Consulta il testo - Il Diritto Amministrativo
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www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 GIOVANNI DATO Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo N.2 1) Consiglio di Stato, sez. IV, 5 dicembre 2008, n. 6045 Pres. Cossu, est. Saltelli - Studio Legale e tributario associato Biscozzi e Nobili c. Procura della Repubblica di Milano (Sui limiti della giurisdizione amministrativa in materia tributaria) Secondo la decisione in commento, in materia di accertamento delle imposte sui redditi il provvedimento del Procuratore della Repubblica, autorizzativo della perquisizione del domicilio del contribuente (ex artt. 52, comma 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e 33, comma 1, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600), è un atto amministrativo attraverso il quale l’amministrazione finanziaria esercita il potere impositivo e partecipa direttamente della natura amministrativa del provvedimento considerato, condizionandone la legittimità, ed è pertanto sindacabile dal giudice tributario in base ai principi generali che regolano l’attività dello Stato (Cass. Pen, sez. V, 3 dicembre 2001, n. 15230); inoltre sempre in tema di accertamenti fiscali, ed in particolare di indagini svolte ex artt. 33 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 52 e 62 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, è stato precisato che: a) la Guardia di Finanza, che coopera con gli uffici finanziari, procedendo ad ispezioni, verifiche, richieste ed acquisizioni di notizie, ha l’obbligo di conformarsi alle dette disposizioni, sia quanto alle necessarie autorizzazioni che alle verbalizzazioni; b) tali indagini hanno carattere amministrativo, e devono essere tenute distinte dalle indagini svolte dalla stessa Guardia di Finanza in veste di polizia giudiziaria diretta all’accertamento di reati (Cass. Pen., sez. V, 16 aprile 2007, n. 8990). Escluso, pertanto, il caso in cui l’attività di indagine svolta dai militari della Guardia di Finanza sia diretta all’accertamento di fatti penalmente rilevanti, sussiste la giurisdizione del giudice tributario ogniqualvolta si faccia questione di uno specifico rapporto tributario (o di sanzioni inflitte da uffici tributari), dal cui ambito restano escluse solo le controversie in cui non è direttamente coinvolto un rapporto tributario o viene impugnato un atto generale ovvero venga chiesto il rimborso di una somma indebitamente versata a titolo di tributo: la giurisdizione tributaria è concepita come comprensiva di ogni questione relativa all’esistenza e alla consistenza dell’obbligazione tributaria (Cass., SS.UU., 4 aprile 2006, n. 7806). Sotto altro concorrente profilo, la Sezione è dell’avviso che manchino i presupposti, soggettivi ed oggettivi, necessari ad affermare la giurisdizione del giudice amministrativo. Invero, sotto il profilo soggettivo, infatti, deve sicuramente negarsi che il Procuratore della Repubblica possa essere considerato un organo amministrativo, titolare di un potere discrezionale di autorizzazione, idoneo a www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 sacrificare in generale i diritti di libertà del cittadino contribuente sub specie della violazione del principio della riservatezza della sua corrispondenza (intrattenuta con il professionista di fiducia). Benché, come già delineato, il provvedimento autorizzatorio del Procuratore della Repubblica non abbia carattere penale, ma amministrativo (tributario), partecipando direttamente della natura amministrativa (tributaria) del procedimento in cui si inserisce, esso non è finalizzato direttamente alla tutela di un interesse pubblico o fiscale da valutare comparativamente rispetto all’interesse privato in gioco (con conseguente natura recessiva della posizione del cittadino), ma implica un controllo di carattere sostanziale sulla sussistenza in concreto degli indizi di violazione delle leggi tributarie segnalati dagli uffici finanziari e sulla loro gravità. La potestà valutativa spettante al Procuratore della Repubblica è pertanto espressione di un controllo giudiziale, sia pur sommario e senza contraddittorio, svolto in posizione di terzietà sulla richiesta degli uffici finanziari e in funzione della tutela dei diritti del cittadino, così che non vi è nell’esercizio di tale potere alcuna discrezionalità amministrativa in senso stretto (volta, com’è noto, alla tutela dell’interesse pubblico della cui cura specifica è titolare l’amministrazione). Sotto il profilo oggettivo, poi, la predetta autorizzazione non può neppure configurarsi come esercizio di attività amministrativa in senso stretto: invero, in materia tributaria anche l’attività di verifica, in quanto finalizzata all’accertamento dell’esatto adempimento dell’obbligazione tributaria – risulta del tutto priva di qualsiasi carattere discrezionale, circostanza questa che esclude l’esercizio da parte degli uffici finanziari di poteri amministrativi sindacabili innanzi al giudice amministrativo; inoltre, poiché, com’è notorio, l’obbligazione tributaria nasce soltanto quando si siano realizzati tutti i presupposti stabiliti dalla legge, senza alcuna concorrenza di poteri discrezionali da parte degli uffici finanziari, la posizione del contribuente deve essere qualificata sempre e soltanto di diritto soggettivo e giammai di interesse legittimo. Significativamente è stato affermato che la giurisdizione del giudice amministrativo in materia tributaria può riguardare gli atti estranei all’elencazione contenuta dall’articolo 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, purché abbiano carattere di atti amministrativi e siano espressione di poteri discrezionali (cosa che la restringe ai regolamenti e agli atti generali: Cons. Stato, sez. IV, 15 febbraio 2002, n. 948). La giurisdizione amministrativa non può neppure trovare fondamento sulla disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, secondo cui “la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa quando ne ricorrano i presupposti”. Ed invero la predetta norma deve essere necessariamente letta ed interpretata sistematicamente, nel senso che, proprio coerentemente ai principi costituzionali delineati dagli articoli 24 e 113 Cost., se deve sicuramente postularsi la giustiziabilità degli atti provenienti dalla pubblica amministrazione, detta giustiziabilità è tuttavia subordinata alla specifica ricorrenza dei presupposti stabiliti dalla legge. www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 2) T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 3 dicembre 2008, n. 10946 Pres. ed Est. Lundini – […] c. Ministero dell’Economia e delle Finanze; Ministero della Solidarietà Sociale; Ministero dello Sviluppo Economico; Intesa San Paolo S.p.A. (Omesso esercizio di potestà regolamentare e rito contra silentium) Merita di essere precisato che l’art. 2, comma 475, della cd. legge finanziaria 2008 (legge n. 244/2007) ha riconosciuto il diritto del cittadino in difficoltà di sospendere, per non più di due volte e sino a 18 mesi, il pagamento del mutuo acceso per l’acquisto della prima casa; tuttavia per l’esercizio effettivo di tale diritto è necessaria la previa adozione del regolamento attuativo del Fondo previsto dal predetto art. 2. Tale regolamento, tuttavia, non è stato emanato. Alcune associazioni consumeristiche hanno pertanto diffidato i competenti Ministeri a provvedere all’adozione di tale regolamento preannunciando che in caso di ulteriore inerzia, avrebbero adito il giudice amministrativo ai sensi dell’art. 21-bis della legge n. 1034/1971, per l’accertamento dell’illegittimità dell’eventuale silenzio serbato e per la conseguente pronunzia di riconoscimento di fondatezza della richiesta avanzata. All’inerzia dei Ministeri intimati, ha dunque fatto seguito, come era stato preavvertito, il ricorso contra silentium con il quale gli istanti, premessa la propria legittimazione e riassunti i termini della questione, nonché le finalità normative dell’istituzione del citato Fondo e l’imprenscindibilità per il funzionamento dello stesso del previo intervento del regolamento per la sua attuazione, contestano l’illegittimità del silenzio al riguardo serbato dai Ministeri intimati, deducendo in proposito la violazione dell’art. 2 della legge n. 241/1990, come modificato dalla legge n. 15/2005, eccesso di potere, la violazione, altresì, dei principi di imparzialità, buon andamento e correttezza, la violazione infine dell’art. 97 della Costituzione. Il ricorso, tuttavia, è stato dichiarato inammissibile con la sentenza in commento. Secondo il Decidente, l’esercizio della potestà regolamentare demandata da disposizioni di legge ad autorità governative per l’attuazione della legge stessa costituisce espressione di un potere discrezionale rimesso in via esclusiva a dette autorità sulla base di scelte di carattere politico generale e non semplicemente tecnico-amministrativo. Sebbene, dunque, non possa disconoscersi la legittimazione, in astratto e in generale, delle Associazioni ricorrenti - in quanto preposte alla tutela dei consumatori e degli utenti, anche (proprio in riferimento alla problematica dei contratti di mutuo) sulla base del disposto di cui all’art. 7, comma 5, della legge n. 40/2007 - ad attivarsi, nei modi consentiti dall’ordinamento, per rendere effettiva detta tutela, e sebbene non possa per altro verso negarsi che la perdurante mancanza di adozione del regolamento di attuazione del ripetuto Fondo rischi di compromettere, in contrasto con la ratio della c.d. legge finanziaria 2008, le esigenze di tutela di talune categorie di www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 cittadini considerate dalla legge stessa, tuttavia è proprio il tipo di atto per il quale i ricorrenti hanno instato che induce il Collegio a ritenere che in relazione allo stesso non possa ontologicamente configurarsi alcuna fattispecie di silenzio-rifiuto. Invero, per poter qualificare come silenzio impugnabile un comportamento asseritamente omissivo della Pubblica Amministrazione, occorre che la norma attributiva del potere definisca, in maniera specifica, anche la correlata posizione individuale del cittadino che fronteggia il potere pubblico, di modo che allo stesso possa riconoscersi lo ius agendi a tutela del proprio interesse. Ciò accade sicuramente, sulla base della stessa legge n. 241/1990 sul procedimento e sulla trasparenza, nel caso di attività amministrativa in senso stretto esercitata dai pubblici poteri ed alla quale pretensivamente o oppositivamente sia interessato il cittadino. Quando invece la norma attribuisce all’Autorità pubblica un potere discrezionale che si deve tradurre nell'adozione di atti normativo-regolamentari non può essere riconosciuta ai singoli cittadini (o ad associazioni che ne rappresentino diffusamente gli interessi) una posizione differenziata, che li abiliti ad impugnare il silenzio dell’Autorità stessa che omette o ritarda l'esercizio del potere (cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 1 aprile 2004, n. 2262). E questo nemmeno se si tratti di soggetti che possono ricavare un vantaggio dall'adozione del provvedimento regolamentare. D’altra parte, che l’esercizio del potere regolamentare, per inconfigurabilità al riguardo di un silenzio-rifiuto impugnabile, sia escluso dall’ambito applicativo di cui all’art. 21 bis della legge n. 1034/1971, trova conferma sulla base di una lettura sistematica della stessa legge sul procedimento n. 241/1990, ed in particolare degli artt. 7 e 13, che pongono, rispettivamente, la regola generale sulla partecipazione al procedimento amministrativo e le eccezioni a tale regola. Al riguardo, l'art. 13, comma 1, della legge n. 241/1990 esclude che le regole sulla partecipazione si applichino nei confronti dell'attività amministrativa diretta all'adozione di atti normativi. Il che significa che, in questi casi (come del resto accade anche nei procedimenti di formazione delle leggi), il Legislatore ha ritenuto che la responsabilità delle scelte debba essere rimessa esclusivamente alla Pubblica Amministrazione e che i cittadini possano interloquire solo nelle forme previste eventualmente in leggi speciali o nelle sedi istituzionali e comunque sempre sul terreno politico, ma non uti singoli facendo valere proprie posizioni differenziate. Ciò significa che il silenzio-rifiuto (che costituisce lo strumento per far valere in sede giurisdizionale l'inosservanza del dovere di concludere il procedimento, sancito dall'art. 2 della legge n. 241/90) è attivabile solo nei confronti delle omissioni di attività amministrative (cioè in relazione all'omessa adozione di provvedimenti che hanno specifici destinatari) e non anche per l'omessa adozione di atti normativi (nei quali la Pubblica Amministrazione esprime scelte di natura politica, ossia aventi valenza generale) (vedi citata sentenza T.A.R. Puglia, Lecce ed anche Cons. Stato, sez. IV, 29 luglio 2004, n. 3481). D’altra parte, se non ammessa, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 241/1990, alcuna partecipazione procedimentale nella fase formativa dell’attività regolamentare www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 dell’Autorità governativa, non si vede perché dovrebbe essere invece al riguardo consentita addirittura l’attività sollecitatoria ai fini della formazione del silenzio rifiuto impugnabile ex art. 21 bis già citato, e cioè una forma d’ingerenza che di tale partecipazione costituisce l’espressione senz’altro più elevata, incisiva e significativa. 3) Cassazione civ, Sezioni Unite, 25 novembre 2008 n. 28041 Pres. Carbone – Est. Fioretti (Sui criteri di riparto della giurisdizione in materia di erogazione di provvidenze pubbliche) La Suprema Corte torna ad occuparsi della vexata quaestio concernente i criteri di riparto della giurisdizione circa le controversie aventi ad oggetto la concessione di contributi o sovvenzioni pubbliche. Le Sezioni Unite ricordano che, secondo principio consolidato, il riparto di giurisdizione in esame deve essere attuato distinguendo le ipotesi in cui il contributo o la sovvenzione sono riconosciuti direttamente dalla legge ed alla Pubblica Amministrazione è demandato esclusivamente il controllo della effettiva esistenza di presupposti puntualmente indicati dalla legge stessa, da quelle in cui la legge attribuisce invece alla Pubblica Amministrazione il potere di riconoscere l'ausilio, previa valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati in relazione all'interesse pubblico primario, apprezzando discrezionalmente l'"an", il "quid" ed il "quomodo" dell'erogazione. E’ stato precisato, altresì, che, in materia di contributi e di sovvenzioni pubbliche, il privato vanta una posizione di interesse legittimo, con la conseguente devoluzione della relativa controversia alla giurisdizione del giudice amministrativo, se detta controversia attiene alla fase procedimentale anteriore alla emanazione del provvedimento attributivo del beneficio, mentre vanta una posizione di diritto soggettivo, con conseguente devoluzione della controversia al giudice ordinario, se la stessa concerne la successiva fase di erogazione del contributo. Secondo la Suprema Corte, dall'esame sistematico delle disposizioni racchiuse nella legge 1 marzo 1986, n. 64 e nel D.M. n. 133 del 1989 si possono enucleare i seguenti principi: il contributo in questione non veniva concesso direttamente dalla legge, sulla base di una verifica di presupposti indicati puntualmente dalla legge stessa; esso trovava la sua fonte in un provvedimento concessorio, espressione del potere discrezionale della Pubblica Amministrazione, la quale, per concedere il contributo stesso, era tenuta a valutare la ammissibilità e congruità delle spese, nonchè la validità tecnico - economica degli investimenti progettati, la validità del piano finanziario per la copertura dei fabbisogni derivanti dalla realizzazione della iniziativa e della sua normale gestione etc., e dopo aver effettuato la relativa istruttoria, non era tenuta, ma aveva facoltà di concedere il contributo. www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 Tale conclusione trova conferma nella formulazione del d.P.R. n. 218 del 1978, art. 69, (Testo unico delle leggi sugli interventi nel Mezzogiorno, richiamato sia dalla l. n. 64 del 1986, che dal D.M. n. 233 del 1989), che disponeva: per la realizzazione di iniziative dirette alla costruzione, alla riattivazione ed allo ampliamento di stabilimenti industriali può essere concesso dalla Cassa per il Mezzogiorno un contributo in conto capitale nelle misure indicate successivamente dalla stessa disposizione, formulazione indicativa di un potere discrezionale e non vincolato della P.A.; il fatto che la erogazione del saldo del contributo concesso in via provvisoria, in base ad un originario programma di investimenti, dovesse essere effettuata a consuntivo, non significa che tale erogazione dovesse avvenire automaticamente - come si potrebbe ipotizzare nell'ipotesi di realizzazione degli investimenti e del programma di spesa inizialmente considerati al fine della concessione provvisoria del contributo - anche nell'ipotesi di incrementi di spesa derivanti da variazioni, anche sostanziali, intervenute nel corso della realizzazione del programma di investimenti, tant’è vero che l'art. 7, comma 5, citato, richiedeva, ai fini della ammissione a contributo di maggiori impegni di spesa, di provvedere alla integrazione o sostituzione del provvedimento di concessione a suo tempo emanato; nella ipotesi in cui fosse stata presentata la documentazione finale di spesa senza che fosse intervenuta l'emanazione di un provvedimento integrativo o sostitutivo dell'originario provvedimento di concessione, l'istituto di credito, tenuto ad effettuare la istruttoria ai fini della determinazione e liquidazione del saldo finale, avrebbe dovuto evidenziare, nel trasmettere la sua relazione istruttoria, (come su detto) le sostanziali variazioni intervenute in sede esecutiva rispetto al progetto preso a base della originaria istruttoria per la concessione del contributo in via provvisoria (art. 12, comma 7) e ciò all'evidente fine (altrimenti non se ne comprenderebbe la ragione) di consentire all'Agenzia di deliberare se ammettere o meno le ulteriori spese a contributo, non potendo la stessa, come si evince dal sistema complessivo previsto per la concessione delle agevolazioni finanziarie, procedere, senza un preventivo provvedimento di concessione, alla erogazione di contributi in relazione a documentazione di spesa non rispondente al programma di investimenti approvato. Pertanto, in mancanza di un provvedimento concessorio di un maggior contributo per le variazioni di investimenti e spese introdotte nel corso della realizzazione del programma di investimento, non si può fondatamente sostenere che la pretesa della società ricorrente integri una posizione giuridica di diritto soggettivo, appartenendo ancora dopo il collaudo, che può avere soltanto, nel caso che ne occupa, il carattere di verifica tecnica e di atto endoprocedimentale, al potere discrezionale della Pubblica Amministrazione concedere o meno il maggior contributo. Stabilito che la posizione vantata dalla ricorrente in ordine alla concessione del maggior contributo è di interesse legittimo e che il relativo diniego ha inciso su tale interesse, devesi ritenere compresa nell'ambito della giurisdizione amministrativa anche la proposta azione di risarcimento del danno per le considerazioni che seguono. La Corte Costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004 ha affermato che il www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 potere - riconosciuto al giudice amministrativo dalla L. n. 205 del 2000, art. 7, nella parte in cui (lett. e) sostituisce il d.lgs. n. 80 del 1998, art. 35, - di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto costituisce "uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione". La Corte di Cassazione, in considerazione di quanto affermato dalla citata sentenza del Giudice delle leggi, ha affermato il principio secondo cui, nel sistema normativo conseguente alla legge 21 luglio 2000, n. 205, in tema di tutela giurisdizionale intesa a far valere la responsabilità della Pubblica amministrazione da attività provvedimentale illegittima, la giurisdizione sull'interesse legittimo spetta, in linea di principio, al giudice amministrativo, sia quando si invochi la tutela di annullamento, sia quando si insti per la tutela risarcitoria, in forma specifica o per equivalente, non potendo tali tecniche essere oggetto di separata e distinta considerazione ai fini della giurisdizione (cfr. Cass. civ., Sez. Un., n. 13659/2006). 4) Consiglio di Stato, sez. V, 11 dicembre 2008, n. 6161 Pres. Iannotta – Est. Carlotti - Regione Campania c. Servizi turistici Palummo s.c.a.r.l. e Hotel Pietra di Luna s.r.l. 5) Consiglio di Stato, sez. V, 9 dicembre 2008, n. 6057 Pres. Santoro – Est. Corradino - V. Modugno S.r.l. c. Comune di Carinola ed altri (Sul cd. dovere di soccorso del responsabile del procedimento e sui criteri di interpretazione del bando di gara) Secondo la prima decisione in commento, la parità di trattamento tra gli aspiranti ad un beneficio erogato da una Pubblica Amministrazione va sempre assicurata, ma la tutela di siffatto principio deve essere coordinata e resa compatibile con l'esigenza, pariordinata, di garantire altresì la massima apertura della partecipazione alle procedure selettive volte all’assegnazione di risorse pubbliche, principio quest'ultimo funzionale alla soddisfazione dell’interesse dell’amministrazione ad operare una scelta entro un ampio novero di offerte o di proposte. Il bilanciamento tra i due valori giuridici sopra richiamati – in presenza di una attestazione che, seppur lessicamente diversa da quella richiesta, aveva un contenuto equipollente – deve essere realizzato proprio attraverso il ricorso all’istituto della regolarizzazione, previsto in via generale dall’art. 6 della legge n. 241/1990. I canoni di efficienza e di efficacia dell'azione amministrativa impongono infatti di far prevalere la correttezza sostanziale di una produzione documentale rispetto alla (superabile) irregolarità formale della stessa. www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 Da tale esigenza discende l'obbligo dell'amministrazione di invitare gli interessati a regolarizzare i documenti prodotti ogniqualvolta ciò sia possibile e consentito, senza alterare la parità di trattamento (cd. dovere di soccorso). Nella seconda decisione in commento il Decidente osserva che laddove venga in rilievo una questione di interpretazione delle prescrizioni di gara ambigue o plurivoche (e non un problema di legittimità delle medesime) risulta inconfigurabile qualsiasi onere di impugnazione del bando a carico della ricorrente; detto diversamente, laddove si censuri la (asseritamente) scorretta interpretazione data dalla commissione di gara alle clausole di gara, la questione non evoca una questione di impugnazione delle clausole della lex specialis. Sempre per il Decidente, la regola della massima partecipazione in tema di gare di appalto, in virtù del principio del favor partecipationis le clausole del bando richieste a pena di esclusione devono essere chiare e puntuali e, in caso di oscurità o non chiarezza, devono essere interpretate nel modo meno restrittivo (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 14 aprile 2008, n. 1665; Cons. Stato, sez. VI, 7 giugno 2006, n. 3417; Cons. Stato, sez. V, 28 giugno 2006, n. 4222; Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 2005, n. 5194). 6) T.A.R. Puglia, Bari, 18 dicembre 2008, n. 2913 Pres. Urbano - Est. Ravasio (Le “quote rosa” negli Enti locali) Lo statuto comunale di un Comune pugliese prevede che “[<] Il Sindaco, nella formazione della Giunta, assicura la presenza dei due sessi” (art. 37). Il Sindaco di tale Comune, tuttavia, nominava i componenti della Giunta Municipale scegliendoli tutti tra persone di sesso maschile. Proposto ricorso avverso tale determinazione il Giudice adito concedeva la misura cautelare richiesta, e per l’effetto ordinava al Sindaco di procedere alla rinnovazione delle nomine; il Sindaco procedeva alla nomina dei componenti la Giunta confermando tutti gli assessori precedentemente nominati. Avverso la predetta determinazione veniva spiccato gravame per motivi aggiunti. Secondo il Decidente, il citato articolo 37 dello Statuto comunale in questione deve essere interpretato nel senso che esso impone al Sindaco di porre in essere tutte le attività utili e necessarie affinché l’organo esecutivo del Comune risulti composto da persone appartenenti ad entrambi i sessi, nonché di dare conto, nel provvedimento con il quale designa gli assessori, dell’espletamento delle attività svolte e delle ragioni per le quali esse, eventualmente, non hanno sortito il risultato utile, e cioè di avere la disponibilità di persone di ambo i sessi per la formazione della Giunta. In tal senso è evidente che l’art. 37 dello Statuto indubbiamente limita la discrezionalità di www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 cui il Sindaco gode nella scelta dei propri assessori, scelta che, per tale ragione, non deve necessariamente privilegiare il dato politico. Il provvedimento impugnato con motivi aggiunti dimostra che nel caso di specie il Sindaco ha adottato un criterio di massima per la individuazione dei futuri assessori (chiamata dei consiglieri dello schieramento eletti con il maggior numero di voti), e che, una volta preso atto che tale criterio portava alla individuazione dei futuri assessori solo in persone di sesso maschile, egli - erroneamente ritenendo di non esservi tenuto - non ha posto in essere alcuna ulteriore attività allo scopo di verificare la disponibilità, tra le persone a lui legate da rapporto di fiducia, di donne disponibili ad assumere la carica di assessore. Con ciò facendo il Sindaco ha palesemente disatteso il portato dell’art. 37 dello Statuto Comunale. 7) Consiglio di Stato, sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5782 Pres. Ruoppolo - Est. Giovagnoli - A.C. Arezzo s.p.a. c. F.I.G.C. e C.O.N.I. (In materia di rapporti fra ordinamento sportivo e ordinamento statale) La decisione in commento contiene una interessante “messa a fuoco” del complesso quadro - normativo e giurisprudenziale - sviluppatosi in ordine ai rapporti tra giustizia sportiva e giurisdizione amministrativa. E’ noto che il decreto legge n. 220/2003, convertito in legge n. 280/2003, (c.d. “salva calcio” o “blocca T.a.r.) stabilisce, all’art. 1, che i rapporti tra l'ordinamento sportivo e quello statale sono regolati in base al principio di autonomia, "salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo" (art. 1, primo comma). Dando applicazione al principio dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, il successivo art. 2 riserva all'ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto: a) l'osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell'ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive; b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive. L’art. 3 del decreto legge citato, infine, occupandosi specificamente della giurisdizione prevede che, “esauriti i gradi della giustizia sportiva e ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti, ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo ai sensi dell'articolo 2, è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In ogni caso e' fatto salvo quanto eventualmente stabilito dalle clausole compromissorie previste dagli statuti e dai www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 regolamenti del Comitato olimpico nazionale italiano e delle Federazioni sportive di cui all'articolo 2, comma 2, nonché quelle inserite nei contratti di cui all'articolo 4 della legge 23 marzo 1981, n. 91”. Le norme appena riportate, nate con il preciso intento di arginare l’intervento della giustizia statale sull’autonomia dell’ordinamento sportivo, hanno inteso tracciare una linea di confine netta tra i territori rispettivamente riservati all’ordinamento sportivo, e ai suoi organi di giustizia, e quelli nei quali è possibile l’intervento della giurisdizione statale, e del giudice amministrativo in particolare Il legislatore non è, tuttavia, pienamente riuscito nel suo scopo chiarificatore. Anche dopo del d.l. n. 220/2003, la linea di confine tra giustizia sportiva e giurisdizione amministrativa è rimasta spesso incerta, come dimostrano le numerose divergenze interpretative che si riscontrano anche all’interno della giurisprudenza amministrativa. Si tratta di difficoltà ermeneutiche che riflettono, del resto, la stessa complessità che si incontra nel tentativo di conciliare due principi che mostrano diversi momenti di potenziale conflitto: il principio dell’autonomia dell’ordinamento sportivo (che trova il suo fondamento costituzionale negli artt. 2 e 18 Cost.) e il principio del diritto di azione e di difesa, espressamente qualificato come inviolabile dall’art. 24 Cost.. In questa indagine sui rapporti tra ordinamento sportivo e ordinamento statale si deve partire da una considerazione di fondo: quella secondo cui la "giustizia sportiva" costituisce lo strumento di tutela per le ipotesi in cui si discute dell'applicazione delle regole sportive, mentre la giustizia statale è chiamata a risolvere le controversie che presentano una rilevanza per l'ordinamento generale, concernendo la violazione di diritti soggettivi o interessi legittimi. Proprio alla luce di tale principio, oggi c’è sostanziale concordia sul fatto che siano riservate giustizia sportiva le c.d. controversie tecniche, (quelle cioè che riguardano il corretto svolgimento della prestazione sportiva, ovvero la regolarità della competizione sportiva) in quanto non vi è lesione né di diritti soggettivi, né di interessi legittimi. Ugualmente, è ormai pacifico che siano riservate alla giurisdizione amministrativa le questioni concernenti l’ammissione e l'affiliazione alle federazioni di società, di associazioni sportive e di singoli tesserati (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 luglio 20004, n. 3917). Nel testo dell’originario d.l. n. 220/2003 esse rientravano tra le questioni riservate all’ordinamento sportivo (art. 2, comma 1, lett. c). La soppressione in sede di conversione di tale categoria, costituisce chiaro indice della volontà del legislatore di non considerare indifferenti per l’ordinamento statale controversie, quali quelle inerenti, l’affiliazione delle società alle federazioni e i provvedimenti di ammissione ai campionati, trattandosi di provvedimenti di natura amministrativa in cui le Federazioni esercitano poteri di carattere pubblicistico in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del Coni. www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 La questione si fa, invece, molto più delicata per le controversie c.d. disciplinari, le quali attengono alla irrogazione di provvedimenti di carattere punitivo nei confronti di atleti, associazioni e società sportive. In questo caso, è, infatti, frequente che il provvedimento punitivo adottato nell’ambito dell’ordinamento sportivo incida, almeno indirettamente, per i gravi effetti anche economici che comporta, su situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo, ma rilevanti per l’ordinamento generale. Il problema allora è se debba prevalere il valore dell’autonomia dell’ordinamento sportivo o quello del diritto di azione o di difesa in giudizio. A favore della prima soluzione sembrerebbe deporre la formulazione letterale dell’art. 2 d.l. n. 220/2003 che riserva alla giustizia sportiva, senza alcuna ulteriore distinzione, “i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive”. A favore della seconda lettura si può, tuttavia, invocare la parte finale dell’art. 1 d.l. n. 220/2003 che, nell’affermare solennemente il principio dell’autonomia sportiva, fa espressamente "salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo". In giurisprudenza sono state sostenute entrambe le posizioni. Alcune sentenze, soprattutto di primo grado, proprio dando rilevanza alla rilevanza esterna (in termini di incidenza si situazioni giuridiche soggettive protette dall’ordinamento generale) delle conseguenze derivanti dal provvedimento afflittivo irrogato dalla Federazione sportiva, hanno ritenuto sussistente la giurisdizione amministrativa anche sui ricorsi avverso le sanzioni disciplinari irrogate avverso società o singoli tesserati. Così, proprio con specifico riferimento alle penalizzazioni di alcuni punti in classifica, si segnala T.a.r. Lazio, sez. III, 22 agosto 2006, n. 7331 secondo cui tale sanzione, determinando l’esclusione dalla graduatoria delle società ripescabili nel campionato nazionale, e la conseguente retrocessione della società di calcio, assumerebbe anche rilevanza esterna, incidendo sullo status del soggetto in termini non solo economici, ma anche di onorabilità. In senso opposto, si è pronunciato invece il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia con la nota sentenza 8 novembre 2007 n. 1048, secondo cui in materia disciplinare la giurisdizione statale è sempre esclusa, a prescindere dalle conseguenze ulteriori – anche se patrimonialmente rilevanti o rilevantissime – che possano indirettamente derivare da atti che la legge considera propri dell’ordinamento sportivo e a quest’ultimo puramente riservati. A sostegno di tale tesi si osserva che il legislatore del 2003 “ha operato una scelta netta, nell’ovvia consapevolezza che l’applicazione di una norma regolamentare sportiva ovvero l’irrogazione di una sanzione disciplinare sportiva hanno normalmente grandissimo rilievo patrimoniale indiretto; e tale scelta l’interprete è tenuto ad applicare, senza poter sovrapporre la propria "discrezionalità www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 interpretativa" a quella legislativa esercitata dal Parlamento” (C.G.A., sentenza 8 novembre 2007 n. 1048). Tra le due diverse opzioni ermeneutiche, la seconda appare quella più aderente alla formulazione letterale degli artt. 2 e 3 d.l. n. 220/2003. Tali norme, infatti, demandano in via esclusiva alla giustizia tutti i “comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive”. Il legislatore non fa alcuna distinzione in ordine alla conseguenze patrimoniali che quelle sanzioni possono produrre. Del resto, come è stato rilevato (C.G.A., sentenza 8 novembre 2007 n. 1048), il legislatore allorché emanò il decreto legge n. 220 del 2003, non poteva certo ignorare che l’applicazione del regolamento sportivo – sia da parte dell’arbitro nella singola gara determinante per l’esito dell’intera stagione; sia da parte del giudice sportivo di primo o di ultimo grado – e l’irrogazione delle più gravi sanzioni disciplinari quasi sempre producono conseguenze patrimoniali indirette di rilevantissima entità. Tuttavia a tali conseguenze non ha attribuito alcun rilievo ai fini della verifica di sussistenza della giurisdizione statuale; che, infatti, il legislatore ha radicato solo nei casi diversi da quelli, espressamente eccettuati, di cui all’art. 2, comma 1, del decreto legge citato. Così inteso, tuttavia, il d.l. n. 220/2003 (convertito in l. n. 280/2003), dà luogo ad alcune perplessità in ordine alla legittimità costituzionale della riserva a favore della “giustizia sportiva”: in particolare, non risultano manifestamente infondati quei dubbi di costituzionalità che evocano un possibile contrasto col principio della generale tutela statuale dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi (art. 24 Cost.), e con la previsione costituzionale che consente sempre l’impugnativa di atti e provvedimenti amministrativi dinnanzi agli organi di giustizia amministrativa (art. 103 e 113 Cost.). Né sembra possibile procedere ad una interpretazione correttiva e costituzionalmente orientata della norme in esame: la strada dell’interpretazione “correttiva”, finisce, infatti, per tradursi, di fronte ad una norma dalla chiara ed univoca portata precettiva, in una operazione di disapplicazione della legge incostituzionale. Tuttavia, nel caso di specie, il Collegio ritiene di poter decidere la presente controversia senza sollevare la questione di costituzionalità delle norme contenute negli artt. 2 e 3 d.l. n. 220/2003 (conv. in l. n. 280/2003): ciò in quanto oggetto del giudizio non è più l’annullamento della sanzione disciplinare irrogata dalla Federazione alla ricorrente e delle decisioni che organi di giustizia sportiva che hanno respinto i ricorsi della società. Tali atti, infatti, hanno ormai prodotto effetti irreversibili ed una eventuale decisione di annullamento non potrebbe comunque restituire il “bene della vita” che la squadra avrebbe ottenuto senza la penalizzazione. La legittimità degli atti impugnati viene, pertanto, in rilievo solo in via indiretta ed www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 incidentale, al fine di decidere sulla domanda risarcitoria, che a questo punto rappresenta l’oggetto esclusivo del presente giudizio. Rispetto alla domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno subito da una società in conseguenza delle decisioni adottate da una Federazione sportiva o dagli organi della giustizia sportiva non può essere sostenuto il difetto assoluto di giurisdizione, invocando gli artt. 2 e 3 del più volte citato d.l. n. 220 del 2003. A tale conclusione conducono le seguenti considerazioni. In primo luogo, la domanda risarcitoria non è proponibile innanzi agli organi della giustizia sportiva (ai quali si può chiedere solo l’annullamento della sanzione). Escludere la giurisdizione statale avrebbe, allora, la conseguenza di creare un vero proprio vuoto di tutela: i danni provocati dalle decisioni delle Federazioni sportive (o dalla Camera di Conciliazione e di Arbitrato del CONI) diventerebbero irrisarcibili, anche quando incidono (come spesso accade) su situazioni giuridiche soggettive meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico generale. Non si avrebbe più soltanto una questione processuale, involgente i rapporti tra giustizia sportiva e giurisdizione statale, ma si avrebbe una vera e propria deroga sostanziale all’applicazione dell’art. 2043 c.c., deroga priva di ogni plausibile giustificazione e sprovvista di fondamento normativo espresso. In questo caso, tuttavia, l’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme è possibile. Da un lato, infatti, l’art. 2 decreto legge citato, nel delimitare la riserva a favore dell’ordinamento sportivo, non fa alcun riferimento alle controversie risarcitorie. Dall’altro, l’art. 3 prevede espressamente che, “esauriti i gradi della giustizia sportiva e ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti, ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo ai sensi dell'articolo 2, e' devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”. Infine, l’art. 1 d.l. n. 220 del 2003, nel sancire il principio dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, fa proprio “salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo”. Ebbene, il Collegio ritiene che tali norme debbano essere interpretate, in un’ottica costituzionalmente orientata, nel senso che laddove il provvedimento adottato dalle Federazioni sportive o dal C.O.N.I. abbia incidenza anche su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento giuridico statale, la domanda volta ad ottenere non la caducazione dell’atto, ma il conseguente risarcimento del danno, debba essere proposta innanzi al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, non operando alcuna riserva a favore della giustizia sportiva, innanzi alla quale la pretesa risarcitoria nemmeno può essere fatta valere. www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 Anche per le controversie risarcitorie opera, tuttavia, il c.d. vincolo della giustizia sportiva, e quindi potranno essere instaurate solo dopo che siano “esauriti i gradi della giustizia sportiva”, così come prevede l’art. 3. In definitiva, anche se, secondo la vigente normativa, la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo prevista dall’art. 3 d.l. n. 220/2003 non include le domande volte all’annullamento delle sanzioni disciplinari, deve, tuttavia, ritenersi, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata del tessuto normativo, che siano proponibili innanzi al Giudice amministrativo le domande volte ad ottenere il risarcimento del danno che tali sanzioni disciplinari hanno provocato incidendo anche su situazioni rilevanti per l’ordinamento generale della Repubblica. Il Giudice amministrativo può, quindi, conoscere, nonostante la riserva a favore della “giustizia sportiva”, delle sanzioni disciplinari inflitte a società, associazioni ed atleti, in via incidentale e indiretta, al fine di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria proposta dal destinatario della sanzione. La domanda risarcitoria, tuttavia, come prevede l’art. 3 cit., è proponibile solo dopo l’esaurimento dei gradi della giustizia sportiva. La necessità che siano esauriti i gradi della giustizia sportiva impone di distinguere due ipotesi. La prima si verifica se gli organi della giustizia sportiva annullano la sanzione inflitta dalla Federazione: in tal caso, al Giudice amministrativo potranno essere chiesti i danni che si sono medio tempore prodotti nonostante l’annullamento della sanzione. Considerato che il provvedimento fonte del danno è già stato annullato nell’ambito dell’ordinamento sportivo, il giudice non dovrà compiere alcuna valutazione incidentale sulla legittimità dello stesso, limitandosi a verificare l’an e il quantum del danno provocato. La seconda ipotesi ricorre se la sanzione inflitta viene confermata dagli organi della giustizia sportiva. Anche in tal caso, la domanda risarcitoria potrà essere comunque proposta innanzi al Giudice amministrativo, che, però, ricorrendo tale evenienza, dovrà procedere ad una valutazione incidentale della legittimità del provvedimento, allo scopo di decidere sulla domanda risarcitoria. Si pone qui l’ulteriore problema di individuare l’atto fonte del danno che, come tale, deve essere oggetto del sindacato incidentale da parte del Giudice amministrativo. L’esistenza del c.d. vincolo della giustizia sportiva, in forza del quale il ricorso giurisdizionale è proponibile solo dopo l’esaurimento dei gradi della giustizia sportiva, fa sì che l’atto fonte del danno debba essere individuato nella decisione che esaurisce i gradi della giustizia sportiva, ovvero, come accade nel caso di specie, nella decisione del Collegio arbitrale istituito presso la Camera di Conciliazione ed Arbitrato per lo Sport. E’ allora necessario, per delineare i limiti del sindacato giurisdizionale esercitabile dal Giudice amministrativo, capire quale sia la natura giuridica di tale decisione. www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 Orbene, in base all’orientamento dominante, la decisione della camera di conciliazione e arbitrato per lo sport del C.O.N.I. non costituisce un vero e proprio lodo arbitrale, ma rappresenta la decisione di ultimo grado della giustizia sportiva, avente quindi il carattere sostanziale di provvedimento amministrativo, benché emesso con le forme e le garanzie tratte dal giudizio arbitrale. Si tratta, come specificato da Cons. Stato, sez. VI, 9 luglio 2004, n. 3917, di una decisione emessa dal supremo organo della giustizia sportiva sulla base di principi e garanzie tipiche del giudizio arbitrale, ma che resta soggetta agli ordinari strumenti di tutela giurisdizionale per le fattispecie non riservate all’ordinamento sportivo. Tale qualificazione del lodo in termini di atto amministrativo non può essere, tuttavia, applicata alla presente fattispecie, in quanto la penalizzazione inflitta alla ricorrente non era arbitrabile ai sensi dell’art. 27.3 dello Statuto federale all’epoca vigente. Dalla qualificazione della decisione della Camera di Conciliazione in termini di vero e proprio lodo arbitrale (e non di atto amministrativo, come è, invece, per il lodo pronunciato su controversie arbitrabili ai sensi dello Statuto federale), discende che tale atto può formare oggetto di impugnazione nei soli limiti consentiti dal codice di procedura civile. In particolare, il lodo rituale è soggetto al regime di impugnazione per le cause di nullità, tassativamente indicare nell’art. 829 c.p.c.; il lodo irrituale, invece, se avente origine da convenzioni arbitrali stipulate, come nella fattispecie, successivamente al 3 marzo 2006, è sottoposto ai motivi di impugnazione previsti dall’art. 808 ter c.p.c. (norma introdotta dal d.lgs. n. 40/2006), ai quali, secondo la tesi prevalente, si aggiungono, comunque, le ordinarie impugnative negoziali (incapacità, errore, violenza, dolo, eccesso di mandato, violazione di norme imperative). Il dubbio circa la natura rituale o irrituale dell’arbitrato oggi deve essere risolto, in base a quanto previsto dall’art. 808 ter c.p.c., a favore della natura rituale del lodo. Con tale norma, infatti, il legislatore ha chiarito che la scelta in favore di un arbitrato che abbia esito in un lodo irrituale (come tale non destinato agli effetti di cui all’art. 824 bis c.p.c.), oltre a richiedere una forma scritta, deve essere espressa: in caso contrario, ogni dubbio sulla qualificazione come rituale o irrituale dell’arbitrato prescelto dalle parti deve sciogliersi a favore della natura riturale e della conseguente integrale applicabilità della disciplina legale, anche per quel che riguarda il regime di impugnazione di cui all’art. 827 c.p.c.. E’ stato così superato per tabulas il precedente maggioritario orientamento giurisprudenziale che, invece, in caso incertezza sulla individuazione della species di arbitrato, optava per la natura irrituale in considerazione del favor della competenza giurisdizionale, a cui le parti eccezionalmente derogherebbero con il deferimento ad arbitri rituali del potere di decidere la controversia. www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 8) Cons. Stato, sez. V, 17 dicembre 2008, n. 6292 Pres. Iannotta – Est. Giambartolomei – Helitalia S.p.A. c. Regione Abruzzo e Elidolomiti. (In materia di giurisdizione amministrativa circa la “sorte” del contratto di appalto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione) La decisione in commento si pronuncia in ordine alla complessa tematica concernente i rapporti fra annullamento del provvedimento di aggiudicazione, sorte del contratto medio tempore stipulato e limiti della giurisdizione amministrativa. Secondo il Collegio, la domanda di annullamento dell'aggiudicazione, ammissibile per la prima volta in grado d’appello (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30 gennaio 2006, n. 290), contiene in sè, implicita, quella di risarcimento in forma specifica sub specie di pretesa al conseguimento dell'appalto in luogo dell'aggiudicataria soccombente. Il risarcimento del danno mediante reintegrazione in forma specifica è ammesso nei casi in cui l’interesse leso dal provvedimento rimosso è di tipo oppositivo, in quanto all’effetto demolitorio si accompagnano effetti autoesecutivi dell’annullamento ed il ripristino della preesistente situazione di fatto e di diritto (salva la verifica in termini di onerosità prevista dall’art. 2058, comma 2, c.c.). Se è stata fatta questione di lesione di interessi pretensivi, all’annullamento conseguono effetti conformativi per i quali l’Amministrazione è tenuta a rinnovare l’atto nel rispetto della legalità. In questa seconda ipotesi l’attenzione si sposta necessariamente dal risarcimento in forma specifica in genere all’esecuzione di un obbligo specifico (e dunque alla fase processuale di esecuzione nella quale è anche possibile, il risarcimento in forma specifica, ove ne permangano le condizioni). Se, invece è annullata l’aggiudicazione di una gara, si possono verificare, oltre ad effetti sicuramente conformativi (per i quali l’Amministrazione è tenuta alla rinnovazione del procedimento a partire dall’ atto viziato e per la parte di esso affetto da vizi), anche effetti autoesecutivi che seguono la fase meramente demolitoria e che rappresentano una modalità di risarcimento in forma specifica. Secondo un indirizzo del massimo consesso amministrativo, di recente ribadito (cfr. decisione Sez. V, 12 febbraio 2008 n. 490; Id., 28 maggio 2004, n. 3465), l'annullamento dell'aggiudicazione in sede giurisdizionale, allorché questo intervenga dopo la stipula del contratto di appalto, produce quale effetto (autoesecutivo) l’inefficacia di quest' ultimo. Vi è un nesso di presupposizione ed interdipendenza che lega la fase pubblicistica dell’evidenza pubblica alla successiva stipulazione e l’aggiudicazione si configura come un presupposto di efficacia del contratto (Cons. Stato, sez. VI, n. 2332/2003; IV, n. 6666/2003). Il sopravvenire di un’“inidoneità funzionale” che colpisce il negozio, per l’incidenza ab esterno di interessi giuridici di rango pozione incompatibili con l’interesse negoziale, ne congela l’efficacia (cfr. Cons. Stato, V, n. 7402/2006; Id., n. 6579/2005; Id., n. 5194/2005; Id., 7346/2004). www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 Su un piano processuale il giudice amministrativo non può emettere una decisione con effetti costitutivi (di nullità, di annullamento o di risoluzione del contratto; decisione che spetta al giudice civile in via principale), ma meramente dichiarativa della sopraggiunta inefficacia, pronunziata in via incidentale strumentalmente alla richiesta di risarcimento in forma specifica sulla quale la legge gli attribuisce competenza. E’ ben vero che la sentenza 28 dicembre 2007, n. 27169 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha interpretato l’art. 244 del d.lgs n. 163/2006 (c.d. Codice dei contratti pubblici) nel senso che la giurisdizione del giudice civile sussiste anche quando si tratti di individuare, con statuizioni idonee a passare in giudicato, le conseguenze prodotte sul contratto dalla sentenza amministrativa di annullamento dell’aggiudicazione della gara (conclusioni già rinvenibili in precedenti pronunzie della Corte di Cassazione: cfr. Cass., Sez. Un. 19 aprile 2004 n. 76461; Id. 22 luglio 2002 n. 10726; Id. 30 marzo 2000 n. 72). Secondo la decisione in commento, tuttavia, l’esclusione di un potere di cognizione diretta del giudice amministrativo in ordine all’invalidità o all’inefficacia del contratto, con attitudine di giudicato, non esclude tuttavia la possibilità di una cognizione incidentale. L’art. 8 l. 6 dicembre 1971, n. 1034 (ma già l’art. 28 del r.d. 26 giugno 1924 n. 1054) autorizza il giudice amministrativo, nelle materie (ovvero nei settori di materia) in cui non ha giurisdizione, a decidere “con efficacia limitata di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale”. Per l’art. 244, comma 1, del d.lgs n. 163 del 2006 rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture, ”ivi incluse quelle risarcitorie”, ad opera di soggetti aggiudicatari comunque tenuti all’ applicazione delle norme comunitarie o alle regole d’evidenza pubblica. Già in precedenza, in forza dell’art. 35, comma 1, del d.lgs 31 marzo 1998, n. 80 (come novellato dall’art. 7, comma 1, lett. c), della l. n. 205 del 2000) il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, poteva disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto. Le dette norme attribuiscono una potestà cognitiva piena che ha trovato una sua ratifica nelle sentenze n. 204 del 2004, n. 191 del 2006 e n. 140 del 2007 della Corte Costituzionale per la quale nella giurisdizione amministrativa il risarcimento del danno ingiusto non costituisce una nuova materia ma uno strumento di tutela ulteriore rispetto a quello demolitorio, in armonia con l’art. 24 della Costituzione. In tale modo è concentrata l’intera protezione dell’interessato in un unico giudice, idoneo ad offrire la piena tutela oltre agli interessi legittimi, anche ai diritti soggettivi costituzionalmente garantiti se coinvolti nell’ esercizio della funzione amministrativa (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14 aprile 2008, n. 1700). www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 Essendo il contratto stipulato medio termine inefficace, fa capo all’Amministrazione l’onere di portare ad esecuzione le ulteriori risultanze traibili dalla parte motiva della decisione, oltre che dal suo dispositivo, apportando le necessarie e consequenziali correzioni alla sua attività in sede di autotutela. 9) T.A.R. Lazio, Roma, sez. III quater, 9 dicembre 2008, n. 11093 Pres. Di Giuseppe, Est. Sandulli (In materia di affidamento diretto alle cooperative sociali e sul risarcimento del danno da perdita di chance) Con la pronuncia in oggetto la giurisprudenza amministrativa ribadisce l’assoluta centralità del principio concorrenziale nell’affidamento delle commesse pubbliche. L’art. 5 della legge n. 381 del 1991 recita: <<Gli enti pubblici, compresi quelli economici, e le società di capitali a partecipazione pubblica, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, possono stipulare convenzioni con le cooperative che svolgono le attività di cui all'articolo 1, comma 1, lettera b), ovvero con analoghi organismi aventi sede negli altri Stati membri della Comunità europea, per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi il cui importo stimato al netto dell'IVA sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate di cui all'articolo 4, comma 1>>. Secondo la decisione in esame tale disposizione ha carattere assolutamente eccezionale al punto che la giurisprudenza amministrativa ha stabilito che “il rinvio allo strumento della convenzione ex art. 5, l. n. 381 del 1991, finalizzato ad assicurare l’avviamento al lavoro di persone svantaggiate, non può consentire una completa deroga al generale obbligo di confronto concorrenziale in caso di utilizzo di risorse pubbliche per l'individuazione di un soggetto privato cui affidare lo svolgimento di servizi pubblici, per cui occorre il ricorso ad un confronto nel rispetto dei principi generali della trasparenza e della par condicio” (T.A.R. Liguria, sez. I, 27 giugno 2006, n. 695). Sempre secondo la decisione in commento, la perdita di chance - quella che la parte ricorrente avrebbe avuto se avesse potuto partecipare alla gara della cui mancata indizione si è lamentata - diversamente dal danno futuro, che riguarda un pregiudizio di là da venire soggetto a ristoro purché certo ed altamente probabile e fondato su una causa efficiente già in atto - costituisce un danno attuale che non si identifica con la perdita di un risultato utile ma si identifica con la perdita della possibilità di conseguirlo e richiede, a tal fine, che siano posti in essere concreti presupposti per il realizzarsi del risultato sperato, ossia una probabilità di successo maggiore del 50% statisticamente valutabile con giudizio prognostico ex www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 ante secondo l'id quod plerumque accidit sulla base di elementi forniti dal danneggiato. Sicchè “[...] al fine di ottenere il risarcimento per perdita di una chance è, quindi, necessario che il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, la sussistenza di un valido nesso causale tra il danno e la ragionevole probabilità della verificazione futura del danno e provi, conseguentemente, la realizzazione in concreto almeno di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta (Cons. Stato, sez. IV, 4 luglio 2008, n. 3340; T.A.R. Liguria, sez. II, 11 aprile 2008, n. 549; Cass. civ., Sez. Un., 27 marzo 2008, n. 7943). 10) T.A.R. Sardegna, sez. I, 11 dicembre 2008, n. 2158 Pres. Silvestri - Est. Flaim (Sulla violazione del principio dell’anonimato nelle procedure concorsuali) Secondo la decisione in commento, in mancanza di disposizioni di bando vincolanti (uso di un certo tipo di penna, di un certo colore) o operative (fornitura del materiale da parte della Commissione), l’utilizzo “promiscuo” di penne “private” nera o blu da parte di un candidato in una procedura concorsuale non può portare alla esclusione del medesimo. L’uso promiscuo delle due penne (blu e nera) non può essere qualificato – detto in altri termini – oggettivo “segno di riconoscimento”, non potendosi in esso rinvenire quella espressione di volontà di caratterizzare l’elaborato in modo tale che uno o più commissari potessero riconoscere l’elaborato ed attribuirlo al concorrente. Secondo il Collegio, infatti, l’uso promiscuo delle penne è, invece, anche spiegabile in termini molto più semplici e banali: che il concorrente avesse deciso di elaborare la “bella copia” con la penna nera e che, in corso di scrittura, la penna biro (non fornita dalla commissione) si sia esaurita, con conseguente necessità di continuare il tema con altra penna. La circostanza che il candidato avesse, a quel punto, a disposizione non più una penna nera, ma una penna blu non poteva far trarre alla commissione la conseguenza dell’esclusione. Tale elemento non poteva cioè essere considerato un oggettivo ed inequivocabile segno di riconoscimento. Ed invero, come evidenziato dalla giurisprudenza, “nelle procedure concorsuali la regola dell'anonimato degli elaborati scritti, benché essenziale, non può essere intesa in modo tanto assoluto e tassativo da comportare l'invalidità delle prove ogni volta che sussista la <mera possibilità di riconoscimento>, atteso che non si potrebbe mai escludere a priori la possibilità che un commissario riconosca la scrittura di un candidato, sebbene il relativo elaborato sia formalmente anonimo; ne discende che la regola dell'anonimato deve essere intesa nel senso che l'elaborato non deve recare www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 alcun segno che sia «in astratto» ed «oggettivamente» suscettibile di riconoscibilità” (cfr. T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 10 giugno 2008, n. 642; T.A.R. Basilicata, 11 luglio 2007, n. 489); “solo gli elementi, o segni, che per la loro particolarità ed estraneità alle ordinarie modalità di svolgimento delle prove di un concorso lascino presumere la volontà di conseguire il risultato dell'identificazione del candidato possono essere considerati come segno di riconoscimento e, quindi, sufficienti a giustificare la determinazione d'esclusione del medesimo dalla procedura concorsuale” (cfr. T.A.R. Sardegna, 15 luglio 1999, n. 943) . 11) Cassazione civile, Sezioni Unite, 23 dicembre 2008, n. 30254 Pres. Carbone, Est. Vittoria 12) T.A.R., Campania, Salerno, sez. I, 4 dicembre 2008, n. 3999 Pres. De Leo, Est. Valligiano (In materia di c.d. “pregiudiziale amministrativa”) La decisione del Giudice amministrativo campano consente di ripercorrere le tappe salienti riguardanti il dibattito giurisprudenziale circa la c.d. “pregiudiziale amministrativa”, dibattito caratterizzato dal netto contrasto di posizioni tra le Sezioni Unite della Cassazione e l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e con esso della prevalente giurisprudenza amministrativa. La Suprema Corte Cassazione civile, Sezioni Unite, 1° giugno 2006, n. 13028, ha premesso che, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale nn. 204/2004, 281/2004, nonché per effetto dell’art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 80/1998 e della l. n. 205/2000, il principio di precostituzione del giudice naturale imposto dall'art. 25 Cost. impone di decretare la giurisdizione amministrativa sulla domanda risarcitoria derivante da illegittima attività provvedimentale (con i temperamenti e con le esclusioni discendenti dalla sentenza della Corte cost. n. 191 del 2006), essendo la tutela risarcitoria non dipendente da quella demolitoria, ma complementare ed aggiuntiva ad essa. Come corollario, sempre le Sezioni Unite, hanno sottolineato come nessuna legge preveda la pregiudiziale amministrativa; pertanto il giudice amministrativo che non esamini la domanda risarcitoria “secca”, assumendone l'inammissibilità in ragione della mancata impugnazione dell'atto amministrativo, neghi giustizia al ricorrente (con parallela necessità di cassare con rinvio al giudice amministrativo tutte le statuizioni di tal fatta) e, soprattutto, che l'azione risarcitoria non è soggetta a decadenza, ma a prescrizione, non potendosi per ciò solo farne dipendere l'accoglimento dalla richiesta di annullamento di un atto, proponibile al contrario nel termine decadenziale prescritto dalla legge (cfr. Cass. civ., Sez. Un., ordd. 13 giugno 2006 n. 13659 e n. 13660). www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 Peraltro, con ordinanza 15 giugno 2006, n. 13911, le Sezioni Unite hanno precisato che compete al giudice amministrativo dotare di tutela le situazioni soggettive del privato sacrificate dall'illegittimo esercizio del potere amministrativo (come chiarito da Corte costituzionale, sentenza n. 77/2007) e tra tali forme di tutela rientra il risarcimento del danno. Con altra ordinanza (Sezioni Unite, 16 giugno 2006, n. 13918), la Cassazione ha ammonito che il cittadino è libero di ricorrere o alla doppia tutela (annullamento e risarcimento), da contestualizzare presso il solo giudice amministrativo, ovvero alla sola tutela demolitoria o risarcitoria tutte le volte in cui si discuta su pregiudizi insorti dall'esercizio del potere pubblico. Secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 26 febbraio 2003 n. 4, invece, "una volta concentrata presso il giudice amministrativo la tutela impugnatoria dell’atto illegittimo e quella risarcitoria conseguente, non è possibile l’accertamento incidentale da parte del giudice amministrativo della illegittimità dell’atto non impugnato nei termini decadenziali al solo fine di un giudizio risarcitorio. L’azione di risarcimento del danno, infatti, può essere proposta sia unitamente all’azione di annullamento sia in via autonoma, tuttavia l’azione di risarcimento è ammissibile solo a condizione che sia stato impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che sia stato coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento, in quanto il giudice amministrativo non ha il potere disapplicare atti amministrativi non regolamentari (cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 12 agosto 2004, n. 5558; 8 marzo 2005, n. 946; 25 luglio 2006, n. 4645). Le successive Adunanze plenarie, 30 luglio 2007 n. 9 e 22 ottobre 2007 n. 12, hanno perentoriamente rimarcato l'impossibilità di considerare la pregiudiziale una questione di stretta giurisdizione, avendo chiarito la necessità di accertare preventivamente l'illegittimità dell'azione amministrativa per potere poi risarcire il danno ingiusto prodotto dalla medesima. Pertanto, se l'atto può essere annullato per illegittimità soltanto laddove il privato lo impugni nei termini di legge, ove questi non lo impugni non può essere emessa alcuna pronuncia di annullamento con logica preclusione di pervenire ad una liquidazione del danno eventualmente lamentato. In tal senso coopera una ragione fondamentale, la qualificazione della tutela risarcitoria accordata dall’art. 7, comma 3, l. n. 1034/1971, come tutela "ulteriore"" a quella, di tipo ripristinatorio, offerta dall’annullamento dell’atto amministrativo (in tal senso, Cons. Stato, sez. VI, n. 3338/2002, avallata da Ad. Plen. n. 4/2003). Tale tutela è preclusa nel caso in cui il destinatario del provvedimento non abbia e non possa più accedere alla tutela principale, rappresentata dall’esercizio dell’azione di annullamento. A sostegno della posizione del massimo consesso della giurisprudenza amministrativa interviene il connotato essenziale della nozione di interesse legittimo, che consiste in una posizione di vantaggio la quale non attribuisce direttamente il bene ma riconosce poteri idonei a realizzare l’interesse al bene in via indiretta e mediata, tramite la tutela dell’interesse pubblico ed il conseguente corretto esercizio dell’azione amministrativa. www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 La violazione di quest’ultimo non può che essere contestata nel breve termine di decadenza previsto dall’ordinamento quale precipitato della generale regola della certezza dei rapporti di diritto pubblico, in forza della quale il superamento della decadenza implica che la decisione dell’amministrazione diviene inoppugnabile, ancorché illegittima, vincolante ed incontestabile nei confronti sia dell’Amministrazione (fatte salve le ipotesi di rimozione in autotutela, che costituiscono strumento di più efficace perseguimento dell’interesse pubblico) sia del privato. L’abbandono del principio di pregiudizialità sarebbe, secondo il Giudice amministrativo campano, incompatibile con la stessa natura dell’interesse legittimo, espressione caratteristica di un sistema "che tutela l’interesse pubblico attraverso la soddisfazione di quello privato" (T.A.R. Puglia, Lecce, sentenza n. 3710/2006) e a tal fine attribuisce la presunzione di legittimità ed il carattere definitivo agli atti amministrativi oltre il breve termine decadenziale. Di tutt’altra opinione sono le Sezioni Unite della Cassazione. Merita di essere segnalato, infatti, che la recentissima sentenza della Cassazione civile, Sezioni Unite, 23 dicembre 2008, n. 30254 – giudicando sui ricorsi avverso la decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 12 del 2007, li dichiara inammissibili ma – ribadisce il principio di diritto, enunciato nell’interesse della legge ai sensi dell’art. 363 c.p.c., secondo cui, proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall’esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l’illegittimità dell’atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento. Le Sezioni Unite, nel dare continuità all’indirizzo inaugurato nel 2006 (dalle citate ordinanze n. 13659, 13660 e 13911), danno conto dell’evoluzione del concetto di giurisdizione, dovuta a molteplici fattori (il ruolo centrale della giurisdizione nel rendere effettivo il primato del diritto comunitario; il canone dell’effettività della tutela giurisdizionale; il principio di unità funzionale della giurisdizione nella interpretazione del sistema ad opera della giurisprudenza e della dottrina; il rilievo costituzionale del principio del giusto processo; l’ampliarsi delle fattispecie di giurisdizione esclusiva, ecc.), e della conseguente mutazione del giudizio sulla giurisdizione rimesso alla Suprema Corte, tradizionalmente inteso a livello di pura qualificazione della situazione soggettiva dedotta, alla stregua del diritto oggettivo. Infatti, giurisdizione, nella Costituzione (artt. 24, 111 e 113 Cost.), è termine che va inteso nel senso di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi e, dunque, in un senso che comprende le diverse tutele che l’ordinamento assegna ai diversi giudici per assicurare l’effettività dell’ordinamento. E’ norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale (ripartito tra i diversi ordini di giudici a www.ildirittoamministrativo.it Osservatorio giurisprudenziale di diritto amministrativo n. 1/2009 seconda del tipo di situazioni soggettive e di settori di materie), ma anche quella che dà contenuto a quel potere stabilendo le forme di tutela attraverso le quali esso si estrinseca. Pertanto, rientra nello schema logico del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione, rimesso alle Sezioni Unite, l’operazione che consiste nell’interpretare la norma attributiva di tutela, onde verificare se il giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost., la eroghi concretamente, e nel vincolarlo ad esercitare la giurisdizione rispettandone il contenuto essenziale.