronde, come nel
caso di altri esponenti del mondo scientifico e culturale europeo di fine Ottocento, il pensiero di
Lombroso sarebbe restato presente ben oltre gli anni a cavallo tra i due secoli. Non stupisce allora
che anche lo studio di Cocurullo sui Moventi e il manuale di antropologia di Di Tullio dedicassero
ampio spazio ai riferimenti ed alle eredità del «genio» e «maestro», il primo a tracciare «nettamente
tutto il programma di lavoro necessario per una efficace prevenzione del delitto» e a prevedere
anche la costruzione «di stabilimenti speciali per gli incorreggibili».54 “Rassegna Bibliografica”, la
rivista dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, nel 1932 definì Lombroso una «gloria scientifica»
tutta italiana.55 Sempre Di Tullio, nel 1940, avrebbe nuovamente riconosciuto lo stesso tributo a
Lombroso, definendolo - nonostante il suo essere ebreo (le leggi razziali erano già state promulgate
due anni prima) - il «valente psichiatra» che per primo aveva avuto l’intuizione di considerare il
criminale come «un degenerato di natura più o meno strettamente patologica». 56 Questi elementi
sembrano confermare l’affermazione di George Mosse, e cioè che nazismo e fascismo generalmente
accolsero «la psicologia lombrosiana», e che i nazisti, spostando poi le considerazioni sulla
degenerazione dei «criminali abituali» agli ebrei, sarebbero giunti al punto di utilizzare la
definizione data da Lombroso della criminalità - ovvero l'azione criminale non come frutto di una
scelta del'individuo ma come inevitabile esito antisociale prodotto dall'azione di caratteri degenerati
- come elemento funzionale alla spiegazione «della soluzione del problema ebraico». 57
Già negli anni precedenti l’approvazione del nuovo codice penale del 1930, erano state
formulate ipotesi sull’adozione di misure a carattere eliminativo per chi fosse stato dichiarato
“incorreggibile”. Il ministro della Giustizia Alfredo Rocco, a proposito dei recidivi, già nel 1924
aveva evidenziato la «necessità» del loro internamento «a perpetuità o» comunque «per lunghissimo
tempo».58 Leonardo Bianchi - il relatore della legge sull’internamento nei manicomi civili - in uno
studio dell’anno successivo sull’eugenica e l’igiene mentale aveva affermato che
53
Cesare Lombroso, Rendiconti del reale istituto lombardo di scienze e lettere, 1872, in Frigessi, Giacanelli, Mangoni,
Cesare Lombroso. Scritti scelti, cit., p. 198.
54
Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., p. 297.
55
“Bibliografia Fascista. Rassegna mensile a cura dell’Istituto nazionale fascista di cultura”, Anno VII, n. 1, gennaio
1932, p. 43.
56
Di Tullio, Antropologia criminale, cit., pp. 25-26.
57
Mosse, Il razzismo in Europa, cit., pp. 93-94. In Italia l’associazione tra criminalità e giudaismo si rafforzò dopo
l’approvazione delle leggi razziali e poi con l’ingresso in guerra. L’opera di diffusione di tali pregiudizi fu svolta
principalmente da “La difesa della razza”; cfr. ad esempio, Armando Tosti, Amoralità e criminalità dei giudei, in “La
difesa della razza”, anno IV, n. 25, 5 ottobre 1941, pp. 10-12. L’articolo faceva risalire l’abitualità alla violenza ed ai
reati di sangue, considerata innata negli ebrei, alla tradizione religiosa.
58
Rusticucci, Nelle galere, cit., p. 14.
75
la cura e la profilassi della criminalità sono comprese nel dominio dell’azione dell’eugenica e dell’igiene
mentale, per la stessa ragione per la quale tentiamo di vietare il matrimonio tra i deboli ed i degenerati in
generale, tra i tubercolotici ed i sifilitici […] l’educazione popolare, il restauramento della disciplina e della
morale nell’istituto della famiglia, la lotta contro l’alcoolismo, la severità dei codici, la giustizia rigida
nell’applicarli con l’eliminazione dei più incorreggibili criminali, ricomporranno una fisionomia migliore e
più sincera della società, la quale vivrà più fidente, più sicura, più produttiva e più felice.59
Secondo Benigno Di Tullio, esprimendo «tali concetti» Bianchi aveva saputo «precorrere i
tempi», tracciando «luminosamente i criteri ai quali i futuri legislatori» avrebbero dovuto «attenersi
per una sempre più efficace e benefica giustizia penale». L’adozione di misure di sicurezza «a
tempo per lo più indeterminato», continuava il criminologo romano, «per un criterio di pratica
necessità» erano state ora accolte anche nel nuovo codice penale italiano, confermando «il diritto
che» aveva «la società di difendersi contro chiunque» potesse rappresentare «un pericolo» e «il
dovere» di «eliminare, attraverso forme adeguate, utilitarie ed umane», i delinquenti che si
mostravano «incapaci di sottostare alla disciplina complessa della vita sociale».60
Il tema dell’eliminazione dei delinquenti incorreggibili si lega anche alla diffusione, in
Europa e nel mondo, delle teorie sull’eugenica e delle pratiche eugenetiche.61 Sin dal 1889, lo stesso
anno di promulgazione del codice Zanardelli, l’antropologo romano Giuseppe Sergi aveva
pubblicato il già citato volume Le degenerazioni umane, nel quale proponeva come soluzione quella
di segregare «alcune categorie»: come «criminali, mendicanti professionali, vagabondi» e «parassiti
di ogni sorta». La finalità doveva essere quella di limitarne o, meglio ancora, impedirne la
riproduzione - «affinché con loro perisse il germe del male». La tentazione di eliminare i disadattati,
sebbene in quel periodo fosse «appena serpeggiante» e non in grado di trovare consenso nel mondo
scientifico, cinquanta anni dopo sarebbe stata invece evocata dai propagandisti del regime come
pionieristica rispetto «alla selezione artificiale della razza».62
L’interesse del fascismo per l’eugenetica si sarebbe materializzato dopo la messa fuori gioco
delle opposizioni politiche e il discorso dell’Ascensione del maggio del 1927. In quell’occasione,
per la prima volta, Mussolini descrisse i caratteri dell’italiano nuovo e parlò esplicitamente di “lotta
per la salute fisica della razza”, avviando la svolta popolazionista nella politica demografica che
59
La citazione si riferisce ad un passo di Benigno Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., pp.
298-299 in cui l’autore fa riferimento, citandolo, al testo di Leonardo Bianchi, Eugenica. Igiene mentale e profilassi
delle malattie nervose e mentali, Casa Editrice Idelson, Napoli 1925.
60
Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., pp. 294, 299.
61
Secondo la definizione di Emmanuel Betta, l’eugenetica può essere considerata come «selezione dell’accesso alla
riproduzione in ragione della definizione dei caratteri essenziali di un gruppo umano, chiamato stirpe o razza o etnia o
comunità». Leggi sulla sterilizzazione fisica degli “inadatti” furono emanate negli Stati Uniti, in 27 stati federali tra il
1907 e il 1935, nella Germania di Weimar ed in quella nazista, e poi, vigenti fino a ben oltre gli anni ’70 del novecento,
in Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia, Svizzera; cfr. Emmanuel Betta, Eugenetica, eugenetiche, in
“Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del 900”, A. IX, n. 4, ottobre 2006, la citazione si trova a p. 788.
62
Pogliano, Eugenisti, ma con giudizio, cit., pp. 424-427.
76
poi, in coincidenza con la firma dei Patti Lateranensi e del primo plebiscito, avrebbe preso
definitivamente e pienamente corpo.63
Quando, tra il settembre e l’ottobre del 1929, a cinque anni di distanza dal primo, si tenne a
Roma il secondo congresso promosso dalla Società italiana di genetica ed eugenica, la presidenza
onoraria fu significativamente affidata al capo del governo. Il sottosegretario al Ministero
dell’educazione, che aprì i lavori, annunciò come il «clima storico» fosse «particolarmente
propizio» agli studi sull’eugenica, poiché «l’attivazione stessa di un complesso programma
demografico» non poteva «non risvegliare la coscienza di nuovi e più ampi problemi che prima»
non si erano posti o non si erano ritenuti «degni di una seria ricerca scientifica». 64 Dal punto di vista
dell’uso strumentale dell’internamento in manicomio giudiziario a tempo indeterminato di soggetti
considerati “delinquenti pazzi” o di altre categorie, va inoltre sottolineato quanto affermato da
Claudia Mantovani nel suo studio sull'eugenetica in Italia, e cioè che anche Alfredo Rocco - che
inserì le misure di sicurezza nel codice penale - si ispirava ad un «organicismo in versione
nazionalista» che trovava una radice comune nell’’«immaginario sociobiologico» che aveva
«impregnato» la cultura Europea del tardo ottocento, che era stato anche l’«originario terreno di
coltura dell’eugenica» e dell’«interesse a fare del corpo, della sua salute, del suo vigore - e,
collettivamente parlando, della razza e della sua potenza - un elemento essenziale del discorso
politico del dopoguerra».65 Rispetto alle pratiche eugenetiche sui delinquenti, d’altronde, posizioni
oltranziste si erano registrate all’interno del mondo psichiatrico e criminologico già negli anni
successivi la marcia su Roma, e non solo da posizioni filofasciste. Luigi Rusticucci, studioso di
criminologia ed istituzioni penitenziarie, nel 1924 aveva definito come «un’ottima proposta» l’idea
già avanzata da Lombroso di mandare i delinquenti considerati incorreggibili «a bonificare le
maremme, gli agri e le miniere, risparmiando la vita di onesti operai». Se malattie come la malaria,
aveva scritto citando anche Enrico Ferri, per essere debellate esigevano «un’ecatombe umana», era
allora «evidente» che sarebbe stato «ben meglio sacrificare i criminali piuttosto che i contadini
onesti».66 Ancora più estreme le soluzioni proposte, sempre nello stesso anno, dal medico socialista
Gaetano Pieraccini, che aveva teorizzato sia il divieto di matrimonio per i «tisici», i «pazzi», gli
«alcoolizzati, gli «epilettici», gli «imbecilli» e i «grandi delinquenti», che la sterilizzazione
«mediante i raggi X» di quanti venivano dimessi da un manicomio.67
63
Carl Ipsen, Demografia totalitaria. Il problema della popolazione nell'Italia fascista, Il Mulino, Bologna 1992.
Atti del secondo congresso italiano di genetica ed eugenica, Roma, 30 settembre - 2 ottobre 1929, cit. in Pogliano,
cit., p. 81.
65
Mantovani, Rigenerare la società, cit., p. 263.
66
Rusticucci, Nelle galere, cit., pp. 9-10.
67
Cassata, Molti, sani e forti, cit., pp. 114-121. Le citazioni sono a p. 116 e p. 120.
64
77
Le politiche intraprese effettivamente in materia, comunque, sia per la posizione della chiesa
- specie dopo la pubblicazione nel 1930 dell’enciclica Casti Connubii che condannò il birth control,
il certificato prematrimoniale, l’aborto e la sterilizzazione - che, soprattutto, per gli obiettivi
demografici del regime accompagnati dalla retorica del “numero come forza”, mal si conciliavano
con ipotesi mediche e pratiche sanitarie volte a limitare la procreazione. Così, mentre a livello
scientifico emersero in modo maggioritario profonde distanze dall’eugenetica qualitativa di
ispirazione anglosassone e scandinava, le scelte legislative restarono saldamente ancorate a forme di
eugenetica di tipo quantitativo, tendenti più alla prevenzione, alla tutela della maternità ed alla
diffusione di pratiche positive di igiene sociale.68 Tuttavia, L’argomento della segregazione o
dell’allontanamento perpetuo dei delinquenti incorreggibili non sarebbe mai uscito dal dibattito in
materia di diritto, giustizia penale e lotta alla criminalità. Nel 1941, in un volume di celebrazione
del decennale del regolamento penitenziario significativamente titolato Bonifica umana, il nuovo
guardasigilli Dino Grandi sarebbe tornato a proporre l’introduzione di «provvedimenti di polizia a
carattere eliminativo» per i soggetti non rieducabili, seppur ipotizzando non la segregazione in
manicomio ma l’invio al confino, nell’ambito di «una opportuna collaborazione tra attività
giudiziaria e attività di polizia».69
Devianza, follia ed antifascismo nei tribunali ordinari.
Come abbiamo già detto, con l’istituzione del Tribunale Speciale fascista l’amministrazione
della giustizia penale in materia di delitto politico cominciò a seguire un corso proprio e separato.
Tale condizione produsse una prima conseguenza: nei processi celebrati nelle corti ordinarie e
terminati con l’internamento in manicomio giudiziario di uno schedato politico riconosciuto
irresponsabile, l’antifascismo, nella ricostruzione del reato, rivestiva sempre un ruolo secondario. I
delitti che erano stati commessi dagli imputati erano considerati prevalentemente comuni, mentre le
convinzioni politiche erano valutato soltanto come un elemento peggiorativo da considerarsi nella
ricostruzione della personalità del reo, già pesantemente segnata da altre manifestazioni di devianza.
Manifestazioni, peraltro, minuziosamente descritte nelle relazioni della polizia ad uso delle autorità
inquirenti, che spesso rilanciavano i pregiudizi diffusi sui legami tra marginalità, criminalità e
dissenso.
Tra i casi esaminati, sono pochi gli schedati come antifascisti internati in manicomio su
disposizione di un giudice ordinario prima del 1926, tra questi G, il comunista che uccise il deputato
fascista Armando Casalini di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. Una volta istituito il
68
69
Ivi, pp. 142-168 e Mantovani, Rigenerare la società, cit., pp. 285-345.
Neppi Modona, Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit., pp. 817-818.
78
Tribunale Speciale, invece, sono stati diversi i processi presi in carico dalla magistratura fascista in seguito alla denuncia per delitti politici commessi contestualmente o successivamente ad altri
reati comuni - e poi da questa rinviati a quella ordinaria, con la motivazione che quest’ultima fosse
maggiormente competente.
Nel caso di C., ad esempio, «andatura lenta e dondolante, mimica abbondante, voce grossa
con accento marchigiano», il Tribunale Speciale chiese il rinvio alla giustizia ordinaria già il giorno
dopo l’apertura del procedimento.70 C. era un calzolaio di Matelica di mezza età, con delle
pendenze penali per piccoli reati come oltraggio alla forza pubblica, ubriachezza e, legati sua
attività di commercio di minutaglie - con la quale probabilmente provava ad integrare il proprio
reddito - fallimento e bancarotta semplice.71 Già schedato come repubblicano, dal punto di vista
politico risultava condannato due volte: nel 1929 a cinque mesi di carcere per delle offese a
Mussolini pronunciate in un locale pubblico, mentre, l’anno successivo, a tre mesi e quindici giorni
per offese al culto cattolico.72 Uscito da carcere, il 5 gennaio del 1932 sarebbe stato arrestato di
nuovo.
Questi i fatti che portarono al nuovo arresto. Il capomanipolo della locale MVSN, mentre si
trovava a passare per le vie della cittadina, sorprese C. «in stato di manifesta ubriachezza» che,
«con parole ed atti», importunava i passanti. Tra di essi anche un sacerdote, al quale, secondo il
capomanipolo, aveva urlato frasi offensive: «Abbasso i preti!» ed «Abbasso il papa!». I carabinieri
lo arrestarono quasi immediatamente ma non ritennero «utile» denunciarlo per «offese alla religione
dello Stato» - secondo quanto stabilito dall’articolo 403 del codice penale - poiché C. era
considerato «dedito abitualmente al vino». Essi stessi avevano potuto constatare che, «nel momento
in cui» aveva «pronunciato le frasi», era «in uno stato tale da non avere la facoltà di intendere e di
volere». Considerata però «la cattiva moralità dell’individuo», i militari proposero di denunciarlo
per ubriachezza. Il prete, secondo il verbale, aveva «pienamente» confermato le circostanze. 73
Contrariamente a quanto auspicato dai carabinieri, e probabilmente per volontà della
MVSN, la denuncia per reato politico cominciò tuttavia a seguire il suo corso. Il Tribunale Speciale
dovette intervenire e chiedere al Ministero della Giustizia l’autorizzazione a procedere in base
all’articolo 8 del concordato tra Stato e chiesa cattolica che era stato approvato nel 1929, e che, in
relazione ai fatti, prevedeva «per il reato di offese al Sommo Pontefice» l’applicazione delle stesse
70
ASMc, Tribunale penale di Macerata, Pretura di Macerata, b. 910, n. 37, Tribunale speciale, 29 gennaio 1932.
ACS, CPC, b. 101, f. 30100, Prefettura di Macerata, 10 maggio 1929.
72
Ivi, Prefettura Macerata, 27 aprile 1929 e Prefettura Macerata, 22 dicembre 1930.
73
ASMc, Tribunale penale di Macerata, Pretura di Macerata, b. 910, n. 37, Carabinieri Matelica, Processo verbale del 6
gennaio 1932.
71
79
disposizioni previste nei casi di offese al re, alla regina o ai principi.74 Appena ottenuta
l’autorizzazione, come abbiamo detto, il pubblico ministero chiese al giudice istruttore la
remissione del caso alla giustizia ordinaria per la chiara «connessione» tra le offese pronunciate e lo
stato di ubriachezza, con l’aggravante «dell’abitualità» di C. nell’abuso di alcool.75 Il processo
allora venne spostato presso la pretura di Matelica, dove cominciò la sfilata dei testimoni.
Sin dall’età liberale, secondo una prassi seguita dalla procedura penale, una denuncia o una
testimonianza risultavano tanto più efficaci nell’esito processuale in quanto «lo status del soggetto»
era «forte e socialmente riconosciuto».76 I testimoni che accusavano C. erano un vicebrigadiere dei
carabinieri, un milite della MVSN ed un prelato: soggetti che, più che socialmente riconosciuti, in
un certo senso potrebbero efficacemente rappresentare l'esercito, il fascismo e la chiesa.
Il carabiniere che aveva arrestato C. confermò quanto riportato nel verbale che aveva stilato
ed aggiunse che l’imputato «si professa[va] acerrimo nemico dei preti». Il sacerdote disse di aver
sentito la frase «abbasso i preti» ed «altre parole», che, era sicuro, «si riferivano a Sua Santità» ma,
discostandosi dal verbale, aggiunse di non essere riuscito «bene a comprendere» il loro esatto
contenuto. Disse inoltre di conoscere C. come un individuo che, oltre ad ubriacarsi «abitualmente»,
era anche «squilibrato». Il capomanipolo segnalò che l’imputato aveva continuato a pronunciare
frasi offensive «seguendo il sacerdote» quando «questo si allontanava», mentre C. ammise che in
quel pomeriggio «aveva bevuto un po’ troppo» ma negò decisamente sia le frasi che gli venivano
attribuite sia le molestie.77 In una successiva deposizione, un vicebrigadiere dei carabinieri tentò di
sottolineare l’anticlericalismo e la pericolosità dell’imputato, narrando un episodio estraneo ai fini
processuali - del quale non è stata trovata nessuna traccia in altri documenti - che in parte
confermava le affermazioni sul noto “squilibrio mentale” di C. a cui aveva accennato anche il
sacerdote: una volta era stato fermato mentre, con «in testa un berretto di capostazione», stava
tentando di salire a bordo di un treno dicendo di dover «accorrere a Roma» per «uccidere il papa».
Il milite aggiunse invece la sua definizione criminologica: C. era un «anormale perfetto», incapace
di comprendere quello che diceva ogni volta che aveva bevuto. L’imputato si limitò a ripetere che
era «ubriaco» e che non aveva «visto nessuno, né preti né sacerdoti». 78
74
Ivi, Ministero della giustizia, 23 gennaio 1932; sul concordato tra Stato e Chiesa cfr. Pietro Scoppola, Chiesa e Stato
nella storia d’Italia, Laterza, Bari 1967.
75
ASMc, Tribunale penale di Macerata, Pretura di Macerata, b. 910, n. 37, Tribunale speciale, 29 gennaio 1932.
76
Domenico Rizzo, L'impossibile privato. Fama e pubblico scandalo in età liberale, in "Quaderni Storici"n. 112, aprile
2003, p. 228. Nel suo studio Rizzo analizza principalmente i reati sessuali. La riflessione, pur considerando la
dimensione “privata” della fattispecie specifica, ci sembra comunque estendibile anche ad altri procedimenti penali,
come quello in questione, che vedevano la presenza di più querelanti e più testimoni chiamati a ricostruire i fatti.
77
ASMc, Tribunale penale di Macerata, Pretura di Macerata, b. 910, n. 37, Esame di testimonio senza giuramento, 5
febbraio 1932 e Pretura di Camerino, Verbale di interrogatorio dell’imputato, 6 febbraio 1932
78
Ivi, Processo verbale di dibattimento, 14 marzo 1932.
80
Il pubblico ministero, alla fine, chiese per C. la condanna a due anni e due mesi di reclusione
per le offese al papa e a cinque mesi di arresto per ubriachezza. La difesa, invece, chiese di
dichiarare l'imputato «non punibile» e di sottoporlo a «perizia» psichiatrica per accertare le sue
facoltà mentali. Il tribunale, dopo le risultanze, lo prosciolse «per aver commesso i fatti in stato di
cronica intossicazione» da alcool e ne ordinò «il ricovero in manicomio giudiziario» per due anni.79
Dopo alcune settimane giunse la decisione del ministero della giustizia sulla destinazione:
Barcellona Pozzo di Gotto, dove C. arrivò il 30 giugno successivo. 80 Allo scadere dei due anni dalla
data della sentenza fu dimesso e ritornò a casa.81 Evidentemente, al momento del riesame sulla sua
pericolosità, era stato giudicato “guarito”. Qualche settimana dopo, però, fu nuovamente internato
in manicomio, questa volta in quello provinciale di Macerata e il ricovero si protrasse fino alla fine
dei suoi giorni.82 Sulla sua vicenda ritorneremo più avanti, per ora è sufficiente anticipare che
sarebbe stato il procuratore del re a chiedere esplicitamente al direttore del manicomio provinciale
che C. restasse segregato fino alla morte, e sottolineare che, come abbiamo visto, il suo “percorso”
di internamento psichiatrico era cominciato in seguito ad un processo per delle semplici offese al
papa.
I delitti commessi dal venticinquenne torinese M., invece, erano tutt’altro che legati a
qualche sproloquio. Il 21 settembre del 1937 il giovane aveva rubato alcuni bolli di circolazione,
«un paio di guanti e documenti vari» da un’automobile «rimasta aperta», poi, nella notte, «un
motore elettrico da montacarico» da un cantiere e «un’automobile Fiat tipo Balilla» da un garage.
La notte successiva, infine, si era impossessato di 6.800 lire «custodite in un panciotto riposto in
una sedia» all’interno di un’abitazione. Con le tasche piene di denaro ed alla guida della Balilla
lanciata presumibilmente a tutta velocità, partì poi diretto verso la frontiera francese. Le sue
successive vicende indurrebbero a non escludere che volesse raggiungere la Spagna - dove
imperversava la guerra civile scoppiata dopo il colpo di stato guidato da Francisco Franco contro la
repubblica - per arruolarsi nelle Brigate Internazionali, portando magari in dote l’automobile ed il
motore elettrico. La sua corsa però finì sul confine, di fronte a due «militi» che rifiutarono le «mille
lire» che il giovane aveva «offerto» loro «perché omettessero di arrestarlo». Portato in carcere a
Torino, M. cominciò subito a farsi notare perché, sia in cella che a passeggio, esaltava «il partito
comunista di Spagna», mentre aveva più volte tracciato scritte come «“Viva la Russia”», «“Morte
all’Italia”» o disegnato «emblemi con falce e martello». Il Tribunale speciale allora prese in carico
il suo procedimento, ma il giudice istruttore, dopo l’esame dei fatti e «date le modalità e la entità»
79
Ivi, Processo verbale di dibattimento, 14 marzo 1932.
ACS, CPC, b. 101, f. 30100, Prefettura di Macerata, 5 luglio 1932.
81
Ivi, Prefettura di Macerata, 27 marzo 1934.
82
Ivi, Prefettura di Macerata, 24 giugno 1934.
80
81
della sequenza di delitti, dichiarò più conveniente «rimettere al giudice ordinario sia il
procedimento per i reati comuni sia quello per i connessi reati contro la personalità dello Stato»,
ordinando la remissione del procedimento al procuratore di Torino.83 Anche il pubblico ministero si
trovò d’accordo nel considerare «di scarso danno e pericolo» quelle «manifestazioni sovversive»,
che peraltro si erano «consumate» in carcere, e quindi dopo la commissione dei «reati di
competenza ordinaria».84 Nel corso del processo, il tribunale torinese ordinò allora una perizia sul
giovane, e, dopo la dichiarazione sulla sua incapacità di intendere e volere, dispose il suo
internamento in manicomio giudiziario. Fu destinato a Montelupo Fiorentino, dove sarebbe stato
segnalato ancora nel 1943.85
Antifascismo e follia nel Tribunale Speciale: le perizie sui delinquenti politici.
Il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato cominciò a funzionare il primo febbraio del
1927 e operò fino all’estate del 1943, per poi riprendere la propria attività solo all’interno dei
confini della RSI, al di sopra della Linea Gustav prima, e della Linea Gotica poi.86
I fascicoli di antifascisti internati in manicomio giudiziario in seguito ad una sentenza del
Tribunale Speciale non sono molti: quelli che abbiamo rintracciato non superano i venti casi.
Sicuramente, all’interno dell’archivio che conserva i documenti degli oltre cinquemila processi
celebrati, ce ne saranno altri. Tuttavia questi esigui numeri sembrano confermare che il
riconoscimento dell’infermità psichica, la dichiarazione di irresponsabilità penale e il successivo
ricovero in manicomio rappresentavano le tappe di un percorso che veniva attivato solo come
extrema ratio, e solo dopo accurati esami volti a smascherare ogni possibile tentativo di
simulazione. Dei casi presi in esame, inoltre, soltanto tre si sono chiusi prima della promulgazione
del nuovo codice di Alfredo Rocco in materia di giustizia penale e diritto penitenziario: segno,
probabilmente, di una maggior fiducia riposta nella disciplina introdotta dopo il 1930 sulle misure
di sicurezza e sulla vigilanza degli internati giudiziari.
Gli internati dal Tribunale Speciale erano di estrazione popolare, e avevano, secondo la
schedatura, un orientamento politico diviso tra il generico “antifascismo” e l’appartenenza al partito
comunista. L'antifascismo, in base alle imputazioni riportate nei fascicoli che sono stati eaminati, si
83
ACS, TSDS, Fascicoli processuali. b. 581, f. 6193, Tribunale speciale, Ordinanza del 4 maggio 1938.
Ivi, Tribunale speciale, Pubblico ministero, 30 aprile 1938.
85
Dal Pont, Antifascisti italiani, cit., quaderno 18, p. 274, T. M..
86
I processi celebrati dal Tribunale speciale furono oltre 5600, dei quali quasi 4600 terminarono con condanne per un
totale di 3 ergastoli e 27.735 anni di carcere. Su queste cifre, come spiega Giovanni De Luna, si è sviluppato un
dibattito storiografico che inizialmente ha messo in discussione la loro precisione per poi giungere solo a
ridimensionarne la portata di qualche decina d’unità; cfr. De Luna, Donne in oggetto, cit., pp. 17-20.
84
82
era manifestato attraverso scritte, grida, lettere ed offese pronunciate pubblicamente da individui un
po’ avanti con l’età. Nei restanti casi, invece, i reati erano contestati a soggetti generalmente giovani
- solo uno aveva quaranta anni, gli altri tutti tra i trentadue anni ed i ventitre - che avevano palesato
la loro appartenenza al partito comunista attraverso la partecipazione a riunioni, la distribuzione di
materiale illegale, l’organizzazione di sottoscrizioni per il Soccorso rosso o il favoreggiamento di
espatri clandestini. Tutti reati riferibili ad una effettiva militanza nell’organizzazione cospirativa, e
non ad una vaga simpatia per il comunismo magari espressa con una scritta, un canto o un disegno.
Gli esiti processuali determinati dall’insorgere di forme di psicosi potevano essere diversi:
dalla sospensione del giudizio per infermità mentale - disposta dal giudice istruttore all’assoluzione per riconosciuta incapacità di intendere e volere al momento dei fatti. F., ad
esempio, un giovane friulano arrestato insieme al fratello durante un’indagine su un gruppo
comunista operante tra la primavera del 1930 e quella del 1931, venne assolto «per totale infermità
di mente» al momento del reato, e conseguentemente ne venne disposto l’internamento in
manicomio per almeno due anni.87 Nel caso di G., invece, un contadino istriano di trentuno anni
arrestato nel 1940 per appartenenza ad un’organizzazione “slavo-comunista”, il processo si
interruppe dopo la sospensione del giudizio per infermità mentale - secondo quanto disposto
dall’articolo 88 del codice penale - e l’imputato venne internato ad Aversa.88 Molto singolare la
vicenda che accomunò due comunisti vicentini: E. e G., poco più che trentenni, il primo falegname
ed il secondo bidello in una scuola elementare. Tutti e due, arrestati dall’OVRA durante la stessa
indagine, appartenevano ad un gruppo che, sin dai primi anni trenta e fino al novembre del 1937,
aveva dato vita ad un’efficiente rete cospirativa che si era anche spinta a rubare da una stazione di
carabinieri alcuni elenchi degli antifascisti inseriti nel “Bollettino delle ricerche” - poi spediti al
centro del partito comunista a Parigi - nonché ad organizzare l’espatrio di alcuni giovani diretti in
87
Il gruppo si era reso responsabile della diffusione di stampa clandestina: “L’Unità”, “Compagna” e “Battaglie
sindacali”. F. durante gli interrogatori negò ogni addebito. Dopo qualche mese dall’internamento sopraggiunse
l’amnistia del 1932 ed egli venne trasferito in un manicomio civile, dove si trovava ancora nel 1941. cfr. ACS, TSDS,
Fascicoli processuali, b. 338, f. 3370, L. F., Commissione istruttoria del Tribunale speciale, Sentenza in camera di
consiglio del 14 luglio 1931; Tribunale speciale, Sentenza del 23 novembre 1931; cfr. anche Dal Pont, Antifascisti
italiani, cit., quaderno 11, pp. 273-274, L. F..
88
I capi di imputazione si riferivano a reati commessi tra il 1933 ed il 1934. Il gruppo aveva promosso la diffusione di
stampa clandestina, l’esposizione di bandiere rosse ed anche l’incendio della sedi di una colonia fascista, del municipio
di Cosina Erpelle e di una scuola italiana. L’11 agosto del 1943 il processo venne trasferito alla procura militare presso
il tribunale militare di Trieste. Il procedimento, ancora nel dicembre del 1943, restava sospeso per il perdurare dello
stato di infermità di G.. Lo scambio di queste informazioni, dato che l’Italia ormai si trovava divisa in due, ci fa
presumere che, già prima della creazione della RSI, Giovanni fosse stato trasferito in un ospedale psichiatrico del nord
del paese; cfr. ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 727, f. 7761, Fascicolo processuale collettivo, Le notizie
sull’attività del gruppo sono state desunte dai diversi interrogatori; cfr. anche ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 727,
f. 7761, Fascicolo processuale personale, S. G., Procura Generale Militare, 23 novembre 1943 e Procura di Stato di
Capodistria, 16 dicembre 1943; cfr. anche Dal Pont, Antifascisti italiani, cit., quaderno 16, p. 230, S. G..
83
Spagna, dove si sarebbero arruolati nelle Brigate internazionali.89 E., «colpito da crisi fisiopischica»
durante l’istruttoria, venne giudicato affetto da infermità mentale e ne venne ordinato
l’internamento in un manicomio giudiziario.90 Anche G. cominciò a dare segni di squilibrio durante
l’istruttoria. La raccolta di informazioni sul suo conto, però, produsse un quadro discordante,
introducendo probabilmente nei giudici il sospetto che si trattasse di un caso di simulazione, o,
quantomeno, di un caso dubbio. La perizia psichiatrica non aveva dichiarato una sua totale infermità
ma solo un “vizio parziale di mente”: in una certa misura, quindi, doveva essere considerato
punibile.91 Così, il 2 settembre del 1938, mentre il processo ad E. sospeso, G. venne rinviato a
giudizio. Con il suo arrivo nel carcere di Regina Coeli, si fece sempre più agitato, costringendo il
medico a rinchiuderlo nell’infermeria del carcere e poi a chiederne l’internamento in manicomio. 92
Portato ad Aversa per nuovi accertamenti, alla fine del 1938 anche il suo processo venne sospeso,
perché riconosciuto affetto da una «psicopatia a carattere dissociativo» che lo rendeva «incoerente
nel pensiero, balordo nella condotta, disordinato e spesso impulsivo negli atti». Un anno dopo
venne dichiarato «non imputabile per vizio totale di mente», mentre la sentenza di rinvio a giudizio
venne revocata.93
89
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 611, f. 6520, Fascicolo processuale collettivo, Ispettorato generale di PS, 18
gennaio 1938, In allegato il rapporto del commissario aggiunto di PS, Settore della Venezia Euganea del 15 gennaio
1938. I giovani espatriati ed arruolatisi nelle Bg. Int. erano Giuseppe Casetto ed Eugenio Piva. Per le notizie sulla loro
presenza in Spagna cfr. AA. VV. La Spagna nel nostro cuore, cit., pp. 126 e 368, ad nomen.
90
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 611, f. 6520, Fascicolo processuale collettivo, Tribunale speciale, Sentenza
della commissione istruttoria, 5 settembre 1938. E. venne poi ricoverato in osserazione nel manicomio giudiziario di
Reggio Emilia. All’inizio del febbraio 1940 il Tribunale Speciale lo prosciolse definitivamente dai capi di imputazione
per infermità psichica e dispose per lui l’internamento in manicomio giudiziario per almeno due anni, ma stavolta come
misura di sicurezza. Nell’estate del 1942 si trovava ancora internato; cfr. ACS, CPC, b. 4523, f. 132024, Ministero di
grazia e giustizia, 24 febbraio 1940 e Prefettura di Vicenza, 4 maggio 1942.
91
Durante un interrogatorio G. disse di essere «periodicamente» soggetto a disturbi della memoria ed a «crisi di
infermità mentale». Alcune persone che lo conoscevano, chiamate da lui a testimoniare, si dissero stupite dalla sua
attività cospirativa - dato che da tutti era ritenuto persona di scarsissima intelligenza - ma nessuno fece menzione di una
sua possibile infermità psichica. Il suo medico, tuttavia, dichiarò che in passato G. era stato operato al naso perché
soffriva di una sinusite cronica che gli causava delle intense cefalee. L’intervento aveva però solo eliminato i disturbi
respiratori, non il mal di testa ed i «conseguenti disturbi mentali». Il medico del carcere di Venezia, che aveva
attentamente osservato il detenuto, dichiarò invece che G. non aveva mai dato segni di «manifestazioni psicopatiche di
qualsiasi genere» ed era da considerarsi «perfettamente sano di mente»; cfr. ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 611,
f. 6520, Fascicoli processuali personali, C. G., Esame di testimonio senza giuramento, 19 marzo 1938; Processo
verbale di interrogatorio, 1 aprile 1938; Esame di testimonio senza giuramento, 8 aprile 1938; Tribunale speciale,
Ufficio istruzione, 28 aprile 1938; Perizia psichiatrica sullo stato di mente, 1 giugno 1938.
92
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 611, f. 6520, Fascicoli processuali personali, C. G.; Direzione carceri
giudiziarie di Roma, Ufficio medico, 8 ottobre 1938;
93
Ivi, Direzione carceri giudiziarie di Roma, Ufficio medico, 8 ottobre 1938; Tribunale speciale, procuratore generale,
23 ottobre 1938; Tribunale speciale, Ordinanza del 27 dicembre 1938; Tribunale speciale, Commissione istruttoria, 21
dicembre 1939. Nel fascicolo sono presenti anche alcune lettere della madre e del fratello tendenti a dimostrare la sua
scarsa intelligenza ed a richiederne la liberazione, tramite grazia, o il trasferimento dal manicomio giudiziario di Aversa
a quello civile di Vicenza. I familiari coinvolsero anche l’arcivescovo di Firenze - al quale, probabilmente, li legava una
conoscenza comune - che scrisse una lettera di suo pugno. Nel febbraio del 1942 Giovan Battista venne dimesso dal
manicomio di Aversa «per revoca della misura di sicurezza», incorsa probabilmente dopo un riesame della pericolosità.
Si trasferì allora a Lecco, presso i suoi familiari, e cominciò a lavorare come manovale; cfr. ACS, CPC, b. 1192, f.
132006, Ministero di Grazia e Giustizia, 20 febbraio 1942 e Prefettura di Como, 23 aprile 1942.
84
Due ordinanze di internamento in manicomio all’interno dello stesso processo rappresentano
una percentuale elevata, specie se si considera che erano ventitré le persone coinvolte nelle indagini
sul gruppo vicentino. Questa “eccezionalità”, probabilmente, può essere spiegata pensando al clima
di intimidazione e di violenza che si respirava durante gli interrogatori, e questo introduce una
necessaria riflessione sugli effetti psichici provocati sugli imputati.
Il funzionamento del Tribunale Speciale «era strettamente legato a quello dell’OVRA». 94
Gli stessi uomini della polizia segreta del regime si occupavano di interrogare gli imputati.
Possiamo presumere che gli inquirenti a volte trovassero nello scopo perseguito - la necessità di
sgominare un nemico che operava in clandestinità - l’elemento in grado di giustificare, o incitare,
ogni tipo di violenza. I casi di decesso avvenuti durante le istruttorie, noti e meno noti,
contribuiscono a ricostruire il grado di brutalità e di arbitrio a cui potevano essere sottoposti gli
imputati nei momenti immediatamente successivi il loro arresto. Di due di questi decessi, avvenuti
dopo i fatti di Empoli, abbiamo già detto. Morti che, come quella del giovane comunista Gastone
Sozzi - trovato impiccato il 6 febbraio del 1928, a 25 anni, nel carcere di Perugia - spesso venivano
celate dietro la motivazione ufficiale del suicidio.95 Con questa motivazione, ad esempio, che
concluse anche l’istruttoria del processo a carico di G., ventinovenne friulano che, arrestato insieme
ad altre 117 persone, il 6 dicembre del 1933 si impiccò «in cella» usando «una sciarpa». Nello
stesso processo era imputato anche D., che invece fu riconosciuto pazzo ed internato ad Aversa fino
al 1939.96
La violenza potrebbe quindi rappresentare la causa, o quantomeno, la concausa, non solo di
alcune morti, ma anche, come testimoniano i documenti che esamineremo tra breve, del
sopraggiungere delle manifestazioni di squilibrio mentale, come i deliri, il mutismo e la
depressione. Abbiamo già detto che le autorità politiche identificavano nel carcere la giusta
punizione mentre consideravano il ricovero in manicomio una soluzione per quanto possibile da
evitare. Va tuttavia considerato che, ed i documenti lo testimoniano, in alcuni casi di internamento
giudiziario verificatisi durante le istruttorie del Tribunale Speciale o disposti da una sentenza dello
stesso, la ricerca di un parere psichiatrico sulle condizioni mentali di un imputato sembra orientata
ad ottenere una spiegazione in grado di eliminare possibili sospetti di violenze e torture praticate
94
Longhitano, Il tribunale di Mussolini, cit., p. 85.
Gastone Sozzi, classe 1903, comunista, dopo essere fuggito all'estero in seguito ad un mandato di cattura con l'accusa
di aver ucciso un fascista, rientrò in Italia. Alla fine del 1927 venne arrestato a Milano e portato a Perugia, dove fu
sottoposto a pesanti interrogatori e a torture, alle quali oppose il suo silenzio sugli uomini e sul funzionamento
dell'organizzazione comunista clandestina (Alessandro Pertini, in una dichiarazione raccolta nei verbali della Camera
dei Deputati, sostenne che a Sozzi erano stati praticati dei clisteri di tintura di iodio). L'autopsia sul cadavere venne
negata. Per la dichiarazione di Pertini cfr. Verbali della Discussione della proposta di legge d'iniziativa popolare dei
senatori Terracini ed altri: Provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro familiari
superstiti, in Camera dei Deputati, Commissione I, Legislatura II, seduta del 23 febbraio 1955, p. 406.
96
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 492, f. 4993, Fascicolo processuale collettivo, Questura Udine, 9 dicembre
1933 e Dal Pont, Antifascisti italiani, cit., quaderno 17 p. 162, D. S..
95
85
durante gli interrogatori, attraverso il riconoscimento ex post di una condizione di infermità psichica
come causa che permettesse di interpretare i comportamenti anomali assunti dopo l’arresto, e,
conseguentemente, di sgravare gli inquirenti da ogni responsabilità sull’insorgere delle psicosi.
Lo strumento che veniva utilizzato per delineare lo stato psichico del reo era la perizia.
Dall’ultima parte dell’Ottocento in poi essa aveva progressivamente acquisito maggior peso
all’interno dei processi, sommando ai fatti criminosi altri elementi che non erano inerenti «al
delitto» ma alla personalità del reo - presentata nel «discorso psichiatrico» come «la causa,
l’origine, la motivazione» del reato - e spostando l’attenzione dal «delitto» al «modo di essere»
dello stesso reo, facendo così «apparire il modo di essere come nient’altro che il delitto stesso». 97
Costruita seguendo regole riconosciute dal diritto e dalla scienza, sin dagli albori della
giurisprudenza dello stato unitario la perizia aveva simboleggiato il momento di «giuntura tra il
sapere medico» e quello «giudiziario». 98 Se all’inizio del ‘900 alcuni psichiatri avrebbero ancora
lamentato quanto essa fosse sottovalutata all’interno dei processi, già dopo la prima guerra
mondiale la sua importanza sarebbe stata invece riconosciuta. 99 Per la criminologia degli anni
Trenta, infine, la scienza medica e la psichiatria avrebbero rivestito un importante ruolo di supporto
alla magistratura nell’attività di separazione dell’«episodio criminoso dell’anomalo» - reso tale
dalla «speciale natura degenerativa della costituzione delinquenziale» - da «quello del folle». Anche
dal giudizio dei periti sarebbe perciò sempre più dipesa «l’efficacia della giustizia penale».100
Le perizie dovevano rispondere innanzitutto a domande standardizzate e miranti a stabilire
se - ed in quale grado - il soggetto era affetto da infermità mentale, se lo era al momento dei fatti e
se doveva essere considerato come socialmente pericoloso. La loro struttura seguiva un percorso
prestabilito che si snodava attraverso l’analisi delle notizie raccolte dagli atti processuali,
dall’esame dell’imputato - ovvero i rilievi antropologici, le note somatiche e neurologiche,
l’anamnesi del periziato e quella della sua famiglia - e dall’analisi di dati raccolti durante alcuni
eventuali esami sperimentali, compreso, in qualche caso, il ricorso ad ipnosi o alla provocazione di
shock emotivi o convulsionali. Ma le perizie potevano contenere anche memoriali degli internati in
osservazione scritti su indicazione degli psichiatri, così come notizie provenienti dai diari clinici di
cartelle ospedaliere relative a ricoveri precedenti, lettere o istanze del “malato” e persino articoli di
giornale. La letteratura scientifica rivestiva un ruolo importante nell’opera di convincimento delle
corti e spesso veniva abbondantemente citata. A volte, il parere degli psichiatri più illustri poteva
essere utilizzato per azzerare le conclusioni che, sullo stesso caso, erano state precedentemente
97
Foucault, Gli Anormali, cit., pp. 24-25.
Miletti, La follia nel processo, cit., p. 331.
99
Giovanni Mingazzini, Saggi di perizie psichiatriche ad uso dei medici e dei giureconsulti, Unione tipografico-editrice
torinese, Torino 1908, p. VII, introduzione.
100
Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., pp. 265-267.
98
86
raggiunte da altri periti.101 Alla fine di questo lungo ed articolato percorso di indagine, peraltro, le
risultanze non sempre venivano seguite pedissequamente dai tribunali, tantomeno dal Tribunale
Speciale.102
La natura stessa dell’indagine peritale faceva emergere alcuni interessanti aspetti. Il primo
riguarda le convinzioni dominanti all’interno del mondo psichiatrico dell’epoca e la ricerca - tramite
l’anamnesi fisica o familiare - di fattori che indicassero la follia attraverso l’esistenza di segni
distintivi, come i caratteri atavici di tradizione lombrosiana, le cause ereditarie, i precedenti ricoveri
e i fattori degenerativi presenti in genitori, fratelli o parenti vari. Altro importante elemento
d’indagine riguardava la possibile preesistenza di fattori traumatici; da questo punto di vista, anche
in alcune delle perizie esaminate, emerge chiaramente come la prima guerra mondiale avesse
rappresentato un evento traumatico centrale per molti. Trattandosi inoltre di perizie su rei politici,
molto interessanti appaiono le domande volte a scoprire nei detenuti in osservazione non solo la
consapevolezza del reato commesso, ma anche rispetto alla propria personalità ed agli elementi che
caratterizzavano la loro “devianza politica”. Nei casi degli schedati genericamente come
antifascisti, questa parte di indagine contribuisce a far emergere le opinioni del mondo psichiatrico
rispetto sull’interazione tra comportamenti devianti (come l’abuso di alcool o l’assunzione di
droghe), fattori razziali (intesi come elementi oggettivi di abnormità ed inferiorità psichica) e
manifestazioni delittuose del dissenso politico.103 Nei casi di soggetti provenienti dalla cospirazione
101
Nel caso di R., ad esempio, il sospetto simulatore di cui abbiamo parlato all’inizio del capitolo, il terzo psichiatra che
lo ebbe in osservazione (dopo i primi due periodi passati al Santa Maria della Pietà di Roma e terminati con il ritorno in
carcere e la dichiarazione di simulazione) convintosi che in realtà non si trattasse di un simulatore ma di un pazzo
“vero”, costruì la sua perizia intorno a quanto sostenuto da due «dei grandi maestri» dell’epoca: Emil Kraepelin ed
Eugenio Tanzi. Soprattutto le parole di Tanzi, diceva lo psichiatra, sembravano «scritte apposta per distruggere tutte le
affermazioni» fatte dai colleghi; cfr. ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 379, f. 3608, fascicolo processuale personale,
B. R., Relazione di perizia psichiatrica sul detenuto, 20 dicembre 1931, p. 20. Eugenio Tanzi, psichiatra triestino,
direttore del manicomio di Firenze, nel 1905 scrisse il suo Trattato di psichiatria, edito nuovamente nel 1914 e nel
1923, che avrebbe rappresentato «il testo di riferimento per la formazione degli psichiatri» nella prima parte del 900.
Emil Kraepelin, invece, era uno psichiatra tedesco che aveva promosso un metodo scientifico di classificazione delle
malattie mentali basato sull’osservazione clinica dei malati, molto concentrato sulle visite e sui colloqui. Le sue idee
inizialmente erano state osteggiate dal mondo psichiatrico italiano, legato a tipologie di classificazione vicine
all’osservazione anatomica. Successivamente, in coincidenza con la pubblicazione dell'edizione italiana del suo trattato
di psichiatria, nel 1907, le sue tesi sarebbero state definitivamente accettate; cfr. Babini, Liberi tutti, cit., pp. 23-33.
102
Nel caso di L. - muratore siracusano ma residente a Roma che, in una lettera del marzo del 1932 indirizzata al
ministero della guerra, aveva oltraggiato «le Istituzioni costituzionali» - il Tribunale Speciale dispose l’internamento in
manicomio per almeno due anni nonostante la perizia psichiatrica avesse affermato che «non» si trattava di un soggetto
«pericoloso per la società», in quanto «frenastenico» che presentava «manifestazioni prevalentemente grafiche ma mai
fatti impulsivi motori»; cfr. ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 386, f. 3735, D. L., Questura Roma, 8 aprile 1932;
Verbale di perizia, 25 giugno 1932; Tribunale Speciale, Sentenza del 4 luglio 1932. Le lettere sono conservate nel
fascicolo. Nel 1942 sarebbe risultato ancora internato in manicomio; cfr. Dal Pont, Antifascisti italiani, cit., quaderno 7
p. 297, D. L..
103
Secondo la perizia sul bresciano E. - diplomatosi da tecnico ma operaio per scelta, volontario nel 1914, a 22 anni, sul
fronte francese, tornato dalla guerra con una profonda ferita al collo da baionetta e il braccio destro annichilito da una
scheggia di granata, poi volontario a Fiume con D’Annunzio ed aderente al “primo” fascismo «con slancio ed
entusiasmo» (da cui però si allontanò presto) - i fattori che, unitamente ad una forte insolazione che lo aveva colpito da
ragazzo, contribuivano a spiegare la sua infermità mentale erano l’abuso di alcool e l’assunzione di cocaina: sostanze
che avevano allentato i suoi freni inibitori trasportandolo in uno stato di «deficienza sentimentale». Tra il 1918 ed il
87
comunista, invece, emerge l'opinione di una parte della scienza sulle possibili cause psichiche che
portano un soggetto ad aderire all’ideologia nemica per eccellenza. Cause che, per alcuni, dovevano
essere ricercate nella debolezza mentale o nella suggestionabilità, per altri nell’egoismo, nel
narcisismo o nella smania di protagonismo. In fondo, dal momento che, rispetto alla responsabilità
penale, non erano considerabili capaci di intendere e volere, non potevano esserlo nemmeno quanto
alla consapevolezza della scelta ideologica. Questo spiega come mai, durante una visita
d’osservazione del giovane comunista R. - il sospetto simulatore di cui abbiamo parlato all’inizio di
questo capitolo - le risposte «Per il bene dell’umanità», «Perché volevo il bene dell’umanità», «Per
difendere i deboli», «Perché non voglio la guerra» formulate in seguito alla richiesta dello psichiatra
di spiegare quali fossero «le sue idee e le sue intenzioni» - cosa intendesse, insomma, per fare il
comunista - vennero considerate come frasi «astratte e più o meno stereotipate»; non una
dichiarazione d’appartenenza ma un segno di deficienza mentale. 104
L’isterica.
L. - trenta anni, operaia, «capelli castani alla garçonne», uno dei simboli della nuova
femminilità diffusosi nel dopoguerra - venne arrestata il 16 giugno del 1927.105 Era accusata,
insieme ad altre 81 persone, di aver fatto parte di un gruppo clandestino del partito comunista che si
1931 era stato condannato 10 volte per oltraggio alla forza pubblica e 3 volte per offese al capo del governo, mentre dal
1924 al 1931 era stato ricoverato 14 volte per psicosi alcoolica. Dopo l’ultimo arresto, avvenuto nel giugno del 1931 per
aver gridato in una piazza «“Il duce è un assassino», venne internato in manicomio giudiziario, a Reggio Emilia, per
due anni; cfr. ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 318, f. 3132, C. E., Perizia medico legale sullo stato di mente, 11
novembre 1931 e Tribunale Speciale, Sentenza del giudice istruttore, 19 novembre 1931. In quella su M., invece, le tare
relative all’abuso di alcolici si sommavano alle deficienze «in campo ideativo» proprie della sua cultura e «della razza».
Nato in Sudan, da una famiglia mussulmana, era passato in Libia ed infine in Italia, dove nel 1888, a venti anni, si era
fatto battezzare. Qui aveva cambiato nome e si era sposato con un’italiana, nonostante l’opposizione della famiglia di
lei. Trasferitosi a Roma con la moglie, era stato già ricoverato in manicomio tra il 1911 ed il 1913. La notte del 10
novembre del 1930 venne arrestato da alcuni militi in borghese che, saliti su un vagone di terza classe per ragioni di
servizio, gli si sedettero accanto per conversare. Dopo l’arresto dissero di averlo sentito pronunciare frasi contrarie al
regime e di aver sostenuto di doversi recare a Roma per “staccare la testa” a Mussolini. Il processo passò prima per il
tribunale ordinario e poi a quello speciale e durò quasi due anni. La moglie morì prima che Mario venisse
definitivamente prosciolto per infermità psichica, con sentenza del Tribunale speciale del 4 luglio 1932. Internato nel
manicomio giudiziario di Aversa ed ormai molto anziano, vi morì nell’ottobre del 1933. ACS, TSDS, Fascicoli
processuali, b 35, f. 3861 A. M., Perizia sulle condizioni mentali di A. M., 22 giugno 1932 e Tribunale Speciale,
Sentenza del 4 luglio 1932; cfr. anche ACS, CPC, b. 7, f. 83535., Prefettura Bari, 23 febbraio 1939. Sin dall’inizio del
1930 il ministero dell’interno aveva cominciato a convincersi della pericolosità costituita dalla presenza nelle zone
metropolitane d’Italia di indigeni provenienti dalle colonie, che, sprovvisti di lavoro o di mezzi, si dedicavano al
«vagabondaggio». Questa preoccupazione in parte potrebbe spiegare le dinamiche dell’arresto: riconosciuto un uomo di
colore in viaggio in treno, i militi di servizio in borghese si sedettero vicino a lui, ne conquistarono la fiducia e poi lo
stimolarono a parlare dell’economia, del governo e del capo del fascismo; per le notizie relative alla posizione del
ministero sui sudditi coloniali in Italia cfr. Gianluca Gabrielli, Africani in Italia negli anni del razzismo di Stato, in
Burgio, Nel nome della razza, cit., p. 203.
104
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 379, f. 3608, fascicolo processuale personale, B. R., Relazione di perizia
psichiatrica sul detenuto, 20 dicembre 1931, pp. 14-15.
105
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 202, f. 1550, M. L. (1928), Questura Milano, 16 giugno 1927. Per una
descrizione dei suoi tratti somatici cfr. ACS, CPC, b. 3392, f. 92296, Prefettura di Milano, 18 ottobre 1929.
88
era contraddistinto per la propaganda tramite opuscoli, giornali e manifesti «stampati alla macchia»
e diffusi sia tra la popolazione che tra i militari. L. si era adoperata anche per il Soccorso rosso e per
l’aiuto offerto ad alcuni compagni per attraversare la frontiera passando per Bardonecchia. Insieme
ad altri era riuscita ad allestire un vero e proprio «ufficio espatri clandestini e passaporti falsi». Il
giorno che fu arrestata, secondo la polizia aveva in casa anche «un pacco» di copie de “L’Unità”,
che le erano state consegnate con l’incarico di distribuirle in fabbrica. Era tuttavia riuscita a buttarle
«nel cesso» prima della perquisizione.106
Trasportata negli uffici della PS di Bardonecchia, durante il primo interrogatorio disse di
essersi avvicinata all’impegno politico tra il 1919 ed il 1921, entrando nelle neocostituite leghe dei
lavoratori. Negò invece l’accusa di essere iscritta al Pcdi, sostenendo che le aveva «sempre
ripugnato» vincolarsi «ad associazioni di qualsiasi genere»; a suo dire, dopo il 1921, aveva preso le
distanze anche dall’impegno politico attivo. Inoltre negò decisamente di aver aiutato ad espatriare
un tipografo, che diceva di averla avvicinata e che aveva fatto il suo nome dopo l'arresto. Ammise
solo di avergli dato del denaro per procurarsi da mangiare, ma di non aver nulla a che vedere con il
Soccorso rosso. Ammise soltanto di aver sottoscritto per Soccorso rosso una volta, nel 1925:
possedeva ancora «un foglietto raffigurante un operaio che sporgeva un braccio dal cancello del
carcere ed esortava a non dimenticare le vittime politiche».107
L. in realtà stava bluffando. Non aveva affatto abbandonato la militanza politica dopo la
marcia su Roma, ma, come avrebbe poi lei stessa dichiarato, aveva continuato ad impegnarsi
nell’attività clandestina anche negli anni successivi, mostrando per di più una certa abilità
nell’affrontare i rischi: come quando, per superare il controllo di alcuni militi, si nascose tra i seni
una rivoltella.108
Le prime segnalazioni, raccolte dopo l’arresto e finalizzate a ricostruire la sua personalità,
più che sulla condotta sovversiva sembrarono però concentrarsi su quella morale. Secondo i
carabinieri di Milano - notizia poi smentita da una più puntuale ricostruzione del suo passato - il
marito l’aveva lasciata per «infedeltà coniugale». Ad ogni modo, a parte i «facili costumi», e
benché «di idee comuniste», i militari non la ritenevano «capace a delinquere in ordine a reati
politici».109 La questura, invece, meno propensa a farsi ingannare dalle apparenze, giustificò
l’assenza di «precedenti» con l’«astuzia e la riservatezza» di cui L. era considerata capace, grazie
alle quali, fino a quel momento, «era riuscita a sfuggire alla vigilanza della PS».110
106
Ivi, Sentenza di rinvio a giudizio del Tribunale speciale, 16 giugno 1928.
Ivi, Verbale di interrogatorio PS di Bardonecchia, 18 giugno 1927.
108
Patrizia Gabrielli, Fenicotteri in volo. Donne comuniste nel ventennio fascista, Carocci, Roma 1999, p. 175.
109
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 202, f. 1550, M. L. (1928), Carabinieri Milano, 20 settembre 1927.
110
Ivi, Questura Milano, 25 settembre 1927.
107
89
Interrogata dal giudice istruttore del Tribunale militare di Milano, che svolgeva le indagini
per conto del Tribunale Speciale, dichiarò volersi riservare la possibilità di discutere, ed
eventualmente confermare, i verbali dei lunghi interrogatori a cui era stata sottoposta a
Bardonecchia - nei quali aveva specificato circostanze, nomi, struttura gerarchica, funzionamento
ed incarichi dell’organizzazione clandestina - solo quando questi gli sarebbero stati «esibiti»,
poiché, evidentemente, non li aveva potuti leggere.111 In un successivo interrogatorio, ammise di
essere rimasta iscritta al Pcdi anche dopo il 1921 e di essere stata «la fiduciaria del partito nella
zona di Porta Ticinese», a Milano. Poi, quando le vennero presentati i verbali raccolti a
Bardonecchia, ritrattò tutto, sostenendo di aver fatto quelle dichiarazioni «perché quasi costrettavi»
dal modo in cui era stata interrogata. Il secondo confronto con il giudice terminò qui perché, come
ebbe a dichiarare la stessa L. nel verbale, si sentiva «un po’ male e non» era più «in grado di
rispondere alle contestazioni».112 Seguirono altri interrogatori che proseguirono per mesi, finché, il
21 dicembre del 1927, il medico del carcere segnalò che L. cominciava a soffrire «di disturbi a
sfondo neuropatico».113
Cosa le stava succedendo? Da una sua testimonianza raccolta nel secondo dopoguerra
sappiamo che a Bardonecchia aveva subito «tante torture quasi da impazzire». 114 Il ricordo di quei
momenti venne annotato anche nella perizia psichiatrica, quando, riferendosi agli interrogatori,
disse: «nello stato in cui mi trovavo, nel modo che mi prendevano, mi avrebbero in quei giorni fatto
dire tutto quello che loro volevano». Molto di quello che aveva riferito - aggiunse - le era stato
«estorto in uno stato di grande agitazione». A distanza di qualche settimana dal primo certificato, ne
seguì un altro, nel quale, «a scanso di qualsiasi responsabilità», il medico consigliava il ricovero
«d’urgenza» nell’ospedale psichiatrico provinciale. L. fu allora internata nel manicomio di
Mombello.115 Le notizie sulla criticità del suo stato di salute sarebbero giunte anche all’estero,
sebbene in modo frammentario e non sempre esatto, a testimonianza dei legami che aveva con il
Pcdi. Alcuni «giornali di Mosca» l’avrebbero data per «deceduta» in seguito «a presunte sevizie»
subite in carcere. Altri l’avrebbero segnalata come «impazzita». 116 Il Primo maggio del 1928, anche
la “Pravda” l’avrebbe indicata al «proletariato mondiale» tra «i compagni» da «ricordare» perché
periti «sotto la tortura».117
111
Ivi, Tribunale militare Milano, 1 agosto 1927.
Ivi, Tribunale militare Milano, 19 agosto 1927.
113
Ivi, Ufficio sanitario del carcere di Milano, 21 dicembre 1927.
114
Gabrielli, Fenicotteri in volo, cit., p. 227.
115
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 202, f. 1550, M. L. (1928), Perizia sullo stato di mente, 3 luglio 1929, pp. 2021 e 39.
116
ACS, CPC, b. 3392, f. 92296, Biglietto autografo senza intestazione, 26 maggio 1928.
117
Ivi, Copia lettera Ambasciata d’Italia in Urss, 7 maggio 1928.
112
90
Al suo arrivo nel manicomio di Mombello disse al direttore di preferire «la morte pur di non
subire gli spaventi passati».118 All’ingresso si presentò così:
Tranquilla ma con atteggiamento di sospetto: gira lo sguardo attorno investigando l’ambiente. Avvicinandosi
per interrogarla si fa emotiva ed è presa da tremori, impallidisce, ha frequenza di polso a 120-130. Riferisce a
voce bassa, con atteggiamento fisionomico di paura, e le frasi escono monche, interrotte da sospiri: la
risposta a qualche domanda è titubante, come temesse di errare. Infondendole coraggio gradualmente
risponde con una certa padronanza di sé stessa e narra una lunga storia di peripezie da parte di fascisti, dice
di essere stata coinvolta ingenuamente e per un puro sentimento di altruismo e di carità ad aiutare persone
comuniste […] le mani, quando è emotiva, sono in preda a scosse e tremori. Ha facili sudori ed attacchi
epilettici.119
Nel frattempo, il processo proseguiva. All’inizio del novembre del 1928, a più di un anno di
distanza dall’arresto, si svolse il dibattimento. L. non comparve ed il procedimento a suo carico
venne stralciato.120 Nello stesso periodo il diario clinico registrava come essa continuasse ad essere
«spesso in preda a brevi stati depressivi»: piangeva «frequentemente e si dispera[va]». Il primo
gennaio 1929 venne infine annotato che si era ormai «completamente» adattata «alla vita
manicomiale e non» chiedeva più «nulla del suo avvenire»: si era rassegnata.121
Dal momento che il direttore del manicomio insisteva perché la ricoverata si presentasse al
processo solo dopo «alcuni mesi» di cure intense, il Tribunale Speciale decise di sottoporre L. a
perizia psichiatrica, affidando il compito al primario dell’ospedale psichiatrico provinciale
milanese. Il perito - secondo quanto stabilito dagli articoli 46 e 47 del codice penale Zanardelli - era
chiamato a stabilire l’eventuale irresponsabilità della ricoverata nel momento in cui aveva
commesso i reati, e a pronunciarsi anche sulla pericolosità attuale.122
Lo psichiatra, nel rispondere ai quesiti posti dal Tribunale Speciale, tenne conto degli atti
processuali, delle informazioni raccolte dai medici delle carceri giudiziarie, dai medici della clinica
ospedaliera per le malattie professionali - dove L. era stata precedentemente ricoverata123- e,
118
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 202, f. 1550, M. L. (1928), Diario medico dell’ospedale psichiatrico
provinciale di Mombello, annotazione del 24 febbraio 1928, in Perizia sullo stato di mente, 3 luglio 1929 p. 22.
119
Ivi, p. 21-23.
120
Ivi, Verbale di dibattimento, 10 maggio 1928.
121
Ivi, Diario medico dell’ospedale psichiatrico provinciale di Mombello, annotazioni del 24 settembre 1928 e 1
gennaio 1929, in Perizia sullo stato di mente, 3 luglio 1929 (pp. 26-27)
122
Ivi, Direzione dell’ospedale psichiatrico di Mombello, 21 aprile 1929 e Verbale di perizia, 4 maggio 1929.
123
Nel 1924 L. si era ammalata «di emorragia dalla bocca» e di «intense cefalee», presentando «vertigini, tremori,
disturbi della vista, idee ipocondriache ed indebolimento organico». Al tempo lavorava come operaia addetta alla pittura
delle pelli presso un’azienda milanese. Del periodo ha ricordato che faceva «volentieri quel mestiere, malgrado il forte
mal di testa» che gli procurava, finché «una mattina» aveva cominciato «a rigettar del sangue». I suoi «principali
avevano tanta premura» per lei, e quando altre volte le era capitato di perdere sangue, gli facevano «delle camomille».
Ma con il passare dei giorni «il sangue aumentava» e L. non riusciva più «a tenere in mano il pennello», mentre alla
debolezza si aggiungeva il progressivo indebolirsi della vista. Ricoverata presso la clinica delle malattie professionali
dell’università di Milano, sarebbe stata dimessa dopo quattro mesi «assai migliorata», ma con una diagnosi che poco
sembra aver a che fare con il suo lavoro: «isterismo»; cfr. ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 202, f. 1550, M. L.
(1928), Perizia sullo stato di mente, 3 luglio 1929, pp, 7-8 e 47-48
91
soprattutto, delle osservazioni già svolte dai sanitari nel corso dei sedici mesi che aveva trascorso
nell’ospedale psichiatrico (tutti nel reparto agitati). Il 4 luglio del 1929 la perizia venne consegnata
ai giudici.124
La «peritanda» si era presentata allo psichiatra come una donna che «nulla» sembrava
mostrare «di specialmente notevole» dal «lato ereditario», se non il fatto che la madre avesse
sofferto di alcune «turbe isteriformi». Non aveva «mai abusato di alcolici» e non presentava
«infezione luetica». Cadeva con «facilità in istato ipnotico» e il suo umore era «alquanto depresso».
Da parecchio tempo - molto probabilmente in seguito agli shock subiti dopo l’arresto - «i flussi
catamenali» si susseguivano «in modo irregolare per tempo e quantità» - anche due volte al mese ed erano «accompagnati da dolori, a volte violenti, all’addome ed all’apparato sessuale interno»,
nonché «da turbe neuropsichiche». Sul suo passato psichico pesava anche un tentativo di suicidio,
messo in opera intorno ai 14 anni.125
Lo psichiatra non si era limitato solo all’esame delle notizie provenienti dalle fonti sanitarie
o di polizia, ma aveva spinto L. a parlare di se stessa, invitandola a scrivere «in rapida sintesi le
vicende della sua vita»:
Da bambina i miei giochi erano preferibili con i maschi, arrampicarmi sugli alberi era il più bel
divertimento […] poi morì la mamma e provai la sua mancanza così tanto che abbandonai il gioco, ma
siccome una mia zia che veniva ogni tanto a custodirci mi pareva che non mi voleva bene, e che aizzasse mio
padre […] presa dallo sconforto bevi dell’acido solforico ed il giorno dopo mi trovai all’ospedale […] all’età
di sedici anni feci un cambiamento, mi son messa di fare il mio corredo, sognavo una felicità di un
matrimonio e divenni seria e guai se un cliente [il padre gestiva una piccola trattoria, nda] osava trattarmi
ancora da bambina; così mi fidanzai ma provai il primo dolore, la morte della mia sorella, e per maggiore
compagnia, appena finito il lutto, a 17 anni e mezzo mi sposai coll’uomo del cuore, fu un matrimonio
d’amore […] appena mi son sentita madre ero felice e pure mio marito, feci una gravidanza brutta, stavo
sempre male, e quando venne alla luce la mia bambina dopo tre giorni mi venne il mal di testa tanto forte.
Nel frattempo era scoppiata la prima guerra mondiale. Nella sua memoria quel periodo si
associava al dolore ed alla tristezza provocata dalla perdita sia della figlia che del marito:
l’attai la mia Tosca anche contro il divieto del medico, perché mi trovava tanto anemica ed avevo sempre il
mal di spalle; l’attai la piccola fino a sette mesi ma venne gli aeroplani a Milano ed una bomba è esplosa a
cinque o sei metri lontano dalla mia abitazione. Mi spaventai e contemporaneamente mi scomparve il latte,
tutte le volte che veniva l’allarme per gli aeroplani io mi spaventavo e per un po’ di giorni mi veniva la
febbre. Io lavoravo molto perché la guerra ci aveva tolto tutti i clienti, confezionavo i vestiti dei militari e
custodivo la bambina e la casa, ma ero tanto felice perché mio marito mi voleva tanto bene e quei sacrifici
non mi pesavano. Vedevo crescere bene la mia bambina ed intelligente, ed il solo cruccio che per tale
intelligenza mi venisse colpita da meningite e difatti il mio presentimento divenne realtà e ad un anno e
mezzo morì di meningite. Che dolore, non mi davo pace e con essa scomparve la mia felicità, per un
nonnulla mi bisticciavo con mio marito […] mio marito cominciò a raffreddarsi, io divenni gelosa, nervosa e
non passava sera che si bisticciava. Vederlo lui, parlare così calmo, io mi arrabbiavo e quello che avevo per
124
125
Ivi, Verbale di presentazione di perizia, 4 luglio 1929.
Ivi, Perizia sullo stato di mente, pp., 6-7, 17, 19 e 35.
92
mano gettavo a terra: stoviglie, bicchieri, piatti e se ero a letto mordevo le lenzuola o le stracciavo, e così
continuai per un anno. Un giorno mio marito se n’è andato.126
Come confermeranno anche altre circostanze, L. era una gran lavoratrice, rispettata sia dai
datori di lavoro che dalle compagne. Essa aveva saputo vivere a pieno lo spirito di quel periodo,
durante il quale la guerra e la mobilitazione totale avevano proiettato le donne verso un nuovo ruolo
nella società, abituandole a sentirsi più autonome. Così, nonostante alle sue sciagure si fosse
sommata anche la «completa rovina» della piccola trattoria del padre, non si era persa d’animo, era
riuscita a trovare un nuovo lavoro presso lo stabilimento farmaceutico Carlo Erba di Milano, e, da
lì, a ricostruirsi una vita. Secondo il suo racconto, l’assunzione nello stabilimento aveva coinciso
con l’inizio della sua militanza politica. Insieme alle compagne di lavoro andava ad ascoltare
comizi e conferenze, mentre la sera a volte frequentava alcuni circoli politici; magari solo per
mettersi seduta «in un angolo se vi erano dei compagni intellettuali», per «non fare brutta figura,
perché» lei - a suo dire - non sapeva «discutere». Aveva trascorso in tal modo tre anni, trovando
nell’impegno politico, come nel suo racconto teneva a sottolineare, il sollievo al suo «povero cuore
tanto oppresso» per l’abbandono del marito. A quel periodo risaliva anche la sua iscrizione al Pcdi.
Poi l’arrivo del fascismo:
Il fascismo incominciò ed io che mi trovavo nel Carlo Erba fui licenziata fra tanti perché in uno sciopero fui
arrestata. Se non fosse stato per ciò non mi licenziavano perché in fabbrica avevo una condotta esemplare,
non fui mai multata, anzi sempre lodata, ed ero io la responsabile di quella qualità di fabbricazione. Così
venne un periodo che non mi ricordo bene, so che fui molto disoccupata e che i fascisti della sede vicina non
mi davano pace ed io provavo sempre delle forti emozioni. Una sera venivano e volevano un gagliardetto,
un’altra volta mi prendevano e mi portavano in sede per delle ore, poi volevano bruciarmi la casa, insomma,
non so ma cominciai a non andare troppo in giro. 127
Di nuovo costretta a ripartire da zero, ancora una volta era riuscita a farsi assumere come
decoratrice di pelli; poi la malattia ed il ricovero nella clinica delle malattie professionali cui
abbiamo accennato. Dopo essere stata dimessa, e solo grazie alle collette delle sue colleghe e dei
titolari dell’azienda, era riuscita a «raggranellare un po’ di soldi per passare un mese in campagna»,
visto che i sanitari gli avevano prescritto il riposo. Appena trascorsi alcuni giorni, però, la noia
l’aveva sopraffatta: «pioveva sempre» e stava chiusa «in camera da sola» - ricordava - in preda alla
«malinconia». La padrona di casa allora, accortasi del suo stato, le aveva chiesto di aiutarla nelle
faccende del ristorante, così, con l’arrivo dei villeggianti, quel mese di riposo in campagna si
sarebbe ben presto trasformato in cinque mesi di lavoro.
126
127
Ivi, pp. 39-43.
Ivi, pp. 45-47.
93
Al termine della “vacanza”, aveva trovato a Milano un nuovo impiego come decoratrice, ma
in un'altra azienda, «per vedere se» le andava «via un po’ il mal di capo». Nello stesso periodo
aveva anche conosciuto un altro uomo, con il quale aveva stretto amicizia: non le piaceva «ma era
una persona molto fine», un «cavaliere». Dopo l’arresto, l’uomo le aveva scritto dicendole «che non
avrebbe mai creduto di trovarsi con una sovversiva, lui, che era così tanto per la Patria e per
Dio».128 L. gli aveva risposto con una lettera: quelle parole l’avevano fatta star male - scriveva perché si era sentita trattata come una delinquente mentre la sua coscienza era «tranquilla». In quel
«dolore nell’animo», comunque, avrebbe trovato «maggior forza», e, quasi a marcare una distanza
ormai divenuta incolmabile, diceva di attendere esclusivamente che la restituissero al proprio
«addolorato padre»; di altro non le importava più nulla.129
L’ultima parte del memoriale era dedicata all’arresto, alle violenze, al carcere ed
all’internamento in manicomio:
Mi portarono in carcere a Milano e poi a Bardonecchia, e per un mese, forse più, mi hanno torturata.
Fra quella gente là vi erano dei personaggi arcigni, mi maltrattavano, mi dicevano parolacce. Che brutto
periodo; a volte lo so bene spiegare, a volte non ci riesco, ma a Milano il giudice era tanto gentile e mi
credeva dei maltrattamenti, perché anche tutti gli altri, chi poco chi tanto, ne hanno presi, ma era me che
volevano. Pensare che tante cose non le avevo mai sentite fin quando ero nel partito, e loro volevano che io
sapevo il male perché ero una donna. Quando sono tornata da Bardonecchia il medico del carcere mi ha
offeso, io non lo volevo e faceva le visite nel stare lontano. Sono stata tanto malata in carcere, ma le suore mi
volevano bene […] dopo, non so come fu, mi portarono qui e i primi tempi non mi ricordo poi cominciai a
alzarmi un po’, ma preferisco stare accanto al mio letto. Non posso mettere piede in giardino perché mi sento
stringere il cuore, mi pare che devo scontare una pena e che andare in giardino è un abuso e poi ho paura che
qualche donna mi salta addosso. Non so ridere perché qui è un posto di dolore, perché sono in una corsia
d’ospedale e mi par di vedere il mio povero papà agonizzante. Mi sento troppo infelice, sento che sono un
nulla a questo mondo, e per me morire o vivere è uguale […] penso sempre al mio marito, alla fine della mia
casa, alla miseria, sola, senza appoggio, alla perdita del mio papà senza vederlo, ai parenti che si
stancheranno di venirmi a trovare; il tribunale, il processo, che non so cosa dire, all’avvenire, al lavoro che
mi verrà negato, insomma tutto, e finisco col piangere. Qui dormo pochissimo, quasi niente […] dopo tanti
mesi mi fanno la perizia, che ho saputo qui cosa sia.130
Contrariamente a quanto sostenuto dalla “malata”, il confronto tra quanto affermato nel
memoriale con altra documentazione prodotta da lei stessa induce a pensare che L. sapesse
benissimo cosa fosse una perizia. Alcune parti del suo racconto sembrano anzi voler quasi orientare
il giudizio dello psichiatra verso un ridimensionamento, se non della sua responsabilità penale,
quanto meno di quella “politica”. In questo senso, probabilmente, potrebbe essere letto l’accento
posto sulla separazione dal marito come fattore che l’aveva proiettata verso l’impegno nelle leghe
dei lavoratori e poi a tesserarsi al Pcdi, spingendola a sopperire alla solitudine con una militanza
quasi totale. In effetti, da una sua memoria prodotta per il partito comunista, sappiamo che l’inizio
128
Ivi, pp. 49-51.
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 202, f. 1550, M. L. (1928), Lettera di L., 14 settembre 1927.
130
Ivi, in Perizia sullo stato di mente, 3 luglio 1929, pp. 51-54.
129
94
della sua «fede politica» era stato invece segnato dal primo conflitto mondiale e dalla
partecipazione a una manifestazione pacifista in piazza Duomo, quando aveva anche schiaffeggiato
un uomo che gridava «Viva la guerra!». 131 Parlando della detenzione, inoltre, mentre allo psichiatra
aveva detto di ricordare l’ora d’aria come un’«ora brutta», perché «tutte le donne accusate di
politica erano assieme e vi era della camorra», in una lettera dal carcere aveva invece descritto così
il rapporto con le altre compagne:
siam qui una ventina di donne, tutte per il medesimo motivo, vi è una giovane madre con una piccola lattante
di otto mesi che attira veramente compassione; quante volte il nostro tozzo di pane lo passiamo a lei, per
quell’adorabile creatura. E dire che ci accusano di comunismo, quì dentro si impara a diventarlo.132
Il tentativo dissimulatorio probabilmente in parte riuscì, tanto che lo psichiatra affermò che
durante gli interrogatori L. si era dimostratasempre «sincera» e mai aveva «cercato di impietosire il
perito», pur interessandolo «vivamente» intorno ai suoi «svariati» e «proteiformi disturbi». Ella gli
si era presentata «sempre corretta nel vestire», curando anche «in modo speciale certi particolari
della toletta», senza comunque mai perdere la «sua fisionomia» sempre «atteggiata a timore».
Dall’esame fisico erano invece emerse «parecchie note degenerative», come «la grande apertura
delle braccia» - che era «superiore alla statura» - il «predominio della faccia sul cranio», la
«bassezza della fronte» e «il sistema dentario del tipo lemurico», le cui «stigmate» - diceva lo
psichiatra quasi riprendendo antichi pregiudizi sulla collateralità tra segni di natura ferina,
anormalità e malvagità - erano peculiari ai «frenastenici» e ricordavano «proprietà morfologiche
animalesche». Le sue particolari «degenerazioni somatiche» - che costituivano caratteri atavici trovavano «riscontro nel di lei sviluppo mentale», tanto che, «anche tenendo conto della sua bassa
cultura», proprio «dai suoi discorsi» e dal stesso suo memoriale risultava chiara al perito «la
deficienza» del «patrimonio mentale» dell’imputata. A questa «deficienza» doveva inoltre
associarsi la sua già documentata «isteria», malattia di cui aveva sofferto la madre e che le era già
stata diagnosticata, come abbiamo visto, al termine del ricovero nella clinica delle malattie
professionali.133
131
Gabrielli, Fenicotteri in volo, cit., p. 154.
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 202, f. 1550, M. L. (1928), Perizia sullo stato di mente, 3 luglio 1929, p. 52 e
Lettera del 14 settembre 1927.
133
Ivi, Perizia sullo stato di mente, 3 luglio 1929, pp. 56-62; sul tema delle “stigmate dell’infamia” durante le epoche
precontemporanee cfr. Giacomo Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal
medioevo all’età moderna, il Mulino, Bologna 2007. Durante la perizia a L. sopraggiunse «uno stato crepuscolare», e
«cioè un attacco di breve durata di offuscamento della coscienza», provocato dallo psichiatra con delle «recriminazioni
alquanto vivaci» che ne avevano aumentato lo stato di agitazione. Dopo la crisi era rimasta «col corpo abbandonato, il
respiro tranquillo, rallentato il polso gli occhi chiusi ed i globi oculari ruotati lateralmente, quasi immobili». Appena
svegliata «sembrava ancora sonnolenta» e «guardava intorno con aria smarrita, senza sapere» cosa le fosse «avvenuto».
Un’altra volta un attacco «convulsivo di natura istero-epilettica» le era sopraggiunto durante i primi giorni di
osservazione ed era stato «preceduto da stato di malumore e preoccupazione per il suo avvenire». Casualmente il
132
95
La «grave costituzione isterica», insieme all’accennata «imperfetta organizzazione mentale»
di L., costituivano «anomalie psichiche» che si integravano a vicenda e che «per loro natura» si
dovevano «considerare come congenite». Tutta la sua vita stava «a chiarire questo». Anche dai suoi
discorsi e dal suo scritto appariva «chiara la di lei povertà di critica, la sua impressionabilità, i
tentativi di richiamare fortemente l’attenzione su di essa», l’«eccessiva mobilità», l’«impossibilità
di ben condurre a termine una cosa seria», il suo «carattere bizzarro», la sua «sensibilità eccessiva e
sproporzionata agli avvenimenti», i «facili ed irriflessivi entusiasmi» e, senza che in questo ci fosse
antinomia, la «propensione agli atti criminali ed alle azioni umanitarie». La sua condotta «riguardo
la famiglia e la società» rivelava «una tendenza alla contraddizione» e al sentirsi «attratta a tutte le
opinioni e teorie» che la potessero «mettere in evidenza, all’imitazione, alla suggestione ed
all’autosuggestione». Il suo racconto aveva chiarito «come e perché» aveva cominciato «ad
occuparsi di questioni sindacali, di socialismo, di comunismo». Erano state «la violenza delle
emozioni, la vivacità degli affetti, l’intensità dei desideri» ad averla spinta «ad affaccendarsi oltre la
vita domestica». Le sue azioni, continuava la perizia, avevano «sempre avuto l’impronta del
fanatismo, della intemperanza», e, «pur di raggiungere l’intento» che di volta in volta si era
prefissata, aveva sprezzato «gli scrupoli morali» e si era valsa «di mezzi illeciti», associando così
alla sua «deficienza intellettuale» anche i segni di una «deficienza morale». Andava inoltre
considerato «che gli anormali come» lei erano «facili a determinarsi sotto ogni genere di influenze,
facili ad entusiasmarsi e anche ad essere deviati»; soprattutto «l’esempio» era «di grande
importanza per il loro modo di agire».134
medico si trovava di fronte a lei e riuscì a registrarlo nel diario clinico. Si era presentata «fortemente arrossata in viso e
con schiuma alla bocca, denti fortemente serrati, palpebre sbarrate con bulbo ruotato in alto». Tentava «con le mani di
stringersi fortemente il collo, come per strangolarsi, e nello stesso tempo» diventava «cianotica in viso ed in preda a
respirazione difficile e rumorosa, quasi fischiante». Cercando «di distaccarle le mani» si doveva fare «qualche sforzo
come fossero in preda ad energica contrattura». Mostrava inoltre «contorcimento del corpo: gli arti inferiori» venivano
«mossi continuamente con movimenti scomposti» e si rotolava «su se stessa». L’accesso aveva avuto la durata «di
qualche minuto» ed era stato seguito « poi da un sopore» durato «qualche ora». Il complesso di sintomi presentati,
secondo il perito, era tale da doversi considerare come «pressoché impossibile a simularsi» anche per un «esperto
nell’arte medica»; cfr. ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 202, f. 1550, M. L. (1928), Perizia sullo stato di mente, 3
luglio 1929, pp. 23-25, 58 e 60-62.
134
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 202, f. 1550, M. L. (1928), Perizia sullo stato di mente, 3 luglio 1929, pp. 5564. In questa ricostruzione della personalità di L. il perito sembra “tradire” la sua visione - e quella della società del
tempo - rispetto al ruolo della donna, specie riguardo ai motivi che l’avevano portata “ad affaccendarsi oltre la vita
domestica”. Franco Basaglia, molti anni dopo, parlando dell’ «alleanza originaria della psichiatria con la giustizia»,
avrebbe sostenuto che lo psichiatra è contemporaneamente medico e tutore dell’ordine, chiamato ad esprimere nella sua
azione non solo l’ideologia medica ma anche quella dominante in una determinata organizzazione sociale in un dato
periodo. Durante il fascismo, rispetto alla divisione dei ruoli di genere, l’idea dominante era basata su «una cittadinanza
piena» riconosciuta solo «agli uomini», mentre il ruolo delle donne veniva relegato alla «passività della sfera domestica
e privata». Nonostante l’inquadramento femminile nelle organizzazioni di massa del regime, infatti, il fascismo non si
sarebbe mai distanziato dal principio del «ciascuno al suo posto», trovando, specie dopo il Concordato, un valido alleato
nella chiesa cattolica. Ciò che andava oltre questo schema era considerabile “anormale”, come appunto l’impegno
politico - per di più illegale - di una donna. Cfr. Basaglia, Basaglia Ongaro, La maggioranza deviante, cit., p. 20; per i
riferimenti alla condizione femminile durante il fascismo cfr. De Luna, Donne in oggetto, cit., p. 45.
96
Secondo Valeria Babini, la rappresentazione dell’isterica operata dalla psichiatria aveva
favorito il passaggio, per «analogia», dal soggetto individuale “donna” a quello collettivo “folla”.
Folla e donna, psicologicamente, erano uguali e presentavano le stesse caratteristiche. Entrambe,
secondo le teorizzazioni di Scipio Sighele, avevano «una psicologia estrema», capace «di tutti gli
eccessi» e «spaventosa per ferocia». 135
Nel caso di L. l’analogia tra folla, donna ed isteria si “sublimava”. Nelle «sue manifestazioni
tumultuarie di impulsività», secondo la perizia, era stata proprio la «folla» - durante gli scioperi del
Biennio rosso - a suscitare in lei «una spiccata azione suggestiva» che l’aveva poi condotta a
tesserarsi al Pcdi ed a tuffarsi in una «cooperazione spensierata e fanatica», fatta di «opere di
propaganda» e «beneficenza» stimolate dai suoi «entusiasmi irriflessivi» e dagli «impulsi umanitari
o supposti tali». In lei erano «assenti» i «sentimenti religiosi» ed era stato notato anche come, di
fronte a domande che l’avrebbero dovuta spingere a «definire idee astratte e concezioni» che
necessitavano «di conato astrattivo», le risposte erano apparse non in linea con un soggetto
pienamente cosciente «della propria personalità e dei propri rapporti con il mondo esterno». Alla
domanda su cosa intendesse per fedeltà, ad esempio, aveva risposto che «in politica» esser fedeli
significava «non dire quello che si fa»; cosa che, dal suo punto di vista, se pensiamo ai doveri di
una militante comunista in clandestinità nei confronti dei compagni e del partito, non appare affatto
incoerente. Chiamata poi a rispondere cosa fossero lo Stato ed il governo, aveva detto che «lo
Stato» era «il governo» - anche questo abbastanza in linea con la realtà del tempo - e che «il
governo» era rappresentato dai «deputati alla camera». Dopo ripetute insistenze, e forse pensando di
evitare possibili tranelli, del fascismo si era limitata a dire che non lo conosceva, mentre per
«comunismo» intendeva «essere tutti uguali», e «nulla» - annotava lo psichiatra - «assolutamente
aggiunge[va]». In un'altra seduta, invece, in ordine ai reati di cui era accusata ed alla sua militanza
politica, aveva affermato «che il suo scopo» era stato «sacrosanto» ed «unicamente dettato dalla
smania di far del bene». Per lei «socialismo e comunismo» avevano idealmente rappresentato la
135
Valeria Paola Babini, Un altro genere. La costruzione scientifica della «natura femminile», in Burgio, nel nome
della razza, cit., pp. 484-485. La citazione di Sighele, contenuta nelle pagine della Babini, si riferisce al volume
L’intelligenza della folla, pubblicato nel 1903. L’isterica era stata «la figura femminile centrale» nella psichiatria
dell’ottocento. L’idea che le malattie mentali femminili trovassero origine nell’apparato genitale aveva stimolato anche
la diffusione di pratiche, come l’ovariectomia, che consistevano nell’asportazione delle ovaie e a volte anche dell’utero.
La riflessione teorica e la pratica manicomiale applicata alla diagnosi di isteria, però, avrebbe trovato affermazione
tanto veloce quanto veloce ne sarebbe stato il declino. Già nel primo decennio dell’ottocento, infatti, l’isteria in sé non
sarebbe stata più considerata un tipo di follia ma una semplice “forma nervosa”. Ciò avrebbe prodotto una progressiva
riduzione dei ricoveri in manicomio di donne registrate semplicemente come isteriche; cfr. Vinzia Fiorino, Matti,
indemoniate e vagabondi. Dinamiche di internamento manicomiale tra Otto e Novecento, Marsilio, Venezia 2002, pp.
149-170. La citazione è a p. 153.
97
possibilità di «vedere l’operaio, organo principale che» arricchiva «la nazione con la produttività
[…] con una paga sufficiente ai bisogni della vita».136
Lo psichiatra, nello stendere la perizia, era convinto di non trovarsi di fronte «ad una
delinquente comune». A suo dire L. non sembrava possedere un’«anima criminale», né «i caratteri
organici né le stigmate psichiche», rappresentate «specialmente da un carattere violento e dalla
tendenza di unirsi a soggetti dediti alla mala vita». Il suo «difetto etico costituzionale», però, e il
fatto che questa «deficienza morale ed intellettuale» si era unita «all’isterismo», aveva formato la
miscela dove poi i fatti delittuosi si sarebbero sviluppati. Tali anomalie erano state anche
«aggravate dai fatti di basedovismo» - una disfunzione della tiroide - e dalle «malattie infettive » di
cui aveva sofferto - pertosse, tifo e, nel 1918, una forte influenza «con fatti cerebrali» - che avevano
agito «in modo deleterio sull’organismo mentale», soprattutto perché questo già era
«originariamente debole e anomalo». Questi elementi avevano fatto sì che al momento di
commettere i reati la sua coscienza si era trovata fiaccata da una minore «attività delle immagini
inibitrici», provocata dalla sua «suggestionabilità grandissima» e dalla «autosuggestione»:
peculiarità che si potevano annoverare tra i segni propri dell’isteria. La forma di cui soffriva L.,
oltretutto, era molto grave, essendo capace di far sviluppare in lei «un esagerato e deviato senso di
sé» e una «sete di attività esteriore e di ambizione», fattori che avevano determinato «un vero
fanatismo per quelle opere e quegli atti» che le venivano ora «imputati come reati». Per tutti questi
motivi, il perito aveva concluso che L. era da «ritenersi irresponsabile», e, dato che era ancora
«soggetta a frequenti accessi convulsivi ed a stati crepuscolari con svariate turbe psichiche», era da
ritenersi anche «pericolosa a sé ed agli altri». Doveva perciò «essere curata e custodita in un
ospedale psichiatrico».137
Dopo l’acquisizione della perizia agli atti processuali, il Tribunale Speciale dichiarò il «non
luogo» a procedere ed ordinò il ricovero di L. nel manicomio di Mombello, senza previsione di
nessun periodo minimo di internamento perché, come abbiamo detto, tale indicazione sarebbe
divenuta obbligatoria solo dopo l’introduzione del codice Rocco.138 Aveva già trascorso nel
manicomio milanese un anno e mezzo, mentre il numero dei ricoverati aumentava
progressivamente. Nel 1930, la cifra degli ospiti avrebbe superato la soglia dei 3700 (erano 2700
nel 1913), giungendo a «stabilire un triste primato nazionale».139 Proprio all’inizio del luglio 1930,
L. venne dimessa e tornò libera. Ancora una volta dovette ricominciare da zero e rifarsi una vita. Si
136
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 202, f. 1550, M. L. (1928), Perizia sullo stato di mente, 3 luglio 1929, pp. 1920, 35-39.
137
Ivi, Perizia sullo stato di mente, pp. 69-70 e 74-77.
138
Ivi, Tribunale speciale, Sentenza del 24 luglio 1929
139
Del Peri, Il medico e il folle, cit., p. 1125-1127; la citazione si trova a p. 1127.
98
trasferì allora a Bovisio, dove venne assunta come domestica presso una famiglia benestante. 140 Con
lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’aumento delle necessità occupazionali legate alla
produzione bellica, venne nuovamente assunta in fabbrica come operaia presso una ditta di
produzione di gomme. Continuava sempre ad essere vigilata e non sarebbe stata radiata dallo
schedario dei sovversivi fino al la fine del fascismo.141
La sua vicenda esemplifica le difficoltà che potevano essere incontrate, in particolare dal
mondo scientifico ma più in generale dalla sensibilità comune, nell'accettare come normali i tratti di
protagonismo politico presentati da L., una donna. Le linee di divisione tra normalità ed anormalità,
infatti, non seguivano gli stessi percorsi. In una società maschilista come quella fascista subivano
anzi delle differenziazioni di genere. Se la spinta all'azione manifestata da L. avesse caratterizzato
la psicologia di un uomo, ciò non avrebbe destato nessuna associazione tra quel protagonismo ed i
segni dello squilibrio mentale. Da questo punto di vista, il giudizio morale delle autorità espresso
sui comportamenti delle donne militanti della cospirazione appare orientato verso una maggiore
intransigenza e severità. A ciò, tuttavia, sembra corrispondere una maggiore indulgenza rispetto alle
conseguenze penali che, chi era chiamato a decidere - che in ogni caso era un uomo - concretamente
prefigurava a carico delle antifasciste.
Dopo la Liberazione, come abbiamo detto, L. si iscrisse al Pci. Nel 1955, in seguito
l’approvazione della Legge n. 96 sulle “Provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti”,
inoltrò la sua richiesta di risarcimento. L. raccontò che, nel 1927, durante gli interrogatori a
Bardonecchia, era stata «brutalmente seviziata e percossa con i calci delle pistole, gettata a terra,
pestata e manganellata». Ridotta in «condizioni pietose» era stata infine internata in manicomio. 142
La documentazione presente nel fascicolo non permette di stabilire se a L. venne
riconosciuto il diritto previsto dalla Legge n. 96, che aveva il senatore Umberto Terracini come
primo firmatario. Alle richieste di informazioni presentate dal Ministero del Tesoro, il Ministero
dell'Interno rispose di non avere notizia dei maltrattamenti e la questura di Milano fece lo stesso,
poiché «a seguito degli eventi bellici» era stato distrutto tutto il carteggio tra le carceri di San
Vittore e la questura del capoluogo lombardo.143 Sorte simile aveva subito l'archivio della stazione
dei carabinieri di Bardonecchia.144 Nel gennaio del 1957, la questura di Gorizia - provincia dove L.
si trovava dal 1940 - la definiva ancora di «ferventi sentimenti comunisti», tuttavia non si faceva
notare per «particolari rilievi»: era «affetta da dolori artritici, artrite cervicale, postumi di periostite,
140
ACS, CPC, b. 3392, f. 92296, Prefettura di Milano, 21 marzo 1939.
Ivi, Prefettura di Milano, 29 novembre 1942.
142
ACS, Ministero dell’Interno, Divisione affari riservati, sez. 1, cat. 793, perseguitati politici (1956-1960), b. 63, M.
L., Ministero dell'Interno, 2 novembre 1955.
143
Ivi, Questura di Milano, 21 dicembre 1956.
144
Ivi, Questura di Torino, 4 dicembre 1956.
141
99
esaurimento nervoso, indebolimento generale organico e senso di persecuzione». Tutte infermità
che attribuiva «alle patite persecuzioni».145
L’ipersensibile.
G., classe 1894, apparteneva ad un gruppo comunista composto da italiani e slavi che, tra il
1932 e il 1933, operò nella zona di Capodistria, all’interno di quel confine orientale dove il regime vista la massiccia presenza di popolazione allogena che esprimeva una propria cultura, lingua e
tradizioni - si adoperò energicamente per l'italianizzazione.146
Il territorio “coperto” dal gruppo comprendeva più borghi ed aveva collegamenti con la
cittadina costiera. Le attività - per quanto possibile - si concentravano nella diffusione della stampa
clandestina, nella raccolta di fondi per il Soccorso rosso e nella ricerca di nuove adesioni, specie tra
i più giovani. Un membro dell’organizzazione si era anche adoperato per far espatriare
clandestinamente alcuni comunisti bolognesi. Gli incontri dei quadri, che funzionavano da
collegamento tra i paesi e le frazioni, si svolgevano nei boschi ed in altre località campestri; magari
identificabili per la vicinanza a ponti ferroviari o spacci alimentari interni a colonie agricole. Le
discussioni erano guidate dai militanti di lunga data, per lo più ex confinati, ed erano orientate
all’analisi della situazione politica internazionale - che nel frattempo avrebbe visto i nazisti salire al
potere in Germania - e della crisi economica, che veniva fatta risalire alla «sostituzione delle
macchine alla mano d’opera». Si parlava inoltre di come estendere le attività ed i collegamenti con
la zona di Trieste e Muggia.147
Durante le indagini emerse anche che il gruppo era dotato di una «macchina per la
stampa».148 Con questa, come vedremo, aveva prodotto materiale politico doppiamente proibito: sia
perché comunista, sia perché spesso scritto in sloveno, il cui uso era stato progressivamente limitato
fino a giungere, all’inizio degli anni Trenta, a quello che è stato definito un vero e proprio
«genocidio culturale», che aveva visto i fascisti impegnati in aggressioni per strada a danno di
passanti «rei di conversare nella propria lingua». 149 La vicenda di G. e dei suoi compagni, le
indagini, la raccolta delle prove, gli interrogatori ed il processo, vanno perciò visti non solo
all’interno dell’opera di contrasto alle opposizioni politiche antifasciste, ma anche nel quadro della
145
Ivi, Questura di Gorizia, 4 gennaio 1957.
Anna Maria Vinci, Costruzione dell’italianità al confine orientale, in Simone Neri (a cura di), Politiche
dell’italianità, “Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ‘900”, anno XIII, n. 1, gennaio 2010, p. 125.
147
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 395, f. 4994, Fascicolo processuale collettivo, Questura Trieste, 20 aprile
1934.
148
Ivi, Fascicolo processuale personale, F. G., Processo verbale di confronto, 15 maggio 1934.
149
Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale: 1866-2006, il Mulino, Bologna 2007, p. 181.
146
100
«nazionalizzazione forzata» della componente slava presente nei territori adriatici annessi all’Italia
alla fine della prima guerra mondiale. Anche a G. ed ad altri processati, ad esempio, negli anni
precedenti era stato italianizzato il cognome: atto che colpiva «direttamente» e in profondo gli
individui, fino ad «alterarne gli stessi processi autoidentificativi».150
G. venne arrestato il 16 febbraio del 1934. La squadra politica di Trieste lo interrogò per la
prima volta ben dieci giorni dopo, il 26. Poi il 9 marzo lo interrogò una seconda volta e il 12 marzo
altre due volte. G. ammise la sua appartenenza al gruppo, descrisse le riunioni alle quali aveva preso
parte, riconobbe di aver distribuito alcuni opuscoli scritti in sloveno titolati La voce dei contadini e
ammise di essere stato a conoscenza del nascondiglio del materiale per la stampa clandestina prima una casa, poi un covone di fieno sperduto nella campagna e poi ancora un’altra casa - ma di
non averlo mai visto di persona.151 Il 15 maggio il giudice istruttore lo sottopose ad un nuovo lungo
interrogatorio durante il quale furono raccolte undici pagine di deposizione. Nello stesso giorno fu
messo a confronto con altri due imputati.152
Col passare delle settimane e l’alternarsi degli interrogatori, G. cominciò a manifestare i
segni di «un iniziale turbamento mentale».153 Un certificato del medico del carcere giudiziario di
Trieste lo descrisse come «alquanto confuso», in grado di percepire «con difficoltà» gli stimoli,
«insonne ed agitato di notte». Ne venne quindi disposto il ricovero in infermeria. 154 Nei giorni
successivi continuò «a presentare i sintomi di disordine mentale caratterizzati da umore depresso e
rallentamento delle funzioni intellettive». Passava molto tempo «accovacciato sul pavimento, con
atteggiamento di profondo sconforto». Non parlava e la risposta alle domande era «tardissima», a
causa «delle difficoltà che il malato prova[va] per vincere l’intoppo motorio». Si nutriva
«scarsamente e solo in seguito a ripetute esortazioni. Tuttavia, il fatto che non esprimeva «idee
deliranti» faceva pensare che stesse attraversando un «periodo prodomico di una melanconia». Dato
che tale «forma di psicosi» si accompagnava anche «a dei raptus» che «spesso» si risolvevano nel
«suicidio», il medico segnalò che l’infermeria del carcere non era «attrezzata per custodire e curare
150
Paolo Parovel, L’identità cancellata. L’italianizzazione forzata dei cognomi, nomi e toponimi nella “Venezia Giulia”
dal 1919 al 1945, con gli elenchi delle province di Trieste, Gorizia, Istria ed i dati dei primi 5.300 decreti, Eugenio
Parovel, Trieste 1985, p. 20. La trasformazione dei nomi delle località e dei cognomi nel confine orientale era stata
messa in atto con il regio decreto del 7 aprile 1927, che aveva esteso quanto già previsto l’anno precedente per il
Sudtirolo. Applicando poi la legge n. 383 dell’8 marzo 1928 - che vietava l’imposizione di nomi giudicati “ridicoli”,
“amorali” o in grado di “oltraggiare l’opinione pubblica” - ai genitori dei territori giuliani venne impedito di battezzare i
propri figli con nomi slavi; cfr. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 178-179; Il decreto poi trasformato in
legge, all’articolo 1 recitava: «Negli atti di nascita è vietato imporre nomi […] ridicoli o vergognosi, o che rechino
offesa all’ordine pubblico, o al sentimento nazionale o religioso». cfr. “Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia”, anno 69,
n. 61, 13 marzo 1928, p. 1101.
151
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 395, f. 4994, Fascicolo processuale collettivo, Verbali di interrogatorio del 26
febbraio, 9 marzo, 12 marzo e 12 marzo 1934.
152
Ivi, Processo verbale di interrogatorio, 15 maggio 1934 e Processo verbale di confronto, 15 maggio 1934.
153
Ivi, Direzione delle carceri giudiziarie di Trieste, 21 giugno 1934.
154
Ivi, Ufficio del medico chirurgo delle carceri giudiziarie di Trieste, 21 giugno 1934.
101
ammalati del genere».155 Il 2 luglio del 1934, dato che le condizioni psichiche di G. restavano
invariate «e caratterizzate sempre da umore depresso, mutacismo, negativismo, insonnia», mentre
quelle fisiche erano «alquanto peggiorante» in seguito «alla scarsa nutrizione», venne richiesto il
trasferimento in un manicomio.156 Il Tribunale Speciale accolse la richiesta con una ordinanza in cui
si sospendeva il procedimento nei suoi confronti e si disponeva il ricovero in osservazione, per
procedere poi «a regolare perizia».157
Probabilmente le ragioni che ridussero G. ad una condizione prossima allo stato vegetativo
sono in buona parte spiegate in una lettera che la moglie inviò a Mussolini:
Sono una povera donna, sventurata madre di ben otto bambini, il maggiore conta appena 14 anni ed il minore
sette mesi […] Mio marito Giuseppe F. fu arrestato per sospetto di politica già nel marzo 1934, però lui era
innocente, mai fu sovversivo, era uomo che pensava soltanto al lavoro, ai suoi figli che lui amava tanto. Alla
R. Questura dove lo interrogarono fu tanto bastonato, che divenne sordo e pazzo, un uomo forte e robusto, di
lui non rimane che un’ombra, questa è maniera di trattare un povero padre. Siamo sotto i barbari? […] se uno
è colpevole sia condannato, senza prima ammazzarlo di bastonate. Il mio povero marito fu tanto percosso
che rimase subito sordo e tosto pazzo […] ora si trova nell’ospedale giudiziario di Reggio Emilia e in attesa
della morte, perché inguaribile. Ci sono altri detenuti che possono testimoniare quanto fu bastonato e quanto
fu colpita quella povera testa da quella gente inumana e senza cuore, perciò Eccellenza, io chiedo a voi che il
mio povero marito me lo ridiano a casa ch'io stessa lo curerò, e, se altro non sarà, io stessa voglio chiudergli i
suoi occhi […] mi si dia a casa tosto mio marito […] voglio vederlo ed abbracciarlo ancora, il padre delle
mie tenere creature, colui che fu il compagno dei miei giorni. Eccellenza abbiate pietà di me e dei miei
piccini, ridatemi mio marito, sebbene un cencio lavato, lo voglio; ora non potrà più portare il pane ai suoi
bimbi e ciò perché me l’hanno rovinato, ma se non avrò soddisfazione andrò camminando fino a che arriverò
ai vostri piedi a chieder giustizia ed allora sarò vendicata. Sono pazza dalla disperazione e mi sento sfinita.158
155
Ivi, Ufficio del medico chirurgo delle carceri giudiziarie di Trieste, 26 giugno 1934.
Ivi, Ufficio del medico chirurgo delle carceri giudiziarie di Trieste, 2 luglio 1934.
157
Ivi, Ordinanza del giudice istruttore, 4 luglio 1934, Procura generale del Tribunale speciale, 11 luglio 1934.
Inizialmente, date le pressioni per il ricovero immediato esercitate dal direttore del carcere, Furlani era stato trasportato
al manicomio provinciale di Trieste. Ciò era stato possibile anche perché, nella sua ordinanza di internamento, il giudice
istruttore del Tribunale speciale aveva indicato che fosse internato in un manicomio “preferibilmente” giudiziario. Tale
ambigua soluzione, che trovava però conforto nel codice di procedura penale, aveva comunque trovato rimedio nello
stesso momento dell’ingresso di Giuseppe nell’ospedale triestino, quando, trovandosi alle prese con un detenuto
politico, il direttore scrisse al Tribunale Speciale dicendo che il suo manicomio, «attrezzato brillantemente per la cura
dei malati psichici», non garantiva però «una sicurezza assoluta per i soggetti criminali o simulatori, rotti ad ogni
astuzia, e tendenti ad ogni costo all’evasione». Non c’erano «inferriate alle finestre» né la possibilità di «regolare
l’andamento ospedaliero» tenendo conto della necessità di guardare un ammalato «a vista». Per questo, nonostante
avesse già dato disposizioni per una costante vigilanza, non si assumeva «una piena responsabilità duratura per
eventuali tentativi di evasione» e consigliava il trasferimento dell’imputato in un manicomio giudiziario, «dove
l’attrezzatura e la costruzione degli edifici» davano «una garanzia assoluta» contro ogni pericolo. Fu quindi trasportato
a Reggio Emilia; cfr., nel Fascicolo processuale personale, Ospedale psichiatrico provinciale di Trieste, 9 luglio 1934.
L’articolo del codice di procedura penale che indicava il manicomio di destinazione di un detenuto in osservazione
come «preferibilmente giudiziario» era l’articolo 88.
158
ACS, CPC, b. 2203, f. 120835, Prefettura dell'Istria, 2 aprile 1935. Copia della lettera, datata 11 gennaio 1935, è
allegata. Il corsivo è mio. Contestualmente la moglie di Giuseppe inviò anche una lettera al re, nella quale ripeteva gli
stessi concetti e descriveva le stesse circostanze che avevano portato il marito alla pazzia. La richiesta di liberazione,
forse per “toccare il cuore” del sovrano, in questo caso veniva inoltre motivata con il fatto che da tempo essi non
vivevano «più sotto la defunta Austria, che martoriava gli sventurati» e che avevano conosciuto l’Italia come «uno Stato
nobile e buono»: loro «poveri istriani» - aggiungeva - «fratelli di Nazario Sauro il martire», non avevano visto «l’ora di
arrivare suoi sudditi». Gli originali delle lettere citate sono conservati nel fascicolo processuale.
156
102
La perizia venne affidata a Giulio Cremona, direttore del manicomio giudiziario di Reggio
Emilia. Le domande a cui avrebbe dovuto rispondere erano sostanzialmente quelle di rito: se al
momento dei fatti l’imputato fosse in condizioni «da escludere completamente o da scemare
grandemente» la capacità d’intendere e volere, e se, allo stato attuale, dovesse considerarsi
«socialmente pericoloso».159
Nella premessa alla sua relazione lo psichiatra spiegò subito che l’anamnesi di G. e dei suoi
familiari era stata resa possibile solo grazie alle informazioni fornite dalle autorità civili e di polizia,
poiché «nessuna informazione diretta» era stata ottenuta «dall’imputato», restato «assente e muto» a
tutte le «interrogazioni». Ad ogni modo, si era a conoscenza che uno suo zio materno era stato uno
«stravagante» ed era morto «demente» per «alcoolismo cronico», mentre, come a confermare la
stretta relazione tra alcoolismo, degenerazione e follia, veniva notato che uno dei figli dello stesso
zio materno era stato ricoverato per tre anni in manicomio. Anche «l’accenno ai diversi reati»
commessi aveva prodotto scarsi risultati: «nel suo volto» non si leggeva «alcun segno di sorpresa o
di reazione. La maschera mimica resta[va] immutata». Se «insistentemente sollecitato a rispondere»
reagiva «facendo chiaramente intendere» di voler «essere lasciato in pace», esclamando: «Non mi
disturbate! Ho già detto tutto al giudice!». Nella perizia lo psichiatra trascrisse anche un colloquio
“tipo” con G., caratterizzato dalla brevità delle risposte:
(nome?) G. F. (risponde con ritardo e dopo insistenze). (Quanti anni ha?) 40. (Sembra che senta poco. A
domanda con gesti risponde che da circa 10 anni sente poco. E’ inibito, quando gli si pone la domanda si
sforza di rispondere, muove le labbra, ma stenta molto a dare una risposta.) (Dove è nato?) A Risano.
(Mestiere?) Contadino. (Ammogliato?) Fa col capo un cenno di si. (Ha figli?) Mostra 8 dita. (Dove si trova?)
Scrolla le spalle quale segno di non saperlo. (Era in prigione?) Si, per il partito comunista. (Ha commesso
qualche azione delittuosa?) No. (E’ comunista?) Ero. (E ora?) No. (E’ stato condannato?) Fa cenno di no.
(Come si sente?) Bene. (Ha mal di capo?) No. (Anno?) 1934. (Ha dolori?) No. (Mese?) Luglio. (Sa leggere e
scrivere?) Fa un cenno di si. (Ha qualche desiderio?) Di far ritorno alla famiglia. (Vuole bene alla sua
famiglia?) Sempre.160
Dal lato della condotta morale l’imputato si era sempre dimostrato un «individuo tranquillo,
amante della casa e della famiglia, religioso, disciplinato». Non aveva mai avuto a che fare «con la
polizia o con la giustizia» né aveva mai abusato di alcool, mentre gli esami avevano escluso
qualsiasi tipo di infezione luetica. In età adulta aveva però sofferto di «una grave emozione» che
aveva lasciato residui di «disturbi nervosi»: nel 1916, soldato dell’esercito austro-ungarico in guerra
sul fronte occidentale, era stato colpito al collo da un colpo sparatogli da una trincea italiana. La
ferita - ben visibile anche dalla fotografia di G. che Cremona non mancò di inserire tra le carte della
159
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 395, f. 4994, Fascicolo processuale personale, F. G., Tribunale di Reggio
Emilia, Processo verbale di Perizia, 1 settembre 1934.
160
Ivi, Relazione di perizia sullo stato di mente, 22 settembre 1934, pp. 4, 6-7 e 14. Tra le parentesi sono indicate le
domande dello psichiatra.
103
perizia - gli aveva lasciato «una vasta cicatrice a contorni irregolari, lunga oltre 10 centimetri, con
direzione dal basso in alto, fino all’impianto del padiglione auricolare destro».161
L’esame somatico fece rilevare «spiccate note antropologiche degenerative», come
«anomalie di conformazione del cranio» di tipo «brachicefalo», un «faccia» che si presentava
«predominante» rispetto allo «sviluppo del capo» e orecchie «disuguali ed asimmetriche». Quello
della «riflessività», invece, fece riscontrare una «vivacità» delle risposte agli stimoli rotulei,
addominali ed iridei, mentre si notavano «lievi tremori nelle mani distese». Interessante, rispetto a
quella che poi sarebbe stata la diagnosi finale, appare l’«esame delle condizioni psichiche»:
La fisionomia dell’imputato è atteggiata ad un’espressione monotona di dolore, dalla quale egli non è più
capace di uscire. La fronte, gli occhi, la bocca si muovono a stento, lo sguardo è fisso, come perduto nel
vuoto, il gesto assente, la parola, scarsa, lenta, ad intonazione monotona, ridotta a volte ad un bisbiglio
incomprensibile. Può dirsi che il soggetto, durante tutto il periodo trascorso nel manicomio giudiziario a
scopo peritale, si è mantenuto costantemente in questo stato di intensa depressione dello spirito, e mai è stato
visto col volto atteggiato all’indifferenza e tanto meno al sorriso. Ci denota questa espressione tipica del
soggetto lo stato sentimentale di vivo dolore che lo travaglia, il cordoglio, l’avvilimento, l’angoscia, che sono
i segni più caratteristici degli stati depressivi.162
Durante l’osservazione G. non manifestò «nulla» che potesse far pensare «a disturbi della
sfera psicosensoria»: né «illusioni» o «allucinazioni» né tantomeno «nuclei deliranti» nella
«capacità di concepire, giudicare e ragionare». Il fatto che la sua capacità di attenzione fosse «in
grave difetto», secondo lo psichiatra si spiegava tenendo presente che «la sua mente» era «in
permanenza rivolta» a quei «fatti dolorosi» che ormai avevano occupato «il punto focale» della sua
«coscienza», tanto che questa doveva «compiere uno sforzo per rivolgersi a nuovi stimoli». Il suo
«muoversi ed agire lento», l’«atteggiamento passivo», l’«espressione permanentemente triste del
volto, la mancanza di energia e di rapidità dei movimenti mimici, l’atteggiamento abbandonato del
capo», erano inoltre tutti «segni caratteristici di una disposizione dolorosa dell’animo». Queste
«manifestazioni generali», per Cremona, non erano né «simulate né esagerate o falsate», bensì
«semplici e spontanee, e rappresenta[va]no le più evidente espressioni del suo malumore».163
Potremmo dire, più semplicemente, che era triste, drammaticamente triste.
A fronte di tutte le osservazioni, «per chiarezza ed imponenza del quadro sintomatologico»,
«il giudizio diagnostico» che sembrava più appropriato era quello di «psicosi affettiva - stato
depressivo». Non si trattava di un soggetto che poteva essere considerato come dotato di una piena
capacità d’intendere e volere poi persa perché «travolto, all’improvviso, da una disgraziata
avventura». Nel caso in esame «i disturbi» erano più «profondi» e «persistenti»; quella di G. - ripeté
Cremona - era una vera e propria «disposizione dolorosa dell’animo». La «crisi morbosa» che
161
Ivi, pp. 4-5, 9-10 e 14.
Ivi, pp. 10-11 e 13-14.
163
Ivi, pp. 13-15.
162
104
aveva fatto affiorare quella predisposizione e portato G. in quello stato depressivo era però stata
indotta dallo «stimolo adeguato di avvenimenti» vissuti nei giorni della cattura e della detenzione:
«un impulso venuto dall’esterno» che aveva «fatto scatenare una disposizione latente agli squilibri
affettivi». Contrariamente a quanto poi avrebbero affermato i giudici del Tribunale Speciale,
secondo Cremona l’infermità che aveva colpito G. risaliva «a poco tempo dopo il suo arresto». Ciò
che aveva provocato in lui un «così profondo squilibrio affettivo» doveva essere ricercato nel
«grave stato autointossicativo per il dolore e la grande preoccupazione derivatagli» dal trovarsi «di
fronte» alla «carcerazione» ed «alla giustizia punitiva». Nei soggetti normali, continuava Cremona,
«anche le emozioni più vive» di solito non turbavano «durevolmente» i «processi psichici» - e dopo
un po’ «l’equilibrio affettivo» ritornava allo «stato primitivo». Nei soggetti come G., invece,
«eccessivamente sensibili all’azione delle emozioni», il ritorno alla situazione di equilibrio era più
difficile e lento, mentre quella «ipersensibilità» si accompagnava spesso ad «un elemento
patologico» presente nella loro «costituzione».164
Il quadro, a questo punto, era completo. G. presentava una «costituzione somatico-psichica
degenerativa per eredità morbosa», dimostrata da un decesso per alcoolismo nella sua famiglia e dal
ricovero in manicomio del cugino. Soffriva inoltre di «una predisposizione alle neuro-psicopatie»
che era favorita dall’«assommarsi alle anomalie originarie del soggetto» (l’ipersensibilità) a «gravi
fattori traumatici e disintegrativi della compagine psichica» (la ferita al collo). A tutto ciò, si
aggiungeva «la psicosi in atto». Poteva dunque essere considerato penalmente responsabile?
Per Cremona non poteva certo «parlarsi di non imputabilità» o di una «inconsapevolezza
assoluta» che annullava ogni «facoltà discriminativa fra il lecito e l’illecito, l’onesto ed il
disonesto». Bisognava riconoscere - insisteva - che lo «stato psicopatico» all’epoca dei reati era
assente o per lo meno «non nella sua piena efficienza». Del resto, i continui e «particolareggiati
interrogatori» a cui l’imputato era stato sottoposto dimostravano proprio questo. Giuseppe, almeno
secondo i verbali, aveva esposto i fatti «in modo ordinato, logico e coerente». Aveva ricordato
«tutto», e «chi ricorda» - aggiungeva il perito - «è consapevole». Lo stesso discorso però non poteva
essere fatto «per una scemata capacità d’intendere e volere». A tal proposito era necessario
considerare «che qualche modificazione nelle condizioni psichiche del soggetto» si era già
verificata durante la guerra. Lo shock, infatti, aveva «trovato un terreno facilmente predisposto» ed
aveva esercitato «sull’organismo del colpito tutta la sua deleteria azione». Non bisognava
meravigliarsi, dunque, se G.
sempre buono, attaccato al lavoro e alla numerosa famiglia, di buoni sentimenti religiosi, si lasciasse
trascinare in indegne manifestazioni politiche di cui capì, purtroppo tardi, la estrema gravità […] deve
164
Ivi, pp. 16-22.
105
riconoscersi insomma, per tutte le considerazioni innanzi esposte, una certa menomazione nelle facolta
psichiche del soggetto, specie in quelle del discernere, del giudicare, del ragionare, per cui egli non poteva
avere, nella estrinsecazione della sua attività criminosa, la completa conoscenza e l’esatto apprezzamento di
quanto compiva, né una piena libertà di scelta nella determinazione agli atti che gli sono stati imputati.165
L’imputato, concluse Cremona, doveva essere riconosciuto come vittima di uno stato di infermità
tale da diminuire «grandemente» la sua capacità d’intendere e volere al momento dei fatti, ma non
di escluderla, ed era stata questa diminuità capacità mentale a farlo avvicinare alla cospirazione
comunista. Per il momento, inoltre, doveva considerarsi pericoloso e doveva restare chiuso in
manicomio.166
Almeno in parte, però, tali conclusioni potevano gettare una luce sinistra sui momenti
successivi all’arresto. Il medico aveva comunque stabilito che, in un certo senso, G. era entrato sano
in carcere e ne era uscito con una psicosi, e sicuramente nel farlo aveva ben presente quale fosse la
prassi degli interrogatori di polizia. Ciò, anche in considerazione delle lamentele della moglie circa i
presunti maltrattamenti subiti in carcere da G. - che, come abbiamo visto, aveva descritto anche a
Mussolini - poteva far sospettare che la condotta tenuta dagli agenti fosse stata eccessivamente dura
e violenta. A sgombrare il campo da ogni possibile dubbio circa l’operato della polizia, allora,
intervenne puntuale la deposizione del comandante della stazione dei carabinieri di Capodistria, che
sostenne che i «segni di anormali condizioni mentali» manifestati dall’imputato erano cominciati,
secondo il suo ricordo, «fin dall’epoca dei fatti». Circostanze poi confermate anche dal commissario
di PS che si era occupato della denuncia.167 La sentenza, alla fine, si basò proprio su queste due
testimonianze - assunte nel processo come «altri fatti nuovi emersi dopo la presentazione della
relazione peritale», dei quali, proprio perché successivi, questa non aveva potuto tener conto - per
discostarsi abbondantemente dalle conclusioni del perito. Secondo il giudice infatti - che si
richiamava ora alla perizia, almeno nella parte in cui riconosceva una predisposizione «alle
neuropsicopatie» conseguente allo shock provato durante la guerra - non esisteva nessun «dubbio»
sul fatto che, colpito da squilibrio, G. fosse stato «facile e buona preda delle speciali, insinuanti
pressioni dei dirigenti» del «movimento comunista della zona». Erano stati loro, approfittando della
sua debolezza mentale, a trascinarlo; «senza che egli avesse la precisa comprensione della portata
delle sue azioni». Il suo era perciò un caso di non imputabilità e di riconosciuta pericolosità sociale,
per il quale dispose il ricovero in manicomio giudiziario per almeno due anni.168
165
Ivi, pp. 23-24
Ivi, pp. 24-25.
167
Ivi, Estratto del verbale di dibattimento, 30 gennaio 1935.
168
Ivi, Sentenza del giudice istruttore del Tribunale speciale, 25 giugno 1935.
166
106
G. non si mosse dal manicomio di Reggio Emilia. La moglie si recò un paio di volte a
trovarlo.169 La stessa cosa fece il padre, dopo aver inviato un’istanza al Ministero dell’Interno.170
Nel luglio del 1937, allo scadere dei due anni, “superò” il riesame sulla pericolosità e venne
dimesso, dopodiché tornò a Capodistria, dove, siccome «riconosciuto affetto da vizio totale di
mente», venne iscritto «nell’elenco delle persone da arrestare in determinate circostanze»: in
occasione delle feste o ricorrenze fasciste come il natale di Roma o in occasione di eventuali visite a
Capodistria di importanti gerarchi.171 Non venne mai radiato dallo schedario dei sovversivi e la
polizia politica continuò periodicamente a stilare rapporti sulla sua condotta. Alla metà del 1940,
nonostante non avesse dato più motivo di «specifici rilievi», venne segnalato ancora come elemento
di «sentimenti comunisti» che doveva essere «adeguatamente vigilato».172
Il depresso.
Il 4 maggio del 1939, a Bologna, venne arrestato dall’OVRA un operaio «indicato come
malevole vociferatore contro le direttive del regime». In casa, durante la perquisizione, gli venne
trovato un opuscolo «di carattere turistico» sull’Unione Sovietica «idoneo ad essere sfruttato» anche
«a scopo propagandistico sovversivo». Alla fine - dopo «lunghi, pazienti, insistenti interrogatori» l’operaio disse il nome di un meccanico che gli aveva consegnato la pubblicazione; da quest’ultimo
la polizia sarebbe allora risalita a R., un falegname di trenta anni che a sua volta aveva ricevuto
l’opuscolo da un addetto ai bagagli della stazione, che lo conosceva e che - sapendo della sua
passione per la lettura - era solito passargli giornali e riviste che rinveniva nei vagoni.173
L’opuscolo, in inglese, promuoveva delle crociere sul Volga, sul Don e sul Mar Nero,
insieme a visite a Mosca, Leningrado, Kiev ed in Crimea. Era stato pubblicato nel 1938, che era
anche l’anno della «All-Union Agricultural Exhibition» aperta a Mosca in agosto e pensata per
celebrare la meraviglia dei risultati raggiunti dalla produzione sovietica. 174 Risultati pagati al prezzo
di deportazioni ed immani sacrifici a cui furono sottoposti i contadini durante quello che è stato
definito il «secondo Ottobre» dei primi anni Trenta, caratterizzato dalla collettivizzazione forzata e
169
ACS, CPC, b. 2203, f. 120835, Prefettura dell'Istria, 5 agosto 1935, prot. n. 010684.
Ivi, Prefettura dell'Istria, 5 agosto 1935, prot. n. 010968.
171
Ivi, Prefettura dell'Istria, 23 dicembre 1937.
172
Ivi, Prefettura dell'Istria, 22 giugno 1940.
173
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 645, f. 6810, Fascicolo processuale collettivo, Questura Bologna, 31 luglio
1939, pp. 1-3.
174
L’opuscolo si trova conservato nelle carte processuali nel fascicolo intestato all’operaio arrestato per primo, cfr.
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 645, f. 6810, Fascicolo processuale personale, C. Alfredo.
170
107
dalla dekulakizzazione, che, con il “culto della personalità”, avevano segnato l’inizio
dell’incontrastato potere di Stalin.175
Per la questura di Bologna, il passaggio di mano in mano di quell’opuscolo aveva soltanto
apparentemente scopi turistici. La PS concentrò le indagini su R., «che più di altri appariva
titubante». Dopo «un paziente e minuzioso esame» si scoprì - per ammissione dell’interrogato - che
sin dall’inizio del 1937 questi si era fatto promotore dell’organizzazione di due cellule comuniste,
riuscendo a mantenere i contatti con il partito anche dopo l’arresto di un primo fiduciario.176
Inizialmente, R. aveva conosciuto un barbiere, che lo aveva messo a conoscenza delle
regole della cospirazione e che - dopo avergli passato alcuni libri «sfruttabili» a «fini ideologici» lo aveva incitato a «guadagnare nuovi proseliti»; cosa che effettivamente sarebbe poi riuscito a fare,
avvicinando «alle false ideologie del comunismo» ben quattro amici, due già iscritti al PNF ed uno
alla Gioventù Italiana del Littorio.177 Nell’estate del 1937 il barbiere “cadde”, tuttavia R. rimase
«senza collegamento» solo per qualche mese, fino a quando entrò in contatto con Aldo N., il
meccanico che abbiamo già incontrato, penultimo possessore dell’opuscolo turistico poi
sequestrato. I due, in realtà, si conobbero grazie alla moglie di R., che lavorava come operaia nello
stesso stabilimento del meccanico e che «aveva già dimostrato di condividere gli stessi principi
politici». Dovendosi recare fuori città per acquistare una macchina da cucire, la moglie aveva
suggerito al suo compagno di lavoro di farsi accompagnare dal marito. Messisi in viaggio in
automobile, i due cominciarono quasi subito a parlare di politica e ad intendersi «perfettamente».
Aldo confidò al compagno di viaggio «di essere un comunista organizzato» e si offrì come tramite
per poter venire in possesso di stampa clandestina da far circolare. Insieme misero in piedi anche un
sistema di raccolta di «danaro per soccorrere le famiglie dei detenuti e confinati politici»: R.
raccoglieva le sottoscrizioni fra i membri dei suoi gruppi, poi la moglie si adoperava
«scientemente» per «far da tramite», ricevendo a volte anche documenti orientati alla propaganda di
genere, come alcuni discorsi «contro il militarismo» diretti «alla donna». 178
R. venne arrestato il 16 giugno del 1939 alle sei del mattino nella sua abitazione, di fronte a
sua moglie: erano sposati da appena un anno. Qualche settimana più tardi, sarebbe stata arrestata
anche la moglie.179
175
Cfr. Martin Amis, Koba il terribile. Una risata e venti milioni di morti, Einaudi, Torino 2005.
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 645, f. 6810, Fascicolo processuale collettivo, Questura Bologna, 31 luglio
1939, p. 4.
177
Ibidem.
178
Ivi, pp. 4-5 e 25.
179
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 645, f. 6810, Fascicolo processuale personale, S. R, Questura Bologna, verbale
di PS del 16 giugno 1939 e Ivi, Fascicolo processuale personale, B. C, Questura Bologna, verbale di PS del 20 luglio
1939.
176
108
Secondo la PS, R. si era mostrato «talmente abile» nel parlare dei «pretesi vantaggi» del
comunismo che i suoi amici avevano aderito quasi subito «al movimento». Nel suo comportamento
«accorto» si poteva inoltre ravvisare la «prova decisiva del grado di maturità politicoorganizzativa» che aveva raggiunto. Egli, infatti, oltre che con i vecchi amici - con i quali si
incontrava in «un caffè», «per strada» o all’interno di un’officina gestita da un meccanico con un
passato da motociclista - aveva anche allacciato dei contatti con un ragazzo che lavorava come
«garzone» in una macelleria che aveva coinvolto nell'opera di proselitismo. R. si era premurato fino
all’ultimo di non mettere mai i due gruppi «in rapporto fra loro», secondo una delle regole
fondamentali della clandestinità.180
Descritto come un propagandista «instancabile e deciso», tramite i suoi discorsi - che la PS
definiva «melanconie politiche» - R. aveva letteralmente «catechizzato» i suoi amici.181 Dal suo
primo interrogatorio - che confermava la sua maturità cospirativa - emerse anche che ai suoi
compagni ancora iscritti al PNF suggerì «di conservare l’iscrizione, per rendere più difficile ogni
eventuale indagine».182 Un’altra cosa molto interessante emerse dall’interrogatorio del motociclista
che ogni tanto ospitava gli incontri nella sua officina. A suo dire, dopo i discorsi di esaltazione e di
auspicio per «la vittoria dei rossi spagnoli», R. lo aveva infatti incitato più volte «a conseguire il
brevetto di pilota» per poter contribuire con la sua «opera di aviatore» alla «rivoluzione» per
«abbattere il fascismo»: rivoluzione che sarebbe scoppiata - ne era sicuro - «prima del 1940».183
Il 25 ottobre del 1939 il Tribunale Speciale chiuse l’istruttoria e rinviò a giudizio i dodici
imputati mantenendo per tutti la custodia cautelare a Regina Coeli, dove erano stati trasferiti dalle
carceri bolognesi.184 Alla fine del mese, la Direzione del carcere informò i giudici che R. era stato
portato «in osservazione» in infermeria, dove era piantonato da due detenuti.185
Il medico di Regina Coeli scrisse che «psichicamente» l’imputato presentava un «mutismo»
che veniva «soltanto raramente e per brevi istanti interrotto, in seguito ad insistenti interrogazioni».
Non gli era comunque possibile stabilire se si trattasse di «veri disturbi d’indole psichica o di
volontaria ostinazione a non parlare», e propose perciò una visita psichiatrica «specialistica».186 In
180
Ivi, Fascicolo processuale collettivo, Questura Bologna, 31 luglio 1939, p. 18.
Ivi, pp. 19-22 e 24.
182
Ivi, Fascicolo processuale personale, S. R., Questura di Bologna, Verbale di interrogatorio, 19 giungo 1939.
183
Ivi, Fascicolo processuale personale, B. L., Questura di Bologna, Verbale del 22 giugno 1939. Alla polizia il
motociclista disse che «la colpa» era «tutta» di R., che con «i suoi discorsi» lo aveva «trascinato» in quelle
«condizioni». Alla fine del processo venne condannato ad un anno di carcere; cfr. ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b.
645, f. 6810, Fascicolo processuale collettivo, Questura Bologna, 31 luglio 1939, p. 21 e Fascicolo processuale
personale, B. L., Questura di Bologna, Verbale del 22 giugno 1939. Carabinieri Bologna, 30 agosto 1939; Tribunale
Speciale, Sentenza del 12 giugno 1940.
184
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 645, f. 6810, Fascicolo processuale personale, S. R, Tribunale Speciale,
Sentenza del 25 ottobre 1939.
185
Ivi, Direzione carceri giudiziarie Roma, Fonogramma del 30 ottobre 1939.
186
Ivi, Ufficio medico direzioni carceri giudiziarie di Roma, 7 novembre 1939. Nella cella passò in visita anche il
cancelliere del Tribunale Speciale, il quale chiese a R. «se si sentiva in condizioni di intervenire all’udienza» che si
181
109
tal modo, la moglie non poté rivedere R. nemmeno il giorno dell’udienza, quando scoprì che per lui
era stata ordinata la perizia psichiatrica.187
R. fu portato al Santa Maria della Pietà e l’esame venne affidato ad Enrico Salustri, medico
primario dello stesso ospedale. Nella lettera d’incarico vennero inserite anche le motivazioni che
avevano fatto emergere la necessità di avere un parere scientifico sullo stato mentale dell’imputato,
motivazioni che facevano riferimento all’atteggiamento tenuto durante l’interrogatorio effettuato
dal giudice istruttore del Tribunale Seciale.188 In quell’occasione, R. era infatti apparso «laconico»,
quasi «inerte». Alla fine, quando era stato invitato a sottoscrivere il verbale, prima si era «chiuso in
un atteggiamento di perplessità» e poi aveva detto: «Cosa vuole che firmi, ho già firmato un’altra
volta in questura».189
Le domande alle quali il perito doveva rispondere erano le solite: grado di responsabilità o
eventuale irresponsabilità del periziando e sua pericolosità sociale. La relazione finale sullo stato di
salute mentale venne consegnata il 27 gennaio del 1940.
Rispetto al passato politico, ed utilizzando le carte di polizia, lo psichiatra aveva potuto
notare come, anche se non risultava «iscritto negli schedari dei sovversivi», l’imputato avesse
«sempre manifestato idee contrarie» al regime, anche quando, nel 1930, era emigrato per lavoro nel
Marocco francese, dove si era fatto notare per la sua «propaganda antifascista ed antitaliana». Altra
cosa che lo psichiatra aveva notato - nonostante R. avesse frequentato soltanto la terza elementare era la sua intensa passione per la lettura. 190 Tale passione lo aveva portato a leggere, oltre a testi più
classici sul comunismo sovietico o sulla vita di Lenin, anche numerosi romanzi: come La madre di
Maksim Gor’kij, Povero Cristo del cosmopolita Mario Mariani e La Terra promessa di William
Morris, dalla prefazione curata dall’anarchico Luigi Fabbri. William Morris era stato, in una sola
vita, «poeta, pittore, architetto» e «operaio», dotato di «un amore ardente per la verità» e «di un
profondo senso di umanità». Il suo «romanzo utopistico» - pubblicato per la prima volta a Londra
nel 1895 - descriveva la vita in un’immaginata «società futura». Se la «base economica» del
comunismo era «l’eguaglianza pratica delle condizioni», secondo Morris quella «morale» doveva
essere rappresentata dall’«abitudine» dell’uomo ad «aver la coscienza di essere un ente sociale, in
modo che» - diceva - «si accostumi a non far distinzioni tra il bene comune e quello
dell’individuo».191 Era stata proprio la lettura di questi testi proibiti - che R. avrebbe poi passato ai
sarebbe tenuta nei giorni successivi. Rinchiuso nel suo «mutismo», questi aveva risposto solo «balbettando qualche
parola a monosillabi ed in modo sconnesso, come: “no, dove e simili”»; cfr. Ivi, Foglio autografo del 12 novembre 1939
del cancelliere del Tribunale speciale.
187
Ivi, Tribunale speciale, Ordinanza del 14 novembre 1939.
188
Ivi, Tribunale speciale, Verbale di perizia del 13 dicembre 1939.
189
Ivi, Tribunale speciale, Processo verbale di interrogatorio dell’imputato, 17 agosto 1939.
190
Ivi, Relazione sulle condizioni di mente, 27 gennaio 1940, pp. 6-7 e 10.
191
William Morris, La terra promessa, Casa Editrice Sociale, Milano 1922, pp. 1 e 7-8, prefazione di Luigi Fabbri.
110
suoi amici - ad essersi dimostrata, come avevano già sottolineato gli inquirenti, un’efficace arma di
propaganda, al punto di far prima «vacillare» e poi crollare, ad esempio, la «fede» fascista di un
giovane già iscritto alla MVSN.192
Dall’anamnesi era risultato che R. aveva due sorellastre ed un fratellastro, «sedicente
epilettico». Erano i figli della prima moglie del padre, scomparso settantacinquenne il 4 gennaio del
1940, proprio durante il periodo in cui lui veniva periziato. La madre era invece morta anni prima.
R., dunque, se si esclude la moglie arrestata con lui, era rimasto solo al mondo. Le notizie sul suo
passato erano state perciò raccolte soltanto sulla base di quanto raccontato dal fratellastro, che
aveva detto che sin dall’«epoca dello sviluppo» R. si era «mostrato sempre un po’ nervoso» e che lo
aveva preso a lavorare nella sua bottega da falegname perché altri non lo avevano voluto «come
dipendente», proprio a causa dei «suoi scatti». 193 Nelle settimane successive all’arresto i familiari
avevano già cercato di intervenire nel processo, scrivendo una lettera al presidente del Tribunale
Speciale nella quale, oltre a dire che R. era «stato sempre un bravo ragazzo, taciturno, lavoratore ed
amante della famiglia», nel tentativo di diminuire le sue responsabilità sostenevano che era
«ammalato» e che bisognava farlo «esaminare». Cosa che, a loro parere, avrebbe convinto la
giustizia che ci si trovava di fronte ad un «anormale ed irresponsabile». 194
L’esame fisico del periziando aveva escluso qualsiasi anomalia. Il polso e la frequenza
cardiaca erano sembrati regolari, così come i riflessi, la sensibilità tattile e quella al dolore. R.
godeva inoltre di buon equilibrio - testato tramite «le prove dito-naso e calcagno-ginocchio» mentre non sembravano presenti segni di malattie luetiche. Si era «alimentato» ed aveva dormito
«regolarmente». Anche dal punto di vista psichico non c’erano state grandi anomalie da rilevare.
Durante l’osservazione non aveva mai avuto «accessi convulsivi» né «turbe psicosensoriali». Non
sentiva «voci» e non aveva «visioni». L’«orientamento per tempo, luogo, persona» si era «mostrato
perfetto», mentre la «coscienza» era stata «sempre lucida». Non presentava nemmeno «turbe della
memoria» né «idee deliranti».195 L’unica cosa che risaltava era il suo essere «taciturno». Alle
«conversazioni» R. si era presentato «ordinato ma con l’occhio smorto, i movimenti lenti e il volto
di persona afflitta». Aveva risposto «a tutte le domande a tono, ma con ritardo e lentezza notevoli».
Lasciato a sé era restato «silenzioso, anche per molto tempo». Quando aveva parlato di qualche
avvenimento della sua vita, invece, lo aveva fatto «solo per brevissimo» tempo e poi era tornato a
tacere. Non si erano mai notate, comunque, «deviazioni dall’argomento e dal discorso», né
192
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 645, f. 6810, Fascicolo processuale collettivo, Questura Bologna, 31 luglio
1939, p. 22.
193
Ivi, Fascicolo processuale personale, Relazione sulle condizioni di mente, 27 gennaio 1940, p. 10.
194
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 645, f. 6810, Fascicolo processuale personale, S. R., Lettera al presidente del
Tribunale Speciale del 12 novembre 1939.
195
Ivi, Relazione sulle condizioni di mente, 27 gennaio 1940, pp. 12-13.
111
«associazioni superficiali». Tutte le volte che lo psichiatra aveva provato a farlo parlare del padre morto da poco - «l’atteggiamento di depressione» si era però accentuato, «fino a farlo arrivare al
pianto». Alle domande riguardanti i reati che aveva commesso aveva risposto ripetendo quanto
detto precedentemente agli inquirenti, mentre non aveva dato «risposta alcuna» alle richieste di
spiegare quando aveva cominciato a parlare poco, o addirittura a monosillabi.196
Nelle conclusioni, al perito era apparso «sufficientemente chiaro» che, sebbene presentasse
una «sostanziale negatività del quadro somatico», l’imputato mostrava comunque una
«sintomatologia mentale consistente principalmente in depressione dell’umore nonché in torpore e
lentezza dei processi percettivi e soprattutto associativi». Cosa pensare dunque - si chiedeva - «di
fronte ad un quadro simile», dove, ai segni della psicosi non si accompagnavano i segni organici
della degenerazione o di un trauma?
Dopo aver passato in rassegna tutti i possibili casi «della patologia mentale che potevano
essere chiamati in causa», il perito aveva allora «fermato il proprio pensiero su quella sindrome»
che andava «sotto il nome di “Stato depressivo”, poiché di tale sindrome il quadro presentato»
dall’imputato aveva «tutti i carattere di sintomatologia e di decorso». Essendo questa solo una
diagnosi di «sindrome» - aveva ammesso - si poteva ben «obiettare» che fosse «incompleta».
L’«obiezione» sarebbe stata «fuori luogo», però, in quanto in «medicina mentale» si era soliti
seguire la regola di «formulare la diagnosi completa o di malattia solamente quando si» avevano
«elementi sufficienti». In «caso contrario» - come era appunto quello di R. - era «giocoforza
accontentarsi della diagnosi di sindrome, aspettando che il decorso» fornisse poi «gli elementi di
giudizio» che al «momento» erano «mancanti». Si era potuta perciò avanzare solo «qualche
ipotesi», e da queste erano state scartate lo «stato depressivo della epilessia», della «schizofrenia» o
della «demenza paralitica». Restavano quindi in piedi due possibilità: la «psicosi maniacodepressiva» o «uno di quegli stati depressivi» che potevano «insorgere negli individui predisposti»
quando entravano «in conflitto intenso con l’ambiente». Era la seconda di queste ipotesi ad apparire
«grandemente probabile», anche perché l’anamnesi aveva fornito elementi - «soprattutto di natura
personale» - che rendevano «giustificabile l’ipotesi di uno stato depressivo insorto in un
predisposto», come «reazione all’arresto, all’imputazione» e «all’andamento del procedimento
penale». Insomma, similmente al caso di G., il contadino istriano su cui ci siamo soffermati nel
paragrafo precedente, R. era fortemente depresso perché era stato arrestato. La conclusione era
apparsa al perito «perfettamente logica» e «confermata» dalle caratteristiche del processo di
«insorgenza» della sindrome nel periziando, che era stata «a decorso subacuto» e che perciò non si
era «mai» manifestata «né prima dell’arresto né nei primi tempi della degenza in carcere». Le forme
196
Ivi, pp. 14-16.
112
di stato depressivo «della intensità e della natura di quello presentato» da R., inoltre, secondo il
perito avevano per tutta la loro durata una «influenza massima sul meccanismo del pensiero e delle
azioni» ed era anche «risaputo» che ponevano chi ne era affetto in condizioni di «chiara pericolosità
sociale».197 L’imputato, quindi, si trovava in tale stato di mente da escludere nel presente la sua
«capacità di intendere e di volere», era da considerarsi socialmente pericoloso ma «lo stato morboso
rimonta[va] ad epoca posteriore al suo arresto» e «non esisteva né prima né mentre commetteva i
reati».198
Il Tribunale Speciale, di fronte ad una conclusione che, come quella descritta nel paragrafo
precedente, sembrava individuare il vero “evento traumatico” nell’arresto e nelle fasi
dell’istruttoria, richiamò il perito, chiedendogli se «lo stato morboso» di R., manifestatosi dopo il
suo arresto, fosse comunque «preesistente e coesistente in istato larvato nel momento in cui
commetteva i fatti».199 Posto di fronte alla «nuova e precisa richiesta», lo psichiatra specificò che,
pur se aveva concluso la relazione precedente sostenendo che lo stato di depressione dell’imputato
non era presente all'epoca dei delitti, con questo non intendeva affatto dire «il quadro distimico»
non esisteva nemmeno allo «stato morboso». Bisognava infatti considerare che i «fatti
psicodegenerativi» erano sempre «costituzionali, originari» e «permanenti». Essi facevano un
«tutt’uno» con la «costituzione mentale», e, anche nel caso di R.o, si erano manifestati pienamente
soltanto in seguito all'azione di una o più cause.200
Lo stato mentale di R. apparve allora più chiaro ai giudici. Il 10 giugno del 1940, giorno
dell’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, a R. venne revocato l’ordine di
carcerazione, in quanto il Tribunale Speciale aveva ravvisato l’insufficienza delle prove in grado di
dimostrare il dolo: dopo le perizie, in sostanza, si era dichiarata l’incapacità di intendere. 201 Restò
però al Santa Maria della Pietà, anche se non più da detenuto. La moglie, invece, era stata scarcerata
ed era ritornata a casa già nel novembre precedente. Durante gli interrogatori essa aveva sempre
negato tutto, dicendo anche che non si sapeva «spiegare perché» dal verbale risultasse «il
contrario».202Anche per lei, alla fine, erano venuti a mancare gli elementi «per stabilire» il «dolo»;
non perché folle, però, ma perché era stata riconosciuta la possibilità che avesse effettivamente
«portato stampe sovversive e denaro» per il Soccorso rosso «per semplice incarico del proprio
197
Ivi, pp. 19-22. Le sindromi maniaco-depressive, secondo Benigno Di Tullio, si sviluppavano «nei delinquenti
costituzionali ciclotimici» - cioè disturbati nell’umore - «ed instabili», sfociando principalmente in «episodi maniacali»;
cfr. Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., pp. 279-280.
198
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 645, f. 6810, Fascicolo processuale personale, S. R., Relazione sulle
condizioni di mente, 27 gennaio 1940, pp. 22-24.
199
Ivi, Tribunale speciale, 14 maggio 1940.
200
Ivi, Relazione sulle condizioni di mente di Sarti Rolando, 27 maggio 1940.
201
Ivi, Fascicolo processuale collettivo, Tribunale speciale, Sentenza del 10 giugno 1940.
202
Ivi, Fascicolo processuale personale, B. Clara, Processo verbale di interrogatorio dell’imputato, 16 agosto 1939.
113
marito, senza sapere e senza avere la volontà di svolgere attività criminosa». 203 La sua colpa, alla
fine, sembra quasi essere stata soltanto quella di averlo seguito nella sua “avventura”. Scarcerata e
ricondotta a Bologna, venne tuttavia subito diffidata.204
Qualche settimana dopo che R. era stato prosciolto, la moglie scrisse al Ministero
dell’Interno, chiedendo che venisse «restituito alla famiglia». In subordine, nel caso che le
«condizioni di salute» esigessero che R. restasse ancora «in una casa di cura», chiese che almeno
venisse «trasferito al manicomio provinciale di Bologna», per potergli stare vicino. La questura
avrebbe continuato a farla sorvegliare ancora, fino alla caduta del fascismo.205 R., che poi
effettivamente sarebbe stato trasferito nell’ospedale psichiatrico di Bologna, uscì dal manicomio
nell'aprile del 1942. In seguito l’approvazione della legge n. 96 sulle “Provvidenze a favore dei
perseguitati politici antifascisti”, inoltrò la sua richiesta di risarcimento, per la quale restano
sconosciuti gli esiti, dicendo di essere stato «sottoposto a violenze e sevizie durante gli
interrogatori», alle quali doveva essere fatto risalire il ricovero nell'infermieria del carcere e il
successivo trasferimento in manicomio.206
203
Ivi, Fascicolo processuale collettivo, Tribunale speciale, Sentenza del 20 novembre 1939.
ASBo, Questura Cat. A8, Radiati, b. 9, f. B. C., Questura di Bologna, 30 novembre 1939.
205
ACS, CPC, b. 4614, f. 138572, Copia della lettera della Prefettura di Bologna del 21 settembre 1940. La richiesta
della moglie è allegata.
206
ACS, Ministero dell’interno, Divisione affari riservati, sez. 1, cat. 793, perseguitati politici (1956-1960), b. 86, S. R.,
Ministero del Tesoro, 24 giugno 1963.
204
114
CAPITOLO III
L'internamento psichiatrico in condizioni di detenzione.
La terza ed ultima modalità di internamento in manicomio degli antifascisti che
descriveremo riguarda il ricovero di quanti già si trovavano in carcere o al confino. Le psicosi
potevano insorgere a causa delle condizioni afflittive proprie dei luoghi e delle modalità di
detenzione e di espiazione della condanna. A volte, però, come nel caso dell'internamento e del
successivo suicidio di I., il giovane trovato impiccato nella sua cella del manicomio giudiziario di
Barcellona Pozzo di Gotto, di cui abbiamo parlato nell'introduzione, il ricovero psichiatrico sembra
aver rappresentato il mezzo giusto per garantire il grado di soluzione punitiva che né il carcere né il
confino potevano raggiungere.
Le fonti che maggiormente utilizzeremo in questo capitolo, oltre a quelle di polizia (per le
quali restano valide tutte le considerazioni fatte precedentemente) sono rappresentate dalle lettere
scritte dai reclusi o dai confinati e da alcune autobiografie. Nell'esame delle lettere è importante
considerare le omissioni funzionali a superare il vaglio della censura. Per questo le descrizioni degli
aspetti peggiori della vita in carcere o al confino erano spesso soltanto accennate. Anche se scritte
da soggetti che non sarebbero mai stati internati in manicomio, le lettere contribuiscono a ricostruire
quelle che potevano essere le reazioni psicologiche alla degradazione ed all'abuso che tutti, nelle
medesime condizioni, potevano vivere, perché i sentimenti ed il dolore descritti non sono stati reali
soltanto per chi materialmente ha cercato di trasmetterle ai propri cari, ma anche per altri che hanno
vissuto lo stesso contesto. Il secondo genere di fonti, invece, presenta tutti i rischi riscontrabili nei
casi in cui la ricostruzione delle vicende avviene per mano di quanti le hanno vissute in prima
persona, a partire dalla rielaborazione dei fatti - a volte inconsapevole - funzionale al sostegno delle
proprie convinzioni ideologiche. Per i comunisti, inoltre, come ha sottolineato Patrizia Gabrielli, va
ricordato che «nella rappresentazione dell'esperienza carceraria» la memoria spesso ha ricalcato lo
stereotipo del rivoluzionario eroico ed impassibile.1
Prima di procedere ad una sommaria descrizione del carcere e del confino, delle condizioni
di vita all’interno di questi due luoghi della repressione fascista, delle sindromi specifiche che
potevano colpire i detenuti ed i confinati e di alcune vicende che sono sembrate maggiormente
significative, è necessario soffermarsi sul momento dell'arresto, il “primo passo” che conduceva gli
antifascisti nelle case penali o nelle isole per confinati politici. Sempre, l’arresto e la traduzione in
1
Gabrielli, Fenicotteri in volo, cit., p. 223.
115
carcere segna il passaggio «dallo status di soggetto a quello di oggetto»2. All’uso della violenza
durante gli interrogatori di cui abbiamo parlato, vanno aggiunte afflizioni meno fisiche ma più
mentali: come la sensazione di impotenza e di precarietà determinata dall’attesa - prolungata per
settimane o per mesi - di conoscere la propria sorte spesso senza sapere le motivazioni del fermo,
oppure l’angoscia per l'interruzione dei legami con i propri cari, per la vergogna che su questi ricade
e persino per il coinvolgimento degli stessi nella propria sciagura. A volte, infatti, come abbiamo
visto nel capitolo precedente a proposito della moglie del giovane comunista bolognese R., un
familiare poteva essere arrestato perché implicato nelle indagini. Altre volte, invece, l’arresto di un
congiunto poteva essere effettuato per fare pressione sugli antifascisti sospettati di appartenere ad
un’organizzazione cospirativa e per indurli a parlare. 3 Più di altre, comunque, sembrano pesare le
ansie derivanti dall’impossibilità di mantenere gli impegni verso le proprie famiglie, verso i figli.4
Gli antifascisti, specie nel caso di soggetti estranei alla cospirazione politica e quindi non induriti
psicologicamente dalla clandestinità, a volte potevano cadere in forme di stress psichico anche nel
caso di lievi condanne, mostrandosi incapaci di resistere alla preoccupazione per le condizioni di
povertà in cui erano precipitati i propri cari e all'impotenza data dalla detenzione. Come S., un
muratore e padre di cinque figli che, segnalato dal Biennio rosso e schedato come comunista, nel
maggio del 1930 venne arrestato per delle scritte contro Mussolini e il re. 5 La prigionia durò meno
di quattro mesi (fu scarcerato per insufficienza di prove) ma lo segnò irreparabilmente. Da quel
momento cadde in depressione e cominciò a dare segni di squilibrio mentale. Si considerava
«rovinato» e motivava la sua disoccupazione col fatto che più nessuno avrebbe assunto «un ex
carcerato». Si credeva perseguitato, soffriva di «allucinazioni quotidiane» e, benché non avesse mai
«commesso atti impulsivi contro i familiari», era «fisso nell’idea di voler uccidere i figli per evitare
2
Aldo Ricci , Giulio Salierno, Il carcere in Italia. Inchiesta sui carcerati, i carcerieri e l'ideologia carceraria, Einaudi,
Torino 1971, p. 85.
3
Come estremo tentativo di pressione psicologica per indurlo a fare i nomi di altri suoi compagni, ad esempio, a Mario
Andreis (classe 1907) arrestarono il fratello. Dopo la liberazione di quest’ultimo, Andreis - che era stato arrestato nel
1931 perché implicato in un’indagine su Giustizia e Libertà - così scrisse alla propria famiglia: «già consapevole di tutta
la vostra disapprovazione per le mie idee e la mia condotta ad esse coerente, ho compreso quanto naturale in voi tutti, ed
in particolarmente, per le fatali circostanze, dovesse essere lo sdegno contro di me»; cfr. Lettera di Mario Andreis del
21 gennaio 1932 dal carcere di Torino, in AA.VV. Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino, Volume II, Editori
riuniti, Roma 1975, p. 20.
4
Sui costi psicologici della disoccupazione forzata, conseguenti la perdita del proprio ruolo sociale all’interno della
famiglia, cfr. Marco Depolo , Guido Sarchielli, Psicologia della disoccupazione, il Mulino, Bologna 1987, pp. 90-99.
Rispetto al tema delle angosce provocate dal precipitare delle condizioni economiche familiari cfr. la lettera di Luigi
Fuschini (classe 1902) alla moglie, scritta dal carcere dopo essere stato arrestato nel 1930 per organizzazione comunista
e condannato a 7 anni di carcere: «Mia cara Maria, sono molto dispiacente che tu debba andare a spigolare. Se io fossi a
casa non vorrei certamente, ma capisco che necessità fa legge e che la vita bisogna prenderla come viene, che occorre
aver coraggio per superare l'avversa fortuna. Credilo, Maria, non so rassegnarmi al pensiero che, mentre tu e babbo vi
affaticate per tirare innanzi, io debba stare qui senza poter alleviarvi un po' il peso che siete costretti a sopportare.
Neppure la gioia di lavorare c'è data in galera, capisci?» cfr. Lettera di Luigi Fuschini del 7 luglio 1932 dal carcere di
Fossano, in AA.VV. Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino, Vol. I, Editori riuniti, Roma 1975, p. 145.
5
ASAn, Cat. A8, Questura Ancona, “politici 1900-1943”, b. 27/b, f. C. S., Prefettura di Ancona, Scheda biografica,
cenno del 7 dicembre 1930.
116
loro le tribolazioni che sopporta[va]no per causa sua». Dopo «aver ucciso i figli» diceva poi «di
volersi uccidere egli stesso». Nell'aprile del 1932, a quarantadue anni, venne ricoverato in ospedale
psichiatrico. Il giugno successivo fu dimesso ma venne ricoverato più volte. Ancora nell'aprile del
1939, durante l'ennesimo ricovero, continuava a manifestare «idee ipocondriache» e a mostrare «un
volto atteggiato a tristezza»; del resto non aveva mai smesso di pensare di essere stato la «rovina
della sua famiglia».6
Carcere e confino.
Carcere e confino erano due istituti profondamente diversi, a partire dallo status giuridico
dei destinatari. I condannati alla reclusione erano tali in seguito ad un procedimento giudiziario ed i
reati punibili, come abbiamo visto nel capitolo precedente, erano quelli previsti dalla “Legge per la
Difesa dello Stato” mentre il tribunale competente era il Tribunale Speciale. Le motivazioni che
potevano condurre al confino, invece, erano le più disparate, ma, in ogni caso, non veniva celebrato
alcun processo, né veniva pronunciato alcun giudizio.7 Da questo punto di vista, si differenziava
dalla prigione perché seguiva un percorso «extragiudiziario». Come i “campi” del XX secolo, esso
era indirizzato a uomini e donne che «ufficialmente» non si erano «macchiati di alcun crimine» e
perciò non potevano «essere giudicati» da un tribunale: era una forma di detenzione
«amministrativa».8 Tale distinzione si associava a differenziazioni che, nel quotidiano, avevano
effetti diretti sull'autonomia e sull'economia d'azione dei condannati. Al confino i pochi che
disponevano di possibilità economiche potevano affittare un’abitazione o vestire qualcosa di
6
ASAn, Fondo Ospedale Psichiatrico di Ancona, Uomini, Anno 1939, C. S., Cartella clinica, n. d’ordine del registro
753, Tabella nosografica e diario clinico. Fu nuovamente dimesso nell'agosto del 1939 ed affidato alla moglie.
7
Era la commissione provinciale per i provvedimenti di pubblica sicurezza a pronunciarsi sull’assegnazione che poteva
variare da uno a cinque anni. La commissione era composta dal prefetto, dal procuratore del re, dal comandante dei
carabinieri reali e da un ufficiale superiore della milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN). Alla proposta
per il confino - ad esempio tramite segnalazione dei carabinieri o del Podestà - poteva corrispondere subito l'arresto del
sospettato. Era ammesso il ricorso in commissione di appello, presso il Ministero degli interni, ma ciò non sospendeva
l'esecuzione dell'ordinanza. Con il confino venivano puniti quanti erano sospettati di appartenere a partiti ed
organizzazioni sovversive. Anche i comportamenti legati a forme di opposizione pre-politica, come una scritta su un
muro o parole sconvenienti pronunciate in una osteria, potevano essere sanzionati con la traduzione in una colonia.
Dall'aggressione all'Etiopia in avanti, il confino cominciò a trasformarsi da strumento di imposizione di un ordine
politico in strumento di imposizione di un ordine sociale, attraverso la repressione delle condotte considerate
contrastanti con precisi obiettivi del regime - come le politiche demografiche - o non confacenti alle linee che il
fascismo aveva disegnato per la personalità dell'italiano nuovo, come l’omosessualità o il culto di religioni minoritarie;
cfr. Regio Decreto 18 giugno 1931, numero 773, Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, art. 182-184; Carlo
Spartaco Capogreco, I campi del duce. L'internamento civile nell'Italia fascista, Einaudi, Torino 2004, pp. 16-17; Celso
Ghini , Adriano Dal Pont, Gli antifascisti al confino, 1926 - 1943, Editori riuniti, Roma 1971, pp. 57-64; Michael
Ebner, Dalla repressione dell’antifascismo al controllo sociale, in «Storia e problemi contemporanei», n. 43, settembredicembre 2006; Alessandra Gissi, Voci che corrono. Levatrici, aborto e confino di polizia nell’Italia fascista, in
«Quaderni Storici», n. 121, aprile 2006; cfr. anche Benadusi, Il nemico dell'uomo nuovocit. e Rochat, Regime fascista e
chiese evangeliche, cit...
8
Joel Kotek, Pierre Rigoulot, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio 1900 - 2000, Mondadori,
Milano 2001, p. 4.
117
diverso dall'abito che, semestralmente, la direzione della colonia era tenuta a dare loro. In carcere,
l'obbligatorietà della divisa e l'assegnazione di un numero di matricola era e restava invece un
elemento centrale di spoliazione dell'identità personale. Il carcere era un luogo di espiazione della
pena in senso stretto; il confino era una misura di sicurezza preventiva, un luogo di sospensione del
diritto prodotto dalla «prassi concentrazionaria italiana».9 Sia quantitativamente che rispetto all’uso
che ne venne fatto (i condannati al confino politico in Italia, tra il 1926 ed il 1943, furono “solo”
17.000) - va evidenziato che il confino fascista di polizia aveva poco o nulla a che vedere con il
«concentramento collettivo a fini di eliminazione o per lo sfruttamento sul lavoro». 10 Ciò, però, non
muta le caratteristiche afflittive della vita al confino, che va comunque considerato come «una
comunità innaturale di centinaia di uomini costretti a condividere in qualsiasi momento della
giornata il poco spazio messo loro a disposizione».11
Anche considerati singolarmente, carcere e confino non sono riducibili a due blocchi
uniformi. Esistevano differenze oggettive, riferibili ad elementi neutri come il clima del territorio
dove si trovava il penitenziario o, per i luoghi del confino, la presenza di alcune infrastrutture che
rendevano meno disagevole la vita sulle isole o negli sperduti comuni del sud.12 Le condizioni di
vita interne ai penitenziari e alle colonie, inoltre, non possono essere considerate come costanti per
tutto il ventennio, ma variarono in base all’atteggiamento del regime e alle modificazioni incorse
nel diritto penale, nelle leggi di polizia e nelle strategie repressive. Per la disciplina penitenziaria, ad
esempio, l’affermazione del fascismo coincise con una sua «netta involuzione».13 All’interno della
9
Carlo Spartaco Capogreco, Aspetti e peculiarità del sistema concentrazionario fascista. Una ricognizione tra storia e
memoria, in AA.VV. Totalitarismo, lager e modernità. Identità e storia dell’universo concentrazionario, Mondadori,
Milano 2002, p. 218. Secondo Capogreco, il confino si inseriva nella tradizione liberale del “domicilio coatto” ma si
differenziava da questa perché, come misura di sicurezza, faceva ricadere all’interno della generica categoria della
“pericolosità” anche l'opposizione politica, oltre alla tradizionale area sociale dell'emarginazione e della devianza. Con
le innovazioni introdotte dalla legislazione del 1926, il confino smise di essere legato alla procedura che prevedeva
l’assegnazione ad una colonia solo in seguito al fallimento delle misure di diffida ed ammonizione, e si trasformò subito
in un formidabile strumento di allontanamento coatto degli oppositori.
10
Kotek, Rigoulot, Il secolo dei campi, cit., pp. 171-172.
11
Leonardo Musci, Il confino fascista di polizia. L'apparato statale di fronte al dissenso politico e sociale, introduzione
in Adriano Dal Pont , Simonetta Carolini, L'Italia al confino 1926-1943, Milano, La Pietra 1983, p. LXXXVI.
12
Ad Arturo Colombri, ad esempio (classe 1900), arrestato nel 1933 per organizzazione comunista e condannato a 18
anni di reclusione, il «clima mite» faceva “preferire” il carcere di Civitavecchia a quello di Fossano o Castelfranco
dell’Emilia; (cfr. Arturo Colombi, Nelle mani del nemico, Editori riuniti, Roma 1970, pp. 88, 98, 125). La bellezza
naturale di Lipari, invece, destinata a colonia di confino sin dal 1927, unitamente alla presenza di infrastrutture come
l'energia elettrica e di primi elementi di una futura vocazione turistica - come caffé e ristoranti - permise
strumentalmente al regime di sostenere che gli oppositori non venivano mandati in colonie penali, ma in esilio in luoghi
ospitali e civilizzati; (cfr. Ebner, Dalla repressione dell’antifascismo al controllo sociale cit., p. 91). Situazione molto
diversa, invece, sull’isola di Ustica, in quanto le dimensioni dell'isola erano talmente ristrette da rendere «difficile
persino la convivenza diurna coi 150 confinati comuni»; (cfr. Capogreco, I campi del duce cit., p. 20).
13
Elvio Fassone, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, il Mulino, Bologna 1980, p. 54. Alla
fine del 1922, a poche settimane di distanza dalla marcia su Roma, fu disposto lo spostamento della Direzione generale
delle carceri dal Ministero dell'Interno a quello della Giustizia. Per il momento in cui intervenne, il provvedimento
assunse il carattere di punizione per le innovazioni introdotte dalla Direzione, che precedentemente aveva emanato
alcune circolari inerenti la regolamentazione dell'uso degli strumenti di contenzione, i colloqui e la corrispondenza; cfr.
118
più vasta riforma della codificazione penale posta in essere all’inizio degli anni Trenta, di cui
abbiamo parlato, venne approvato anche il nuovo regolamento penitenziario, diventato legge il 18
giugno del 1931 e chiamato, secondo le intenzioni del ministro, a «stabilire norme di vita
carceraria» in grado di «emendare il condannato» senza far perdere alla pena il «carattere
fondamentale di castigo».14 Rispetto alla vita al confino, invece, fu la fuga da Lipari di Carlo
Rosselli, Francesco Nitti ed Emilio Lussu - avvenuta nel luglio del 1929 - a provocare una rilevante
stretta repressiva. Più in generale, ma con ricadute sulle possibilità d’azione dei confinati, sarebbe
poi intervenuto il clima politico prodottosi in seguito alla svolta aggressiva della politica estera
italiana, segnata dalla guerra d'Etiopia e dall'intervento in Spagna. 15
Comunque sia, per il regime i principi che ispiravano la lotta all’antifascismo erano gli stessi
ed erano stati pronunciati dal ministro Rocco al momento dell’approvazione della “Legge per la
Difesa dello Stato”, nel novembre del 1926, e sintetizzati nella procedura che vedeva l'applicazione
del Codice di procedura penale militare in tempo di guerra. Quella che si stava combattendo, infatti,
era a tutti gli effetti una guerra, «simile a quella che» lo Stato aveva sostenuto negli anni passati,
«uguale la necessità di una procedura rapidissima, uguale quella di una severità esemplare». 16
Quando poi, dopo il luglio del 1943, la guerra sarebbe effettivamente giunta in Italia, le isole di
confino e gli stabilimenti penitenziari subirono i contraccolpi. Nei cinquantacinque giorni che
separarono la caduta del fascismo dall’armistizio dell’8 settembre 1943, il confino politico venne
progressivamente chiuso: gli anarchici ed i comunisti, sui quali, nonostante la fine del fascismo,
restava in essere una speciale vigilanza, avrebbero lasciato per ultimi le isole, mentre, l’ultima
colonia ad essere chiusa sarebbe stata quella di Tremiti. Il sistema carcerario, invece, seguì la sorte
del paese. Se al Sud, nell’Italia liberata, venne istituita una Commissione con il compito di
esaminare la situazione carceraria - compromessa dai bombardamenti che avevano colpito anche le
grandi carceri giudiziarie di Regina Coeli a Roma e Poggioreale a Napoli, andando così d
aumentare i cronici problemi di sovraffollamento - nel Nord, occupato dalla Wermacht ed
Guido Neppi Modona, Carcere e società civile, in Storia d'Italia. I documenti, V/II, Einaudi, Torino 1973, pp. 19551961.
14
Alfredo Rocco, Relazione del ministro al Regio decreto 18 giugno 1931, n. 787, Regolamento per gli istituti di
prevenzione e di pena, in “Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale” n. 147 del 27 giugno 1931, p. 2. Le nuove
norme si orientarono verso la separazione rigida tra carcere e mondo esterno, la centralità della religione, del lavoro e
dell’istruzione civile nella vita dei condannati come elementi emendanti e, come vedremo, un’attenta osservazione della
personalità dei reclusi. Venne prevista anche l'obbligatorietà della partecipazione alle celebrazioni del “culto dello
Stato”; cfr. Neppi Modona, Pellissero, La politica criminale durante il fascismo cit, pp. 814-819 e Fausto Pietrancosta,
Carcerazioni, diritti e condizione carceraria detentiva in Italia dal Regio Decreto 787/1931 alla riforma del 1975, in
«Diacronie. Studi di storia contemporanea», n, 1 (2), 2010, pp. 1-3, in http://www.studistorici.com/wpcontent/uploads/2010/04/PIETRANCOSTA_Dossier_2.pdf
15
Le isole Tremiti, ad esempio, che si caratterizzavano per risorse e spazi minimi, cominciarono ad essere utilizzate
anche per i confinati politici proprio durante la guerra civile spagnola, acquisendo subito la funzione di colonia punitiva
destinata a quanti erano considerati indisciplinati ed incorreggibili; cfr. Capogreco, I campi del duce cit., pp. 15-26 e
Ebner, Dalla repressione dell’antifascismo al controllo sociale cit., pp. 91-102.
16
Longhitano, Il tribunale di Mussolini, cit., p. 86.
119
amministrato dalla neocostituita Repubblica sociale italiana, i nazisti istituirono degli uffici
all’interno delle carceri, ed assunsero la gestione diretta di alcune sezioni degli stabilimenti più
importanti, come San Vittore a Milano o Le Nuove a Torino, al fine di selezionare i detenuti da
avviare al lavoro coatto in Germania.17
Dal punto di vista degli antifascisti, pur nelle distinzioni appena descritte carcere e confino
sarebbero stati accomunati almeno da due cose. La prima è che essi, molto spesso, avrebbero
passato lunghi anni sia nell'uno che nell'altro luogo della repressione politica. Chi era stato
condannato ad una pena detentiva, infatti, finita di scontare quella veniva assegnato ad un’isola,
mentre non sarebbero stati rari i casi di confinati politici deferiti al Tribunale Speciale per reati
commessi prima dell'assegnazione o in colonia. Così, di traduzione in traduzione, gli anni si
sommavano. Nulla di sorprendente, allora, se in un tale percorso anche il confino in un comune
della terraferma - apparentemente meno afflittivo rispetto a quello in un'isola - assumeva le
caratteristiche del carcere, con il mare come «quarta parete» della prigione.18 La seconda riguarda la
presenza di norme regolamentari che rappresentavano un di più di pena. Una serie di strumenti e
disposizioni - ad uso dell'amministrazione e del personale di sorveglianza - che, con le dovute
differenziazioni, erano in grado di innescare quei processi di mortificazione e di riduzione del sé
descritti da Erving Goffman a proposito delle istituzioni totali.19 Infatti, sia per i confinati che, in
misura anche maggiore, per gli antifascisti in carcere, le manette, le catene, l'isolamento in celle
strette e buie o l'uso di strumenti di contenzione andrebbero considerati non solo come strumenti di
sicurezza ma anche come mezzi di «presa sul corpo» funzionali all'espiazione della condanna, dato
che nessun «castigo» può funzionare «senza un certo supplemento di punizione che concerne il
corpo in se stesso».20 Le parole di Giorgio Amendola ci forniscono un’efficace descrizione di come
anche la semplice applicazione rigida dei regolamenti potesse trasformarsi in uno strumento di
afflizione:
Appena fuori dal porto, incontrammo il mare grosso. Eravamo, con le manette ai polsi, uniti da una catena a
gruppi di dieci. Tutti, detenuti e scorta, cominciarono a soffrire il mal di mare. Un carabiniere giovane, poco
più che ventenne, cominciò a vomitare. Era impossibile arrivare agli oblò con le catene e tutti si vomitavano
addosso. Chiesi di parlare con l'ufficiale che comandava la traduzione e gli feci presente l'opportunità che,
17
Christian G. De Vito, Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia. 1943-2007, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 314.
18
Cesare Pavese, Il carcere, in Mariarosa Masoero, Giuseppe Zaccaria (a cura di), Cesare Pavese. I capolavori,
Einaudi, Torino 2008, p. 101. Il confino di terraferma prevedeva la traduzione in un piccolo comune meridionale. La
sorveglianza del confinato - spesso non più di uno per comune - era affidata ai podestà o ai carabinieri. Inizialmente
concepito per la detenzione dei “meno pericolosi”, col tempo il confino di terraferma vide aumentare la frequenza del
suo utilizzo.
19
Goffman, Asylums, cit., p. 29. Goffman ha definito un’istituzione totale come il “luogo di residenza di gruppi di
persone che - tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo - si trovano a dividere una situazione
comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato”.
20
Michel Foucault, Sorvegliare punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993, pp. 18-19.
120
pur mantenendoci le manette, fossimo almeno liberati dalle catene. Mi disse che un preciso articolo del
regolamento glielo impediva. Era anche lui pallidissimo e tracce di vomito gli sporcavano la divisa […] Così
conciati, malati, sporchi, continuammo per circa 10 ore.21
Lo spazio, il corpo ed il tempo.
In una indagine sulle carceri italiane pubblicata nel 1925, Luigi Rusticucci osservava come,
di fronte alla «delinquenza dilagante», fosse necessario «lasciare da parte tutto il romanticismo
sentimentale» che aveva fatto perdere alla pena la forza «intimidatrice», annullando quelle
caratteristiche che facevano del carcere «un luogo di mortificazione dello spirito e di privazione del
corpo». A suo dire, il carcere «non spaventa[va] più nessuno» e la ragione di ciò era semplice: nelle
carceri «si sta[va] meglio» rispetto al passato, si poteva fumare e leggere, si lavorava, si guadagnava
e si beveva vino.22 Le testimonianze degli antifascisti ci restituiscono però una realtà molto diversa,
dove nemmeno le reti di solidarietà politica o la preparazione ideologica riuscivano ad arginare
l’alienazione e l’insorgere di psicopatologie.
Il carcere poteva essere di segregazione totale, poteva prevedere momenti di vita comune di
giorno ed isolamento notturno, oppure la vita comune in celle, e momenti collettivi e regolamentati
da trascorrere nei cortili, come l'ora d'aria.23 Prima della riforma del 1931, i condannati dovevano
scontare un periodo di segregazione totale stabilito all’incirca in un mese per ogni semestre di
condanna. Le conseguenze psichiche di questa particolare forma di espiazione della pena sono
simili a quelle vissute dai navigatori solitari, dai sommozzatori, o dai piloti in alta quota.
Allucinazioni «visive e uditive», «alterazioni percettive» che, nelle forme più gravi ed
accompagnate da forme di «privazione sensoriale», erano in grado di dar vita «ad una vera attività
allucinatoria», accompagnata a deliri e «depersonalizzazione». 24 Il carcere di Portolongone era uno
degli stabilimenti penali con un regime disciplinare molto rigido. Centinaia di uomini vi erano
«sepolti vivi» in celle di due metri e mezzo per uno e mezzo, dove, «muti ed «inebetiti»,
21
Giorgio Amendola, Un’ isola, Rizzoli, Milano 1980, p. 122. Amendola, arrestato dopo il suo rientro dalla Francia per
attività comunista ed inviato al confino a Ponza, insieme ad altri confinati stava lasciando l’isola per raggiungere le
carceri giudiziarie di Napoli, in vista di un processo per delle agitazioni promosse sull’isola.
22
Rusticucci, Nelle galere, cit., p. 13.
23
Con l'approvazione del nuovo regolamento penitenziario del 1931, l'organizzazione degli stabilimenti di pena si
sarebbe basata sull'isolamento notturno. Pur prendendo le distanze dalla segregazione cellulare come forma detentiva e
segnalandone l'inefficacia e gli elementi controproducenti sulla personalità dei detenuti, il ministro spiegò il permanere
dell’isolamento totale nel periodo iniziale (almeno un mese) come finalizzato all'osservazione della personalità del reo
dopo il suo ingresso ed allo studio delle sue reazioni. La segregazione totale restò confermata anche come forma
basilare di punizione del detenuto indisciplinato. Sull'argomento torneremo nelle pagine successive. Cfr. Rocco,
Relazione del ministro al Regio decreto 18 giugno 1931 cit., p. 2 e p. 35, art. 42.
24
Maria Noemi Sanna, Sindromi reattive alla carcerazione, in Franco Ferracuti (a cura di) Trattato di criminologia,
medicina criminologica e psichiatria forense, Vol. XII, L’intervento medico e psicologico sul testimone, sull’imputato e
sul condannato, Giuffrè, Milano 1990, pp. 313-314.
121
passeggiavano come «belve nella loro gabbia». 25 Un luogo pensato, progettato e costruito per essere
pienamente afflittivo. Girolamo Li Causi, ad esempio, che vi passò tre anni, iniziò «gradatamente» a
perdere la «nozione del colore», perché gli unici colori che a Portolongone si potevano vedere
«erano il bianco dei muri e il grigio delle inferriate».26 Celle adibite allo stesso scopo e con gli stessi
disagi erano presenti un po' ovunque.27 Molto spesso disponevano di un’unica finestra a bocca di
lupo, affinché, nella distribuzione naturale delle ore solari, la luce che riusciva ad entrare fosse
sempre poca. Un’altra costante era la presenza delle cimici. A volte ce ne potevano essere così tante
da trasformare il riposo sulla branda in una tortura per i «poveri nervi». 28 Nelle situazioni di non
isolamento le condizioni non sempre erano migliori. Si poteva passare dalla cella «molto lurida» del
piccolo carcere di Macerata, alle camerate fredde, più fredde dell'«aria nel cortile», di Castelfranco
dell'Emilia.29 In rarissimi casi le celle avevano un bagno, più spesso c'era il buiolo: un secchio che
veniva utilizzato come latrina e che veniva svuotato la mattina dagli scopini, i detenuti addetti ai
servizi di pulizia interna. Carceri un po' più ospitali esistevano sicuramente, ma possiamo
immaginare che i luoghi erano generalmente fatiscenti, tanto che durante il fascismo vennero
approvati alcuni provvedimenti che comprendevano anche la ristrutturazione dell'edilizia
penitenziaria.30
Rispetto agli spazi di reclusione le isole di confino presentavano condizioni simili al carcere.
La maggioranza dei confinati politici erano poveri e vivevano in strutture che spesso erano eredità
del sistema penale borbonico. A Lampedusa 120 confinati stavano stipati in un camerone che ne
avrebbe potuti contenere al massimo cinquanta. Ad Ustica si viveva sostanzialmente nelle stesse
condizioni che avevano visto morire più di trecento libici deportati durante la guerra del 1911 e poi
nel 1916.31 Il camerone dell'isoletta di San Nicola alle Tremiti, destinato ai politici, era un «un
androne enorme, umido fino allo sgocciolìo, quasi buio, fornito di una sola finestra che, altissima, si
25
Rusticucci, Nelle galere cit., p. 125.
Girolamo Li Causi, Il Lungo cammino. Autobiografia 1906-1944, Editori riuniti, Roma 1974, p. 148. Li Causi (classe
1896) era stato arrestato nel 1928 e condannato dal Tribunale speciale a 20 anni di reclusione per organizzazione
comunista.
27
Michele Giua (classe 1889), in una lettera alla compagna disse che, messo in cella d’isolamento nel carcere di Torino,
era stato colto «da quel senso di isolamento psichico» che aveva riscontrato quando si era trovato «in alta montagna»;
cfr. Lettera di Michele Giua del 16 maggio 1935 dal carcere di Torino, in AA.VV. Lettere di antifascisti, Volume II,
cit., p. 110. Giua era un docente universitario che nel 1932 aveva abbandonato l’insegnamento pur di non aderire al
partito fascista. Nel 1935 venne arrestato come membro di Giustizia e Libertà e condannato a quindici anni di
reclusione.
28
Colombi, Nelle mani del nemico cit., p. 148.
29
Nell'ordine cfr. Angelo Sorgoni, Ricordi di un ex confinato. Un socialista recanatese dal 1898 alla Liberazione,
Argalià, Urbino 1975, p. 129 e Lettera di Antonio Bietolini del 27 novembre 1934 dal carcere di Castelfranco
dell'Emilia, in AA.VV. Lettere di antifascisti, Vol. I, cit., p. 61. Sorgoni (classe 1879) era un socialista recanatese
arrestato nel 1926 e poi confinato ad Ustica. Bietoloni, invece (classe 1900), venne arrestato nel 1933 per
organizzazione comunista e condannato a 13 anni di reclusione.
30
Pietrancosta, Carcerazioni, diritti e condizione carceraria detentiva in Italia cit., p. 6. I provvedimenti di
ristrutturazione furono previsti nella legge n. 252 del 9 maggio del 1932. Senza adeguati finanziamenti, però, la legge
restò sostanzialmente senza attuazione.
31
Capogreco, I campi del duce cit., pp. 19-25.
26
122
affacciava sul mare».32 A Ponza erano gli stessi funzionari di polizia a descrivere gli stanzoni come
«veramente inabitabili», poco differenti «da enormi antiquate e sudicie scuderie». 33 A Favignana i
confinati dormivano in cameroni con venticinque o trenta brande, metà da un lato della stanza e
metà dall’altro, con all’interno anche la latrina, che stava in mezzo a tutti. 34 Nelle ore solari della
giornata si poteva uscire ma gli spazi esterni non erano mai completamente accessibili. Era la “carta
di permanenza» - che il confinato doveva portare sempre con sé - a prescrivere di «non oltrepassare
i limiti della colonia»: una perimetrazione che veniva fissata tenendo conto dell'ampiezza dell'isola,
del numero dei confinati e del cambiamento delle strategie repressive del regime.35
Un altro elemento di «contaminazione fisica» a cui sono esposti gli internati nelle istituzioni
totali, oltre alla promiscuità e la vita in mezzo ad insetti e parassiti, è rappresentato dal cibo che
l'amministrazione somministra ai costretti.36
Nelle isole di confino, l'attenzione per il rispetto di condizioni minimali di varietà e qualità
dei cibi - a costi accessibili - era garantita dal funzionamento delle mense comuni e degli spacci
gestiti dai confinati. Queste attività divennero anche motivo di contrasto con le direzioni delle
diverse colonie, che vedevano in esse gli embrioni di una riorganizzazione politica o comunque dei
luoghi di resistenza morale.37 Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, però,
l'approvvigionamento dalla terraferma si fece progressivamente più difficile. Le restrizioni
alimentari, che investirono tutte le isole di confino prima del resto del paese, fecero registrare
«condizioni di eccezionale penuria e di vera e propria denutrizione». 38 Racconta Li Causi che,
dall’isola di Ventotene, negli inverni del 1942 e del 1943 sparirono dalla circolazione gatti, talpe e
anche qualche cane: «alcuni compagni erano specializzati nella cattura […] altri ancora nella
cottura, perché non era facile rendere mangiabile quella carne». La fame divenne una «costante»,
seminando «numerosi morti, specialmente tra gli elementi non organizzati». 39
32
Ghini , Dal Pont, Gli antifascisti al confino, cit. p. 204. Testimonianza di Calogero Barcellona.
Il rapporto stilato da un funzionario di polizia è citato in Ebner, Dall'antifascismo al controllo sociale cit., p. 97.
34
Ivi, pp. 353-354. Testimonianza di Luigi Salvatori.
35
A Lipari, che delle isole destinate a colonia era la più grande, dopo la fuga di Rosselli e degli altri, i confinati videro
ridursi ulteriormente lo spazio esterno a loro disposizione, che fu circoscritto da fortificazioni, posti di guardia e
segnalatori luminosi; cfr. Ebner, Dalla repressione dell'antifascismo al controllo sociale cit., p. 93.
36
Goffman, Asylum, cit., pp. 55-57.
37
Nei giorni che gli antifascisti celebravano le loro ricorrenze importanti, ad esempio il primo maggio, le mense
preparavano un pasto migliore del solito, che comprendeva anche il dolce; cfr. Ghini, Dal Pont, Gli Antifascisti al
confino, cit., pp. 86-87. I confinati, sospettati di utilizzare le entrate delle mense per finanziare il Soccorso rosso,
difesero sempre la possibilità di pensare da soli al proprio vitto. A Ponza, dopo essere riusciti ad acquistare un
frigorifero, si videro negare la possibilità di acquistare la carne sulla terraferma e ciò provocò delle proteste. Sull'isola
esistevano solo tre macellai che si approfittavano delle difficoltà di approvvigionamento e vendevano, secondo quanto
riportato in una relazione della stessa direzione della colonia, «carne di vacche e buoi vecchissimi e denutriti» le cui
frattaglie spesso era «necessario distruggere per inferiorità»; cfr. Dal Pont, I lager di Mussolini, cit., pp. 83-86.
38
Ebner, Dalla repressione dell'antifascismo al controllo sociale, cit., p. 103.
39
Ghini, Dal Pont, Gli Antifascisti al confino, cit., p. 264. Testimonianza di Girolamo Li Causi. Il lungo elenco degli
antifascisti schedati nel Casellario politico centrale curato da Adriano Dal Pont da conto di due decessi, avvenuti
33
123
In carcere la situazione era molto diversa. Il controllo totale della direzione sulla vita
all'interno e l'assoluta impermeabilità verso l'esterno rendevano possibile alimentarsi solo di ciò che
era esplicitamente previsto dai regolamenti, che prevedevano un vitto giornaliero a carico
dell'amministrazione penitenziaria e la possibilità di accedere al sopravvitto, il cui acquisto era a
carico dei detenuti e soggetto al rigido filtro della direzione. Questa, nell'autorizzare l'acquisto del
sopravvitto, teneva conto di diversi fattori, tra i quali la condotta del detenuto e la sua assiduità nel
lavoro e nell'osservanza dei principi che regolavano la vita del carcere.40 Le testimonianze
descrivono quello che veniva presentato come un pasto generalmente come «una brodaglia infame,
senza condimento, con pasta o riso stracotti», quasi «liquefatti». 41 Le uniche varianti allo scarno
menù fatto di minestre, legumi, e 200 grammi di carne lessata - ossa comprese - una volta alla
settimana, era costituita dal «vitto speciale» di pasta, formaggio e 200 grammi di carne in umido ossa escluse - previsto per il Natale, la Pasqua, la festa dello Statuto, il natale di Roma e
l'anniversario della marcia su Roma.42 L'articolo 245 del regolamento prevedeva che i reclusi
potessero rifiutare la razione di cibo.43 Il rifiuto di mangiare, però, non poteva essere opposto in
maniera continuata. Sebbene lo sciopero della fame non fosse un metodo di lotta molto frequente tra
entrambe a Ventotene ed entrambi nel 1943, per deperimento organico; cfr. Id., Antifascisti italiani nel Casellario
Politico Centrale, cit., quaderno 7 p. 21, Dal Foco Camillo e quaderno 12 p. 346, Merlin Pietro.
40
Dal punto di vista regolamentare l'aspetto dell'alimentazione era già stato trattato dal regio decreto n. 393 del 19
febbraio 1922. Con esso venne disposta l'abolizione di «ogni differenza nella quantità e qualità del vitto ordinario» tra i
condannati negli stabilimenti penali, che prima invece era parametrizzato «secondo la specie di pena». In senso meno
afflittivo, quindi, all'interno della popolazione dei detenuti il cibo diventava una componente egualitaria. Il regolamento
Rocco non modificò questo aspetto; cfr. Articolo 1 del Regio Decreto n. 393 del 19 febbraio 1922, in “Gazzetta
Ufficiale del Regno d'Italia”, n. 84, 10 aprile 1922, p. 805; Rocco, Relazione del ministro al Regio decreto 18 giugno
1931, cit., p. 19 e articolo 248 Regio decreto 18 giugno 1931, n. 787, Regolamento per gli istituti di prevenzione e di
pena, cit., p. 59.
41
Colombi, Nelle mani del nemico, cit., p. 96. Pur prescindendo dalla qualità, inoltre, il cibo era scarso per i consumi di
un uomo adulto, e ciò costringeva gli antifascisti reclusi a continui appelli verso i familiari per poter far ricorso al
sopravvitto, per una quota massima fissata dal ministero che non poteva superare le cinque lire al giorno. Nel 1934
questa era di cinque lire al giorno, ma, come ha ricordato Colombi, «bisognava averle», e «la grande maggioranza» dei
detenuti politici «non disponeva che di qualche decina di lire al mese». Anche l'aiuto che poteva provenire dall'esterno
col tempo scemava. Con gli anni, e con il progressivo restringimento delle possibilità economiche delle proprie
famiglie, «il livello dell'oblio» si stendeva sui detenuti e sulle loro «disgrazie», i vaglia si facevano rari e «le cifre
sempre più modeste»; cfr. Ivi., p. 97. Sul tema è interessante confrontare anche la lettera del 1929 di Alessandro Pieri
(classe 1904) ad un suo amico: «io qui non è più possibile che possa andare avanti, lo stare continuamente dei mesi col
semplice vitto che passano qui credi che è proprio brutta, e perciò mi rivolgo direttamente a te affinché tu voglia fare un
ultimo sacrificio. Spero non vorrai negarmelo se sarai nelle condizioni di poterlo fare. Dunque sono a chiederti se puoi
mandarmi, a titolo di prestito che io mi impegno di restituirti un po' alla volta quando sarò in libertà, quel tanto che mi è
necessario e indispensabile per comprarmi un po' di sopravvitto, e cioè un paio di lire o tre al giorno. Credimi, se sono
arrivato a tanto è perché sono agli estremi». Pieri era stato arrestato nel 1927 per organizzazione comunista e
condannato dal Tribunale speciale a 7 anni e mezzo di reclusione; cfr. AA.VV. Lettere di antifascisti, Vol. I, cit., p. 300.
Lettera di Alessandro Pieri del 21 marzo 1929 dal carcere di Oneglia.
42
Tabella delle qualità e quantità dei generi che compongono le singole razioni di vitto ordinario per i detenuti sani, in
Regio decreto 18 giugno 1931, n. 787, Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, cit. p. 69-70.
43
Gli antifascisti in carcere rifiutavano i pasti delle ricorrenze di regime e, come avveniva al confino, cercavano di
celebrare le giornate a loro care attraverso l'autodistribuzione di razioni migliori. Girolamo Li Causi, che dopo il
periodo di segregazione a Portolongone venne trasferito a Civitavecchia, ha ricordato che gli «sciacquoni» dei bagni
comuni del carcere laziale, a volte, dopo essere stati puliti «ben bene», venivano utilizzati per accumulare le razioni
giornaliere di vino - mezzo litro - da usare poi come scorta per le feste come il primo maggio; cfr. Li Causi, Il lungo
cammino, cit., p. 168.
124
gli antifascisti - e per i comunisti era proibito dalle disposizioni dell'Internazionale - nei casi in cui
veniva praticato interveniva il personale di sorveglianza che, tramite una sonda, nutriva
forzatamente il detenuto. Rocco Pugliese, ventisettenne condannato a 24 anni e 7 mesi di
reclusione, nell'ottobre del 1930 morì soffocato mentre gli agenti di custodia tentavano di fargli
«ingurgitare del cibo».44
La costrizione del corpo non era rappresentata solo dagli spazi; muri insormontabili,
reticolati, torri di guardia; anche l'astinenza sessuale poteva avere conseguenze psichiche che
preoccupavano alienisti, psichiatri e criminologi.45 Tuttavia, la sessualità dei detenuti sarebbe
restata un elemento taciuto rispetto alla vita carceraria, l’unico aspetto non normato anche nella
regolamentazione penitenziaria del 1931.46 Nella memorie degli antifascisti, l'astinenza sessuale è
stata descritta come un pericolo, come causa della masturbazione, vera manifestazione
dell'abbrutimento morale a cui si restava esposti. Per i comunisti - per i quali, oltre alla disciplina
propria del carcere, vigeva una rigida disciplina di partito interna ai ricostituiti gruppi politici «distogliere» i giovani «dall'assillo sessuale» e «far loro acquistare il costume di disciplinare gli
impulsi e gli istinti» era una cosa considerata «difficilissima». 47 Autocontrollo ed «una severa
moralità puritana» venivano considerati dai gruppi interni come rimedi per respingere il «pericolo
della degenerazione». Per i casi di omosessualità era previsto «l'allontanamento dalla collettività
politica», in quanto considerata una «liberazione incontrollata degli impulsi sessuali». La
masturbazione era «l'unico sfogo» accettabile e allora si facevano sforzi di «reciproco controllo per
impedirne l'abuso».48 R., il giovane empolese sospettato di essere un simulatore di cui abbiamo
parlato nel capitolo precedente, in carcere era stato isolato dai compagni arrestati con lui, tra i quali
anche il fratello, perché «si masturba[va] continuamente».49
Considerazioni simili possono essere fatte rispetto alle colonie di confino. In un contesto
dove la popolazione segnava proporzioni di genere estremamente sbilanciate dal lato maschile la
vita sessuale era quasi impossibile. I pochi che erano riusciti a farsi raggiungere dalle mogli o dalle
44
Ivi, p. 152. L'internazionale comunista considerava lo sciopero della fame inutile e dannoso per la salute, oltre che
umiliante, proprio per il ricorso all'alimentazione forzata; cfr. Colombi, Nelle mani del nemico, cit., pp. 151-152.
Secondo una testimonianza dell'ex senatore Francesco Spezzano, Pugliese morì ucciso a bastonate. La versione
ufficiale, comunque, fu “paralisi cardiaca”; cfr. Dal Pont, Antifascisti italiani nel Casellario Politico Centrale, cit.,
quaderno 15 p. 218. Pugliese Rocco.
45
Già nel 1876 Cesare Lombroso aveva definito «l'ubbriacamento spermatico, prodotto dall'eccessiva continenza»
riscontrabile nei «costretti ad una vita celibe o solitaria» - come i detenuti - come «un punto di partenza fisiologico» che
poteva condurre verso «i crimini più orrendi»; cfr. Cesare Lombroso, L'uomo delinquente studiato in rapporto alla
antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie, Hoepli, Milano 1876, in in Frigessi , Giacanelli,
Mangoni, Cesare Lombroso. Scritti scelti, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 392.
46
Ricci , Salierno, Il carcere in Italia, cit., p. 207.
47
Li Causi, Il lungo cammino, cit., p. 157.
48
Amendola, Un'isola, cit., pp. 152-153.
49
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, fascicolo processuale personale, Direzione delle carceri giudiziarie di Firenze, 9
settembre 1931.
125
compagne, cosa estremamente difficile dopo la fuga da Lipari del 1929, videro disintegrarsi
nuovamente il proprio nucleo familiare nel 1935, conseguentemente a nuove disposizioni emanate
dopo una protesta dei confinati di Ponza.50 Le relazioni sentimentali tra i confinati e le confinate
erano ostacolate. Queste, non solo non potevano vivere nei cameroni né potevano far entrare
nessuno nelle loro abitazioni, ma, in ossequio a principi di una comune moralità, a volte vedevano
vietarsi dalle direzioni anche la possibilità di parlare con gli uomini durante le ore di libera uscita. 51
La formazione di legami sentimentali tra confinati ed isolani, infine, era fortemente contrastata,
soprattutto per il timore delle autorità che questi contatti potessero creare intorno ai politici «un
ambiente di amicizia e di protezione» in grado di ostacolare la vigilanza, «soprattutto nei riguardi
della corrispondenza clandestina».52
Altro fattore importante da considerare, nella ricostruzione degli elementi di disagio
psicologico presenti in condizione di detenzione è quello relativo al tempo ed alla sua
organizzazione. La disciplina della «pianificazione del tempo», infatti, rappresenta «una delle
tecniche più sperimentate del potere sociale». Più la disciplina carceraria è rigida, più questa si
spinge a «sincronizzare e coordinare i tempi», costringendo «gli individui» a vivere «in un eterno
presente», fino alla «soppressione della coscienza individuale del tempo». 53
In carcere, il potere di organizzazione del tempo sociale si esprimeva - e si esprime - nello
«stabilire delle scansioni, costringere a determinate operazioni, regolare il ciclo di ripetizione». 54 La
normazione di aspetti della vita interna - come la sveglia mattutina o il momento del riposo, il
trasferimento nei reparti comuni o il rientro nelle celle - era delegata alle direzioni dei diversi
stabilimenti penitenziari. Anche il regolamento del 1931 avrebbe soltanto confermato due
condizioni di carattere generale: che dall'ora in cui era previsto il riposo fino alla sveglia era
obbligatorio il silenzio assoluto e che ciascun detenuto potesse godere «almeno di un'ora di
passeggio al giorno»55. Quali che fossero, le disposizioni interne riducevano o eliminavano qualsiasi
tipo di libertà d'azione, ad esempio prevedendo una distinzione tra il momento del rientro in cella e
quello per sdraiarsi sulla brandina e poi le punizioni per chi si fosse alzato «con ritardo o» disteso
«qualche minuto prima della campana». 56
50
Ebner, Dalla repressione dell'antifascismo al controllo sociale, cit., p. 102.
Alessandra Gissi, Un percorso a ritroso. Le donne al confino politico 1926 – 1943, in "Italia contemporanea", n. 226,
marzo 2002, pp. 50-51. Nel caso in cui alla direzione fosse giunta notizia di una relazione clandestina questa disponeva
il trasferimento di uno dei soggetti in un'altra colonia; cfr. Corvisieri, La villeggiatura di Mussolini, cit., pp. 177-178.
52
Ivi, p. 183. A Ponza, sin dal 1928, momento in cui sull'isola venne istituita una colonia di confinati politici, gli
abitanti erano stati ammoniti: «qualsiasi familiarità» avrebbe reso «i responsabili passibili di esemplari e gravi
provvedimenti di polizia»; cfr. Ebner, Dalla repressione dell'antifascismo al controllo sociale, cit., p. 95.
53
Wolfgang Sofky, L'ordine del terrore. Il campo di concentramento, Laterza, Roma - Bari 2004, p. 109-110 e 122.
54
Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 162-163.
55
Articoli 74 e 76, Regio decreto 18 giugno 1931, n. 787 cit., p. 39.
56
Colombi, Nelle mani del nemico, cit., p. 93.
51
126
Al confino la regolamentazione del tempo presentava invece minori rigidità. L'autorità di
sorveglianza stabiliva gli orari di ingresso e di uscita dalle abitazioni o dai cameroni, mentre la vita
all’aperto non poteva cominciare prima dell'alba e terminare dopo il tramonto. Inizialmente, la
giornata era scandita dall'appello mattutino per tutti i confinati e, al rientro, dalla chiusura delle
porte e dalle poche ispezioni notturne.57 La fuga di Rosselli, Nitti e Lussu determinò tuttavia
ulteriori restrizioni. A Lipari, si passò dall'unico appello mattutino a tre appelli da rispettare nel
corso della giornata e le ispezioni notturne divennero continue.58
L’inatio mentis poteva condurre ad una sindrome «di tipo nevrotico» detta «del filo
spinato», riscontrabile sia nei detenuti, che nei ricoverati in manicomio che negli internati nei campi
di prigionia. I suoi «sintomi principali» sono rappresentati dal «progressivo impoverimento della
vita emozionale», dalla «perdita dell’energia» e dello spirito d’«iniziativa», dalla «difficoltà a
concentrarsi» e dall’«irritabilità».59 A proposito dell'«influenza demoralizzante» che possono avere
le condanne ad un tempo molto lungo, invece, Erving Goffman scrive che gli internati vivono «la
sensazione che il tempo passato nell'istituzione sia sprecato, inutile, o derubato dalla propria vita». 60
Anche gli antifascisti in carcere soffrirono i disagi dell’inazione, e, per loro, il tempo era un
vuoto da riempire, un ostacolo da superare, qualcosa di cui riappropriarsi. I giorni seguivano «ai
giorni con la stessa monotonia, lo stesso ritmo» - scriveva Michele Giua in una lettera alla moglie e «il giungere della sera» si accompagnava ad «un senso di peso e di stanchezza». 61 Li Causi ha
ricordato lo sforzo di «dominare il tempo» per evitare di impazzire, perché in cella «il trascorrere
dei secondi, dei minuti, delle ore, dei mesi e degli anni» diventava «un abisso di desolazione e di
sgomento».62
La disciplina carceraria disponeva di strumenti in grado di agire sulla percezione individuale
dello scorrere del tempo. Il tipo di regime previsto poteva provocare conseguenze differenti nella
percezione temporale. L'isolamento totale era sicuramente la condizione estrema. Nei primi tre mesi
di segregazione, per citare un caso, a Paolo Betti, condannato nel 1928 a dodici anni di reclusione
per ricostituzione del partito comunista, nel periodo di segregazione furono negati anche gli occhiali
per leggere, costringendolo all'assoluta inattività.63 A volte anche l'immaginazione poteva diventare
57
Le abitazioni che i confinati potevano affittare avevano uno sportello apribile dall'esterno che “doveva permettere alle
ronde notturne di guardare, attraverso la porta interna sempre spalancata, direttamente fin nella camera da letto”; cfr.
Amendola, Un’isola, cit., p. 136.
58
Ebner, Dalla repressione dell'antifascismo al controllo sociale, cit., p. 93.
59
Sanna, Sindromi reattive alla carcerazione, cit., pp. 318-319.
60
Goffman, Asylum, cit., p. 94.
61
Lettera di Michele Giua del 5 agosto 1935 dal carcere di Roma in AA.VV. Lettere di antifascisti, Vol. II cit., p. 113.
62
Li Causi, Il lungo cammino cit., p. 146.
63
Lettere di Paolo Betti del 22 agosto e del 7 ottobre 1928 dal carcere di Portolongone in AA.VV. Lettere di antifascisti
dal carcere e dal confino, Vol. II, cit., pp. 45-46. Betti (classe 1894), era stato arrestato per organizzazione comunista e,
nel 1928, condannato dal Tribunale speciale a dodici anni di reclusione.
127
parte «essenziale di una vera e propria strategia di sopravvivenza».64 Le notti, in ogni caso, «non
finivano mai».65 Un altro elemento che aveva un effetto di dilatazione del tempo era il regime del
silenzio. Con il regolamento del 1931, tale obbligo smise di essere un «elemento» di esecuzione
della pena, come previsto nelle sentenze di condanna all'ergastolo o alla reclusione, e diventò a tutti
gli effetti «una modalità di vita carceraria». 66 Negli stabilimenti di segregazione rigida, come
Portolongone, il silenzio doveva essere totale. Gli agenti di custodia portavano «scarpe felpate» e
non alzavano mai la voce. Se dovevano chiamare un detenuto pronunciavano il numero
sussurrando. D'inverno, gli unici segni «di vita» che provenivano dai vari reparti «erano la tosse e lo
scatarrare, d'estate lo sbadiglio da belva annoiata». Era di notte, però, che le «angosce venivano
fuori», quando «improvvisamente da una cella partivano urla disperate, che costringevano i custodi
a far uscire il detenuto, il quale, in preda agli incubi, credeva di morire».67
Al confino, la monotonia delle giornate, i mesi o gli anni di detenzione, la desolazione dei
luoghi, potevano provocare, rispetto alla percezione dello scorrere del tempo, conseguenze simili a
quelle vissute nelle case di pena. Le testimonianze descrivono pomeriggi «quasi atroci» passati nel
caldo «veramente soffocante» delle isole.68 Il momento di massima discontinuità rispetto al
susseguirsi delle ore era segnato dall'arrivo del vaporetto, che, insieme ai pacchi che provenivano
dalle famiglie dei più fortunati, e ai nuovi condannati alla colonia, portava la posta, «le novità, l'aria
di fuori, il ricordo della civiltà».69 La forzata inattività e le conseguenze rischiose che questa poteva
determinare specie in quanti provenivano da categorie sociali meno abituate a confrontarsi con il
lento incedere delle albe e dei tramonti, sono riassunte da Gramsci in una lettera da Ustica:
è incredibile come gli uomini costretti da forze esterne a vivere in modi eccezionali ed artificiali sviluppino
con particolare alacrità tutti i lati negativi del loro carattere […] I più calmi, sereni e misurati sono i
contadini; poi vengono gli operai, poi gli artigiani, quindi gli intellettuali, tra i quali passano raffiche
improvvise di follia assurda e infantile.70
64
Gabrielli, Fenicotteri in volo, cit., p. 226. Nello studio della Gabrielli viene citata una lettera di Camilla Ravera dove
si descrivono le lunghe ore di solitudine passate ad elaborare mentalmente “grandi concerti di musica classica”.
65
Amendola, Un'isola, cit., p. 151.
66
Il regolamento del 1931 disponeva il silenzio durante gli spostamenti collettivi, il passeggio, le ore di riposo notturno
e le funzioni religiose. Nei restanti momenti i detenuti dovevano comunque parlare “a voce bassa”; cfr. Rocco,
Relazione del ministro al Regio decreto 18 giugno 1931 cit, pp. 8-9.
67
Li Causi, Il lungo cammino, cit., pp. 148-149.
68
Lettera di Ermanno Bartellini del 21 agosto 1929 dall'Isola di Lipari, in AA.VV. Lettere di antifascisti, Vol. I, cit., p.
37. Bartellini (classe 1897), socialista ed ex ufficiale del genio durante la Prima guerra mondiale era stato arrestato nel
1928 ed inviato al confino di Lipari.
69
Testimonianza di Alberto Jacometti, in Ghini, Dal Pont, Gli antifascisti al confino, cit., pp. 254-255. L'arrivo della
posta - unico mezzo per tenere ancora in piedi i legami con i familiari - è stato descritto da Jacometti come «lo
spettacolo più curioso del confino». I confinati si presentavano in «cappelloni di paglia, cappelli e berretti di carta,
occhialoni, maglie dei più inverosimili colori, camicie stracciate e sbrindellate, calzoni lunghi e corti, rappezzati come
Dio vuole, o non rappezzati affatto, sandali di cuoio e di corda, zoccoli, pantofole, piedi nudi e zazzere scomposte,
ravviate, rabbuffate o sventolanti, tutto quello che può dare la strada, il porto, c'è. Una mezz'ora di silenzio quasi
perfetto, durante la quale non si vedono che occhi luccicanti, visi tesi, qualche mano che, a dispetto di tutto, trema […]
chi è rimasto senza nulla, s'avvia mogio mogio, con un sapore di cenere in bocca».
70
Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, Editrice L’Unità, Roma 1988, lettera del 7 gennaio 1927, p. 49.
128
L’ozio e la noia era causa dell’abbrutimento. La ginnastica in cella e le letture
rappresentavano degli ottimi antidoti. Lo studio, soprattutto, era anche una possibilità di formazione
culturale oltre che politica, e non mancavano quelli che, di fronte a questa prospettiva, pensavano
che la condanna potesse trasformarsi in un’occasione: «quello che non ho fatto da bambina faccio
ora», scrisse alla madre un'operaia condannata a dieci anni di reclusione.71 I più preparati si
adoperavano per organizzare dei corsi. Quando lo svolgimento di vere e proprie lezioni non era
possibile, a causa del regime di detenzione, ci si organizzava diversamente, magari stabilendo un
sistema di controllo sullo stato individuale di avanzamento dei programmi. In una lettera al marito,
descrivendo la sua giornata nel carcere di Perugia e il tempo scandito dalla sveglia, dallo studio
solitario in cella, dall'ora d'aria e dalle attività comuni, Adele Bei racconta che ogni pomeriggio le
detenute politiche dovevano «fare rapporto» di quanto avevano studiato nella mattinata. L'ora
precedente la separazione, prima di tornare in cella, veniva dedicata alla «ginnastica» in gruppo. 72
L’osservazione della personalità e le punizioni.
Le pene detentive o le misure di sicurezza non erano perpetue. Per gli antifascisti le
condanne al carcere e al confino si potevano sommare fino a prorogare sine die la detenzione, ma,
in linea teorica, al sistema repressivo era demandata anche la presa in esame della condotta dei
condannati e la valutazione dei loro progressi o regressi compiuti sulla strada del reinserimento. Ai
fini di questa valutazione era necessaria l'osservazione delle singole personalità e la loro
classificazione, che avveniva seguendo lo schema disciplinato / indisciplinato e si basava sul
sistema di privilegi e punizioni. Così, come per i condannati per ubriachezza molesta e recidiva
erano le ricadute nell'alcoolismo ad essere sanzionate, per gli antifascisti, per i quali era la
pericolosità politica a costituire il tratto stigmatizzante della loro personalità, a finire sotto controllo
erano invece gli atti o gli atteggiamenti che mostravano la volontà di non prendere le distanze dal
proprio passato, in un’ottica in cui gli oppositori politici non venivano considerati solo come nemici
da punire, ma anche come deviati da correggere. Il mancato ravvedimento, segnalato a volte nelle
71
Lettera di Marcella Oriani del 31 luglio 1935 dal carcere di Perugia, in AA.VV. Lettere di antifascisti, Vol. II, cit., p.
256. Marcella Oriani (classe 1898) era stata arrestata nel 1934 per organizzazione comunista e condannata dal Tribunale
speciale a dieci anni di reclusione.
72
Ivi, p. 44. Lettera di Adele Bei del 13 agosto 1935 dal carcere di Perugia. Adele Bei (classe 1904) era stata arrestata
nel 1933 per attività comunista in Italia e condannata dal Tribunale speciale a 18 a diciotto anni di reclusione.
L’organizzazione di corsi di alfabetizzazione e di formazione politica hanno fatto giustamente assumere al carcere e al
confino la connotazione di vere e proprie “scuole” per gli antifascisti, dove quanti vi arrivavano «con una istruzione
meno che elementare», spesso «ne ripartivano» dopo «essere diventati in grado di argomentare le proprie convinzioni e
di diffonderle»; cfr. Ghini, Dal Pont, Gli antifascisti al confino, cit. p. 75. Gli stessi documenti di polizia, intorno al
1935, cominciarono a definire il confino politico come una «scuola di antifascismo», o una «scuola di comunismo»; cfr.
Ebner, Dalla repressione dell'antifascismo al controllo sociale, cit., p. 101.
129
relazioni di polizia, indicava proprio questo. Ravvedimento, etimologicamente, significa
riconoscere di aver agito male e correggersi. Questa correzione si poteva manifestare soltanto
attraverso prove evidenti che palesassero la volontà di seguire la retta via indicata dal regime, come
ad esempio non frequentare più i compagni di un tempo. La domanda di grazia che gli antifascisti
potevano presentare - che conteneva sia una presa di distanza dalle idee professate fino al quel
momento sia l'impegno a non ricadere in futuro negli stessi errori - rappresentava il punto più alto di
questo cammino di redenzione e poteva mettere rapidamente fine alla detenzione.
Nelle isole l'osservazione della personalità dei confinati era demandata al personale di
sorveglianza ed ai direttori delle colonie, che, periodicamente, inviavano alle prefetture e al
Ministero dell'Interno delle relazioni sulla condotta morale e politica dei condannati. Se per un
congruo periodo di tempo il confinato si era dimostrato disciplinato e rispettoso dei regolamenti, era
facoltà del ministero liberarlo condizionalmente prima della scadenza del periodo di assegnazione.
Le regole da rispettare, come abbiamo detto, erano fissate dalla carta di permanenza. Alcune erano
legate propriamente alla sicurezza - come il divieto di portare armi - altre agli atteggiamenti - come
ad esempio l'obbligo di non dar luogo a sospetti. Quest’ultima disposizione era tanto indeterminata
quanto estendibile alle più diverse situazioni, perciò lasciava nelle mani dell’autorità un illimitato
potere di intervento. Le punizioni erano inflitte dal direttore della colonia e variavano dall'obbligo
di non uscire durante il giorno fino al deferimento al tribunale per nuove condanne all’arresto o alla
reclusione, che reinserivano il confinato nel circuito penitenziario. 73
In carcere l'osservazione dei detenuti cominciava sin dal loro ingresso. Le norme di vita
penitenziaria prescrivevano un mese di isolamento sotto stretta sorveglianza, che doveva consentire
di individuare il carattere dei nuovi reclusi. Allo scopo di testarne le reazioni - ha raccontato Li
Causi ricordando il suo ingresso a Portolongone nel 1928 - durante quel periodo il detenuto «veniva
sovente fatto oggetto di provocazioni e di ingiuste accuse da parte della custodia». 74 Il regolamento
del 1931 stabilì che, ogni giorno, il medico, il direttore ed il cappellano avrebbero dovuto visitare le
celle di segregazione e raccogliere in un registro i risultati delle loro osservazioni. Se, alla fine, un
detenuto risultava inadatto alla vita in comune ma correggibile, poteva essere ammesso per gradi al
regime penitenziario ordinario. Se invece veniva dichiarato incorreggibile, doveva essere trasferito
in case penali a regime carcerario più duro: le case di punizione e le case di rigore - destinate agli
«ostinatamente ribelli all’ordine ed alla disciplina» - o le case di custodia e quelle per minorati
psichici - destinate a quanti manifestavano segni di alienazione derivanti da menomazioni mentali.
Le valutazioni della personalità continuavano per tutta la durata della pena ed affiancavano la
direzione nella scelta delle ricompense o delle punizioni previste dal regolamento.
73
74
Articoli 186-187 del Regio decreto n. 773 del 18 giugno 1931, Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza.
Li Causi, Il lungo cammino cit., p. 146.
130
L'«attaccamento» dimostrato al lavoro, alla religione ed all'istruzione civile, nonché il rispetto verso
le autorità ed i funzionari di sorveglianza, erano gli elementi che fondavano il riconoscimento per il
detenuto della qualifica di «buono»; una qualifica propedeutica al «miglioramento nelle condizioni»
di pena. Le punizioni, invece, si potevano articolare dalla privazione di trascorrere l'ora d'aria
insieme agli altri detenuti all'isolamento a pane ed acqua, da un minimo di tre giorni fino ad un
massimo di tre mesi a giorni intervallati. Appena aperta la procedura di sanzione il detenuto veniva
escluso dalla possibilità di scrivere, di avere colloqui o di avere accesso al sopravvitto. Il
regolamento determinava «espressamente» quando e come applicare «le singole punizioni», ma,
come nel caso delle colonie di confino, ad infrazioni specifiche ed oggettive - come ad esempio il
possesso di oggetti vietati o la tentata evasione - venivano sommate «mancanze» definite in termini
che lasciavano molto spazio all’interpretazione e che, nella valutazione dei casi, dovevano tener
conto anche delle risultanze sul «grado di pericolosità del detenuto» e sulla «sua attitudine al
rispetto della disciplina». Il semplice sospetto di tenere un atteggiamento «poco rispettoso» o l’aver
fatto «osservazioni» giudicate «sconvenienti» poteva essere sufficiente per finire in isolamento fino
ad un massimo di venti giorni. Il «contegno arrogante» verso i secondini aggiungeva all'isolamento
anche il trattamento a pane ed acqua, mentre dimostrarsi «irriverente» nei confronti dei funzionari
superiori veniva sanzionato con pane ed acqua, e con la sostituzione del letto con il «pancaccio in
legno»75 Gli effetti che tali provvedimenti avevano sul corpo potevano essere devastanti. L'ingresso
in una cella di segregazione poteva essere vissuto come la discesa «in una fossa profonda»: in uno
spazio di un metro e mezzo per due e mezzo, senz'aria, «puzzolente», con «un filo di pallida luce»
e, a volte, senza nemmeno il buiolo, ma solo con «un po' di segatura in un angolo, come si fa per un
animale domestico». A Civitavecchia, dopo quarantacinque giorni di punizione, Arturo Colombi si
ammalò. Colto da febbri sopra i quaranta gradi pensò di morire, a trentacinque anni, «in quella cella
solo come un cane»76.
Data la loro condizione di criminali politici, le possibilità che gli antifascisti incappassero in
qualche punizione erano molte.77 Nell'impenetrabilità del carcere o nell'isolamento delle colonie,
75
Sulle ricompense e sulle punizioni avrebbe insindacabilmente deciso il “Consiglio di disciplina”, composto dal
direttore del carcere - il cui voto era prevalente - dal medico e dal cappellano. Per il detenuto il percorso di premialità
iniziava con il riconoscimento di un trattamento speciale nel passeggio e nella corrispondenza e poteva spingersi fino al
trasferimento in istituti di riadattamento sociale o alla liberazione condizionale. Per quanti, invece, dopo aver subito le
punizioni più gravi, continuassero a perseverare nella cattiva condotta, era prevista la segnalazione al Giudice di
sorveglianza e il suo trasferimento in una casa di punizione, da dove sarebbe uscito per tornare in un carcere comune
solo “mantenendosi calmo e disciplinato per il periodo di una anno”. Per le donne le punizioni erano gradatamente
ridotte e prevedevano delle eccezioni nei casi di gravidanza o di allattamento; cfr. Rocco, Relazione del ministro al
Regio decreto 18 giugno 1931 cit., pp. 6, 13-14 e pp. 48-49, art. 147-166.
76
Colombi, Nelle mani del nemico cit., pp. 107-108 e 157.
77
Ad un emiliano, persino la pronuncia del nome della propria città costò la cella a pane ed acqua. Infatti, dopo che la
Wehrmacht aveva da pochi giorni spostato il confine orientale, il suono della parola «Bologna» venne scambiato
dall'agente di sorveglianza con quello ben più “pericoloso” di «Polonia»; cfr. Gian Carlo Pajetta, Il ragazzo rosso,
Mondadori, Milano 1983, p. 259.
131
vista l'elasticità dei regolamenti, il giudizio sulle manifestazioni della personalità era demandato alla
discrezionalità dei direttori, degli agenti, dei cappellani, dei medici. A loro spettava l'ultima parola,
e quindi la possibilità di assumere un atteggiamento più o meno intransigente. Le testimonianze
degli antifascisti ci restituiscono un quadro differenziato, dove, alle vessazioni ed agli arbitri, si
alternano indulgenza e pietà. Adele Bei, ad esempio, ha raccontato che i carabinieri che la
scortarono all’imbarco per Ventotene si commossero vedendola in piedi per tutto il tragitto, «col
viso incollato al finestrino a guardare il mondo», dopo otto ininterrotti anni di reclusione in cui,
dalla finestra del carcere, aveva potuto vedere soltanto lo stesso «pezzettino di cielo». 78 Quanto
potesse incidere l’atteggiamento del singolo funzionario nella creazione di situazioni più o meno
afflittive è ben dimostrato dalla testimonianza di Angelo Sorgoni. Questi, durante una traduzione da
Napoli ad Ustica, si imbatté in un ufficiale che sul piroscafo impose le manette sia di giorno che di
notte, nonostante i confinati fossero stati «chiusi in fondo alla stiva». Dopo una sosta nel carcere di
Palermo e il cambio della scorta, al momento dell’imbarco per Ustica il nuovo ufficiale fece liberare
i polsi a tutti e concesse la possibilità di viaggiare sul ponte79.
Il regime era ben consapevole dell'importanza che assumeva il fattore umano per l'efficacia
delle proprie strategie repressive, e, per ottenere un atteggiamento coerente con le direttive
ministeriali da parte di quanti erano incaricati di applicarle, ridusse gli spazi di discrezionalità anche
attraverso la sostituzione degli addetti alla sorveglianza con elementi ideologicamente più motivati.
Il direttore della colonia di Lipari, ad esempio, era un funzionario di polizia che considerava il
confino come una misura preventiva e non come una sanzione punitiva. A suo giudizio, misure
regolamentari troppo rigide erano da considerarsi in contrasto con la legge, e così, nel 1929, dopo la
fuga di Rosselli, Lussu e Nitti, venne dimissionato e la gestione dei servizi di sorveglianza fu
trasferita dalla polizia alla MVSN, che girava per l’isola con dei frustini di cuoio diede corso ad una
serie di punizioni indiscriminate verso tutti quei confinati che potevano essere accusati di resistere
alla disciplina.80
Sarebbe sbagliato generalizzare e descrivere il rapporto sorvegliante / sorvegliato secondo lo
schema classico carnefice / vittima. Tuttavia, alcune delle morti degli antifascisti avvenute in
carcere, specie quelle registrate come suicidio, gettano una luce sinistra sugli agenti di custodia e di
sorveglianza.81 E’ vero, del resto, che in carcere era possibile, e lo è ancora, togliersi la vita in tanti
78
Testimonianza di Adele Bei, in Ghini, Dal Pont, Gli antifascisti al confino cit., p. 210.
Sorgoni, Ricordi di un ex confinato cit., pp. 147-149.
80
Ebner, Dalla repressione dell'antifascismo al controllo sociale cit., pp. 91-94.
81
Come nel caso di D., il comunista di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente che si impiccò durante l’istruttoria
del Tribunale Speciale, o di Costanzo Raina e del figlio Antonio, suicidi entrambi a poche settimane di distanza l’uno
dall’altro, dopo essere stati trasferiti dal confino di Lipari al carcere di Messina per aver infranto alcuni articoli del
regolamento della colonia. Per le notizie sul suicidio di Costanzo e Antonio Raina cfr. Corvisiero, La villeggiatura di
Mussolini, cit., p. 78 e Dal Pont, Antifascisti italiani, quaderno 15 pp. 294-295, ad nomen.
79
132
modi: tagliandosi i polsi, buttandosi da un pianerottolo, impiccandosi alle sbarre o sbattendo la testa
contro un muro o contro le sbarre.82 E' anche vero, però, che in qualche caso sono le stesse
circostanze relative al trattamento del cadavere a lasciar immaginare un coinvolgimento
dell'amministrazione penitenziaria. Come nel caso delle sepolture di Gastone Sozzi, di cui abbiamo
già parlato, o di Giuseppe Riva, trovato impiccato in cella quattro giorni dopo il suo arresto,
avvenuto nell’ambito delle indagini sull’attentato al re del 1928, lo stesso in cui, come abbiamo
visto nel primo capitolo, era stato coinvolto il comunista milanese A., poi internato nel manicomio
giudiziario di Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto. Sozzi e Riva vennero seppelliti senza permettere
ai familiari di vedere i corpi.83 Le dinamiche di questi decessi le avrebbe descritte Alessandro
Pertini nel dopoguerra, spiegando alla Camera dei deputati quella che nelle carceri fasciste era
chiamata la pratica del «Sant'Antonio»: dopo aver chiuso in una cella la vittima designata, gli agenti
di sorveglianza le gettavano «una coperta addosso e quindi la massacra[va]no di botte». Nel caso in
cui a quel trattamento fosse seguita la morte, il corpo sarebbe stato appeso «all'inferriata» ed il
medico del carcere avrebbe poi compilato il referto: «suicidio».84
Al confino, mentre poliziotti e carabinieri non sempre garantivano la piena condivisione
delle politiche repressive verso gli oppositori, alcune testimonianze ci dicono che invece i militi
fascisti erano propensi a provocare le punizioni. A Ponza, ad esempio, si divertivano a ritagliare dai
giornali le foto «di qualche capo» e a metterle a terra, davanti alla porta d’ingresso degli edifici
destinati ai confinati. Non appena qualcuno inavvertitamente le calpestava, veniva arrestato per
oltraggio. Sull’isola, col tempo, il potere della milizia crebbe ulteriormente e gli arresti punitivi
diventarono possibili per ogni questione, compreso lo sfoggio di vestiti troppo nuovi o troppo puliti
in giornate particolari come il primo maggio.85 Fu lo stesso gusto per la provocazione,
probabilmente, a spingere i militi di Ponza ad uccidere il cane che gli antifascisti avevano adottato
come mascotte. Fu ritrovato una mattina del 1937, mentre galleggiava in mare «in balia delle onde».
Era stato preso a fucilate nell'unica notte in cui non era rimasto a dormire nel camerone dei
confinati.86 A Tremiti ed Ustica si tentò anche di imporre il saluto romano agli antifascisti. Le
proteste spinsero il regime a preoccuparsi per la cattiva pubblicità che il provvedimento stava
82
Ricci, Salierno, Il carcere in Italia, cit., p. 91.
Dal Pont, Antifascisti italiani, quaderno 17 p. 245, Sozzi Gastone; quaderno 15 p. 451, Riva Giuseppe.
84
Intervento dell'on. Alessandro Pertini, Verbali della Discussione della proposta di legge d'iniziativa popolare dei
senatori Terracini ed altri: Provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro familiari
superstiti, in Camera dei Deputati, Commissione I, Legislatura II, seduta del 23 febbraio 1955, p. 406. Sul tema del
trattamento dei cadaveri dei nemici politici nel corso del Novecento cfr. Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso.
Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006.
85
Testimonianza di Mario Magri, in Ghini, Dal Pont, Gli antifascisti al confino cit., p. 269-271.
86
Ivi, p. 309. Testimonianza di Alessandro Pertini.
83
133
procurando. Dopo qualche mese, Mussolini chiuse la questione stabilendo che i confinati politici
non avevano il diritto di salutare romanamente.87
In carcere, gli interventi ministeriali che invitavano a controlli più duri sugli antifascisti
risalivano al 1924, quando le preoccupazioni del regime rispetto alla politica penitenziaria si erano
rivolte verso un più stretto controllo dei detenuti sovversivi. Due anni dopo, una circolare avrebbe
raccomandato la «rigorosa sorveglianza» soprattutto sui comunisti. Questi, secondo il ministero,
disponevano di un’organizzazione - il Soccorso rosso - che «sotto le apparenze della filantropia e
della beneficenza» celava gli scopi del proselitismo e della propaganda.88 I legami esistenti tra
carcere e mondo esterno dovevano essere decisamente recisi. Tra il 1931 e il 1932, dopo che alcuni
di questi collegamenti vennero scoperti, quasi tutti gli antifascisti condannati dal Tribunale Speciale
vennero concentrati a Civitavecchia, Fossano e Castelfranco dell'Emilia.89 Il ministro Rocco era
perfettamente consapevole delle difficoltà di governare una popolazione di circa 60.000 detenuti;
sapeva bene che, all'interno degli stabilimenti, la vita quotidiana si trasformava in quella che lui
stesso aveva definito una «lotta continua» fra chi doveva vigilare e chi era vigilato.90 Al fine di
assicurare che verso gli antifascisti ci si comportasse con quella severità che il regime si aspettava,
gli addetti alla sorveglianza cominciarono ad essere selezionati tra gli ex squadristi. Secondo
Colombi, il personale di sicurezza del braccio di Regina Coeli destinato ai politici era stato «scelto
con cura tra i fascisti più fanatici», anche per assicurare un controllo sui sorveglianti che si
mostravano meno rigidi, mentre a Civitavecchia era il capo delle guardie a mantenere «fresca la
mentalità dello squadrista» e a non perdere «occasione per sfogare la sua ferocia anticomunista». 91
Anche in carcere, infine, non mancavano le provocazioni. A Portolongone, dove gli agenti di
custodia vi finivano o perché reclute o «per punizione», Li Causi trovava tutti i giorni una giovane
guardia carceraria che, non appena cominciava il turno, si metteva davanti alla sua cella a
canticchiare Giovinezza.92 Nel carcere di Bari, invece, sui muri stava scritto «qui si saluta
romanamente». In un intervento in Commissione I della Camera dei deputati del febbraio del 1955,
durante la discussione della proposta di legge Terracini sulle “Provvidenze a favore dei perseguitati
politici”, Alessandro Pertini ha ricordato un detenuto politico «percosso bestialmente» per essersi
rifiutato di fare il saluto fascista. A Santo Stefano, sempre secondo l'ex Presidente della Repubblica,
il giorno dopo che Rocco Pugliese morì nelle circostanze sopradescritte, durante l'ora d'aria le
87
Dal Pont, I lager di Mussolini cit., pp. 117-127 e Corvisiero, La villeggiatura di Mussolini cit., pp. 167-176.
Circolare riservata del 25 maggio 1926, in Neppi Modona, Carcere e società civile cit., pp. 1964-1965.
89
Colombi, Nelle mani del nemico cit., p. 31.
90
Neppi Modona, M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo cit., p. 815.
91
Colombi, Nelle mani del nemico cit., pp. 98-99 e 174.
92
Li Causi, Il lungo cammino cit., p. 153
88
134
guardie di sorveglianza ridacchiavano dicendo - «ad alta voce per farsi sentire» - che era giunta
«finalmente» l'ora di mettere «due o tre lire» per una corona da morto. 93
Prisonerizzazione, istituzionalizzazione e sindromi da detenzione.
Gli elementi dello «stato di detenzione» che «concorrono» alla formazione di «reazioni
psicopatologiche» sono rappresentati dallo «stress» quotidiano in cui vivono i detenuti, dalla perdita
della privacy provocata dalla sorveglianza continua, dal «senso di impotenza» rispetto al proprio
destino ed a quello dei propri cari rimasti fuori, dalla «promiscuità» forzata, dall’«astinenza
sessuale» e dall’«assenza di relazioni con l’esterno». 94
Per descrivere e spiegare gli «effetti derivanti all’individuo dalla esperienza della
carcerazione», sin dagli anni Quaranta del ‘900 la letteratura criminologica ha introdotto il concetto
di “prisonerizzazione”, con il quale si intende l’interiorizzazione della «cultura generale della
prigione» tramite l’assunzione degli usi, dei costumi e delle abitudini del carcere. La
prisonerizzazione è originata dall’interazione di fattori detti «universali» - come «lo sviluppo di
maniere nuove di mangiare, vestire, dormire» o «l’adozione del gergo» carcerario - con fattori
individuali - rappresentati sia dalla specifica condanna (il tipo e durata della pena assegnata) sia
dalle caratteristiche del singolo detenuto (l’età, la personalità, possibilità di contatto con il mondo
esterno, ad esempio tramite lo scambio di lettere). I fattori individuali possono intensificare o
ridurre gli effetti dei fattori universali, ma mai comunque in misura tale da eliminare i rischi di
disgregazione della «personalità» che i secondi comportano.95
I rischi della prisonerizzazione non riguardano soltanto i condannati al carcere. Le scienze
comportamentali
hanno
ampiamente
dimostrato
come
il
fenomeno
-
indicato
come
«istituzionalizzazione» - sia presente in tutte quelle istituzioni definite totali, in quanto «operano nel
93
Intervento dell'on. Alessandro Pertini, Verbali della Discussione della proposta di legge d'iniziativa popolare dei
senatori Terracini ed altri, cit., pp. 406-407.
94
Aldo Carnevale, Antonio Di Tullio, Medicina e carcere. Gli aspetti giuridici, crimonologici, sanitari e medico-legali
della pena, Giuffrè, Milano 2006, p. 116.
95
Aldo Piperno, La prisonerizzazione: teoria e ricerca, in Franco Ferracuti (a cura di), Trattato di criminologia,
medicina criminologica e psichiatria forense, Vol. XI, Carcere e trattamento, Giuffrè, Milano 1989, pp. 57-58. Un
esempio di fattore individuale potrebbe essere rappresentato dalla memoria dell'esperienza di guerra. Chi aveva
trascorso mesi interminabili in trincee piene di fango, topi e, a volte, cadaveri, poteva infatti trovare in quel terribile
passato la forza e le “coordinate” giuste per resistere di nuovo. Aladino Bibolotti (classe 1891), arrestato nel 1926 per
organizzazione comunista e condannato dal Tribunale Speciale a diciotto anni di reclusione, per cercare di rassicurare la
moglie sulla propria serenità di fronte alla prospettiva di dover scontare la lunga condanna si disse convinto che le
«capacità di adattamento dell’uomo» fossero «infinite». Nella sua precedente «vita di trincea», ricordava alla moglie,
aveva passato mesi «in faccia alla morte, dove il meno peggio e la fonte di felicità vera era, a volte, rappresentata da un
nonnulla, come un pezzo d'asse, una pietra, per rafforzare il provvisorio riparo o, magari, un po' d'erba semipulita per
improvvisare un cuscino». Al confronto in carcere poteva ben dire di possedere «tante cose»; cfr. Lettera di Aladino
Bibolotti del 21 giugno 1927 dal carcere di Milano, in AA.VV., Lettere di antifascisti, Vol. I, cit., p. 27. Sul tema della
«contaminazione» e l’innaturalità della vita di trincea cfr. Leeds, No man’s land, cit., pp. 29-31.
135
separare l’individuo dalla comunità», sia che questa separazione avvenga volontariamente - ad
esempio nel caso di un ricovero in ospedale - sia forzatamente - come nel caso dell’assegnazione ad
una colonia di confino politico.96 Le condizioni di degradazione fisica e di stress psichico che
potevano condurre gli antifascisti verso quelle che sono conosciute come «sindromi reattive alla
carcerazione» e che secondo la psichiatria forense spesso sono rappresentate da un aggravamento di
«quadri psicotici» preesistenti, potrebbero facilmente essere estese dai detenuti ai confinati.97
Il comunista bolognese A., ad esempio, nel luglio del 1928 venne internato nel manicomio
provinciale di Messina con un'ordinanza del direttore della colonia di Lipari, secondo il quale A.
aveva manifestato «segni di alienazione mentale con tendenza al suicidio» ed alla «violenza verso
gli altri».98 Per ordine del capo del governo, due settimane dopo A. venne liberato condizionalmente
dal confino, decisione presa per permettere il suo spostamento dal manicomio di Messina territorialmente competente per i confinati a Lipari - a quello di Aversa, dove probabilmente era
garantita una maggiore sorveglianza.99 Nel febbraio del 1935, dopo sette anni di internamento, A.
presentava «deliri incardinati e paradossali» che maturavano «su uno sfondo di evidente
dissociazione mentale».100 Era considerato uno «schizofrenico», per il quale i «periodi di apparente
calma» si alternavano ad «irrequietezza, eccitamento ed impulsività». Ripeteva giudizi severi «sul
Podestà del suo paese», sul quale, possiamo immaginare, ricadevano i suoi sospetti sulle
responsabilità dell’inizio del percorso che lo aveva portato all’internamento psichiatrico. 101 Il 3
ottobre del 1936, senza aver superato i quaranta anni, morì rinchiuso ad Aversa.102
Per il caso appena descritto, visto che A. nella sua scheda biografica veniva indicato come
elemento «dedito al lavoro» ed «affezionato alla famiglia» ma considerato da tutti come «poco
equilibrato», potrebbero essere valide le considerazioni sulla prisonerizzazione come processo che
conduce all’insorgere di psicosi in soggetti mentalmente predisposti.103 Diverso è il caso del
fabrianese M., sul quale pesava soltanto la pessima reputazione. Classe 1899, anarchico,
condannato ad un anno di carcere militare per diserzione e membro degli arditi del popolo, M. era
riuscito ad emigrare in Francia, dove, nell’estate del 1931, venne arrestato perché aveva partecipato
96
Piperno, La prisonerizzazione: teoria e ricerca, cit., pp. 57-58.
Sanna, Sindromi reattive alla carcerazione, cit., p. 301.
98
ACS, CPC, b. 346, f. 76242, e f. 12151, Prefettura di Messina, 26 luglio 1928. I fascicoli sono due ma si tratta della
stessa persona. Il percorso che aveva portato A. a Lipari era cominciato nel novembre del 1926, quando, degente in una
corsia dell’ospedale di Frosinone, riferendosi all’attentato subito a Bologna da Mussolini aveva detto: «“Con un colpo
solo si capisce che non l’hanno preso. Bisognava seguitare a sparare: se ci fossimo stati noi di Frosinone non
l’avessimo[sic!] sbagliato di certo!”». Al processo, celebrato quando ancora era in vigore il Codice Zanardelli, gli era
stato riconosciuto un vizio parziale di mente ed era stato condannato a tre mesi di carcere. Era stato poi confinato; cfr.
Ivi, Prefettura di Roma, 23 novembre 1926 e Prefettura di Frosinone, 15 agosto 1927.
99
Ivi, Ministero dell’interno, 30 luglio 1928 e Foglio senza intestazione, 21 agosto 1928.
100
Ivi, Alto commissariato di Napoli, 19 febbraio 1935.
101
Ivi, Alto commissariato di Napoli, 18 ottobre 1935.
102
Ivi, Prefettura di Frosinone, 14 ottobre 1936.
103
Ivi, Prefettura di Frosinone, Scheda biografica, 19 maggio 1927.
97
136
al tentativo di dar vita ad una manifestazione di fronte al Consolato italiano di Parigi. Espulso dalla
Francia, venne arrestato alla frontiera al momento del rimpatrio. Dal suo interrogatorio e da alcune
segnalazioni che erano poi pervenute dall’Ambasciata italiana, risultava un assiduo frequentatore di
ambienti comunisti ed anarchici. Ne venne consigliata l’assegnazione al confino piuttosto che
l’ammonizione, dato che non aveva rinnegato le sue convinzioni, si era dimostrato capace di atti
violenti ed era considerato «quanto mai sospetto il suo improvviso ed ingiustificato ritorno in
Patria».104
Come abbiamo visto nel primo capitolo, le preoccupazioni degli ambienti di polizia per
possibili attentati si facevano più pressanti quando a personalità irrequiete come quella di Marsilio l'Ambasciata italiana a Parigi lo aveva anche segnalato perché aveva schiaffeggiato un fascista - si
sommavano contatti con gli ambienti dell'opposizione all'estero. M., inoltre, era rientrato in Italia
nelle settimane in cui si verificarono i primi attentati organizzati da Domenico Bovone, di cui
abbiamo parlato sempre nel primo capitolo, quando ancora, però, quest'ultimo non era stato
arrestato e le indagini di polizia non avevano condotto a nulla di significativo. Ad ogni modo, il
Ministero dell’Interno si era interessato al suo rientro, raccomandando un «abile interrogatorio»
orientato a conoscere i «contatti» politici che aveva avuto in Francia. 105 Nell’agosto del 1931 M.
venne inviato al confino a Ponza per cinque anni, dove, la primavera successiva, sarebbe stato
anche arrestato e condannato ad un anno e tre mesi per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale.106
Tornato nuovamente a Ponza al termine della pena scontata a Poggioreale, venne segnalato tra i
«sovversivi residenti nel regno» da considerarsi «capaci di attentati terroristici». 107 Successivamente
cominciò a dare i primi segnali di paranoia. Venne allora ricoverato in una clinica psichiatrica di
Napoli. Da lì, grazie all’azione del padre - di cui torneremo a parlare nel prossimo capitolo a
proposito dei rapporti tra il manicomio, le autorità di PS e i familiari dei ricoverati - l’anno
successivo venne trasferito nell’ospedale psichiatrico provinciale di Ancona.108
Se, specie nel caso di una forte identità (come poteva essere quella dei condannati politici),
va considerato che in parte questa funzionava come un «meccanismo di difesa» in grado di
soccorrere coloro i quali si trovavano in condizioni di detenzione - aiutandoli ad opporsi a coloro
104
ASAn, Cat. A8, Quest. An “politici 1900-1943”, b. 74/b, f. M. M., n. 285, Commissariato di PS di Fabriano, 25
novembre 1929; Foglio senza intestazione, 26 novembre 1929; Commissariato di PS di Fabriano, 19 febbraio 1930;
Telegramma Questura di Bardoneccia, 31 maggio 1931; Questura di Ancona, Verbale di interrogatorio del 19 giugno
1931; Ministero dell’interno, 14 giugno 1931; Questura di Ancona, luglio 1931 (prot. 7104); per la citazione cfr.
Prefettura di Ancona, 8 agosto 1931.
105
Ivi, Telegramma decrifato, 6 giugno 1931.
106
Ivi, Ministero dell’interno, 14 agosto 1931; Questura di Napoli, 7 aprile 1932; Questura di Napoli, 26 settembre
1933; Foglio senza intestazione, 31 dicembre 1933.
107
Ivi, Elenco dei sovversivi residenti nel regno classificati come attentatori, 13 luglio XI (1934).
108
Ivi, Manicomio provinciale di Ancona, 30 dicembre 1935; Prefettura di Littoria, 7 marzo 1935; Prefettura di Littoria,
12 aprile 1935. Nell’archivio dell’ospedale psichiatrico di Ancona non è stato possibile rinvenire la sua cartella clinica.
Non si hanno notizie rispetto ad una sua eventuale dimissione.
137
che li avevano condannati ed a dare un senso alla pena - ciò non attenuava il trauma della
detenzione, la cui «essenza» risiede nella separazione, «nella frattura della continuità esistenziale
dell’individuo», fino a causare situazioni di «stress» capaci di innescare processi di «deterioramento
mentale».109 Quando a questo processo di deterioramento si accompagnavano altri fattori, che
seppure esterni al carcere potevano aggravare il carico psicologico dato dall’impossibilità di agire,
potevano insorgere segni di squilibrio anche in detenuti ideologicamente e psicologicamente più
preparati. Nel 1928, ad esempio, quando ai coniugi Paolo Betti e Lea Giaccaglia morì la figlioletta
Luce, questi si trovavano in prigione. Betti venne a conoscenza della notizia solo dopo molti mesi,
in modo vago e confuso. In uno degli estremamente rari contatti tra i detenuti a Portolongone,
confessò a Girolamo Li Causi di sentirsi impazzire.110 Alla moglie, invece, che era stata arrestata
qualche mese dopo di lui, scrisse di aver avuto dei sogni premonitori, durante i quali la piccola Luce
(che era stata mandata in URSS, dove doveva essere cresciuta, educata e protetta) sentendosi
chiamare dal padre rispondeva di non poterlo raggiungere. 111 Lea Giaccaglia venne informata dal
marito e fu subito investita da un forte senso di colpa, che non le faceva perdonare a se stessa di
aver fatto partire la figlia. La sua salute cominciò progressivamente ad indebolirsi, mentre l’assenza
di notizie precise sulla scomparsa della figlia non facevano che aggravare la sua pena. Venne
liberata dal carcere nel 1936, a 39 anni, in uno «stato fisico e psichico» inevitabilmente
«compromesso da quelle dure prove». Morì nel luglio dello stesso anno.112
Le «sindromi reattive alla carcerazione», che, come per i soldati in trincea, a volte potevano
assumere le sembianze di una vera e propria «fuga nella malattia», sono di diverso tipo. 113 Esiste la
sindrome della montagna magica - consistente nell’apprendimento dei valori criminali - e quella
dell’amnistia o della grazia - caratterizzata nella vana speranza del detenuto di ottenere la
liberazione o una riduzione della pena. Esistono poi sindromi causate da fattori che in parte
abbiamo descritto, come la sindrome da inazione, la sindrome da isolamento o quella da privazione
sensoriale. Quella che più di altre presentava - e presenta tuttora - le caratteristiche per costituire
una via facile al manicomio, comunque, era la sindrome persecutoria. Nella forma clinicamente più
lieve questa si caratterizza per la «sospettosità» del detenuto e per il suo «atteggiamento
guardingo». Nella forma clinicamente più grave, invece, essa può raggiungere la forma del delirio
109
Piperno, La prisonerizzazione: teoria e ricerca, cit., pp. 59-62.
Li Causi, Il lungo cammino, cit., p. 147.
111
Lettere di Paolo Betti del 21 giugno 1930 dal carcere di Portolongone e 20 settembre 1932 dal carcere di
Civitavecchia, in AA.VV. Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino, Vol. I, cit., pp. 48-51.
112
Gabrielli, Fenicotteri in volo, cit., pp. 243-243. La citazione è a p. 243; cfr. anche le lettere di Lea Giaccaglia del 23
aprile 1930, 27 gennaio del 1931, 24 febbraio 1931, 8 settembre 1931, 21 ottobre 1931 dal carcere di Venezia e la
lettera de1 4 dicembre 1931 dal carcere di Bologna, in AA.VV. Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino, Vol. I,
cit., pp. 53-58.
113
Sanna, Sindromi reattive alla carcerazione, cit., pp. 303-326; per la citazione rispetto alle psicosi carcerarie come
“fuga nella malattia” cfr. p. 327.
110
138
sistematizzato di persecuzione, che porta i detenuti a sentirsi continuamente minacciati, dagli
agenti, dal personale e dagli altri reclusi.114
Se pensiamo a quanto detto a proposito della selezione del personale di sorveglianza
all’interno dei bracci politici delle carceri e delle isole di confino, risulta molto comprensibile come
gli antifascisti si sentissero costantemente controllati o facilmente esposti alle punizioni ed alle
angherie degli agenti. A volte, risulta difficile stabilire un confine certo tra la persecuzione reale e la
paranoia o il delirio di persecuzione, che, nei documenti di polizia, finiva per giustificare l'adozione
di misure di sicurezza. Alcune vicende che descriveremo tra breve, specie per i risvolti successivi
alla caduta del regime, inducono a pensare che quelli che erano registrati come segni di squilibrio
mentale altro non fossero che manifestazioni di insofferenza verso la pesante disciplina carceraria o
di ribellione verso punizioni considerate ingiuste ed arbitarie. che si riteneva ingiusta o della
ribellione verso punizioni considerate ingiuste ed arbitrarie.
Gli strumenti di contenzione.
Di fronte alle manifestazioni di segni di squilibrio mentale, gli agenti di sorveglianza
dovevano intervenire per impedire che il condannato potesse nuocere a sé stesso o agli altri.
A volte, la familiarizzazione con letti e cinture di forza avveniva già prima dell’ingresso in
cella. R., ad esempio, un giovane comunista bolognese, fu trasportato da casa sua al carcere
giudiziario di Bologna legato ad una «lettiga», da degli «agenti della squadra politica» e da alcuni
«pompieri».115 Il giorno stesso era stato fermato nell’ambito di un’indagine sulla distribuzione di
volantini del partito comunista e del Soccorso rosso. Durante la perquisizione nella sua abitazione,
nascosti «sotto un granaio» gli erano state trovati alcuni volantini uguali a quelli distribuiti. Vistosi
scoperto, «con mossa fulminea» aveva afferrato un «grosso coltello da cucina» e si era lanciato
contro un carabiniere. Subito disarmato, era riuscito tuttavia a svincolarsi e ad afferrare un secondo
«grosso coltello», ma era nuovamente fermato solo grazie all’intervento di due sottoufficiali che,
«con le pistole in pugno», lo avevano tenuto «a distanza» sino all’arrivo dei rinforzi. Prima di essere
portato via, agli agenti aveva anche gridato: «Carne Venduta! Vigliacchi voi ed il vostro governo
che non mi dà lavoro!».116
114
Ivi, p. 303.
ASBo, Questura Categoria A8, Radiati busta. 30, fascicolo B. R., Direzione delle carceri giudiziarie di Bologna, 8
maggio 1928 e Copia del verbale di arresto, 7 maggio 1928. I volantini sequestrati dalla polizia sono conservati nel suo
fascicolo: uno è del Soccorso Rosso Internazionale, nel quale vengono fornite notizie sulla morte di Gastone Sozzi,
l’altro è del Pcdi, intitolato «“Perché i lavoratori liguri sappiano. Come vincere il fascismo? Lottando!»
116
Ivi, Questura di Bologna, 8 maggio 1928.
115
139
Una volta portato in carcere, R. venne slegato dalla lettiga ed «assicurato al letto di forza» in
una cella di sicurezza. Il giorno dopo, «il sanitario» lo visitò e lo fece slegare di nuovo,
giudicandolo «abbastanza calmo». 117 Dopo alcune settimane, l’impatto con il carcere, la forte
sorveglianza e probabilmente la pressione esercitata nei suoi confronti a causa dei fatti di cui si era
reso protagonista - un carabiniere era rimasto ferito alla mano sinistra - lo portarono a manifestare
nuovi segni di squilibrio, concretizzatisi in forti «accessi epilettici», durante i quali si era più volte
morso la lingua causandosi una profonda ferita. Venne allora legato nuovamente legato al letto di
forza, per più di dieci giorni.118
Secondo la criminologia di quel periodo, l’epilessia rendeva «pericolosissimi» gli individui.
Se un «epilettoide», anche solo sporadicamente, fosse venuto in contatto con sostanze intossicanti
come l’alcool, si assisteva generalmente allo «sviluppo di atti di violenza in genere, sotto forma di
oltraggi, di ribellioni e di lesioni».119 Questa interpretazione della malattia convinse le autorità a
considerare R. come capace «di atti inconsulti» ed in grado di trasformarsi in un «facile strumento
nelle mani di dirigenti sovversivi».120 Una volta scarcerato, la questura lo iscrisse allora nella
categoria delle persone «ritenute capaci di commettere od organizzare gravi azioni criminose»,
ordinando ai vari uffici di PS una «rigorosissima sorveglianza» da effettuarsi nei suoi confronti.121
Quando poi, alla fine del gennaio del 1931, venne nuovamente colpito da una «febbre» epilettica
che lo portò ad essere ricoverato in ospedale, da cui venne dimesso appena due giorni dopo, le
autorità del capoluogo emiliano non si lasciarono sfuggire la possibilità di chiudere definitivamente
i conti con lui.122 Nel volgere di due settimane venne segnalato il suo ricovero d’urgenza nel
manicomio “Roncati” di Bologna, in seguito alla manifestazione di generici «segni di squilibrio
mentale».123 Per la questura di Bologna il suo internamento rappresentava certamente la soluzione
di un problema, dato che la PS non avrebbe più dovuto impegnare i propri uomini nella vigilanza di
117
Ivi, Direzione delle carceri giudiziarie di Bologna, 8 maggio 1928.
Ivi, Direzione delle carceri giudiziarie di Bologna, Ufficio del medico, 14 luglio 1928. Fino al giorno dell’arresto R.
era sconosciuto alle autorità. Aveva ventisei anni ed era considerato come una «persona affezionata alla famiglia» ed un
«onesto ed assiduo lavoratore» dotato di «una discreta cultura letteraria». Dalle informazioni raccolte nei giorni
successivi emerse che era epilettico e che nel 1926 era stato ricoverato per tre mesi in ospedale. Il medico che lo aveva
curato sosteneva che la forma epilettica di cui Rodolfo soffriva era particolarmente grave, al punto che, anche «negli
intervalli» tra un attacco e l’altro, veniva spesso colpito da forti «cefalee ed obnulazioni psichiche» che alteravano
«profondamente» i «processi psichici superiori, specie quelli di critica». Il processo venne diviso tra la magistratura
ordinaria (competente per l’oltraggio ed il «tentato omicidio» di un pubblico ufficiale) e il Tribunale Speciale
(competente per il delitto di appartenenza al Pcdi e propaganda sovversiva). Entrambi i tribunali riconobbero che la sua
responsabilità doveva considerarsi «grandemente diminuita» per la malattia di cui soffriva, che lo rendeva «un
minorato». Conseguentemente venne applicato l’articolo 47 del codice Zanardelli, allora in vigore. Alla fine venne
condannato soltanto a due anni e quindici giorni di reclusione; cfr. Ivi, Carabinieri Bologna, 20 maggio 1928;
Direzione della clinica medica di Bologna, 15 maggio 1928; Sentenza del Tribunale speciale del 12 dicembre 1929.
119
Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., pp. 175, 253.
120
ASBo, Questura Categoria A8, Radiati busta. 30, fascicolo B. R., Questura di Bologna, 11 aprile 1930.
121
Ivi, Questura di Bologna, 4 novembre 1930.
122
Ivi, Questura di Bologna, 31 gennaio 193 e Questura di Bologna, 4 febbraio 1931.
123
Ivi, Questura di Bologna, Foglio senza intestazione, 19 febbraio 1931.
118
140
un elemento ritenuto «niente affatto suscettibile di emendamento», la cui «pericolosità» per «la
convivenza sociale» era «irrefrenabile» e resa ancora più grave dalla malattia, dal «carattere
violento» e «dallo squilibrio mentale». 124 Qualche anno dopo venne trasferito dal manicomio di
Bologna a quello di Imola, da dove, secondo i sanitari, nonostante fosse «lucido, tranquillo ed
ordinato di mente», per le «manifestazioni accessuali» d’epilessia a cui era soggetto «difficilmente»
sarebbe potuto essere dimesso.125 Nel 1942 si trovava ancora in manicomio.126
Nelle isole di confino la soluzione alle manifestazioni violente dello squilibrio mentale era
rappresentata dall’invio nelle celle di sicurezza presenti negli uffici di PS della colonia, dove ci
potevano naturalmente essere dei mezzi di contenzione, tuttavia il loro uso non viene mai citato nei
documenti consultati. Rispetto all’uso di tali pratiche in carcere, invece, sappiamo che questo era
disciplinato direttamente dalla legge.
Il tema della contenzione in carcere era stato oggetto di interessamento politico nel clima di
riforme successivo alla Grande guerra, quando, alla fine del 1920, una circolare ministeriale aveva
espressamente invitato i direttori degli stabilimenti penitenziari a limitare il ricorso alla contenzione
fisica. Il fatto che da sempre questa svolgesse anche un ruolo intimidatorio, inoltre, è confermato
dalla circolare stessa, dato che raccomandava di spogliare la contenzione da «ogni senso di
rappresaglia o punizione», segno di quanto fosse invece diffuso nelle carcere il suo uso
repressivo.127 Il regolamento carcerario del 1931 disciplinò soltanto il ricorso alla cintura di
sicurezza, permessa su disposizione del direttore. In sua assenza restava aperta la possibilità per il
capo delle guardie di applicarla «nei casi di urgenza», salvo l'obbligo di comunicarlo
tempestivamente. Il suo uso poteva essere prolungato, per giorni. Il medico, «almeno una volta al
giorno», doveva visitare il detenuto.128 Tuttavia, dai documenti di polizia e dalle memorie degli
antifascisti sappiamo non solo che i letti di forza sarebbero stati utilizzati anche negli anni
successivi al nuovo regolamento penitenziario, ma che esistevano anche altri mezzi. R, ad esempio,
il comunista empolese sospettato di voler inscenare la sua alienazione acui venne invece
successivamente diagnosticata la schizofrenia, in seguito agli «atti di violenza» e ai «tentativi di
suicidio» che, a parere dei sanitari, aveva manifestato - emetteva «quotidianamente, sia di giorno
che di notte, alte grida», faceva «discorsi sconnessi» e cercava di «colpire» gli agenti di custodia
«con quanto gli capita[va] a portata di mano» - venne prima legato più volte e per più giorni al letto
di contenimento, poi rinchiuso in una «cella imbottita», dove non aveva a disposizione nemmeno «il
124
Ivi, Questura di Bologna, 1 settembre 1931.
Ivi, per il trasferimento ad Imola cfr. Ufficio PS di Imola, 15 ottobre 1937, per le citazioni cfr. Ufficio di PS di
Imola, 22 marzo 1939 e Ufficio di PS di Imola, 10 luglio 1939.
126
Dal Pont, Antifascisti italiani, cit., quaderno 4 p. 379, B. R..
127
Circolare del dicembre 1920 del ministero dell’interno, in Neppi Modona, Carcere e società civile cit., p. 1956.
128
Art. 158 Regio decreto 18 giugno 1931, n. 787 cit., p. 49.
125
141
buiolo» e doveva «fare i propri bisogni su un po’ di segatura posta sul pavimento». Secondo il
direttore del carcere di Firenze, inoltre, dove R. si trovava, la permanenza nella cella speciale non
sarebbe stata possibile «per lungo tempo», in quanto era «necessario avere la disponibilità» della
stessa «per eventuali casi urgenti» provocati da altri «detenuti violenti»; segno di una certa
frequenza del ricorso a tale mezzo.129
Le memorie degli antifascisti ci dicono che negli stabilimenti penitenziari dove la presenza
di più detenuti politici poteva costituire un problema di mantenimento dell’ordine, data la
ricostruzione di reti di solidarietà, il ricorso alla contenzione costituiva un elemento dissuasivo.
Coloro che finivano in cella di punizione sapevano che qualsiasi loro reazione alle provocazioni
poteva giustificare un immediato ricorso al letto di forza. A ricordarglielo ci pensavano anche gli
agenti di custodia. Alcuni antifascisti protagonisti di una protesta a Civitavecchia, ad esempio,
mentre venivano condotti nell'edificio adibito alle punizioni tramite l'isolamento, vennero fatti
sostare uno ad uno davanti alla porta spalancata di una «cella imbottita» dove era sistemato un letto
con le cinghie, «in quel momento vuoto, ma predisposto come se dovesse ricevere un paziente».130
Possiamo immaginare che, una volta immobilizzati sul letto, gli antifascisti venivano poi picchiati
selvaggiamente. La cella imbottita, infatti, concepita per azzerare le possibilità del detenuto di farsi
del male, funzionava anche da rimedio alle urla ed alle grida che altrimenti si sarebbero sentite nei
corridoi del carcere.
Che con la contenzione a volte si giocasse una partita più politica che medico-sanitaria è
dimostrato anche da quanto accaduto al Michele Bacci. Li Causi, da cui proviene la testimonianza
su questo episodio avvenuto a Civitavecchia, non è riuscito a ricordare «quale mancanza avesse
commesso» questo «giovane comunista», ma ha ricordato come, «non appena nel carcere si diffuse
la notizia» che era stato legato, un gruppo detenuti - tra i quali anche un medico - si recò dal
direttore «chiedendogli l’immediata sospensione» di quella che loro consideravano più una
«punizione» che un trattamento di tipo sanitario, «facendogli chiaramente intendere» che in caso
129
ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 379, f. 3608, fascicolo processuale personale, B. R., Direzione carcere
giudiziario di Firenze, 16 giugno 1931 e Direzione carcere giudiziario di Firenze, 12 settembre 1931. Come abbiamo
detto, dopo essere stato dichiarato simulatore per due volte, R. venne internato nuovamente in manicomio e dichiarato
«schizofrenico». Il suo comportamento in carcere induce a considerare reale la diagnosi sulla sua follia. I dubbi restano,
invece, sull’origine di questa, soprattutto considerando quanto detto a proposito delle violenze subite dagli antifascisti
durante gli interrogatori. Non è infatti possibile scartare l’ipotesi che anche Renato fosse stato più volte picchiato: il suo
arresto avvenne nell’ambito di una vasta e prolungata operazione contro la ricostituita organizzazione comunista
empolese, durante la quale, nel corso degli interrogatori, un arrestato era stato colpito con sessantaquattro pugnalate
«nel culo e nelle cosce» , mentre un altro non aveva più potuto «inghiottire cibo» per un mese, tante erano state «le
percosse ricevute nello stomaco». Renato era sospettato di essere a capo di una cellula.; cfr. per le citazioni sulle torture
subite dagli altri due arrestati cfr. Nota del partito comunista del 27 marzo 1931 sugli empolesi arrestati e detenuti, cit.
in Francesca Pelini, “Oggetto di speciale ed accorta vigilanza”. L’antifascismo empolese nelle carte del tribunale
speciale per la difesa dello Stato, in Pezzino, La tradizione antifascista a Empoli, cit., p. 87.
130
Colombi, Nelle mani del nemico cit., pp. 106-107 e 145-146.
142
contrario sarebbero ricorsi «alle forme di protesta più opportune per salvaguardare la dignità» del
loro «compagno e la sua integrità fisica». 131
Storie di manicomi e di Resistenza.
E. era un giovane operaio originario del bresciano che, insieme alla famiglia, si era trasferito
a Torino «sin dall’infanzia»132. Era un ragazzo normale, «di carattere riservato», di «buona condotta
morale» e considerato «assiduo lavoratore»; essendo operaio meccanico in un’officina. Aveva
frequentato le scuole elementari ed era «dotato di discreta intelligenza e cultura». Nell’aprile del
1926, a vent’anni, fu arruolato per il servizio militare ed assegnato all’«aviazione».
Precedentemente, quindi, aveva superato tutti gli esami previsti dalla visita di leva, in grado di
testare la sua integrità psichica e fisica. Non era mai stato sottoposto a dei richiami politici e il suo
contegno verso il regime fascista era stato sempre considerato «indifferente»133.
Nel settembre dell’anno successivo, quando E. tornò dal congedo, la situazione politica
interna era stata segnata dalla promulgazione della Legge per la Difesa dello Stato. Molti dirigenti e
militanti dell’antifascismo politico erano fuggiti all'estero. A Parigi, alla fine del marzo 1927, era
nata la Concentrazione Antifascista che, malgrado gli sforzi di sensibilizzazione dell’opinione
pubblica straniera attraverso manifestazioni e campagne di stampa, scontava il limite della rinuncia
al lavoro politico tra gli italiani in patria. I comunisti la definirono un “secondo aventino”. 134 Per
questi il 1927 fu l’anno del passaggio alla clandestinità assoluta. I già deboli legami tra i diversi
centri rimasti nel paese si spezzarono, gli arresti erano numerosi, continui. In seno al gruppo
dirigente erano nate forti discussioni e, tra i militanti impegnati nella cospirazione, dal luglio del
1927 si cominciò a diffondere l’idea che «i fessi» restavano «in Italia a lavorare», mentre «i furbi»
stavano «fuori».135 Il regime, grazie al lavoro incessante di informatori e ad una efficace opera di
infiltrazione nelle fila dell’opposizione clandestina, poteva facilmente interrompere qualsiasi
tentativo di riattivazione delle cellule dormienti.136
Nell’estate del 1929, probabilmente proprio in seguito all’opera di un infiltrato, E. fu
segnalato per la prima volta in quanto svolgeva «una certa attività» come «appartenente al partito
131
Li Causi, Il lungo cammino cit., p. 170.
ACS, CPC, b. 1186, f. 38043, Prefettura di Brescia, 11 gennaio 1930.
133
Ivi, Prefettura di Torino, Scheda biografica, 24 febbraio 1930.
134
Emilio Gentile, Fascismo e Antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Le Monnier, Firenze 2000, pp. 278-286.
135
Intervento di Pietro Secchia alla sessione del comitato centrale del Pcdi del 5 giugno 1928, in Paolo Spriano, Storia
del Partito comunista italiano. Gli anni della clandestinità, Vol. II, Einaudi, Torino 1976, p. 90.
136
Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Bollati
Bolighieri, Torino 1999.
132
143
comunista».137 Le prime indagini non diedero alcun esito, ma le segnalazioni non si interruppero ed
E. continuò insistentemente ad essere indicato «come membro del comitato federale» clandestino
torinese, dal quale era stato «incaricato di organizzare il movimento giovanile». Venne perquisita la
sua abitazione, dove fu trovato un quaderno all’interno del quale, con «inchiostro simpatico», E.
aveva imprudentemente scritto i nomi di alcuni «esponenti comunisti» noti alla polizia.138 Il 20
settembre successivo fu arrestato insieme ad altri suoi compagni e, possiamo immaginare,
sottoposto a pesanti interrogatori. Successivamente venne trasferito a Regina Coeli a disposizione
del Tribunale Speciale. Il 28 novembre fu condannato a sette anni di reclusione.139 I primi
quattordici mesi avrebbe dovuto scontarli in regime di «segregazione cellulare». 140
Le notizie sulla sua permanenza in carcere sono poche. Secondo le fonti dell’ANPPIA,
durante la detenzione E. riaffermò «ripetutamente» la «propria fede comunista».141 Da altre
testimonianze, sappiamo che nel carcere di Fossombrone - dove E. era stato assegnato - faceva
«freddo, molto freddo».142 Sappiamo anche che in regime di segregazione si stava sempre soli,
anche durante l’ora d’aria, e che se due detenuti si fossero inavvertitamente incontrati ad esempio
durante il passaggio dalla cella alle docce, gli agenti di scorta li avrebbero fatti mettere faccia al
muro, per impedire anche l’incrocio degli sguardi.143 Dopo qualche mese il padre si rivolse ad
Arnaldo Mussolini, scrivendo che quello di suo figlio era stato
l’errore di un giovane, mancante di esperienza della vita, sordo ai consigli del padre, fuorviato ed ingannato
da falsi amici. Egli ha 24 anni, laborioso ed onesto fino allo scrupolo, benvoluto dai suoi superiori, sia sul
lavoro che durante il servizio militare […] E’ cagionevole di salute, ed è pentito di quanto ha fatto. Per il suo
pentimento, per la sua salute, per le sue qualità, mi permetto di rivolgerle vivissima preghiera a S.V. Ill.ma,
acciocché si degni di portare il suo benevolo interessamento al Duce, perché la sua clemenza, il suo gran
cuore di padre, valga a mitigare, almeno in parte, la pena che attualmente sconta.144
Il direttore de “Il Popolo d’Italia” girò al fratello la supplica che aveva ricevuto, aggiungendo
laconicamente: «per quel che può valere e per quelle decisioni che crederai di poter prendere». 145 Il
Ministero dell’Interno rispose comunicando che «Sua Eccellenza stessa» aveva dichiarato che la
richiesta non doveva «aver corso», e che sarebbe dovuto passare «altro tempo» per poter prendere
in considerazione una riduzione di pena o una grazia.146
137
ACS, CPC, b. 1186, f. 38043, Scheda biografica, 24 febbraio 1930.
Ivi, Stralcio del rapporto di polizia del 28 ottobre 1929.
139
Ivi, Scheda biografica, 24 febbraio 1930.
140
Ivi, Copia della lettera di C. L., padre di C. E., inviata ad Arnaldo Mussolini, 26 giugno 1930.
141
Dal Pont, Antifascisti italian, cit., quaderno 5 p. 347, ad nomen.
142
Lettera di Edoardo D’Onofrio del 20 dicembre 1928 dal carcere di Fossombrone, in AA.VV. Lettere di antifascisti
dal carcere e dal confino, Vol. II, cit., p. 111.
143
Li Causi, Il lungo cammino cit., p. 151.
144
ACS, CPC, b. 1186, f. 38043, Copia della lettera inviata ad Arnaldo Mussolini, 26 giugno 1930.
145
Ivi, Carta intestata “Il Popolo d’Italia”, 28 giugno 1930.
146
Ivi, Biglietto urgente 10 luglio 1930 e Ministero dell’interno, 11 luglio 1930.
138
144
Il padre, molto probabilmente, aveva raggiunto le Marche ed aveva avuto un colloquio con
E.. Erano state le sue condizioni psicofisiche a convincerlo a rivolgersi ad Arnaldo Mussolini. Due
giorni dopo il diniego del ministero, E. fu trasferito dal carcere di Fossombrone al manicomio
giudiziario di Montelupo Fiorentino. Dopo le prime settimane di osservazione il direttore scrisse:
prendendo per base lo stato di mente attuale del ricoverato e specialmente il contegno e la condotta di lui dal
suo ingresso nell'istituto devo dichiarare che esso va affetto da quella malattia mentale detta in patologia
distimia depressiva. E per maggior chiarezza di tale criterio clinico diagnostico rendo noto che esso fino a
questo momento si è mantenuto in uno stato di completo assenteismo in mezzo alle persone che lo
circondano. Difficilmente rivolge la parola ad alcuno spontaneamente, ma per lo più se viene interrogato
risponde quasi sempre a monosillabi. Non si muove dal proprio letto, sul quale giace per buona parte della
giornata, non prende parte alle conversazioni degli altri malati e neppure ha sentito il bisogno di esprimere
qualche suo desiderio al personale.147
La distimia è una sindrome depressiva caratterizzata dallo scoraggiamento e dalla caduta del tono
dell’umore: sintomi comprensibilmente riscontrabili in un soggetto che aveva passato mesi di
detenzione in condizioni di segregazione totale. Secondo la criminologia, una «prevalenza del
carattere distimico» si notava anche tra i delinquenti psicopatici, tra i quali l’«alternarsi di fasi di
lieve eccitamento psicomotorio con fasi di lieve depressione» poteva avere effetti pericolosi.
Mentre durante le fasi di depressione l’individuo solitamente presentava «una indifferenza più o
meno accentuata verso le persone» e «l’ambiente», la fase di eccitamento, in chi già presentava una
costituzione delinquenziale, «non di rado» esercitava «una spinta più o meno forte a manifestazioni
criminose importanti».148 Tuttavia, più che alle manifestazioni di una vera e propria patologia, la
descrizione del comportamento di E. potrebbe far pensare ad una completa sfiducia in tutto quello
che lo circondava, al bisogno di proteggersi, di difendersi. Il Direttore si prese altro tempo,
riservandosi la decisione sull’eventuale ammissione definitiva in manicomio giudiziario solo dopo
un ulteriore periodo di studio, necessario a comprendere se quella forma di depressione potesse
rappresentare «l’inizio di un’altra forma mentale»149.
E. restò internato per più di dodici anni. Quando, alla fine del 1932, sopraggiunse l’amnistia
del decennale della marcia su Roma - e la condanna detentiva di E. perse ogni ragione - la sua
pericolosità sociale venne comunque confermata e il suo stato psichico considerato tale da non
permettere la fine del ricovero. Fu trasferito a Collegno, nel manicomio provinciale. I documenti di
polizia non accennavano alcuna diagnosi precisa, facendo riferimento alla generica formula della
«malattia mentale che potrebbe spingerlo a commettere atti inconsulti». 150 Il primo riferimento della
prefettura di Torino alla situazione psichica di E. è del marzo del 1934, a più di tre anni di distanza
147
Ivi, Prefettura di Torino, 1 ottobre 1930.
Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., pp. 211-212.
149
ACS, CPC, b. 1186, f. 38043, Prefettura di Torino, 1 ottobre 1930..
150
Ivi, Prefettura di Torino, 5 febbraio 1933.
148
145
dal suo internamento: «demenza precoce»: aveva 32 anni.151 L’ultima segnalazione presente nel suo
fascicolo lo indica ancora nel marzo del 1942 come «internato nel manicomio di Collegno». 152 I
documenti consultati non ci permettono di stabilire né le terapie né la data di dimissione dal
manicomio. Sappiamo però che dopo l’8 settembre 1943 entrò in una banda partigiana. Morì
combattendo in una valle vicino Bergamo, nei giorni dell’insurrezione.153
Carino Longo era nato a Fubine, Alessandria, in una di quelle famiglie che «allevavano
cospiratori».154 Suo padre era stato un «fervente» socialista. Suo zio, un mese dopo la marcia su
Roma, venne ucciso in quello che la PS avrebbe definito un «conflitto» con i fascisti. 155 In realtà si
trovava in casa, disarmato, e venne finito a pugnalate, davanti alla moglie ed ai figli.156 Il 29
novembre 1922, giorno dei funerali, gli squadristi piombarono nel paese con mazze e manganelli e
cominciarono a picchiare i presenti e la cassa del defunto. Carino aveva solo quattordici anni ed era
presente.157 Cresciuto in questo ambiente, sin da «giovanetto» manifestò «intelligenza sveglia»,
«tendenze sovversive e insofferenza di disciplina». Tuttavia, svolse regolarmente il servizio
militare, negli alpini, poi tornò a casa e continuò a dedicarsi ai lavori di campagna: era un
contadino.158 Negli anni Trenta, fu contattato da un funzionario comunista e partecipò alla
formazione di «più gruppi clandestini» divisi fra tre o quattro paesi. Le autorità conoscevano i loro
movimenti e più di una volta venne convocato dai carabinieri e dal podestà.159
Il 23 marzo del 1935, a Fubine, durante il passaggio del corteo cittadino che celebrava
l’anniversario della fondazione dei fasci di combattimento, fu visto «ridere» insieme ad un suo
compagno. Tale «contegno» venne interpretato come «un atto di dileggio» e spinse il segretario
fascista ad intervenire. L’indomani i carabinieri perquisirono la sua abitazione e trovarono un libro Don Sturzo e il partito popolare - e un quaderno dove erano state trascritte alcune parti di un
discorso di Stalin dell’anno precedente. Fu denunciato alla commissione provinciale e ammonito.
Durante l’interrogatorio, la commissione si era convinta che si trattasse di un «antifascista e
comunista convinto» che poteva «anche rendersi pericoloso».160 Nel novembre successivo «si rese
contravventore» e scontò altri tre mesi di arresto. La proclamazione dell’impero lo sciolse
dall’ammonizione, ma, appena cinque giorni dopo aver beneficiato dell'atto di clemenza, fu
151
Ivi, Prefettura Torino, 5 marzo 1934.
Ivi, Prefettura Torino, 26 marzo 1942.
153
Dal Pont, Antifascisti italiani, cit., quaderno 5 p. 347, ad nomen e http://www.anpi.it/donne-e-uomini ad nomen.
154
De Luna, Donne in oggetto, cit., p. 185.
155
ACS, CPC. b. 2829, f. 120959, Longo Carino, Prefettura di Alessandria, scheda biografica.
156
Questa versione dell'omicidio mi è stata fornita da Antonio (Mauro) Longo.
157
Franco Castelli, Maria Luisa Ghezzi, Fubine 1880-1945. Una comunità contadina fra tradizione ed innovazione,
Edizioni dell'orso, Alessandria 1986, p. 70; cfr. anche Testimonianza di Antonio Longo.
158
ACS, CPC. b. 2829, f. 120959, Longo Carino, Prefettura di Alessandria, scheda biografica.
159
Testimonianza di Carino Longo registrata il 18 agosto 1984, in Castelli, Ghezzi, Fubine 1880-1945 cit., p. 73.
160
ACS, CPC. b. 2829, f. 120959, Longo Carino, Prefettura di Alessandria, 31 maggio 1935.
152
146
nuovamente arrestato a Fubine perché sospettato di far parte «di una cellula comunista». 161 In
carcere, nel cortile sottostante la sua finestra, un agente di sorveglianza trovò due biglietti «a
contenuto sovversivo» scritti con il succo di un frutto. La sua cella fu allora ispezionata e si scoprì
che, incidendo dei piccolissimi fori, aveva tracciato le parole: «Arrestato il 18 maggio 1936 per
ammonizione politica. W Lenin». Fu subito disposto il suo «piantonamento notturno e diurno a
mezzo di un agente fisso».162 Successivamente venne assegnato al confino di polizia, per cinque
anni.163 Il ministero lo destinò alla colonia di Ponza, ma Longo non partì subito.
Imbrattare il muro di una cella era un'azione punita dal regolamento del 1931 con venti
giorni di isolamento ordinario. In più, Longo aveva anche scritto dei bigliettini e li aveva buttati
dalla finestra; in questo caso, la sanzione prevista per chi avesse tentato di comunicare con gli altri
detenuti era l’isolamento a pane ed acqua fino a quindici giorni. 164 Al di là degli aspetti
regolamentari, visto anche il tono delle scritte, Longo molto probabilmente fu picchiato, e molto. Il
17 luglio del 1936 la prefettura dovette sospendere la traduzione a Ponza perché, sottoposto ad
accertamenti sanitari, fu riconosciuto «affetto da alienazione mentale acuta». Il 2 agosto venne
internato nel manicomio provinciale.165 Fu dimesso dopo poche settimane e il giudizio sulla sua
idoneità fisica a sopportare le condizioni del confino – che doveva accompagnare l’ordinanza di
assegnazione - non mutò. Il 9 settembre giunse a Ponza.166 Di quel viaggio, con partenza da
Genova, Longo raccontò alla moglie il terrore provato nell’attraversare il mare in burrasca,
ammanettato e legato agli altri confinati.167
Del confino Longo ha ricordato che «non c'era nessuna libertà di movimento, i viveri a volte
scarseggiavano, ma si continuava l'attività clandestina, si studiava, si organizzavano corsi». 168 Le
autorità dell’isola e la prefettura segnalavano che stava sempre con «i compagni di fede»
accompagnandosi ai «peggiori elementi della colonia»; in breve continuava a «svolgere attività
sovversiva», anche sull’isola.169 Probabilmente a tale suo atteggiamento corrisposero nuove
provocazioni e punizioni. Nel giugno dello stesso anno venne ancora una volta ricoverato in
manicomio, a Napoli, per aver dato «segni di alienazione mentale». 170 Il 6 agosto venne dimesso,
ma, rientrato a Ponza, non smise di «serbare cattiva condotta politica, senza alcun segno di
161
Ivi, Scheda biografica, cenno del 26 giugno 1936.
Ivi, Ministero di Grazia e Giustizia, 24 giugno 1936.
163
Ivi, Prefettura di Alessandria, 6 agosto 1936.
164
Art. 163 e 165 del Regio decreto 18 giugno 1931, n. 787 cit., p. 50.
165
ACS, CPC. b. 2829, f. 120959, Longo Carino, Prefettura di Alessandria, 6 agosto 1936
166
Ivi, Prefettura di Napoli, 10 ottobre 1936.
167
Testimonianza di Francesca Cerrina.
168
Testimonianza di Carino Longo del 18 agosto 1984, in Castelli, Ghezzi, Fubine 1880-1945, cit., p. 73.
169
ACS, CPC. b. 2829, f. 120959, Longo Carino, Prefettura di Littoria, 19 ottobre 1937 e Prefettura di Littoria, 30
aprile 1938.
170
Ivi, Prefettura di Littoria, 21 luglio 1938.
162
147
ravvedimento»171. All’inizio di novembre venne anche arrestato «per inosservanza agli obblighi» e
condannato a tre mesi di arresto. Pericoloso «in linea politica», veniva ora definito come «capace di
atti inconsulti».172 Finita di scontare la pena, rientrò in colonia ma fu nuovamente ricoverato nel
manicomio di Napoli e costretto ad affrontare l’ennesima traduzione in terraferma, in quanto,
secondo le autorità, continuava a dare «manifesti segni di demenza».173
Le dinamiche che interessarono il cambiamento della condizione detentiva di Longo - dal
confino, al carcere e al manicomio - vanno lette in relazione a quanto disponeva la legge del 1904,
poiché, non essendo Longo condannato ad una pena detentiva, era il manicomio civile la struttura
destinata al suo internamento. Secondo la legge, come abbiamo visto nel primo capitolo, era la
relazione del direttore del manicomio sulle condizioni psichiche del ricoverato a fondare la
decisione del tribunale di procedere eventualmente ad un internamento definitivo. Le due dimissioni
dal manicomio che Longo aveva già accumulato, tra l’altro entrambe a poche settimane di distanza
dal ricovero d’urgenza, ci dicono quindi che in quei due casi i direttori psichiatrici non ritennero
opportuno prolungare la sua degenza poiché non lo considerarono pericoloso a sé e agli altri;
presupposto che, secondo la stessa legge, giustificava l’internamento in manicomio di un soggetto.
Dall’ultimo internamento non uscì prima del marzo del 1942. La sua condizione mutò solo
parzialmente all’inizio del 1940, quando venne trasferito nel manicomio di Alessandria. 174 Non
sappiamo con precisione quando fu dimesso, ma è certo che uscì prima della caduta del fascismo.
Tuttavia non poté tornare a casa, perché, in base ad una disposizione presa quando ancora si trovava
in manicomio, doveva essere internato a Tremiti «per tutto il periodo della guerra».175
Longo riuscì a tornare ad Alessandria solo il 21 agosto del 1943, ma il suo calvario non era
ancora finito. Presentatosi in questura, fu infatti nuovamente arrestato: il comando della difesa
territoriale di Torino aveva ordinato che, vista «la situazione dell’ordine pubblico», i «comunisti»
non sarebbero dovuti «essere rimessi in libertà» senza esplicita autorizzazione.176 Dopo l'8
settembre 1943 partecipò alla lotta partigiana. “Biondo” era il nome che si era scelto, partecipò a
diverse azioni e, il 30 aprile 1945, sfilò con la sua brigata per le strade di Fubine.
Finita la seconda guerra mondiale si sposò con Francesca Cerrina. Si conoscevano da
sempre - abitavano a poche centinaia di metri l'uno dall'altra - e lei era sorella di uno dei compagni
che erano stati arrestati con lui nel 1936. Tornò a fare il contadino, si iscrisse al Partito comunista
ed ebbe quattro figli, ai quali raccontava spesso le storie legate agli episodi della vita partigiana. Del
171
Ivi, Prefettura di Littoria, 22 ottobre 1938.
Ivi, Prefettura di Littoria, 25 gennaio 1939.
173
Ivi, Prefettura di Littoria, 30 aprile 1939.
174
Ivi, Prefettura di Alessandria, 20 gennaio 1940.
175
Ivi, Ministero dell’interno, 5 luglio 1941.
176
Ivi, Questura di Alessandria, 21 agosto 1943.
172
148
carcere e del confino, invece, parlò poco, quasi mai, forse per preservarli o forse «perché lo
segnarono di più».177 Alla moglie, che conosceva tutte le sue peripezie, Longo raccontava
soprattutto della sporcizia nella quale era stato costretto a vivere nei manicomi di Napoli e
Alessandria.178 Durante la ricerca non è emersa alcuna documentazione di tipo clinico e non è stato
possibile rinvenire nessuna notizia sulla sua degenza o sulle terapie somministrategli in
manicomio.179
Ad ogni modo, dopo la Liberazione non venne mai più sottoposto a nessun
trattamento di tipo psichiatrico.180
Le conseguenze delle persecuzioni subite lo avrebbero invece accompagnato per tutta la
vita. Nel dopoguerra, a Fubine riusciva a frequentare solo la barbieria, la casa del popolo e il circolo
del partito, luoghi «dove c'era gente di famiglia». Non andava mai al bar né in altri posti frequentati
da troppe persone, «perché non riusciva a starci». Ogni tanto, di notte, la moglie era costretta a
spiegare ai figli che le urla che sentivano nell'altra stanza erano quelle del padre in preda agli
incubi: sognava spesso di essere picchiato, bastonato, torturato.181 Nel maggio del 1967, dopo un
ricovero in ospedale in seguito ad una emoraggia interna, gli venne scoperta nello stomaco una
bolla d’aria espansa, più i segni di una gastrite, una perigastrite e anche qualche ulcera: mali che a
giudizio del medico erano compatibili con i trattamenti subiti. Longo scrisse allora al Ministero del
Tesoro per vedersi riconosciuto il risarcimento previsto dalla legge Terracini che, per la
corresponsione dei benefici economici, prevedeva il riconoscimento di almeno un 30% di invalidità
fisica. Nella sua richiesta ripercorse tutte le sue peripezie, raccontando nel dettaglio le violenze
subite; come quando, a Tremiti, fu trattenuto per cinque ore nell’ufficio del direttore, circondato da
sei poliziotti e «bastonato con tavole, calci e pugni», oltre ad essere «minacciato con la rivoltella».
Disse anche di essere stato più volte ricoverato in manicomio, sia a Napoli che ad Alessandria.
Specificò tuttavia che prima della sua condanna al carcere e al confino, che lo avevano strappato
«alla famiglia per circa dieci anni, non aveva mai minimamente sofferto di alcun disturbo, tanto
meno di alterazioni di carattere mentale». 182
La richiesta venne accolta. Quando una prima parte del denaro gli venne versato - «una cifra
significativa per quegli anni» - decise di donare l'importo al partito comunista: il riconoscimento
177
Testimonianza di Antonio Longo; per le informazioni sulla Resistenza nella zona di Fubine e sulle vicende di Carino
Longo “partigiano” cfr. anche Castelli, Ghezzi, Fubine 1880-1945 cit., p. 76.
178
Testimonianza di Francesca Cerrina.
179
La ricerca presso l’archivio dell’ex Ospedale Psichiatrico di Alessandria ha purtroppo avuto esiti negativi. Durante
l’alluvione di qualche anno fa l’archivio venne allagato ed una parte della documentazione è andata persa.
180
Testimonianza di Antonio Longo.
181
Ibidem.
182
ACS, Ministero dell’interno, Divisione affari riservati, sez. 1, cat. 793, perseguitati politici (1956-1960), b. 1952,
Longo Carino, Lettera di Carino Longo del 29 maggio 1967.
149
delle persecuzioni che aveva patito ed il suo riscatto, diceva, non erano questioni personali.183 E’
morto nel 2000. Qualche mese prima, «con la sua inseparabile sciarpa rossa al collo», aveva
partecipato alla celebrazione per il 55° anniversario della liberazione di Fubine184.
183
Testimonianza di Antonio Longo.
La citazione è contenuta in un necrologio di Carino Longo pubblicato nella pagina di una rivista conservata dal figlio
Antonio che mi ha gentilmente permesso di fotocopiare. Purtroppo Antonio ha conservato solo la pagina del necrologio
e non ricorda il nome della rivista.
184
150
CAPITOLI IV
La vita in manicomio.
Dopo aver dedicato i primi tre capitoli all’esposizione dei percorsi degli schedati politici
internati nei manicomi provinciali, in quelli giudiziari o, ancora, in uno di questi due ma partendo
da una situazione di detenzione, in carcere o al confino, nell’ultima parte di questo lavoro
tratteremo gli aspetti della vita in manicomio vissuti dagli antifascisti che fino a questo punto
abbiamo incontrato.
Il manicomio non era un penitenziario, anche se la vita all'interno poteva essere peggiore,
soprattutto per i ricoverati politici. Differentemente che dal carcere o dal confino, infatti, gli
antifascisti manicomializzati non potevano beneficiare della ricostruzione dei gruppi politici che,
come abbiamo visto nel capitolo precedente, creavano legami di solidarietà fondamentali per la
resistenza psichica individuale, specie nei contesti di maggior costrizione e repressione. Il
manicomio, come ha sottolineato Valeria Babini, presentava condizioni di maggior isolamento, e
non solo la «vita politica» restava «fuori» ma la vita in generale.1
L'assenza di relazioni umane costruite basate su legami solidi, che si univa all'impossibilità
di accedere a notizie provenienti dall'esterno, aumentava il peso della segregazione, specie per chi
era abituato ad interessarsi ed a partecipare alla vita collettiva. Nel 1944, ad esempio, una volta
caduto il fascismo e ripristinate alcune libertà, a partire dalla libertà di stampa, un socialista della
prima ora come Giuseppe Massarenti avrebbe passato intere giornate «nella cameretta a lui
assegnata» al Santa Maria della Pietà - dove si trovava da più di sette anni - «assorto in letture di
molti giornali e riviste a carattere politico» ed intento «a prendere appunti o a scrivere impressioni e
ricordi».2 Era ansioso di ricominciare a vivere.
Come vedremo tra breve, il momento dell’ingresso rappresentava uno shock per chi veniva
internato. L’impatto iniziale con la struttura, con le regole interne e con la vita insieme agli altri
alienati poteva risultare drammatico, specie in chi considerava il ricovero come un accanimento
della persecuzione subita fino a quel momento.
I manicomi spesso versavano in condizioni di sovraffollamento, e ciò aveva delle ricadute
negative sia rispetto alla qualità della vita dei ricoverati sia rispetto alle possibilità che alla
dimensione custodialistica si affiancassero realmente le finalità terapeutiche che dovevano basare la
1
Babini, Liberi tutti, cit., p. 84.
Diario clinico di Giuseppe Massarenti, 15 novembre 1944, in Cazzamalli, L'avventura di Giuseppe Massarenti, cit., p.
62.
2
151
scelta di ricoverare un soggetto.3 Amilcare Marescalchi, un sacerdote ricoverato all'inizio degli anni
Quaranta, raccontò che le visite mediche alle quali aveva assistito durante l'osservazione non
duravano «in tutto dieci minuti. A volte cinque appena, forse neppure». Il medico «percorreva lento
la camerata; ascoltava, sorridendo, una parolina dall'uno, una parolina dall'altro; tastava il polso a
qualcuno e se ne andava come era venuto».4
Ai problemi ed disagi provocati dal sovraffollamento vanno poi aggiunte alcune
caratteristiche negative proprie della vita nell’istituzione psichiatrica. La «vita di manicomio»
poteva essere «lenta» e «monotona». Le giornate trascorrevano in mezzo ai pazzi - «un'umanità a
cui tutto è permesso» - e ad «un fetore dei più insopportabili».5 Il tempo poteva apparire come
«congelato». I segni naturali del suo scorrere - come il giorno e la notte, le stagioni, il sole e la
pioggia - potevano sparire, facendo restare solo le «grida oppure silenzio» ad accompagnare le
giornate.6 I reticolati innalzati in luogo dei muraglioni consegnavano ai cortili l'aspetto di recinti per
animali. Il cibo non bastava mai e come per il carcere era un elemento di contaminazione: la
«minestraccia» del santa Maria della Pietà era «degna soltanto dei deportati alla Cajenna». 7 Anche il
vitto presentato nel manicomio di Siena mostrava caratteristiche simili, penose al punto che sarebbe
stato «respinto anche dal soldato più attaccato alla gavetta». 8
Qualche diversivo poteva interrompere la monotonia e l’isolamento dal mondo esterno, ma
ciò valeva soltanto per coloro che avevano conservato relazioni con i familiari o con altri
conoscenti.9 Queste “reti di protezione” diventavano inoltre determinanti per spingere la Direzione
psichiatrica dei manicomi provinciali a suggerire al Tribunale di accettare l’affidamento in custodia
dell’internato: unica modalità che, come abbiamo visto nel primo capitolo, permetteva la
liberazione del degente in quanto scaricava il direttore dalle responsabilità che invece avrebbe
incontrato nel caso di dimissione per guarigione. Grazie all’impegno di congiunti e conoscenti, ad
esempio, sarebbero stati dimessi in affidamento sia il falegname bolognese R. (a cui era stata
3
Un'inchiesta condotta da Gustavo Modena nel 1926 rilevò che la proporzione tra il numero di medici presenti negli
ospedali psichiatrici pubblici e i ricoverati era di uno ogni centotrentotto. Nelle «Case di cura per abbienti» la
proporzione si riduceva ad un medico ogni diciannove ricoverati; cfr. Canosa, Storia del manicomio in Italia, cit., pp.
154-155, cfr. nota n. 8. Gustavo Modena (1876-1958) era diventato vicedirettore del manicomio di Ancona nel 1906 e
successivamente, dopo un periodo di studio trascorso in Germania, ne divenne direttore fino alla promulgazione delle
Leggi razziali, che lo costrinsero a lasciare l’incarico. Nel 1945 venne simbolicamente riassunto.
4
Amilcare Marescalchi, Cinque anni in manicomio. Ricordi autobiografici, La Navicella, Roma 1955, p. 54.
5
Adamo, Centodieci e droga, cit., pp. 28-29.
6
Annacarla Valeriano, L’ospedale psichiatrico Sant’Antonio Abate di Teramo nelle lettere degli internati (1892-1917),
in “Storia e problemi contemporanei”, n. 60, a. XXV, maggio-agosto 2012, p. 168.
7
Marescalchi, Cinque anni in manicomio, cit., pp. 75-78; la citazione si trova a p. 78. Marescalchi aveva definito il
cortile per il passeggio un “recinto per polli”.
8
Adamo, Centodieci e droga, cit., 7 agosto 1940, p. 29.
9
Lo zio di L., ad esempio, scrisse al direttore del manicomio di Mombello, dove l'operaia comunista milanese era stata
internata dal Tribunale Speciale, per essere autorizzato ad andare a trovarla insieme ad altri parenti, pre pranzare
insieme e stare con lei; cfr. AO “G. Salvini”, AOPMombello, (Donne, ammissioni del 1928), n. 97 del Registro di
ammissione e n. 237 di protocollo, Lettera del 18 dicembre 1928.
152
diagnosticata una forma acuta di depressione dopo essere stato arrestato insieme alla moglie), sia
l’operaia milanese L. (alla quale venne diagnosticata una forma di isteria), sia, infine, il contadino
istriano G.. (impazzito, secondo il parere della moglie, in seguito alle percosse subite in carcere).
Tutti e tre uscirono grazie al fatto che fuori c’era qualcuno ad aspettarli e che nel loro interesse
aveva interagito con le Direzioni psichiatriche. Per M., invece, l’anarchico confinato al rientro
dall’espatrio ed internato nel manicomio durante la permanenza sull’isola di Ponza, nonostante
l’intervento di un deputato fascista il padre riuscì soltanto ad ottenere un riavvicinamento, facendolo
trasferire dal manicomio di Napoli a quello di Ancona.10
Chi non godeva di questa protezione proveniente dall’esterno spesso finiva i suoi giorni in
manicomio e, anche se non lo fosse stato realmente, era destinato ad impazzire. Nel caso di «lunghe
detenzioni» in manicomio, infatti, i soggetti possono incorrere in un processo di «deterioramento
emotivo» che si caratterizza per la manifestazione di «sintomi propri della schizofrenia cronica» come l'«apatia», l'«abulia» o il «manierismo» - in una sorta di interiorizzazione dei comportamenti
che comunemente si vedono riprodurre nell'ambiente.11 Probabilmente questa, come abbiamo visto
e come vedremo ancora, sarebbe stata la sorte di diversi schedati politici, nel caso non fosse giunta
la Liberazione a farli dimettere. Per altri, invece, anche il 25 aprile rimase fuori. 12
L'ingresso in manicomio e l'osservazione psichiatrica.
A., il comunista umbro di cui abbiamo parlato alla fine del primo capitolo, ex ufficiale della
prima guerra mondiale ed ex archivista del Ministero della Difesa, nel 1934, al momento del suo
primo ingresso in manicomio - dopo la denuncia che lo dipingeva come intento ad organizzare un
attentato a Mussolini - si mostrò «triste e ansioso». Quando gli venne chiesta la ragione della sua
tristezza, rispose dicendo che le sue «condizioni morali erano orribili» e che era «rovinato, ma
10
ASAn, Cat. A8, Quest. An “politici 1900-1943”, b. 74/b, f. M. M., n. 285, Manicomio provinciale di Ancona, 30
dicembre 1935; Prefettura di Littoria, 7 marzo 1935; Prefettura di Littoria, 12 aprile 1935. Nell’archivio dell’ospedale
psichiatrico di Ancona non è stato possibile rinvenire la cartella clinica. Non si hanno notizie rispetto alla dimissione.
11
Sanna, Sindromi reattive alla carcerazione, cit., p. 310.
12
Cfr., ad esempio, U., romano, classe 1893, arrestato nel 1927 e poi confinato per delle frasi offensive riferite a
Mussolini: «rinnegato», «puzzolente», «vigliacco» ed «assassino». Al ritorno nella capitale venne nuovamente arrestato
per altre ingiurie rivolte al capo del governo. Era considerato un «mattoide, tanto più pericoloso in quanto dedito al
vino». La Questura di Roma propose un nuovo invio al confino, stavolta per cinque anni. U. tuttavia non partì ma venne
internato nel manicomio della capitale, in quanto, secondo la PS, era stato «colpito da alienazione mentale». Secondo le
informazioni raccolte dall'Associazione Nazionale Perseguitati Politici , che in virtù del proprio interessamento riuscì a
farlo trasferire, nel 1960 ancora si trovava ricoverato Santa Maria della Pietà, ma «le sue condizioni mentali erano
ormai irrimediabilmente compromesse»; cfr. ACS, CPC, b. 5460, f. 16332; per la citazione riguardante il primo arresto
cfr. Ministero dell'interno, 18 marzo 1927; Questura Roma, 28 gennaio 1929; Questura Roma, 4 novembre 1940 e Dal
Ponti, Antifascisti italiani nel casellario politici centrale, cit., quaderno 19 p. 133, ad nomen.
153
innocente». Poi, «docilmente», si sottopose al bagno di pulizia e si fece mettere a letto, dove rimase
«semiattivo, guardando intorno a sé con aria smarrita».
Secondo il diario che raccoglie le informazioni sulla sua degenza, durante i primi giorni
si era mantenuto in genere taciturno ma evidentemente ansioso e preoccupato. Se interrogato circa le sue
condizioni rispondeva che il sanitario le conosceva meglio di lui, che era un uomo rovinato. Si proclamava
innocente di tutte le accuse che gli erano state mosse ma delle quali si rifiutava di parlare. A volte chiamava
il sanitario dicendo che doveva riferirgli molte cose e quando veniva invitato a farlo si limitava a dire
sommariamente “Dottore! Dottore!” guardando intorno a se con espressione dolorosa e ansiosa, portando le
mani al capo e stringendolo fortemente, senza più parlare.
Alle domande del medico aveva risposto fornendo «esatte e complete le sue generalità» e si
era mostrato «bene edotto del tempo e del luogo» in cui si trovava. Diceva di ignorare la causa del
suo internamento, aggiungendo che quello doveva essere «l'inizio del suo supplizio», che
considerava «inumano ed ingiusto» perché non aveva commesso alcun delitto. Il medico gli aveva
allora fatto osservare che un ospedale non poteva essere «un luogo di pena» e che lì vi veniva
condotto soltanto chi aveva bisogno di assistenza e che perciò «logicamente» si doveva pensare che
lui fosse ammalato. A. aveva allora reagito stringendosi «nelle spalle, scuotendo il capo e
sospirando profondamente», mostrando, agli occhi del sanitario, «di non essere in grado di criticare
e di riconoscere la giustezza della osservazione». A. era stato interrogato anche sui suoi precedenti
personali ed aveva raccontato tutta la sua vita: la partecipazione alla guerra di Libia ed alla prima
guerra mondiale come volontario, le prime denunce per i reati di antifascismo, il conseguente
licenziamento dall'incarico di archivista per conto del Ministero della Difesa, i sospetti sulla donna
che lo aveva denunciato e poi l'internamento in manicomio. Nel corso della narrazione, aveva
spesso «interrotto il suo dire per emettere sospiri e lamenti», raccomando al sanitario «di aver pietà»
di lui. Aveva anche chiesto notizie di sua moglie - ancora non sapeva che si era suicidata il giorno
dopo il suo ricovero - che sapeva in difficoltà e senza più i mezzi di sussistenza.13
A. era stato internato nell'Ospedale psichiatrico di Perugia, dove era stato accompagnato da
un agente di polizia. La sua cartella clinica è pregna di documentazione e questa circostanza è
abbastanza inusuale. I fascicoli aperti sul conto dei ricoverati più frequentemente conservano
soltanto i moduli previsti dalla legge, spesso scarsamente o per nulla compilati.
La documentazione che accompagnava un alienato all'ingresso in un manicomio civile, oltre
all'ordinanza ed al certificato medico, era composta anche dal «Foglio notizie storiche», dove
dovevano essere trascritte informazioni sul «carattere morale» presentato dall'alienato prima dello
«sviluppo della pazzia», sui sintomi, sugli atti commessi contro di sé o gli altri, sui «patimenti
13
ASPg, AOP Santa Margherita, b. 223 (Uomini), Cartella clinica n. 15324, Ospedale psichiatrico interprovinciale
dell’Umbria, Reparto osservazione, Storia clinica dell'infermo, s.d. ma riferita al ricovero del 1934.
154
igienici ed alimentari» subiti e sulle cure che, eventualmente, gli erano state somministrate. Al
Foglio notizie si affiancava la «Modula informativa per l'ammissione in manicomio», che, in
maniera più dettagliata, riassumeva la storia clinica del malato e della malattia.14 In un manicomio
giudiziario, invece, il ricoverato giungeva accompagnato dagli agenti della polizia penitenziaria e
dal certificato del medico del carcere, insieme all'ordinanza del Giudice istruttore - nel caso di un
imputato ad un processo in via di definizione - o del Giudice di sorveglianza - nel caso di un
condannato.15
Una volta presentata tale documentazione, l'internato veniva fatto spogliare dei suoi
indumenti (i suoi effetti venivano consegnati al guardaroba dell'istituto) poi veniva accompagnato ai
bagni per lavarsi, rivestito con la divisa dell'ospedale, in alcuni casi fotografato ed infine
accompagnato a letto, nel padiglione destinato ai malati in osservazione. Nel frattempo il personale
predisponeva la Tabella nosografica, nella quale venivano registrate le generalità dell'internato, il
giorno e l'ora dell'ingresso in manicomio, lo stato fisico e psichico che l'alienato presentava, una
sommaria diagnosi circa la patologia che, almeno nel primo momento, sembrava aver colpito il
soggetto (che quasi sempre ricalcava quanto riportato dai certificati medici) e il numero di matricola
che gli era stato assegnato. Nelle pagine successive della Tabella venivano riprese le notizie
sull'anamnesi familiare e personale ed annotate le rilevazioni rispetto agli esami che dovevano
essere effettuati: esame psichico, antropologico e delle funzioni vitali. La Tabella nosografica
accompagnava l'internato per tutto il tempo della sua degenza, ospitando anche appositi spazi per
registrare la data, l'ora e le cause di un eventuale decesso. In coda si trovavano le pagine del Diario
clinico, dove dovevano essere annotati gli atteggiamenti assunti dall'internato, le sue variazioni
umorali, le terapie somministrategli. Il Diario racchiudeva tutte le notizie relative alla vita
dell'internato all'interno del manicomio, raccontata tramite il ricorso alle formule standardizzate,
asettiche e a volte impenetrabili del linguaggio psichiatrico.
Nella sua descrizione della «carriera morale del malato mentale», Erving Goffman ha
spiegato come l'ingresso in manicomio provochi nel soggetto un forte impatto emozionale,
14
Le informazioni raccolte ed esposte nella Modula informativa riguardavano: 1) le eventuali malattie sofferte
dall'alienato o dai suoi familiari, con particolare attenzione a quelle nervose (epilessia, isteria ed altre nevrosi). 2)
l'eventuale abuso nell'assunzione di alcool nel presente o nel passato. 3) la presenza di infezioni contratte per via
sessuale. 4) notizie in merito all'esistenza di eventi traumatici, soprattutto alla testa. Venivano inoltre trascritte
informazioni sull'istruzione, la professione e la religione professata dall'alienato e poi sulla sintomatologia: quali erano
stati i primi segni della malattia mentale o la presenza di indizi fisici della pazzia. Infine venivano elencate le cure o
terapie già somministrate al soggetto. Le citazioni nel testo sono tratte dai modelli di Foglio notizie storiche e Modula
Informativa per l'ammissione dei malati che veniva fatto compilare per l'internamento nel manicomio di Macerata. I
modelli presenti nelle cartelle cliniche di altri ospedali non sono identici ma molto simili.
15
Il Giudice di sorveglianza era stato introdotto con il Regolamento penitenziario del 1931, con il compito di vigilare
sull'esecuzione delle pene e sull'osservanza delle norme regolamentari. Tra i suoi compiti anche la decisione
sull'assegnazione dei detenuti ai diversi stabilimenti di riadattamento sociale (case di lavoro, case per minorati psichici e
manicomi giudiziari); cfr. articolo 4, Regio Decreto n. 787 del 18 giugno 1931, Regolamento per gli istituti di
prevenzione e pena.
155
spingendolo verso il rifiuto di accettare la realtà. Specie al momento del primo ricovero, nota
Goffman, i pazienti tentano di «impedirsi di rendersene conto», opponendosi sia alla
familiarizzazione con l'istituzione sia a quella con l'ambiente, restando appartati e «fuori
contatto».16 Prima di essere ammessi definitivamente, inoltre, nel periodo, cioè, dei trenta giorni di
valutazioni cliniche sul loro stato mentale, gli internati a volte venivano ospitati in un unico
padiglione, senza nessuna divisione dei soggetti: depressi, agitati, clamorosi e sudici sistemati tutti
insieme, a prescindere dalle patologie. Questa promiscuità provocava fastidio, insofferenza,
repulsione. In manicomio si stava in mezzo ai pazzi e questi
a osservarli talvolta (nei rari momenti di quiete) sembrano un branco di povere pecore predestinate, legate
alla loro animalità. Ma guai se si svegliano: i più coloriti vituperi, le bestemmie più oscene escono da bocche
la maggior parte sdendate e deformi che, nel’insulto, prendono le linee dell’indifferenza bruta.17
L'ostilità nei confronti dell'ambiente manicomiale emerge anche da alcune delle cartelle
cliniche che sono state esaminate.
Alcuni provavano a ribellarsi. A., ad esempio, il comunista di cui abbiamo parlato nel primo
capitolo, arrestato nel 1923 ed ammonito nel 1927, davanti alle porte d'ingresso del manicomio di
Macerata oppose «una vivacissima resistenza».18 Altri si rifugiavano nel silenzio e nella solitudine.
Rispetto al primo periodo passato in manicomio criminale dal giovane comunista E. - che, come
abbiamo visto nel capitolo precedente, era stato internato a Montelupo Fiorentino dopo oltre otto
mesi trascorsi in carcere in regime di isolamento - il medico scrisse che non si muoveva dal proprio
letto «per buona parte della giornata», evitando di partecipare «alle conversazioni degli altri
malati». Non aveva sentito «neppure il bisogno di esprimere qualche suo desiderio al personale». 19
Il dottore chiamato a relazionare sulle condizioni di mente di Giuseppe Massarenti, invece, scrisse
che l'anziano socialista viveva «appartato dagli altri ricoverati», rispetto ai quali «si sent[iva]
mentalmente superiore».20
Tuttavia, con il passar del tempo anche gli antifascisti mostravano di abituarsi alla vita
nel'ospedale psichiatrico.21 Dopo alcune settimane trascorse «sempre solo» e senza parlare con
16
Goffman, Asylum, cit., p. 172.
Adamo, Centodieci e droga, cit., p. 26, 27 luglio 1940.
18
AOPMc, Cartelle cliniche, Uomini deceduti, 1931, n. 25 del Registro delle ammissioni, Foglio Notizie storiche, 7
maggio 1931; Comune di Colmurano, Ordinanza per l’ammissione di un demente al manicomio, 8 maggio 1931; Diario
Clinico, 9 maggio 1931.
19
ACS, CPC, b. 1186, f. 38043, Prefettura di Torino, 1 ottobre 1930.
20
Paradossalmente, qualche mese dopo il medico di un altro padiglione avrebbe riconosciuto in Massarenti le doti di
«un'intelligenza superiore alla media»; cfr. Diario clinico di Giuseppe Massarenti del 2 dicembre 1937 e del 24 aprile
1938, Cazzamalli, L'avventura di Giuseppe Massarenti, cit., pp. 28 e 57.
21
Ci si riferisce all'atteggiamento degli antifascisti rispetto ai medici, al personale e agli altri pazienti, che col tempo si
faceva meno chiuso in se stesso e maggiormente disponibile all'interazione. Cosa diversa, quindi, dalla “sindrome da
irradicamento”, che colpisce gli internati psichiatrici (o i detenuti) senza famiglia, senza mestiere ben definito e con un
livello socio-economico medio-basso che, in maniera indipendente dalla diagnosi, con l'avanzare dell'età «preferiscono
17
156
nessuno, ad esempio, Secondo Biamonti cominciò ad essere «socievole» verso gli altri ricoverati e
verso il personale.22 A., invece, l’ex archivista di cui poco sopra abbiamo descritto l'angoscia
presentata al suo primo ingresso in manicomio, al momento del quarto ricovero in meno di otto anni
era apparso «calmo, ordinato» e «rispettoso». Riconosceva i membri del personale «ad uno ad uno»
e li chiamava «per nome».23 Anche L., la comunista milanese internata a Mombello in virtù di
un'ordinanza del Tribunale Speciale che ne aveva riconosciuto l'infermità mentale legandola
all'isteria, si era adattata «bene alla vita manicomiale», benché restasse «sospettosa» ed
«emotiva».24 Il repubblicano internato a Volterra di cui abbiamo parlato nel primo capitolo, infine,
vedendosi dimesso ma impossibilitato a tornare a Montebelluna dalla sua famiglia (per via del
provvedimento che la PS aveva preso nei suoi confronti) e non riuscendo a trovare lavoro, in
manicomio ci tornò in un primo tempo come «aiuto magazziniere», salvo poi entrarci di nuovo
come paziente e non uscire più fino alla morte.25
Pur considerando le differenze determinate dalle molteplici finalità che gli internamenti
psichiatrici perseguivano (custodia e cura degli alienati nel caso di internamento nei manicomi
provinciali / misura di sicurezza detentiva o osservazione ai fini dell'accertamento della
responsabilità penale nel caso degli internamenti nei manicomi giudiziari) si può dire che
l'osservazione psichiatrica successiva all'ammissione iniziale costituiva il momento più importante,
sia per i medici che per il paziente. Durante l'osservazione, gli psichiatri cercavano conferme o
trascorrere la loro esistenza all'interno dell'istituzione, che viene percepita come un luogo accogliente e sicuro, come
“una buona madre”»; cfr. Sanna, Sindromi reattive alla carcerazione, cit., p. 311.
22
AOPPRoma “Santa Maria della Pietà”, Archivio cartelle cliniche, Biamonti Secondo, Diario Clinico, 6 gennaio 1938,
7 gennaio 1938 e 2 febbraio 1938.
23
ASPg, AOP Santa Margherita, b. 223 (Uomini), Cartella clinica n. 15324, Ospedale psichiatrico interprovinciale
dell’Umbria, Diario Clinico, 29 marzo 1941. A. era stato ricoverato una prima volta dal luglio del 1934 all'ottobre del
1936, poi dimesso “in esperimento” ed affidato in custodia al cognato. Dopo alcuni anni il cognato aveva richiesto di
nuovo l'internamento, sostenendo che A. infastidiva e minacciava la moglie ed altri membri della famiglia. Rispondendo
alle domande del medico, invece, il comunista ed ex tenente d'artiglieria aveva raccontato che, dopo un primo periodo
caratterizzato da buoni rapporti, il clima si era deteriorato quando aveva cominciato a chiedere indietro una parte degli
arretrati della pensione che aveva riscosso e consegnato al fratello della moglie suicida. Quel secondo internamento era
comunque durato pochissimo: dal 27 novembre del 1939 al 23 gennaio del 1940, quando era stato nuovamente dimesso
ed affidato in custodia ad un suo conoscente. Il 29 aprile del 1940 era stato ricoverato ancora una volta, dopo aver
lasciato senza permesso il domicilio dell'affidatario che lo aveva in custodia. Dimesso il 24 novembre del 1940, era
stato affidato alla donna con la quale si sarebbe risposato, finché, il 29 marzo del 1941, venne internato per la quarta
volta, fino al novembre del 1944; cfr., ASPg, AOP Santa Margherita, b. 223 (Uomini), Cartella clinica n. 15324, Modulo
informativo per l'ammissione dei pazzi, 26 novembre 1936; Diario clinico, 27 novembre 1939; Dichiarazione di R. B.
per la presa in custodia del ricoverato, 24 gennaio 1940; Tribunale di Perugia, Ordinanza di revoca di dimissione
dall'Ospedale psichiatrico, 26 aprile 1940; Dichiarazione di A. M. per la presa in custodia del ricoverato, 24 novembre
1940; Direzione dell'Ospedale psichiatrico interprovinciale dell'Umbria, 17 ottobre 1941.
24
AO “G. Salvini”, AOPMombello, (Donne, ammissioni del 1928), n. 97 del Registro di ammissione e n. 237 di
protocollo, Ospedale psichiatrico di Milano in Mombello, Riassunto della Cartella clinica, 14 luglio 1955.
25
ACS, CPC, b. 1455, f. 18120, Prefettura di Pisa, 10 ottobre 1930 e Prefettura di Pisa 14 ottobre 1931. L. era stato
internato a Volterra nel 1929, dopo essere stato bandito dalla provincia di Treviso, dove viveva con la famiglia. Dimesso
nel luglio del 1930 ed impiegato come aiuto magazziniere, nel marzo del 1934 manifestò «nuovamente segni di
squilibrio mentale» e venne internato prima a Volterra e poi trasferito nell’Ospedale psichiatrico provinciale di Treviso,
vicino alla famiglia. Morì in manicomio il 25 febbraio del 1941; cfr., nello stesso fasciscolo, Prefettura Pisa, 18 giugno
1935; Prefettura Treviso, 27 maggio 1941.
157
smentite a quelle che erano le risultanze delle visite effettuate dai medici condotti o dai sanitari
degli istituti di pena. Per i pazienti, invece, i risultati dell'osservazione incidevano irrimediabilmente
sulle esistenze, provocando o meno il ricovero psichiatrico definitivo.
Nel caso di condannati a pene detentive che si trovavano in osservazione in un manicomio
giudiziario, dopo il 1930 la posta in gioco rappresentata dall'assenso all'internamento divenne
l'interruzione dello scorrere del periodo di espiazione della pena, dato che, come abbiamo visto, con
la nuova codificazione penale fatta approvare dal ministro Alfredo Rocco ogni complementarietà tra
pena e misura di sicurezza sarebbe stata esclusa. Per gli imputati in attesa di giudizio sottoposti ad
indagine peritale, invece, il parere degli psichiatri poteva far maturare nei giudici la decisione di
riconoscere l'eventuale irresponsabilità penale degli antifascisti. Tuttavia, come abbiamo visto nel
secondo capitolo, questo parere non era vincolante ed i giudici potevano sempre richiederne un
secondo, un terzo e così via. L'osservazione psichiatrica di un imputato non aveva scadenze e come nel caso di R., il comunista empolese processato dal Tribunale Speciale e fortemente
sospettato di simulazione - poteva essere sottoposta alla verifica di diversi specialisti e proseguire
per mesi e mesi.
Nel caso dell'internamento in un manicomio civile era invece prevista una scadenza. Il
termine era di quindici giorni, prorogabili al massimo di altri quindici. La direzione psichiatrica
relazionava poi al procuratore del re in merito all'opportunità di procedere all'internamento
definitivo, che doveva esprimersi con un Decreto del tribunale di definitiva ammissione o di
licenziamento.26 Questa condizione era stabilita dal Regolamento del 1909 e trovava le proprie
ragioni nel diverso status giuridico dei soggetti, che erano forse malati ma restavano comunque
uomini liberi e, senza una precisa indicazione medica, una permanenza superiore al mese sarebbe
equivalsa al sequestro. Trascorsi molti anni dall'approvazione della Legge e del Regolamento sui
manicomi, tuttavia, anche le definizione di un termine al periodo di osservazione sarebbe stato
messo in discussione dagli psichiatri, così come gli altri aspetti della normativa ereditata dall'Italia
liberale che, per ragioni medico-scientifiche, venivano giudicati superati. Eldo Broggi, ad esempio,
il direttore del manicomio di Vercelli (uno degli ultimi ad essere costruito ed inaugurato nel 1937),
sosteneva che «fra tutte le riforme proposte» e «non concesse» alla «ormai vecchia» Legge del
1904, la più importante e da «ottenere con sollecitudine» era rappresentata dal riconoscimento ai
medici della «facoltà di poter prolungare, meglio senza limite di tempo, o almeno per un buon
periodo», il periodo di osservazione, che doveva trasformarsi in periodo di «osservazione e cura». 27
Dai resoconti dell'osservazione iniziale degli schedati politici, a volte emergono le
descrizioni dei comportamenti anomali propri delle patologie che li avevano colpiti (almeno quando
26
27
Articolo 49, Regio Decreto n. 615 del 16 agosto 1909, cit..
Broggi, L’ospedale psichiatrico provinciale di Vercelli, cit., p. 65.
158
queste erano reali) rintracciabili nel disordine dei modi o nei deliri. Durante il primo colloquio con
lo psichiatra che lo visitò nel manicomio di Macerata, ad esempio, A. (il comunista di cui abbiamo
parlato sopra che era stato colpito da «demenza paralitica») riferì «qualche generalità in modo
esatto» ma non sembrava affatto orientato rispetto al tempo: non riusciva a dir nulla né del giorno
né del mese in cui ci si trovava. Presentava «idee deliranti di grandezza e paradossali», diceva di
aver «vinto la lotteria». Sentiva urlare e pensava fosse il fratello che lo chiamava. Anche rispetto
all’ambiente non sembrava molto cosciente. Riusciva a dire solo «frasi incerte»: era venuto «per
farsi visitare le orecchie» ma poi lo avevano portato «qui» e, aggiunse il medico, «non sa[peva] a
che cosa corrisponde[sse] il qui». Quando gli fu chiesto se soffrisse «di malattie celtiche» - altro
nome usato per indicare le malattie a trasmissione sessuale - rispose di «no», e, scoprendosi
«immediatamente il membro», disse di aver «soltanto un bubbone».28
Gli effetti della cronicizzazione della sifilide tagliavano completamente i ponti tra il soggetto
e i canoni della normalità. In A., un socialista ligure iscritto al PSI sin da giovanissimo e
congedatosi alla fine della prima guerra mondiale con la croce al merito, la demenza paralitica
aveva inizialmente provocato «uno spiccato senso di euforia»: spesso cantava. Era stato internato
prima a Quarto e poi a Volterra, ma col tempo il suo stato peggiorò e sopravvennero evidenti «turbe
psichiche allucinatorie visive ed uditive, clamorosità» ed «estremo disordine nel contegno».
Passava «delle ore sdraiato» in cortile e i sanitari non riuscivano a trovare il «modo di fargli tenere i
vestiti e le scarpe».29 Anche le psicosi alcooliche potevano incidere profondamente nei
comportamenti degli alienati. Al momento del suo ingresso nel manicomio di Ancona, ad esempio,
dove era stato accompagnato da due guardie municipali che lo avevano descritto come da «sempre
dedito al vino», un falegname di Senigallia già condannato per delle offese al capo del governo
apparve «molto confuso» ai medici. Non parlava spontaneamente né rispondeva ad alcuna
domanda. Si guardava intorno «con espressione stupita e contrariata». Due giorni dopo si fece
«alquanto eccitato», al punto che gli dovettero praticare «un’iniezione di sonnifero». 30
Come abbiamo visto all'inizio di questo paragrafo, oltre a registrare segni e sintomi delle
patologie ai fini diagnostici, i medici interrogavano i pazienti e, come per l'osservazione psichiatrica
28
AOPMc, Cartelle cliniche, Uomini deceduti, 1931, n. 25 del Registro delle ammissioni, Diario Clinico, 9 maggio
1931; cfr. anche
29
AOPPVolterra, Cartelle Cliniche, Deceduti, 1927, n. 5895 del Registro progressivo delle cartelle cliniche, (Archivio
in corso di sistemazione), Diario clinico, 10 maggio 1927 e 19 giugno 1927; Classe 1894 e segnalato nel 1925 come
segretario della «sezione socialista unitaria di Sarzana» - da lui stesso «ricostituita» - nel gennaio del 1927 A. era stato
internato in manicomio perché, scriveva la Prefettura, la sifilide lo aveva «colpito al cervello»; cfr. ACS, CPC, b. 5544,
f. 109698, Prefettura di La Spezia, Scheda Biografica, 20 maggio 1925; Foglio senza intestazione, 3 giugno 1925;
Prefettura La Spezia, 9 settembre 1927.
30
Non sarebbe più uscito. Morì in seguito ad un'infiammazione renale la sera del 15 maggio del 1929. Il decesso
avvenne; cfr. ASAn, OPAn, Uomini, Anno 1929, b. 108-109, n. 451 del Registro, Cartella clinica, Tabella nosografica,
Anamnesi; Tabella nosografica, Diario clinico, 14 febbraio 1927 e Diario clinico, 16 febbraio 1927; cfr. anche Dal Pont,
Antifascisti italiani, cit., quaderno 14 p. 347.
159
a fini processuali, anche le domande poste agli antifascisti internati nei manicomi provinciali
vertevano sulla condotta verso il regime, dato che spesso erano state le conseguenze di fatti o atti
politici ad averli portati in manicomio. L'applicazione di questa prassi permette di leggere alcune
trascrizioni nei diari clinici che restituiscono, con la voce di chi li subiva, chiare descrizioni degli
intrecci che potevano determinarsi tra repressione politica ed internamento psichiatrico.31 Nel caso
di L., arrestato nell'aprile del 1932 insieme al cognato e ad altri comunisti ternani per aver preso
parte ad una diffusione di stampa sovversiva, poi prosciolto per l'amnistia del decennale ma
internato d'urgenza a Perugia nell'agosto del 1933, a venticinque anni, il medico che lo interrogò
all'ingresso indugiò approfonditamente nella registrazione delle informazioni sulla sua condotta
politica, oltre che sulle cause che avevano provocato il suo squilibrio (rintracciabili in tutti gli
aspetti della carcerazione descritti nel capitolo precedente) e sulla sua reazione all'internamento:
al suo ingresso in questo Ospedale il paziente è calmo ma di umore triste e pensieroso per il suo
internamento. Interrogato non risponde a nessuna domanda anzi si mostra seccato e nulla si è potuto
apprendere dal medesimo. Il cognato che l'accompagna ci informa che il paziente è stato sempre un buon
ragazzo, affezionato alla famiglia ed assiduo nel suo lavoro di operaio nelle acciaierie. Non è bevitore né
forte fumatore. Ha fatto il militare tutta la ferma ma il cognato non ricorda in che reggimento. Però ha
manifestato sempre poca simpatia per l'attuale regime […] fu trovato in possesso di manifestini stampati di
carattere soversivo. Per questo fatto, fatta la causa, fu condannato […] Pare che durante la prigionia abbia
sofferto molto, specialmente mezzi alimentari, per cui ne sia indebolito l'organismo e che non sia stato più di
mente lucida come quando era in libertà. Scontata la pena e messo in libertà non gli fu più possibile trovare
lavoro, tanto che fu disoccupato fino al suo ingresso in questo Ospedale. Sembra, che in seguito alla
disoccupazione e per conseguenza allo scarso nutrimento ed ad altre privazioni [la sorella, nel secondo
dopoguerra, sostenne che in carcere Libero era stato picchiato e torturato, e che era impazzito a causa di «tali
sevizie», ndr] il paziente fosse molto addolorato, ed in seguito a questo dispiacere cominciò a dare segni di
squilibrio mentale.32
Le regole e le occupazioni.
31
Al dottore che alla fine del marzo 1941 lo interrogò al momento del suo quarto ricovero, ad esempio, A. l'ex tenente
d'artiglieria di cui abbiamo parlato più volte, spiegò che «trovandosi in una barbieria ed essendo stato iniziato un
discorso sull'attuale guerra, volle scommettere con un amico che l'Inghilterra ne sarebbe uscita vittoriosa e mise con
questo amico per iscritto tale scommessa». Denunciato alla PS, questa ne aveva consigliato il ricovero; cfr. ASPg, AOP
Santa Margherita, b. 223 (Uomini), Cartella clinica n. 15324, Ospedale psichiatrico interprovinciale dell’Umbria, Diario
Clinico, cenno del 29 marzo 1941.
32
Venne allora ricoverato nell'ospedale di Terni per «esaurimento nervoso». Rientrato a casa non mangiava e non
dormiva più, minacciava chi lo avvicinava e aveva cominciato a dire di volersi uccidere. I familiari, allora, si rivolsero
alla Questura per farlo internare. Il certificato medico lo definiva «alquanto malinconico», soggetto a «vaniloquio»:
spesso fuggiva da casa; ASPg, AAOP Santa Margherita, b. 200 (Uomini), Cartella clinica n. 14304, Ospedale
psichiatrico interprovinciale dell'Umbria, Diario Clinico, 5 agosto 1933; cfr. anche Modula informativa per
l'ammissione dei pazzi in manicomio, 5 agosto 1933 e Foglio Notizie, 5 agosto 1933. Per le notizie sui suoi precedenti
politici cfr. ASPg, Questura, Schedati, b. 26/bis, f. 36, Ospedale psichiatrico interprovinciale dell'Umbria, 2 ottobre
1936; Foglio senza intestazione (a firma del questore), 6 ottobre 1936 e Ospedale psichiatrico interprovinciale
dell'Umbria, 7 ottobre 1936; Ospedale psichiatrico interprovinciale dell'Umbria, 11 ottobre 1936; per la citazione
relativa alla richiesta presentata dalla sorella finalizzata ad ottenere i benefici previsti dalla Legge n. 96 del 1955 cfr.
ACS, Ministero dell'Interno, Divisione affari riservati, sez. 1, cat. 793, perseguitati politici (1956-1960), b. 64, ad
nomen, Ministero dell'Interno, 20 luglio 1957.
160
In modo simile a quanto avveniva in carcere, anche la vita di un ospedale psichiatrico era
regolata dallo svolgersi delle attività dell'istituto. Il momento dei pasti scandiva la giornata, le visite
mediche la settimana e le funzioni religiose i giorni di festa. Ogni singolo manicomio provinciale
era dotato di un regolamento interno, approvato generalmente all'atto della fondazione e poi
riadattato nel corso degli anni.33 Stessa condizione vigeva per i manicomi giudiziari, dove, in una
cornice data da norme fondamentali di funzionamento stabilite dalla legge (ad esempio i colloqui
dovevano essere approvati non solo dal direttore ma anche dall'autorità giudiziaria) erano i
regolamenti interni a fissare le norme della vita quotidiana: dagli orari della distribuzione degli
alimenti allo spegnimento delle luci, dall'accesso agli intrattenimenti al passeggio. 34
Così come nella costruzione degli edifici si era tentato di riprodurre condizioni di normale
esistenza, agli alienati doveva essere resa possibile anche una vita vissuta secondo gli standard del
tempo. Le loro esistenze, sebbene separate da quelle dei normali, dovevano continuare ad essere
contemporanee. Ha scritto a questo proposito Michel Foucault che la «tautologia manicomiale»
fonda il suo potere sulla realtà, e se il manicomio per un verso funziona come luogo chiuso
all'esterno, per altro verso, al suo interno tende a riprodurre la realtà «in quanto tale», comprese le
relazioni che si creano tra i pazienti e tra questi ed il personale, che, sebbene inquadrate in un
contesto disciplinare e basato sulla «regolazione delle privazioni e dei bisogni», devono tendere ad
«essere simili ai rapporti che i cittadini intrattengono» normalmente «gli uni con gli altri». 35
Coerentemente con questa impostazione, i vestiti che venivano consegnati ai ricoverati
potevano anche essere di diverso colore, così da riprodurre condizioni di quotidianetà. Potevano
inoltre essere previsti dei momenti di svago, distribuiti secondo la classe sociale di appartenenza:
scacchi, musica, teatro e passeggiate «per quelli di civile condizione»; bocce, pallone, e marionette
per tutti gli altri.36 A volte, oltre ai refettori e ad altri locali comuni, i manicomi potevano ospitare
33
Dopo l'approvazione della Legge del 1904 e del Regolamento del 1909 si era proceduto ad una uniformazione dei
regolamenti interni. La Legge prevedeva l'obbligo per ogni manicomio di dotarsi di un «regolamento speciale»
contenente disposizioni sull'attività degli infermieri e sul loro numero in proporzione agli infermi, sulle procedure di
nomina del personale, sugli «orari di servizio» e sui provvedimenti disciplinari da prendere nei confronti del personale
in caso di inosservanza delle norme. Il Regolamento stabiliva invece alcune condizioni imprescindibili di carattere
generale: ogni manicomio doveva «corrispondere a tutte le esigenze dell'igiene» e doveva approvare un «regolamento
organico», dove dovevano essere previste «le categorie e il numero» del personale necessario, i diritti, i doveri e le
responsabilità degli impiegati, nonché «le norme per i vari servizi di fornitura» dei beni necessari al funzionamento
della struttura. La piena responsabilità della gestione sanitaria ed amministrativa spettava al direttore, che era chiamato
a «sopraintendere alla cura fisica e morale dei ricoverati», ad organizzare tutti i servizi interni «in modo rispondente» al
loro «benessere», alla loro «igiene, alla sicurezza» e «al decoro». Era il direttore a decidere sulla dislocazione dei
ricoverati nei diversi padiglioni, in base alle patologie diagnosticate ed allo stato psichico del momento; cfr. Articolo 5,
Legge n. 36 del 1904, Disposizioni sui manicomi e gli alienati e Articoli 4, 10, 28 e 62 del Regio Decreto n. 615 del 16
agosto 1909, Regolamento sui manicomi e gli alienati.
34
Rocco, Relazione del ministro al Regio decreto 18 giugno 1931 cit., p. 21.
35
Michel Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano 2010, pp. 160 161 e 164.
36
Boyer, Appunti per una storia del manicomio di Ancona, cit., p. 174.
161
sale da biliardo o per lo svolgimento di intrattenimenti.37 Esistevano delle differenze oggettive tra le
possibilità di azione dei ricoverati in un manicomio provinciale piuttosto che in uno giudiziario,
determinate innanzitutto dal diverso status giuridico dei ricoverati. Tuttavia, al di là della
pervasività della sorveglianza - che, come vedremo, nel caso di alcuni antifascisti si dispiegava in
modo massivo anche negli ospedali psichiatrici provinciali - i principi che ispiravano l'azione dei
medici erano gli stessi. Se, ad esempio, al momento dell'ingresso in carcere, un detenuto vedeva
sostituirsi il proprio nome con il numero di matricola, nel caso in cui questo fosse stato internato in
manicomio giudiziario lo riacquistava, in quanto, come spiegò il ministro Alfredo Rocco
sottolineando l'«importanza morale» di quella scelta, non sarebbe stato giusto prevedere la
privazione del nome - che era considerata una delle «più dure umiliazioni» - per chi doveva essere
«rieducato o curato», piuttosto che punito. Discorso simile potrebbe essere fatto per la possibilità di
autorizzare nei manicomi giudiziari la presenza di giochi, che in carcere, invece, erano stati
tassativamente esclusi.38
Alla convinzione che l'attenzione alla costruzione di ambienti e spazi potesse avere affetti
benifici sul malato, si accompagnavano le necessità di organizzazione del tempo a fini terapeutici e
produttivi, funzionali alla ricostruzione delle relazioni che si instauravano nella vita normale.39
Alcuni manicomi si erano contraddistinti per l'applicazione dell'ergoterapia sin dai primi
anni del loro funzionamento.40 L'importanza del lavoro dei malati come elemento della cura era
stata poi sancita dal Regolamento del 1909, che stabilendo quali tipi di locali i manicomi dovevano
necessariamente includere (locali per l'osservazione in attesa di ammissione definitiva, locali
preposti allo studio, alla diagnosi ed alla cura dei malati e locali di isolamento per i soggetti colpiti
dalle malattie infettive o giudicati pericolosi) prevedeva che le strutture dovessero ospitare luoghi
per impegnare i malati nel lavoro, indicando nell'agricoltura la soluzione ideale.41
Almeno fino a agli anni Trenta del Novecento, l'ergoterapia sarebbe restata nella prassi
manicomiale la sola «grande risorsa» in grado di riportare dentro le mura, «oltre all'ordine ed alla
divisione del lavoro, la logica del dovere, della produttività e della retribuzione». 42 I lavori di
ampliamento del manicomio criminale di Aversa a cui abbiamo accenato sopra, ad esempio,
37
Mannucci, Ospedale neuropsichiatrico di Macerata, p. 8-9.
Rocco, Relazione del ministro al Regio decreto 18 giugno 1931 cit., pp. 24-25.
39
I principi alla base dell'“ergoterapia” riconoscono al lavoro una funzione terapeutica. Pionieri di questa scuola furono
il francese Philip Pinel e l'italiano Vincenzo Chiarugi, che alla fine del XVIII secolo sperimentarono le loro teorie sugli
alienati internati nell'ospedale di Bicêtre, a Parigi, e al San Bonifazio di Firenze. Secondo i suoi sostenitori, l'ergoterapia
risveglia nel malato le attitudini sociali compromesse dalla malattia, stimola le residue capacità psichiche e riduce la
perdita di contatto tra gli alienati e la realtà. I ricoverati percepivano una piccola retribuzione.
40
A Macerata, ad esempio, il neodirettore Enrico Morselli aveva avviato sin dal 1877 una serie di progetti di
occupazione dei ricoverati in diverse attività. Erano state fatte costruire officine per falegnami, per fabbri, pittori,
verniciatori, vasai, calzolai e una colonia agricola; cfr. Mannucci, Ospedale neuropsichiatrico di Macerata, cit., p. 8-9.
41
Articolo 4 del Regio Decreto n. 615 del 16 agosto 1909, Regolamento sui manicomi e gli alienati.
42
Babini, Liberi tutti, cit., p. 81.
38
162
promossi dal direttore Filippo Saporito, furono eseguiti «esclusivamente» dai ricoverati. Luigi
Rusticucci, che visitò lo stabilimento nel 1925, ha ricordato la «meraviglia» destata in lui dalla
«disciplina» mostrata dai malati al lavoro e dall'«ordine che sovranamente» regnava «in tutti i
reparti».43
Negli anni successivi, in linea con le politiche autarchiche del periodo, il lavoro dei
ricoverati rispose anche alle necessità imposte dalla chiusura economica, oltre che a quelle
ergoterapiche. L'Ospedale psichiatrico di Rovigo, ad esempio, che, come abbiamo visto, era stato
attivato nel 1930, occupava circa la metà dei ricoverati nei lavori per l'orto interno, il frutteto,
l'allevamento del bestiame ed altre attività che, nell'ambito della distribuzione dei riconoscimenti
indirizzati ai protagonisti delle battaglie per l'autosufficienza alimentare, fece conseguire all'istituto
la medaglia d'argento per la “Vittoria del grano”.44 A volte gli stessi internati si rendevano
protagonisti degli sforzi per strappare alla natura terreni da mettere a coltivazione. La colonia
agricola del manicomio di Vercelli, aperta nel 1937, «per ragioni insite alla natura del terreno»
aveva richiesto opere «attente» ed «intelligenti». In quei campi venivano occupati in media quaranta
malati al giorno per circa ottomila giornate lavorative l'anno. Oltre al «notevole vantaggio dal punto
di vista di una fattiva ergoterapia», sosteneva il direttore, la vendita di prodotti in eccesso
cominciava a generare persino degli utili. Qualora si fosse riusciti a conquistare altre porzioni di
terreno da mettere a coltivazione, continuava il medico, si sarebbe compiuta «un’opera autarchica
non indifferente».45 Anche il ministro Alfredo Rocco aveva riconosciuto gli importanti risultati che,
anche «dal punto di vista economico», si potevano raggiungere attraverso il lavoro degli internati
psichiatrici, portando a testimonianza quanto fatto nel manicomio giudiziario di Aversa e in quello
provinciale di Napoli.46
Va ovviamente considerato che la platea che doveva essere impiegata in queste mansioni
aveva peculiarità specifiche. Gli internati non sempre presentavano caratteristiche di adattabilità al
lavoro. Negli anni Trenta, il direttore Vittorio Madia raccomandava «giornalmente» al personale del
manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto di «vincere la riluttanza dei ricoverati,
utilizzandoli dapprima in piccoli servizi nell'interno dei reparti, in modo da indurli poi a prestarsi ad
altre occupazioni più confacenti il loro grado sociale» e le loro «condizioni psicosomatiche».
Seguendo «speciali istruzioni» e «con affabili maniere», i sorveglianti dovevano stimolare ed
43
Rusticucci, Nelle galere, cit., pp. 224-225.
Pesaresi, Il luogo dei sentimenti negati, cit., p. 65.
45
Broggi, L’ospedale psichiatrico provinciale di Vercelli, cit., p. 54.
46
Per gli internati nei manicomi giudiziari il lavoro ricopriva un'importanza primaria. Differentemente che in carcere, gli
obblighi ed i limiti dell'impiego al lavoro non erano fissati dai regolamenti interni ma sottoposti all'approvazione del
direttore del manicomio, che doveva tener conto dello stato di salute dei ricoverati. I ricoverati non potevano scegliere il
lavoro, tuttavia al momento dell'ingresso potevano scrivere o dettare una dichiarazione indicando le attività a cui si
erano dedicati da liberi o durante la detenzione. Il direttore avrebbe dovuto poi tener conto di questa dichiarazione.
Rocco, Relazione del ministro al Regio decreto 18 giugno 1931 cit., p. 25.
44
163
appassionare i degenti al lavoro. Gli alienati che «per ragioni di sicurezza», di «prudenza» o più
semplicemente per un'«ostinata avversione» non potevano essere impiegati nei lavori, invece,
potevano restare «quasi tutto il giorno liberi nei cortili di passeggio, ariosi e salubri». 47
Come per la rieducazione in carcere, oltre al lavoro erano previsti altri strumenti che
dovevano favorire il riadattamento dei ricoverati: l’istruzione scolastica, le letture e l’istruzione
religiosa. Oltre alle biblioteche scientifiche, che erano a disposizione del personale medico, i
manicomi ospitavano delle biblioteche destinate ai pazienti. Molto ben fornita era quella del Santa
Maria della Pietà, dalla quale attinse insaziabilmente Secondo Biamonti, segnalato ripetutamente
nel suo diario clinico perché passava «sempre il tempo a leggere libri». 48 Anche a Barcellona Pozzo
di Gotto funzionava una biblioteca con un migliaio di volumi, la cui gestione era affidata al
cappellano. Nei manicomi giudiziari dovevano funzionare inoltre delle scuole. Al «benefizio
istruttivo» queste permettevano di sommare quello «psicoterapico», concorrendo, diceva Madia, «a
ridestare nei soggetti l'equilibrio sentimentale ed affettivo» e a «riallacciarli alla vita».49
All'atteggiamento verso la religione, infine, era riconosciuta una importanza primaria ai fini della
valutazione sulla possibilità di reinserire socialmente gli internati. I cappellani dei manicomi
giudiziari celebravano messa tutti i giorni festivi, e, «prima o dopo il servizio divino», dovevano
«impartire» agli internati ammessi alla funzione «istruzioni di catechismo». In giorni ed orari
stabiliti, inoltre, tenevano delle «conferenze morali ed educative» a cui tutti gli internati non
soggetti all'isolamento continuo dovevano obbligatoriamente partecipare (compresi gli atei, gli
agnostici, gli appartenenti ad altre confessioni religiose ecc.) concentrando la predica «sui doveri
verso Dio, verso lo Stato e verso la società».50
Le considerazioni cliniche ed il riesame della pericolosità.
Dal punto di vista degli psichiatri, gli internati erano malati e non dovevano essere puniti o
premiati ma solo curati e protetti da se stessi o dagli altri malati, sulla base di decisioni tecnicosanitarie derivanti dall'osservazione clinica.
Tuttavia, i giudizi clinici dei medici e dei direttori avevano delle ricadute nell'immediato che
incidevano profondamente sull'esistenza quotidiana degli internati all’interno dell’istituzione, ad
esempio determinando il trasferimento nei padiglioni per gli agitati piuttosto che in quelli per i
tranquilli, dove, come possiamo immaginare, le condizioni erano molto diverse, e per tale motivo
47
Madia, Il manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, cit., pp. 16-17.
AOPPRoma “Santa Maria della Pietà”, Archivio cartelle cliniche, Biamonti Secondo, Diario clinico, 14 febbraio
1938.
49
Madia, Il manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, cit., pp. 11-13; la citazione si trova a p. 11.
50
Articoli 309-311 del Regio Decreto n. 787 del 18 giugno 1931, Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena.
48
164
una decisione in tal senso poteva assumere le caratteristiche di una punizione. Per contro, esisteva
anche la possibilità di prevedere delle forme di incentivazione psicologica che, al di là degli intenti
terapeutici, permettevano ad un ricoverato di beneficiare di quelle che nella sostanza erano delle
gratificazioni, dei premi, anche se i medici non miravano a ricompensare il ricoverato ma ad
implementare una terapia o a testare gradualmente il suo reinserimento nella società.
Nei novantatre articoli che compongono il Regolamento del 1909 sui manicomi civili, nulla
viene detto a proposito del sistema di incentivi da applicare ai malati. Le decisioni venivano affidate
esclusivamente al parere del direttore psichiatrico, che in base alle risultanze delle visite e degli
esami poteva stabilire dei percorsi di totale o parziale riavvicinamento alla vita civile. Il
Regolamento del 1931 sui penitenziari e sugli stabilimenti per le misure di sicurezza, invece,
stabiliva per i ricoverati in manicomio giudiziario alcune concessioni già previste per i detenuti in
carcere (come la fornitura gratuita di carta da lettere e di affrancatura o il permesso di ricevere un
numero maggiore di visite) aggiungendo anche la possibilità di accedere a licenze di lunghi periodi.
Era il Giudice di sorveglianza a decidere sulle determinazioni da prendere, ma in ogni caso lo
faceva sulla base delle relazioni del direttore psichiatrico.51
Anche alcuni antifascisti usufruirono di queste concessioni e ciò testimonia un
atteggiamento neutro dei direttori, autonomo rispetto a quelle che potevano essere le intenzioni
repressive degli organi politici. Torneremo su questo aspetto nelle prossime pagine, per ora è
sufficiente dire che questi casi si verificarono sia nei manicomi giudiziari che in quelli provinciali.
E., ad esempio, un comunista internato durante l'istruttoria di un processo celebrato dal Tribunale
Speciale - prima nel manicomio di Ferrara, per l'osservazione, e poi fatto trasferire a Montelupo
Fiorentino - usufruì per due volte di un mese di licenza, trascorsi insieme alla moglie, prima di
essere dimesso definitivamente (dopo tre anni di ricovero) e poter riacquistare la libertà. 52 R.,
invece, il bolognese arrestato per la diffusione di alcuni volantini del Soccorso rosso e, come
51
Nel Regolamento non erano invece state stabilite specifiche punizioni da prevedere in un manicomio giudiziario,
demandando al parere del direttore psichiatrico ed al vaglio delle «esigenze tecnico-sanitarie» i ricorso al trattamento
disciplinare, di cui parleremo dopo. La ragione di questa eccezione, aveva sostenuto il ministro Alfredo Rocco nella
relazione, era talmente «ovvia» da non dover nemmeno essere spiegata; cfr. articoli 278-280 del Regio Decreto n. 787
del 18 giugno 1931, Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena.
52
E., classe 1901, orfano di entrambi i genitori. Fermato nel marzo del 1925 perché coinvolto in una diffusione del
giornale “Avanguardia”. Diffidato nel 1927 ed ammonito nel 1929. Nell'aprile dello stesso anno espatriato
clandestinamente a Parigi, e, dopo essere stato coinvolto in alcuni scontri, in URSS. Rientrato in Italia alla fine del 1932
ed arrestato a Trieste con documenti falsi, tra i quali alcune tessere del PNF, venne processato per organizzazione del
partito comunista. L'8 settembre 1933, a seguito di ordinanza del Giudice istruttore del Tribunale Speciale, passato dalle
carceri al manicomio di Ferrara, in osservazione. Nel maggio dell'anno successivo assolto per infermità psichica e
assegnato al manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino. Dopo aver beneficiato delle due licenze, nel 1935 ed
all'inizio del 1936, l'8 giugno dello stesso anno sarebbe stato dimesso definitivamente; cfr. ACS, CPC, b. 2098, f. 22928,
Prefettura di Ferrara, 16 dicembre 1923; Prefettura di Ferrara, 25 aprile 1930; Prefettura di Ferrara, 23 gennaio 1932;
Prefettura di Ferrara, 14 dicembre 1932; Prefettura di Ferrara, 6 settembre 1933; Prefettura di Ferrara, 27 settembre
1933; Prefettura di Ferrara, 6 luglio 1934; Ministero dell'Interno, 20 luglio 1934; Prefettura di Ferrara, 18 settemre
1935; Prefettura di Ferrara , 31 marzo 1936 e Prefettura di Ferrara, 18 giugno 1936 .
165
abbiamo visto nel capitolo precedente, portato in carcere legato ad una barella, grazie all'intervento
del direttore del manicomio di Imola (dove R. era giunto nel 1937, dopo aver già passato sei anni
ricoverato al “Roncati” di Bologna) poté godere di «alcune libere uscite», accordategli «purchè
accompagnato da un infermiere».53
I medici formulavano i propri giudizi sulla base dell'osservazione di fatti e comportamenti
oggettivi (come la frequenza dell'internato nella partecipazione al lavoro ed alle attività delle
scuole, le sue letture - se ne faceva o meno e quali - il comportamento tenuto con il personale) ma
anche sulla base delle loro interpretazioni sull'eventuale persistere dei deliri. In quest’ultimo caso la
“guarigione” poteva allora assumere le stesse caratteristiche del “ravvedimento politico” che si
pretendeva dagli antifascisti confinati o detenuti. Soprattutto i deliri paranoici, come abbiamo in
parte visto nel primo capitolo e come vedremo più avanti, si prestavano facilmente alla
medicalizzazione di diversi soggetti che potevano risultare di disturbo, da chi protestava per la
continua sorveglianza, a chi aveva espresso il suo dissenso con parole, scritti o altro.
Nei manicomi provinciali, potevano essere le stesse cartelle cliniche ad ospitare un elenco
prestampato degli aspetti rispetto ai quali prestare attenzione nel corso dell’osservazione clinica.
Oltre al contegno (normale, catatonico, inespressivo), l'abbigliamento (ordinato, disordinato,
sudicio) le espressioni fisiognomiche ricorrenti (triste, dolorosa, contratta, vivace, visionaria,
estatica o demenziale), anche le occupazioni a cui l'alienato attendeva all'interno dell'ospedale
(lavori interni di pulizia e lavanderia, giardinaggio, impiego nella colonia agricola o nelle officine)
assumevano una particolare importanza.54
Per gli internati nei manicomi giudiziari, invece, il Regolamento del 1931 aveva previsto
l'istituzione di un apposito registro, dove il personale degli stabilimenti destinati alle misure di
sicurezza doveva raccogliere tutte le «notizie concernenti la condotta dell'internato» rispetto alla
disciplina, alle relazioni con gli altri ricoverati, con le autorità dirigenti e con gli agenti di
sorveglianza; nonché i progressi (o i regressi) fatti registrare nel lavoro, nella scuola e nelle pratiche
religiose a cui l’internato, come abbiamo visto, doveva obbligatoriamente partecipare. Le notizie
contenute nel registro dovevano poi essere valutate al momento del «riesame della pericolosità», la
procedura che, come abbiamo visto nel secondo capitolo, per gli imputati internati in manicomio
perché riconosciuti penalmente irresponsabili non poteva essere attivata prima della scadenza dei
termini previsti dalla sentenza del tribunale (che potevano variare dai due anni ai dieci anni), mentre
per i detenuti trasferiti in manicomio dal carcere poteva essere anticipata rispetto a quanto previsto
inizialmente nel provvedimento del Giudice di sorveglianza, come riconoscimento del
53
ASBo, Questura Cat. A8, Radiati b. 30, f. B. R., Ufficio di PS di Imola, 15 ottobre 1937.
Cfr. AO “G. Salvini”, AOPMombello, (Donne, ammissioni del 1928), n. 97 del Registro di ammissione e n. 237 di
protocollo, Manicomio della provincia di Mombello, Cartella clinica donne.
54
166
miglioramento clinico. Solo dopo aver superato il riesame della pericolosità il ricoverato poteva
essere liberato e restituito al consorzio civile - se era stato inviato in manicomio giudiziario come
misura alternativa alla condanna penale - o tornare in carcere- se era un detenuto - e ricominciare a
scontare il tempo di pena rimanente.55
Per alcuni il riesame di pericolosità poteva assumere le sembianze di un ostacolo
insormontabile, che condannava i soggetti a finire i loro giorni all'interno dei manicomi. T., ad
esempio, non avrebbe mai terminato di scontare una condanna inflittagli nel 1927 dal Tribunale
Speciale per delle offese a Mussolini. Dopo qualche mese trascorso in isolamento a Portolongonene
era stato disposto l’internamento ad Aversa, in l'osservazione, dato che aveva cominciato a
manifestare segni di squilibrio mentale. Secondo le risultanze mediche, T. era affetto da «paranoia
allucinatoria». Negli anni di permanenza in manicomio, i suoi «disturbi del pensiero ed i disordini
dei sensi» aumentarono, «non mancando di inficiare e turbare notevolmente tutte le attività della
mente». Nel 1934, dopo quasi sei anni di internamento, «incarna[va]» ormai «la figura del demente,
nel senso clinico della parola». Per i medici, T. era ormai giunto al « periodo terminale» della
malattia, e si poteva «presumere impossibile la guarigione». Ogni «sua manifestazione inerente alle
idee sovversive di un tempo», rassicuravano inoltre i sanitari, si era ormai ridotta «ad un'attività
parolaia, innocua e vuota di significato».56
T. non era un oppositore proveniente dall'antifascismo politico. Era stato schedato come
anarchico ma il suo certificato penale non riporta nessun reato riferibile alla militanza
nell'opposizione organizzata. Tra il 1898 ed il 1928 aveva collezionato trentasette procedimenti
penali, alcuni per furto e danneggiamento, altri per oltraggio alla forza pubblica, uno per grida
sediziose e due per offese a Mussolini. Era un delinquente recidivo, un anarchico e si era già
dimostrato insensibile al superiore ideale rappresentato dalla patria: nel 1917, infatti, soldato nella
prima guerra mondiale, era stato condannato dal Tribunale di guerra a sei anni e due mesi di
reclusione per diserzione e perché si era venduto gli «effetti militari».57
55
Rocco, Relazione del ministro al Regio decreto 18 giugno 1931, n. 787, cit., p. 27 e cfr. articolo 284. Nel registro
dell'internato dovevano inoltre risultare notizie circa: «1 - I risultati conseguiti nel lavoro e nella scuola; 2 - Le relazioni
con la famiglia, con espressa indicazione della frequenza e della carattere della corrispondenza e dei sussidi inviati; 3 La corrispondenza con la persona offesa; 4 - La corrispondenza con altre persone, accennando a qualche pecuriale
carattere o significato dela stessa; 5 - L'uso che l'internato a fatto della facoltà di acquistare sopravvitto, in relazione alle
sue disponibilità finanziarie ed alle condizioni della sua famiglia; 6 - I libri ed i giornali che l'internato legge; 7 - Gli
episodi dela vita dell'internato, che siano sintomi della sua proclività alla violenza o alla frode o del suo riadattamento
alla vita sociale; 8 - I risultati dell'informazioni fornite dall'autorità di PS o dal consiglio di patronato sulla condotta
tenuta durante le licenze; 9 - Le condizioni fisiche e psichiche dell'internato, con precise indicazioni, per l'internati già
dediti all'uso di bevande alcooliche e di sostanze stupefacenti, circa i risultati della cura a cui sono stati sottoposti».
56
ASMc, Questura., Categoria A8, Radiati (1898-1949), b. 22, f. R. T., Questura di Napoli, 28 febbraio 1934. Nella
comunicazione viene riportato interamente il parere della Direzione del manicomio giudiziario di Aversa. T. era stato
internato il 20 novembre del 1928.
57
Ivi, Tribunale di Macerata, Certificato giudiziale, 29 aprile 1931.
167
Non sarebbe mai riuscito a superare il riesame della pericolosità. Rispondendo ad una
richiesta di informazioni pervenutagli qualche anno dopo il ricovero, la Direzione psichiatrica di
Aversa avrebbe attinse persino alle teorie sull'associazione tra anarchismo e follia, scrivendo che
«le idee sovversive da lui un tempo manifestate» erano da considerarsi in «intima relazione con la
grave malattia» di cui soffriva. Era stata la psicosi, quindi, nel suo stato embrionale, a farlo
diventare anarchico. Era inoltre «presumibile», scriveva il direttore, che «tale stato di cose» sarebbe
restato «insuscettibile di ulteriori modificazioni, stante il carattere cronico della malattia mentale». 58
Le terapie.
La maggior fonte di preoccupazione per la psichiatria manicomiale degli anni a cavallo tra il
1920 ed il 1930 era rappresentata dal problema della cura. Le terapie in uso erano infatti considerate
legate a tradizioni troppo vecchie. In manicomio si praticava ancora la «clinoterapia» - ovvero il
riposo forzato a letto - l'«idroterapia» - ossia la permanenza in acque calde a 35 o 37 gradi - e
l'iniezione di sedativi - come il bromuro di potassio, la scopolamina o la morfina - quando altri
trattamenti si erano mostrati inefficaci per un completo ristabilimento della tranquillità.
L'ergoterapia rappresentava ancora «la grande risorsa manicomiale» ma, nel corso degli anni Trenta,
le convinzioni rispetto alla sua reale efficacia cominciarono ad incrinarsi.59
Un'importante innovazione in campo terapeutico era stata tuttavia introdotta nel 1917, ed
avrebbe segnato lo sviluppo delle terapie psichiatriche degli anni successivi, almeno fino
all'introduzione delle terapie farmacologiche. In quell'anno, il neurologo austriaco Julius Wagner
von Juaregg era riuscito ad approntare la «malarioterapia», sperimentandola per la prima volta su
alcuni soldati colpiti da paralisi progressiva, ai quali era stato applicato del sangue infettato da
febbre malarica. Dopo alcuni mesi, i soldati erano guariti. Possiamo dire, perciò, che anche per le
terapie da applicare in campo psichiatrico, così come si era verificato per altri aspetti diagnostici, la
prima guerra mondiale funzionò da laboratorio.60
58
Ivi, Questura di Napoli, 11 luglio 1934. Morì ad Aversa il 12 maggio del 1942, dopo quattordici anni di internamento;
cfr. Ivi, Municipio di Aversa, Sezione Stato Civile, Certificato di morte, 29 maggio 1948.
59
Babini, Liberi tutti, cit., pp. 78-81; la citazione si trova a p. 81.
60
Fino alla vigilia della prima guerra mondiale, il trattamento classico dei malati mentali si era basato principalmente
sulle prescrizioni dietetiche, sui salassi e sulla somministrazione di sostanze vegetali utilizzate come calmanti. Con
l'arrivo del conflitto, si erano invece diffusi metodi terapeutici basati sul dolore, da provocare attraverso strumenti
congeniati allo scopo, a volte in modo improvvissato. I vecchi metodi si mostravano controproducenti, in quanto
stimolavano il soldato-alienato a rimuginare sui suoi patimenti, aumentando in tal modo il senso di angoscia provocato
dalle immagini dello spettacolo di morte a cui aveva preso parte che gli erano rimaste fissate nella memoria.
L'applicazione di scosse elettriche ai diversi arti, invece, provocava subito delle reazioni e spesso risolveva casi di
mutismo e di isteria. Se non provocava nulla allora il soldato era perso definitivamente. Le terapie dolorifiche
rispondevano anche all'esigenza di smascherare gli eventuali simulatori che si fingevano pazzi per evitare la trincea; cfr.
168
Il trattamento malarioterapico consisteva nell'iniezione del parassita responsabile della
malaria nei soggetti colpiti da paralisi progressiva in conseguenza della sifilide e funzionò da
apristrada per la «ricerca di terapie somatiche» che, seguendo la logica “chiodo scaccia chiodo”, si
prefiggevano il compito «di curare la malattia mentale a partire dall'idea di uno scontro/opposizione
tra patologie».61 Negli anni successivi la scoperta di Wagner, si comprese che gli shock potevano
avere dei buoni risultati anche sugli schizofrenici e sui soggetti colpiti da delirio. Inoltre gli shock
rispondevano a tre ordini di opportunità: erano una soluzione medica alla domanda di cura delle
malattie mentali, avevano la parvenza di un rimedio efficace e, soprattutto, mantenevano il tempo di
rapporto terapeutico nei limiti accettabili dalla medicina ospedaliera, che invece si dilatavano nelle
forme di trattamento tradizionale basate sull'interazione quotidiana tra medico e paziente. Da quel
momento in poi, le terapie di shock caratterizzarono «il profilo della psichiatria istituzionale dell'età
fascista». Recuperando le esperienze della prima guerra mondiale, a partire proprio dallà necessità
di rispondere prontamente alla malattia (durante il conflitto il ricorso alle terapie persuasive era
stato subito ritenuto troppo lento, dato che era preferibile una rapida reimmissione del soldato nel
circuito bellico o il suo definitivo congedo), buona parte della scienza psichiatrica europea cominciò
infatti ad approcciarsi alle terapie secondo una prospettiva che era «spudoratamente interventista»
anche nel «linguaggio». Le terapie di shock da somministrare ai malati mentali si moltiplicarono:
insulinico, nel 1933; cardiazolico, nel 1935; psicochirurgia, ancora nel 1935 e l’elettroshock nel
1938. Tutte terapie sperimentate e messe a punto in paesi a regime fascista - Ungheria, Austria,
Portogallo e Italia - e tutte accomunate dalla capacità di «prefigurazione della morte» insita nei loro
effetti. L’elettroshock, soprattutto, un’invenzione tutta italiana, autarchica, alternativa alle altre
terapie da shock e dal costo minimo, sperimentata sui maiali e poi testata sull’uomo l’11 aprile del
1938.62 Alla fine del dicembre del 1940 le applicazioni si contavano già a migliaia.63
Canosa, Storia del manicomio in Italia, ct., pp. 151-152; Bianchi, La follia e la fuga, cit., pp. 29-30. Secondo Eric J.
Leed, il trattamento disciplinare a cui erano sottoposti i soldati colpiti da psicosi aveva trasformato la «scena
terapeutica» in una sorta di «ordalia». L'obiettivo della terapia era correzionale: accettare il ruolo pubblico assegnato
(uccidere) e superare l'incapacità di silenziare il proprio istinto di autoconservazione, che poteva spingere ad impazzire
pur di evitare di uscire dalla trincea. Era la volontà a dover essere corretta. Il soldato si doveva persuadere che la sua
sopravvivenza individuale era subordinata a quella della nazione; cfr. Leed, Terra di nessuno, cit., pp. 231-232.
61
Babini, Liberi tutti, cit., p. 81.
62
Lo SHOCK INSULINICO, testato dal tedesco Manfred Joshua Sakel, prevedeva l'iniezione nel malato di diverse dosi
di insulina, ripetute quotidianamente in modo programmato fino al raggiungimento della dose-shock, che provocava il
coma ipoglicemico. Il risveglio veniva provocato a pochi minuti dal sopraggiungere del coma profondo attraverso
l'introduzione, per mezzo di una sonda gastrica, di una soluzione di acqua e zucchero. La cura mostrava effetti positivi
nei pazienti affetti da delirio. Negli stessi anni il neurochirurgo portoghese Egas Moniz tentò la prima leucotomia
prefontrale su un essere umano, consistente nell'asportazione di una piccola parte organica attraverso un foro praticato
nell'osso frontale. Moniz, le cui teorie trovarono attenzione anche in Italia, sosteneva che esistessero delle connessioni
tra fibre organiche in grado di determinare, nei soggetti colpiti da delirio, le associazioni mentali distorte e le errate
interpretazioni della realtà. Intervenendo chirurgicamente il delirio sarebbe scomparso. Lo SHOCK CARDAZIOLICO
consisteva nella provocazione di crisi epilettiche indotte con iniezioni di cardiazol - un medicamento sintetico introdotto
come succedaneo alla canfora usato come tonico cardiaco ma che, in dosi massicce, provoca crisi convulsive. Le prime
sperimentazioni furono condotte dal medico Ladislas von Meduna, di Budapest.; cfr. Babini, Liberi tutti, cit., pp. 95-
169
Nei manicomi fatti costruire dal regime erano stati predisposti laboratori ed apparecchiature
funzionali alle nuove terapie. Sin dall'inizio degli anni Trenta, ad esempio, i detenuti e gli imputati
impazziti «abbisognevoli di cure elettriche» (precorritrici dell'elettroshock) venivano assegnati al
manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto.64 Tra il 1937 ed il 1938, in appena un anno di
attività del neoistituito Ospedale psichiatrico di Vercelli, il numero dei pazienti «trattati» rapportato
al numero totale dei degenti era stato «notevolissimo». Erano state praticate «la malario-terapia, la
pireto-zolfo-terapia, la terapia convulsivante, la insoluniterapia». Le «associazioni di più cure in
uno stesso soggetto» erano «all'ordine del giorno». Altre terapie, come la «narcosi prolungata» o
l'elettroshock, sarebbero state «le prime» ad essere provate (le strumentazioni erano «in via di
impianto») mentre per le «cure chirurgiche» si aspettava ancora il completamento della sala
operatoria. Secondo il direttore Eldo Broggi, nella «terapia delle malattie mentali» erano richiesti
«dinamismo, entusiasmo, perseveranza» e una «totalitaria applicazione e dedizione». Si poteva
perciò dire, aggiungeva adeguando il linguaggio utilizzato allo spirito del tempo e alle esigenze di
carriera, che quello del suo manicomio era un esempio di come «operare secondo l'imperativo del
Duce», che voleva che «tutte le attività» fossero svolte «fascisticamente» e raggiungessero
quell'«ardente, dinamica operosità» propria dello «stile» e del «clima dell'Italia Imperiale». 65
La natura e gli scopi essensialmente burocratici delle cartelle cliniche restituiscono una fonte
spesso povera di notizie esaustive e riferimenti specifici sulle terapie a cui gli internati erano
sottoposti. Le decisioni circa l'impiego delle cure da approntare per i singoli casi, inoltre, erano di
competenza esclusivamente sanitaria, e più le annotazioni contenute nei diari clinini si
allontanavano dalla registrazione dei primi giorni di internamento maggiormente venivano stilate in
modo consuetudinario, tramite il ricorso ad una grafia comprensibile solo ad un ristretto gruppo di
addetti ai lavori che sacrificava la completezza delle descrizioni alla routine ed alle necessità dei
tempi ospedalieri.
Anche nel caso degli antifascisti internati non sono molte le cartelle che riportano notizie
sulle terapie somministrate.
112. Le citazioni riportate nel testo si trovano a p. 95. Sul tema dell'elettroshock vedi anche Sabrina Cremonini,
Primavera 1938: l'introduzione dell'elettroshock nella pratica psichiatrica e l'esperienza soggettiva di alcuni pazienti,
in “Storia e problemi contemporanei”, a. IV, n. 8, novembre 1991.
63
Lo shock provocato dall'elettricità agiva nelle profondità del sistema nervoso, stimolando accessi epilettici che
davano luogo a delle incondizionate reazioni di difesa organica. Il primo essere umano al quale era stato applicato era
un uomo di circa quaranta anni che si aggirava per la stazione di Roma e, fermato, aveva cominciato a rispondere in
modo sconclusionato. Il sistema funzionava attraverso un orologio che regolava il tempo della scarica elettrica sul corpo
del paziente, da settanta a centoquaranta volt per un massimo di cinque decimi di secondo. Al paziente veniva applicata
alle tempie una cuffia con degli elettrodi bagnati con acqua salata. Un infermiere teneva in mano una garza di tessuto,
da infilare nella bocca del malato, appena questo la spalancava per reazione alla scarica, per evitare che, serrandola, si
spaccasse i denti o si ferisse la lingua. Di lato, il medico azionava i comandi.
64
Madia, Il manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, cit., p. 9.
65
Broggi, L’ospedale psichiatrico provinciale di Vercelli, cit., pp. 66, 68 e 75.
170
La prima e la meno elaborata era l'alimentazione forzata, unico rimedio a quanti
manifestavano «sitofobia», cioè il rifiuto del cibo. In questi casi i medici e gli infermieri inserivano
una sonda nella gola dell'internato o approntavano un «clistere nutritivo». Cosa che fecero con A.,
internato per una psicosi alcolica dopo aver espiato una condanna al confino per aver pronunciato
alcune offese a Mussolini all'interno di un'osteria. Il trattamento, tuttavia, non gli valse la vita. Dopo
solo due settimane, come abbiamo visto nel primo capitolo, morì nel manicomio di Perugia.66
Dalle informazioni contenute in altre cartelle, invece, sappiamo che il trattamento
malarioterapico messo a punto da Wagner poteva produrre dei pesanti effetti collaterali. Alla fine
del 1929, ad esempio, l'anarchico maceratese A. morì nel manicomio di Macerata in seguito agli
accessi febbrili.67 Dopo l'iniezione «la febbre malarica» aveva «ben attecchito»: il malato aveva
cominciato a presentare «una serie di forti attacchi frebbrili (sui 40°)» che erano comparsi per
dodici giorni ed erano «stati preceduti da brivido intenso e seguiti da copiosa sudorazione». A.
aveva «sopportato l’infezione senza manifestare segni di debolezza». La febbre era poi «del tutto
scomparsa e l’individuo, buon mangiatore», si era «rifatto fisicamente». Non esprimeva «più le
paradossali idee di grandezza» e manteneva «un contegno quieto, ordinato». La cura aveva fatto
effetto: «già si alza», aveva aggiunto il medico alle annotazioni. La sera di Natale, tuttavia, dopo
essere stato in piedi «tutto il giorno senza accusare alcuna sofferenza», aveva bussato «fortemente
alla porta del dormitorio». L’infermiere era accorso subito e si era sentito dire: «Sento qualcosa sul
cuore, mi sento morire». A. spirò poco dopo.68
A distanza di due anni, nello stesso manicomio e sempre in seguito ad uno shock
piroterapico, morì anche A., il comunista colpito da demenza paralitica che, come abbiamo visto nel
primo paragrafo, si era ribellato di fronte alle porte dell'ospedale. Le prime quattro iniezioni gli
avevano prodotto «soltanto un lievissimo elevamento termico». Era stato allora sottoposto ad un
altro ciclo, e poi, dopo qualche settimana, ad un'altra iniezione, senza far registrare «nessun
66
ASPg, AOP Santa Margherita, b. 178 (Uomini), Cartella clinica n. 13261, Diario clinico, 16 marzo 1933 e 17 marzo
1933. Le vicende di A., internato in manicomio dopo essere ritornato dal confino, in seguito ad alcune offese a
Mussolini pronunciate in un'osteria di Viterbo, sono state descritte nel primo capitolo.
67
Nato nel 1885, A. proveniva da una famiglia di sovversivi, anche i suoi fratelli erano schedati, era stato già processato
nel 1923 e condannato a quattro mesi di carcere per una rissa con dei fascisti ed era stato internato in manicomio per
«demenza paralitica». Anche nel suo caso il questore chiese di essere informato prima dell'eventuale dimissione; ASMc,
Questura, Gabinetto, b. 20, Radiati 1896-1956, P. A., Foglio informazioni del 6 maggio 1923. Internato nell'ottobre
1929, in seguito ad un'ordinanza della Questura, al momento dell'osservazione iniziale era apparso «un demente
paralitico tipico. Approssimativamente orientato. Sconclusionato nei discorsi. Debole di memoria»: da ragazzo aveva
sofferto di sifilide. Esprimeva «idee deliranti di grandezza, assurde, paradossali»: credeva «di essere re» o «di aver per
moglie la regina». Spesso si estraniava, perché pretendeva «di voler andare dal Prefetto o di voler partire per Roma».
Dal punto di vista dell'esame somatico il medico scrisse: «Ipomimia [assenza di espressività facciale], turgore pupillare
[pupilla gonfie], diartria accentuata [assenza del coordinamento nei movimenti degli arti]»; AOPMc, Uomini deceduti
(1929), n. 80 del Registro delle ammissioni, Diario clinico, 6 ottobre 1929 e 14 novembre 1929.
68
Trasportato in infermieria, «dopo pochi istanti» Alfredo spirò; cfr. Ivi, Diario clinico, 14 novembre 1929, 20 dicembre
1929 e 25 dicembre 1929.
171
vantaggio», finché, «improvvisamente», fu colpito da «accesissimi» conati di vomito e febbre fino a
quarantuno gradi. Morì due giorni dopo per «iperpiressia».69
Sebbene potenzialmente pericolosa, la malarioterapia era comunque considerata un efficace
rimedio, soprattutto contro gli effetti della cronicizzazione della sifilide. Ciò non valeva solo per i
medici, ma anche per le famiglie. Nel caso di A., ad esempio, il socialista ligure internato a Volterra
di cui abbiamo parlato prima, fu un avvocato a chiedere ad un suo amico medico che lavorava nel
manicomio (a quel tempo ancora diretto da Luigi Scabia) che fosse al più presto approntata la «cura
malarica», e lo fece per conto della famiglia (la sorella di A. era sposata con un noto socialista)
utilizzando parole che testimoniano quanta fiducia fosse riposta in questo tipo di rimedio:
Carissimo B., torno a scriverti per quel povero A. ricoverato costì in manicomio [...] Mi scrivesti che appena
possibile sarà tentata la cura malarica. La famiglia del ricoverato mi fa premura perchè il tentativo si faccia al
più presto. Ti ripeto che si tratta di bravissima persona verso la quale io nutro sincera amicizia. Tu farai a me
un vero favore usando verso l’ammalato la generosa e sapiente cura che puoi, raccomandando al medico cui
è affidato di ottenere che l’esperimento della malaria si faccia al più presto. Abbi la bontà di scrivermi
qualche cosa e ricevi le apprensioni e la riconoscenza della famiglia.70
Anche la sorella di L., il comunista di cui abbiamo parlato sopra, impazzito in seguito ai
patimenti del carcere ed alla disoccupazione provocata dal suo licenziamento, concordò con i
medici del manicomio di Perugia l'iniezione di sangue infetto, adoperandosi poi per essere
costantemente informata sugli sviluppi della cura e manifestando al medico del padiglione che lo
seguiva tutta l'apprensione vissuta in quelle «ore di ansia». 71 L. tuttavia non era stato colpito da una
paralisi progressiva provocata dalla sifilide, ma era uno schizofrenico, almeno secondo il parere dei
medici. Come abbiamo visto, per questo tipo di patologia si ritenevano maggiormente efficaci
terapie di shock convulsionante che, a volte, per essere praticate, venivano precedute da apposite
autorizzazioni fatte firmare ai congiunti, almeno nel caso in cui il malato avesse conservato dei
69
AOPMc, Cartelle cliniche, Uomini deceduti, 1931, n. 25 del Registro delle ammissioni, Annotazione del 9 maggio
1931.
70
A. morì due mesi dopo il trattamento; cfr. AOPPVolterra, Cartelle Cliniche, Deceduti, 1927, n. 5895 del Registro
progressivo delle cartelle cliniche, (Archivio in corso di sistemazione), Lettera dell’avvocato B. T., 16 settembre 1927 e
Telegramma della Direzione dell’ospedale psichiatrico di Volterra del 18 novembre 1927. ; ACS, CPC, b. 5544, f.
109698, Z. Arturo, Prefettura di La Spezia, Scheda Biografica, 20 maggio 1925; Foglio senza intestazione, 3 giugno
1925; Prefettura La Spezia, 9 settembre 1927.
71
ASPg, AAOP Santa Margherita, b. 200 (Uomini), Cartella clinica n. 14304, Cartolina postale, 23 aprile 1934. Le
condizioni di L. erano fortemente peggiorate. Alcuni giorni dopo l'ingresso si mostrava «allucinato, disordinato,
sudicio», mangiava poco e non dormiva. In un colloquio con il medico del 16 agosto 1933 aveva ripetuto di essere stato
in carcere per motivi politici, ma che non aveva avuto «intenzione di fare male»; era stato spinto, aveva detto, «da una
certa mancanza mentale, forse il fumo, oppure qualche disordine sessuale». Aveva detto anche di sentirsi «con la testa
vuota», come «tonto»: sentiva delle «voci». Presentava «frequenti stereotipie» nei gesti e «manierismi nel contegno e
nell'eloquio». L'iniezione di sangue malarico gli era stata praticata il 14 aprile del 1934. Da quel giorno e fino al primo
maggio la sua temperatura corporea sarebbe oscillata tra i trentotto ed i quarantuno gradi, per poi scendere e
stabilizzarsi; cfr. Ivi, Diario clinico, 9 agosto 1933, 30 agosto 1933, 14 aprile 1934 e Cartella termografica, aprilemaggio 1934; per le citazioni relative al secondo colloquio con il medico cfr. Ivi, Ospedale psichiatrico interprovinciale
dell'Umbria, Reparto osservazione, Storia clinica dell'infermo, s.d. ma riferito al 18 agosto 1933.
172
legami con la famiglia o non fosse proprio solo al mondo. Era un modo per liberare i sanitari da
ogni responsabilità nel caso in cui le cose fossero andate per il verso sbagliato, poiché le terapie
convulsionanti erano molto pericolose. Quando allo stesso L. vennero praticati prima lo shock
insulinico e poi quello da cardiazol, fu il fratello a firmare le autorizzazioni al direttore Giulio
Agostini.72 Lo stesso avvenne all'inizio del 1941, quando, visto che ancora non aveva dato alcun
segno di miglioramento, a Libero venne praticato anche l'elettroshock.73
Contenzione e trattamento disciplinare.
In manicomio non erano previste punizioni per sanzionare le condotte indisciplinate. Il
mancato rispetto delle norme dell'istituto veniva tuttavia interpretato come la manifestazione di una
deficienza nella capacità di assimilazione delle regole interne di vita e, nell'immediato e nelle sue
manifestazioni più acute, trovava risposta nella contenzione fisica, concepita come rimedio ai
potenziali rischi che l'alienato provocasse traumi a se stesso o ad altri pazienti e al personale.
In campo scientifico, parallelamente alla diffusione delle teorie sui metodi oped-door nella
custodia dei malati mentali che abbiamo descritto nell'introduzione, si diffusero anche quelle sul no
restraint, che prevedeva la riduzione o l'abolizione dei mezzi di contenzione fisica dalla pratica
manicomiale.74
In Italia, uno degli psichiatri maggiormente sensibili a queste teorie fu Ernesto Belmondo,
formatosi nel San Lazzaro di Reggio Emilia sotto la direzione di Carlo Livi (lo stesso ambiente di
Enrico Morselli ed Augusto Tamburini, di cui Belmondo sarebbe diventato assistente nel
manicomio di Modena). Dopo essere stato chiamato a coprire la cattedra di Psichiatria all'Università
di Padova, Belmondo aveva partecipato attivamente alla costruzione del locale manicomio
provinciale, supervisionandone i lavori, del quale sarebbe diventato poi direttore dal 1906 al 1931.75
Nell'ottobre del 1904, a pochi mesi dall'approvazione della Legge sui manicomi e gli
alienati, Belmondo era intervenuto al XII Congresso nazionale della Società freniatrica italiana
72
Ivi, Ospedale psichiatrico interprovinciale dell'Umbria, 20 marzo 1938. La dichiarazione era predisposta su un foglio
prestampato, segno che era una prassi, e recitava: «Il sottoscritto, fratello del ricoverato L., autorizza il direttore
dell'Ospedale psichiatrico a sottoporre il suo congiunto alla cura del Cardiazol e dell'Insulina. Essendo consapevole dei
gravi pericoli a cui può andare incontro il malato, dichiara di scagionare i Medici e l'Amministrazione dell'Ospedale da
ogni responsabilità per qualsiasi conseguenza».
73
Ivi, Ospedale psichiatrico interprovinciale dell'Umbria, 1 gennaio 1941.
74
Il no restraint prevedeva l'eliminazione dai manicomi di tutti gli strumenti di contenzione fisica, nella convinzione
che il loro uso fosse controproducente. Diffusesi inizialmente in Inghilterra per opera di John Conolly - che pubblicò il
volume Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi - le teorie sul no restraint si estesero successivamente
a tutta Europa, soprattutto in Germania, trovando in Emil Kraepelin uno dei maggiori sostenitori.
75
Nato a Genova nel 1863, dopo aver lavorato a Reggio Emilia e a Modena - e dopo un biennio di studio in Germania
ed un ulteriore impegno nella clinica psichiatrica di Firenze, come aiuto di Eugenio Tanzi - Belmondo, nel 1904, era
stato chiamato a ricoprire la cattedra di Psichiatria dell'Università di Padova, dove sarebbe divenuto direttore dello
stesso manicomio dal 1906, anno dell'apertura, al 1931, quando si sarebbe ritirato dagli impegni. Morì nel 1939.
173
sostenendo che l'uso di metodi violenti produceva violenza nei pazienti. Lo psichiatra si era detto
convinto che fosse meglio eliminare «dagli arsenali manicomiali ogni apparecchio di contenzione».
In ogni caso, l'immobilizzazione di un ricoverato sarebbe dovuta essere ammissibile solo di fronte a
comprovate esigenze mediche e sempre regolata secondo «norme e limiti precisi». 76 Il Congresso
aveva recepito le sue indicazioni, impegnando tutti i soci a «provocare, con ogni loro energia», quei
provvedimenti che dovevano favorire «anche in Italia, come ormai nella maggior parte delle altre
Nazioni, l'abolizione dei mezzi di contenzione per gli alienati». 77
Essendo una questione strettamente medica, la contenzione trovò poco spazio all'interno dei
regolamenti, che, nel tentativo di proteggere i ricoverati da eventuali abusi, avevano previsto solo
dei limiti al ricorso ad essa. Il Regolamento del 1909 sui manicomi provinciali aveva stabilito che la
coercizione doveva essere abolita o ridotta ai casi «assolutamente eccezionali», comunque
preceduta da un'autorizzazione del direttore o di un medico, recante specificazioni in merito alla
«natura ed alla durata» del trattamento. Era compito della struttura, inoltre, tenere un registro dei
malati a cui erano applicati «i mezzi di coercizione».78
Il fascismo non modificò questa impostazione. Quando, nel 1931, il ministro Alfredo Rocco
fece approvare il nuovo Regolamento degli istituti penitenziari e degli stabilimenti per le misure di
sicurezza, relativamente alla contenzione fisica nei manicomi giudiziari ripeté sostanzialmente gli
stessi concetti già illustrati a proposito della contenzione in carcere, identificando nella necessità del
parere medico un elemento propedeutico al ricorso agli strumenti di forza. Come in carcere,
tuttavia, il capo degli agenti di custodia (nelle sezioni femminili la madre superiora) poteva
procedere alla contenzione «in caso di necessità e urgenza», dandone prima possibile
comunicazione ai sanitari.79
In campo medico il tema della contenzione veniva affrontato con un certo pudore. Quando
ne parlavano, i direttori psichiatrici solitamente intervenivano per mostrare come, almeno nel loro
manicomio, si stesse sostanzialmente procedendo all'abbandono di questa pratica. Nella sua
descrizione del manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, ad esempio, a quasi trenta anni
di distanza dalla dichiarazione di intenti suggerita da Belmondo, Vittorio Madia segnalava che il
trasferimento nel «reparto agitati» - che ospitava due camere «riservate agli infermi che per il loro
stato» dovevano essere «fissati sul letto di repressione» - era previsto solo per i malati «veramente
76
Quando «fasce e corpetti» si trovavano nel guardaroba del manicomio, «allineati in belle pile o sapientemente
rotolati» negli scaffali, risultava «troppo facile» - aveva detto Belmondo - adoperarli «anche in casi meno gravi»,
scivolando «dall'uso all'abuso»; cfr. Roberto Catanesi, Luigi Ferrarini, Paolo Francesco Peloso (a cura di), La
contenzione fisica in psichiatria, Giuffrè, Milano 2006, p. 127.
77
Ivi, p. 131.
78
L'articolo stabiliva inoltre che l'autorizzazione indebita alla contenzione rendeva passibili i responsabili a sanzioni
amministrative e pecuniarie; cfr. Articolo 34, 60 e 63 del Regio Decreto n. 615 del 16 agosto 1909, Regolamento sui
manicomi e gli alienati.
79
Articoli 316 e 320 del Regio Decreto n. 787 del 18 giugno 1931, Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena.
174
pericolosi»: i «clamorosi» e quelli che presentavano «tendenze distruttrici» o una spiccata
«aggressività».80 A poco più di un anno dall'apertura, avvenuta nel 1937, anche del manicomio di
Vercelli si poteva dire che il numero totale dei ricoverati che avevano subito «delle blande e
saltuarie contenzioni» era irrisorio. Tale pratica era stata «ridotta al minimo», e in ogni caso sempre
«transitoria e limitata». La «camicia di forza» era stata «abolita». Camere «a speciale costruzione,
materassate o con le pareti di legno» - che, come abbiamo visto nel caso di R., il comunista
empolese sospettato di essere un simulatore, erano utilizzate in carcere - non erano state fatte
nemmeno costruire. Il direttore diceva di non avveritire la necessità di affidarsi «a tutti quegli
apparati di coercizione e di contenzione, poiché la massima estensione delle cure» rendeva «inutili
tali metodi», ormai «passati e non più degni di figurare in Ospedali moderni».81
La realtà era però ben diversa. Le intenzioni di procedere ad progressiva eliminazione della
contenzione fisica non si sarebbero mai concretizzate pienamente nella pratica psichiatrica, sia negli
anni immediatamente successivi l'approvazione delle proposte di Belmondo che negli anni del
fascismo e del secondo dopoguerra. La contenzione, inoltre, come vedremo anche nelle prossime
pagine, spesso assumeva i contorni della punizione; erano infatti i ricoverati indisciplinati e ribelli
ad essere legati più frequentemente. Nonostante i buoni intenti espressi nei decenni passati, infine,
dobbiamo purtroppo rilevare che la contenzione fisica viene tuttora praticata in psichiatria, come
testimoniato da recenti e tragiche vicende.82
Negli anni a cavallo tra le due guerre mondiale, quando la chimica e la farmacologia ancora
erano lontane dall'approntare soluzioni capaci di sostituire i letti e le camice di forza, in manicomio
giudiziario la contenzione fisica a volte era consueta, almeno per i nuovi arrivati. A Montelupo
Fiorentino, ad esempio, c'erano sedici letti per «gli agitati che sperimenta[va]no i mezzi coercitivi».
Solitamente questi erano destinati ai «pazzi morali» trasferiti dai penitenziari «a sezioni di rigore»,
80
Madia, Il manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, cit., p. 16.
Broggi, L’ospedale psichiatrico provinciale di Vercelli, cit., pp. 51 e 67.
82
Alla fine del 2009 Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare di simpatie anarchiche, venne raggiunto da un
provvedimento di TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) e se lo vide portare in spiaggia. Rifiutatosi di uscire
dall'acqua, nonostante l'intimazione dei carabinieri e della capitaneria di porto, è stato prelevato di forza e portato in un
vicino centro di salute mentale, dove è morto novantaquattro ore dopo. Per tutto il tempo del ricovero è rimasto legato
mani e piedi ad un letto, senza essere mai sciolto, mangiando una sola volta e assumendo solo un litro di liquidi, per
mezzo di una flebo. Nella stanza d'ospedale era presente una telecamera che ha filmato tutta la sua agonia. La
registrazione ha permesso la celebrazione di un rapido processo. Il 30 ottobre del 2012 il Tribunale di Vallo della
Lucania ha condannato sei medici a pene variabili da due a quattro anni di reclusione per i reati di falso ideologico,
sequestro di persona e morte in conseguenza dei primi due reati. Dodici infermieri sono stati invece prosciolti. La
pubblicazione delle motivazioni della sentenza è prevista per il 30 gennaio 2013; cfr. Gianfrancesco Turano, Così hanno
ucciso Mastrogiovanni, “L'Espresso”, 28 settembre 2012 e Angelo Pagliaro, Il caso Francesco Mastrogiovanni.
Superficie e profondità di un delitto di stato, “A. Rivista anarchica”, n. 353, maggio 2010, pp. 26-31; cfr. anche il sito
internet curato dal “Comitato verità e giustizia per Francesco Mastrogiovanni” www.giustiziaperfranco.it Sulla
situazione degli istituti psichiatrici per detenuti, invece, una Commissione parlamentare presieduta dal senatore Ignazio
Marino ha recentemente prodotto un'accurata inchiesta. Al termine dell'indagine - nel corso della quale sono stati fatti
chiudere anche alcuni reparti (a Barcellona Pozzo di Gotto, ad esempio) - è stata presentata una proposta di legge per la
chiusura definitiva degli Ospedali psichiatrici giudiziari, da effettuarsi entro il 31 marzo 2013; cfr. Eleonora Martini,
Monti dei pazzi. Chiudere gli OPG fa paura al governo tecnico, “Il Manifesto”, 14 gennaio 2012, p. 16.
81
175
circostanza che ci permette di ipotizzare che anche E. subì tale trattamento, il giovane comunista
trasferito a Montelupo dal carcere cellulare di Fossombrone di cui abbiamo parlato nel terzo
capitolo, poi partigiano e caduto nei giorni della Liberazione.83 Il manicomio giudiziario di Aversa,
invece, ospitava al suo interno una cinquanta letti di forza. Negli anni Settanta, ben oltre il secondo
dopoguerra, soltanto pochi di questi sarebbero restati in funzione, per i casi più gravi. La prassi di
“contenere” i detenuti giunti in manicomio dopo aver partecipato a delle rivolte carcerarie, tuttavia,
sarebbe rimasta in opera, sebbene basata sulle soluzioni farmacologiche.84
Anche durante il fascismo, come abbiamo visto nel capitolo precedente, si erano verificate
delle rivolte tra i detenuti politici, e a quel tempo lo sviluppo della chimica ancora non si era
mostrato in grado di sostituire la contenzione fisica. L'assenza di documenti non permette di dire
nulla a questo proposito, tuttavia dalle statistiche emerge che durante gli anni Trenta (gli stessi anni
in cui si svilupparono rivolte e proteste sia nei penitenziari che nelle isole di confino) si assistette ad
una crescita costante del ricorso alle misure di sicurezza detentive - come appunto gli internamenti
in manicomio giudiziario - che passarono dai 778 casi del 1931 agli oltre 5800 del 1939.85
Durante il fascismo, si continuò a ricorrere alla contenzione fisica anche negli ospedali
psichiatrici provinciali. Secondo il manuale per gli infermieri dei manicomi composto da Giuseppe
Guicciardi, direttore del San Lazzaro di Reggio Emilia dal 1907 al 1929, l'isolamento e la
coercizione dovevano essere utilizzati «con funzione calmante» da applicarsi ai pazzi «impulsivi e
violenti». Per l'isolamento dovevano essere usate celle buie: «il silenzio, la calma e la tenebra»
aiutavano infatti a sedare «in breve tempo» la «collera» e la «esaltazione». Gli infermieri, prima di
chiudere il paziente in cella, dovevano farlo spogliare e poi dovevano perquisirlo: per evitare che
portasse con sé «oggetti raccattati». Fasce, «polsini» e «corpetti di forza», invece, dovevano essere
usati per «legare il malato e impedirgli i movimenti», quando a giudizio dei sanitari si riteneva che
questo fosse tentato dal nuocere a se stesso o a chi gli stava a tiro.86
Nelle camere di contenzione la situazione igienica era veramente pessima. Margherita
Adamo, ricoverata a Siena nel 1940, ha ricordato il «puzzo atroce» proveniente dalle «quattro
camere delle donne legate e graveolenti», dove si urlava, si piangeva «notte e giorno», si facevano
«cose che la fantasia normale non può concepire». Nell’ora dei pasti, «l’inferno» aumentava:
«relitti» che, legati mani e piedi, venivano «imboccati come polli da ipernutrire. Spesso, mentre la
83
Rusticucci, Nelle galere, cit., pp. 166-167.
Marina Valcarenghi, I manicomi criminali, Mazotta, Milano 1975, pp. 43-44.
85
Massimo Pavarini, La criminalità punita . Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, in Luciano Violante,
Storia d'Italia. La criminalità, Annali XII, Einaudi, Torino 1997, p. 1008.
86
Giuseppe Guicciardi, Guida alle lezioni della scuola per infermieri e sorveglianti, Reggio Emilia, 1922, in Valeria
Pezzi, Il San Lazzaro di Reggio Emilia negli anni del regime (1920-1945), in AA.VV., Regime e società civile a Reggio
Emilia (1920-1946), Volume I, Mucchi, Modena, 1987, pp. 481-482.
84
176
bocca mastica[va], si apr[iva] il retto». Accanto qualcuno vomitava.87 Della sua esperienza al Santa
Maria della Pietà, invece, Amilcare Marescalchi ha ricordato il rito a cui assisteva quotidianamente
nel reparto XII, quando, ogni mattina, un signore «che tutti chiamavano l'“ingegnere”, faceva il giro
della corsia e radunava le traversine»: «tutte zuppe di urina» perché usate da «quei pochi malati che
legati al letto non potevano recarsi» nell'«angolino» a loro disposizione.88
La sorveglianza, gli abusi, le connivenze e la resistenza degli psichiatri.
Dopo aver svolto il loro ruolo nel provocare gli internamenti in manicomio provinciale degli
schedati politici, le diverse diramazioni della pubblica sicurezza e delle autorità di governo
esercitavano pressioni per aumentare il controllo nei loro confronti, dato che all'interno delle mura
dell'ospedale non era possibile esercitare la comune vigilanza di polizia. Quando il ricoverato
veniva accompagnato direttamente dagli agenti di PS, ad esempio, erano questi a descrivere la sua
condotta politica e le ragioni che ne avevano motivato l'internamento d'urgenza, raccomandando,
sempre, di avvertire la Questura in caso di dimissione. Se il soggetto veniva scortato in manicomio
da altro personale, invece, come poteva essere una guardia municipale in esecuzione di
un'ordinanza del podestà, le informazioni della Questura sull'orientamento politico giungevano
successivamente: come per A., il comunista deceduto nel 1931 nel manicomio di Macerata di cui
abbiamo parlato prima.89
Le comunicazioni di PS potevano essere inviate al direttore anche al fine di esaltare i tratti
negativi della condotta morale degli schedati politici in osservazione psichiatrica, con l'obiettivo di
rafforzare le convinzioni sulla necessità dell'internamento definitivo. Particolarmente dura, ad
esempio, fu la comunicazione dei carabinieri che il procuratore del re di Macerata girò nel dicembre
del 1934 a Gaetano Martini, direttore del locale manicomio, sul conto di C., di cui abbiamo parlato
nel secondo capitolo, già internato per due anni a Barcellona Pozzo di Gotto dopo essere stato
dichiarato incapace di intendere e volere durante un processo per delle offese al papa. Secondo i
militari , C.
oltre ad essere pazzo è anche un alcolizzato e non appena rimesso in libertà si dedica nuovamente al vino,
che lo abbruttisce e lo fa diventare pericolosissimo […] in alcuni momenti è ritenuto capace di agire
scientemente e di usare armi e appiccare incendi […] ha riportato molte condanne per offese al Capo del
87
Adamo, Centodieci e droga, cit., pp. 26-27, 28 luglio 1940.
Marescalchi, Cinque anni in manicomio, cit., pp. 67-68.
89
Qualche giorno dopo l'internamento in manicomio di A. disposto dal podestà, venne recapitata al direttore del
manicomio di Macerata una lettera della questura nella quale si chiedeva di informare le autorità di PS in caso di
dimissione e, «per notizia», si segnalava che il ricoverato «professa[va] principi comunisti»; cfr. AOPMc, Cartelle
cliniche, Uomini deceduti, 1931, n. 25 del Registro delle ammissioni, Questura di Macerata, 25 maggio 1931.
88
177
Governo, per ubriachezza, per bancarotta semplice, per offese al culto ed al prestigio del Pontefice […]
inoltre si fa presente che è sovversivo schedato e professa idee repubblicane […] come risulta dall’accluso
referto medico, il maniaco in oggetto è stato dichiarato non curabile nella sua famiglia dalla malattia di cui è
affetto, pertanto si propone che NON VENGA più rimesso in libertà allo scopo di renderlo innocuo alla
società..90
Sarebbe tuttavia un errore considerare gli interventi esterni come volti a provocare
comunque l'internamento in manicomio degli schedati politici. Quando il ricoverato si trovava nella
condizione di dover scontare una condanna al confino, infatti, poteva essere il sospetto di trovarsi di
fronte ad un tentativo di simulazione a prevalere, in modo simile a quanto avveniva per gli
antifascisti processati dal Tribunale Speciale. Così sembra essere stato almeno nel caso di Augusto
Masetti, internato nell'Ospedale psichiatrico di Sassari alla fine del 1935, perché, durante il viaggio
in treno per raggiungere il comune di terraferma dove era stato assegnato, «sentendo parlare della
guerra italo-etiopica» aveva cominciato a dare «in escandescenze, con grida e pianto». 91
90
Significativamente, scrivendo «si propone che NON VENGA più rimesso in libertà», il procuratore del re utilizzò il
carattere maiuscolo per dare maggiore perentorietà all'ordine. Martini non rispose alla sollecitazione del procuratore ma
nello stesso tempo non fede uscire C., che morì meno di un mese dopo per un arresto cardiaco. Nel suo scarno diario
clinico possiamo solo leggere: «rientra agitatissimo, non sopporta gli alimenti». La sua cartella non conserva traccia
dell'applicazione della sonda per l'alimentazione forzata. Sul dorso della cartella clinica venne scritto: «Avvertire i
carabinieri in caso di dimissione». Come abbiamo accennato nel terzo capitolo, dopo essere tornato a casa dalla Sicilia
alla fine del marzo 1934, il 20 giugno successivo C. era stato nuovamente ricoverato a Macerata con un ordinanza del
podestà. Il certificato medico parlava di «alienazione da intossicazione alcolica», tuttavia non presentava i «segni
organici» e i «deliri» propri dei cronici. Il primo dicembre era stato dimesso come «guarito». Nuovamente internato
dopo una settimana perché, secondo lo stesso medico che lo aveva visitato per la prima volta, nela notte C. si era
svegliato «improvvisamente» ed aveva messo a soqquadro la casa, tentando anche di bruciare la legnaia. Era stato
portato di forza in caserma, dove aveva preso a calci e pugni le porte e rotto qualche vetro. Una volta in cella aveva
gridato «ininterrottamente per ore intere»; cfr. AOPMc, Uomini deceduti (1921-1944), n. 42 del Registro delle
ammissioni, 20 giugno 1934 e n. 71, 8 dicembre 1934, Notizie mediche allegate al modulo per l’ammissione del malato,
20 giugno 1934; Tabella Nosografia, cenno del 30 novembre 1934; Certificato medico dell’8 dicembre 1934; Diario
Clinico, cenno dell’8 dicembre 1934 e del 9 gennaio 1935; Procura di Macerata, 11 dicembre 1934.
91
AOPSs “Rizzeddu”, Cartelle Cliniche, (Uomini 1932-1933), Masetti Augusto, matricola 3379, Anno 1935, Relazione
sulle condizioni psichiche, 7 dicembre 1935. Masetti non era un alienato “qualunque”. Più di venti anni prima, infatti,
nel'ottobre del 1911, mentre si trovava nel cortile di una caserma in attesa di essere imbarcato per andare a combattere
in Libia, aveva sparato ad un ufficiale che, secondo il racconto dello stesso Masetti, aveva fatto «la morale» ai soldati
schierati. Finito di ascoltare il discorso aveva preso la mira e premuto il grilletto, ferendo l'oratore alla spalla.
Sottoposto a perizia psichiatrica e dichiarato «irriducibilmente inadatto alle regole di convivenza sociale e
permanentemente pericoloso a se ed agli altri», era stato prima rinchiuso nel manicomio criminale di Reggio Emilia e
poi in quelli civili di Padova ed Imola, fino al 1919. Masetti si era dichiarato anarchico e il suo caso aveva creato molto
clamore, dando vita ad una campagna internazionale di sostegno per la sua liberazione. Nel 1919, nel clima politico
caratterizzato dalle manifestazioni del Biennio rosso, era stato dimesso ed era ritornato a casa. Non avrebbe destato le
attenzioni della PS fino al 18 settembre del 1935, quando si presentò negli uffici di Imola del Sindacato dell’industria e
chiese di «essere dispensato dal prendere parte alla grande adunata» convocata in occasione della preparazione
dell’aggressione all’Etiopia. In quell'occasione, Masetti disse di aborrire «la guerra e chi la promuoveva», perché ne
aveva avuto già «abbastanza della carneficina avvenuta» durante la prima guerra mondiale. Venne assegnato al confino
per cinque anni, a Thiesi, un comune della Sardegna, ma appena sbarcato manifestò gli accennati segni di squilibrio
mentale. In questura gli riscontrarono «confusione mentale, eccitamento psicomotorio» e «disordine nella condotta».
Venne allora ricoverato in osservazione nell'Ospedale psichiatrico di Sassari. Sarebbe stato dimesso come guarito dopo
due mesi; cfr. AOPSs “Rizzeddu”, Cartelle Cliniche Uomini, Masetti Augusto, matricola 3379, Anno 1935, Questura di
Sassari, 19 novembre 1935 e Tabella nosografica, Esito. 14 gennaio 1936; ACS, CPC, b. 3125, f. 89183, Masetti
Augusto, Prefettura Reggio Emilia, 24 marzo 1912; Certificato medico, 17 novembre 1935; Prefettura di Bologna,
Scheda biografica, 20 dicembre 1935 e Prefettura di Sassari, 18 aprile 1936. Per le citazioni. cfr. l'intervista rilasciata da
Masetti a Sergio Zavoli, 1964, http://www.youtube.com/watch?v=3U2rC0lOYVk e, nel suo fascicolo in CPC,
Ministero dell'Interno, Telegramma in arrivo con timbro 31 ottobre 1911 e Prefettura Reggio Emilia, 24 marzo 1912.
178
Il manicomio era un ambiente impermeabile all'esterno e, se possibile, per gli antifascisti
doveva esserlo ancor di più. La schedatura richiedeva un surplus di sorveglianza. L'indicazione
«vigilato dalla PS» poteva essere trascritta direttamente in tabella nosografica, negli spazi destinati
alle notizie sulla condizione economica, alla cultura o il luogo di provenienza, come se si trattasse
di un'informazione da tenere in considerazione nella ricostruzione della personalità dell'internato e
nell'interpretazione dei caratteri della sua pericolosità.92 E' facile immaginare che all'annotazione
corrispondesse una maggiore attenzione del personale nel controllo esercitato nei confronti del
ricoverato, soprattutto per il carico di responsabilità che pesava sugli infermieri nella custodia dei
malati, di cui parleremo tra breve.
Il controllo della posta dei ricoverati era importantissimo, e, per gli antifascisti, lo era ancora
di più. Dal punto di vista medico, la censura della corrispondenza è una regola di ogni istituzione
totale, che tuttavia nei manicomi assunse una «funzione radicale». Gli scritti dei malati - contenenti
«sentimenti, speranze, sogni, prospettive» - nell'osservazione psichiatrica si trasformavano in indici
«di conferma diagnostica» e per tale motivo rimanevano rigorosamente agli atti.93 Dal punto di vista
della repressione politica, invece, gli scritti potevano ricreare le condizioni di disturbo che avevano
portato i soggetti ad essere internati. Il continuo invio di lettere a personalità italiane e straniere
fatto da L., ad esempio, che, come abbiamo visto nel primo capitolo, si trovava ricoverato
nell'Ospedale psichiatrico di Perugia dopo essere stato arrestato in seguito al sospetto che volesse
attentare a Mussolini (fondato sull'informazione di un delatore), provocò degli attriti tra la
Direzione psichiatrica e la Questura del capoluogo umbro.94
92
La cartella clinica di G. reca la dicitura «vigilato politico» nello stazio destinato alla condizione economica ed
all'istruzione. Classe 1875, bracciante, G. nel giugno del 1927 era stato condannato ad otto mesi di reclusione per offese
al capo del governo. Nel maggio del 1928 era stato nuovamente denunciato per oltraggio ad agenti della forza pubblica.
Durante l'istruttoria venne internato a Montelupo Fiorentino per «eccitamento maniaco», poi trasferito al manicomio di
Ancona e da lì, nel gennaio del 1930, dimesso. Nell'agosto successivo venne nuovamente internato. Dato che si trovava
nella capitale fu portato prima al Santa Maria della Pietà poi trasferito nel manicomio di Ancona. Gli venne
diagnosticato uno «stato depressivo». Il 14 giugno del 1934 morì nel manicomio di Ancona per «insufficienza
cardiaca»; cfr. ASAn, OPAn, Uomini, Anno 1934, n. d'ordine del Registo 630, Tabella Nosografica, Diario clinico, 25
luglio 1928, 30 agosto 1930 e Dal Pont, Antifascisti italiani nel Casellario Politico Centrale, cit., ad nomen, quaderno
4, p. 380.
93
AA.VV., Corrispondenza negata. Epistolario dalla nave dei folli (1889-1974), Pacini, Pisa 1983, p. 5.
94
La Direzione sequestrava puntualmente le lettere ma, in qualche modo, L. era riuscito a farne uscire molte: la
questura di Perugia ne aveva ricevute tredici plichi, dirette ad ambasciatori delle potenze straniere, a Pietro Badoglio e
al principe di Piemonte. Per il questore, al di là del fatto che tali scritti contribuivano a farlo ritenere «elemento
incosciente e deficiente», era assolutamente necessario evitare il ripetersi dell'episodio. Chiese quindi al direttore Giulio
Agostini di ordinare al personale una «più oculata ed assidua vigilanza», dato che per la spedizione L. doveva essersi
servito «necessariamente della compiacente complicità di terzi». Agostini rispose dicendo che ciò era forse avvenuto
con la complicità di persone della famiglia, che venute a trovarlo, erano poi riuscite ad eludere la vigilanza
dell'infermiere addetto alle visite. Chiese allora al questore di sapere se i plichi fossero stati impostati tutti in un unica
data o in date diverse, affinché, incrociando i timbri di spedizione con il registro delle visite, si riuscisse ad «appurare le
eventuali responsabilità»; cfr. ASPg, Questura, Schedati, b. 37, f. 16, R. L., Foglio senza intestazione, 25 gennaio 1937
e Direzione dell'Ospedale psichiatrico interprovinciale di Perugia, 28 gennaio 1938.
179
Il controllo della corrispondenza degli antifascisti, inoltre, perseguiva anche l’obiettivo di
evitare che all'esterno giungessero informazioni sulle condizioni dei ricoverati politici o sulle
motivazioni che avevano condotto al loro internamento. A parere di Secondo Biamonti, ad esempio,
la sorveglianza nei suoi confronti esercitata nel manicomio provinciale di Aversa diventò più
stringente quando, rendendosi conto che le lettere che scriveva agli «amici» in Francia ed in
Germania non venivano fatte partire, aveva chiesto aiuto alla sorella e «per mezzo» di essa era
riuscito a far giungere loro delle notizie sul suo stato.95 Che nei suoi riguardi si dovesse esercitare
un particolare controllo, è confermato anche da un parere dello stesso direttore del manicomio
campano, che scrivendo alla questura di Roma aveva definito Biamonti un «ospite indesiderabile»,
in quanto «per le sue idee politiche» obbligava il personale ad una «continua vigilanza». 96 Tra la
corrispondenza sequestrata ad S., invece, l'avvocato socialista che aveva tentato di ricattare il suo
vecchio amico Benito Mussolini minacciandolo di diffondere alcuni scritti inviatigli da quest'ultimo
quando, da giovane, era sorvegliato dalla polizia, era presente anche una lettera che S. voleva
inviare all'ex deputato Arnaldo Dello Sbarba (di cui era amico dal tempo degli studi universitari e
con il quale condivideva, oltre l'appartenenza alla professione forense, anche quella allo stesso
partito ed alla massoneria) per avvertirlo della sua situazione e per chiedergli aiuto.97 Anche nel
caso di L., la comunista internata a Mombello durante il processo celebrato dal Tribunale Speciale,
il direttore venne avvertito della necessità di operare una accurata censura, dato che, trovandosi la
ricoverata ancora in attesa di giudizio, avrebbe potuto anche cercare di intralciare le indagini.98
Oltre che dell'organizzazione razionale degli spazi della struttura (le nuove celle fatte
costruire per i ricoverati in isolamento nel manicomio criminale di Aversa, ad esempio, ospitavano
un piccolissimo cortile in modo da permettere all'internato di stare all'aria senza uscire dalla cella;
tramite un spioncino collocato sulla porta il «secondino» poteva «vigilare il malato in qualunque
punto»),99 per concretizzarsi la sorveglianza doveva trovare rispondenza nell'atteggiamento del
personale sanitario e di custodia. E' allora utile chiedersi in quale modo si potevano stabilire delle
relazioni di fedeltà tra la volontà politica esterna al manicomio e i dispositivi di controllo all'interno.
Nei manicomi giudiziari, vista la necessità di gestire decine e decine di folli che erano già
criminali, la sorveglianza era affidata ad «agenti speciali» scelti nel corpo degli agenti di custodia,
95
AOPPRoma “Santa Maria della Pietà”, Archivio cartelle cliniche, Biamonti Secondo, Diario Clinico, Annotazione
del 13 febbraio 1938; Annotazione del 23 febbraio 1938.
96
ACS, CPC, b. 609, f. 98184, Biamonti Secondo, Questura di Roma, 31 gennaio 1938.
97
ACS, CPC, b. 1844, f. 26089, Lettera di S. del 5 novembre 1930, allegata a Prefettura Siena, 13 novembre 1930.
Arnaldo Dello Sbarba (1873-1958). Avvocato, socialista, volontario della prima guerra mondiale e parlamentare,
nell'immediato dopoguerra fu Sottosegretario e Ministro del Lavoro dei governi Facta. Dopo la marcia su Roma si
avvicinò alle correnti più moderate del fascismo, dalle quali però prese le distanze in seguito al delitto Matteotti e si
allontanò dalla vita politica. Dopo l'8 settembre del 1943 fece parte del CLN di Pisa.
98
AO “G. Salvini”, AOPMombello, (Donne, ammissioni del 1928), n. 97 del Registro di ammissione e n. 237 di
protocollo, Tribunale del Corpo d'armata territoriale di Milano (III), 1 marzo 1928.
99
Rusticucci, Nelle galere, cit., p. 224.
180
mentre non erano semplici infermieri ad attendere alle funzioni sanitarie ma «agenti specializzati
infermieri», che provenivano sempre dal corpo degli agenti di custodia. Erano tutti dipendenti
dell'amministrazione penitenziaria.100 Nei manicomi provinciali, invece, le funzioni di vigilanza
erano esercitate dagli infermieri che, dopo la frequenza di un corso ed il superamento di un esame,
venivano «promossi ai gradi» di sorvegliante. Oltre ad avere una «sana costituzione fisica» e saper
leggere e scrivere, essi dovevano aver mantenuto sempre «buona condotta morale e civile». 101
Negli anni del regime la buona condotta di un dipendente dello Stato corrispondeva
all'essere un comprovato fascista, anche se, come abbiamo detto nell'introduzione, dobbiamo
sempre considerare il fatto che a lavorare in manicomio non ci si finiva per scelta, a meno di non
essere uno psichiatra, ma per necessità; necessità che poteva stimolare un'adesione opportunistica al
fascismo, finalizzata alla ricerca di quello che, seppur degradante, era un impiego sicuro. Ad ogni
modo, il controllo delle assunzioni del personale favoriva il controllo sullo svolgimento della vita
interna delle strutture e rappresentava un canale di comunicazione diretta tra la volontà politica che,
in alcuni dei casi descritti, aveva determinato il ricovero d'urgenza e la gestione dell'oppositorepaziente all'interno del manicomio.
Il fascismo, come negli altri campi dell'amministrazione pubblica, fece ampio uso delle
assunzioni come strumento di fidelizzazione. Il capo del personale del manicomio di Lucca era il
segretario politico del fascio della provincia, e molti impiegati o infermieri erano stati «assunti per
ragioni politiche».102 Nel manicomio civile di Aversa, come abbiamo visto nell'introduzione, gli
infermieri e gli addetti alla sorveglianza provenivano dalle fila della MVSN.103 La quota delle
assunzioni legate a «meriti politici» all'Ospedale San Lazzaro di Reggio Emilia, invece, nel tempo
crebbe fino all'ottanta per cento del totale degli addetti. Tale risultato si raggiunse grazie ai
licenziamenti del personale annoverabile tra le fila dell'opposizione politica, messi in opera negli
anni successivi alla marcia su Roma (circostanza che si verificò generalmente in tutti i manicomi e
in tutte le amministrazioni pubbliche), e la riassunzione di soli fascisti, anzi, dagli anni Trenta in
poi, di soli «fascisti in possesso di determinati requisiti e benemerenze». 104
100
Nelle sezioni femminili erano le suore a provvedere a tutto; Articolo 262 del Regio Decreto n. 787 del 18 giugno
1931, Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena.
101
Nel caso di infermieri con almeno tre anni di servizio, che a giudizio del direttore si erano dimostrati «capaci»,
potevano essere nominati sorveglianti senza sostenere l'esame. I sorveglianti dovevano controllare che gli infermieri
rispettassero con «zelo» le prescizioni e le norme che regolavano il manicomio, mentre i semplici infermieri dovevano
«vigilare attentamente» affinché i malati non provocassero danni a cose, a persone o a se stessi, rispondendo
personalmente dei malati trascritti nel registro delle consegne e loro affidati all'inizio di ogni turno; crr. Articoli 22-24 e
33-34 del Regio Decreto n. 615 del 16 agosto 1909, Regolamento sui manicomi e gli alienati.
102
Tranchina, Intervista al Prof. Pierluigi Lippi Francesconi, in Fontanari, Toresini, Psichiatria e nazismo, cit., pp. 3638. La citazione si trova a p. 38..
103
ACS, CPC, b. 609, f. 98184, Biamonti Secondo, Questura di Roma, 31 gennaio 1938.
104
Pezzi, Il San Lazzaro di Reggio Emilia negli anni del regime, cit., pp. 391 e 438. La sostituzione del personale
sanitario all'indomani della marcia su Roma avvenne anche in altri casi. A Cogoleto, ad esempio, nel settembre del
1922, una squadra fascista varcò le porte del manicomio alla ricerca della bandiera rossa che sapevano essere
181
Per comprendere il grado di sorveglianza esercitata sui malati, al fatto che, per opportunismo
o per convinzione, i processi di selezione del personale orientavano comunque gli infermieri verso
la fidelizzazione politica, si univano anche le accennate circostanze date dalla responsabilità degli
infermieri rispetto alle azioni dei malati, nel caso in cui questi avessero provocato danni a cose, a
persone o a se stessi. Per gli infermieri ciò significava vivere «in condizioni di continua allerta»; la
«prevenzione», in un contesto di questo tipo, era «un'utopia». La funzione terapeutica del loro
lavoro restava schiacciata sotto il peso della preoccupazione che qualcuno potesse sempre far del
male, farsi male o evadere, trasformandoli a loro volta in carcerieri. Lo stress accumulato nel corso
del turno era così tanto che, alla fine, riconsegnato l'elenco dei malati ricevuti in custodia, gli
infermieri vivevano una sensazione di «riconquistata libertà», come se anche loro fossero stati
segregati.105
L'insieme di questi fattori, specie nei reparti dove venivano ospitati gli alienati considerati
più pericolosi, rendono plausibile la descrizione fornita da Secondo Biamonti rispetto alla
sorveglianza e al «trattamento disciplinare» riservato ai ricoverati nel padiglione XVIII del Santa
Maria della Pietà, destinato ai criminali ed agli internati politici, dove le condizioni erano
di una durezza concepibile solo nei campi di concentramento e nelle prigioni, ma con questa sensibile
differenza, che tanto nei primi che nelle seconde, la personalità dell'individuo che vi si trova rinchiuso è
tenuta in una certa considerazione, mentre in questo infernale padiglione, la vita dei disgraziati che ci sono
dentro non ha più nessun valore, e almeno negli anni in cui mi ci sono trovato anch'io non c'era nessuna
autorità che si preoccupava di andare a controllare se essi morivano di morte naturale anziché di morte
violenta, come ho l'impressione che sia avvenuto più volte. […] Per i politici poi, almeno durante il fascismo,
la situazione era ancora più pietosa di quella dei delinquenti comuni, in quanto che la sorveglianza per essi
era molto più stretta ed il trattamento molto più duro e qualche volta addirittura barbaro e spietato, come
avvenne per il delitto politico Casalini compiuto da C. che fu trovato all'atto dell'arresto in possesso di una
fotografia di Matteotti, per le pressioni esercitate dai ras fascisti tipo Farinacci, il quale per esempio, in
questa occasione, intraprese una campagna nel suo giornale, perchè questi disgraziati ricoverati politici
subissero ogni sorta di torture allo scopo di farli parlare e di conoscere se avessero dei complici.
Mi è stato raccontato, e credo perquanto dovetti constatare io stesso in seguito, che corrisponda in
gran parte a verità, che il C. venne sottoposto in presenza delle stesse suore addette alla sorveglianza, le quali
non poterono impedire che ciò avvenisse, a torture di questo genere: nel colmo dell'estate veniva legato e
quando urlava che gli portassero dell'acqua fresca gli portavano dell'acqua bollente, e se reclamava gli
strappavano le unghie dei piedi e poi dicevano al medico che se le era strappate da se perchè pazzo […] Così
sembra che sia avvenuto anche per altri ricoverati politici, come L., e specialmente per quelli di razza ebraica
come il C., il quale anche dopo che venne trasferito in un padiglione civile, venne sottoposto ad ogni sorta di
sevizie, perché succedeva che quella parte del personale più fanatica che commetteva simili abusi, si faceva
trasferire dalla Direzione nello stesso padiglione dove venivano trasferite le vittime per impedire che
raccontassero ai parenti i maltrattamenti subiti. Perfino dopo il 25 luglio, qualche giorno innanzi l'ingresso
degli alleati a Roma, nel famigerato padiglione XVIII, i ricoverati vennero sottoposti a improvvise e
frequenti pesquisizioni (due volte nella stessa giornata) e vennero puniti con ferocia inaudita se trovati in
conservata da alcuni infermieri, membri di una lega di lavoratori. Nei giorni successivi, alcuni infermieri venne costretti
a lasciare il paese in seguito al bando fascista; cfr. Peloso, La guerra dentro, ci., pp. 25-26.
105
Tagliacozzi, Pallotta, Scene da un manicomio, cit., pp. 42 e 44. Le citazioni sono tratte dalla testimonianza di
Adriano Pallotta, ex infermiere al Santa Maria della Pietà nel padiglione XVIII, riservato ai criminali. Pallotta cominciò
a lavorare nell'ospedale romano nel 1959. La sua testimonianza è relativa ad un periodo successivo agli anni del
fascismo, tuttavia il Regolamento che stabiliva le responsabilità del personale dei manicomi era quello del 1909 .
182
possesso di qualche mozzicone di matita nelle tasche o nei pagliericci, e ogni volta che si recavano alla
latrina dovevano fare vedere la quantità di carta di giornale che adoperavano, e dopo un tentativo di fuga,
avvenuto molto tempo prima, vennero portati dentro l'ospedale e sistemati nel parco alcuni cani che avevano
tutte le apparenze di cani poliziotti sia la statura che per altre caratteristiche proprie di questa razza, anziché
di cani da caccia, come avrebbe voluto far credere il personale di sorveglianza che però si affrettava a farne
uso quando simili tentativi si ripetevano.106
Per quanto «fedele ed appassionata» - spiegò Biamonti - «nessuna descrizione» poteva
realmente dar conto degli «abusi» che si commettevano nei manicomi:
La realtà è più orribile di quanto possa la nostra immaginazione raffigurarsi, tanto orribile, che il sottoscritto,
benchè sia animato da nobili sentimenti cristiani e come tale facile a perdonare, è stato costretto a denunziare
tutto il personale sanitario di sorveglianza, oltre che per falso in perizia e sequestro di persona anche per
gravi atti di violenza subiti che in pratica si possono considerare dei veri e propri tentativi di omicidio.107
Biamonti, prima di scrivere la denuncia appena citata, aveva cercato anche di raccogliere delle
notizie su altri internati antifascisti rimasti segregati dopo la Liberazione.108 Diversi si trovavano
ancora all'interno dei padiglioni criminali, in quanto per essi non era stato previsto nemmeno il
beneficio dell'amnistia del ventennale della Marcia su Roma, dato che, essendo considerati come
malati, potevano essere «mandati fuori soltanto a giudizio insindacabile» dei sorveglianti, i quali
avevano «tutto l'interesse a far crepare i disgraziati che si trova[va]no nelle loro mani», temendo
che, una volta liberi, si sarebbero prodigati per «far conoscere i delitti compiuti o i sistemi adottati
in tali ambienti».109
Quella citata è l'unica testimonianza diretta sugli abusi avvenuti in manicomio a danno dei
ricoverati politici. L'unica ma molto circostanziata e presentata da un funzionario dello Stato (come
abbiamo visto, dopo averlo fatto internare nel 1934, nel marzo del 1946 il Ministero dell'Interno
riassunse Biamonti in servizio come segretario di prefettura ) in una denuncia contro altri organi
dello Stato.110 Sarebbe tuttavia sbagliato generalizzare la sua ricostruzione fatta alle situazioni
vissute in ogni manicomio italiano. Come abbiamo detto rispetto agli agenti in carcere o al confino,
anche in manicomio era l'atteggiamento del singolo infermiere, sorvegliante o medico a determinare
gli abusi ed una maggiore o minore afflizione. Nello stesso tempo sbaglieremmo anche a
ridimensionare la denuncia di Biamonti, considerandola come dettata dalla volontà di vendicarsi per
106
AOPPRoma “Santa Maria della Pietà”, Archivio cartelle cliniche, Biamonti Secondo, Copia della denuncia di
Secondo Biamonti., s.d..
107
Ivi, Copia della denuncia di Secondo Biamonti., s.d..
108
Ibidem; Sempre a proposito di G., l'attentatore di Casalini, Biamonti disse che, da quanto gli era stato raccontato «da
persone provenienti» da Aversa, era «morto strangolato». Abbiamo visto nel primo capitolo, invece, che G. era stato
deportato in Germania nel 1944.
109
Ibidem.
110
Purtroppo il fascicolo personale redatto dall'Amministrazione del Ministero dell'Interno non è stato versato
nell'Archivio Centrale dello Stato, né, relativamente alle indagini seguite alla denuncia, è stato ancora possibile
rinvenire nulla nei fondi dell'Archivio di Stato di Roma. Non conosciamo perciò gli esiti della vicenda.
183
tutto quello che aveva subito o, peggio ancora, come il prodotto della rielaborazione delle sue
fantasie. Anche la memorialistica e i documenti di polizia, infatti, testimoniano (o lasciano
immaginare) che in manicomio gli abusi e le violenze si praticavano abbastanza frequentemente, e
non solo a danno degli oppositori politici.
Amilcare Marescalchi, ad esempio, ha ricordato un infermiere del Santa Maria della Pietà
che, infastidito dal continuo chiacchierare di un ricoverato, aveva afferrato quest'ultimo «di scatto»,
serrandogli le mani alla gola «sino a fargli sporgere la lingua»; poi lo aveva rovesciato sul
pavimento. Era «la famosa cravatta»: pratica che, secondo Marescalchi, non era «difficile, ogni
tanto», da vedersi in manicomio.111 In manicomio giudiziario, invece, la contenzione fisica
d'urgenza praticata non come rimedio sanitario ma come punizione era diffusa, ed avrebbe
rappresentato una costante ben oltre gli anni successivi alla seconda guerra mondiale.112
Per i ricoverati politici particolarmente riottosi ad accettare la disciplina, le conseguenze
degli abusi potevano anche risultare definitive, o almeno questo è quello che la vicenda del giovane
pistoiese I. lascia intravedere. Considerato particolarmente pericoloso dalla PS («attivo
propagandista», «intelligente» e «capace di prendere parte a movimenti popolari», frequentava
«assiduamente la compagnia di pregiudicati e di compagni di fede, nei quali» sapeva «ravvivare e
tener desto l'odio di classe») che lo ricordava come «sempre il primo nelle azioni» degli arditi del
popolo, I. era stato anche indiziato di tre mancati omicidi di esponenti del fascismo della sua zona.
Alla fine del 1926, in seguito all'approvazione della Legge per la difesa dello Stato, era stato perciò
inviato al confino, a Lipari.113 Sull’isola aveva subito continue provocazioni da parte di un ufficiale
della MVSN, finché, nel settembre del 1927, al momento di essere arrestato ancora una volta con
l’ennesimo pretesto, aveva deciso di reagire contro i suoi aguzzini. Si era allora scatenata una rissa
che aveva coinvolto anche altri confinati politici, che erano riusciti persino a disarmare un milite.
Successivamente I. era stato portato nelle carceri giudiziarie di Milazzo e da lì, il 27 dicembre,
internato nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. La mattina dell’11 febbraio 1928
venne trovato impiccato all’«inferriata della sua cella». Aveva 24 anni. 114
111
Marescalchi, Cinque anni in manicomio, cit., pp. 73-74.
Marina Valcarenghi, I manicomi criminali, Mazotta, Milano 1975, p. 52.
113
ACS, CPC, b. 1698, f. 108463, Del Moro Isso, Prefettura Pistoia, Scheda biografica, 5 febbraio 1927.
114
Qualche settimana dopo la sua morte alcuni anarchici italiani espatriati a Parigi furono segnalati perché stavano
organizzando una sottoscrizione per aiutare lui e la sua famiglia ACS, CPC, b. 1698, f. 108463, Del Moro Isso,
Prefettura Pistoia, 13 marzo 1928 e Prefettura Pistoia, 12 giugno 1928; cfr. anche Corvisieri, La villeggiatura di
Mussolini, cit., pp. 94-96.
112
184
Dato che i direttori psichiatrici sovraintendevano a tutte le attività del manicomio, possiamo
immaginare che anche il loro atteggiamento rispetto al regime contribusse a determinare in il grado
di coercizione esercitato verso gli antifascisti ricoverati.115
Dai documenti emerge una realtà variegata. Secondo il racconto di S., la clinica
d’osservazione del San Salvi di Firenze (dove era stato internato dopo essere stato visitato in
questura) funzionò come «una camera di sicurezza», mentre il suo direttore più che da sanitario si
comportò da «zelantissimo carceriere». La dinamica che aveva portato in manicomio l'avvocato
socialista - ovvero l'esplicità richiesta di intervento proveniente dal Ministero dell'Interno su
richiesta della Segreteria del capo del governo, motivata dal fatto che S. aveva provato a ricattare
Mussolini - lo rendeva un ricoverato molto particolare, e questa circostanza rende tutt'altro che
inverosimile la sua ricostruzione. Il direttore, a parere del ricoverato, «si prestò a tutte le richieste
della polizia» e lo lasciò uscire solo quando «a quella piacque», cioè, come abbiamo visto, quando
il sequestro delle lettere aveva permesso di verificare che negli scritti non c'era nulla di
compromettente. Una volta fuori, S. scrisse di nuovo al capo del governo e, a proposito
dell'atteggiamento complice, disonesto e fazioso del direttore e dei medici che lo avevano fatto
internare, gli disse:
Eccellenza, Ella è veramente un genio inarrivabile nell'intuizione dell'animo della collettività, a differenza di
me che fui, e mi mantengo, un balordo ottimista, più stupido del classico prototipo volterriano! L'uomo fu
fatto di melma e, mentre schiva ricorrere con pensiero all'umiltà della sua origine per moderare la superbia,
questa origine ricorda e rivive nelle opere sue! E purtroppo quando si tratta di rivolgersi al basso fondo
umano non vi è mai da disperare, né bisogna intimorirsi dalle etichette e dalle più austere apparenze.
L'illustre scienziato ed il più umile essere, se costretti a rivelarsi a nudo, si equivalgono e ricordano la
bassessa della umana origine. La finalità di rinchiudermi in manicomio era quella di distruggere persone e
beni, e si trovarono due sanitari disposti a prestarvi mano.116
Di tutt'altro tenore, invece, l'atteggiamento del direttore del manicomio di Imola Luigi
Baroncini.117 Al comunista bolognese R., come abbiamo visto precedentemente, Baroncini aveva
accordato alcune libere uscite. Per l'anarchico Augusto Masetti fece ancor di più, raccomandolo
«caldamente» alla «benevola considerazione» del suo collega direttore del manicomio di Sassari. A
suo parere, Masetti aveva sempre tenuto «un contegno esemplare sotto ogni punto di vista» ed era
115
Le ingerenze politiche provenienti dall'esterno si palesano maggiormente nei rapporti tra la PS e le direzioni dei
manicomi civili, dato che, nel caso di internamenti nei manicomi criminali, il mantenimento di uno stretto rapporto tra
autorità sanitarie e giudiziarie o di polizia era previsto dalla legge e per prassi (il direttore di un manicomio giudiziario,
ad esempio, era tenuto periodicamente a relazionare alla PS ed al Giudice di sorveglianza sul comportamento tenuto
dall'internato).
116
ACS, CPC, b. 1844, f. 26089, Lettera di S. del 5 novembre 1930, allegata a Prefettura Siena, 13 novembre 1930.
117
Luigi Baroncini (1878-1939) si era laureato in medicina a Bologna e, dopo la specializzazione in psichiatria, si era
trasferito a Monaco dove aveva lavorato sotto la guida di Emil Kaepelin ed Alois Alheimer. Tornato in Italia divenne
prima assistente presso l'Ospedale psichiatrico “Luigi Lolli” di Imola e poi prese parte alla prima guerra mondiale,
come capitano medico. Finito il conflitto tornò ad Imola e nel 1924 divenne direttore del locale manicomio, incarico
che avrebbe mantenuto sino alla morte
185
certamente stata «soltanto per una momentanea montatura», una provocazione, che aveva
pronunciato le frasi contro la guerra d'Etiopia che lo avevano fatto condannare al confino (come
abbiamo visto, era stato internato a Sassari perché, durante il trasferimento nel comune
assegnatogli,
aveva
manifestato
segni
di
squilibrio
mentale).118
Baroncini
mirava
a
deresponsabilizzare Masetti probabilmente perché era sicuro che la polizia avesse per proprio conto
riferito sulla pericolosità politica del paziente.119 La sua preoccupazione ci suggerisce che, anche in
campo medico, era presente il pensiero che anche tra i colleghi qualcuno si potesse far influenzare
più dalla PS che dalle risultanze cliniche. Ad ogni modo, il direttore del manicomio sardo rispose
qualche giorno dopo e tranquillizzò Baroncini, dicendo che, dopo le iniziali crisi, il paziente stava
meglio; era stata già predisposta la documentazione necessaria alla sua dimissione.120
Una situazione simile si verificò anche nell'Ospedale psichiatrico di Perugia, diretto da
Giulio Agostini a partire dal 1929, dove, da parte di un altro medico, ma non psichiatra, venne
“raccomandato” l'ex tenente d'artiglieria A., il comunista internato quattro volte di cui abbiamo
parlato sopra.121 A distanza di qualche giorno dall'interessamento, Agostini fece trasferire A. dal
padiglione riservato alla «vigilanza speciale» a quello per malati tranquilli, salvo poi riportarlo
indietro qualche mese dopo perché, fattosi «clamoroso ed indisciplinato», aveva cominciato a
ribellarsi al personale.122 Lo stesso Agostini provò a reagire alle ingerenze della Questura di
Perugia. Quando, infatti, nell'ottobre del 1936, dopo essere stata informata dalla Direzione
psichiatrica che il comunista L. - internato in seguito alle psicosi provocate dall'esperienza
carceraria - sarebbe stato dimesso ed affidato in custodia alla sorella, la Questura chiese di farlo
prima accompagnare negli uffici della PS, Agostini rispose che il ricoverato soffriva di «demenza
precoce» e non era «in condizioni di potersi presentare» da nessuna parte. Tuttavia dovette
cedere.123
118
L'interessamento di Baroncini era dovuto al fatto che negli anni precedenti aveva seguito Masetti - durante il suo
primo ricovero, negli anni tra il 1914 ed il 1919 - e poi aveva continuato «ad assisterlo, moralmente e materialmente»;
cfr. AOPSs “Rizzeddu”, Cartelle Cliniche Uomini, Masetti Augusto, matricola 3379, Anno 1935, Direzione Ospedale
psichiatrico provinciale di Imola “Luigi Lolli”, 9 gennaio 1936.
119
Abbiamo visto che, nel caso di Masetti, più che cercare di indirizzare il direttore del manicomio di Sassari verso
l'internamento psichiatrico definitivo la Questura lo segnalò come sospetto simulatore. Tuttavia Baroncini non poteva
conoscere questa circostanza né poteva saper nulla rispetto all'orientamento della PS.
120
AOPSs “Rizzeddu”, Cartelle Cliniche Uomini, Masetti Augusto, matricola 3379, Anno 1935, Direzione
dell'Ospedale psichiatrico provinciale di Sassari, 13 gennaio 1936. Al momento dell'ingresso in manicomio Masetti
aveva mostrato «una spiccata depressione dell'umore, ansietà, preoccupazione e smarrimento». Nei giorni successivi era
stato invece colpito da un «grave eccitamento psico-motorio, con complessi ideativi caotici» e «allucinazioni visive a
contenuto prevalentemente terrifico».
121
ASPg, AOP Santa Margherita, b. 223 (Uomini), Cartella clinica n. 15324, Ospedale Sanatoriale “P. Grocco” in
Perugia, 7 aprile 1941.
122
Ivi, Ospedale psichiatrico interprovinciale dell'Umbria Diario clinico, 24 aprile 1941 e 14 luglio 1941.
123
ASPg, Questura, Schedati, b. 26/bis, f. 36, Ospedale psichiatrico interprovinciale dell'Umbria, 2 ottobre 1936; Foglio
senza intestazione (a firma del questore), 6 ottobre 1936 e Ospedale psichiatrico interprovinciale dell'Umbria, 7 ottobre
1936; Ospedale psichiatrico interprovinciale dell'Umbria, 11 ottobre 1936.
186
L'atteggiamento benevolo di alcuni direttori emerge anche da scritti e documenti prodotti
dagli stessi antifascisti. L., ad esempio, la comunita milanese ricoverata a Mombello dal Tribunale
Speciale, tempo dopo essere stata dimessa scrisse al direttore del manicomio chiedendone
l'intercessione per vedersi riconosciuti alcuni contributi miranti a sollevare lei e la sua famiglia dalle
pessime condizioni economiche. Evidentemente, dato che nutriva la speranza che questo l'avrebbe
aiutata, ne serbava un buon ricordo.124 C., invece, l'antifascista di Camerino che, come abbiamo
visto nel primo capitolo, era stato internato al Santa Maria della Pietà per alcuni scritti deliranti
contro Mussolini e la Chiesa, dopo alcuni anni sarebbe stato nuovamente ricoverato nell'Ospedale
psichiatrico provinciale di Macerata, per alcune offese rivolte a due professori universitari che
passeggiavano per la cittadina marchigiana vestiti con la divisa fascista. Il giorno giorno dopo la sua
dimissione, che terminò allo scadere dei trenta giorni previsti per l'osservazione perchè riconosciuto
non affetto da nessuna alienazione mentale, scrisse al direttore scusandosi per non averlo
salutato.125 L'atteggiamento dello stesso direttore, tuttavia, non sempre si dimostrò autonomo. Nel
caso del repubblicano che era stato internato due volte nel volgere di qualche giorno, e che, come
abbiamo visto poco sopra, al momento del secondo internamento era stato accompagnato da una
lettera del procuratore del re nella quale si chiedeva che non venisse fatto più uscire, il direttore si
124
AO “G. Salvini”, AOPMombello, (Donne, ammissioni del 1928), n. 97 del Registro di ammissione e n. 237 di
protocollo, Lettera di L. del 4 dicembre 1932.
125
«Signor direttore, sono restato molto dolente di essere partito senza avere avuta la possibilità di poterlo salutare e
ringraziare, e mi sento in obbligo di farle i miei ringraziamenti a lei ed anche al dottore del reparto, di tutto ciò che
hanno fatto per me». Il tono confidenziale della lettera non deve comunque trarre in inganno. Il rapporto tra medico e
paziente, anche in questo caso, era stato costruito sulla base della distanza che tra i due soggetti doveva essere creata.
Poco sotto quelle parole, infatti, C. aveva aggiunto «non ebbi la fortuna di sapere come il signor Direttore si chiama, mi
piacerebbe sapere anche il nome del medico che mi curava». Quello che va considerato, comunque, e il buon ricordo
che C. serbava dei medici; cfr. AOPMc, Uomini dimessi (1921-1944), n. 73 del Registro di ammissione, avvenuta il 28
novembre 1939, Lettera di C., 30 dicembre 1939. Alcuni mesi dopo essere stato dimesso dal Santa Maria della Pietà e la
diffida a restare a Camerino, C. venne segnalato perché si era rifiutato di aderire all'offerta di «mezz'ora di lavoro» per
la costruzione «della casa Littoria». Aveva inoltrericominciato a scrivere lettere dirette al podestà e ad altre personalità.
Il 10 novembre del 1939, vedendo passeggiare per il centro della cittadina marchigiana due professori universitari, si
avvicinò a loro dicendo «Eccoli i delinquenti vestiti in divisa», e poi, rivolgendosi ad un caposquadra della MVSN che
si trovava lì vicino, aggiunse: «Vedi, quelli sono i compagni tuoi, della società a delinquere. Credevate di mandare per
aria la casa reale ma non vi siete riusciti ne vi riuscirete». Dopo essere stato arrestato venne fatto visitare. Secondo il
medico condotto era stato colpito di nuovo da un «delirio allucinatorio» che lo poteva «spingere a commettere qualche
atto insano». Secondo la ricostruzione dei carabinieri, ad un interrogatorio C. aveva detto che «una voce divina e
spiritista» gli imponeva di scrivere quelle lettere e compiere quegli atti. Venne ricoverato di nuovo per poi essere
dimesso il 29 dicembre successivo, allo scadere del periodo di osservazione; cfr. ASMc, Archivio Questura, Radiati, b.,
22, f. R. C., Carabinieri Camerino, 13 luglio 1939; Carabinieri Camerino, 14 luglio 1939; Carabinieri Camerino, 21
novembre 1939; Copia del certificato medico del 28 novembre 1939 e appunto del Commissariato di PS dello stesso
giorno; Foglio senza intestazione, 29 dicembre 1939. Al momento del secondo internamento, al medico che lo aveva in
osservazione era apparso normale sin da subito: «Dal lato somatico il soggetto non presenta alcunché che meriti
considerazione o possa denunziare alterazioni morbose. […] Per quanto riguarda le funzioni psichiche, l’espressione, la
mimica e gli atteggiamenti sono misurati, coerenti, consoni al contenuto del pensiero. Non esistono segni di
esibizionismo né d’intenzioni opportunistiche dirette a far apparire la persona in una veste voluta [non stava cioè
simulando] l’attenzione è tenuta sempre desta senza bisogno di particolari richiami. La memoria è sempre efficiente»;
cfr. AOPMc, Uomini dimessi (1921-1944), n. 73 del Registro di ammissione, avvenuta il 28 novembre 1939, Diario
clinico, 28 novembre 1939 e Decreto di licenziamento dal manicomio del Presidente del Tribunale Civile e Penale di
Macerata, 29 dicembre 1939.)
187
attenne all'indicazione e il repubblicano, ricoverato d'urgenza per psicosi alcolica a pochi giorni di
distanza dalla precedente dimissione perché riconosciuto non pericoloso, morì appena due settimane
dopo.
In ogni caso va evidenziato che il mondo psichiatrico esprimeva delle soggettività politiche
non allieneate né allineabili alla visione fascista non solo della normalità e della malattia, ma anche
della società in generale. Sarebbe sbagliato dipingere il campo medico come composto solo da
professionisti che, per opportunità o convinzione, si mostravano sempre e comunque ossequienti
alla volontà del regime, al di là del potere che questo esercitava sulle carriere dei medici. La figura
dello zelante direttore del manicomio di Vercelli, per fare un esempio, non può ricomprendere tutti i
medici.
Nell'introduzione abbiamo accennato a Guglielmo Lippi Francesconi, direttore del
manicomio di Maggiano dal 1936 al 1944, che entrò in conflitto con il fascismo locale dopo una
perizia in cui aveva attribuito alle persecuzioni subite parte della responsabilità nel suicidio di un
antifascista. Dopo quel fatto, i rapporti con il segretario locale - che, come abbiamo visto, era anche
capo del personale del manicomio - si deteriorarono
progressivamente. A Lippi Francesconi
vennero fatte anche pressioni rispetto a chi internare e chi no, mentre, di propria iniziativa, nel
manicomio diede ospitalità a Lorenzo Viani, un anarchico scrittore e pittore che si era fatto
ricoverare per evitare le rappresaglie che avrebbe potuto subire in seguito a delle accuse pronunciate
contro il podestà. Nel 1944, infine, Lippi Francesconi si rifiutò di consegnare ai nazifascisti le liste
dei pazienti ebrei. Costretto a fuggire, morì insieme alla moglie e ad un figlio durante una
rappresaglia dalle Brigate nere.126
Francesconi è stato l'unico psichiatra ucciso da fascisti, ma non il solo ad attivarsi durante la
Resistenza. Fabio Visintini, professore di Clinica delle malattie nervose e mentali presso
l'Università di Parma, ha lasciato una ricca testimonianza della sua esperienza di giovane studente
prima e di medico specialista poi, nella quale ha descritto il difficile rapporto con il fascismo (da
studente era stato arrestato per aver detto «abbasso il Duce e viva Lenin» in un caffè), gli ostacoli
alla carriera frapposti fino alla sofferta decisione di aderire, suo malgrado, al fascismo ed infine la
sua adesione alla Resistenza, come membro del partito d'azione.127 Anche Emilio Mancini, giovane
medico entrato nel manicomio di Ancona nel 1943 - all'indomani della morte di quarantacinque
persone tra ricoverati, suore, infermieri e medici causata dal bombardamento della città che
126
Tranchina, Intervista al Prof. Pierluigi Lippi Francesconi, cit., pp. 36-42. La citazione si trova a p. 37; cfr. anche
Babini, Liberi tutti, cit., p. 77 e Peloso, La guerra dentro, cit., pp. 55-56.
127
Fabio Visintini, Memorie di un cittadino psichiatra (1902-1982), Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1983, pp. 53181.
188
distrusse una parte dell'ospedale - combatté insieme ai partigiani.128 Mario Tobino, invece, che
lavorava insieme a Lippi Francesconi, curava i partigiani nel manicomio di Maggiano. Carlo
Lorenzo Cazzullo, altro giovane psichiatra poi affermatosi nel dopoguerra, aiutò ebrei, perseguitati
politici e disertori. Ottorino Balduzzi, che lavorava nel manicomio provinciale di Genova, venne
incaricato per conto del CLN ligure a stabilire dei contatti con gli Alleati. Carlo Angela, antifascista
della prima ora, trasformò la Clinica psichiatrica di San Maurizio Canavese, vicino Torino, in un
«rifugio per antifascisti, ebrei e renitenti».129
Deliri paranoici e deliri politici.
Il delirio paranoico è rappresentato da una convinzione intima del soggetto, non
corrispondente alla realtà, in base alla quale esso modifica la sua esperienza ed i suoi rapporti con il
mondo che lo circonda. Uno degli aspetti che lo rendono socialmente molto pericoloso è
rappresentato dal fatto che il delirio paranoico si ritiene trasmissibile, e la potenziale trasmissibilità
risiede soprattutto nella credibilità di cui può godere il soggetto colpito all'interno della comunità
relazionale in cui vive.
Il delirio può essere semplice o sistematizzato, che si verifica quando più idee deliranti si
organizzano secondo un'apparente logica interna, e confuso o lucido, a seconda che la coscienza del
soggetto sia obnubilata o vigile. I deliri diagnosticamente più frequenti sono quelli di persecuzione
o di grandezza, e lo stesso si può dire per le forme di delirio che maggiormente colpirono gli
antifascisti manicomializzati, almeno secondo la documentazione consultata.130
Secondo il criminologo Benigno Di Tullio (che riprendeva le classificazioni pubblicate
dall'alienista Georges Genil-Perrin in uno studio condotto su alcuni manicomi francesi) i deliri di
persecuzione e di grandezza si dividevano a loro volta in due sottovarianti: il delirio a base di
allucinazione, caratterizzato dalla presenza di allucinazioni psicosensoriali visive ed uditive, da
considerarsi come una «malattia acquisita» in grado di svilupparsi anche in un individuo
«perfettamente normale, ed il delirio a base di interpretazioni, che rappresentava invece
128
Enrico Mancini, Ricordo di Emilio Mancini, ultimo direttore dell'Ospedale Psichiatrico Provinciale di Ancona, in
“Lettere dalla Facoltà. Bollettino della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università politcnica delle Marche”, a. XII,
n. 2, febbraio 2099, p. 43. Per un approfondimento sui disagi vissuti nei manicomi italiani durante gli anni della seconda
guerra mondiale ed il passaggio del fronte cfr. Paolo Giovannini, Esclusione, abbandono e morte. Gli ospedali
psichiatrici italiani, in “Storia e problemi contemporanei, a. XXIV, n. 56, gennaio aprile 2011, pp. 64-82.
129
Babini, Liberi tutti, cit., p. 118.
130
Le sottovarianti del delirio di persecuzione sono rappresentate dal delirio di rivendicazione, durante il quale il
soggetto si crede vittima di ingiustizie, o dal delirio di influenzamento, durante il quale l'alienato ritiene che le sue
azioni siano influenzate da agenti esterni, come onde magnetiche o altro. Nel delirio di grandezza il soggetto può
mostrarsi convinto di essere il migliore di tutti (delirio ambizioso), oppure di essere amato da una persona altolocata
(delirio erotico), o, ancora, di essere egli stesso un personaggio importante (delirio di potenza) o di essere al di sopra di
tutti gli altri, come se la sua persona avesse qualcosa di divino o immortale (delirio di enormità).
189
«l'accentuazione di un'anomalia costituzionale e di una tendenza paranoica». Nel secondo caso,
perciò, i soggetti erano predisposti.131
La fisionomia dei soggetti colpiti era standardizzata e poteva essere burocraticamente
ricompresa all'interno del glossario delle cartelle cliniche, per permettere ai medici un immediato
riconoscimento dei tratti espressivi dei ricoverati.132 I modi con i quali il delirio si manifestava
erano invece molteplici e, a volte, la condotta del paziente poteva tornare improvvisamente nel
recinto della normalità nello stesso inspiegabile modo in cui se ne era discostata. Nel manicomio di
Sassari, ad esempio, una mattina del novembre 1935 Augusto Masetti «scattò improvvisamente dal
letto e seguendo mosche volanti nella camera, armatosi di vaso da notte», cominciò a colpire
«violentemente la porta». Da quel momento in poi sarebbe entrato «in uno stato grave confusionale
caratterizzato da disorientamento totale, allucinazioni uditive e visive a contenuto terrifico
persecutorio, disordine del contegno, impulsività, aggressività, insonnia, ritenzione di urine,
sitofobia». Dopo dieci giorni tornò normale.133
Tra tutti i possibili tipi di delirio paranoico, quelli che più interessano ai fini di questa ricerca
sono quelli a sfondo politico, che per loro natura coinvolgevano le istituzioni ed il regime.
E' stato detto che i pazzi, «molto frequentemente», tendono «a fare discorsi di contenuto
politico» e questa tendenza sembra accentuarsi nelle fasi di maggiore conflittualità.134 I deliri di
matrice politica trovarono un contesto adatto alla loro insorgenza anche durante il fascismo.
In uno studio sulle cartelle cliniche conservate nella Clinica universitaria per le malattie
mentali di Roma e riguardanti gli internamenti nel periodo tra il 1925 ed il 1939, Maria Agnese
Moro ha classificato i temi deliranti caratterizzati dalla presenza di idee a contenuto politico in tre
principali tipi: i casi di delirio politico attinenti la figura del re (nei quali l'alienato si riteneva
131
Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, cit., p. 278.
Nell'ospedale psichiatrico di Mombello, ad esempio, i medici avevano una sorta di “guida” per riconoscere le
espressioni fisiognomiche dei pazienti. I paranoici dominati dalle idee di grandezza presentavano un'espressione «fiera,
superba, arrogante». L'espressione «diffidente, ostile e minacciosa», invece, era «caratteristica dei paranoici con idee
persecutive». Essi avevano «uno sguardo instabile», scrutavano «tutto con occhiate rapide, penetranti ed obliquie come
fossero in agguato». Si mordevano «fortemente le labbra». Alle domande rispondevano «con fare sprezzante ed
ironico»; cfr. AO “G. Salvini”, AOPMombello, (Donne, ammissioni del 1928), n. 97 del Registro di ammissione e n.
237 di protocollo, Manicomio della provincia di Mombello, Cartella clinica donne, Espressione della fisionomia del
malato, punto 4 e punto 8.
133
AOPSs “Rizzeddu”, Cartelle Cliniche, (Uomini 1932-1933), Masetti Augusto, matricola 3379, Anno 1935, Relazione
sulle condizioni psichiche, 7 dicembre 1935.
134
Da uno studio condotto sulle cartelle cliniche di alcuni manicomi dell'Emilia Romagna riguardanti alienati internati
nella seconda metà dell'Ottocento si è rilevata l’influenza avuta dall'applicazione dello stato d’assedio - negli anni tra il
1894 e il 1898 - nell’insorgere di manie di persecuzione, tanto nelle vittime della repressione quanto tra i carabinieri;
cfr. Maria Adriana Bernadotti, Lo Stato, la politica, le istituzioni di fine ottocento nel delirio e nelle fissazioni dei malati
mentali, in "Storia e problemi contemporanei", n. 8, novembre 1991, pp. 5 e 30. Risalendo ancora più indietro nel
tempo, invece, in un saggio del 1989 Roy Porter ha analizzato il caso del gallese James Tilly Matthews, che nel 1796
era stato dichiarato «pazzo pericoloso» dai giacobini, poi arrestato per “girondismo” e reimpatriato in Gran Bretagna,
dove sarebbe stato rinchiuso nell'asilo di Bethlem. Durante i suoi deliri, Matthews sosteneva che il Comitato di Salute
Pubblica era stato istituito dietro suo suggerimento; cfr. Roy Porter, Ragione, follia e Rivoluzione francese, in “Quaderni
Storici”, n. 71, agosto 1989, il Mulino, Bologna, pp. 565-570.
132
190
membro della famiglia reale o, magari tramite il matrimonio con un componente di questa, in
procinto di diventarlo); quelli di delirio politico attinenti la figura di Mussolini (nei quali i deliranti,
oltre a dichiarare legami di parentela con Mussolini e a chiedergli aiuto o protezione, prevedevano o
proponevano di attivarsi per sventare attentati contro la sua persona); quelli, infine, a sfondo
persecutorio, nei quali, a detta dei ricoverati, la persecuzione era messa in opera dai fascisti o dalla
PS - in ventotto casi - o dai comunisti - per gli otto casi in cui erano stati dei fascisti ad essere
ricoverati. Nel corso dell'indagine è stato notato come l'incidenza nel ricovero dei questi «deliri a
contenuto politico» avesse raggiunto il suo apice negli anni tra il 1925 ed il 1929, negli anni, cioè,
in cui il nascente regime stava procedendo ad una piena politicizzazione della vita pubblica.135
I deliri politici dei ricoverati spesso si manifestavano attraverso lettere o altri scritti. Quello
«con spiccate idee di persecuzione e qualche idea di grandezza» di cui era affetto L., che, come
abbiamo visto, inviò tredici plichi pieni di lettere alla questura, ne costituisce un esempio.136 Un
altro «grafomane» che, come L., era stato ricoverato nell'ospedale psichiatrico di Perugia era A., l'ex
ufficiale ed archivista del Ministero della Difesa. Ad A. piaceva «intrattanersi in discussioni di
carattere etico-sociale» anche con il medico che lo seguiva nel padiglione. 137 La sua cartella clinica
è ricca di lettere e scritti personali, tutti risalenti all'ultimo periodo di internamento, tra il 1941 e la
fine del 1944, e tutti sequestrati e conservati dalla direzione. In una sorta di memoriale lungo dodici
pagine, l'unico degli scritti non indirizzato alla seconda moglie ma ad una ragazza rimasta
sconosciuta (forse la nipote, che lo aveva accompagnato in mancomio per la quarta volta, dove era
stato internato su indicazione della PS), A. aveva raccolto i ricordi di tutta la sua vita:
cara, questo scritto lo dedico a te; ti prego di leggerlo con la massima attenzione, apprezzarlo nel suo giusto
dolore morale e ti serva come guida in questa valle di lacrime. Chi scrive è un perseguitato della cattiva
società. Dovrei scrivere molto per poterti dire i particolari del periodo tempestoso della mia vita; ne potrei
fare un romanzo; mi limiterò a dirti la mia vita a volo d'aeroplano. Ero nato per lo studio, ma dissesti
finanziari mi costrinsero a troncare gli studi e, non avviato per una professione, dovetti adattarmi alla vita
militare. Raggiunsi il grado di maresciallo d'artiglieria e successivamente venni nominato impiegato dello
Stato e promosso ufficiale di complemento d'artiglieria. Col grado di maresciallo presi parte alla guerra di
Libia, e con grado di tenente a quella europea. Ho sempre fatto scrupolosamente il mio dovere, sia da
militare che da cittadino; la mia bandiera è stata e sarà sempre questa: onestà e lavoro. Ma la grande
maggioranza della società italiana (è con dolore che lo devo dichiarare) oggi non la pensa così, anzi la pensa
precisamente al contrario, preferendo la disonestà ed il parassitismo. E siccome chi scrive fa parte
135
Maria Agnese Moro, Variazione dei temi deliranti, Università degli studi di Roma, Corso di laurea in Psicologia,
Relatore Prof. Giuseppe Donini, Anno Accademico 1975-1976, pp. 34-38 e 55-56. Ringrazio il Prof. Giovanni Moro per
avermi segnalato la tesi della sorella.
136
ASPg, Questura, Schedati, b. 37, f. 16, Foglio senza intestazione, 25 gennaio 1937 e Direzione dell'Ospedale
psichiatrico interprovinciale di Perugia, 28 gennaio 1938.
137
Al medico A. diceva di non poter «accettare la violenza anche se giusta, e che le sue convinzioni personali
conta[va]no più dell'interesse dei popoli e delle nazioni». Tutto ciò, annotava il medico, veniva esposto «senza calore,
senza cioè che alle idee» corrispondesse «un adeguato stato emotivo». Inoltre «queste sue teorie mostra[va]no un difetto
di logica»; cfr. ASPg, AOP Santa Margherita, b. 223 (Uomini), Cartella clinica n. 15324, Ospedale psichiatrico
interprovinciale dell’Umbria, Diario clinico, cenno del 2 aprile 1941 e cenno del 30 maggio 1941.
191
indubbiamente della minoranza (la mia lunga e dolorosa odissea ne è la migliore prova) la maggioranza mi si
è accanita contro, mi ha addentato, mi ha straziato, ma non mi ha abbattuto. Infatti sono stato vigliaccamente
perseguitato; sono stato licenziato dall'impiego prematuramente e messo sul lastrico; sono stato
ripetutamente carcerato per motivi d'indole politica, quantunque non mi sia mai occupato di politica; sono
stato confinato, sono stato deriso, umiliato, bastonato, derubato; mi è stata strappata all'affetto la mia prima
compagna della vita, perché Essa, poverina, logicamente più debole di carattere, ha ceduto alle sofferenze
morali e fisiche (era ammalata croinicamente allo stomaco), e priva di affetti, anche per la mancanza di prole,
si è soppressa mentre io languivo dove languo pure oggi; infine ripetutamente internato al manicomio, che la
società appella a “ospedale psichiatrico”. E non vedo ancora alcun segno che mi faccia intravedere la fine del
mio martirio che data, potrei dire, fin dalla nascita; con la morte quasi certamente.138
In alcuni passaggi, A. si era soffermato sull'importanza della fratellanza: «quando l'umanità avrà
imparato ad amare, solo allora avranno termine i cozzi fra continenti, fra nazioni, fra società».
Aveva inoltre spinto il suo ragionamento verso quello che considerava il «profondo ed
impenetrabile mistero» della «creazione», appoggiando su alcuni dati geografici ed astronomici (la
profondità degli oceani, la distanza degli astri dalla terra, la velocità della luce) le sue esaltazioni
della magnificenza dell'universo.139 Se questi elementi potrebbero far ipotizzare l'effettiva esistenza
del delirio in una psiche ormai segnata dalle persecuzioni subite nel corso della vita, va tuttavia
considerato il fatto che quel memoriale era stato scritto da A. senza sapere se avrebbe mai più
rivisto la destinataria, anzi, come scrisse alla seconda moglie in una lettera del gennaio del 1942, era
certo di finire i suoi giorni in quel «triste luogo di dolore e di umiliazione», se nessuno dei suoi cari
lo avesse aiutato.140 Questo probabilmente lo spinse a considerare quel memoriale come un
testamento morale. Il fatto, invece, che dopo la liberazione dell'Umbria sarebbe finalmente stato
dimesso grazie all'azione della seconda moglie, testimonia l'importanza dell'esistenza di reti di
relazione all'esterno del manicomio per la resistenza all'interno: chi non aveva nessuno e non poteva
avvalersi dell'affidamento in custodia, come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, spesso era
destinato a morirci.
I deliri politici, così come abbiamo detto per i deliri paranoici in generale, non erano tutti
uguali e misuravano il loro grado di pericolosità in base alle caratteristiche soggettive degli alienati.
Più i soggetti godevano di considerazione sociale e dimostravano attitudini personali che li
138
Probabilmente A. era stato invogliato a comporre il memoriale dagli stessi medici, visto che è stato scritto sulle
pagine vuote di un diario clinico. Nello scritto fornisce la sua versione rispetto al ruolo del cognato e di un altro tutore
in due dei suoi quattro internamenti, provocati, a suo dire, per potergli sottrarre i risparmi ed altri beni. Rispetto alle
vicende che lo avevano condotto in manicomio per la prima volta - che abbiamo descritto nel primo capitolo - A. non
fece invece alcun riferimento al tentato suicidio, che, nel luglio del 1934, aveva basato la decisione del medico e della
Questura rispetto al ricovero d'urgenza. Allo stesso tempo, tuttavia, non denunciò l'arbitrarietà del provvedimento, anzi,
le sue parole sembrano quasi giustificarlo: «le continue ed atroci sofferenze morali e fisiche avevano scosso,
naturalmente, il mio sistema nervoso, e in conseguenza, dopo pochi giorni di permanenza a Perugia, venni internato
all'ospedale psichiatrico, e precisamente l'8 luglio del 1934»; cfr. ASPg, AOP Santa Margherita, b. 223, Cartella clinica
n. 15324, Memoriale di A..
139
Ibidem. A margine del lungo elenco di esempi A. aveva posto un asterisco, con il quale, in fondo allo scritto, aveva
richiamato in nota l'enciclopedia utilizzata per estrarre i dati citati (un edizione tascabile dell'enciclopedia di Ferruccio
Rizzatti ristampata nel 1930 presa probabilmente dalla biblioteca del manicomio).
140
Ivi, Lettera di A. del 14 gennaio 1942.
192
rendevano capaci di attrarre proseliti, più si rendevano pericolosi. Il delirio che colpì un
repubblicano perugino ex combattente della prima guerra mondiale, ad esempio, data la fama
riscossa dall'autore (considerato «esaltato e fanfarone» anche dai detenuti con i quali condivideva la
cella del carcere di Perugia), secondo gli inquirenti (e la tesi sarebbe poi stata spostata dalla
sentenza del tribunale) non poteva aver intaccato «il sentimento nazionale di coloro che» lo avevano
sentivano sproloquiare, «come pure le sue chiacchiere non erano valse a diminuire l'onore ed il
prestigio del capo del governo». 141 Diversamente, quando, all'inizio del 1927, il Prefetto di Palermo
Cesare Mori propose per il confino l'insegnante anarchico G., lo descrisse persona di «pericolosità
eccezionale» - sia «dal punto di vista della propaganda» - dato che era «laureato in lettere e
filosofia, che dal punto di vista dell'azione». 142 Classe 1892, siciliano, prima mazziniano e poi
anarchico, ex tenente degli arditi ed insegnante privato e seguito propagandista, G. si era laureato in
Lettere a Palermo nel 1914. Il suo nome era stato trovato per la prima volta in un quaderno di
appunti di Enrico Malatesta. Nel luglio del 1925 la polizia aveva disposto il suo pedinamento «tutte
le volte» che si fosse allontanato dal suo paese, in quanto era pericoloso per «la sua cultura e la
grande passione per le teorie anarchiche». Nel 1927 era stato arrestato a Palermo per «porto abusivo
di coltelli», un reato che poteva benissimo scattare anche nel caso che fosse stato fermato con in
tasca una lama da frutta.143 Assegnato per cinque anni a Lipari, sull'isola G. venne condannato tre
141
ASPg, Questura, Radiati, b. 31, f. 13, Tribunale penale di Perugia, Sentenza 13 giugno 1938. Aristide, classe 1881,
repubblicano, coniugato con tre figli, era iscritto al partito repubblicano sin dal 1910 ed aveva partecipato alla prima
guerra mondiale, durante la quale, nel 1917, era stato condannato ad un anno ed un mese di carcere militare per
«infermità procurata». La prefettura di Perugia lo considerava «altamente pericoloso, sia per i riflessi politici che per la
grande capacità a delinquere». Arrestato nel 1937 per un piccolo reato comune e condannato a quattro mesi di
reclusione, in carcere venne denunciato da un compagno di cella per «propagnanda antinazionale». Il medico del
carcere gli riscontrò «stati periodici di eccitamento e di idee di grandezza». I compagni di cella dissero che era
«esaltato» e parlava «dei suoi cavalli» e «delle sue medaglie d'oro». Del fascismo «ora ne parla[va] bene, ora male».
Una volta aveva raccontato «di aver ammazzato cinque fascisti» e disse di volrne ammazzare «altri 160», i nomi dei
quali «se li era già elencati in un libretto». Un'altra volta aveva detto di «aver visto 80.000 persone ascoltare il duce, ma
sul più bello si era messo anche lui a parlare, e allora le 80.000 persone volsero le spalle al duce e si misero ad ascoltare
lui e poi lo applaudirono». Alla fine il Tribunale di Perugia tenne conto di tutte le risultanze e lo assolse per infermità di
mente ordinandone il ricovero in un manicomio giudiziario. Venne assegnato a Volterra - «paralisi generale
progressiva» - dove morì nel gennaio del 1940 per «marasma terminale, broncopolmonite e paralisi terminale»; cfr.
nello stesso fascicolo, Foglio senza intestazione, firmato dal prefetto di Perugia, 5 dicembre 1937; Carcere giudiziario di
Perugia, Ufficio del sanitario, 19 dicembre 1937; Casellario giudiziario, 12 febbraio 1938; Questura di Perugia, 19
marzo 1938; Ministero di Grazia e Giustizia, Disione generale per gli istituti di prevenzione e pena, 24 giugno 1938 e
Ospedale psichiatrico di Volterra, Sezione giudiziaria, 15 aprile 1942.
142
ACS, CPC, b. 3071, f. 12825, Prefettura di Palermo, 15 gennaio 1927 e Ministero dell'Interno, Copia della Lettera
della Prefettura di Palermo del 4 febbraio 1927. Cesare Mori era un prefetto di carriera che, dopo essere entrato in
conflitto con lo squadrismo all'inizio degli anni Venti, quando era prefetto di Bologna, nel 1925 venne inviato in Sicilia,
prima a Trapani e poi a Palermo. Dotato di amplissimi poteri per contrastare il banditismo e la mafia, Mori diede corso
su tutta l'isola ad operazioni di tipo repressivo terroristico (anche attraverso la deportazione di centinaia e centinaia di
persone, donne, bambini, vecchi, famiglie intere) nei confronti della popolazione, accusata di fiancheggiare i mafiosi.
La sua azione resta ancor oggi, nella memoria collettiva, come una delle “cose buone” fatte dal fascismo; cfr. Salvatore
Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2005, pp. 277-278.
143
Tornato dalla prima guerra mondiale, G. aveva cominciato a dedicarsi completamente all'«attività sovversiva»,
rinunciando anche al suo impiego da insegnate pubblico. Il 20 agosto del 1920, dopo una manifestazione a Piana dei
Greci, durante la quale morì un giovane bersagliere che aveva sostituito dei lavoratori in sciopero, venne arrestato e
imputato per correità nell'omicidio (aveva tenuto un comizio). Assolto dalla Corte di Assise di Palermo e scarcerato
193
volte «per contravvenzione agli obblighi», finché, nel dicembre del 1930, venne ricoverato
nell'ospedale psichiatrico “Mandalari” di Messina, «perchè colpito da improvvisa alienazione
mentale». Alla fine del 1931 venne trasferito nel manicomio di Palermo, scortato da ben tre
poliziotti, e da lì, nel 1934, in quello di Trapani. Non sarebbe più uscito.144
Nel caso appena descritto, l'internamento in manicomio fornì un'ottima occasione per
tacciare come delirante un soggetto che era riconosciuto come un punto di riferimento per vari
gruppi sovversivi siciliani. Non possiamo dire se G. fosse impazzito realmente o meno, possiamo
tuttavia sostenere, come abbiamo visto anche nel primo capitolo, che la paranoia - e
conseguentemente i deliri che questa può provocare - non sono sempre immediatamente decifrabili
e facilmente iscrivibili in un campo o nell’altro della normalità. Secondo la definizione data da
Eugenio Tanzi nel suo trattato di psichiatria forense, la paranoia
è un'anomalia costituzionale che rimane latente in gioventù e si manifesta con il maturar degli anni,
rivestendo la forma di un delirio a lenta evoluzione, coerente e fanatico, che prende alimento da ogni
corcostanza della vita, s'immedesima nella personalità del malato e costituisce la norma principale di ogni
suo atto.145
La paranoia è un delirio lucido «che arriva ai limiti estremi della verosimiglianza senza
oltrepassarli».146 Si può vivere una vita intera con una visione alterata della realtà senza che nessuno
se ne accorga. Come aveva scritto Cesare Bellavitis, primario del manicomio di Udine incaricato
dal Tribunale Speciale di stilare una perizia sul conto di A., un antifascista friulano processato per
delle offese al capo del governo, i paranoici sono ammalati che di solito «non varcano la soglia del
manicomio perchè la loro condotta si mantiene quasi sempre coerente», mentre «lucida» si
mantiene «la loro mente». Occorre che questi si imbattano «in sfortunati eventi affinché la loro
incompatibilità sociale» si manifesti.147
dopo trenta mesi di prigionia, cominciò a vivere dedicandosi all'insegnamento privato. Scriveva articoli per “Pensiero e
Volontà” (noto giornale anarchico dell'epoca), conosceva «l'inglese, lo spagnolo, il tedesco ed il francese». Era
considerato «intelligente, studioso, appassionato delle studio delle teorie anarchiche» ed «effettivamente pericoloso per
l'ordine pubblico»; cfr, Ivi, Divisione generale di PS, s.d., Prefettura di Trapani, 25 gennaio 1924; Prefettura di Trapani,
Scheda Biografica, Cenno del 16 settembre 1924, 4 luglio 1925, 22 gennaio 1927 e 28 gennaio 1927.
144
Ivi, Prefettura di Palermo, 1 aprile 1927; Prefettura di Messina, 14 novembre 1928; Prefettura di Messina, 2 maggio
1929; Prefettura di Trapani, 24 aprile 1930; Prefettura di Messina, 1 agosto 1930; Prefettura di Messina, 26 dicembre
1930; Prefettura di Messina, 19 novembre 1931; Prefettura di Palermo, 20 febbraio 1934. Nel 1941 si trovava ancora
nel manicomio di Trapani; cfr. anche Dal Pont, Antifascisti italiani, cit., quaderno 12 p. 108.
145
Eugenio Tanzi, psichiatria forense, Vallardi, Milano 1911, p. 464. La citazione del trattato di Tanzi è contenuta
nella perizia psichiatrica stilata sul conto di un antifascista processato dal Tribunale Speciale; cfr. ACS, TSDS, Facsicoli
processuali, b. 386, f. 3741, Giudizio peritale sulle condizioni mentali di I. Antonio del dott. Cesare Bellavitis, 9 giugno
1932, p. 8.
146
Visintini, Memorie di un cittadino psichiatra, cit., p. 129.
147
ACS, TSDS, Facsicoli processuali, b. 386, f. 3741, Giudizio peritale sulle condizioni mentali di A. del dott. Cesare
Bellavitis, 9 giugno 1932, p. 9. Il corsivo è mio. A, classe 1877, facchino, prese parte alla prima guerra mondiale e
venne decorato con la medaglia d'argento al valor militare. Tra il 1925 ed il 1931 commise per sei volte il reato di offese
al capo del governo più altri reati legati a disaccordi con alcuni vicini di casa. La perizia psichiatrica lo riconobbe
affetto da infermità mentale (paranoia) e pericoloso per se e per gli altri. Il Giudice istruttore del Tribunale Speciale lo
194
Franco Basaglia ha scritto che «la psichiatria difende i limiti di norma definiti da
un'organizzazione politico sociale» e che «la definizione di malattia serve a mantenere intatti i
valori di norma messi in discussione».148 Secondo lo storico Alberto De Bernardi, invece, sarebbe
corretto parlare di «storia delle forme che hanno espresso e sancito nel tempo il giudizio sulle
tipologie dell'anormalità» piuttosto che di storia della follia, in quanto la «forma-follia» ha subito
«continue trasformazioni» e il confine che la separa dalla normalità si è sempre rilevato
«storicamente determinato» e «modellato sugli interessi, gli orientamenti ideologici, le opzioni
culturali delle classi dominanti».149 La paranoia, soprattutto, di per sé presenta una diagnosi
«estremamente» complessa, specie «quando ad essere saturi di paranoia, di persecutorietà e
sospetto, sono il clima generale e la situazione oggettiva nella quale si trova la persona».150 Tali
caratteristiche la rendono facilmente malleabile alle esigenze di medicalizzazione del dissenso, e
questo è ciò che, almeno in alcuni casi di internamento psichiatrico, sembra essere avvenuto durante
il fascismo, quando, per alcuni, gli sfortunati eventi che resero manifesta la loro incompatibilità
sociale cominciarono con la marcia su Roma e perdurarono fino al crollo del regime.
Un'altro alienato che, come G., era considerato come un individuo dotato di «intelligenza
superiore» (persino dagli stessi medici, come abbiamo visto) era Giuseppe Massarenti.151 Il delirio
che aveva basato la decisione di ricoverarlo si concretizzava nell'ossessione paranoica per la
continua sorveglianza a cui si sentiva sottoposto, anche all'interno dell'ospedale. Restava fermo
nell'idea di essere stato internato arbitrariamente. A due anni di distanza dall'ingresso, scrissero i
medici confermando l'importanza delle fisionomie, manteneva ancora «l'alterigia del paranoico».152
Rispondendo ad una richiesta del tribunale, nel giugno del 1943 il direttore visitò Massarenti e gli
diagnosticò ancora «idee deliranti, persecutorie fondate esclusivamente su false interpretazioni».
Credeva che i ricoverati erano «tutti, o quasi tutti, ai servizi della Polizia per fargli del male».
Riteneva che anche i medici e gli infermieri fossero «strumenti nelle mani della Questura».
Ribadiva la sua convinzione di «essere sano di mente e sequestrato per motivi politici».153 Quando,
in seguito alla «caduta del regime», da più parti venne richiesta la sua liberazione (come abbiamo
detto nell'introduzione, caduto il fascismo, Palmiro Togliatti, Pietro Nenni ed altri esponenti
prosciolse e ne ordinò l'internamento in manicomio giudiziario per due anni. Allo scadere dei termini Antonio non
superò il riesame della pericolosità. Morì in manicomio giudiziario il 25 aprile del 1939; cfr. Ivi, Tribunale Speciale per
la Difesa dello Stato, 22 giugno 1932 e Dal Pont, Antifascisti italiani, cit., quaderno 10, p. 239, ad nomen.
148
Basaglia, Basaglia, La maggioranza deviante, cit., p. 32.
149
Alberto De Bernardi, Malattia mentale e trasformazioni sociali. La storia dei folli, in Id. (a cura di), Follia,
psichiatria e società. Istituzioni manicomiali, scienza psichiatrica e classi sociali nell'Italia moderna e contemporanea,
Franco Angeli, Milano 1982, p. 12.
150
Peloso, La guerra dentro, cit., pp. 51-52.
151
Diario clinico di Giuseppe Massarenti del 24 aprile 1938, Cazzamalli, L'avventura di Giuseppe Massarenti, cit., p.
57.
152
Ivi, p. 58, Diario clinico di Giuseppe Massarenti, 29 luglio 1939.
153
Ivi, p. 60, Diario clinico di Giuseppe Massarenti, 21 giugno 1943.
195
dell'antifascismo si recarono a visitare Massarenti), il direttore lo esaminò di nuovo. Gli accenti
utilizzati per descrivere le manifestazioni del delirio divennero a questo punto più marcati. 154 Alla
domanda fattagli dal direttore, che gli chiese se con la caduta del fascismo avesse notato «qualche
mutamento nell'ambiente e nei rapporti» con la sua persona, Massarenti rispose che «tutto
continua[va] in modo invariato» e che voleva ottenere una dichiarazione ufficiale che non era né era
«mai stato malato di mente». Gli venne risposto che i medici dell'istituto non potevano né avrebbero
mai potuto, «in scienza e coscienza, rilasciare tale dichiarazione» e che, una volta uscito, avrebbe
potuto liberamente dar corso a «pratiche per suo conto per tentare la dimostrazione della sua
costante sanità mentale». Massarenti però voleva ottenere quella dichiarazione mentre si trovava
dentro.155 Probabilmente, il fatto che avesse ormai raggiunto l'età di ottanta anni gli aveva fatto
maturare la convinzione che i tempi della burocrazia, per di più con la guerra ancora in corso, non
gli avrebbero permesso di vivere la sua riabilitazione. Quello, peraltro, non era il suo primo rifiuto
opposto ad un'offerta di dimissioni. Questa sua ostinazione sarebbe stata interpretata come una
prova del suo stato delirante.156
Nel novembre del 1944, quando le azioni per la sua liberazione cominciarono a
moltiplicarsi, per ribadire le convinzioni sulla persistenza del delirio i medici cominciarono a
definirlo «oltremodo diffidente verso il personale di assistenza, verso le suore e verso i sanitari», i
quali, tuttavia, continuavano a proporgli un allontanamento dall'Ospedale «a titolo di prova». 157
Successivamente, analizzando la cartella clinica, Ferdinando Cazzamalli (che, vale la pena
ricordare, era un'affermato psichiatra già durante la prima guerra mondiale) ha definito «inusitato»
questo atteggiamento della Direzione psichiatrica, tendente da un lato ad aggravare la «descrizione
154
I medici si soffermarono sui presunti sospetti dell'anziano socialista rispetto a tecniche di sorveglianza nei suoi
confronti realizzata mediante apparecchi elettrici e radiofonici - in forme simili a quelle che aveva descritto nello scritto
inviato al ministro Galeazzo Ciano, di cui abbiamo parlato nel primo capitolo - fino all'uso dei tubi «della conduttura
dell'acqua e del cesso» per «origliare» i suoni e i rumori che venivano dalla sua stanza; cfr. Ivi, pp. 60-61, Diario
clinico di Giuseppe Massarenti, 2 agosto 1943.
155
Ibidem.
156
Nel dicembre del 1937, dopo tre mesi dall’internamento, il medico che lo seguiva chiese di far visitare Massarenti
«da un altro collega», al fine di confermare il parere clinico. La visitavenne negata dal direttore del manicomio, che
motivò il rifiuto con l'inopportunità del trasferimento in un reparto diverso - necessario all'esame - in quanto Massarenti
aveva cominciato a soffrire di tubercolosi. Nello stesso tempo, per la prima volta venne proposto a Massarenti di uscire
perché considerato non pericoloso. Questi tuttavia rifiutò, perché convinto che la Questura, ora che aveva subito l’onta
del ricovero, lo avrebbe «sicuramente» perseguitato «più duramente». Come abbiamo visto sopra, Massarenti non aveva
tutti i torti, considerata la notifica inviata dalla PS alla Direzione psichiatrica che, in caso di dimissione, imponeva di
consegnarlo direttamente alla PS. In quell'occasione l'ex sindaco di Molinella aveva risposto dicendo di preferir
attendere l’esito della richiesta presentata «dai suoi congiunti» per il riesame del caso, che non sarebbe stata presa
nemmeno in considerazione. Un'altra offerta di dimissione glivenne presentata nell'aprile del 1938, quando,
rispondendo ad una richiesta del Tribunale di Roma, i medici sostennero che, nonostante continuasse a manifestare
«idee deliranti», il ricoverato poteva essere riconsegnato alla famiglia, ma solo se questa fosse stata in grado di garantire
sulla sorveglianza, per «impedirgli di inviare i suoi reclami». Anche in quel caso Massarenti oppose il suo rifiuto,
aggiungendo, alla richiesta di essere dichiarato sano di mente, quella di poter parlare con il Procuratore del re per
fornire le sue spiegazioni; cfr. Diario clinico di Giuseppe Massarenti, 5 dicembre 1937, cit., pp. 56-58.
157
Ivi, pp. 62-63, Diario clinico di Giuseppe Massarenti, 15 novembre 1944.
196
clinica» del delirio - come a voler sottolineare la necessità sanitaria della permanenza di Massarenti
in manicomio in quel momento e in tutti i sette lunghi anni che aveva trascorso costretto tra i
dementi - dall'altro a considerare il paziente «contemporaneamente maturo per la dimissione dal
manicomio», come a volersene liberare. Inusitato, ha aggiunto Cazzamalli, come «inusitate» si
erano fatte «le espressioni della vita individuale e collettiva» vissuta in Italia dopo il 25 luglio del
1943.158
Se il fascismo non fosse crollato sotto il peso del disastro militare probabilmente Massarenti
in manicomio ci sarebbe morto. Anche Secondo Biamonti avrebbe quasi certamente finito i suoi
giorni tra le mura del Santa Maria della Pietà se non fosse sopraggiunta la liberazione di Roma.
Come abbiamo visto nell'introduzione, in base al certificato che ne aveva motivato l'internamento
d'urgenza, Biamonti era da considerarsi «un delirante lucido», in cui la «polarizzazione» di un
«complesso ideativo assurdo ed insensato» trovava alimento nei «disturbi psicosensoriali» di cui, a
parere dei medici, soffriva.159 Per il direttore del manicomio di Aversa, che lo avrebbe tenuto in
custodia per tre anni, era soggetto a «vivaci concezioni deliranti a contenuto persecutorio politico».
Poteva diventare «eccitato e clamoroso», gridando «contro il Duce e contro il re». Sempre il
racconto dello psichiatra campano che, probabilmente, tentava di esaltarne la pericolosità, una volta,
«dominato dalle allucinazioni», Biamonti aveva cominciato a dire «che il sorvegliante gli aveva
ammazzato la sorella, che la rivoluzione era scoppiata in Russia, che egli vedeva il sangue scorrere
per le vie». Anche dopo la scomparsa delle allucinazioni restava «convinto della realtà di quanto
avvenuto» e lanciava «accuse insussistenti contro il personale e l'Istituto».160
I medici del Santa Maria della Pietà, dove venne successivamente trasferito, gli negarono la
libertà per altri sei lunghi anni perché gli diagnosticarono il perdurare del «delirio sistematizzato di
persecuzione», con l'aggravante che quando il suo «quadro delirante» prendeva forma spesso
ricorrevano i nomi di «altissimi personaggi».161 I giudizi clinici nei suoi confronti cominciarono a
migliorare solo a partire dall'ottobre del 1942, quando, sebbene continuasse a dirsi comunista,
dichiarò ai medici l'intenzione di non propagandare più le sue idee, aveva finalmente rinunciato ad
ogni azione politica. Da quel momento in poi non sarebbe stata più registrata nessun tipo di
allucinazione.162 Era guarito, o, dal punto di vista politico piuttosto che clinico, si era “ravveduto”.
Con l'arrivo dell'estate del 1943 e l'imminente sbarco angloamericano in Sicilia, come abbiamo
158
L'occasione per la dimissione dello scomodo paziente venne fornita ai medici da alcuni disturbi di cui Massarenti
aveva cominciato a soffrire. Trasportato in una clinica per degli esami, non venne più fatto rientrare al Santa Maria della
Pietà. Il 15 dicembre del 1944, nella cartella clinica venne registrata la sua dimissione, con la motivazione che «non
presentava più gli estremi» per la permanenza; Cazzamalli, L'avventura di Giuseppe Massarenti, cit., pp. 73-78.
159
ACS, CPC, b. 609, f. 98184, Biamonti Secondo, Breve relazione sullo stato di Biamonti Secondo, 6 novembre 1934.
160
Ivi, Questura di Roma, 31 gennaio 1938; nel documento viene riportata interamente la relazione del direttore.
161
AOPPRoma “Santa Maria della Pietà”, Archivio cartelle cliniche, Biamonti Secondo, Diario Clinico, Annotazione
del 21 luglio 1938.
162
Ivi, Diario Clinico, Annotazione del 24 ottobre 1942.
197
visto precedentemente, la Direzione psichiatrica si disse favorevole ad una sua dimissione, e in quel
caso fu il Ministero dell'Interno a rispondere con un diniego. 163 Il 17 giugno del 1944 venne
dimesso. Le «idee deliranti» e le «turbe psicosensoriali» che lo avevano tenuto in manicomio per
dieci anni scomparvero del tutto, come se fossero state portate via dai fascisti che nel frattempo
avevano lasciato la capitale.164
163
La risposta negativa del Ministero alla richiesta di parere sulla dimissione di Biamonti proveniente dalla Questura di
Roma - che esponeva invece i pareri positivi raccolti tra l'Ospedale Santa Maria della Pietà e la Questura di Littoria,
dove si trovava la sorella di Biamonti che si era offerta per custodirlo - si evince in una nota a penna a margine della
richiesta stessa; cfr. Questura di Roma, 25 maggio 1943.
164
Ivi, Diario Clinico, Annotazione del 17 giugno 1944.
198
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