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L`Algeria di Waciny Laredj: letteratura, identità e
Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica
maggio
2012
L'Algeria di Waciny Laredj tra letteratura, identità e memoria
a cura di Jacopo Granci
L’intervista è stata realizzata a Venezia il 23 marzo 2009, in occasione della conferenza “Algeria
oggi, vincoli e cambiamenti”, organizzata dall’Università Ca’ Foscari di Venezia in
collaborazione con Merifor (Centro mediterraneo di ricerca e formazione). Waciny Laredj era
uno degli ospiti, chiamato ad esporre sulla genesi e le prospettive del romanzo algerino.
Jacopo Granci: Ci troviamo in compagnia di Waciny Laredj, scrittore prolifico, giornalista e
professore universitario a Parigi ed Algeri, esponente di spicco della classe intellettuale algerina
post-indipendenza.
Waciny Laredj, quali scrittori e quali opere letterarie hanno contribuito alla sua formazione e quali
hanno condizionato il suo cammino, conducendolo fino al cuore della letteratura algerina
contemporanea?
Waciny Laredj: Il mio percorso di formazione può essere considerato atipico; ho vissuto in un
piccolo villaggio nella regione di Tlemcen, dove non potevo studiare la lingua araba. Il francese era
la lingua nazionale e l‟utilizzo dell‟arabo era vietato dalla legge; solo l‟apprendimento della lingua
francese era possibile e c‟erano infatti scuole francesi, miste, volte a questo compito. Tuttavia ho
avuto la fortuna di trascorrere i primi anni della mia vita accanto a mia nonna, una donna fiera delle
proprie origini arabe, oltre che di quelle andaluse. Ha fatto in modo, a tutti i costi, che io imparassi
la lingua araba. L‟unica possibilità era frequentare la scuola coranica ed è lì che ho appreso il
Corano, ho conosciuto la religione islamica, ma soprattutto ho imparato a leggere e scrivere (in
lingua araba). Per mia nonna, a cui ero molto legato, questo era un traguardo importante e quindi ho
deciso di seguire i corsi della madrasa. Ciò mi ha permesso di avere una formazione più ricca, dal
momento che al mattino frequentavo la scuola coranica, dove apprendevo l‟arabo, e al pomeriggio
la scuola francese, come la maggioranza degli altri miei coetanei. Ho potuto così progredire
parallelamente all‟interno delle due culture, quella araba, la cultura a cui appartengo, e quella
universale, grazie agli insegnamenti della scuola francese. Negli anni in cui sono stato costretto a
portare avanti i due studi, in parallelo, non mi rendevo conto dell‟importanza che avrebbe avuto una
tale decisione per il mio futuro, importanza che ho compreso a pieno solo qualche decennio dopo.
Posso confermarlo qui, ora, con la più assoluta certezza.
In questa sorta di primo viaggio iniziatico, in questa prima immersione in un contesto
plurilinguistico e dunque multiculturale, ho avuto subito un incontro folgorante con due opere
letterarie che hanno segnato profondamente il mio cammino. Il primo testo era Le mille e una notte,
scovato all‟interno della scuola coranica, per sbaglio, tanto che all‟inizio lo avevo scambiato per il
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Corano stesso, anche se poi, proseguendone la lettura, ho capito che si trattava di tutt‟altra cosa. Un
incontro formidabile, che mi ha dato la possibilità di scoprire un‟altra lingua araba rispetto a quella
del Corano. Infatti, pur essendo utilizzato lo stesso strumento linguistico, le tematiche affrontate
erano ben differenti e di conseguenza il modo di servirsi della lingua. L‟altro testo su cui ho avuto
l‟onore ed il privilegio di imbattermi fin dalla tenera età è Don Chisciotte della Mancha. L‟ho letto
nella traduzione francese, per questo parlavo prima di accesso alla cultura universale. Cervantes è
diventato subito un punto di riferimento, in cui potevo ritrovare contemporaneamente la cultura
araba e la cultura spagnola, europea, in una parola il mio background.
Se ci rifacciamo alla storia, infatti, scopriamo che Cervantes, all‟inizio del XVI secolo, fu
intercettato dai corsari del Dey durante il viaggio di ritorno dall‟Italia verso la Spagna. Questi lo
condussero forzatamente ad Algeri, dove lo scrittore rimase cinque anni della sua vita, come
prigioniero. Gli fu concessa, tuttavia, una certa libertà di movimento, che gli permise di viaggiare e
scoprire Algeri a poco a poco. Quando Cervantes tornò in Spagna scrisse una grande opera, il Don
Chisciotte, dove ci sono tre o quattro capitoli interamente consacrati al porto corsaro. E‟ possibile
vedere l‟immagine della città riflessa nelle sue parole, ben inteso l‟Algeri del XVI secolo. Tale
scoperta mi ha dato la forza per aprirmi verso questa cultura, arrivando a poco a poco perfino ad
apprendere lo spagnolo. Ma soprattutto mi ha gratificato. Avevo coronato il desiderio di mia nonna:
imparare la lingua araba, oltre a quella francese, pur non perdendo l‟attaccamento alle mie
molteplici origini, incluso quella andalusa.
Il Don Chisciotte, ripeto, mi ha rinviato direttamente alle mie origini, oltre che al patrimonio
letterario mondiale, universale, accessibile in quegli anni (per un algerino) solo attraverso la
conoscenza della lingua e della cultura francese. Questa lingua mi ha permesso di cogliere quanto di
buono c‟era nella sua cultura ma, allo stesso tempo, anche tutto quello che di negativo veniva
ereditato e trasmesso. Bisogna sempre riconoscere e saper cogliere, in questi casi, quello che c‟è di
buono in un patrimonio culturale diverso dal nostro.
J. G. : Qual è stato precisamente il suo percorso di studi?
W. L. : Mi sono laureato in Letteratura araba all‟Università di Orano. La mia tesi fu sulle tendenze
del romanzo algerino in lingua araba, mentre a Parigi ho lavorato poi sulla teoria del personaggio
nella letteratura algerina in lingua francese. Un percorso equilibrato, si può dire che ho sempre
mantenuto il piede nelle due staffe.
J. G. : Cosa significa per lei scrivere romanzi? In altre parole, come valuta il suo ruolo di scrittore,
da quali esigenze muove il suo lavoro e quali obiettivi tenta di raggiungere attraverso di esso? Per
esempio nel caso di una tra le sue ultime opere, Le livre de l’Emir?
W. L. : Prima di tutto si scrive perché si ha voglia di scrivere. Si scrive perché si prova piacere nel
descrivere e nel raccontare, ma ciò che è formidabile resta il fatto che attraverso la scrittura
possiamo inserirci in un immaginario. A volte lo troviamo di fronte a noi, basta prendere spunto
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dalla realtà di tutti i giorni, altre volte invece siamo noi stessi a costruirlo. Le faccio un esempio:
l‟immaginario storico, un aspetto su cui ho lavorato parecchio. Ho scritto un romanzo dal titolo La
milleseptième nuit, che riprende le vicende narrate in Le mille e una notte. Io ho fatto le Mille e una
notte più una settimana, ho aggiunto sei giorni, e in questi sei giorni io ho rielaborato la storia dal
mio punto di vista. Ho rielaborato l‟intero immaginario arabo-musulmano alla mia maniera, poetica
ma allo stesso tempo aggressiva.
Prendiamo il caso del personaggio principale in Le mille e una notte, Sherazad. Un certo genere di
orientalismo vedeva in Sherazad la rappresentazione dell‟immaginario femminile pronta a battersi
per mille e una notte contro Shahiriyar, rappresentazione dell‟immaginario maschile. Sto parlando
di un certo tipo di orientalismo, un orientalismo da “bazar” e non di un orientalismo intellettuale,
inteso come approccio culturale mirato alla condivisione e allo scambio. Dopo aver letto e riletto Le
mille e una notte, non sono riuscito a cogliere questo immaginario rivoluzionario in Sherazad. Anzi
sono giunto alla conclusione che Sherazad non sia altro che la rappresentazione femminile di un
dittatore, maschio, di nome Shahiriyar. Per mille e una notte Sherazad asseconda il tiranno senza
mai opporglisi veramente. Perciò ho aggirato il testo e ho dato spazio ad un altro personaggio,
Duniazad, la sorella di Sherazad, che in Le mille e una notte era rimasto su un piano secondario,
privo di un vero ruolo narrativo all‟interno del racconto. Douniazad si limitava a porre delle
domande e per me colui che si pone delle domande è colui che si interroga, è colui che dubita e
vuole capire. Colui che è disposto ad aprirsi verso altre cose rispetto a quelle conosciute fino a quel
momento. Perciò mi sono detto: “perché non dare la parola a Duniazad?”.
Nella mia rivisitazione è Duniazad che parla e che rimette in discussione quanto detto nella versione
originale del testo. Analizza in modo critico il periodo dell‟era arabo-musulmana che ruota attorno
all‟IX-X secolo d. C., puntando il dito su tutte le tirannie che esistevano in quel tempo e tutte le
ingiustizie che venivano commesse. Attraverso la voce di Douniazad ho voluto dare spazio alle
grandi battaglie per la giustizia sociale, alla rivoluzione dei neri che erano fatti schiavi dagli arabi,
insomma, ho cercato di inquadrare e di mettere in luce il panorama arabo-musulmano di
quell‟epoca attraverso i molteplici conflitti che aveva generato e non attraverso un‟immagine
idilliaca e del tutto fittizia.
Per me la scrittura è questo, è il piacere di intaccare una memoria, un immaginario, già sedimentato
e ritenuto intangibile, fornendo così l‟occasione di espanderlo e contaminarlo con un‟altra memoria,
un altro immaginario più giusto e, almeno dal mio punto di vista, più bello.
Lo stesso discorso può essere fatto nel caso del mio ultimo romanzo, che lei ha citato poc‟anzi, Le
livre de l’Emir o Kitab al-Amir. Le confesso che avevo una grande paura di scrivere questo
romanzo. Non era una paura politica, poiché sapevo che con questo libro non sarei comunque
riuscito a scalfire la rappresentazione ideologica dell‟Emiro alimentata ad arte dalle autorità
algerine. Una rappresentazione che fa di Abdelkader il simbolo politico e religioso da cui ha preso il
via la storia dell‟Algeria moderna e da cui continua ad attingere l‟ideologia nazionalista. Ho
deliberatamente ignorato questo aspetto, perché non mi interessava l‟immagine ideologica e politica
prodotta dalle istituzioni, diciamo pure prefabbricata. Per me Abdelkader resta l‟uomo del dialogo
tra civiltà e culture. L‟Emiro era mosso da una consapevolezza interiore che gli permise, durante un
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periodo di guerra feroce, di avere la forza per pensare ad altre soluzioni più umane e più avanzate
rispetto allo scontro bellico.
In Kitab al-Amir ho dato poi la parola ad un altro grande personaggio storico, monsignor Dupuch.
Fu il primo Vescovo di Algeri ad installarsi in città dopo l‟arrivo delle truppe coloniali, mi sembra
di ricordare nel 1836 o forse nel 1837. Dupuch riuscì a tessere una solida relazione con l‟Emiro
Abdelkader, tanto che fu lui stesso a difenderlo al momento della cattura di fronte a Napoleone III,
a cui si rivolse in questi termini: “voi non conoscete affatto quest‟uomo e non sapete cosa
rappresenta: al di là della guerra e delle battaglie combattute contro di noi, l‟Emiro è un
intellettuale, un pensatore acuto e un uomo di pace”. Monsignor Dupuch scrisse anche un libro, dal
titolo Abdelkader au Chateau d’Amboise, in cui descrive accuratamente la figura dell‟Emiro. Il
titolo del libro fece bonariamente sorridere Abdelkader il quale, rivolgendosi al Vescovo, affermò:
“mhm, Abdelkader au Chateau d’Amboise, magari si trattasse veramente di un castello…”, infatti si
trattava di una prigione, anzi di una vera e propria fortezza.
Per me sono questi gli aspetti importanti del mio mestiere, la forza della scrittura sta nel dire tutto
quello che non si ha avuto ancora il coraggio di affermare sul piano dell‟analisi storica. Come le
dicevo, quando ho cominciato a scrivere il libro avevo paura. Non delle istituzioni, sia chiaro, bensì
dei lettori stessi. Per prima cosa il romanzo storico è già in sé una lettura difficile ed impegnativa,
dunque, se consideravo il pubblico, ero sicuro di perdere in partenza buona parte dei miei lettori. Il
secondo problema era confrontarsi con quella categoria di lettori che aveva già in testa un‟idea
distorta dell‟Emiro, un immaginario quasi sacralizzato che li portava ad affermare: “ecco una
persona straordinaria, che può aver fatto degli errori, ma li ha commessi sicuramente in buona fede”
(intendendo per errori i tentativi di dialogo con i coloni francesi e la chiesa cattolica). Ero
consapevole di tutte queste difficoltà, ma alla fine il risultato si è rivelato totalmente differente
rispetto alle aspettative. Mi immaginavo un cammino difficile e invece è stato il libro più letto tra i
miei pubblicati, quello che ha ottenuto il più grande numero di premi. E‟ stato sorprendente anche
per me. Non pensavo potesse suscitare tutto questo interesse nel pubblico, per me era importante
soprattutto scriverlo, bisognava distruggere un falso mito e ricostruirlo su altre basi, che non erano
assolutamente quelle religiose e identitarie.
J. G. : Questo frangente della vita dell‟Emiro Abdelkader è quasi completamente sconosciuto al
patrimonio culturale e storico occidentale; per recuperarne tutti i passaggi immagino che abbia fatto
un lavoro di ricerca vasto e faticoso.
W. L. : Ho dovuto vestire sia panni dello scrittore che quelli dello storico, seppur in maniera
provvisoria, dal momento che per scrivere un romanzo storico bisogna almeno conoscere bene i
fatti. All‟inizio mi sono trovato in grande difficoltà, poiché non riuscivo ad ottenere un numero di
informazioni sufficienti basandomi solamente sul lavoro già svolto da ricercatori e accademici. E‟
strano ma ogni volta che si arriva, sia nel caso degli storici francesi sia in quello degli storici
algerini (ho recuperato qualche documento perfino negli Stati Uniti), a trattare questa relazione di
amicizia tra l‟Emiro e Monsignor Dupuch non si trova scritto più di una sola riga, dove viene
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narrato brevemente l‟incontro tra i due personaggi per risolvere semplici questioni di prigionieri. Si
tratta solo di piccoli accenni, privi fra l‟altro di riscontro. Ho dovuto io stesso iniziare una nuova
ricerca storica, riuscendo infine a reperire una buona documentazione sulla vita del Vescovo di
Algeri, ad oggi pressoché sconosciuta.
Per tratteggiare il mio Dupuch, infatti, dovevo per prima cosa conoscere la sua vita. Non è mai stata
scritta una vera biografia su di lui, ma esiste un documento quasi biografico, scritto per mano di un
amico dello stesso Vescovo, nel quale vengono forniti innumerevoli dettagli sulla sua vita, anche
per ciò che riguarda l‟incontro con l‟Emiro, descritto in modo particolareggiato. Nel libro sono
riportati i carteggi intrattenuti tra l‟Emiro e Monsignor Dupuch.
La ricerca dei dati, delle informazioni e la rielaborazione del contesto su cui avrei poi inserito la
storia ha richiesto quattro anni di lavoro. Quattro anni di ricerche, di letture e poi di stesura, per
terminare quella che in realtà è solamente la prima parte dell‟opera. In Kitab al-Amir ho parlato dei
diciassette anni di combattimento in territorio algerino, dall‟inizio della colonizzazione fino
all‟arresto dell‟Emiro, al suo rilascio e al suo trasferimento a Smirne, nell‟attuale Turchia. La
seconda parte, ancora in cantiere, inizierà con il soggiorno dell‟Emiro in Turchia, poi con il suo
primo spostamento a Damasco e poi ancora con il trasferimento in Libano, anzi prima in Libano e
dopo a Damasco, fino alla sua morte. Ci sto lavorando già da due o tre anni, ma bisognerà
continuare ancora le ricerche e il lavoro di documentazione, e solo in seguito potrò iniziare la
stesura del romanzo.
J. G. : Parliamo un po‟ del suo unico romanzo pubblicato fino ad ora in Italia, La guardienne des
ombres o Don Chisciotte ad Algeri (Mesogea, Messina, 1999). Dalle sue parole emerge una
conoscenza profonda e un sentimento di appartenenza molto forte nei confronti di Algeri, pur non
essendo questa la sua città natale. Qual è dunque il suo rapporto con “Alger la blanche”?
W. L. : In principio non era affatto un rapporto di amore, piuttosto di disamore. Non era la città che
amavo. Le preferivo di gran lunga Tlemcen, che è una città andalusa, oppure Orano, una città
meticcia arabo-ispanica. Non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti di Algeri.
I miei primi contatti con questa città furono brevi, ero quasi sempre di passaggio. Ma quando
terminai i miei studi in Siria mi ritrovai a lavorare proprio lì, nella capitale, e da quel momento il
mio rapporto con la città è cambiato. Non conoscevo bene Algeri e a poco a poco ho iniziato a
scoprirla veramente; per esempio, ho iniziato a frequentare la casbah, cercando di andare al di là del
mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano da quello che è la quotidianità della vita
in questo remoto angolo della città. Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella
dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Ho appreso le
storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio
Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant.
Tutto questo è servito a riconciliarmi con Algeri. La storia stessa della città è assai bizzarra se la
andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti tendenzialmente arabo-berbera, ma
in realtà fu governata per lungo tempo dai Turchi, e poteva capitare che lo stesso Rais non fosse né
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arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un “rinnegato”, come nel
caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha. Algeri è apparsa a poco a poco ai
miei occhi come l‟esempio paradigmatico della città meticcia, variegata e mescolata. Adoro questo
genere di contesti e mantengo viva la speranza che questa tipologia di mescolanza e meticciato
possa essere la base per la nascita di un qualcosa di positivo per l‟uomo in sé.
Conoscendola meglio ho potuto poi scrivere diversi testi su questa città. A questo proposito sto
preparando un bel libro illustrato, dal titolo Alger à moi, ossia l‟Algeri che mi appartiene, dove
mostro le piccole cose che vedo e che nessun altro può decifrare. Le faccio un esempio. In questa
Algeri getto lo sguardo su quella che pochi ancora conoscono come la “Grotta di Cervantes”. La
“Grotta di Cervantes”, che si trova a Belcourt, è stata abbandonata all‟incuria per un lunghissimo
periodo, ed io mi sono battuto sia con le autorità algerine sia con l‟Ambasciata spagnola e con il
Ministero della cultura spagnolo perché fosse riconosciuto un interesse nei confronti di questo
luogo, un interesse anche minimo. Proprio durante il periodo in cui scrivevo La guardienne des
ombres ero nel pieno della battaglia e il mio stato d‟animo si riflette nell‟opera, si percepisce la mia
delusione e la mia voglia di battermi perché questo scempio venga in qualche modo riparato. Nel
romanzo ho ricostruito un po‟ la storia stessa di questa grotta.
Un anno fa ho pubblicato poi un nuovo libro, intitolato Sur les traces de Cervantes, un testo ricco di
foto e immagini a cui ho lavorato dopo il mio breve soggiorno in Spagna. In questo caso ho fatto
una sorta di percorso inverso, in cui ho cercato di seguire le orme di Cervantes nella sua terra natale,
partendo dalla Cala de Anareste, dove nacque lo scrittore. Sono rimasto dieci giorni nei dintorni di
quella che fu la sua casa tra il XV ed il XVI secolo, in questa piccola magnifica cittadina, perché
quando ci si trova fisicamente in un luogo, il luogo stesso sembra emanare un odore che nessun
altro può sentire oltre alla persona intimamente coinvolta. Io ho percepito questo odore, questa
forza, questo attaccamento che mi legava allo spazio che era stato la culla di Cervantes. Per questo
poi ho scritto Sur les traces de Cervantes.
Tornando ad Algeri, questa città è dunque emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il
fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della storia di questa città che non sono ancora
state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere
dall‟oblio. C‟è ancora molto lavoro da fare e penso che nei prossimi anni potranno uscire altri testi
che riprenderanno lo spunto che ho fornito, e che ci aiuteranno a conoscere meglio la sua ricchezza
e la sua importanza.
Allo stesso tempo, tuttavia, permane in me uno spirito critico con cui, quando penso ad Algeri, non
posso far a meno di confrontarmi. Non c‟è solo l‟amore che mi lega ad essa. O meglio, quando si
ama qualcosa significa che ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non
c‟è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. E proprio in virtù del nostro
sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso questi aspetti,
diciamo negativi. Nel romanzo ho voluto mostrare questa negatività, questi lati oscuri facendoli
coincidere con la diffusione dell‟islamismo, un fenomeno che ha tentato di cancellare e distruggere
proprio quelle caratteristiche di apertura, ricchezza e multiculturalismo, che dal mio punto di vista
identificano meglio di ogni altra cosa lo spirito della città.
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Con questo libro ho voluto ribadire che l‟Algeria è stata da sempre un luogo di incontro, di
passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una
forza ed un elemento costruttivo, edificante. Tale aspetto è stato ignorato, o meglio combattuto
ferocemente da un islamismo che invece ha cercato di affermare l‟esistenza di un‟Algeria
integralmente araba e integralmente musulmana. Una assurdità dal momento che proprio in
territorio algerino si è assistito al passaggio di tutte le religioni, dall‟ebraismo, al cristianesimo,
all‟islam, al passaggio di culture come quella romana, francese, araba, oltre allo strato berbero
autoctono. Io mi identifico in tutto questo, in questa ricchezza. Se l‟identità algerina non riuscirà a
riappropriarsene, considerando la pluralità dei suoi elementi costitutivi come elementi positivi di
una identità in fieri, si continuerà ad evitare l‟unica strada possibile per esistere come Paese.
J. G. : Lei ha accennato al propagarsi dell‟ideologia islamista. Come è cambiato il suo rapporto con
Algeri dopo la diffusione del fenomeno integralista? Qual è ora il suo rapporto con la città, e in che
modo tale rapporto ha beneficiato della cosiddetta “riconciliazione”?
W. L. : Prima di tutto è bene mettere in chiaro che nel 1995, fui obbligato a lasciare Algeri.
Nonostante questo ho sempre cercato di conservare un rapporto stretto con la città, per puro amore
personale, anche se nel frattempo ho iniziato a lavorare stabilmente a Parigi. Tutto è partito da un
invito alla Scuola Normale Superiore di Parigi, che poi si è trasformato in una ulteriore serie di
inviti, fra cui quello della Sorbona, dove sono ancora oggi professore di letteratura. Ho sempre
cercato di combinare, mantenere legate le due cose, essere a Parigi, ma allo stesso tempo non
dimenticare Algeri, immergendomi nella cultura francese e francofona, ma restando fortemente
legato alla cultura araba e arabofona. Ogni anno impartisco un seminario ad Algeri, dal titolo “Il
romanzo arabo”, in cui affronto differenti tematiche, tra cui la definizione dell‟origine del romanzo
arabo, il suo sviluppo storico e le relazioni e i legami intrattenuti con le altre culture. Ogni volta
scopro che non viene mai meno l‟interesse e la curiosità fra gli studenti.
Anche durante il periodo delle violenze islamiste era così, la gente non ha mai rinunciato a pensare
e non ha mai rinunciato al desiderio di conoscere, alla volontà di sapere. Tale consapevolezza mi ha
dato forza; quando incontro questo genere di persone, studenti che vengono da molto lontano per
studiare e per assistere alle lezioni, facendo sacrifici e rischiando parecchio pur di frequentare un
seminario, trovo ancora spazio per la speranza. Per farle capire meglio le racconto un aneddoto, un
episodio che mi fa venire la pelle d‟oca ancora oggi quando ne parlo. Avevo una studentessa molto
giovane, di venticinque anni, che seguiva il mio seminario ad Algeri; io non mi ero reso conto che
veniva da molto lontano, anzi credevo abitasse nella capitale. Generalmente non domando ai miei
studenti da quale zona del Paese provengono; l‟unica cosa che posso dire è che sono dei buoni
studenti, dal momento che, per seguire questo tipo di seminario, devono avere già ottenuto la laurea
ed essere iscritti al dottorato. Un giorno una studentessa arrivò con gli occhi rossi, insomma si
vedeva che aveva dormito male e poco; venne a scusarsi, perché era arrivata in ritardo, e mi disse:
“mi scusi per il ritardo ma vengo da Setif”, vale a dire oltre trecento chilometri di distanza da
Algeri. Allora le chiesi: “ma a che ora sei partita da casa?”, e lei mi rispose: “ogni volta che vengo
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al seminario parto da casa alle tre di notte, e arrivo verso le nove, giusto in tempo per assistere al
seminario”. Era molto bella, ed io avevo una paura matta che gli islamisti la prendessero durante il
viaggio e la violentassero.
J. G. : Di quali anni sta parlando precisamente?
W. L. : Del ‟95 o del ‟96, perché anche dopo la mia partenza da Algeri ho sempre conservato i
contatti con la città e con l‟università. Non vivevo più lì e non avevo più il mio vecchio corso, ma
quando venivo per tenere i seminari, più o meno alla fine di ogni mese, telefonavo agli alunni per
fargli sapere in che giorni mi avrebbero trovato all‟università per la lezione. Questa studentessa era
sempre presente, ma dopo quel giorno le vietai di frequentare il seminario, specificando che mi
sarei preoccupato io stesso di inviarle i testi delle conferenze, pur di evitare il rischio di un viaggio
tanto lungo e insidioso. Ebbene, non volle sentire ragioni e mi rispose: “non posso non venire, il
seminario mi interessa e voglio assolutamente assistere alle sue lezioni”. Così terminò l‟anno non
perdendo nemmeno un corso. Poi ha proseguito gli studi e per fortuna è sopravvissuta indenne agli
anni delle violenze; ora è insegnante anche lei. Quando si è di fronte a tanto amore per il sapere, a
tanta voglia di conoscere, non si può far a meno di pensare: “Siete voi la mia vita, voi che siete
pronti a rischiare la vostra a soli venticinque anni per questo; non posso, io che ho già vissuto tanto,
rinunciare a quel che mi resta a causa della paura”. Questo mi ha concesso una forza enorme in
quegli anni difficili, e proprio per questo ho voluto conservare, pur rischiando molto, il mio posto
all‟università di Algeri e i contatti con questa città. Lo meritava assolutamente.
J. G. : Descrivendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero nei cinque anni di permanenza
forzata ad Algeri, sembra che lei abbia colto l‟occasione per criticare duramente quel processo,
definito di “sviluppo e ammodernamento urbanistico” dalle autorità, che in realtà ha ferito la città e
distrutto il suo antico splendore. Mi sto sbagliando o tutto questo era nelle sue intenzioni?
W. L. : In Don Chisciotte ad Algeri c‟è uno sguardo fortemente critico che stigmatizza la modalità
di sviluppo urbano e di edificazione dei palazzi nella città a partire dal periodo post-indipendenza.
Non è più possibile ritrovare l‟Algeri di un tempo. La bella città che era. La vecchia Algeri era così
costruita: c‟era la città coloniale e c‟era la città vecchia, la casbah. La casbah era un mondo a parte,
una realtà a sé stante, con una vita pressoché autonoma e animata da una logica totalmente
differente rispetto alla città “europea”.
Una volta partiti i Francesi tutto questo doveva essere conservato, almeno secondo me, dal
momento che tale dualismo ad Algeri era comunque un sistema rodato che funzionava bene, e allo
stesso tempo permetteva di preservare un habitat consolidato ormai da decenni, anzi da più di un
secolo. Ovviamente le decisioni prese dopo l‟indipendenza sono state ben altre, e a livello
amministrativo tutto questo ha innescato conseguenze assai negative. Per prima cosa la città è stata
conservata molto male, e la casbah è in uno stato avanzato di decadenza, pur essendo divenuta
patrimonio dell‟umanità protetto dall‟UNESCO. La casbah, che avrebbe avuto bisogno di una cura
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meticolosa per vedersi assicurato un buono stato di conservazione, non ha ricevuto le attenzioni che
meritava e non è stata protetta dal degrado. Quelli dell‟UNESCO e delle autorità algerine sono stati
proclami vuoti e formali, la realtà delle cose è ben distante, direi tragica: oggi la cittadella turca è
sull‟orlo dell‟autodistruzione dovuta all‟incuria. Un gran peccato.
E poi c‟è tutto quel che va oltre la città coloniale. Vale a dire tutte quelle costruzioni che sono sorte
attorno ad Algeri negli ultimi quarant‟anni. Io non sono un urbanista, ma quanto meno sono un
cittadino, un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Nel caso dello sviluppo urbano postcoloniale si è prodotto un autentico disastro. C‟è una nuova città che cinge completamente il centro
di Algeri, con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, non ci sono cinema, non
ci sono caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati
dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio, ecco cosa sono. Manca completamente
una logica urbanistica di fondo alla base di questa espansione della capitale, manca un vero piano
regolatore in grado di frenare lo sviluppo selvaggio di caseggiati e palazzi. Fuori dalla città europea
c‟è un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che
fanno di un insieme di case e palazzi una vero centro urbano. La nuova Algeri sta assomigliando
sempre più ad una bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che
dall‟aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a delle baraccopoli
mascherate di cemento.
J. G. : Nel romanzo Don Chisciotte ad Algeri lei ha utilizzato l‟espressione “giungla di cemento” a
questo proposito.
W. L. : Sì è proprio di una giungla di cemento che stiamo parlando. Ci sono distese infinite di
palazzi, a centinaia, ma all‟interno si ha quasi l‟impressione di essere perduti, senza punti di
riferimento o appigli. Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono
viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, l‟unica che è stata
costruita seguendo la logica della vivibilità. Una città vera. Nella città coloniale restano ancora un
bellissimo teatro, caffetterie decenti, sale da ballo, università, ci sono luoghi di incontro dove si può
condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece, in queste cité-bidonvilles che sono sorte
attorno ad Algeri, il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il
dilagare di un fenomeno come quello dell‟islamismo, è quanto di più normale possa succedere in
queste condizioni. Seguendo questa logica di analisi possiamo capire molto dell‟Algeri
contemporanea. Non è solo all‟aspetto esteriore della città che mi riferisco, ma alla maniera stessa
di pensare, di vedere le cose, e alla maniera di dare un senso allo spazio che si ha a nostra
disposizione. L‟unico senso che è stato dato a questo spazio comune, stando almeno a quanto è
emerso dagli anni passati fino ad ora, è purtroppo un senso religioso, e non un senso improntato al
piacere della conoscenza, alla condivisione o all‟apertura.
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J. G. : A proposito di urbanistica e di diffusione del fenomeno islamista, come possiamo definire
l‟esempio di Bab el-Oued?
W. L. : A Bab el-Oued le cose sono andate un po‟ diversamente, dal momento che questo quartiere
rientra comunque nell‟area della città europea e, dopo la partenza dei francesi, non vi sono mai stati
costruiti nuovi palazzi. Si è rimasti nello schema dettato dall‟urbanismo coloniale, anche se la zona
è stata lasciata all‟incuria e al degrado. Si tratta di edifici ormai vetusti, a cui non ci si è mai
interessati dagli anni sessanta in poi e che stanno letteralmente cadendo a pezzi. Qualche anno fa ci
fu un controllo sullo stato urbanistico del quartiere e il risultato confermò che migliaia di palazzi
avevano bisogno di lavori di ristrutturazione e di rifacimenti. Bisogna poi tener presente l‟alta
concentrazione di abitanti che registra Bab el-Oued, a cui consegue una maggiore facilità di
degrado dello spazio. Ci sarebbe bisogno di un progetto di restauro e rifacimento di ampio respiro,
meticoloso, dispendioso. Considerando le condizioni politiche e amministrative attuali, resta un
sogno. In realtà questo tipo di lavori sarebbero stati necessari già a partire dagli anni postindipendenza. La logica doveva essere quella di procedere, quartiere per quartiere, al restauro e alla
conservazione del patrimonio architettonico della città, unico nella sua varietà e diversità, ma
purtroppo non è stato fatto niente di tutto questo.
J. G. : Questo per quanto riguarda l‟urbanistica del quartiere, ma per quel che concerne la relazione
con il diffondersi dell‟ideologia islamista?
W. L. : Possiamo definire Bab el-Oued come uno dei principali focolai islamisti sviluppatisi nella
capitale. Ma è normale che si arrivi a questo punto quando vengono chiusi tutti i luoghi di incontro
e gli spazi di libera espressione. Anche i bar sono stati chiusi, e nomino i bar perché anche i bar per
me rappresentano un luogo di scambio dove è possibile esprimersi e uno spazio di libertà dove tra
amici ci si raccontano storie d‟amore, ci si scambiano idee, prospettive, confidenze più o meno
intime. Parallelamente alla chiusura di questi luoghi si è sviluppato l‟altro fenomeno determinante,
l‟installazione progressiva delle moschee e delle sale di preghiera, che pian piano sono divenute
punti di incontro sempre più frequentati, sostituendo così i bar e le caffetterie costretti alla chiusura.
La gente che frequentava i bar, di modesto ceto sociale almeno in un quartiere come Bab el-Oued,
si è trasferita nelle moschee, e i discorsi che prima si muovevano in un contesto di libera
espressività, sono divenuti discorsi di repressione, di chiusura identitaria e di aggressione,
principalmente contro le donne ma anche contro gli uomini. Mi stupisco sempre ogni volta che
sento parlare dell‟islamismo come di un fenomeno piovuto dal cielo e inaspettato. No! C‟è stato un
periodo di incubazione, più o meno consapevole, piuttosto lungo, ma soprattutto si è creato un
terreno fertile nel quale l‟islamismo è germogliato agevolmente.
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J. G. : Lasciamo da parte per ora il contesto storico, ossia la diffusione dell‟islamismo e la
rappresentazione che ne è data nel suo romanzo. L‟intreccio che si snoda nel libro Don Chisciotte
ad Algeri, i personaggi creati, hanno per caso una base autobiografica? Mi riferisco, per esempio, al
personaggio di Don Chisciotte stesso, giornalista e allo stesso tempo scrittore, come lei. Oppure ai
continui riferimenti alla Spagna, sapendo anche che la sua regione di provenienza, l‟oranese e
Tlemcen, furono storicamente colonizzate e occupate dagli Spagnoli.
W. L. : Sì, ci sono molti elementi autobiografici in questo libro, ma non lo definirei propriamente
un testo autobiografico. Prima di tutto l‟elemento attorno al quale ruota tutta la storia, Cervantes,
rispecchia il mio profondo interesse verso questa figura, fondamentale nella mia formazione. C‟è
poi il richiamo alla cultura andalusa, con la creazione di un personaggio quale Hanna, una nonna
che parla continuamente dell‟Andalusia, che sogna questa terra, in cui affonda le antiche radici.
Non so se nella traduzione italiana questo personaggio sia stato ben delineato, ma in Hanna che
racconta storie, che sembra quasi perdersi nei suoi deliri e nei suoi ricordi, nella volontà di
descrivere e ricreare anche solo a parole il contesto andaluso dal quale proviene, io ho dato voce a
mia nonna, una persona straordinaria che ha condizionato la mia vita fin dal suo inizio. Avevo in
testa l‟immagine di questa donna anziana, profondamente attaccata al proprio patrimonio culturale,
alle proprie origini e alla propria storia, una immagine che proviene direttamente dal mio vissuto.
Nel libro, poi, c‟è molto della Spagna in generale. Una volta sono stato invitato a Madrid, in
occasione dei quattrocento anni dall‟uscita del Don Chisciotte. Dopo aver parlato un po‟ di Algeri,
della parentesi algerina vissuta da Cervantes e della mia personale conoscenza di questo
straordinario scrittore, mi avvicinò una persona dicendomi: “ma lei sa che esistono realmente dei
lontani discendenti di Cervantes?”, ed io gli ho risposto: “per la verità non sapevo nemmeno che
Cervantes avesse avuto dei figli o dei nipoti, ma immagino che sia una eventualità plausibile”. E lui
ha ribattuto: “ho personalmente conosciuto l‟ultimo dei pronipoti dello scrittore, tuttavia non so
dirle se sia mai stato ad Algeri sulle tracce del suo vecchio zio”. Ed è qui che scatta
l‟immaginazione dello scrittore, l‟inventiva. Per me l‟essenziale era descrivere questo viaggio
iniziatico, non che tale viaggio fosse più o meno realistico. E‟ un viaggio che ci permette di
attraversare Algeri, che ci fa scoprire questa città con tutto il suo contorno di storie e con tutto
l‟immaginario che si trascina dietro, e che ci permette di scoprire nel dettaglio quello che fu il
passaggio di Cervantes in questo frangente della sua vita.
Nel testo ho cercato di creare un parallelo, attraverso la presenza di Zoraida, un personaggio
autentico, presente nel Don Chisciotte, di cui lo stesso Cervantes si era innamorato, almeno secondo
quanto affermato in certe cronache del tempo. Cervantes la cita, la fa comparire in alcuni scritti,
dicendo che nella sua permanenza come prigioniero in Algeria si era salvato grazie a lei, e
specificando che fu con lei che ripartì da Algeri verso la Spagna. Non è poi così importante quello
che accadde realmente sul piano storico, non era questo l‟aspetto che mi interessava. Io ho fatto
rivivere Zoraida e attraverso lei ho fatto rivivere l‟Algeri sotterranea, quest‟insieme di grotte e di
cunicoli che non erano in realtà delle vere prigioni, anche se le ho descritte nel romanzo come il
luogo dove il mio Don Chisciotte viene tenuto in arresto.
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Il Don Chisciotte del romanzo resta in prigione per cinque giorni, mentre il suo avo c‟era rimasto
cinque anni, e anche qui si possono leggere evidenti simmetrie. Durante questi cinque giorni ha
potuto riflettere e scoprire molte cose dell‟Algeria e di Algeri che gli erano rimaste estranee prima
di essere rinchiuso nei sotterranei. Prima di tutto è riuscito a ricostruire quello che accadde al suo
antenato nella città. Poi è riuscito a superare i clichés con i quali stava cercando di interpretare,
sbagliando, il contesto sociale e politico algerino. Clichés piuttosto superficiali e semplicisti,
inadatti a spiegare fenomeni complessi e radicati, quali le violenze ed il terrorismo che si stavano
propagando in quegli anni. Infine conosce una donna splendida, formidabile, che lo aiuta a capire.
Quando pone a Zoraida la domanda: “Perché non lasci l‟Algeria?”, lei gli risponde: “Per andare
dove?”. Per me questo è un punto fondamentale, è una questione direi ontologica. Riflettere sulla
propria vita, sulle speranze e sulle aspettative, e poi chiedersi: “Andare dove?”. A me è successo
proprio questo. Ho trascorso parte della mia vita in questa città, ho iniziato ad amarla e l‟ho
scoperta sempre più in profondità, e al momento di lasciarla ho continuato a domandarmi: “Ma
andare dove?”.
Sono le donne come Zoraida che in quel periodo hanno salvato l‟Algeria dalla catastrofe. Donne
che hanno scelto di resistere, di battersi, di lottare a viso aperto, cercando di dare un senso ad un
mondo insensato. La loro lotta è maturata nella vita di tutti i giorni, nella quotidianità. E' stata la
volontà di resistere e di mantenere viva la speranza, che ha permesso loro di andare al lavoro ogni
mattina, sapendo che avrebbero rischiato la morte in ogni istante. Si sono rifiutate di lasciare le
proprie abitazioni, anche se intimidite o minacciate; non hanno rinunciato alle proprie libertà ed ai
propri diritti. Ogni giorno hanno dato prova del grande desiderio di vivere che le animava.
Zoraida ama Algeri, la città dove è cresciuta, ne ama i sotterranei, gli odori, l‟immaginario
prodottosi con il tempo, ama tutto questo al punto di non volersene separare. E‟ pronta a restare a
qualunque costo. Il Don Chisciotte del mio romanzo non poteva non innamorarsene, e di fatto si è
innamorato di questa donna, che nella sua mente lo riconduceva all‟esperienza vissuta dal suo
antenato durante gli anni di prigionia. Dal mio punto di vista questa sorta di parabola serve a far
capire che bisogna uscire dai criteri di analisi troppo semplicisti. Bisogna capire che l‟amore per la
vita deve essere talmente forte da fornirci ogni volta la capacità di trovare soluzioni possibili e
nuove speranze di cambiamento. Ecco, in sostanza, cosa ho voluto dire con il mio Don Chisciotte
ad Algeri.
J. G. : E‟ giunto il momento di riprendere in mano il contesto storico, politico e sociale in cui il suo
Don Chisciotte si ritrova una volta approdato ad Algeri. La guardienne des ombres, come pure Les
miroirs de l’aveugle, è un‟opera ambientata nell‟Algeria dei primi anni novanta, l‟Algeria delle
violenze e della crescita del fenomeno islamista. Per spiegare la difficoltà, la paura, la rabbia e la
tensione vissuta in quegli anni lei ha parlato di “esilio psicologico” prima ancora che di “esilio
fisico”.
W. L. : Esatto.
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J. G. : L‟esilio. E‟ questo il cammino intrapreso da molti intellettuali e letterati algerini finiti nelle
liste nere degli islamisti. Cosa ha significato precisamente per lei vivere in una condizione di “esilio
psicologico” e quale situazione si è trovato personalmente a fronteggiare negli anni che hanno
preceduto la sua partenza dall‟Algeria?
W. L. : In Don Chisciotte ad Algeri fin dalle prime pagine si incontra un personaggio che sta
scrivendo a macchina, in solitudine. Non ha più la lingua, mozzata da misteriosi personaggi barbuti,
come pure altre parti del corpo. L‟unica possibilità che gli resta per esprimersi e far conoscere la sua
storia è quella di scrivere. Non è un dettaglio autobiografico, ma un richiamo simbolico a quello ho
vissuto e che intendo per "esilio psicologico".
Quando si è attivi e intraprendenti all‟interno della vita culturale ed intellettuale di una città, ci sono
dinamiche quotidiane che si creano. Poi ad un tratto ci si trova costretti ad abbandonarle e se ne
viene separati in maniera forzata, dal momento che c‟è il rischio che si venga uccisi.
Nel mio caso il rischio era enorme, anche il mio nome era finito nelle liste nere, e rinunciare alla
mia quotidianità e al mio abituale modo di vivere mi era sembrata l‟unica soluzione per uscire
indenne da quella situazione. Una volta presa la decisione, ho scoperto che quella in cui mi
ritrovavo a vivere era un‟altra vita, un‟esistenza parallela alla quale non ero preparato. Non ero
pronto ad affrontare l'“esilio”. Prima di prendere questa decisione conducevo un‟esistenza
totalmente differente, facevo parte dell‟Unione degli scrittori, un‟associazione che animava serate
culturali, serate letterarie, musicali, incontri tra scrittori di diverse generazioni, c‟era insomma un
buon fermento culturale, un movimento solido nella città, che resisteva nonostante le prime
difficoltà, che continuava ad esistere e lavorare, pubblicando libri e promuovendo altre iniziative.
Poi di colpo tutto questo è scomparso. La nostra vita sociale è stata cancellata in poco tempo
dall‟aumento delle violenze, dalle prime esecuzioni mirate, dalle minacce e dalle prime partenze.
Sono stato sottratto al mio spazio naturale, uno spazio di cui avevo profondamente bisogno per
continuare ad esistere. Ho dovuto cambiare casa, cercando asilo e ospitalità dalle persone più
vicine, ben sapendo però di mettere a rischio in questo modo anche la loro vita. Se una sera,
rientrando a casa di un amico che mi concedeva ospitalità, mi avessero seguito, avrebbero ucciso
anche il mio amico assieme a me. Bisognava dunque pensare a se stessi, ma allo stesso tempo anche
a quelli che più o meno direttamente venivano coinvolti. In questi casi è naturale cadere dentro un
ingranaggio psicologico opprimente e ritrovarsi a vivere questa condizione di autoesclusione in
solitudine.
Il primo passo è scegliere un rifugio. Io ero ospitato da un amico regista, dove sono rimasto più o
meno un anno senza fare quasi niente, una condizione terribile per una persona dinamica quale ero.
Ogni spostamento lo facevo in macchina, non camminavo mai per strada. Per me era inaccettabile,
non potevo sopportare tanto. Ci ho provato per un periodo, ho tenuto duro, ma poi ho detto basta, se
avessi continuato in quel modo sarei di certo impazzito.
L‟unica ancora di salvataggio in quei mesi è stata la scrittura. Per fortuna, seppur recluso, nascosto,
potevo ancora scrivere. Non mi stanco mai di ripetere che se ho potuto evitare la follia e la morte, se
sono sopravvissuto all‟esilio psicologico, è stato solo grazie a questo. La scrittura mi forniva
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l‟occasione di riflettere ed ha rappresentato un vero e proprio spazio di evasione. Me ne stavo
seduto sul bordo del mare, dal mattino fino alla sera. La casa del mio amico era lungo la spiaggia,
ed era sufficiente aprire la finestra della camera per perdersi con i pensieri tra le onde ed evadere,
anche solo con la mente, da quella condizione. Almeno questo aspetto era magnifico: ogni mattina,
quando mi svegliavo, potevo vedere il sole splendere, e poi al tramonto potevo osservare i colori del
mare mutare lentamente, il blu dell‟acqua divenire sempre più scuro ed intenso. Vedendo questo
spettacolo mi ripetevo: “Non arriveranno mai – parlo degli islamisti – a cambiare il colore del sole e
il colore del mare, questi colori resteranno là e niente diventerà nero”. E‟ partendo da queste
considerazioni che ho deciso di lottare e di resistere, aggrappandomi ad elementi semplici,
simbolici. In quel momento bisognava pur restare attaccati a qualche cosa per non sprofondare ed io
mi sono aggrappato ai colori, alla bellezza della loro luminosità e della loro varietà, per arrivare a
dire che la vita non poteva e non doveva finir lì, che c‟era ancora una speranza, una vita bella che
meritava di essere vissuta. Così ho cominciato a scrivere e il primo romanzo, diciamo di reazione a
tutto questo, è stato La guardienne des ombres. Anzi no è stato il secondo, il primo si intitola Les
ailes de la reine, e sta per essere pubblicato in Francia da Acte Sud. Quando ho scritto questo libro
era appena iniziato il periodo degli omicidi mirati alla classe intellettuale, era la fase di crescita
iniziale vissuta dall‟integralismo, gli anni ‟90 e ‟91, dove il pericolo era visibile, ma non era ancora
arrivato alla fase di massimo sviluppo. Percepivo il rischio che il Paese iniziava a correre e il
romanzo riflette queste mie premonizioni.
L‟esilio psicologico in cui ho vissuto nei mesi che hanno preceduto la partenza da Algeri sfiorava la
follia. Ero ad un passo dalla pazzia e per fortuna ho trovato nella letteratura la forza per salvarmi e
per tirarmi fuori. Altre persone non hanno avuto questa fortuna, o questa forza, e si sono suicidate.
Un mio caro amico, anche lui scrittore, si è gettato dal ponte di Tlemli, episodio che ho poi ripreso
nel romanzo Les ailes de la reine. Molti altri hanno visto il loro matrimonio distruggersi, sgretolarsi
sotto le pressioni a cui una vita del genere li aveva condotti.
Ad un certo punto ho iniziato a credere che questo esilio doveva avere una spiegazione. Dal
momento che si era materializzato, inatteso, nella mia vita, doveva condurmi da qualche parte. E
così, mentre in un primo tempo avevo tentato di resistere, dopo un po‟ ho deciso di trasferire i
materiali di scena, per usare una metafora strappata al teatro, a Parigi, sfruttando un invito della
Scuola Normale Superiore. Pensavo che la fuga in Francia fosse solo una soluzione temporanea, per
tre o quattro mesi al massimo. Mi ripetevo questo ogni giorno. Poi la provvisorietà che aveva
accompagnato il mio insediamento a Parigi si è lentamente trasformata in una condizione di
stabilità. Ero partito per tre mesi e invece sono rimasto alla Scuola Normale Superiore per un
semestre, dopodiché ho ricevuto un invito dalla Sorbona, dove sono rimasto un anno, e dopo ancora
un altro invito dall‟Università Parigi VIII, dove ho lavorato due anni. Alla fine mi sono ritrovato
con un posto fisso alla Nuova Sorbona, Parigi III.
Ora, dopo quindici anni, mi sono accorto che la mia sistemazione ha ormai ben poco di provvisorio.
Ero partito a quarant‟anni ed ora ne ho cinquantaquattro. Ero partito con i capelli neri ed ora sono
bianchi. Ero partito con due bambini piccoli ed ora sono diventati adulti. Le cose sono cambiate.
L‟esilio da psicologico è divenuto fisico, materiale, anche se sono sempre rimasto attaccato all‟idea
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di un possibile ritorno, di un ritorno definitivo (in tutti questi anni ho avuto comunque la possibilità
di rientrare ad Algeri per brevi periodi).
La possibilità di andare e venire, di vivere in Francia ma di continuare parallelamente la mia attività
didattica all‟Università di Algeri ha addolcito almeno un po‟ questa nuova condizione di esilio in
cui mi sono ritrovato, ancora una volta, in maniera inaspettata. Mi sono detto: “posso comunque
essere utile al mio Paese”. In questo il Ministero mi ha aiutato, bisogna riconoscerlo. Mi ha
conservato il posto all‟università, chiedendomi solamente una disponibilità parziale.
J. G. : Può spiegarmi meglio la posizione tenuta dal Ministero in quegli anni rispetto al suo caso
specifico?
W. L. : Quando il mio nome finì nella lista nera delle persone che dovevano essere eliminate,
parliamo degli anni ‟93 e ‟94, fu la polizia a scoprirlo. Gli agenti vennero all‟università, per
avvisarmi del grave pericolo che stavo correndo. Ebbi un primo incontro con il rettore, poi un
secondo con la polizia, dove scoprii che anche mia moglie, poetessa, era presente nella stessa lista.
La polizia mi disse di fare attenzione, ma proprio questo era il nodo fondamentale e privo di
soluzione: cosa voleva dire “fare attenzione”? Io ero un insegnante e per guadagnarmi da vivere
dovevo continuare la mia attività, continuare ad andare all‟università ogni giorno, insomma
continuare la mia routine che era fatta di spostamenti, lezioni e contatto con le persone.
Allora fu l‟università a prendere in mano la situazione: mancavano sei mesi alla fine dell‟anno
accademico ed il rettore mi propose di congelare gli ultimi mesi di corsi. Avrei conservato il mio
stipendio pur non recandomi più all‟università fino alla fine dell‟anno. Nello stesso periodo ricevetti
l‟invito dalla Scuola Normale Superiore di Parigi e in tal modo mi ritrovai in aspettativa ad Algeri,
con la concreta possibilità di accettare l‟invito da Parigi. Così decisi di partire, rimanendo però
consapevolmente vincolato all‟Università di Algeri. Dopo quei primi sei mesi decisi di chiedere un
periodo di aspettativa più lungo, di tre anni, ma questa volta senza retribuzione. In un primo
momento questa mia proposta fu accettata, ma dopo fui contattato dal Ministero, che si trovava di
fronte a decine e decine di casi simili al mio. Il ministero mi fece una controproposta: era disposto a
mantenere il mio contratto e il mio stipendio, se solo avessi concesso la mia disponibilità ad aiutare
gli studenti, continuando una collaborazione, anche a distanza, con l‟università. Ho accettato, per
questo conservo ancora oggi il mio posto ad Algeri, e per questo il mio legame con la città e con la
sua gente è ancora così solido.
J. G. : Abbiamo parlato di “esilio psicologico” e di “esilio fisico” ma, e perdoni se insisto ancora su
questo punto, vorrei sapere se lei, in quegli anni che precedettero la sua partenza, ha mai ricevuto
minacce e intimidazioni dirette.
W. L. : Certamente. Ero professore universitario e dunque lavoravo in un luogo pubblico. Avevo
una cassetta per la posta e le comunicazioni interne, come tutti i professori, ed ogni mattina ci
trovavo dentro una lettera di minacce e insulti. A parte questo ricevevo lettere del genere anche a
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casa, sotto stretta sorveglianza dal momento in cui scoprirono il mio nome nella lista. Un giorno
arrestarono una persona armata che si aggirava intorno alla mia abitazione. Se non ero io l‟obiettivo
di quell‟uomo, era sicuramente qualcuno tra i miei vicini, anch‟essi nel mirino degli islamisti.
Quando la polizia iniziò ad informarmi sui movimenti che registravano quotidianamente nel mio
quartiere, i pericoli che correvo semplicemente nel rimanere in casa, allora iniziai a prendere la cosa
sul serio e decisi di trasferirmi segretamente dal mio amico regista. Mi trovavo di fronte ad una
scelta di questo tipo: potevo rimanere nella mia abitazione, facilitando in questo modo il compito di
coloro che volevano uccidermi, o cambiare le mie abitudini e dare del filo da torcere ai miei
persecutori. Scelsi la seconda soluzione. Non mi sembrava giusto arrendersi senza prima lottare,
consegnarsi passivamente al proprio tragico destino.
D‟altra parte non era facile lottare in quella situazione di incertezza e instabilità, doversi confrontare
con gente decisa ad ucciderti e ben armata, senza aver nulla con cui difendersi. Ci tengo a
sottolineare che ho sempre avuto paura delle armi, e le ho sempre rifiutate. Tuttavia bisognava pur
fare qualcosa, prendere almeno delle precauzioni. Il primo passo da compiere era cambiare
domicilio, e lo feci. Bisognava comportarsi da persone estremamente razionali, cosa non facile per
un artista o un intellettuale; cambiare le proprie abitudini, abbandonare, per esempio, le
consuetudini e le piccole cose che avevano abbellito la mia esistenza fino a quel momento per non
facilitare la caccia degli islamisti.
La decisione la presi quando uccisero l‟amico Tahar Djaout, anche lui scrittore. La sera prima
dell‟omicidio Tahar ed io l‟avevamo passata assieme in un bar di fronte all‟università. Era solito
venire a trovarmi a fine giornata, ci sedevamo un momento per chiacchierare beatamente come si fa
tra amici. Quella sera parlammo di un romanzo di Mimouni, me lo ricordo bene, Les fleurs
detournés. Tahar lavorava in un giornale, Rupture, e mi aveva proposto di scrivere assieme a lui un
articolo ogni settimana, in una rubrica chiamata “Mon metier d‟ecrivain”. In questi articoli
bisognava parlare di tutto tranne che della professione di scrittore, Tahar era stato chiaro: “Bisogna
scrivere su tutto, ma non su quello che riguarda la scrittura e i dettagli del nostro mestiere”. Quella
sera gli dissi di voler scrivere qualcosa sugli uccelli, scherzando. Ma il mattino seguente Tahar fu
assassinato ed io scrissi di getto un articolo intitolato “Les oiseaux ne se cachent pas pour mourir”,
un articolo che non parlava di uccelli, bensì dell‟amico ucciso. Questo per dirle che la situazione era
terribilmente tragica, ma Tahar non voleva prenderla troppo sul serio. Diceva: “questa situazione in
realtà non ci riguarda, è una battaglia tra gli islamisti e il regime, noi siamo solo degli obiettivi
secondari, di passaggio”. Pensavo si sbagliasse e purtroppo ne ebbi ben presto la conferma. Così,
dal momento in cui Tahar Djaout venne assassinato, iniziai a prendere le minacce, le intimidazioni e
il resto, terribilmente sul serio.
J. G. : Se non sbaglio, questo episodio l‟ha citato in un breve racconto, inserito nel volume La
schiavitù del velo, curato da Giuliana Sgrena e pubblicato da Manifestolibri (Roma, 1995).
W. L. : Il racconto si intitola “Vita quotidiana di uno scrittore”. In quelle pagine ho descritto la vita
quotidiana di uno scrittore algerino nei primi anni novanta. Ho raccontato la mia giornata tipo, dalla
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mattina, al momento in cui uscivo di casa, fino al rientro, prima del tramonto. Portavo sempre una
giacca a vento bianca e, varcata la soglia di casa, mettevo la mano in tasca come se stessi
impugnando un'arma. Era come se volessi dare un segnale alla persona che mi attendeva con gran
voglia di uccidermi. Era come se gli dicessi: “pensaci bene perché anch‟io sono armato e non ti sarà
facile spuntarla”. Erano gesti folli, dettati quasi dalla disperazione e dall‟impotenza che sentivo
pesarmi addosso sempre di più. Prima di salire in macchina, per esempio, controllavo che sotto non
vi fosse attaccato nessun tipo di ordigno. Solo ripetendo ossessivamente questi gesti, dettati forse da
uno stato depressivo oltre che dalla paura, riuscivo a far scivolare un giorno dietro all‟altro.
E poi c‟era mia figlia. La sua presenza rendeva questa situazione ancora più insostenibile. E‟ stato
pensando a lei che ho preso concretamente la decisione di lasciare il Paese. Aveva otto o nove anni
e adorava le sue bambole, regali provenienti da tutte le parti del mondo. Ci giocava continuamente e
non vedeva che quelle. Insomma era una bambina spensierata come è giusto esserlo alla sua età. Di
colpo, nel momento in cui gli islamisti hanno iniziato ad uccidere gli intellettuali, in gran parte
amici o comunque conoscenti, ha iniziato a parlare solamente di questi omicidi. Per me fu uno
shock, mia figlia non era abituata a questi discorsi. Ma lei capiva, si rendeva conto che le persone
uccise erano dei nostri amici, gente con cui trascorrevamo del tempo assieme e che venivano in casa
a farci visita. Nel caso di Tahar Djaout fu ancor più drammatico. Tahar era molto legato a mia
figlia, giocavano e scherzavano assieme ogni volta che se ne presentava l‟occasione; mia figlia poi
scriveva piccole poesie che leggeva soltanto a lui.
Quando cominciarono gli omicidi lei prese un piccolo quaderno e cominciò a scrivere: oggi hanno
assassinato il tale, oggi hanno assassinato il tal altro, e così via. Prendeva i giornali per
documentarsi sulla vita delle persone uccise, dal momento che nei quotidiani, a fianco all‟articolo di
cronaca, veniva brevemente riassunta la vita della persona uccisa, in questo caso degli scrittori o
degli intellettuali vittime della violenza islamista.
Mi sono reso conto che mia figlia era passata rapidamente dall‟infanzia all‟età adulta, una età che
non corrispondeva affatto a quella anagrafica. Dimostrava una maturità che non era normale per una
bambina di nove anni. Mi riferisco al suo modo di pensare, di riflettere, di confrontarsi con la realtà
che la stava circondando: temevo che tutto questo potesse farla impazzire e così presi la decisione di
partire, di allontanarmi fisicamente da quel contesto, che stava coinvolgendo e distruggendo la mia
famiglia. Molti anni dopo Rym, così si chiama mia figlia, ha ripreso in mano quanto scritto negli
ultimi mesi trascorsi in Algeria facendone un libro, Le seigneur de centres. Dis papa, c'est quoi une
barbarie?, pubblicato in Francia. In questo testo racconta la sua vita quotidiana in quel periodo,
quello che succedeva in casa quando né io né sua madre c‟eravamo, quando giocava con suo
fratello, i momenti in cui controllava fuori dalla finestra, l‟ansia con cui attendeva ogni giorno il
nostro ritorno. Molti di questi aspetti mi erano sfuggiti e li ho scoperti solo leggendo il libro.
I miei figli erano cresciuti in un ambiente intriso di cultura, uno spazio intellettuale fecondo, fatto di
incontri tra scrittori, lunghe chiacchierate tra accademici, insomma avevano maturato una capacità
di analisi e di riflessione di cui io stesso facevo fatica a rendermi conto. I miei figli, in questo caso
soprattutto mia figlia, non erano più quei bambini che la loro giovanissima età faceva credere.
Avuto sentore di ciò ho preso la decisione di partire. Mi trovavo di fronte ad una scelta, rischiare di
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perdere me stesso ed i miei figli, oppure partire, lasciare il Paese ed in questo modo salvare la mia
famiglia, offrendo ai miei figli ben altro che il macabro spettacolo della morte ripetuto
costantemente ogni giorno.
J. G. : Perché la classe intellettuale fu uno degli obiettivi principali dalla violenza islamista?
W. L. : Prima di tutto non fu l‟intera classe intellettuale ad essere colpita dalle violenze. Possiamo
dire che la classe intellettuale si divise in due, una parte che si oppose all‟ideologia sostenuta dal
FIS prima e dalle milizie islamiche poi, la parte a cui appartenevo, e un‟altra parte che
l‟appoggiava. Tra coloro che si opposero c‟erano scrittori tanto arabofoni quanto francofoni. Chi
sostiene che furono colpiti soltanto gli scrittori francofoni sbaglia, non conosce la realtà delle cose.
C‟erano francofoni che sostenevano addirittura gli islamisti. Non era un semplice problema di
lingua, ma di presa di coscienza. La lingua non è fondamentalista in sé, ma fondamentalista può
essere l‟uso che ne viene fatto. La lingua è solo uno strumento, come tale può essere utilizzato in un
senso o nell‟altro. Chi si opponeva all‟islamismo, sia che utilizzasse la lingua francese sia che
utilizzasse quella araba, correva il rischio di essere ucciso. Hanno ucciso Abdelkader Halula, uno
tra i più grandi uomini di teatro algerini, che scriveva le sue opere in arabo; hanno ucciso il
giornalista Barti Benhauda, specialista di Derrida e ottimo traduttore, anche lui arabofono; e poi
Tahar Djaout e altri scrittori. Non era dunque una scelta linguistica; il fattore linguistico era
secondario, la realtà delle cose era ben più complessa. Tutti quelli che si opponevano, tutti quelli
che capivano la pericolosità di questa ideologia erano bersagli da abbattere. Ma non era solo agli
islamisti che queste persone davano fastidio, erano scomode anche al potere.
Infatti, se intellettuali e scrittori scelsero di opporsi all‟islamismo, non significa che sostenessero
automaticamente la strategia del potere istituzionale, tutt‟altro. Erano contrari ai barbuti, ma allo
stesso tempo erano contrari alla logica operativa dei militari e al sistema di potere che gestiva
l‟Algeria da decenni. Se prendiamo Tahar Djaout come esempio, o Barti Benhauda, scopriamo che
stavano portando avanti una campagna di sensibilizzazione di certo anti-fondamentalista, ma
essenzialmente anti-sistema. Attribuivano al regime la responsabilità della nascita del FIS e della
forza raggiunta dal partito di Madani e Belhadj alla fine degli anni ottanta. Le ingiustizie, il
clientelismo, la perpetuazione di un sistema corrotto, tutto questo ha favorito l‟emergere di una
forza di rottura quale si rivelò il FIS. Gli intellettuali occupavano un posto nella società
estremamente fragile, non potendosi appoggiare né sulla forza del potere istituzionale, né sulla forza
della rete di opposizione islamica; erano isolati, bersagli facili e il numero delle esecuzioni lo
testimonia. Entrambe le parti, il potere e le milizie islamiche, ne hanno beneficiato.
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J. G. : La responsabilità degli omicidi e delle esecuzioni attuate in quegli anni vanno attribuite
interamente agli islamisti oppure ci fu una sorta di complicità del governo, o meglio di quello che
ne restava, che non ha saputo o non ha voluto proteggere le menti pensanti germogliate all‟interno
del Paese?
W. L.: Il rapporto tra il regime e gli intellettuali è sempre stato conflittuale, ma non solamente in
Algeria, direi in tutto il mondo. Perché? Perché l‟intellettuale vero è una persona libera, non è
attaccata ad interessi visibili, a logiche di potere o di guadagno, non è, o almeno non dovrebbe
essere, pronto a vendersi al migliore offerente. Sto parlando di un pensatore libero, una figura che
troverà sicuramente anche in Italia, in Francia e nel resto del mondo, una persona che è pronta ad
emergere dalla società per dire basta, per denunciare il malfunzionamento delle istituzioni, per
opporsi alle strategie dei governanti. Nei Paesi europei questo tipo di persona non è sola, c‟è una
sorta di protezione sociale nei confronti di questa categoria, una protezione garantita da un sistema
di diritti e di tutele universalmente riconosciuti. In Algeria, soprattutto negli anni novanta, non c‟era
questo sistema di protezione e di garanzie, o ci si schierava con il regime o ci si schierava con gli
islamisti e chi rimaneva fuori era praticamente isolato, vulnerabile, ed era considerato un nemico
tanto dall‟una quanto dall‟altra parte.
Gli intellettuali si trovarono esattamente in questa posizione. Non nego che l‟islamismo in sé, come
ideologia e come pensiero, alimentava una logica di eliminazione nei confronti di tutto quello che
era differente, altro, al di fuori dei suoi "valori". Ma questa situazione ha giovato anche al potere,
che ha trovato qualcuno per fare il lavoro sporco al posto suo. Quindi, per me, anche lo Stato fu
colpevole, certamente. Avrebbe dovuto preoccuparsi di preservare le migliori menti d‟Algeria,
invece di facilitarne la scomparsa o la fuga. Era compito del potere, del governo trovare una
soluzione e proteggere questa categoria, divenuta ben presto il bersaglio privilegiato delle violenze.
Decine, anzi centinaia di menti pensanti, di professionisti, ingegneri, dottori, insegnanti hanno
lasciato il Paese in fretta, hanno scelto l‟esilio, di fronte all‟unica concreta alternativa che l‟Algeria
gli offriva, ossia la prospettiva di venir uccisi.
Bisogna pur chiedersi perché. Non era certo la bellezza di Parigi o di qualunque altra città ad
attirarli, la realtà dell‟esilio è dura, è difficile, non stiamo parlando di una vacanza. Io ho lasciato il
Paese ben sapendo che avevo comunque un lavoro ad attendermi a Parigi, altrimenti non sarei mai
partito. Ma alcuni amici hanno lasciato il Paese in tutt‟altre condizioni, senza una prospettiva
lavorativa, senza un sostegno economico per vivere. E furono centinaia a prendere questa decisione
in simili condizioni. Avrebbero preferito restare in Algeria, a casa propria, con il conforto di una
stabilità e di una sicurezza economica che non hanno più ritrovato. Ma non c‟era un‟alternativa
reale, il potere li aveva abbandonati a se stessi.
Come ci si poteva difendere di fronte ad una milizia armata che aveva una ampia libertà di azione e
di movimento nella stessa Algeri? Lo Stato era assente, la polizia era impotente, il sistema intero
voltò le spalle alle sue menti migliori, ad intere generazioni che esso stesso aveva contribuito a
formare durante gli anni settanta ed i primi anni ottanta. Quella che ci trovammo a fronteggiare era
un‟armata paramilitare in piena regola, ma non avevamo gli strumenti per opporci né tantomeno il
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sostegno di chi quegli strumenti ce li aveva. Lo Stato non aveva nessuna strategia di difesa e di
preservazione della classe intellettuale. Obiettivamente, non aveva interesse a farlo.
J. G. : Dunque, secondo lei, lo Stato ha approfittato di questa situazione di violenze ed instabilità
per regolare vecchi conti lasciati in sospeso?
W. L. : Non so se questo atteggiamento delle istituzioni fu premeditato. Di fatto lo Stato non
esisteva più. Solo le strutture militari continuarono ad esistere in quegli anni, a rafforzarsi, mentre le
istituzioni civili persero ogni capacità di azione. Lo ripeto e lo sottolineo: questa situazione ha
giovato al sistema, al sistema che aveva mantenuto la gestione del potere nel Paese fin
dall‟indipendenza. Dal punto di vista delle milizie islamiche gli omicidi dei letterati, degli
intellettuali e dei giornalisti scomodi non erano funzionali ad indebolire o intaccare il blocco
monolitico al potere.
Dire che tutto questo fu premeditato, che fu una strategia pensata e prevista con largo anticipo, non
saprei e non ho gli strumenti per affermarlo con certezza. Ma con certezza so che l‟islamismo non
faceva regali, non li ha mai fatti, nemmeno in altri contesti. Il primo nemico di questa ideologia è
per definizione l‟intellettuale, pensatore libero e per questo incontrollabile: ne abbiamo prova fin
dagli anni venti. Non mi stupiscono quindi né la modalità di azione né gli obiettivi degli islamisti,
che anche in Algeria volevano arrivare ad uno Stato confessionale islamico. Ciò che non mi spiego
è la modalità con cui il potere scelse di fronteggiare il fenomeno, le sue rinunce e le sue mancanze.
Quello che è successo dietro il sipario resta ancora oscuro e alimenta tuttora forti dubbi.
J. G. : “Il silenzio è complice. La paura non può rendere tutti muti”. E‟ Hsissen che parla,
protagonista di Don Chisciotte ad Algeri. Mi rivolgo ora al Waciny Laredj giornalista: quali erano
le condizioni di vita e di lavoro a cui erano costretti quei giornalisti che non accettavano il silenzio
nell‟Algeria degli anni novanta?
W. L. : Prima di tutto voglio mettere in chiaro che se resta qualcosa di democratico oggi in Algeria,
quel qualcosa è il giornalismo, il giornalismo scritto, che è uscito dal controllo diretto dello Stato.
Proprio negli anni novanta, infatti, venne data la possibilità a molti giornalisti che lavoravano
nell‟organo di partito dell‟FLN, El Moudjahid, di fondare nuovi giornali. Era un modo per zittire
una categoria potenzialmente fastidiosa e portarla silenziosamente al fallimento, dal momento che
le condizioni oggettive per creare nuove testate erano difficili ed il sistema informativo e
giornalistico in sé non era affatto sviluppato nel Paese. C‟erano due giornali nazionali, El
Moudjahid e Shaab, e il discorso che il governo fece nei primi anni novanta fu più o meno questo:
“Se volete fondare nuovi giornali vi daremo un po‟ di soldi, vi assicureremo lo stipendio per tre
anni e vi concederemo delle facilitazioni per accedere al credito bancario”. El Watan è nato grazie a
questa possibilità, El Khabar lo stesso e così quasi tutti i quotidiani arabofoni e francofoni che
ancora oggi troviamo in edicola.
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Questi giornali oggi restano l‟unica vera forza di cui dispone la società algerina per poter aspirare
ad una certa libertà. La televisione di Stato invece è ancora gestita dagli uomini di Bouteflika, e
identica situazione stanno vivendo i canali radio. Il sistema informativo è di fatto gestito dallo Stato,
e il giornalismo scritto resta il solo spazio in cui è assicurata una certa libertà di espressione. Una
libertà che i giornalisti avevano saputo sfruttare fin dall‟inizio, nei primi anni novanta, ritrovandosi
in breve tempo sotto un continuo stato di minaccia. Ma hanno resistito, hanno continuato il loro
lavoro, svolgendolo bene, ed è grazie a loro che ancora oggi possiamo godere di questo spazio di
libertà, che nemmeno i governi succedutisi dal ‟96 fino ad ora sono riusciti ad intaccare. Reprimere
oggi i giornalisti e limitare il raggio di azione di questa categoria mi sembra un‟opzione
improbabile, dal momento che un‟azione del genere riceverebbe subito un‟enorme visibilità, anche
internazionale, compromettendo il cammino di ritorno alla normalità democratica promosso e
sbandierato dalle stesse autorità.
Durante gli anni novanta i giornalisti più zelanti vennero inseriti nelle liste nere che gli islamisti
facevano circolare nelle moschee, e, come si potrà immaginare, lo Stato, o meglio il sistema, non si
affaticò affatto a proteggerli. Ma nonostante le intimidazioni, nonostante gli omicidi, continuarono
la loro battaglia per la libera informazione.
J. G. : Quindi possiamo affermare che oggi, per quel che riguarda il giornalismo su carta stampata,
in Algeria siamo di fronte ad una condizione di libera informazione e le radici di questa libertà
affondano negli stessi anni novanta, quando nacquero la gran parte dei giornali?
W. L. : Sì, anche se la libertà viene ancora pagata a caro prezzo. Tuttavia, se il pluralismo
informativo indipendente non si fosse radicato profondamente all‟interno della società algerina
degli anni novanta, diventando una acquisizione di fatto irrinunciabile, io non so davvero a quale
scenario ci troveremmo di fronte oggi. Forse ci sarebbero solo i giornali controllati dal potere, El
Mudjahid e Shaab, o al limite altri giornali impostati sulle stesse basi e dunque sotto lo stesso rigido
controllo. El Watan, El Khabar, El Shuruq, Le Quotidien d’Oran e le altre testate francofone,
invece, hanno il coraggio e la forza di portare avanti critiche molto coraggiose, contro il sistema e
contro il governo stesso. Nei due giornali di regime non avremmo mai potuto leggere questo genere
di critiche e di attacchi, e ciò rende prezioso il lavoro svolto dai giornalisti indipendenti negli ultimi
venti anni. I quattro o cinque canali visibili in televisione, invece, sono uno la fotocopia dell‟altro e
tutti la fotocopia di ENTV, la storica rete di regime.
Per esempio, io scrivo un articolo ogni giovedì, in una rubrica di El Watan che ho chiamato
“Diaspora”. Mi pongo ogni volta in un modo molto critico e la scelta stessa del termine, “diaspora”,
ha una forte valenza polemica. Lo utilizzo per identificare quel gruppo di intellettuali che fu
costretto a lasciare il proprio Paese per trasferirsi altrove, continuando in un altro posto quello
stesso lavoro di critica, testimonianza di un amore intramontabile verso la propria terra che mai
avrebbero voluto lasciare. Ogni giovedì propongo un episodio che racconta questa difficile
situazione, che cerca di porre delle domande e di accendere le coscienze. I miei articoli restano
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sempre nella sfera culturale, ma l‟impostazione critica e la valenza politica non viene mai celata e di
certo non passa in secondo piano.
J. G. : Dal momento che ha parlato di diaspora vorrei tornare per l‟ultima volta sul tema dell‟esilio.
In una condizione di lontananza forzata dalla propria terra, come lei stesso ha già accennato, la
scrittura diventa uno “spazio della memoria”. Quale significato ha assunto per lei la scrittura una
volta lasciata l‟Algeria? Si è servito della scrittura per rimanere attaccato alle sue radici? Per
esercitare un diritto alla libertà di parola che nel suo Paese, in quel momento, non le era più
concesso?
W. L. : In tutta sincerità, non ho mai avuto difficoltà ad esprimermi liberamente, pur in presenza di
una censura sempre più attenta. L‟unica eccezione, quando scrissi Le miroir de l’aveugle, un libro
in cui ho mosso una critica profonda e dettagliata al sistema di potere militare in Algeria. L'ho
scritto direttamente in francese e, siccome mi trovavo in Francia, l'ho pubblicato lì. Abbiamo tentato
di farlo uscire nuovamente in Algeria e di tradurlo in lingua araba, ma il libro è stato censurato: era
già stampato, così tutte le copie sono state sequestrate dalla tipografia e distrutte. Questa decisione
però non ha pregiudicato i miei lavori successivi e non ha intaccato la mia voglia di scrivere e di
criticare ciò che reputo sbagliato e pericoloso per il Paese che amo. Io ero consapevole di aver fatto
il mio dovere, e, siccome il libro era già stato pubblicato in Francia, rimasi tranquillo. Per di più
alcune copie della traduzione araba continuano ancora oggi a circolare attraverso internet.
La censura riguarda il sistema di controllo che lo Stato esercita ed io non sono nessuno per oppormi
a questo sistema. Quello che posso fare però è non smettere di scrivere, di oppormi, di criticare e di
pensare liberamente, anche all‟interno del mio Paese. Rinunciare al mio lavoro, questo sì, sarebbe
pericoloso, non la censura che resta uno strumento alla fine sterile. Anche quando mi sono trasferito
in Francia sono rimasto fedele all‟ideale della giustizia umana, del diritto alla libera espressione.
Questo non significa, d‟altra parte, che l‟esilio non ci cambi almeno un po‟. Sono stato disposto a
condividere la mia esperienza, mi sono aperto il più possibile al nuovo contesto in cui cercavo di
inserirmi, ma non ho mai accettato di vendermi, né come libero pensatore né come scrittore. Le
faccio un esempio: io critico il sistema di potere in Algeria, ma amo moltissimo il mio Paese, e non
sono pronto a svenderlo per ricavarne un sostegno diciamo politico. Capire questa differenza è
fondamentale per evitare di perdersi, in una condizione difficile e confusa quale è l‟esilio.
In molti casi, parlo di miei connazionali e colleghi scrittori, rifiutare l‟islamismo e la logica di
gestione del potere, ha condotto queste persone a denigrare l‟intero Paese in cui sono nati e
cresciuti. Io rifiuto categoricamente questo modo di vedere le cose. Non sono riuscito e penso che
mai ci riuscirò a rinnegare l‟amore per la mia terra. Parigi mi ha concesso un po‟ di respiro, tempo e
spazio per riflettere, lo riconosco, mi ha dato la possibilità di conoscere molti scrittori, di crescere
sotto il profilo umano e intellettuale, ma resto ancora fortemente attaccato alle mie origini. E
quando parlo di “origini” non mi riferisco ad una terra circondata da confini serrati, e non intendo
neanche esaltare un valore nazional-identitario. No, la parola “origini” per me ha un valore ben più
vasto e profondo, vuole indicare uno spazio ideale dove sia possibile condividere i valori umani,
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uno spazio ideale che si muove, cambia, non è ben definito geograficamente, anche se resta
impregnato di algerinità. Per algerinità intendo il riflesso della la ricchezza e della varietà di popoli,
genti e culture che hanno fatto la storia del Paese in cui sono cresciuto.
J. G. : Mi spieghi meglio il suo concetto di "algerinità".
W. L. : L‟algerinità, il riconoscersi come algerino, è parte della mia memoria. La memoria è
costituita da più strati sedimentati, l‟uno sopra l‟altro, e all‟apparenza solo l‟ultimo stato sembra
visibile, ma, come nel caso dell‟iceberg, quello che resta nascosto al di sotto è ben più vasto e
profondo. Bisogna sforzarsi per arrivare fino ai primi strati, quelli che si trovano più in basso,
bisogna essere pronti a scavare per recuperare la nostra memoria nella sua interezza e per far valere
la ricchezza e la profondità della nostra cultura. Io ho cercato di farlo, per esempio attraverso al mio
incontro con Cervantes, recuperando tutto quello spazio di condivisione storicamente esistito tra il
contesto algerino e la cultura spagnola. E‟ un esempio, uno spunto che credo e spero possa essere
seguito e ripreso.
La memoria non è uno spazio chiuso e rigido, bensì costantemente aperto, pronto ad espandersi e
sempre capace di stupirci e regalarci belle sorprese. E‟ un concetto che resta legato saldamente a
quello di identità. Consapevole della profondità e della vastità della memoria, io rivendico
un'identità molteplice. Fino ad ora io, in quanto algerino, sono stato definito arabo-musulmano, ma
questo cosa vuol dire? Vuol dire che appartengo ad una certa razza, tra virgolette, e ad una certa
sfera religiosa? Prima di tutto io rifiuto la classificazione razziale, che considero estremamente
pericolosa. Se la parola “arabo” si riferisce al contesto culturale, allora sì, posso accettarla, ma se
richiama una appartenenza razziale no. Tuttavia, anche nel caso in cui considerassimo la parola
“arabo” in senso culturale, non potrei ugualmente accontentarmi di questa definizione. Io rivendico
ben più che l‟appartenenza alla sola cultura araba. Tutto ciò che ha fatto parte della storia di questa
terra che oggi chiamiamo Algeria fa parte anche della mia identità; in me è presente l‟elemento
spagnolo, quello francese, quello arabo e quello berbero (mia madre è amazigh). La mia identità è
plasmata da tutti questi elementi, ha un forte carattere inclusivo. Quello a cui abbiamo assistito
dall'indipendenza fino ad oggi, invece, è esattamente il contrario. I caratteri identitari si rafforzano,
ma su basi esclusive, si fondano sulla separazione e non sul contatto. Allora chi si richiama
all‟identità berbera rifiuta l‟arabo e chi si richiama all‟identità araba rifiuta il berbero, chi si
definisce algerino rifiuta tutto quello che riguarda la Francia, negando una contaminazione che di
fatto c‟è stata ed ha lasciato le sue tracce. Su queste basi non è possibile costruire uno Stato e
tantomeno un‟identità che aspiri a definirsi veramente nazionale.
Io mi batto costantemente per sostenere l‟idea di una identità concepita come molteplice e inclusiva,
sia sul piano culturale che su quello religioso. Anche nel caso dell‟identità religiosa, infatti,
rivendico una appartenenza plurale e mi considero legato tanto all‟identità musulmana quanto a
quella cristiana ed ebraica. Grandi civiltà sono nate in Algeria da queste religioni, civiltà che
restano parte del patrimonio genetico dell‟Algeria di oggi. Bisogna riconoscere il ruolo avuto dalla
componente ebraica nella costruzione della cultura algerina, per esempio nel caso della tradizione
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musicale detta “arabo-andalusa”. Quando gli arabi e gli ebrei lasciarono l‟Andalusia, poiché una
volta terminata la “reconquista” la regina Isabella aveva cacciato entrambi, i due popoli si
installarono nella sponda sud del Mediterraneo. Le grandi scuole musicali, per esempio quella di
Algeri, di Tlemcen, di Mostaganem e di Constantine hanno origini ebraiche. Allora come posso
rifiutare qualcosa che fa parte di me stesso? Non posso fare altro che accettarlo come parte della
mia storia. Io non ho scelto la mia storia, nessuno può sceglierla, ma perlomeno si può provare a
conoscerla un po‟ meglio.
E‟ nostro compito cercare di inventare questo spazio possibile, in cui possa nascere una identità
bella, cioè aperta ed inclusiva, un compito che richiede molti sforzi e dedizione. In Algeria sono
stati compiuti troppi errori anche a questo riguardo, troppe semplificazioni, che hanno impedito
l'emergere di questo patrimonio comune. All‟inizio è mancato il lavoro delle generazioni
protagoniste dell‟indipendenza, poi quello delle generazioni successive. Non c‟è stata volontà, si è
sempre cercato di rimandare. La mia generazione doveva imporsi e pretendere una politica di
recupero della memoria storica, mentre le generazioni successive avrebbero dovuto seguire
l‟esempio. Solo così, forse, saremmo potuti arrivare ad edificare una società fondata su un‟identità
molteplice e inclusiva.
J. G. : “L‟Algeria è un Paese colpito da amnesia, è privo di senso critico”, sono parole pronunciate
ancora da Hsissen. Questa volta mi rivolgo a Waciny Larej professore dell‟università di Algeri: le
nuove generazioni di studenti con cui entra in contatto ogni anno restano tuttora vittime di
quest‟amnesia o dimostrano una acquisizione di consapevolezza maggiore rispetto alle generazioni
post-indipendenza che le hanno precedute?
W. L. : Non è facile rispondere a questa domanda. Ci sono due tendenze in atto, una positiva ed una
negativa, almeno dal mio punto di vista. Cominciamo da quella positiva. E‟ iniziato un innegabile
lavoro di recupero della memoria grazie alla società civile e alle associazioni. Per esempio c‟è
l‟associazione Apuleio che rivendica l‟eredità romana presente nella nostra cultura. Apuleio è il
fondatore del romanzo moderno, un pioniere nel campo della letteratura. Nacque a Nador, una città
non molto lontana da Constantine. Gli studenti algerini non conoscono questo personaggio,
fondamentale per la storia della cultura mondiale. Non lo conoscono pur essendo un loro
conterraneo, dal momento che è stato messo al bando da una cultura araba che si è fatta esclusiva ed
egemonica. Oggi, grazie a questa associazione, si sta riscoprendo la figura di Apuleio, le sue opere
sono state tradotte in arabo e fanno ormai parte dei programmi scolastici nazionali. Questo, almeno
sul piano simbolico, ha per me una grande importanza. Riconoscere Apuleio significa accettare
quell‟eredità romana e poi cristiana insita nella nostra cultura (algerina).
Altro esempio è Sant‟Agostino. Anche questa figura è stata messa al bando per lungo tempo,
mentre ad Annaba resta ancora la splendida basilica di cui fu vescovo. All‟interno della basilica si
trova una reliquia del santo, l‟avambraccio e la mano, espressamente recuperata da quel Monsignor
Dupuch di cui parlavamo prima, che andò a prendersela fino a Roma. Voleva che almeno una parte
di Sant‟Agostino fosse riportata nella sua terra e così oggi è possibile visitare l‟interno della chiesa
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di Annaba, dove c‟è la statua del monaco in cui si trova custodita la reliquia. Anche questa è solo
una presenza simbolica, ma lo stesso importante, tanto che negli ultimi anni si è iniziato a tenere dei
seminari, degli incontri e delle conferenze sulla vita e le opere del Santo. E‟ come se l‟Algeria
avesse deciso di riappropriarsi di questa figura, sia sul piano religioso che su quello culturale.
Qualcosa comincia a smuoversi.
Questa era la tendenza positiva. Veniamo ora a quella negativa. C‟è ancora una forte reticenza da
parte del regime, che non sembra avere la forza e la decisione di rivendicare una algerinità aperta e
plurale. Come accennavo prima, c‟è ancora tantissimo lavoro da fare per superare queste colpevoli
mancanze, ci sono ancora dei conti aperti che devono essere regolati, come nel caso dell‟islamismo
e dell'implicazione degli apparati militari nei massacri degli novanta. D‟altra parte penso che se
l‟Algeria avesse avuto la forza di plasmare questo tipo di identità inclusiva fin dall‟indipendenza,
l‟islamismo non avrebbe trovato un terreno tanto fertile in cui espandersi e sarebbe rimasto un
fenomeno minoritario. Invece ogni traccia della memoria di questo Paese, di questo insieme di terre
diverse seppur vicine, che fosse anteriore al periodo ‟54-„62 è stata rapidamente cancellata, e la
conseguenza non poteva essere tanto differente dal genere di catastrofe che si è abbattuta
sull‟Algeria fino a qualche anno fa. Ancora non c‟è una presa di posizione forte e coraggiosa in
questo senso da parte delle autorità. Il primo passo da cui bisognerebbe cominciare è la scuola,
perché è da lì che deve iniziare la consapevolezza di essere parte di una cultura molteplice, è lì che
deve essere rivisitata, senza pregiudizi, la lunga e ricca storia della terra in cui viviamo. Se la scuola
non si muoverà su queste prerogative, fra un po‟ di tempo arriveremo agli stessi risultati già
sperimentati, forse ad un altro islamismo o ad un altro genere di fondamentalismo ben più feroce di
quello già conosciuto. Purtroppo sento ancora molta sfiducia e molta chiusura quando si inizia a
parlare di multiculturalismo e identità plurale.
J. G. : Quindi quando parla di “amnesia” lei si riferisce all‟oblio di cui resta ancora vittima il popolo
algerino, privato della conoscenza delle sue vere radici e della memoria?
W. L. : Sì, mi riferisco proprio a questo. Non si può plasmare un popolo a proprio piacimento. Un
popolo ha la sua essenza in sé, resta in ogni caso un prodotto della storia, un prodotto complesso,
che nel corso dei secoli è stato attraversato da differenti culture, differenti religioni, che ha subito
influenze, scambi, dominazioni e conquiste. O si è capaci di assorbire tutto questo, trasformandolo
in un fattore di forza, in un valore aggiunto, oppure si sceglie la via più breve, quella meno
dispendiosa, quella dell‟identità esclusiva, delle semplificazioni. Questa seconda soluzione conduce
direttamente all‟amnesia, cioè porta a dimenticare che a partire da un certo momento è stata fatta
tabula rasa di una cultura ancestrale, impreziosita da sedimentazioni successive e di differenti
origini. Una cultura che è stata sostituita da un qualcosa di diverso, costruito a tavolino,
prefabbricato e utile a certi scopi precisi. E‟ un artificio che non poggia su una base concreta e
storica, è il frutto di una astrazione e di una manipolazione pericolosa, e la pericolosità, durante gli
anni novanta, è diventata visibile a tutti.
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Per superare l‟amnesia, per incidere in maniera positiva nella società servirà un lavoro cosciente e
consapevole di almeno trenta o quaranta anni, proprio quello che è mancato fino ad ora. Forse la
mia generazione non ne vedrà mai i risultati, ma i nostri figli e i nostri nipoti potranno beneficiare di
questo cambiamento. Però, ripeto, occorre iniziare subito a lavorare sul concetto di identità e di
appartenenza, partendo dal recupero della memoria, dalla riscoperta delle sedimentazioni culturali
che hanno da sempre arricchito le nostre genti. Bisogna iniziare prima possibile, perché siamo già in
tremendo ritardo. A cosa hanno portato cinquant‟anni di indipendenza? Quando, invece di
recuperare un patrimonio secolare e valorizzarlo, si cancella la memoria e si fa piazza pulita di tutto
quello che non concerne l‟arabità e l‟islam, cosa si ottiene? I risultati atroci sono ancora davanti ai
nostri occhi, le violenze che hanno insanguinato l‟Algeria negli anni novanta non potranno essere
dimenticate facilmente. E dovrà servire da lezione, per capire quale sia ormai la strada più giusta da
imboccare.
J. G. : E‟ ancora una volta la vecchia dottrina del “dividi et impera” che resiste?
W. L. : Un po‟ è così, ma mi domando: “governare su cosa?”. Quello che resta davanti ai nostri
occhi algerini sono ceneri e rovine, ferite aperte, sulle quali non è ancora possibile, se si continua a
seguire questa logica, edificare uno Stato. Non resteranno più cittadini ma solo zombies. Se c‟è
veramente la voglia di costruire uno Stato su basi moderne, attaccato alle sue culture, al suo passato
e allo stesso tempo aperto all‟avvenire, ad ulteriori contaminazioni, si è obbligati a rivedere tutto
l‟immaginario simbolico che è stato promosso durante gli ultimi decenni. Un immaginario
simbolico fondato sull‟astrazione e sull‟amputazione di gran parte del patrimonio storico, culturale
e religioso di questo Paese. Ripeto, bisogna partire da lontano per recuperare quell‟universalità
propria della nostra cultura e per rompere con le semplificazioni e le astrazioni che ci hanno
condotto alle pagine più buie della nostra storia.
J. G. : Passiamo ora all'oggetto del suo intervento alla conferenza Merifor. All‟interno del panorama
della letteratura algerina, quale posto occupa la letteratura arabofona rispetto a quella francofona? E
poi rispetto a quella berberofona, sempre che si possa parlare di una letteratura berberofona?
W. L. : Lo spazio letterario algerino è ripartito tra le tre lingue parlate e scritte nel Paese. C‟è la
letteratura arabofona, c‟è la letteratura francofona e c‟è, o meglio tenta di emergere negli ultimi
anni, una letteratura in tamazight. Con questa parola mi riferisco all‟alfabeto utilizzato e dunque alla
produzione scritta, seppur ancora minima, dal momento che la produzione orale, nel caso della
letteratura berberofona, ha comunque una tradizione antichissima.
facciamo una breve panoramica sulla storia della letteratura algerina: dall‟indipendenza fino agli
anni settanta ci troviamo di fronte ad una produzione totalmente francofona, mentre la diffusione di
una letteratura in lingua araba era assai ridotta. Tutto ciò ha una spiegazione storica, dal momento
che l‟utilizzo della lingua araba scritta era vietato fino al 1962; ma a partire dall‟indipendenza e
soprattutto dagli anni settanta la lingua araba ha recuperato pian piano il suo posto all‟interno dello
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spazio culturale e intellettuale. Le ripeto, sto parlando della lingua scritta. Dunque negli anni
settanta l‟arabo ha ritrovato il suo spazio, grazie alla politica di arabizzazione imposta dal regime,
che continua ancora oggi a ricevere forti critiche dalla classe intellettuale algerina. Polemiche a
parte, è anche grazie a quella discutibile politica che la lingua araba ha iniziato ad installarsi in
maniera solida e metodica nella nostra società.
La nascita ufficiale della letteratura algerina arabofona risale all‟anno 1971, con l‟uscita del primo
romanzo in lingua araba scritto da Hamid Benhadouga, Il vento del sud (tradotto in italiano da
Jolanda Guardi e pubblicato da Jouvance) accompagnato dalla pubblicazione di un secondo libro,
L’as, scritto da Tahar Ouattar, altro scrittore arabofono di spicco. Questi erano i padri fondatori del
romanzo algerino in lingua araba, i pionieri, mentre oggi siamo di fronte alla presenza di oltre un
centinaio di scrittori arabofoni, sia romanzieri che novellisti. Se poi allarghiamo il campo alla
poesia, allora bisogna inserire nel conto anche qualche decina di poeti.
Quanto alla letteratura francofona, ha continuato ad esistere e ad imporsi anche dopo
l‟indipendenza, mantenendo come punto di riferimento Parigi. Molti scrittori, infatti, non erano
riusciti ad emergere prima di sfruttare il canale parigino, o francese in generale. L‟esempio
emblematico a cui posso fare riferimento è quello di Yasmina Khadra, che aveva scritto quattro o
cinque romanzi in Algeria senza ricevere alcuna menzione o riconoscimento particolare. Solo una
volta trasferitosi a Parigi, certo a causa delle violenze islamiste, ha ottenuto riconoscimenti per le
sue opere, finendo per diventare uno degli scrittori più celebrati perfino nella stessa Algeria. Mentre
prima, pur avendo già scritto molto, era pressoché sconosciuto all‟interno del suo Paese. Lo stesso
discorso può essere fatto per gli scrittori in lingua araba. Ci sono molti autori che avevano già
pubblicato quattro o cinque romanzi in Algeria senza ricevere alcuna considerazione, e solo una
volta che quegli stessi romanzi sono stati ripubblicati a Beirut ci si è resi conto del loro valore e
della loro importanza. Beirut ha funzionato come una sorta di ascensore, un trampolino di lancio per
buona parte della letteratura arabofona algerina.
Quindi, tornando alla sua domanda, nel caso di entrambe le produzioni letterarie, arabofona e
francofona, possiamo affermare che gli scrittori algerini, il loro lavoro ed il loro successo,
dipendono da un contesto più ampio di quello prettamente nazionale. Nel caso della letteratura
arabofona è tutta la sfera della cultura araba, geograficamente incentrata a Beirut, che influisce,
mentre nel caso della letteratura francofona, o almeno per una parte di essa, è Parigi a svolgere
ancora un ruolo chiave.
J. G. : L‟utilizzo della lingua non risponde solo a logiche commerciali? Mi spiego meglio. Non si
sceglie una lingua piuttosto che l‟altra solo perché così, per esempio nel caso della lingua francese,
la diffusione dell‟opera al di fuori del contesto arabo potrà essere più facile?
W. L. : Questo è vero per quel che riguarda un certo periodo della storia della letteratura algerina;
un buon numero di scrittori in lingua araba si sono trasformati in scrittori francofoni, perché
credevano che lo spazio commerciale francese fosse più aperto. Ora questo discorso non è più
valido. E‟ possibile imporsi in patria e all‟estero utilizzando la lingua che più si ama. Se un libro ha
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qualità, finirà sicuramente per trovare un pubblico di lettori fedeli. In altre parole: se il tuo libro è
ben scritto, seppur in lingua araba, prima o poi arriverà ad essere diffuso, anche attraverso i canali
esclusivamente arabofoni. Posso citare un esempio a questo proposito, quello di Ahlan Mostaghemi
(anche lei tradotta in italiano, sempre per la casa editrice Jouvence). Il libro in questione si chiama
La memoria del corpo. Ahlan era una scrittrice sconosciuta, una poetessa dalla fama modesta. Il
libro che ho appena citato, quando fu pubblicato in Algeria non ebbe alcun tipo di riconoscimento;
nei primi due anni non vendette molto e rimase nella cerchia ristretta dei lettori specializzati. Solo
dopo che il libro è stato ripubblicato a Beirut c‟è stata una vera e propria riscoperta, una crescita di
interesse verso questa autrice e in particolare verso quest‟opera. Le copie vendute sono passate in
poco tempo da 3000 esemplari a 40000. Questo per dire che la lingua non è uno strumento che
garantisce in sé una buona diffusione. Certo può coinvolgere un pubblico più o meno vasto, ma
quando si scrive un libro di valore si arriverà sempre, prima o dopo, ad avere il giusto
riconoscimento dei lettori.
J. G. : A differenza delle grandi figure della storia della letteratura algerina, come Mohamed Dib,
Kateb Yacine, Mouloud Ferraoun e Assia Djebar, lei scrive i suoi libri in lingua araba. Quali fattori
hanno determinato questa sua scelta?
W. L. : Non so se si sia trattato di una vera scelta. O perlomeno di una scelta cosciente e
consapevole. Nel caso di Yacine, di Assia Djebar, Ferraoun e degli altri da lei citati si tratta della
prima generazione di scrittori, potremmo dire, nazionali. Erano scrittori algerini che scrivevano in
lingua francese e che attraverso le loro opere rivendicavano l‟indipendenza. Questa prima
generazione però non aveva avuto accesso alla lingua araba come strumento letterario, mentre per
esempio la mia generazione ha avuto la possibilità di scegliere. In più, come le ho detto, all‟interno
del mio percorso di formazione atipico, ho avuto la fortuna di vivere assieme a mia nonna,
profondamente legata al proprio patrimonio culturale, arabo e non solo. Se non ci fosse stata mia
nonna a spronarmi e incoraggiarmi non penso che avrei scelto la lingua araba come strumento di
espressione letteraria. Quando ho cominciato gli studi c‟era ancora un netto dominio della lingua
francese. Poi, all‟inizio degli anni settanta, sono stato quasi risucchiato all‟interno della politica di
arabizzazione, ma, grazie alla mia formazione bilingue, non ho subito questo passaggio in maniera
traumatica, al contrario di molti miei amici e colleghi. La nostra è stata la generazione della
transizione, la generazione che non è riuscita ad appropriarsi della lingua francese come voleva e
allo stesso tempo non è riuscita a beneficiare della lingua araba come era nelle aspettative del
regime che impose questa trasformazione.
Sia chiaro, nonostante il mio attaccamento all‟arabo io amavo la lingua francese, provavo e provo
tuttora un amore personale nei suoi confronti. Mi ha aperto gli occhi su molte cose che mai avrei
potuto scoprire senza conoscerla, ha arricchito notevolmente il mio bagaglio culturale, mi ha fornito
l‟occasione di sapere molto della mia stessa storia e ha contribuito in modo determinante
all‟apertura della mia mente. E‟ per questo che ho scelto di proseguire il percorso scolastico, dalle
medie fino alla fine delle superiori, in francese: ho studiato matematica, geografia, storia,
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letteratura tutto in francese. Ma allo stesso tempo ho insistito per poter frequentare almeno un corso
in arabo e al termine degli studi ho ottenuto il diploma di maturità in francese, pur continuando lo
studio della lingua araba. Questa doppia formazione mi ha permesso di avere maggior possibilità di
scelta in seguito, scelta che ho indirizzato verso il sentiero arabofono. Dopo i quattro anni trascorsi
all‟università di Orano mi sono trasferito in Siria, dove sono rimasto tre anni per preparare un
master e un dottorato. Mentre studiavo per il master e il dottorato in Siria, parallelamente ho
preparato un altro dottorato in Francia, e questo mi ha permesso ancora una volta di rimanere
attaccato ai due contesti culturali che amavo, tanto che ora mi trovo perfettamente a mio agio con
tutte e due le lingue. E‟ una fortuna e una ricchezza. Tutti gli scrittori della mia generazione hanno
avuto questa possibilità, anche se nella maggior parte dei casi hanno scelto di concentrarsi su un
percorso di studi unicamente francofono. Io invece ho iniziato a scrivere in lingua araba, ma questo
non mi ha impedito e non mi impedisce, di tanto in tanto, di scrivere in francese con grande piacere
e soddisfazione.
J. G. : Per concludere, riallacciandomi al concetto di cultura universale che condivido a pieno, quale
percorso consiglierebbe ai lettori italiani che volessero avvicinarsi alla letteratura algerina? In altre
parole, quali autori e quali opere ritiene imprescindibili quando si parla di letteratura algerina e per
quale motivo?
W. L. : Per primi ci sono quei romanzi che mantengono una forza e un valore intramontabile,
indipendentemente dall‟epoca in cui furono scritti. Ad esempio Il figlio del povero (tradotto in
italiano e pubblicato da Mesogea). Perché? Perché con quest‟opera la letteratura comincia a
confrontarsi con la visione coloniale, inizia a distinguersi e ad assumere una propria dimensione.
Denuncia la situazione in cui era costretto a vivere l‟algerino dell‟epoca (primi anni cinquanta) e
mette in risalto la capacità di questo indigeno di imporsi attraverso la forza intellettuale di cui era
dotato, una forza intellettuale che allora restava, parliamo della fine dei ‟40 e dell‟inizio dei ‟50, la
sua unica arma e le sua unica scelta possibile.
Di questa letteratura intramontabile fa certamente parte Mohamed Dib, con la trilogia (La casa
grande, L’incendio e Il telaio, editi da Feltrinelli), un‟opera molto importante che descrive la
società algerina prima della seconda guerra mondiale e accenna la nascita di una prima sorta di
coscienza nazionale. C‟è poi Kateb Yacine, e in questo caso parliamo della letteratura con la “l”
maiuscola. Con Yacine quello che era un dibattito prettamente nazionalista diventa un dibattito
essenzialmente letterario: siamo di fronte ad un testo frammentato, molto difficile, ma dotato di una
grande forza, che postula l‟esistenza di una identità frammentata, molteplice appunto, e a tratti quasi
indefinibile. Quindi la frammentazione fisica della struttura del romanzo vuole ricalcare la
frammentazione identitaria che colpisce ogni singolo algerino, e tramite questa scelta stilistica ed
ideologica Yacine lancia un messaggio chiaro: la questione dell‟identità e dell‟appartenenza non
può essere risolta con formule politiche e slogan superficiali, riduttivi, che altro non fanno se non
negare la complessità dell‟identità stessa. Sul piano letterario questo romanzo ha rotto con la
scrittura lineare di Mohamed Dib, Assia Djebar, Mouloud Mammeri.
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J. G. : Sta parlando del romanzo Nedjma?
W. L. : Stavo appunto per arrivare al titolo. Dal punto di vista della rappresentazione letteraria,
considero Kateb Yacine di importanza pari a Marcel Proust.
Poi troviamo Rachid Boudjedra, che ha scritto nel ‟69 Il ripudio, una delle opere principali del
panorama letterario algerino. Boudjedra ha seguito il cammino di Kateb Yacine, andando forse
anche un po‟ oltre. Yacine è rimasto infatti all‟interno della storia coloniale, mentre Boudjedra è
stato il primo a chiamare in causa il sistema di potere post-indipendenza, denunciando la
formazione dei clan in lotta per la gestione del Paese e delle sue risorse.
J. G. : Questa tendenza la ritroviamo un po‟ anche in Mouloud Mammeri?
W. L.: Sì, ma fino ad un certo puto. Mammeri non è mai uscito in realtà da quello che viene
chiamato il filone etnografico, è rimasto per lungo tempo racchiuso in un contesto regionale, anche
se questo non significa che non abbia scritto dei buoni romanzi, come La colline oubliée.
Proseguendo il cammino per generazioni, troviamo poi Benhadouga, scrittore arabofono, che ha
pubblicato Il vento del sud, il romanzo fondatore della letteratura algerina arabofona. Altro
arabofono è Tahar Ouattar, che con il romanzo L’as, ha gettato per primo uno sguardo critico e
polemico nei confronti della rivoluzione nazionale e della guerra di liberazione. Prima di questo
testo tutte le opere che si rivolgevano a quel periodo, lo facevano in maniera indiscutibilmente
trionfalistica. Benhadouga ha ripreso alcuni episodi della guerra, cercando di mettere in luce come
gli scontri non avvennero solamente tra algerini e francesi, ma anche tra gli stessi algerini. Ha
parlato degli omicidi politici e dei continui regolamenti di conti che sono avvenuti all‟interno dello
stesso FLN. E‟ stata la prima volta che un romanziere ha tentato di rendere visibile questa parte
della storia nazionale ritenuta sacra e intangibile dalla dottrina nazionalista. L’as resta un grande
romanzo, secondo me, fondamentale per capire bene l‟Algeria di quel periodo. Un grande romanzo,
proprio come quello di Mimouni, La tribù felice, che va più o meno nella stessa direzione. Anche
Mimouni parla della scoperta di una Algeria ben differente da quella che aveva sognato.
All‟interno di quella che è definita come la nuova generazione, invece, segnalo una scrittrice che
vive in Libano, Fadira al-Farouk. E‟ molto giovane ma ha già scritto quattro o cinque romanzi, che
più o meno si concentrano nell‟analisi della condizione della donna nella società algerina, una
condizione carica di contraddizioni, che Fadira affronta di volta in volta con molto coraggio. Infine
uno scrittore che in lingua araba scrive in maniera incantevole, e immagino faccia lo stesso in
lingua italiana, Amara Lakhous (Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, Divorzio
all'islamica a viale Marconi, Un pirata piccolo piccolo, Edizione e/o). La nuova generazione si sta
dimostrando prolifica in termini di produzione letteraria. Sono giovani scrittori che non si lasciano
intimidire dalle autorità e che manifestano una acuta capacità di analisi e di critica. Ne sono
sinceramente fiero.
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