considerazioni sulla poesia “venerdì santo” di filippo salvatore

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considerazioni sulla poesia “venerdì santo” di filippo salvatore
Journal of Teaching and Education,
CD-ROM. ISSN: 2165-6266 :: 1(7):21–25 (2012)
c 2012 by UniversityPublications.net
Copyright CONSIDERAZIONI SULLA POESIA “VENERDÌ SANTO” DI FILIPPO
SALVATORE
Nicoleta Călina
Università di Craiova, Romania
Venerdì Santo è una poesia scritta dal poeta contemporaneo Filippo Salvatore, docente di
italiano presso la Concordia University in Canada. Il poeta finge di essere una giovane
moldava emigrata a Montreal che cerca di dare un significato alla sua ricerca di identità ed un
senso alla sua vita di esule. In realtà, si trattava di una Elena, mia connazionale, penso che
infatti da quella terra oltre il fiume Prut, persa da noi all’inizio della Seconda Guerra Mondiale
che si chiama Bessarabia e che anche oggi, nonostante la sua indipendenza dopo il crollo del
grande Impero Rosso, vive un drammatico destino.
Elena, quindi, sarebbe una immigrante da quelle parti e la lirica di Filippo Salvatore, egli
stesso protagonista non meno drammatico, c’è da ipotizzare, di un esilio, ugualmente
volontario, si presentava, tramite una prima lettura trasversale, con una doppia chiave
interpretativa: da un lato, una specie di resoconto di una pagina sconvolgente del destino di
una giovane del presente coinvolto in tante insidie inquadrabili ad un paradigma, storico ed
esistenziale, che abitualmente si identifica, con tutta la confusione di un concetto ancor da
chiarirsi, al postmoderno.
Keywords: lirica italiana, Identità, Immigrazione.
Prima di entrare nel merito del mio intervento, mi sembra più che utile invocare due motivi –
come punti di riflessione e non solo – che hanno presidiato la decisione di scrivere sulla poesia di
Filippo Salvatore. Aggiungo subito che tutti i due stanno per denunciare una parte, piccola ma
incitante, di una specie di perplessità, direi, dotata sottofondo di un germoglio creativo.
Il primo motivo si collega ad una esperienza poetica del Nostro, avvenuta qualche anno fa,
quando Filippo Salvatore scriveva una lirica italiana che noi abbiamo tradotto in romeno, dal
titolo Venerdì Santo e con una dedica: Ad Elena. Il poeta finge di essere una giovane moldava
emigrata a Montreal che cerca di dare un significato alla sua ricerca di identità ed un senso alla
sua vita di esule. In realtà, si trattava di una Elena, mia connazionale, penso che infatti da quella
terra oltre il fiume Prut, persa da noi all’inizio della Seconda Guerra Mondiale che si chiama
Bessarabia e che anche oggi, nonostante la sua indipendenza dopo il crollo del grande Impero
Rosso, vive un drammatico destino.
Elena, quindi, sarebbe una immigrante da quelle parti e la lirica di Filippo Salvatore, egli
stesso protagonista non meno drammatico, c’è da ipotizzare, di un esilio, ugualmente volontario,
si presentava, tramite una prima lettura trasversale, con una doppia chiave interpretativa: da un
lato, una specie di resoconto di una pagina sconvolgente del destino di una giovane del presente
coinvolto in tante insidie inquadrabili ad un paradigma, storico ed esistenziale, che abitualmente
si identifica, con tutta la confusione di un concetto ancor da chiarirsi, al postmoderno.
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Da noi tradotta e pubblicata su una rivista romena, la poesia mi ha colpito per ciò che
delimiterei con l’espressione serena nostalgia: serena, in quanto l’intero dolore è filtrato tramite
il ricordo, donde un sottile gusto leopardiano col gioco della rimembranze, però nostalgia, cioè la
presenza, bensì nascosta, insinuante, di una vena tragica. E, certo, c’erano – ci sono – i ricchi e,
sorprendentemente documentati, riferimenti alla storia del nostro paese.
Eccomi arrivata, quasi casualmente, al secondo motivo di questo mio avvicinamento alla
poesia di Filippo Salvatore che coinvolge proprio un senso di ambiguità del nome Elena:
rimando alla celebre eroina omerica, ella stessa protagonista di un esilio più o meno volontario, e
contemporaneamente un nome diffuso nel mondo, quasi universalizzato.
***
Detto questo, sento il bisogno di spiegare il perché assumere Penelope a questa / queste Elena?
Innanzitutto, perché ci sono oggi tante Elena, in Italia, in Canada e ovunque protagoniste di una
simile avventura che ingloba decisioni bisognosi e dolorosi, ricerche drammatiche delle identità
lontane, dimenticate o addirittura perse, ma veramente perse una volta per sempre? Un
interrogativo, credo, ancora non innalzato alla sua solita dimensione, visto che siamo in tutti
testimoni più o meno colpevoli di un intero mondo in movimento da una parte all’altra della
Terra, soprattutto con queste ultime onde nord africane migratorie.
Allora, prima di portare l’ispiratrice della lirica Venerdì Santo al posto, come topos mitopoetico, di Penelope, ecco che, nelle righe che accompagnavano il documento, l’autore avanzava
questa incitante avvertenza: “Fingo di essere una giovane moldava emigrata a Montreal che
cerca di dare un significato alla sua ricerca di identità ed un senso alla sua vita di esule…”.
Certo, come ci assicura lo stesso poeta, la giovane esiste veramente; questo tentativo di
prendere il posto della protagonista, oltre il fatto che fa parte dell’essenza antica ed eterna del
poetare, siccome il poeta in veste di piccolo demiurgo del mondo che sta portare alla luce, il
tentativo, dicevo, mette al lavoro un duplice meccanismo di pensare e trarne delle soluzioni sul
mondo attuale: sottrarre al processo di globalizzazione la parte, per così dire, peggiore e cioè il
rischio di una omologazione quanto facile tanto pericolosa e conferirle il significato più
accettabile e proficuo, quello che si potrebbe chiamare, con una fortunata espressione, l’identità
del diverso. Nient’altro che una delle eterne mire della poesia da Orfeo fin’oggi; e nello stesso
tempo, l’argomento, questo della identità, il più attuale, direi urgente, nel mondo in cui viviamo
bombardato di una maniera allarmista da tante ipotesi – e scommesse – sul suo fine apocalittico
che, per ora, segnala soltanto queste grandi e gravi mosse di esodo.
***
Ritorno alla Penelope, pacificata nella sua infinita, eterna, forse, attesa di cui sigla e simbolo
divenne: di fronte a tanti “promessi sposi”, per dire, una specie de don juani protostorici, che
fare? Tessere, certo, una tela, a sua volta, infinita, proponendo così una delle più fortunate
metafore del atto creativo poetico per eccellenza; e ricordare (ancor una volta rimembranze) il
bel tempo in cui suo marito, Ulisse, quindi, sognava soltanto alla sua avventura di peregrino per
il mondo sconosciuto in cerca della strada verso la casa.
Per la nostra Elena, protagonista della lirica di cui ci occupiamo, presa da ricordi non per
caso in un Venerdì Santo, momento di forte e sconvolgente attesa, il solo rimedio per pacificare
l’angoscia è il ripercorrere eventi storici del proprio paese, in un’atmosfera fredda, invernale,
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dove la stagione non pare propriamente una “reale”, del posto, ma appunto uno stato del perduto
luogo di nascita, con il sorriso della madre incapace a combattere il duro senso della lontananza:
O come sibila il vento e sferza il vetro,
o come sbattuti cadono dal cielo
i fiocchi di neve che a mulinelli
s’avvitano attorno agli aceri nudi;
o come ricamano, caduchi diamanti,
il rettangolo della mia finestra!
e subito l’invocazione della madre come un grido della cui disperazione neanche il volto caro
resuscitato nel ricordo non riesce a spengere gli accenti:
Quanto triste, madre, in questa
veglia è il viver mio di esule
che pane salato d’altri mangia
e nascoste lacrime versa
e sogna il tuo sorriso perso!
Abbiamo, da un lato, la veglia dell’io poetico figurato al femminile, topos per inquietudine e per
attesa con e senza speranza, dall’altro lato, la vigilia, per la morte e per la resurrezione del figlio
del Padre Nostro e, in questo contesto, la confusione-sostituzione tra madre mortale e la Vergine
Madre, come figlia di tuo Figlio, riunisce i piani genericamente ontici: il piano terrestre, ovvio
mondano, e il piano cosmico.
Aggiungo che, di quanto sia riuscita a percorrere soltanto una parte della poesia di Filippo
Salvatore, questo binomio terrestre–cosmico mi pare uno dei veri nessi della sua ars poetica. Non
sta da scopo della mia questa relazione identificare e tanto meno approfondire la problematica
della sua poesia, però vorrei indicare, almeno come semplici indizi di futuri approcci, una
genealogia, di natura tematica e stilistica, che va da Ovidio e soprattutto da Lucrezio, e arriva
fino a Pasolini e Zanzotto, senza dimenticare Foscolo e Leopardi e senza non integrare, in un
augurale discorso meta-poetico, solidi riferimenti di una cultura polimorfica.
Ritorniamo alla lirica Venerdì Santo, al momento in cui, con l’invocazione della Vergine
risorge, ecco, nel ricordo le prime facce di un reale sommerso, in forma di il mare giallo dei
girasoli ondeggianti/ nella brezza di giugno nelle distese pianure / lungo le rive del Prut che
limpido sgorga / dalle vette ancora bianche dell’Hoverla!; Prut è il principale fiume che
attraversa la parte del Nord-est della Romania, dal Nord al Sud e che, dalla annessione della
Bessarabia dall’URSS, divenne per più di cinquanta anni, un confine, quanto artificiale tanto
risentito tragicamente dagli abitanti di qua e di là da esso.
Da qui, il discorso poetico si sta concentrando in due direzioni: si carica, da una parte, di
tutto il senso pasquale, con la diffusa e nota simbolistica, ma che risveglia dentro l’anima
dell’attante lirico stati drammatici di sensibilità e di coscienza, e dall’altra parte, si affacciano
davanti ai suoi occhi rifiutati dal sonno momenti famosi e gloriosi della storia del paese nativo,
come se tutto questo articolasse un terrificante sforzo di riassumere, in se stessa, qualche reperto
per salvare qualcosa di una identità che sta per perdersi.
Toponimici come PocuĠia, Cetatea de Baltă, Bucovina, Transilvania, Basarabia, Baia,
Suceava, Iaúi, Chiúinău, ğara de Sus úi ğara de Jos, quasi tutte conservate come tale nel
linguaggio della lirica e si fanno degli echi di una sofferenza presente e insieme una specie di
pretesto a riaccendere il filo della speranza che sembrava definitivamente sepolta.
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Non potevano mancare, nel percorso che una memoria ritrovata pienamente d’ora in poi,
grandi nomi dei voivodi-principi moldavi, transilvani e valacchi, come Bogdan e Dragoú, i
fondatori dei primi principati del Nord della Romania attuale, Stefano il Grande, Alessandro il
Buono, Michele il Bravo e gli altri, fino a Cuza, il principe della prima Unione delle due
province romene nel 1859.
E così, il discorso – la tonalità – cambia passando, con la fine della “tormenta” (quella del
fuori, naturale, e anche quella interna, dentro l’anima), tramite quasi nelle braccia del sonno, ad
affrontare, sempre sotto il segno degli interrogativi più forti, le insidie del destino umano.
L’interrogativo di partenza, per così dire, Perché, madre, m’hai messo al mondo?, fa da
controparte allo stato presente dell’esistenza, e cioè la condizione di esule: Chi sono, espatriata,
in terra straniera?
È il momento in cui, all’impatto coll’interrogativo che assume, anche se indirettamente, un
peso ancestrale che incombe sulla condizione umana in genere, il discorso divide di una maniera
più chiara le parti dell’identità: l’attante poetico si compiace, diciamo, nell’apprendere in se
stesso, facendo finta di possibili origini, etnie, in una specie di opposizione ad ogni tentazione
segregazionistica, tante identità dissipate ovunque, ma sempre partire dal luogo della sua origine;
restando “figlia” della madre, si adopera, come “innesto”, altre radici, illiriche, daciche, latine,
valacche, slave, unniche, turche, tartare, ebree e via discorrendo, e tutto al di fuori degli simboli
religiosi, vari, certo, dalla croce romana e bizantina, alla falce di luna del Profeta e la stella di
Davide, sopra di cui si diffondono gli odori di fiumi, non meno vari, da Tevere a Danubio e
Volga, configurando, così, punti cardine di un mondo oltre limite; un mondo, per dire,
globalizzato, un, forse, villaggio globale del canadese Marshall McLuhan, in cui l’identità non è
più un problema di garanzia, di stabilità, o di certezza, ma uno di continua e drammatica ricerca.
Il ritorno, occultati insieme sonno e ricordo, al presente, in cui incombe l’attimo del vissuto
con le sue solite insidie quotidiane, non ha più le stesse tensioni, ha perso di peso della forza
interrogativa, segno di una pacatezza riconquistata che non è neanche di niente rassegnazione; è
piuttosto una specie di accettazione serena di un destino comune condiviso con tutti i vicini
mortali, saltimbanchi di tanti meridiani, visi diversi, in quanto spinti dalla stessa fame, però
anche atletici sciacalli che si nutrono di sangue,/ immemori della morte e della resa dei conti…
Proprio in questa prospettiva, appare la figura di Ulisse ed evocazione della sua Itaca, con un
plurale e con un suffissoide che fa ancora di più forte l’ambiguità del significato: gli ulissidi, sì,
stufi di piccole Itache.
In questo gioco di parole, frutto di un poeta per cui la poesia non è più un semplice
verseggiare e nemmeno faticoso sperimentalismo di puro mimetismo, postmoderno o altro, ma
un atto creativo generativo di mondo, o di mondi in grado di offrire, in base a interrogativi gravi,
delle risposte alle nostre illusioni, delusioni, entusiasmi, frenesie, ma anche derelizioni
esistenziali.
Filippo Salvatore1 si iscrive nella tradizione antica e insigne dei poeti per i quali poesia
significa, oltre e prima di qualsiasi gusto divertente, un affrontare il mondo e la condizione
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Nato a Guglionesi (Molise, Italia) nel 1948. Si trasferisce nel 1964 a Montreal, in Canada. Completa il B.A. in
letterature europee e storia (McGill University, Montreal), il M.A ( 1972) e il Ph. D. in Romance Literartures (
Harvard University, Cambridge, Massachusetts). È Associate Professor di Italian and Italian-Canadian Studies alla
Concordia University di Montreal. È stato Distinguished Visiting Professor presso la University of Alberta in
Edmonton e Professore invitato all'Università di Varsavia in Polonia.È stato direttore della Samnium Summer
School presso l'università degli Studi del Molise e presso l'Università dell'Aquila in Abruzzo. Ex presidente
dell'APIQ (Associazione Professori d'Italiano del Quebec) e parte dell'esecutivo dell'AIPI (Associazione
Internazionale Professori d'Italiano). È stato anche Vice-presidente dell'ICWA ( Italian-Canadian Writers
Association), e fa parte del comitato scientifico della Casa di Dante in Abruzzo. È direttore responsabile della
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umana, non solo tramite la magia della parola sottratta o no alla sua semantica di dizionario, ma
caricata col ricco e diverso succo di una cultura filtrata con la fantasia gestante di acutissime
problematiche.
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della Fondazione Giovanni Agnelli / Centro Altreitalie, Torino.
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Salvatore, Filippo (1990), Discoverism in the Work of Italian-Canadian Historians, in «Writers in transition:
the proceedings of the First National Conference of Italian-Canadian Writers», Guernica Ed., Montreal.
rivista trimestrale trilingue Panoramitalia edita a Montreal ed opinionista per il quotidiano telematico
Newsitaliapress. È stato membro del Conseil de la Langue Francaise del Quebec, vice presidente del Congresso
Nazionale degli Italo-Canadesi (RQ) e consigliere municipale della Ville de Montréal.
I suoi interessi e le sue ricerche vanno dalla storia della scienza alla nascita del femminismo europeo a
Venezia nel primo Seicento, dal cinema italiano alla storia della presenza italiana in Canada,di cui è considerato
uno dei maggiori esperti. Ha contribuito a numerose riviste accademiche tra cui Renaissance and Reformation,
Dante Studies, Quaderni d'Italianistica, Rivista di Studi Canadesi, La Critica Sociologica etc.
Giornalista, saggista, poeta, scrittore di teatro, è autore di oltre 50 pubblicazioni accademiche, di oltre 500
articoli di giornale, e dei seguenti volumi: Antichi e oderni i Italia nel Seicento, Scienza ed Umanità, Ideologie e
Civiltà, Tra Molise e Canada, Tufo e Gramigna, La Fresque de Mussolini, Le Fascisme et les Italiens à Montréal,
Ancient Memories, Modern Identities, Italian Roots in Contemporary Canadian Authors, Le Cinéma de Paul Tana
(con Anna Gural). Fa parte di numerose antologie sulla presenza letteraria italiana in America del Nord. Il suo
pensiero e la sua produzione poetica sono state studiate in diverse tesi scritte da studenti sia in Canada che in Italia.
Nel 2004 è stato insignito per meriti culturali dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi del titolo di Cavaliere della
Repubblica Italiana. La poesia Venerdì Santo è inedita e fa parte del volume Terre ed Infiniti.