Trattato dei diritti reali - Volume I: Proprietà e possesso
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Trattato dei diritti reali - Volume I: Proprietà e possesso
Sezione 6 IL POSSESSO di R. Caterina 6.1. Le relazioni di fatto fra l’uomo e le cose. — 6.1.1. Il possesso come criterio per l’attribuzione di poteri giuridici sui beni. — 6.1.2. Sul fondamento della protezione del possesso. — 6.1.3. I molti moduli del potere di fatto. — 6.2. Gli elementi del possesso. — 6.2.1. Gli elementi del possesso: il potere di fatto. — 6.2.2. Gli elementi del possesso: l’acquisto del potere di fatto. — 6.2.3. Gli elementi del possesso: l’animus domini. — 6.2.4. Il possesso mediato. — 6.2.5. L’esercizio del diritto reale: ipotesi problematiche. — 6.2.6. L’oggetto del possesso: i beni immateriali. — 6.2.7. L’oggetto del possesso: l’energia elettrica, le trasmissioni radiotelevisive. — 6.2.8. Gli elementi incompatibili: l’altrui tolleranza. — 6.3. Gli elementi della detenzione. — 6.3.1. La detenzione. — 6.3.2. Il titolo del detentore. — 6.3.3. La detenzione autonoma, la detenzione qualificata. — 6.4. Vicende del possesso e della detenzione. — 6.4.1. I modi di acquisto: l’occupazione, lo spoglio, l’interversione. — 6.4.2. La consegna. — 6.4.3. La successione nel possesso, l’accessione del possesso. — 6.4.4. Circolazione del possesso e autonomia privata. — 6.4.5. Le vicende del rapporto extrapossessorio: la legge, la decisione del giudice, l’atto amministrativo. — 6.4.6. La derelizione, la perdita, la rinuncia. — 6.5. I rapporti tra il proprietario e il possessore. — 6.5.1. I conflitti tra il possesso (o la detenzione) di cosa aliena e la proprietà. — 6.5.2. Il possesso di buona fede. — 6.5.3. Restituzione dei frutti e responsabilità per danni. — 6.5.4. Riparazioni, miglioramenti, addizioni. — 6.6. Le azioni possessorie. — 6.6.1. Le lesioni del possesso. — 6.6.2. Lo spoglio. — 6.6.3. Lo spoglio del possessore mediato. — 6.6.4. La molestia. — 6.6.5. La violenza e la clandestinità dello spoglio. — 6.6.6. L’elemento psicologico dello spoglio e della molestia. — 6.6.7. Le cause di giustificazione. — 6.6.8. Le legittimazione attiva alle azioni possessorie. — 6.6.9. La legittimazione passiva alle azioni possessorie. — 6.6.10. Oggetto delle azioni possessorie. — 6.6.11. Termine per la proposizione delle domande. — 6.6.12. La domanda di risarcimento del danno. — 6.6.13. Il divieto di cumulo del possessorio e petitorio. — 6.6.14. La nuova opera e il danno temuto. 6.1. Le relazioni di fatto fra l’uomo e le cose. 6.1.1. Il possesso come criterio per l’attribuzione di poteri giuridici sui beni. Il diritto regola i conflitti tra le persone, cui danno luogo il godimento, lo sfruttamento, la percezione del valore delle cose. A tale fine, il diritto presceglie generalmente una persona o una pluralità di persone e assegna loro una posizione privilegiata, a tal © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 358 IL POSSESSO III, 6.1.1. fine disponendo che le altre si astengano da questa o quella ingerenza nella cosa, e mettendo a disposizione delle prime rimedi adatti per rendere effettivo questo obbligo di astensione e per reagire all’ingerenza lesiva. In tal modo, il diritto previene conflitti violenti, ed evita la “tragedia dei comuni” che si produce quando è possibile usufruire di una risorsa scarsa senza limitazioni e senza dover pagare un costo adeguato. Come identificare il soggetto favorito? L’individuazione può seguire un criterio fondato sulla relazione di fatto che passa fra la persona e la cosa. Si protegge la tale persona perché si trova nell’immobile conteso, perché porta addosso l’abito contestato. Beninteso, la protezione può prendere varie forme: può concretizzarsi in una facoltà di rappresaglia, o nel diritto ad un risarcimento; può concretizzarsi in un diritto a riottenere il potere di fatto sulla cosa. Seguendo un criterio del tutto diverso, l’individuazione del soggetto favorito può avvenire mediante un indice indipendente dalle relazioni di fatto che passano attualmente fra la persona e la cosa; si può stabilire che questo o quell’insieme di circostanze di fatto, che chiameremo titolo ieratico, assegnino ad un soggetto dato la protezione dell’ordinamento, e che tale protezione duri senza un limite di tempo, fino a quando non intervenga un altro insieme di circostanze di fatto, che porranno termine alla protezione. Il diritto può dunque scegliere fra un potere dipendente da una relazione di fatto tra l’uomo e le cose, e un potere dipendente dal titolo ieratico. Collegamenti fra i due criterii possono operare in vari modi. Così, ad esempio, la relazione di fatto protratta per un certo tempo, o accompagnata da circostanze qualificanti, può essere essa stessa elevata a titolo per una protezione che, d’ora in avanti, si perpetuerà anche dopo la perdita della relazione stessa. L’ordinamento italiano contemporaneo conosce entrambi i criterii di selezionamento del personaggio favorito. Nelle grandi linee, si può dire che i rimedi possessorii proteggono il soggetto che, al momento dell’evento, si trovava in una data relazione di fatto con la cosa; mentre i diritti reali, e le azioni che ne derivano, © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.1.2. IL POSSESSO 359 sono accordati a chi sia munito di un titolo (il modo di acquisto della proprietà e degli altri diritti reali può peraltro consistere in un possesso qualificato). Da secoli i giuristi discutono sulla giustificazione della protezione del possesso. Il problema deve essere precisato. Il possesso, come criterio per l’attribuzione di poteri giuridici sui beni, è sicuramente più antico della proprietà. Ciò di cui si discute è in effetti la coesistenza della protezione del soggetto del titolo con la protezione del soggetto della relazione di fatto; della protezione della proprietà con la protezione del possesso. Se ogni sistema ha bisogno di regolare l’uso delle risorse, e per ciò stesso di creare situazioni di appartenenza, ciò che necessita di una giustificazione è la sopravvivenza dei rimedi possessorii in un sistema che conosce un sistema di appartenenza fondato sul titolo ieratico. 6.1.2. Sul fondamento della protezione del possesso. Della coesistenza della protezione della proprietà con la protezione del possesso è stata data una celebre giustificazione, che si fa risalire a Savigny: la protezione della relazione di fatto impedisce l’uso delle armi da parte dei cittadini impegnati nella difesa dei propri diritti (“ne cives ad arma veniant”). La tutela del possesso risponderebbe ad esigenze di tutela dell’ordine pubblico, impedendo il dilagare di esercizi arbitrarii delle ragioni dei contendenti e di spogli a catena. La protezione possessoria, se ispirata a questa logica, porta con sé una serie di regole applicative. In particolare, essa sembra suggerire la repressione non di qualunque offesa al possesso, ma solo di quelle offese che costituiscono una concreta minaccia per l’ordine pubblico, e dunque delle offese violente, o clandestine. La logica descritta ha contribuito alla formazione di più di un sistema storico. L’idea della prevenzione e della repressione della violenza traspare nei nomi dell’interdictum unde vi, dell’interdictum de vi cottidiana, e ancor più dell’interdictum de vi armata. E in Inghilterra, le formule dei writs che descrivono le originarie fattispecie di trespass parlavano, all’origine, di “quare vi et armis © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 360 IL POSSESSO III, 6.1.2. clausum fregit” (trespass to land), “quare vi et armis lapidem molarem gregit et bona et catalla cepit et asportavit” (trespass to chattels). In Italia, il codice civile menziona la violenza o la clandestinità come elementi per la dequalificazione della condotta contro cui reagisce l’azione di reintegrazione (art. 1168). Tuttavia, l’evoluzione del diritto ha liquidato da tempo la tradizione favorevole alla dequalificazione della lesione violenta e clandestina. Limitandoci all’ordinamento italiano contemporaneo, si deve registrare che già secondo il codice alcuni possessori sono protetti contro ogni lesione, e non solo contro quelle violente o clandestine (art. 1170 c.c.); e, anticipando un dato su cui torneremo, diciamo subito che la giurisprudenza accoglie un’accezione così annacquata della violenza dello spoglio da neutralizzarla completamente, svolgendola in un requisito tautologico: per la giurisprudenza ogni spoglio contrario alla volontà espressa o anche solo presunta del possessore è violento. La tutela dell’ordine pubblico è una giustificazione insufficiente di fronte all’ampiezza con cui in molti ordinamenti il possesso è protetto. Una spiegazione alternativa della protezione del possesso è spesso ricondotta al nome di Jhering. Proteggendo il possesso, il diritto proteggerebbe in modo più efficace la proprietà: spesso il proprietario e il possessore coincidono; proteggendo il possesso, il proprietario non ha bisogno di provare il suo diritto quando è spossessato; la protezione accordata a possessori che non sono proprietari sarebbe un “prezzo” da pagare per proteggere efficacemente i proprietari. Anche questa proposta non riesce a dar conto di come effettivamente la protezione del possesso è configurata in molti ordinamenti. In particolare, non riesce a spiegare perché il possesso sia protetto anche quando il convenuto riesca a provare che il possessore non è il proprietario. Una spiegazione più completa e convincente della protezione del possesso deve partire dalle stesse ragioni che inducono, più in generale, gli ordinamenti a dare vita a situazioni di appartenenza, © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.1.2. IL POSSESSO 361 cioè l’opportunità di prevenire conflitti violenti ma anche la distruzione e lo spreco delle risorse che discendono dalle “tragedie dei comuni”. Come si è detto, l’ordinamento può scegliere se individuare il soggetto favorito attraverso la relazione di fatto con la cosa o attraverso il titolo ieratico. Nessun ordinamento moderno si accontenta di un sistema di appartenenza fondato sulla relazione di fatto con la cosa; tutti riconoscono una proprietà che sopravvive anche in assenza della relazione di fatto. Ma i problemi che conducono alla creazione delle situazioni di appartenenza si riproducono nelle ipotesi in cui il proprietario è assente. Il proprietario ha diritto di escludere i terzi; ma come risolvere i conflitti quando nessuna delle due parti in causa è il proprietario? L’ordinamento può avere interesse ad individuare un supplente del proprietario assente; ed è naturale che lo individui in un soggetto che è per definizione presente, cioè nel soggetto del potere di fatto. Lo stesso proprietario ha tutto da guadagnare dalla protezione accordata al possessore verso i terzi. Il possessore ha un interesse proprio a difendere la cosa; l’ordinamento, una volta concessogli un potere di difesa, potrà imporgli di rispondere nei confronti del proprietario per come ha difeso la cosa contro i terzi. Il proprietario ha interesse ad avere di fronte a sé un gestore responsabilizzato e messo in grado di difendere la cosa piuttosto che a lasciare, nella sua assenza, il bene alla mercé di qualunque intrusione. Il possessore difende il proprio interesse, aspirando a godere il bene e magari sperando di usucapire, ma allo stesso tempo finisce anche per difendere gli interessi del proprietario (1). Il possesso può in questo quadro essere visto come una forma (1) L’impostazione del testo riflette ampiamente riflessioni già presenti in R. SACCO, Il possesso, in Trattato di diritto civile e commerciale già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, Milano, 1988, e in R. SACCO e R. CATERINA, Il possesso, 2ª ed., Milano, 2000. Per una ricostruzione del dibattito sulle ragioni della tutela del possesso, e per una soluzione non dissimile da quella proposta nel testo, cfr. anche J. GORDLEY & U. MATTEI, Protecting Possession, in 44 American Journal of Comparative Law, 293 (1996). © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 362 IL POSSESSO III, 6.1.2. cadetta di appartenenza, protetto per le stesse ragioni della proprietà, e contro ogni genere di ingerenza, anche non violenta. Il soggetto dotato di titolo ieratico avrà gli strumenti per prevalere sul soggetto del potere di fatto, e recuperare la cosa; potrà, in quella sede, chiedere conto dei danni arrecati dallo stesso possessore o da terzi. Potrà, per evitare ingiustificati arricchimenti, essere chiamato a tenere indenne il possessore di una serie di spese legate alla gestione della cosa di cui il possessore ha dovuto darsi carico. Il dato meno facile da spiegare, e per certi versi sorprendente, è la possibilità per il possessore, almeno in certe circostanze, di reagire anche allo spoglio posto in essere dallo stesso proprietario. Intanto, bisogna dire che si tratta di una regola meno universale di quella che protegge il possessore verso i terzi. Nei sistemi di common law, sul possessore prevale il proprietario, che ha un better title; in Germania, l’opinione maggioritaria consente che la ragione petitoria escluda la sussistenza della lesione possessoria (2). Come vedremo, nello stesso ordinamento italiano il divieto per il convenuto nel possessorio di far valere in via di eccezione le sue ragioni proprietarie è stato ridimensionato da una sentenza della Corte costituzionale. Laddove il possessore è effettivamente protetto anche nei confronti del proprietario, si possono immaginare alcune ragioni a sostegno di questa soluzione. Intanto, un ordinamento può ritenere più facile mettere in funzione, a favore del possessore, un’azione giudiziale esperibile nei confronti di tutti, contrappesata da un’azione per il rilascio e il rendiconto concessa al proprietario, piuttosto che non istituire un sistema di azioni per la tutela dell’appartenenza, fondate sul titolo relativamente migliore, in cui il possessore prevale sul terzo e soccombe di fronte al proprietario. In secondo luogo, poiché il possesso fa nascere ragioni del possessore per spese, riparazioni, ecc., esiste un legittimo inte(2) Cfr. G. A. BECCARA, La Corte costituzionale ridimensiona la portata del cosiddetto “divieto del cumulo” tra possessorio e petitorio, in Quadrimestre, 1993, 594, pp. 617 ss. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.1.3. IL POSSESSO 363 resse del possessore a poter abbinare la definizione dei rapporti contabili relativi a queste voci con la definizione del suo dovere di rilasciare il bene al proprietario (tanto che molti ordinamenti riconoscono al possessore un diritto di ritenzione). In terzo luogo, la tutela del possessore contro lesioni violente da parte del proprietario può effettivamente essere ispirata alla tutela dell’ordine pubblico; e la protezione del possessore anche contro il proprietario potrebbe essere il residuo di una impostazione (“ne cives ad arma veniant”) che si è affievolita nel corso del tempo. 6.1.3. I molti moduli del potere di fatto. Gli ordinamenti giuridici consentono a chi si trova in una relazione di fatto con la cosa di reagire alle lesioni del possesso. Non è questo l’unico effetto che gli ordinamenti assegnano alla relazione di fatto tra l’uomo e la cosa. La relazione di fatto con la cosa, accompagnata da circostanze qualificanti, può costituire un modo di acquisto della proprietà — così avviene per l’usucapione, per l’acquisto a non domino di beni mobili, per l’occupazione. La consegna può essere oggetto di un obbligo contrattuale — e bisognerà stabilire quando esso è assolto. Il diritto penale può assegnare una rilevanza alla relazione di fatto con le cose — a seconda dei casi per proteggere il possessore o per punirlo. Non necessariamente le relazioni di fatto a cui l’ordinamento attribuisce, a vari fini, rilevanza, sono identiche. I tratti distintivi che possono diventare rilevanti sono molti. Limitiamoci a qualche esempio, relativo all’ordinamento italiano. Secondo un’opinione consolidata, per non frustrare la ragione della norma che impone il requisito della consegna, ai fini dell’art. 1153 c.c. è insufficiente la consegna nelle forme spiritualizzate del costituto possessorio o della consegna delle chiavi; la regola “possesso vale titolo” presuppone il trasferimento all’acquirente del possesso materiale (c.d. “possesso reale”) (3). Ep(3) Cfr. L. MENGONI, Gli acquisti “a non domino”, 3ª ed., Milano, 1975, pp. 128 ss.; Cass. 17 marzo 1950, n. 720, in Foro it., 1950, I, 1177. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 364 IL POSSESSO III, 6.1.3. pure, ad altri fini, la consegna delle chiavi basta sicuramente a trasferire il possesso. Il possessore di buona fede è (quasi ovunque) destinatario di regole diverse dal possessore di mala fede; ad esempio, in Italia solo il possessore di buona fede acquista i frutti. In senso ampio, possiamo dire che ogni relazione di fatto con la cosa è possesso; ed allora si dovranno precisare di volta in volta i fatti concomitanti il possesso che sono necessari perché si produca questo o quest’altro effetto. Nulla vieta, però, di riservare il nome di possesso solo alle relazioni di fatto caratterizzate da certi tratti distintivi; ed allora bisognerà trovare un altro nome per le relazioni di fatto prive di quei tratti distintivi, ma comunque rilevanti per il diritto. Una apparente divaricazione tra i sistemi di civil law si traduce sostanzialmente in una diversa scelta terminologica. In armonia con la tradizione romanistica, i sistemi italiano e francese distinguono tra possesso e detenzione sulla base di un elemento che l’opinione prevalente identifica nell’animus domini — l’intenzione di comportarsi e farsi considerare come titolare della proprietà, o, più ampiamente, di un diritto reale sulla cosa. Chi ha un potere di fatto sulla cosa ma non l’animus domini è un detentore. Il legislatore tedesco assume un punto di partenza diverso. La nozione di base è la signoria di fatto sulla cosa. Chi ha la tatsächliche Gewalt ha il Besitz, cioè il possesso. Chi si comporta come conduttore, o come depositario, è Besitzer, così come chi si comporta come proprietario. La protezione possessoria è in Germania riconosciuta al Besitzer. E in Francia e in Italia? In Francia e in Italia la azione contro lo spossessamento (réintégrande, azione di reintegrazione) è concessa anche al detentore. In Francia la equiparazione è ancora più ampia, perché una legge del 1975 (l. 75-596 del 9 luglio) ha esteso al detentore anche la azione contro le molestie (complainte) (4). (4) Cfr. A. GUARNERI, Una legge francese sulle azioni possessorie, in Riv. dir. civ., 1980, I, 302. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.1.3. IL POSSESSO 365 In Francia, in Italia solo il possessore può usucapire. E in Germania? In Germania il BGB distingue tra chi possiede la cosa als ihm gehörend, come appartenente a lui stesso, e chi possiede in altro modo; e crea perciò la figura dello Eigenbesitzer, contrapposto al Fremdbesitzer; solo chi possiede come proprietario acquista per usucapione. In altre parole: in Germania la categoria dei possessori è ampia, e dentro la categoria si ritaglia una sottocategoria più ristretta a cui è riservata la possibilità di acquistare per usucapione; in Francia e in Italia la categoria dei possessori è più ristretta, ma la protezione possessoria è estesa anche a soggetti che non sono possessori. La differenza è principalmente terminologica. Il legislatore italiano adotta la contrapposizione possessodetenzione; non è detto che vi si mantenga sempre fedele. Ad esempio, gli artt. 1992 ss. riservano al “possessore” del titolo di credito la possibilità di presentare il documento all’emittente, per pretenderne con successo la prestazione. Ma il trattamento giuridico del detentore non è diverso. Possessore e detentore possono pretendere la prestazione; il debitore si libera non solo pagando al possessore, ma anche pagando al detentore. E infatti le leggi speciali sulla cambiale e sull’assegno identificano il “portatore legittimo” del titolo con il detentore (cfr. ad es. l’art. 20 della legge cambiaria). Sotto un diverso profilo, abbiamo già detto che secondo un’interpretazione pacifica “sebbene nell’art. 1153 c.c. il legislatore parli genericamente di possesso come condizione essenziale per l’acquisto della proprietà delle cose mobili, egli ha inteso riferirsi al possesso materiale” (5). È bene allora tenere a mente una lezione già da tempo assorbita in altri ordinamenti; possesso è un concetto funzionale e relativo; non è detto che le relazioni di fatto tra uomo e cosa a cui il diritto attribuisce rilevanza a vari fini siano identiche fra loro (6). (5) Cass. 17 marzo 1950, n. 720, in Foro it., 1950, I, 1177, p. 1181. (6) Nella letteratura inglese cfr., in questo senso, D.R. HARRIS, The Concept of Possession in English Law, in A.G. GUEST (ed.), Oxford Essays in Jurisprudence, London, 1961, 69. Nella letteratura italiana l’esistenza di molteplici figure di possesso, non riconducibili ad una nozione © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 366 6.2. IL POSSESSO III, 6.2. Gli elementi del possesso. 6.2.1. Gli elementi del possesso: il potere di fatto. Secondo la impostazione tradizionale, ai fini della configurabilità del possesso sono necessari due elementi: il potere di fatto sulla cosa (latineggiando, corpus); l’intenzione di tenere quella determinata cosa quale proprietario o titolare di un altro diritto reale (animus). La descrizione del potere di fatto è difficoltosa. In dottrina si sono moltiplicate le perifrasi descrittive (signoria di fatto, signoria economica, dominazione, etc.), che risolvono poco, perché spostano il problema dalla nozione del potere di fatto alle nozioni di signoria (fisica o economica), dominazione, etc. Lo sforzo per indicare la struttura del possesso deve passare attraverso la constatazione di due concezioni alternative, più o meno esplicitamente seguite nella letteratura. Una parte della dottrina muove dall’idea che il possessore, come il proprietario, può essere attivo, o essere inoperoso. Il proprietario può coltivare il prato, o lasciarlo incolto; può leggere il libro o lasciarlo sulla scrivania. Il possessore deve poter fare lo stesso senza smettere di essere tale. La definizione del potere di fatto deve essere valida anche per l’ipotesi del possesso inoperoso; ed allora, deve ricorrere ad elementi diversi dalla condotta del possessore. Un primo passo in questa direzione si può far risalire a Savigny, che ebbe il merito di osservare che per la continuazione del possesso non è necessaria la “immediata fisica disponibilità” della cosa, ma importa unicamente che duri “la potenza di riprodurre a piacere quell’immediato rapporto” (7). Basta, dunque, la possibilità di ingerirsi senza ostacoli nella cosa. Il secondo passo è stato la valorizzazione di un elemento diverso dall’ingerenza del possessore: l’astensione dei terzi. L’inunitaria, è sottolineata (anche attraverso la scelta del titolo) in B. TROISI e C. CICERO, I possessi, in Trattato di diritto civile del Consiglio nazionale del Notariato diretto da P. PERLINGIERI, Napoli, 2005. Sulla molteplicità delle relazioni di fatto rilevanti insistono SACCO, Il possesso, cit., e SACCO e CATERINA, Il possesso, 2a ed. (7) F.K. VON SAVIGNY, Il diritto del possesso (tr. it. P. CONTICINI), Firenze, 1839, § 18, p. 217. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.1. IL POSSESSO 367 gerenza del possessore può essere saltuaria e sfuggente; l’astensione dei terzi è invece requisito del possesso in ogni sua fase. Il potere di fatto non consiste tanto in una relazione materiale tra il soggetto e la cosa, ma “nel fatto che i terzi si astengono e che non vi è invece un ostacolo fisico, almeno di carattere duraturo all’ingerenza del possessore sulla cosa” (8). Il potere di fatto sulla cosa, allora, richiede l’astensione attuale dei terzi da ingerenze sulla cosa e la possibilità di ingerirsi da parte del possessore; non richiede necessariamente una attività da parte del possessore (9). Questa ricostruzione ha suscitato insofferenze in dottrina. Non sono mancate, infatti, critiche a una eccessiva “spiritualizzazione” del corpus. Il codice civile (art. 1140) richiede una attività; mentre il proprietario può non esercitare il suo diritto senza perderlo, il possessore inattivo perderebbe allora il suo possesso. In questo senso andrebbe respinta la tentazione di un troppo spinto parallelismo tra possesso ed esercizio del diritto di proprietà: il non uso non sarebbe adattabile al possesso, che esige un comportamento positivo (10). Se la dottrina è divisa, la giurisprudenza è fermissima nel ritenere che “per la conservazione del possesso non occorre la materiale continuità dell’uso né l’esplicazione di continui e concreti atti di godimento e di esercizio del possesso” (11); che anzi il possesso “può anche concretarsi nel non uso” (12). Per limitarci a qualche esempio, si è ritenuto che lo stato di abbandono in cui versa un fondo non vale a escludere il possesso, “poiché si può possedere un fondo anche trascurandone la coltivazione, per mancanza di interesse o per altre ragioni”; e ciò in base al “principio di diritto che non condiziona la conserva(8) AL. FEDELE, Possesso ed esercizio del diritto, Torino, 1950, p. 63. (9) In questo senso, A. MONTEL, Il possesso, 2ª ed., in Trattato di diritto civile italiano diretto da F. VASSALLI, Torino, 1962, p. 39 ss.; R. SACCO e R. CATERINA, Il possesso, 2a ed., in Trattato di diritto civile e commerciale già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, Milano, 2000, pp. 76 ss. (10) In questo senso, U. NATOLI, Il possesso, Milano, 1992, p. 38 ss.; F. ALCARO, Il possesso, in Commentario del codice civile diretto da P. Schlesinger, Milano, 2003, p. 35 ss. (11) In questo termini Cass. 11 novembre 1997, n. 11119. (12) Cass. 29 luglio 1958, n. 2743. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 368 IL POSSESSO III, 6.2.1. zione del possesso all’esplicazione di continui e concreti atti di godimento e di esercizio del possesso” (13); che “il semplice abbandono del domicilio coniugale da parte del proprietario del fondo, ancorché seguito da assoluto disinteresse per le sorti di questo bene” (disinteresse protrattosi per oltre venti anni) non basta a far perdere il possesso (14); che non necessariamente perde il possesso di una servitù di passaggio chi tiene chiuso, per molti anni, il cancello di accesso alla strada utilizzata, essendo sufficiente che la cosa resti nella “virtuale disponibilità” del possessore (15). La giurisprudenza spesso, adottando una formula latina, parla di possibilità di conservare il possesso solo animo (16). La formula latina dichiara superfluo il corpus, perché con la parola corpus indica la sola ingerenza attuale del possessore. Si dica che non è necessario il corpus (nel senso di ingerenza attuale), si dica che il corpus si riduce alla sola ingerenza potenziale accompagnata dalla astensione dei terzi: ciò che è sicuro è che la giurisprudenza non richiede un comportamento attivo da parte del possessore. La concezione attivistica del possesso, se presa sul serio, è incompatibile con le esigenze di una gestione normale dei beni. I soggetti di norma non realizzano continui atti di godimento dei propri beni; anche l’inerzia può essere un comportamento efficiente, e non c’è ragione di scoraggiarla. In realtà, la stessa dottrina che nega, in linea di principio, che l’inattività sia compatibile con l’esistenza del possesso, finisce spesso per ridimensionare le proprie affermazioni. Si ammette, infatti, che non è immaginabile una “continuità ‘fisica’ della relazione con la cosa”, che la attività deve essere valutata tenendo conto “della specifica funzione del bene di riferimento”, implicando necessariamente anche “momenti di inerzia e di discontinuità”; ma si avverte che occorre “tenere ben distinti i profili (13) (14) (15) (16) aestivisque Cass. 4 giugno 1999, n. 5444. Cass. 7 gennaio 1992, n. 39. Cass. 6 settembre 1994, n. 7674. PAOLO, Sent. V, 2, 1: “retinere tamen nudo animo possumus, sicut in saltibus contingit”. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.1. IL POSSESSO 369 giuridici dell’inerzia rispetto a quelli puramente fattuali, per così dire naturali ed ‘esistenziali’ e quindi irrilevanti ai fini dell’indagine” (17). Siccome qui si intende precisamente fornire una descrizione “fattuale” del potere di fatto, preferiamo chiamare le cose con il loro nome e dire che l’inerzia del possessore non è incompatibile col possesso. Il possesso, secondo la giurisprudenza, viene meno se vengono meno la possibilità di ingerirsi e l’astensione dei terzi. Così, si è deciso che seppure “il possesso, che si esercita ad intervalli (come nei pascoli soggetti a soste invernali o estive, ‘saltus hiberni et aestivi’) non cessa di essere continuo, se l’utilizzazione della cosa, su cui si esercita il potere di fatto, subisce interruzioni dipendenti dalla natura o dalla destinazione economica della cosa”, “la possibilità di ripristinare ‘ad libitum’ il contatto materiale con la cosa, ossia il ‘corpus’, viene meno, se altri abbiano frattanto instaurato sulla cosa il proprio possesso, sia pure attraverso un autonomo atto di apprensione”; con la conseguenza che “il possessore, privato del possesso, che (…) non si avvalga dell’azione reintegratoria, non può recuperare di sua iniziativa la perduta disponibilità, senza incorrere, sussistendone anche gli altri estremi, in uno spoglio” (18). Si è escluso che possa considerarsi possessore chi, per riacquistare il possesso di alcuni beni mobili custoditi in un’abitazione, sia costretto a penetrare furtivamente nella casa, effrangendo la serratura di una porta, in quanto “il possesso solo animo (…) presuppone necessariamente che il titolare abbia la possibilità di disporre ad libitum ed a propria discrezione del corpus e senza che debba avvalersi di azioni violente o clandestine” (19). Ancora, dal momento che “il possesso e la detenzione non sono ipotizzabili se manchi la disponibilità, anche solo virtuale, della cosa”, si è escluso il possesso della madre “per l’allontana(17) (18) (19) ALCARO, Il possesso, cit., pp. 45-46. Così Cass. 20 gennaio 1986, n. 368. Cass. 5 dicembre 1988, n. 6583. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 370 IL POSSESSO III, 6.2.1. mento forzato (…) dal fondo e per gli impedimenti frapposti dal figlio ai tentativi di riacquisto del godimento del bene” (20). La giurisprudenza insiste sulla necessità della possibilità di ripristinare ad libitum il contatto materiale con la cosa. La casistica evidenzia però che l’impossibilità dell’ingerenza si accompagna puntualmente ad un’ingerenza altrui (e dunque al venir meno dell’astensione da parte dei terzi). Non c’è da stupirsi. Finché l’impossibilità di ingerenza materiale (causata ad esempio da fattori naturali) non si accompagna all’ingerenza altrui, non sorgono conflitti. Possono essere utili due precisazioni. Il potere di fatto è elemento indispensabile del possesso. Lo spoglio pone fine al potere di fatto, e dunque al possesso; il che non esclude che lo spogliato abbia diritto a essere ripristinato nel potere di fatto esercitando le azioni possessorie. Il linguaggio corrente può indurre in equivoci; molte volte è comodo parlare del “possessore” per indicare in realtà una persona che ha avuto, e poi perduto, il possesso. Si dirà così che “il possessore agisce in reintegrazione” invece di dire che “colui che era possessore fino al momento dello spoglio agisce in reintegrazione”. Le molestie, invece, sono ingerenze marginali che modificano il contenuto del potere di fatto, senza necessariamente distruggerlo. Chi passa sul mio fondo non distrugge il mio possesso; naturalmente il passaggio potrà preludere all’acquisto del possesso di una servitù di passaggio, il che mi impedirà di passare alle vie di fatto e ad esempio bloccare il passaggio senza commettere spoglio. I requisiti dell’astenzione dei terzi e della possibilità di ingerirsi nel bene si intrecciano allora in modo stretto. L’impossibilità di ingerenza diventa concretamente rilevante quando si combina con l’ingerenza altrui; l’ingerenza altrui distrugge il potere di fatto quando tende ad escludere il precedente possessore. (20) Cass. 26 ottobre 1993, n. 10642. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.2. 6.2.2. IL POSSESSO 371 Gli elementi del possesso: l’acquisto del potere di fatto. Si afferma, solitamente, che l’ingerenza deve essere attuale nel momento iniziale del possesso, anche se può essere puramente potenziale nella fase ulteriore. Già i Romani insegnavano che il possesso si può conservare, ma non acquistare solo animo (21). E la giurisprudenza italiana si mantiene fedele a tale principio. La regola così descritta è certamente ragionevole. Senza una presa di possesso riconoscibile di Tizio, come si potrebbe stabilire che il possessore è proprio Tizio, e non un altro soggetto? Il principio però conosce un’eccezione. Secondo una massima giurisprudenziale consolidata, per stabilire se vi sia stato o non trasferimento del possesso, non è necessaria l’apprensione materiale della cosa, “in quanto il potere di fatto deve intendersi conseguito quando, pur mancando la prossimità o contiguità materiale tra il soggetto e la cosa, questa sia posta, tuttavia, a disposizione del soggetto medesimo, il quale abbia la possibilità di agire liberamente su di essa” (22). Torneremo a parlare della consegna; per ora registriamo che quando il potere di fatto si fa derivare dal consenso del precedente possessore, non è necessaria, per iniziare a possedere, nessuna ingerenza materiale. La necessità di un’ingerenza iniziale non deve allora essere sopravvalutata. Certo, la situazione di fatto deve essere intelleggibile; e in assenza di qualsiasi ingerenza materiale, di solito non lo è. Ma quando la situazione è illuminata da altri elementi, anche della ingerenza iniziale si può fare a meno. Dal punto di vista dell’ambito spaziale dell’ingerenza, vale la vecchia regola romana secondo cui “sufficit quamlibet partem fundi introire” (23). La giurisprudenza ripete fedelmente che “una volta fornita la prova del possesso della cosa nella sua unità, (21) PAOLO, Sent. V, 2, 1: “Sed nudo animo adibisci quidam possessionem non possumus, retinere tamen nudo animo possumus, sicut in saltibus aestivisque contingit”. (22) Così Cass. 8 ottobre 1963, n. 2676; nello stesso senso Cass. 20 aprile 1962, n. 801; Cass. 10 dicembre 1996, n. 10986. (23) PAOLO, Dig. 41, 2, 3, 1. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 372 IL POSSESSO III, 6.2.2. non è necessaria l’ulteriore dimostrazione del possesso della parte o della frazione” (24) (il che presuppone, ovviamente, una cosa chiaramente individuabile nella sua unità). Nei limiti in cui gli atti di ingerenza rilevano, si pone il problema se essi debbano essere atti di ingerenza volontari. Il problema tende spesso a confondersi con quello della rilevanza dell’animus domini; sul piano logico, tuttavia, è ben possibile distinguere tra volontà di assoggettare a sé la cosa e volontà di essere proprietario. La risposta tradizionale è che gli atti di ingerenza devono essere volontari. Nello stesso senso si esprime la giurisprudenza italiana. L’atto di acquisto del possesso, secondo la giurisprudenza, è un atto giuridico, e come tale richiede la consapevolezza e la volontà dell’agente, ma non è un negozio giuridico; pertanto “nell’atto di acquisto del possesso è indispensabile la volontà del soggetto di esercitare la propria signoria sulla cosa mentre l’effetto è determinato direttamente dalla legge in relazione a circostanze che esulano del tutto dall’elemento interiore o spirituale”; dal che si ricava che “per l’acquisto del possesso (…), non è affatto necessaria la capacità di agire ma basta la capacità naturale di intendere e di volere” (25). Di conseguenza, anche il minore (26) e l’infermo di mente (27), purché dotati di capacità naturale, possono porre in essere atti di acquisto del possesso. Dunque, è indispensabile la volontà del soggetto di esercitare la propria signoria sulla cosa, e quindi la consapevolezza e volontà dell’ingerenza; non sarebbero sufficienti ingerenze dovute ad episodi di sonnambulismo o di raptus. La necessità di questa consapevolezza e volontarietà sono state criticate. Si è osservato che uno stato psicologico di volontà non può durare quanto dura il possesso, né protrarsi quando il possessore dorme o è impazzito, e che si può avere il possesso di oggetti dimenticati. (24) (25) (26) (27) Cass. Cass. Cass. Cass. 11 18 18 25 febbraio 1967, n. 347; nello stesso senso, Cass. 19 luglio 1968, n. 2601. giugno 1986, n. 4072. giugno 1986, n. 4072. febbraio 1952, n. 504. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.2. IL POSSESSO 373 Tali censure non sono insuperabili. Come l’ingerenza, la volontà è richiesta nel solo momento dell’acquisto; come il possessore non deve mantenere un contatto fisico con la cosa, così non occorre che in ogni singolo istante pensi al proprio rapporto. D’altra parte, la consapevolezza e volontarietà dell’ingerenza non implica necessariamente consapevolezza delle singole cose di cui si acquista il possesso: si pensi al rigattiere che, senza esaminarne il contenuto, acquista una scatola piena di vecchi giocattoli. Figure di potere di fatto, in cui l’operazione di ieri vale a fondare il potere di fatto di oggi, hanno ugualmente fornito l’occasione per discutere sia del requisito dell’intento che dell’effettiva esigenza di una ingerenza iniziale: si pensi alla predisposizione di una trappola o, più banalmente, di una cassetta per le lettere. 6.2.3. Gli elementi del possesso: l’animus domini. Una lunga tradizione richiede che il potere di fatto sia accompagnato da un elemento psicologico. Questo elemento viene definito come intenzione di comportarsi e farsi considerare come titolare di quel diritto reale, cui corrisponde il potere di fatto sulla cosa. Si parla, perlopiù, di animus domini, o animus possidendi, o ancora di animus rem sibi habendi (il che può creare qualche confusione con il requisito della volontarietà dell’ingerenza, che talvolta è indicata nello stesso modo). Questo intento viene utilizzato per discriminare il possessore (il quale intende esercitare la proprietà o altro diritto reale) dal detentore. L’insegnamento in esame è saldo in Francia e in Italia. In Germania, come si è detto, si è abbandonata la distinzione tra possesso e detenzione; lo stesso BGB, però, distingue tra chi possiede la cosa als ihm gehörend, come appartenente a lui stesso, e perciò acquista per usucapione la proprietà, e chi possiede in altro modo; e dottrina e giurisprudenza richiedono la volontà di esercitare il potere sulla cosa come proprietario. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 374 IL POSSESSO III, 6.2.2. Il codice italiano del 1942 non ha richiesto espressamente l’intento (mentre il codice civile del 1865, art. 686, parlava espressamente di “animo di tenere la cosa come propria”). Tuttavia, distinguendo tra possesso e detenzione, sembra averlo logicamente sponsorizzato. Il codice, inoltre, menziona il requisito dell’attività corrispondente all’esercizio del diritto reale, e l’intento sembra un tipico elemento dell’attività-esercizio: l’esercizio del diritto di usufrutto su un appartamento si può distinguere cioè dall’esercizio del diritto personale del conduttore in base all’intento del soggetto. La giurisprudenza è saldamente ancorata al criterio discretivo dell’animus, e contrappone animus possidendi e animus detinendi (28); e, sia pur con formulazioni diversificate, anche in dottrina rimane diffusa l’idea che sia l’animus a distinguere le figure del possessore e del detentore (29). Non manca, tuttavia, una forte corrente dottrinale orientata verso la concezione oggettiva del possesso, che rifiuta rilevanza all’intento e propone di rimpiazzarlo con altri elementi. Una parte degli autori, per sollevare il giudice dall’indagine su un fatto psicologico, quale è l’intento, suggeriscono di qualificare il potere di fatto in base a comportamenti materiali del soggetto. In questo senso si è osservato che “ciò che conta è la condotta di chi tiene o usa la cosa, non le sue segrete intenzioni, di cui il diritto non si può occupare”; per il possesso occorre che la persona si comporti “in modo corrispondente a quello di chi esercita un diritto”; invece, “detentore è colui che si comporta non in modo corrispondente all’esercizio di un diritto reale, ma in modo diverso, cioè dando dei segni di riconoscere un ‘potere’ altrui; per esempio, paga un canone di locazione, chiede un (28) Cfr., a mero titolo di esempio, Cass. 19 agosto 2002, n. 12232; Cass. 18 febbraio 2000, n. 1824. (29) Cfr., ad esempio, C. TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, in Digesto civ., XIV, Torino, 1996, 8, pp. 15 ss.; A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, 41a ed., Padova, 2004, pp. 546-547. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.2. IL POSSESSO 375 contributo per le spese, scrive una lettera di ringraziamento, o chiede una dilazione per la riconsegna, ecc.” (30). Altra parte della dottrina propone invece di sostituire all’animo il titolo. In questa prospettiva, “la differenza tra possesso e detenzione a chi ben guardi non è nella volontà, ma nel titolo, che dalla volontà o dalla legge si desuma; nell’autonomia o nella dipendenza obbiettiva dal possesso e dal potere di fatto altrui”; per cui non si richiede un determinato animus ma “un determinato titolo (che è la qualifica giuridica del fatto)” (31). Ed ancora, nello stesso senso, si è osservato che la relazione possessore/ detentore “non può non sorgere sulla base di un rapporto (di tipo obbligatorio) configurato giuridicamente e formalmente inquadrabile in un determinato modello o tipo negoziale, fonte di limiti e di ‘misurate’ attribuzioni soggettive”; per cui “laddove tale titolo non si ravvisasse, la posizione del soggetto, nella cui disponibilità la cosa si trovi, si qualificherebbe senz’altro in termini di possesso” (32). Nella dottrina orientata verso la concezione oggettiva aleggia la diffidenza verso il ricorso ad elementi “di incerta natura psichica o spirituale”, a “vaghi elementi fondati sulla ricerca delle segrete intenzioni del soggetto” (33). La valutazione del dibattito sul requisito soggettivo del possesso deve essere articolata in più punti. Innanzitutto, è bene precisare che, ammessa una rilevanza della volontà, è ovvio che questa volontà deve manifestarsi in qualche modo all’esterno, e che nessuno intende attribuire rilevanza a pensieri segreti del soggetto da individuare mediante tecniche di divinazione sciamanica. Del resto, una generica irrilevanza degli stati intenzionali per il diritto sembra difficile da (30) P. ZATTI e V. COLUSSI, Lineamenti di diritto privato, 9ª ed., Padova, 2003, pp. 277-278. Un discorso non dissimile (ma con toni più sfumati) è in F. DE MARTINO, Del possesso, in Commentario del codice civile a cura di A. SCIALOJA e G. BRANCA, 5a ed., Bologna-Roma, 1984, pp. 1 ss. (31) C.A. FUNAIOLI, L’animus nel possesso e il dogma della volontà, in Giust. civ., 1951, 16, p. 27. (32) ALCARO, Il possesso, cit., p. 84. Favorevole alla sostituzione della volontà con il titolo è anche C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, Milano, 1999, p. 729. (33) P. RESCIGNO, Manuale di diritto privato, Milano, 2000, p. 445. Considerazioni non dissimili in TROISI e CICERO, I possessi, cit., p. 16. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 376 IL POSSESSO III, 6.2.2. sostenere (basti pensare al diritto penale); e naturalmente, laddove rilevano, gli stati intenzionali sono pur sempre ricostruiti sulla base di indici esterni (34). Il tentativo di sostituire all’animo il titolo incontra alcune difficoltà. Una conferma dell’irrilevanza dell’animus è spesso tratta dall’art. 1141, 2° comma, c.c.: “la interversione infatti si verifica esclusivamente in dipendenza di due fatti obiettivi, ritenuti dalla legge idonei a mutare il titolo della detenzione” (35); “a nulla varrebbe in contrario la prova di una diversa volontà se non attuata nelle forme necessarie appunto per mutare il titolo” (36). Il codice italiano richiede al detentore, per acquistare il possesso, che il titolo muti per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione fatta contro il possessore. Tale disposizione non soltanto non fornisce una prova decisiva a favore dell’irrilevanza dell’animus, ma anzi fornisce un indizio in senso contrario. Certo, non basta al detentore mutare la propria volontà per trasformarsi in possessore. Ma il fatto che, in questa ipotesi, a tutela del possessore originario, siano richiesti dei requisiti (34) Il sospetto di molti giuristi per il ricorso a elementi interni e psichici riecheggia, più o meno consapevolmente, le tesi del comportamentismo, che è stato il paradigma dominante nella ricerca psicologica nel corso della prima metà del Novecento. Gli psicologi comportamentisti, ponendo al centro dei loro interessi teorici la previsione e la spiegazione del comportamento, escludevano gli stati mentali dall’ambito della ricerca psicologica in quanto non osservabili. Secondo questo approccio, una teoria appropriata deve cercare di descrivere e spiegare il comportamento esclusivamente a partire da dati empirici certi, cioè stimoli e risposte; il riferimento a supposti enti non osservabili è inammissibile. Per un comportamentista la mente non esiste, almeno nel senso che nella pratica scientifica bisogna operare come se non esistesse; in tal modo la mente è a tutti gli effetti rimossa dalla spiegazione psicologica e dalla ontologia delle scienze del comportamento. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta il comportamentismo è entrato in crisi ed è stato soppiantato dalla psicologia cognitiva. La psicologia cognitiva è la scienza che studia i processi di elaborazione di informazioni negli organismi complessi. L’organismo di cui si occupa il cognitivista non è più “vuoto” come voleva il comportamentismo. Tra la stimolazione e la risposta vi è nuovamente la mente, concepita come elaboratore di informazioni. Le informazioni in ingresso vengono codificate nella mente, divenendo in tal modo oggetti interni (le rappresentazioni mentali) suscettibili di elaborazioni di vario tipo. Oggi il realismo intenzionale, cioè l’idea che gli stati mentali esistono e sono causalmente coinvolti nella genesi del comportamento, ha ripreso vigore tra gli scienziati cognitivi. Per una introduzione a questi temi, cfr. M. MARRAFFA, Filosofia della psicologia, Roma-Bari, 2003. (35) ALCARO, Il possesso, cit., p. 111. (36) FUNAIOLI, L’animus nel possesso, cit., p. 27. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.2. IL POSSESSO 377 ulteriori per l’acquisto del possesso non prova l’irrilevanza, in termini generali, dell’animo. Il fatto che in determinate ipotesi non basti avere il potere di fatto e l’animus domini per diventare possessore non prova, cioè, che l’animo sia irrilevante. Secondo l’art. 1141 il mutamento della detenzione in possesso si verifica (in caso di mutamento del titolo da parte di un terzo e) in caso di opposizione del detentore contro il possessore. Sulla interversione dovremo tornare; ma iniziamo a dire che la opposizione consiste in una manifestazione; per dirla con la giurisprudenza, una “manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore ha cessato d’esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine alieno” (37). Ma cosa deve manifestare il detentore? Un titolo che non ha? O piuttosto una volontà, uno stato mentale? Altre difficoltà nascono quando si considerano casi in cui manca una qualsiasi relazione preventiva del detentore con il possessore, quali quello del ritrovatore di cosa altrui o del gestore di affari. Si è detto, a proposito di queste ipotesi, che “il titolo può avere fondamento sia negoziale che legale” (38). Ma come si distingue il ritrovatore dell’oggetto smarrito, che lo detiene per consegnarlo al sindaco, da chi ha ogni intenzione di tenerselo, e dunque è possessore? Come si distingue il gestore-detentore dallo squatter-possessore? Si potrà dire: sulla base di un comportamento, ed allora rinviamo a quanto diremo fra poche righe; ma non sulla base di un titolo. Qui si può dire che c’è un titolo diverso; ma il titolo presuppone la distinzione fra le diverse situazioni, non la fonda. Il riferimento al titolo sembra a maggior ragione inaccettabile se si considera detentore anche chi si immette nel bene sulla base di un contratto di locazione invalido; se si considera detentore anche chi si immette nel bene sulla base di un contratto di locazione che si riferisce ad un bene diverso da quello erroneamente individuato; se addirittura si considera detentore chi ha completamente frainteso la situazione, e non ha affatto concluso (37) (38) Così Cass. 12 maggio 1999, n. 4701. ALCARO, Il possesso, cit., p. 82. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 378 IL POSSESSO III, 6.2.2. un contratto di locazione. Se si ammette che vi sia detenzione in questi casi, appare completamente fuorviante il riferimento ad un titolo che può essere invalido ed addirittura inesistente. Ma sul punto non insistiamo perché, come vedremo, la possibilità di ravvisare una detenzione nei casi a cui si è accennato è in qualche misura controversa. Veniamo alla proposta di qualificare il potere di fatto in base a comportamenti materiali del soggetto. I fautori di questa soluzione sembrano nutrire una eccessiva fiducia nella inequivocità dei comportamenti materiali. Il proprietario di una autovettura compie, in massima parte, gesti materialmente identici a colui che l’ha presa in affitto. Si potrà obbiettare che la distinzione deve basarsi non su singoli gesti, ma su una valutazione complessiva del comportamento. Gli psicologi ci spiegano, però, che ognuno di noi tende a spiegare le sequenze di azioni sulla base dell’attribuzione di stati mentali. Questa pratica mentalistica poggia su una proto-teoria spontanea, la c.d. psicologia del senso comune, che postula la esistenza di stati intenzionali. Si discute animatamente se tale psicologia ingenua abbia basi innate o si sviluppi nell’infanzia; è sicuro che essa è normalmente utilizzata dagli esseri umani, e, a prescindere dal suo statuto epistemico, essa sembra costituire una strategia interpretativa efficace per razionalizzare il comportamento altrui (39). Si potrà anche pensare, allora, che l’intenzionalità è soltanto negli occhi dell’interprete; di fatto, noi leggiamo i comportamenti sulla base dell’attribuzione di stati intenzionali. Pensiamo, ancora una volta, all’interversione regolata dall’art. 1141 c.c., ed in particolare all’opposizione del detentore contro il possessore. La giurisprudenza chiarisce che l’opposizione deve estrinsecarsi in una “manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore ha cessato d’esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine alieno”; tale manifestazione (39) Per una introduzione a questi temi, si rinvia ancora a MARRAFFA, Filosofia della psicologia, cit. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.4. IL POSSESSO 379 deve essere inequivocabile, e non bastano né atti che si traducano “in una inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, verificandosi in tal caso un’ordinaria ipotesi d’inadempimento contrattuale”, né “meri atti d’esercizio del possesso, verificandosi in tal caso una mera ipotesi di abuso” (40). Dunque non basta che il conduttore smetta di pagare il canone, né che compia atti che esulano dai suoi poteri. Ma il conduttore che non paga il canone, e magari che cambia arbitrariamente la destinazione economica della cosa, non si comporta materialmente come un proprietario? Non sembra facile rinunciare a dire, secondo l’impostazione tradizionale, che il detentore deve manifestare (espressamente o tacitamente) una volontà. Non sembra possibile sbarazzarsi del riferimento a stati intenzionali del possessore. Si potrà poi precisare che tali stati intenzionali devono manifestarsi in comportamenti esteriormente apprezzabili; e rilevare che spesso è il titolo a illuminare e circoscrivere l’intento, consentendo di leggere una condotta altrimenti enigmatica. 6.2.4. Il possesso mediato. L’art. 1140, 2° comma, c.c., prevede il possesso indiretto, “per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”. Alla base del possesso indiretto troviamo dunque l’ingerenza di una persona diversa dal possessore: dipendente, mandatario, custode, conduttore, comodatario. Secondo la impostazione tradizionale, il potere di fatto imperniato sull’ingerenza propria appartiene per intiero a questa persona diversa dal possessore. Peraltro il soggetto del potere di fatto si astiene da quelle forme di interferenza nel bene che pregiudicherebbero le attese di quel possessore indiretto. La situazione del soggetto del fatto è assistita da uno stato psicologico corrispondente, cui si dà il nome di “riconoscimento” del possessore, o di “laudatio possessoris”. (40) Così Cass. 12 maggio 1999, n. 4701. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 380 IL POSSESSO III, 6.2.4. I rapporti fra i due soggetti possono essere varii. In certi casi, il possessore si aspetta che il soggetto del potere di fatto gli retroceda la cosa a semplice richiesta; in altri casi, egli sa che il soggetto del potere di fatto tratterrà la cosa finché non scada un certo termine o non maturi un certo evento. In certi casi il soggetto del potere di fatto può avvantaggiarsi della cosa; in altri casi invece non può approfittarne. La contrapposizione concettuale tra possesso mediato e immediato si collega con la dicotomia possesso-detenzione. Il possessore mediato non esplica ingerenza sulla cosa posseduta, e questa ingerenza viene esercitata dal detentore. Il quadro che abbiamo tracciato non è incontroverso. In dottrina sono state proposte ricostruzioni diverse del possesso mediato e dei rapporti tra possesso e detentore, che riflettono le controversie già accennate sulla struttura del possesso. Così (in nome della esaltazione del titolo) si è criticata la coincidenza tra detenzione e corpus possessionis. Così (in nome della concezione attivistica del possesso) si è respinta l’idea che il possessore mediato non eserciti un potere di fatto, sottolineando invece che anche il possessore mediato svolgerebbe una attività, sia pure consistente nel compimento di atti giuridici e non materiali (41). 6.2.5. L’esercizio del diritto reale: ipotesi problematiche. Quando l’attività del soggetto corrisponde all’esercizio di un diritto indubbiamente reale, la fattispecie di cui all’art. 1140 c.c. è integra. Un dibattito si è acceso intorno ai diritti reali che non comportano una facoltà di ingerenza per il titolare. I problemi si presentano analoghi per le servitù negative, per la nuda proprietà, per l’ipoteca. Una larga maggioranza degli interpreti ammette un possesso presso chi attua la situazione del nudo proprietario (42), ma non sono mancate in dottrina opinioni (41) Per le ricostruzioni “alternative” accennate nel testo, cfr. NATOLI, Il possesso, cit., p. 45 ss.; ALCARO, Il possesso, cit., passim. (42) In dottrina, cfr., ad es., A. MASI, Il possesso e la denuncia di nuova opera e di danno temuto, in Trattato di diritto privato diretto da P. RESCIGNO, 8, Torino, 1982, 423, pp. 435-436; © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.5. IL POSSESSO 381 contrarie (43). Il fronte favorevole è però ulteriormente diviso fra chi configura un possesso mediato, tramite il titolare del diritto reale limitato, e chi invece ammette un possesso di contenuto ridotto, in parallelo con le ridotte facoltà di ingerenza del nudo proprietario. Anche per quanto riguarda le servitù negative, la dottrina è divisa: la maggioranza ammette il possesso a titolo di servitù negativa (44), ma è ben rappresentata l’opinione contraria (45). Non tutta la dottrina favorevole parla la stessa lingua: qualche autore parla di possesso mediato, altri invece richiedono che il potere sulla cosa si esplichi direttamente attraverso intimazioni al possessore del fondo servente. La giurisprudenza ammette senza difficoltà il possesso di servitù negativa; richiede tuttavia che l’astensione del possessore del fondo servente si manifesti come dipendente dalla volontà di rispettare l’altrui possesso; considera adeguati a tal fine o un’esplicita intimazione da parte del possessore del fondo dominante seguita da un atteggiamento di osservanza da parte del possessore del fondo servente, o un titolo (46). Anche sul possesso corrispondente al diritto di ipoteca i pareri sono divisi. Mentre non mancano i pareri favorevoli (47), un’ampia parte della dottrina è in questo caso contraria: se alcuni autori sono contrari per le consuete obiezioni alla configurabilità di un possesso senza attività (48), altri considerano decisiva la stretta dipendenza dell’ipoteca dall’iscrizione del titolo (49). In realtà, mancano valide obiezioni alla configurabilità di un possesso corrispondente a diritti reali negativi. Se si considera possessore chi ha consegnato la cosa al conduttore o al comodaTENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 12; BIANCA, Diritto civile, cit., pp. 735 ss.; in giurisprudenza, cfr. Cass. 15 marzo 1980, n. 1735. (43) Cfr., ad es., NATOLI, Il possesso, cit., pp. 48 ss. (44) Cfr., ad es., DE MARTINO, Del possesso, p. 7; MASI, Il possesso, cit., pp. 436-437. (45) Cfr., ad es., NATOLI, Il possesso, cit., pp. 63-64. (46) Cass. 12 ottobre 1971, n. 2865; Cass. 21 aprile 1979, n. 2229, in Giur. it., 1980, I, 1, 293. (47) Cfr. ad es. DE MARTINO, Del possesso, p. 7; TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 13. (48) Cfr., ad es., NATOLI, Il possesso, cit., p. 62. (49) Cfr., ad es., MASI, Il possesso, cit., p. 440. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 382 IL POSSESSO III, 6.2.5. tario, si ammette una figura di possessore che non esplica personalmente nessuna ingerenza materiale nella cosa. Chi ha orrore per l’idea di un possessore inattivo, dirà che l’attività non si concreta solo in operazioni di carattere materiale, ma anche in “comportamenti di ampio contenuto gestorio”, e che anche l’atto di investitura di un terzo costituisce attività (50). Ma l’attività così intesa “non solo in chiave materiale ma anche giuridica” non esclude neppure il nudo proprietario. Il possessore potrà, in dipendenza dalle figure specifiche di detenzione, riscuotere l’eventuale canone, effettuare controlli, in talune ipotesi esplicare limitate ingerenze nella cosa; più o meno lo stesso può ripetersi per il nudo proprietario, a seconda dei vari diritti reali e delle eventuali pattuizioni delle parti. Esiste, anche per i diritti reali negativi, l’esigenza che la situazione di fatto sia intelleggibile. Qui i comportamenti materiali sono più difficili da leggere; può mancare, e anzi di norma manca, qualsiasi ingerenza materiale nella cosa. Ecco perché la situazione di fatto in questi casi sarà normalmente illuminata da un titolo; ma potrà bastare un’intimazione del possessore (di rispettare la destinazione economica, di non costruire in violazione della servitù, etc.), cui fa acquiescenza la controparte. Naturalmente, il possessore a titolo di nuda proprietà potrebbe realizzare alcuni atti di ingerenza materiale (ad esempio, appropriarsi di un albero di alto fusto divelto per accidente; oppure effettuare una riparazione). Ma sarebbe assurdo condizionare il suo possesso all’occorrenza di simili occasioni. Il discorso è più sfumato per l’ipoteca. Per l’ipoteca è il codice a escludere la possibilità di usucapione (gli artt. 1158-1159 parlano di “diritti reali di godimento”). Ma il fatto che l’usucapione non sia possibile non esclude il possesso; il possessore a titolo di ipoteca potrebbe giovarsi delle azioni possessorie (il creditore può pretendere, ai sensi dell’art. 2813 c.c., che il debitore e i terzi si astengano dal compiere atti da cui possa derivare il perimento o il deterioramento dei beni ipotecati). (50) In questo senso già NATOLI, Il possesso, cit., pp. 46-47; le parole citate nel testo sono di ALCARO, Il possesso, cit., pp. 48 ss. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.5. IL POSSESSO 383 L’argomento legato alla necessità dell’iscrizione del titolo non sembra risolutivo, sia perché l’iscrizione è richiesta per il diritto, ma non è detto che sia indispensabile per il possesso; sia perché si potrebbe comunque configurare un possesso di ipoteca là dove un titolo nullo sia stato iscritto. In altri casi la situazione possessoria è dubbia perché dubbia è la realità dei diritti. Ad esempio, a proposito della vendita con riserva di proprietà navighiamo in un mare di incertezze. In dottrina si è sostenuto che il compratore abbia: un semplice diritto personale; un’aspettativa reale; un diritto reale innominato; una proprietà piena; un sottotipo di proprietà con contenuto ridotto; una proprietà risolubile. Se si accoglie, in una qualsiasi delle sue variazioni, la proposta di considerare il compratore come titolare di un diritto reale, egli sarebbe anche un possessore (e sembra in effetti opportuno concedere la tutela possessoria al soggetto su cui gravano i rischi). Pacificamente si ritiene anche il venditore titolare di un diritto reale (nella tesi più estrema, che considera il compratore come pieno proprietario, di un diritto reale di garanzia); pertanto, anche al venditore dovrà riconoscersi il possesso. Un punto controverso riguarda quella situazione, che i giuristi intermedi chiamavano diritto ad rem. La Corte di Cassazione — fermissima, come vedremo, nel negare efficacia alle convenzioni che vogliano trasferire il possesso senza trasferire la proprietà — ha ritenuto compatibile con un preliminare di compravendita un patto di immediato trasferimento del possesso, riconoscendo alla consegna “effetti attributivi della disponibilità possessoria, e non della mera detenzione, anche in mancanza dell’immediato effetto reale del contratto cui il patto accede” (51); e ha considerato possessore l’assegnatario in godimento, con patto di futura vendita, di un alloggio di edilizia residenziale pubblica (52). La motivazione è, nei due casi, quasi letteralmente identica: è vero che, per stabilire se in conseguenza di una convenzione con la quale un soggetto riceve da un altro il (51) (52) Cass. 13 luglio 1993, n. 7690. Cass. 7 luglio 2000, n. 9106. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 384 IL POSSESSO III, 6.2.5. godimento di un immobile si abbia possesso o mera detenzione, occorre stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti reali o un contratto ad effetti obbligatori; ma la ragione del principio di diritto ora enunciato ne fissa anche il limite, “escludendone l’applicazione alle convenzioni che, per quanto con effetti solo obbligatori, tendono a realizzare il trasferimento della proprietà del bene o di un diritto reale su di esso quando ad essi acceda un immediato effetto traslativo del possesso sostanzialmente anticipatore degli effetti traslativi del diritto che, con la convenzione, le parti si sono ripromessi di realizzare”; in tali ipotesi “la convenzione non tende solo ad attribuire il godimento del bene (…) ma è in funzione di un comune proposito di trasferimento della proprietà o di un diritto reale, alla quale è coerente il passaggio immediato del possesso, che costituisce solo una anticipazione dell’effetto giuridico finale perseguito”. Ma esistono anche decisioni in senso contrario: la stessa Suprema Corte ha affermato che “nel contratto preliminare ad effetti anticipati (…) la disponibilità del bene conseguita dal promissario acquirente ha luogo con la piena consapevolezza dei contraenti che l’effetto traslativo non si è ancora verificato, risultando, piuttosto, dal titolo l’altruità della cosa”; la relazione del promissario acquirente con la cosa andrebbe dunque qualificata come semplice detenzione (53). Sul piano logico, la soluzione più coerente ai principi è quella che riconosce al promissario acquirente la mera detenzione. Il creditore che ha diritto di ricevere la proprietà di una cosa determinata è pur sempre un creditore, e non esercita il diritto reale di cui all’art. 1140. Sul piano pratico, le tentazioni della giurisprudenza sono comprensibili. Può darsi che sia in atto un processo di “realificazione” del diritto del promissario acquirente, confermato dall’introduzione dell’art. 2645-bis. Può darsi che per molti cittadini il contratto preliminare ad effetti anticipati sia difficilmente distinguibile da un contratto definitivo. Se la situazione attuale del promissario acquirente può (53) Cass. 28 giugno 2000, n. 8796; nello stesso senso, Cass. 30 maggio 2000, n. 7142. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.6. IL POSSESSO 385 lasciare insoddisfatti, però, non è possibile ricorrere a scorciatoie. Fra l’altro, il generalizzato riconoscimento del possesso ai promissari acquirenti deve fare i conti con ipotesi problematiche: l’affermazione si estende anche ai casi in cui il corrispettivo non è stato pagato, o è stato pagato solo parzialmente? Si estende anche al preliminare per persona da nominare? 6.2.6. L’oggetto del possesso: i beni immateriali. Da più di un secolo in Italia ci si domanda se il godimento di beni immateriali sia possesso ai sensi dell’art. 1140. La dottrina favorevole muove dall’ampia definizione dei beni, qual è contenuta nell’art. 810 del codice, che si presta ad accogliere le cose immateriali; e dalla configurabilità di un godimento ed utilizzazione, in chiave possessoria, dei beni immateriali, che si avrebbe quando di fatto qualcuno si trovi, rispetto al diritto di utilizzazione, nella posizione che spetta al titolare (54). La dottrina prevalente è contraria, non solo perché rifiuta l’assimilazione dei diritti (assoluti) su beni immateriali ai diritti reali, ma perché i beni immateriali “per loro natura non sono suscettibili di quell’uso esclusivo, dal significato socialmente univoco, che consente l’applicabilità delle norme di cui agli artt. 1140 s.s. c.c.”; la loro riproducibilità comporta che possono essere “contemporaneamente utilizzati da più soggetti senza che l’esercizio dell’uno impedisca quello dell’altro” (55). La giurisprudenza sembra aperta verso il riconoscimento di un possesso di beni immateriali, ma si è sinora espressa su singoli problemi, senza edificare regole sicure, e non senza qualche ripensamento. Una sentenza assai citata della Suprema Corte ha affermato in termini generali che “i diritti di utilizzazione economica dell’opera intellettuale hanno tutte le caratteristiche dei diritti reali”, (54) Limitandoci alla dottrina più recente, cfr. MONTEL, Il possesso, cit., pp. 101 ss.; MASI, Il possesso, cit., pp. 443-444; ALCARO, Il possesso, cit., pp. 149 ss. (55) Così TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 27; nello stesso senso cfr. ad esempio NATOLI, Il possesso, cit., pp. 85 ss.; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, 2a ed., Padova, 1993, I, pp. 400-401. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 386 IL POSSESSO III, 6.2.6. che “è configurabile come possesso la posizione di chi di fatto si trovi, rispetto alle possibilità di sfruttamento economico dell’opera, nello stesso rapporto in cui si troverebbe se fosse titolare dei rispettivi diritti”, e che pertanto va individuato nell’art. 1155 c.c. “il criterio risolutivo del conflitto tra più acquirenti dei medesimi diritti di utilizzazione economica di un’opera di ingegno” (56). In un’altra decisione la Cassazione ha ammesso che il diritto dell’imprenditore sulla ditta possa essere acquistato per usucapione, vista la “natura di diritto reale su bene immateriale” che si deve riconoscere a detto diritto; ma ha subordinato la usucapibilità della ditta al “concorso della duplice condizione che si sia verificata la cessazione del suo uso da parte del titolare originario e che si sia instaurato un uso a titolo di possesso ad usucapionem da parte di altro esercente la ditta” (57). In materia di diritto d’autore, la Suprema Corte, pur senza escludere la configurabilità di un possesso, ha affermato che, per la peculiarità del diritto, non sono invocabili modi di acquisto a titolo originario diversi dalla creazione, e dunque ha escluso la possibilità di acquisto per usucapione; anzi, ha affermato esplicitamente che la configurabilità di un possesso “non implica necessariamente l’applicabilità degli effetti del possesso che, per i beni materiali, sono collegati all’unicità di godimento del bene con la possibilità di possesso esclusivo e al trasferimento del diritto di proprietà o di altro diritto reale unitamente alla consegna della cosa; elementi questi che mancano nei trasferimenti dei diritti sui beni immateriali” (58). Le controversie sul possesso dei beni immateriali possono ridimensionarsi facendo chiarezza su alcune scelte terminologiche. Il godimento di fatto dei beni immateriali è un fenomeno ben conosciuto al legislatore; esso pone problemi in parte simili a quelli che nascono dal possesso di cose. Il legislatore attribuisce certe protezioni a chi gode di fatto di beni immateriali, appli(56) (57) (58) Cass. 13 novembre 1974, n. 3004. Cass. 22 dicembre 1978, n. 6150, in Giur. It., 1980, I, 1, 321. Cass. 24 febbraio 1977, n. 826, in Giur. It., 1977, I, 1, 1320, p. 1329. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.6. IL POSSESSO 387 cando criteri alquanto diversi dalle normali regole sul possesso. Così l’uso in buona fede di un marchio per cinque anni, tollerato dal titolare di un marchio anteriore o di un diritto di preuso, preclude l’azione di nullità (art. 48, r.d. 21 giugno 1942, n. 929). Chiunque nel corso dei dodici mesi anteriori alla data di deposito della domanda di brevetto abbia fatto uso nella propria azienda dell’invenzione può continuare a usarne nei limiti del preuso (art. 6, r.d. 29/06/1939, n. 242). La legge sul diritto d’autore parla espressamente di possesso (art. 167, l. 22 aprile 1941, n. 633); i diritti di utilizzazione economica riconosciuti dalla legge possono essere fatti valere giudizialmente “da chi si trovi nel possesso legittimo dei diritti stessi” (attraverso i rimedi previsti dalla legge stessa negli art. 156 ss.). Qualche autore ha tratto dalla disposizione un argomento testuale a sostegno della configurabilità del possesso; ma l’argomento è reversibile, perché il legislatore parla non del possesso di una cosa, ma del possesso di un diritto (non parla di possesso dell’opera dell’ingegno) e dunque non allinea il proprio linguaggio a quello degli artt. 1140 ss. c.c. Del resto, l’uso, da parte del legislatore, del termine “possesso” non garantisce l’identità concettuale col possesso di cui agli artt. 1140 ss. (basti pensare al “possesso dello stato di figlio legittimo” di cui agli artt. 236 ss. c.c.). La protezione di chi si trova nel possesso legittimo dei diritti non è poi affidata alle azioni possessorie; ed anzi, parificando il possessore legittimo al titolare, la legge fa una scelta asimmetrica rispetto a quella compiuta disciplinando il possesso delle cose corporali. Lo stesso fatto che il legislatore abbia dettato numerose regole in tema di godimento di fatto di beni immateriali induce alla cautela rispetto alla proposta di estendere le regole di cui agli artt. 1140 ss. Il fenomeno del godimento di fatto dei beni immateriali presenta sicuramente alcune analogie col possesso di cose materiali. Il problema, allora, non è se si possa parlare, in un qualche senso, di possesso. Nessuno ha difficoltà a vedere le “somiglianze di famiglia” tra il possesso di cui all’art. 1140, il possesso di stato di figlio legittimo, il possesso di beni immateriali. Il problema è se al godimento di fatto dei beni immateriali si possano applicare le © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 388 IL POSSESSO III, 6.2.6. regole sul possesso elaborate dalla nostra tradizione e precipitate negli artt. 1140 ss. Sul punto anche la dottrina favorevole al possesso dei beni immateriali è cauta. Si avverte che “l’ipotizzabilità di un tale possesso non implica necessariamente che tutte le norme dettate dal codice civile in materia di possesso siano, per ciò solo, sic et simpliciter, applicabili al possesso dei diritti di utilizzazione” (59); che la peculiarità dei beni immateriali risulta “non del tutto in linea con la integrale disciplina del possesso dettata dal codice” (60). E, come si è visto, la giurisprudenza a sua volta non esclude il possesso ma non applica automaticamente le regole di cui agli artt. 1140 ss. Non sembra che ci sia molto da guadagnare, allora, da un’omologazione dogmatica tra fenomeni diversi e che pongono problemi diversi. Non è proibito parlare di possesso, così come si parla di proprietà intellettuale o industriale; ma non si tratta del possesso di cui agli agli artt. 1140 ss. (così come non si tratta della proprietà di cui agli artt. 832 ss.). Il ricorso all’analogia non è ovviamente vietato, ma deve essere costruito e argomentato partendo dai problemi peculiari dei singoli beni immateriali, verificando che il legislatore non abbia previsto delle soluzioni specifiche, dimostrando, in caso di lacune, che i problemi possono essere efficacemente risolti facendo ricorso alle regole sul possesso delle cose materiali. Si attaglia perfettamente al nostro problema quanto è stato detto più in generale sulla tentazione di applicare affrettatamente gli schemi proprietari a realtà diverse dalle cose materiali: “nella nostra tradizione giuridica (…) la disciplina dei diritti reali è stata forgiata e pensata come un insieme di regole coerenti per governare la circolazione e la tutela dei diritti sulle cose corporali. Questo tipo di disciplina non può essere trasferita sic et simpliciter a regolare fenomeni assai diversi” (61). (59) MONTEL, Il possesso, cit., p. 102. (60) ALCARO, Il possesso, cit., p. 161. (61) A. GAMBARO, La proprietà, in Trattato di diritto privato a cura di G. IUDICA e P. ZATTI, Milano, 1990, p. 38. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.7. IL POSSESSO 6.2.7. 389 L’oggetto del possesso: l’energia elettrica, le trasmissioni radiotelevisive. Le conclusioni raggiunte sui beni immateriali si estendono, in buona misura, a beni che non sono immateriali ma sono molto diversi dalle cose materiali che sono tradizionalmente oggetto di proprietà e possesso. Gli interpreti hanno giocato a lungo con l’idea di concedere una tutela possessoria all’utente nella distribuzione di energia elettrica, facendo così assurgere a spoglio il rifiuto del somministrante di proseguire l’erogazione (62). Dopo qualche sussulto, la giurisprudenza si è assestata sull’idea che, poiché il possesso inizia con la consegna, che avviene “con l’immissione dell’energia in quella parte della rete sulla quale l’utente esercita, nel proprio interesse, un potere di fatto”, mentre prima l’energia soggiace al potere dell’impresa fornitrice, “un attentato al possesso è (…) ipotizzabile soltanto quando l’atto che interrompe l’erogazione dell’energia elettrica avvenga nella parte dell’impianto che (…) si trova nel luogo o nella cosa posseduta dall’utente” (63). La dottrina ha parlato, con qualche ragione, di impostazione “ipocrita”, perché la ratio decidendi “scolora in quella, sottaciuta ma certamente presente, di possesso d’impianto” (64); ma, almeno a parole, la giurisprudenza ha continuato per lungo tempo a ritenere configurabile lo spoglio di energia elettrica. La vecchia, ed equivoca, impostazione giurisprudenziale è stata poi superata da una decisione della Suprema corte, che ha operato una ricostruzione attenta della materia, e una feconda riflessione sui limiti più generali della equiparazione delle energie alle cose materiali (65). La Corte ha sottolineato che la disponibilità dell’energia elettrica da parte del somministrato presuppone la continua cooperazione dell’ente somministrante, sicché l’utente non è un possessore, ma un semplice creditore. “Una situazione assimila(62) 1991, 444, (63) (64) (65) Per una ricostruzione, cfr. R. PARDOLESI, voce Energia, in Digesto civ., VII, Torino, pp. 446 ss. Così Cass. 22 giugno 1968, n. 2084. PARDOLESI, voce Energia, cit., p. 446. Cass. 3 settembre 1993, n. 9312, in Foro it., 1995, I, 322. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 390 IL POSSESSO III, 6.2.7. bile al possesso è ravvisabile soltanto nel momento in cui l’energia somministrata (…), diviene oggetto di effettiva, materiale apprensione da parte dell’utente”. Ma “l’atto di apprensione dell’energia, in ragione della natura di questa, ne comporta il contestuale consumo (salva l’ipotesi dell’apprensione a fini di accumulo, in apparecchiatura apposita)”. Se l’atto di apprensione è il momento di instaurazione del possesso dell’energia elettrica, “ne consegue che l’interruzione dell’erogazione effettuata dal fornitore è suscettiva soltanto di impedire il sorgere del possesso sull’energia non erogata, e non anche di integrare spoglio dell’energia già erogata, in quanto consumata”. Ne consegue che “pur potendosi riconoscere la sussistenza del possesso dell’energia elettrica, deve concludersi che esso si presenta con connotati peculiari, tali da renderlo non suscettivo di tutela ex art. 1168 c.c.”. E ciò in applicazione del principio più generale secondo cui, pur essendo le energie, ai sensi dell’art. 814 c.c., “considerate” beni mobili, l’estensione ad esse della tutela predisposta per i beni mobili deve avvenire “compatibilmente con le peculiarità che le energie presentano”. Come si è detto in dottrina, l’art. 814 c.c. deve essere inteso come una disposizione che facoltizza l’interprete “a considerare le energie come beni mobili, superando i dubbi che nascono sul piano della fisica, purché si accerti che l’inquadramento in schemi di appartenenza è adeguato”; “la tendenza ad adagiarsi sulla lettera del codice e a considerare l’equiparazione tra energie e beni un ordine del legislatore anziché una facoltà data agli interpreti” inverte il cammino concettuale e crea “una tutela possessoria debordante e irrazionale” (66). Tale pericolo è perfettamente esemplificato dalla giurisprudenza che si è formata in materia di trasmissioni radiotelevisive. Si domanda se l’attività di chi trasmette su un determinato “canale” (cioè mediante onde elettromagnetiche di una data frequenza) sia difesa, in via possessoria, contro colui che prenda a trasmettere su quel medesimo canale, deturpando immagini e (66) GAMBARO, La proprietà, cit. pp. 28-29. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.7. IL POSSESSO 391 suoni prodotti e trasmessi dal primo operatore. Il problema è nato in un momento di assenza di un piano di ripartizione, in quella situazione che veniva definita come “far west dell’etere”, in cui, all’indomani della sentenza della Corte costituzionale n. 202 del 1976, i privati si sono mossi in un quadro di sostanziale vuoto normativo, e la giurisprudenza si è trovata a cercare strumenti idonei a risolvere i conflitti. Anche in considerazione della maggiore celerità della tutela possessoria, la giurisprudenza è stata chiamata a pronunciarsi su numerose domande di reintegrazione nel possesso esperite dagli imprenditori; dopo momenti di incertezza, ha optato con decisione per la risposta positiva. Le ricostruzioni proposte sono state diverse. Limitiamoci ai percorsi argomentativi più diffusi. Secondo alcune pronunce, le onde elettromagnetiche costituiscono una forma di energia, da considerare come “un bene mobile economico che può essere utilizzato direttamente dalla azienda produttrice”; e pertanto “allorché un soggetto disponga di un impianto che gli consente di diffondere i programmi di una determinata zona e su una determinata frequenza d’onda, esercita un potere di fatto corrispondente al diritto di proprietà sulla energia elettromagnetica (…) e se tale esercizio viene impedito mediante sovrapposizione di segnali provenienti da altra emittente, si verifica indubbiamente la turbativa o lo spoglio in danno del precedente possessore” (67). Secondo un’altra impostazione, pur costituendo le onde elettromagnetiche una forma di energia, da ricomprendersi tra i beni mobili sulla base dell’art. 814, “si tratta pur sempre di res non obiettivamente isolabili che, per la loro astrattezza, non possono essere oggetto di possesso indipendentemente dagli impianti da cui promanano”; “il possesso delle energie in questione, quindi, è tutt’uno col possesso dei supporti che le emanano e riceve tutela piuttosto come aspetto della più articolata situazione di possesso dei beni della emittente televisiva, intesa come il complesso delle apparecchiature che costituiscono l’azienda di diffusione di programmi televisivi” (68). (67) (68) Così Cass. 19 aprile 1991, n. 4243. Così Cass. 28 aprile 1993, n. 4999. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 392 IL POSSESSO III, 6.2.7. Dunque, giungendo a risultati identici, la giurisprudenza parla ora di possesso dell’energia, ora di possesso dell’azienda. Se un consistente filone dottrinale si è pronunciato, fin dall’inizio, contro la configurabilità di un possesso facente capo all’operatore (69), altra dottrina ha accolto con favore l’idea di una tutela possessoria, spesso proponendo ricostruzioni alternative a quelle della giurisprudenza. Così, parte della dottrina, muovendo dalla ricostruzione dell’etere come bene pubblico, preferisce parlare di possesso dell’etere e richiamare l’art. 1145 c.c. (70). I tentativi di giustificare una tutela possessoria in materia di trasmissioni radiotelevisive sono deboli sul piano logico, e insoddisfacenti sul piano dei risultati concreti. Sgombriamo innanzitutto il campo dalla figura del possesso dell’etere. L’etere non è nulla di reale, è un modo di dire. Fino al XIX secolo i fisici ritenevano che qualcosa — l’etere, appunto — dovesse riempire tutto lo spazio ed essere presente negli interstizii fra le particelle materiali, per rendere possibile il propagarsi della luce e dei fenomeni elettromagnetici. Invece oggi danno per sicuro che l’etere non fa parte dell’esistente. Quando adoperano quella parola, con essa vogliono solo indicare che entro quel confine non hanno trovato nulla. Quando si dice che il legislatore ha demanializzato l’etere, si usa un espressione figurata; il legislatore non ha demanializzato un bene, ha regolato l’attività umana di radiodiffusione. Il fatto che lo Stato (nel senso di ordinamento giuridico) disponga in merito a un bene e al suo godimento non significa affatto che lo Stato (nel senso di soggetto di diritto) abbia un diritto proprietario sul bene. Il discorso non può vertere sull’etere, ma deve rivolgersi alle onde elettromagnetiche, che sono (meglio: generano) una energia. Ma la ricostruzione di una tutela possessoria delle onde elettromagnetiche è a sua volta impervia. L’interferenza nell’onda non sottrae all’emittente alcun po(69) Cfr. ad es., SACCO, Il possesso, cit., pp. 121 ss.; PARDOLESI, voce Energia, cit., p. 447; TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 26; TROISI e CICERO, I possessi, cit., pp. 37 ss.. (70) In questo senso GALGANO, Diritto civile, cit., p. 400; F. SCAGLIONE, Possesso dell’etere e tutela del canale televisivo, Padova, 2000. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.7. IL POSSESSO 393 tere nel momento dell’interferenza. La vittima non ha più un potere sull’energia, una volta che l’ha prodotta; emettere le onde significa rilasciarle, non avere più un controllo fisico su di esse. Anche l’idea di una tutela delle onde, o del canale, come parte dell’azienda lascia molte perplessità. Le onde elettromagnetiche sono prodotte, emanate, rilasciate attraverso le apparecchiature che costituiscono l’azienda; basta a dire che fanno parte dell’azienda? E basta a dire che l’imprenditore ha un potere su di esse una volta emanate? Quanto al canale, esso non è una cosa, e neppure un’energia: trasmettere su un canale significa semplicemente trasmettere onde con una determinata frequenza. La stessa Corte di cassazione ha riconosciuto che il canale “rappresenta soltanto la caratteristica di identificazione dell’onda elettromagnetica utilizzata e costituisce perciò una entità astratta” (71). Si è detto che la tutela possessoria si rivela anche praticamente inadeguata. Di fatto, la giurisprudenza parla di possesso; ma applica a questo possesso regole inusuali. In un caso deciso dalla Corte di Cassazione l’attore aveva posto in essere una attività strumentale, preordinata al semplice accaparramento della frequenza (trasmissione ripetitiva di due brani musicali). La Corte, sulla base della “stretta connessione” tra tutela possessoria delle trasmissioni radiotelevisive ed espressione del pensiero, “in ragione della quale può affermarsi che il primo è in funzione della seconda”, ha sostenuto che “la mera occupazione della frequenza non finalizzata alla realizzazione di alcuna espressione di pensiero, ma attuata al solo scopo di precludere ad altri l’accesso al medesimo spazio, dà luogo (…) ad un potere non corrispondente ad alcun diritto e fa conseguentemente mancare i presupposti di una situazione possessoria tutelabile” (72). Non è difficile constatare che la decisione applica criteri lontanissimi dalle normali regole in materia di possesso, a cui è estraneo un controllo di meritevolezza sull’utilizzo del bene. L’applicazione delle regole sul possesso, allora, non solo (71) (72) Cass. 19 aprile 1991, n. 4243. Cass. 19 aprile 1991, n. 4243. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 394 IL POSSESSO III, 6.2.7. comporta grandi forzature logiche, ma si rivela (comprensibilmente) inadeguata a problemi così lontani da quelli per cui sono state forgiate. Le esigenze che hanno dato vita alla giurisprudenza citata possono trovare risposte diverse, che consentano alle corti anche di modellare regole adatte alla peculiarità della materia (attraverso gli strumenti della concorrenza sleale, della responsabilità aquiliana, e, per le esigenze di tutela celere, dell’art. 700 c.p.c.). 6.2.8. Gli elementi incompatibili: l’altrui tolleranza. In virtù dell’art. 1144 c.c., gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso. Secondo una massima consolidata, gli atti compiuti con l’altrui tolleranza, o atti di tolleranza, “traendo origine dall’altrui condiscendenza o da rapporti di familiarità, amicizia o buon vicinato, implicano, di regola, un elemento di transitorietà e saltuarietà” (73); ancor più perentoriamente, si afferma che gli atti di tolleranza “sono quelli che, implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà, comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull’esercizio del diritto da parte dell’effettivo titolare o possessore” (74). Da questa definizione la giurisprudenza fa discendere che, nell’indagine diretta a stabilire se una attività sia stata compiuta con l’altrui tolleranza, la lunga durata dell’attività medesima integra un elemento presuntivo nel senso dell’esclusione della tolleranza; ciò, almeno, qualora si verta in tema di rapporti non di parentela, ma di buon vicinato, “tenuto conto che nei secondi, di per sé labili e mutevoli, è più difficile il mantenimento di quella tolleranza per un lungo arco di tempo” (75). La lunga durata dell’attività non può, invece, integrare un elemento presuntivo in presenza di vincoli di stretta parentela, “nei quali è ben plausibile (73) In questi termini, Cass. 27 maggio 1994, n. 5191; Cass. 8 febbraio 1996, n. 1015. (74) Così Cass. 22 maggio 1990, n. 4631. (75) Così Cass. 3 agosto 1996, n. 8498. Nello stesso senso, fra le molte, Cass. 22 maggio 1990, n. 4631; Cass. 27 maggio 1994, n. 5191; Cass. 3 febbraio 1998, n. 1042. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.2.8. IL POSSESSO 395 il mantenimento di un atteggiamento tollerante anche per un lungo arco di tempo” (76). Una decisione ha ritenuto che la lunga durata dell’attività non possa integrare un elemento presuntivo quando “l’atteggiamento del proprietario trovi giustificazione nella mancanza di un interesse ad opporsi ad un determinato uso che del bene facciano i terzi” (77). Sarebbe invece incompatibile con la tolleranza ogni modifica, anche modesta, dello stato dei luoghi, e ciò anche in presenza di vincoli di parentela (78). Il codice alla lettera richiede la tolleranza altrui, non la consapevolezza della tolleranza da parte di chi pone in essere l’ingerenza, e ancora meno l’animo di approfittare dell’altrui tolleranza. Ma la giurisprudenza saltuariamente afferma che gli atti di tolleranza sono caratterizzati non solo dall’animus di chi tollera (mera permissione), ma anche dall’animus di chi è tollerato (“consapevolezza della inidoneità della permissione a far sorgere a favore di esso utente un qualsiasi potere incompatibile con quello del permittente” (79)); ovvero che la tolleranza è caratterizzata dalla accondiscendenza del dominus “manifestata al destinatario, in modo che quest’ultimo ne abbia consapevolezza e (…) abbia sempre presente l’eventualità e la legittimità di un sopravveniente divieto” (80). Il percorso logico seguito dalla giurisprudenza non è inattaccabile. Innanzitutto, è arbitrario identificare nella benevolenza l’unico motivo per cui si tollera l’ingerenza altrui. Tollerato è quasi sinonimo di sopportato. Le ingerenze tollerate sono tutte quelle ingerenze che un possessore non vuole, ma non vieta. I motivi per tollerare sono numerosi. La tolleranza non è necessariamente benevola. Io tollero l’ingerenza di mio fratello, (76) Così Cass. 18 giugno 2001, n. 8194. Vedi anche, obiter, Cass. 3 febbraio 1998, n. 1042. (77) Cass. 11 febbraio 1998, n. 1384 (uso saltuario per il parcheggio di un’area scoperta; la Corte ha evidenziato che l’uso non era limitato agli attori, che sostenevano di essere possessori, ma era aperto a qualunque terzo). (78) Cfr. Cass. 25 febbraio 1986, n. 1185 (l’attore aveva costruito una baracca, incorporata al suolo da malta cementizia, che sconfinava di 50 cm sul terreno del fratello). (79) Così Cass. 10 aprile 1986, n. 2497. (80) Così Cass. 1 dicembre 1997, n. 12133. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 396 IL POSSESSO III, 6.2.8. per generosità; ma posso tollerare l’ingerenza del mio vicino, che è anche un mio buon cliente, per interesse. Può darsi che alla base della tolleranza ci siano relazioni di reciprocità. Tollero che il vicino parcheggi sul mio terreno, perché so che il vicino tollera la mia abitudine di suonare la batteria fino a tarda notte. Altre volte tollero semplicemente perché temo reazioni polemiche o fastidiose da parte dell’intruso, e, scegliendo fra due mali, preferisco sopportare e sperare che il comportamento invadente cessi spontaneamente. Ancora, posso tollerare perché temo le sanzioni sociali che colpirebbero una reazione giudicata eccessiva o ingenerosa. Una ricostruzione più realistica delle possibili ragioni della tolleranza smentisce l’idea che l’ingerenza tollerata deve essere una ingerenza saltuaria e transitoria. Questa idea, a sua volta, conduce a esiti poco conformi ai comuni canoni dell’interpretazione. La dottrina più attenta si è accorta da tempo che, nella lettura della giurisprudenza, l’art. 1144 finisce col diventare inutile. “Vengono contemplate come ipotesi di tolleranza situazioni che non presentano le caratteristiche richieste per potere essere qualificate come possesso. Conseguentemente l’art. 1144 non troverebbe mai effettiva applicazione, poiché difettando gli atti tollerati delle caratteristiche richieste per potere condurre al possesso sarebbe superfluo invocare la disposizione in esame” (81). L’ingerenza saltuaria e transitoria, posta in essere da un agente che non intende attuare un autonomo potere di fatto, difficilmente potrebbe essere considerata possesso, a prescindere dall’art. 1144. Parte della dottrina, pur criticando sul piano logico l’orientamento della giurisprudenza, finisce per giudicarne favorevolmente i risultati (82), sulla base di esigenze di certezza nello svolgimento dei rapporti giuridici e del favore dell’ordinamento per chi utilizza i beni in senso produttivo. Ad esempio l’efficacia dell’istituto dell’usucapione “risulterebbe affievolita se il titolare (81) Così S. PATTI, Profili della tolleranza nel diritto privato, Napoli, 1978, p. 23. (82) Cfr., ad esempio, PATTI, Profili della tolleranza, cit., pp. 27 ss.; TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 36. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.3.1. IL POSSESSO 397 del diritto potesse provare, dopo il compimento del termine stabilito dalla legge, che l’effettiva disposizione del bene da parte del terzo è dovuta alla sua tolleranza” (83). Le argomentazioni addotte a sostegno dell’orientamento giurisprudenziale sono serie, ma devono essere bilanciate con la consapevolezza dei rischi che esso comporta. Quando il legislatore stabilisce che gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non servono di fondamento all’acquisto del possesso, incentiva il proprietario a tollerare tutte quelle ingerenze che non ha un interesse attuale a respingere, fiducioso di poter in ogni momento ripristinare la situazione precedente. Attraverso la tolleranza si può realizzare una rete di scambi informali, mutuamente benefici, che presuppongono la libera revocabilità della tolleranza. Non ammettere che l’art. 1144 si applichi anche ad ingerenze di una certa importanza significa in effetti scoraggiare la tolleranza. 6.3. Gli elementi della detenzione. 6.3.1. La detenzione. Non c’è detenzione se non c’è potere di fatto sulla cosa; ma non qualunque potere di fatto è detenzione tutelata. Il cliente del ristorante, l’alunno della scuola sarebbero detentori tutelabili se ogni ingerenza integrasse una detenzione. Come vedremo, la tutela possessoria si estende al detentore. La protezione possessoria comporta un divieto di ricorrere ai mezzi energici per far cessare la detenzione che si prolunga indebitamente. Per non paralizzare completamente la vita sociale, si fissa una soglia al di sotto della quale il potere di fatto sulla cosa non assurge a detenzione. Poiché la detenzione non è mai definita dal legislatore se non come potere di fatto al servizio di un possessore (art. 1140, 2° comma), la dottrina considera detenzione quel potere di fatto “che si caratterizza in modo da poter integrare l’elemento (83) PATTI, Profili della tolleranza, cit., p. 27. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 398 IL POSSESSO III, 6.3.1. oggettivo del possesso” (84); o, con maggiore precisione, quel potere di fatto che può “costituire di per sé (senza bisogno di integrarsi con il potere di fatto, eterogeneo, di altre persone) l’elemento materiale di un possesso” (85). Perciò non sono detentori né il cliente seduto al tavolo del ristorante, né l’alunno seduto al banco per seguire la lezione. Il discorso, peraltro, si intreccia con quello della detenzione per ragione di servizio o di ospitalità, su cui torneremo fra breve. Un tema controverso è quello della detenzione mediata. Resta detentore colui che si sia svestito del potere di fatto sulla cosa, affidandola ad un depositario, ad un sub-conduttore, ad un vettore, etc.? In altre parole: resta detentore colui che, senza animo di attuare un diritto reale proprio, si trova nella posizione di fatto corrispondente a quella del possessore indiretto? La dottrina è divisa (86). La giurisprudenza più recente riconosce come detentore il conduttore che lasci precariamente la disponibilità della cosa al locatore (di solito, per consentirgli di eseguire delle riparazioni) (87). In passato, la giurisprudenza aveva però escluso che il sublocatore resti detentore (88). C’è almeno un caso in cui sembrerebbe doversi riconoscere che il detentore è tale in virtù di un potere di fatto non suo. Come vedremo a suo tempo, il detentore, che sia tale per ragioni di servizio o ospitalità, non può intentare l’azione di reintegrazione. Tutti concordano nell’idea che, in un simile caso, la protezione interdittale competa a chi controlla il servizio o all’ospitante — sia egli possessore o semplice detentore. Nel secondo caso, avremo una detenzione mediata, perché ad esercitare un potere di fatto sarà il detentore per ragioni di servizio od ospitalità. (84) TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 18 (sulla scia di R. SACCO, Il possesso, la denuncia di nuova opera e di danno temuto, in Trattato di diritto civile diretto da G. GROSSO e F. SANTORO-PASSARELLI, Milano, 1960, p. 47 e di altri autori). (85) R. SACCO, Il possesso, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. CICU e F. MESSINEO, continuato da L. MENGONI, Milano, 1988, p. 142. (86) Fra gli autori contrari, si veda, ad esempio, NATOLI, Il possesso, cit., pp. 136-137; fra gli autori favorevoli, MONTEL, Il possesso, cit., p. 75. (87) Cass. 6 settembre 1995, n. 9381; Cass. 1 settembre 1994, n. 7621; Trib. Roma, 11 marzo 1999, in Foro it., 1999, I, 3081. (88) Cass. 17 gennaio 1951, n. 127; Cass. 30 luglio 1951, n. 2252. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.3.2. IL POSSESSO 399 Non si vedono ragioni per non generalizzare la regola che consente al detentore di restare tale senza esercitare direttamente un potere di fatto. La soluzione opposta creerebbe delle remore al detentore che si trovi a dover lasciare temporaneamente, per le ragioni più svariate, la disponibilità della cosa al possessore o ad un terzo. Secondo la impostazione tradizionale, la detenzione è assistita da due elementi psicologici. Il primo, chiamato “animus detinendi”, è il generico intento di tenere la cosa in proprio potere, per qualsiasi fine, anche limitato alla custodia. Il secondo è l’intenzione di attuare un diritto reale altrui (il diritto reale del possessore), a cui si dà il nome di “riconoscimento di un diritto poziore altrui”, o di “laudatio possessoris” (89). 6.3.2. Il titolo del detentore. Secondo una giurisprudenza che appare ormai consolidata, mentre chi invoca il possesso può allegare l’eventuale titolo solo ad colorandam possessionem (90), chi invoca la tutela possessoria in quanto detentore qualificato ha l’onere di provare il titolo da cui la detenzione deriva (91). Spesso la giurisprudenza (in obiter) richiede addirittura la validità del titolo (92); altre volte invece precisa che l’attore non è tenuto a dimostrare la validità ed efficacia del rapporto (93). La giurisprudenza si è spinta sino ad affermare che “la posizione lato sensu possessoria del soggetto che assuma essere detentore qualificato non ha una sua rilevanza oggettiva, che l’ordinamento le riconosca come autonoma ed indipendente (89) V. per tutti MONTEL, Il possesso, cit., p. 53 ss. (90) Cioè per rafforzare la prova del possesso e illuminare una condotta materiale eventualmente enigmatica. (91) Cass. 9 ottobre 1991, n. 10606; Cass. 3 marzo 1994, n. 2111; Cass. 17 giugno 1996, n. 5555; Cass. 7 febbraio 1998, n. 1299; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10477; Cass. 16 agosto 2000 n. 10816. (92) Cass. 17 giugno 1996, n. 5555; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10477; Cass. 16 agosto 2000 n. 10816. (93) Cass. 9 ottobre 1991, n. 10606; Cass. 3 marzo 1994, n. 2111. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 400 IL POSSESSO III, 6.3.2. rispetto al diritto personale d’origine contrattuale dal quale essa deriva” (94). In tal modo la giurisprudenza, che pure a parole si mantiene fedele alla teoria soggettiva, spezza innegabilmente una lancia a favore della tesi secondo cui il criterio di distinzione tra possesso e detenzione deve fondarsi non sull’animus ma sul titolo (95). Parte della dottrina approva (96), anche sulla base della considerazione che ammettendo che la detenzione possa acquistarsi in mancanza di un titolo “si arriverebbe ad una ulteriore frantumazione dei poteri proprietari ad esclusiva opera di terzi” (97). Oltre a richiamare le considerazioni già svolte contro la sostituzione del titolo all’intento, si deve osservare che i benefici di un orientamento che neghi tutela a chi detiene sulla base di un titolo invalido sono dubbi. Perché consentire al terzo che ha commesso uno spoglio di opporre la invalidità del titolo? E se convenuto è il possessore, perché non dovrebbe far valere la invalidità del contratto nella sede appropriata, invece di spogliare e poi pretendere che la invalidità sia accertata incidentalmente? Una volta chiarito che anche il titolo invalido è sufficiente, i risultati concretamente raggiunti dalla giurisprudenza si possono in molti casi condividere, anche se non se ne condivide l’iter argomentativo. Osservando da vicino le sentenze citate, si può osservare che talvolta il preteso detentore si era limitato ad ingerenze saltuarie nel bene (98); in un caso, il preteso detentore aveva svolto attività nell’immobile come istruttore di judo per conto di una società sportiva comodataria (99); in un altro caso, in effetti era stato provato che l’attore non aveva concluso una locazione, bensì una (94) Così Cass. 22 ottobre 1998, n. 10477. (95) Vedi supra § 6.2.3. (96) Cfr. G. LIOTTA, Situazioni di fatto e tutela della detenzione, Napoli, 1983, p. 43; ALCARO, Il possesso, cit., p. 88. (97) LIOTTA, op. loc. ult. cit. (98) Cass. 16 agosto 2000, n. 10816. (99) Cass. 22 ottobre 1998, n. 10477. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.3.3. IL POSSESSO 401 semplice compravendita di erbe, incompatibile con la detenzione qualificata (100). Abbiamo già sottolineato l’importanza del titolo per leggere condotte altrimenti enigmatiche. Chi non pretende di essere possessore, ma detentore, normalmente agisce sulla base di un titolo (sia pure invalido). Se qualcuno riconosce un altro come possessore, ma non è in grado di indicare a che titolo detiene, è legittimo sospettare che eserciti un potere di fatto tollerato, o una detenzione per ragione di servizio o ospitalità. 6.3.3. La detenzione autonoma, la detenzione qualificata. L’art. 1168 c.c. distingue dalla generica figura del detentore colui che ha il potere di fatto per ragione di servizio o di ospitalità, e nega a tale soggetto la tutela possessoria. Il codice distingue cioè tra il detentore, di solito detto qualificato, munito di azione, e il detentore per ragioni di servizio o ospitalità, non munito di azione. La giurisprudenza ha coltivato però una ulteriore distinzione, a seconda che il soggetto detenga per interesse proprio oppure per interesse altrui. Si è così precisato che “l’azione di reintegra compete (…) tanto (…) al detentore qualificato (la cui detenzione è collegata ad un interesse proprio, come il conduttore, il creditore pignoratizio, ecc.), quanto ai detentori non qualificati, che hanno un potere diretto sulla cosa in nome e per un interesse altrui, quali i gestori e gli amministratori, ma è esclusa la potestà di agire nei confronti di coloro in nome e per conto dei quali posseggono o detengono” (101). In tal modo si individuano tre figure di detentori: — il detentore qualificato, munito di azione verso tutti; (100) Cass. 7 febbraio 1998, n. 1299. (101) Cass. 26 ottobre 1965, n. 2279, in Foro it., 1966, I, 676, p. 679; nello stesso senso, Cass. 30 marzo 1951, n. 703, in Foro it., 1951, I, 549; Cass. 23 marzo 1954, n. 829, in Giust. civ., 1954, 690; Cass. 29 ottobre 1974, n. 3276; Cass. 9 gennaio 1980, in Giur. It., 1980, I, 1, 792 (in obiter, perché il detentore agiva contro terzi). © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 402 IL POSSESSO III, 6.3.3. — il detentore non qualificato, ma autonomo, diverso dall’ospite e dal servitore ma sprovvisto di un interesse proprio, munito di azione verso i terzi, ma non verso il possessore; — il detentore per ragioni di servizio o ospitalità, sprovvisto di azione. La giurisprudenza ha considerato detentori nell’interesse altrui i gestori e gli amministratori, i mandatari, i depositari. La tripartizione, priva di fondamento nella legge e incerta nei confini, ha raccolto molte critiche in dottrina (102), e sembra essere scomparsa nella giurisprudenza più recente. La distinzione, così come concretamente applicata dalla giurisprudenza, muove d’altra parte da una concezione incomprensibilmente restrittiva dell’interesse proprio a detenere. Il vettore, il mandatario, il depositario sono assistiti da privilegio, e da diritto di ritenzione (art. 2761 c.c.); essi detengono anche per esercitare una garanzia, e un interesse personale non può essere loro negato. L’orientamento prevalente (almeno in dottrina) si limita dunque a distinguere tra i detentori qualificati e i detentori per ragioni di servizio o di ospitalità. Sui confini tra le due categorie non esiste unanimità di soluzioni. La Commissione reale aveva inizialmente proposto di negare l’azione di reintegrazione “a chi tenga le cose per ragioni di servizio, che implichino rapporti di subordinazione, o per ospitalità” (art. 555). Nella relazione al progetto, si spiegava che l’azione era concessa al detentore autonomo “di ogni specie, anche, dunque, se nell’interesse altrui” perché “in causa delle responsabilità che gli incombono, è opportuno dargli un mezzo pronto per riavere la cosa”; “non invece a quello non autonomo, e ciò perché, nei casi in cui lo spoglio è opera del possessore, essa non sarebbe giustificata, non avendo il detentore non autonomo alcun diritto nei riguardi della persona, nel cui nome possiede; se lo spoglio è (102) Cfr., ad esempio, NATOLI, Il possesso, cit., p. 140; MASI, Il possesso, cit., pp. 469-470; SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp. 190-191. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.3.3. IL POSSESSO 403 opera di terzi, non è sembrato conveniente lasciare tale iniziativa ad un operaio, apprendista, domestico o commesso” (103). La relazione dunque individuava due diverse ragioni per negare l’azione di reintegrazione, a seconda che lo spoglio sia opera del possessore o di un terzo; e ciò ha in qualche modo legittimato la tripartizione già descritta, che pure nel progetto e nella relazione non è espressamente configurata. Identificava, inoltre (in armonia con il progetto) i detentori per ragioni di servizio con lavoratori subordinati addetti a modeste funzioni. Nel Codice civile l’inciso “che implichino rapporti di subordinazione” scompare. Tuttavia, secondo una opinione assai diffusa nella dottrina meno recente “la, pur inappropriata, espressione, delle ‘ragioni di servizio’ è rimasta a significare, in senso convenzionale, solo i casi di più circoscritte e più modeste qualifiche e funzioni nella gerarchia dei rapporti di lavoro” (104); anzi, in questa prospettiva l’azione di spoglio non sarebbe preclusa agli alti dirigenti (105). Nella dottrina più recente, una simile lettura delle “ragioni di servizio” è respinta in quanto restrittiva. Non c’è però unanimità sul criterio da utilizzare. Qualcuno ritorna all’interesse, contrapponendo chi detiene nel proprio interesse a chi detiene “per ragioni di servizio, ossia nell’interesse altrui, come il dipendente che detiene gli strumenti di lavoro o il meccanico che detiene la vettura da riparare” (106). Qualcuno identifica il servizio con “qualsiasi rapporto di dipendenza o di lavoro” (107). Qualcuno ritiene che sussista la ragione di servizio ogniqualvolta l’ingerenza ha solo lo scopo strumentale di consentire all’una o all’altra parte di svolgere una prestazione di fare: “c’è una ragione di servizio là dove il detentore svolge l’opera a favore del possessore (impresa che detiene il mio ufficio, per lucidare il pavimento), e c’è una ragione di servizio anche là dove il possessore svolge l’opera a (103) 242-243. (104) (105) (106) (107) Codice civile, Secondo libro - Cose e diritti reali, Relazione al progetto, Roma, 1937, pp. Così MONTEL, Il possesso, cit., p. 67. Cfr. ancora MONTEL, Il possesso, cit., p. 67. Così F. GALGANO, voce Possesso (diritto civile), in Enc. Giur., XXIII, Roma, 1990, p. 11. MASI, Il possesso, cit., p. 472. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 404 IL POSSESSO III, 6.3.3. favore del detentore (paziente che detiene per lunghi mesi la camera di una clinica)” (108). Quali sono i casi in cui la giurisprudenza ravvisa una detenzione per ragione di servizio? Sono detentori “normali” (autonomi, qualificati) il conduttore e l’affittuario (109), il mezzadro (110), il comodatario (111): ossia, coloro che detengono per godere la cosa. Sono detentori per ragione di servizio i lavoratori agricoli subordinati, non legati al proprietario da un contratto agrario di carattere associativo (112). Anche gli agenti sono detentori per ragione di servizio dei locali in cui si svolge l’attività ad essi affidata (113). Nell’appalto d’opera l’appaltatore è detentore qualificato (114); la soluzione è opposta per l’appalto di servizi (115). In prima approssimazione, la giurisprudenza sembrerebbe negare la tutela possessoria a quelle ingerenze che hanno lo scopo strumentale di rendere possibile il compimento di un servizio. Così formulato, però, il criterio renderebbe problematica la situazione dell’appaltatore d’opera e del depositario. Il primo è invece considerato detentore qualificato dalla giurisprudenza; quanto al secondo, escludere la tutela possessoria sembrerebbe irragionevole, sia perché il depositario ha un diritto di ritenzione (che sarebbe vanificato dallo spoglio del depositante), sia perché risponde all’interesse dello stesso depositante che il depositario possa difendere il bene contro i terzi. L’appaltatore d’opera non ha un diritto di ritenzione; ma l’appalto implica un meccanismo di accertamento, liquidazione e pagamento rispetto al quale la detenzione garantisce all’appaltatore facilità di contraddire e celerità di soluzione. È più facile, insomma, indicare le ragioni per cui si estende o (108) (109) (110) (111) (112) (113) (114) (115) SACCO, Il possesso, cit., p. 157. Cfr., ad es., Cass. 29 aprile 2002, n. 6221. Cfr., ad es., Cass. civ. 4 luglio 2000, n. 8932. Cfr. ad es., Cass. 27 giugno 1987, n. 5746. Cass. 11 dicembre 1974, n. 4191. Cass. 9 marzo 1992, n. 2802. Cass. 21 agosto 1996, n. 7700; Cass. 18 giugno 1992, n. 7520. Cass. 4 dicembre 1997, n. 12304; Cass. 17 aprile 2001, n. 5609. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.4.1. IL POSSESSO 405 si nega la tutela possessoria a questa o quella figura di detentore, che non formulare compiutamente il criterio per individuare la detenzione “per ragione di servizio”. L’art. 1168 dà rilievo anche alla categoria del detentore “per ragioni di ospitalità”. In prima battuta, l’ospitalità implica un consenso all’ingerenza aliena, maturato per il piacere di godere della compagnia dell’ospite o per generosità, e liberamente revocabile. L’ospitalità si distingue senza difficoltà dal comodato; la distinzione sfuma, però, se si considera il c.d. comodato precario (art. 1810 c.c.). Di solito la giurisprudenza si è occupata di casi in cui la ospitalità aveva luogo tra persone fisiche legate da vincoli di parentela o amicizia. Ma si è considerato detentore per ragioni di ospitalità anche il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Campania, ospitato in locali condotti dalla Associazione Napoletana della Stampa (116). Ai margini del nostro tema si è svolto un animato dibattito, che ha riguardato prima i familiari conviventi, poi il convivente more uxorio (in modo anche più acceso, visto che quest’ultimo è sprovvisto di altre tutele). In un primo tempo, è prevalsa l’opinione che sia i primi che il secondo siano ospiti; in epoca più recente, sembra prevalere la tesi che li considera detentori tutelati (117). 6.4. Vicende del possesso e della detenzione. 6.4.1. I modi di acquisto: l’occupazione, lo spoglio, l’interversione. Il possesso si può acquistare innanzitutto attraverso l’occupazione o lo spoglio. Sullo spoglio ritorneremo trattando le azioni possessorie. L’occupazione è l’atto con cui un soggetto, senza ledere un (116) (117) Trib. Napoli, 10 aprile 2000, in Giur. napoletana, 2000, 253. Sul punto, si rinvia a SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp. 201 ss. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 406 IL POSSESSO III, 6.4.1. possesso altrui, e senza concorso della volontà altrui, crea il proprio potere di fatto sulla cosa. L’atto di occupazione implica sempre un’ingerenza nella cosa occupata, un comportamento commissivo non soltanto psicologico. In date condizioni, l’occupazione conduce all’acquisto della proprietà; ma talvolta l’occupante acquisterà soltanto il possesso. Si pensi ad esempio all’occupazione di un reperto preistorico od archeologico, o alla cattura di un animale protetto (a meno di non voler configurare tali ipotesi come spoglio). Una figura particolare di spoglio è l’interversione. Con l’art. 1141, 2° comma, il legislatore italiano ha precluso al detentore l’acquisto del possesso, ove non intervengano determinate circostanze di fatto (titolo proveniente dal terzo, oppure opposizione). Con l’art. 1164 viene invece preclusa (in difetto di quelle medesime circostanze) l’usucapione della proprietà da parte di chi aveva inizialmente il potere di fatto corrispondente ad un diritto reale limitato. La dottrina suole presentare l’art. 1164 come una mera applicazione dell’art. 1141, 2° comma, ed arriva a dichiararlo superfluo (118). In realtà l’art. 1141 e l’art. 1164 prospettano due situazioni diverse, poiché nella prima si contrappongono due figure (detenzione e possesso) che differiscono solo per l’intento che assiste l’esercizio del potere, e nella seconda si contrappongono due figure (possesso a titolo di proprietà, possesso a titolo di diritto reale limitato) che differiscono anche per il contenuto dell’esercizio del potere. D’altra parte, l’art. 1141 ostacola l’acquisto del possesso, mentre alla lettera l’art. 1164 ostacola solo l’usucapione (senza pregiudicare gli altri effetti dell’acquisto del possesso). Ma, sulla base di una interpretazione sistematica delle due norme, in dottrina è comunque pacifico che anche nell’ipotesi di cui all’art. 1164 l’interversione sia necessaria non solo per usucapire, ma anche per acquistare il possesso ad ogni altro fine (119). La ratio delle due norme sembra essere quella di proteggere (118) (119) DE MARTINO, Del possesso, cit., pp. 97 ss.; MASI, Il possesso, cit., pp. 448 ss. Cfr. SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp. 229 ss. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.4.1. IL POSSESSO 407 il proprietario (o comunque, il possessore a titolo di proprietà) rispetto a comportamenti insidiosi. Il comportamento del conduttore che prende a comportarsi da proprietario, il comportamento dell’usufruttuario che prende a comportarsi da proprietario hanno in comune la scarsa pubblicità, l’equivocità, il fatto di dipendere esclusivamente da un capriccio dell’agente. Se il proprietario avesse ragione di temere simili comportamenti, dovrebbe investire tempo ed energie in una attenta vigilanza dell’operato del detentore o del titolare del diritto reale limitato; e non è detto che anche una simile sorveglianza sarebbe sufficiente. In questa luce, agli artt. 1141 e 1164 sembrerebbe potersi accostare l’art. 1102, secondo cui il comproprietario “non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”. Anche in questo caso il comportamento del comproprietario che inizia a comportarsi da proprietario esclusivo può essere oggettivamente ambiguo; anche in questo caso proteggere i comproprietari dai colpi di mano serve a facilitare la fiducia reciproca e la cooperazione. All’indomani del codice, una voce autorevole affermava che le disposizioni “avrebbero potuto utilmente essere fuse tra di loro”, e che “la diversità delle formule usate nelle varie norme non implica nella sostanza alcuna diversità di significato” (120). L’idea di leggere gli articoli 1102, 1141 e 1164 come espressioni di uno stesso principio non ha avuto fortuna. Secondo una massima costantemente ripetuta dalla giurisprudenza, il comproprietario “può usucapire l’altrui quota indivisa del bene senza necessità della interversione del possesso, ma attraverso l’estensione del possesso medesimo in termini di esclusività”, anche se “il mutamento del titolo, ai sensi dell’art. 1102 comma 2 c.c., deve concretarsi in atti integranti un comportamento durevole, tale da manifestare un possesso esclusivo con animo domini, incompatibile con il permanere del compossesso altri sulla stessa (120) M. D’AMELIO, Del possesso, in Commentario del Codice Civile — Libro della Proprietà diretto da M. D’AMELIO, Firenze, 1942, 933, p. 992. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 408 IL POSSESSO III, 6.4.1. cosa” (121). Considerata la mutevolezza delle fattispecie concrete sottoposte al vaglio delle corti, non è facilissimo definire cosa sia attività univocamente incompatibile con il diritto degli altri partecipanti, e misurarne la distanza concreta dalla interversione; ma, almeno a parole, la giurisprudenza nega che una interversione nelle forme previste dagli articoli 1141 e 1164 sia necessaria per il comunista. La dottrina dominante approva (122). Il divieto di acquistare il possesso quale risulta dagli articoli 1141 e 1164 cade se intervengono due fattispecie: l’opposizione contro il possessore o il mutamento del titolo, per causa proveniente da un terzo. La opposizione contro il possessore è una dichiarazione, una manifestazione di volontà; si tratta certamente di una dichiarazione non formale, e possono essere sufficienti anche atti materiali, che però devono essere compiuti nella direzione del proprietario, una direzione atta a farglieli conoscere. Si può allora approvare la giurisprudenza quando ammette la interversione “mediante il compimento di attività materiali che manifestino inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il possesso esclusivamente nomine proprio, purché risulti rivolta contro il possessore” (123); si deve approvare l’idea che l’interversione debba estrinsecarsi in una manifestazione esteriore inequivoca “specificamente rivolta contro il possessore, in guisa che questi sia posto in condizione di rendersi conto dell’avvenuto mutamento” (124). Si deve, in altre parole, tenere ferma l’idea che anche il comportamento che più chiaramente ecceda i poteri del detentore (o del possessore a titolo di diritto reale limitato) non è idoneo, se non è atto a far conoscere l’opposizione al proprietario (125). (121) In questi termini Cass. 2 marzo 1998, n. 2261. Nello stesso senso, fra le sentenze più recenti, Cass. 26 novembre 1997, n. 11842 e Cass. 18 febbraio 1999, n. 1370. (122) V. per tutti A. LENER, La comunione, in Trattato di diritto privato diretto da P. RESCIGNO, 8, Torino, 1982, 245, p. 279; P. POLLICE, Contributo allo studio del compossesso, Napoli, 1993, p. 110. (123) Così Cass. 4 giugno 1992, n. 6906. (124) Cass. 12 maggio 1999, n. 4701; nello stesso senso, Cass. 20 maggio 2002, n. 7337; Cass. 28 febbraio 2006, n. 4404. (125) Non sempre la giurisprudenza padroneggia con sicurezza tale distinzione: tra le decisioni discutibili, si vedano Cass. 18 febbraio 1995, n. 1802 (costruzione di una strada da parte del detentore); Cass. 12 maggio 1999, n. 4701 (sostituzione di una serratura; ma si tratta di obiter). © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.4.2. IL POSSESSO 409 Si è giustamente ritenuto che il mancato pagamento del canone di locazione, per quanto prolungato nel tempo, non costituisce di per sé interversione (126); e più in generale che “sono inidonei atti che si traducano nell’inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita (verificandosi in questo caso una ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale) ovvero si traducano in meri atti di esercizio del possesso (verificandosi in tal caso una ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene)” (127). Quanto alla causa proveniente da un terzo, essa è un titolo, proveniente dal terzo, rivolto a vantaggio del detentore, capace di dar vita al novello possesso di quest’ultimo. Il titolo che qui si considera è la fattispecie idonea a fondare un possesso. La giurisprudenza precisa che l’interversione prescinde “dalla perfezione, validità ed efficacia dell’atto medesimo (compresa l’ipotesi di acquisto da parte del titolare solo apparente)” (128). 6.4.2. La consegna. La consegna è l’atto bilaterale mediante il quale il possessore precedente (tradens, trasferente) immette nel potere il possessore successivo (accipiens, ricevente). Tradizionalmente la consegna viene presentata come modo di acquisto a titolo derivativo del possesso (129). In dottrina si è peraltro sottolineato che tale qualificazione può essere accolta solo in senso atecnico, perché non si può “trasmettere” un comportamento, e dunque non è possibile un “trasferimento del possesso”, costituendo la consegna solo “il presupposto dell’apprensione e quindi dell’autonoma iniziativa del soggetto possessore” (130). (126) Cass. 8 settembre 1986, n. 5466. (127) Cass. 20 maggio 2002, n. 7337; Cass. 15 marzo 2005, n. 5551. (128) Cass. 5 dicembre 1990, n. 11691. (129) Cfr., ad esempio, DE MARTINO, Del possesso, cit., p. 10; TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 30 (ma con la precisazione che la distinzione tra acquisto del possesso a titolo derivativo e a titolo originario è da intendersi in senso atecnico). (130) In questi termini ALCARO, Il possesso, cit., p. 141. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 410 IL POSSESSO III, 6.4.2. La consegna consta di un consenso bilaterale e di una esecuzione. Il consenso non si appoggia a nessuna causa, è quindi astratto, e non rientra negli accordi contrattuali, perché non verte sulla variazione di rapporti giuridici. Naturalmente, la consegna si farà in occasione di un contratto; ma la nullità del contratto non intacca gli effetti della consegna. Ci si domanda se la consegna sia un negozio. La questione dà luogo a soluzioni opinabili, condizionate dalla definizione del negozio, che non si basa su dati positivi. Sul piano concreto, l’idea di una vicenda possessoria annullabile, cioè incerta, eliminabile con effetto retroattivo, destinata a dar vita ad accertamenti complessi in punto alla libertà del volere, e come tali disadatti al giudizio possessorio, non può che lasciare perplessi. La consegna intende incidere su situazioni di fatto, e questa fattualità deve far capo a fattispecie creative semplici, facilmente accertabili, e destinate a produrre effetti non retroattivi. Perciò le norme destinate al vizio del consenso nel contratto non paiono applicabili alla consegna. Sussistendone gli estremi, minaccia e incapacità potranno dequalificare la consegna, riducendola a uno spoglio — e ciò, senza postume pronunce costitutive di annullamento della volontà. Sembra perciò da preferire la tesi — prevalente (131) — che nega la natura negoziale della consegna. Come si è già detto (132), quando il potere di fatto si fa derivare dal consenso del precedente possessore, non è necessaria, per iniziare a possedere, nessuna ingerenza materiale. La consegna non necessita di una apprensione fisica e materiale della cosa, essendo sufficiente che essa sia posta a disposizione dell’acquirente (133). I requisiti minimi del possesso di chi riceve la consegna sono cioè quelli proprii del possesso nella fase della conservazione, essendo sufficiente una mera possibilità di ingerenza. L’apprensione materiale da parte dell’acquirente — non (131) Cfr., ad esempio, BIANCA, Diritto civile, cit., p. 749. (132) Vedi supra § 6.2.2. (133) Cfr. Cass. 20 aprile 1962, n. 801; Cass. 8 ottobre 1963, n. 2676; Cass. 10 dicembre 1996, n. 10986. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.4.2. IL POSSESSO 411 necessaria — sarà logicamente e cronologicamente successiva al consenso del trasferente. L’ingerenza del possessore potrà prendere spicco in tutti i casi in cui gli effetti del consenso siano enigmatici; ovvero quando la volontà di chi dismette il possesso degradi a consenso a che altri apprenda (come avviene se autorizzo qualcuno a frugare nel mio solaio per cercare un oggetto, e, trovatolo, a tenerselo). Da sempre è equiparata alla consegna della cosa, ai fini della trasmissione del possesso, la consegna dello strumento che assicura il controllo della cosa (chiave). Il possesso viene trasferito anche attraverso due procedimenti puramente consensuali: il costituto possessorio e la consegna “brevi manu”. Con il costituto possessorio il possessore immediato originario abbandona l’intento di essere proprietario, e si costituisce detentore (ad es., custode) per conto del ricevente — il quale, da questo momento, diventa possessore mediato. Ad es. il proprietario vende una cosa e si impegna a custodirla per conto dell’acquirente in attesa che questi la ritiri. La consegna brevi manu presuppone che possessore e detentore non coincidano; e consiste nella rinuncia al possesso da parte del possessore mediato, con contemporanea assunzione dell’intento di essere proprietario — e acquisto del possesso immediato — da parte dell’originario detentore. Così avviene se il proprietario vende la cosa al conduttore. Costituto possessorio e consegna brevi manu implicano una convergenza di due volontà. Ma non è detto che questa convergenza sfoci in una apposita dichiarazione. Se le parti concludono un contratto che incide sulla proprietà, e l’acquirente ha già la detenzione della cosa, la consegna brevi manu è certamente un effetto automatico del contratto, e opera anche senza che le parti ci pensino. Ad esempio se Tizio dona a Caio la casa di cui Caio è già conduttore, non ha senso immaginare che Tizio voglia che la proprietà passi, ma rimanga possessore con intento di proprietario. La volontà di trasferire contiene in sé la volontà in cui si concreta la consegna brevi manu. Si deve domandare se un discorso analogo valga in materia di © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 412 IL POSSESSO III, 6.4.2. costituto possessorio. In altre parole: si deve domandare se quando si trasferisce la proprietà, senza contestuale consegna della cosa, ciò implichi, in assenza di una dichiarazione delle parti, un costituto possessorio, per cui l’acquirente diventa possessore mediato e l’alienante semplice detentore. Il problema del costituto possessorio implicito è ovviamente connesso al principio consensualistico. Se la proprietà (come nel diritto romano, come nel diritto tedesco attuale) trapassa per effetto della consegna, nessun costituto è implicitamente collegato al contratto (da cui nasce la semplice obbligazione di consegnare la cosa); anche se la prassi potrà moltiplicare i costituti possessori, e ciò proprio al fine di anticipare il trasferimento del diritto. Laddove, invece, il trasferimento della proprietà avviene per effetto del semplice consenso delle parti (art. 1376), nasce il problema del costituto possessorio implicito. Chi vende e aliena vuole il trasferimento della proprietà, dunque vuole che l’acquirente diventi proprietario, dunque non vuole conservare egli stesso la proprietà, dunque non può avere l’intento proprietario; chi acquista vuole per sé l’acquisto della proprietà, dunque ha l’intento proprietario. “La consegna occorre al trasferimento del possesso nel contratto con efficacia obbligatoria (…) non nel contratto con efficacia reale, nel quale non si vede perché il possesso dovrebbe rimanere scompagnato dalla proprietà, a meno di un’espressa clausola in senso contrario determinata dalle circostanze” (134). C’è anzi chi, in senso più radicale, considera insufficiente anche una espressa clausola pattizia a scindere volontà di trasferire la proprietà e volontà di trasferire il possesso, chiedendosi “che senso avrebbe una vendita (che è il tipico contratto traslativo della proprietà), in cui il venditore può mantenere il possesso” (135). Un’ampia parte della dottrina, tuttavia, esclude che il costi(134) F. SANTORO-PASSARELLI, Il trasferimento del possesso nel contratto con efficacia reale, in Rass. Dir. Civ., 1987, 700, p. 701. (135) G. B. FERRI, La vendita, in Trattato di diritto privato diretto da P. RESCIGNO, 11, 2ª ed., Torino, 2000, 481, p. 537. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.4.2. IL POSSESSO 413 tuto possessorio sia implicito nel trasferimento della proprietà (ammettendo semmai che il costituto possessorio possa risultare anche implicitamente dal tenore del contratto e dal comportamento delle parti, sulla base di una indagine caso per caso) (136). Un orientamento giurisprudenziale che appare ormai consolidato afferma che “nel negozio traslativo della proprietà o di altro diritto reale non è ravvisabile un costituto possessorio implicito”, per cui “nel caso in cui si protragga il godimento della cosa da parte dell’alienante, occorre indagare caso per caso, secondo il comportamento delle parti e le clausole contrattuali che non siano di mero stile, se la continuazione da parte dell’alienante dell’esercizio del potere di fatto sulla cosa sia accompagnata dal animus rem sibi habendi ovvero configuri una mera detenzione nomine alieno” (137). La tesi del costituto possessorio implicito era invece ben rappresentata nella giurisprudenza meno recente (138). Sul piano pratico, l’orientamento che esclude il costituto possessorio implicito sembra preferibile. La volontà di trasferire la proprietà è presente non soltanto nel contratto di alienazione valido, ma in ogni accordo di alienazione, pur se viziato nella causa e nella forma. Ove sia vero che ogni vendita e ogni donazione veicola con sé un costituto, ciò dovrà essere vero ogni qual volta esista il mutuo consenso ad alienare ed acquistare, indipendentemente dalla presenza della causa idonea e della forma. Se il venditore di cosa determinata è, dal momento della vendita, mero detentore, il compratore, ove il venditore ne rifiuti la consegna e si comporti come proprietario, potrà ottenere il rilascio di essa nel giudizio possessorio, dove non hanno ingresso le critiche alla validità del contratto traslativo. Se invece ammettiamo che il venditore è possessore, il compratore dovrà invocare l’esecuzione del contratto; e a questo punto il venditore convenuto dispone, senza limiti di tempo, delle eccezioni di nullità e annullamento. (136) Cfr., ad esempio, TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., pp. 31 ss.; BIANCA, Diritto civile, cit., p. 753. (137) Così Cass. 15 febbraio 1996, n. 1156; nello stesso senso cfr. ad esempio Cass. 21 dicembre 1993, n. 12621; Cass. 24 giugno 1994, n. 6095. (138) Cfr., ad esempio, Cass. 6 ottobre 1978, n. 4463. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 414 IL POSSESSO III, 6.4.2. In altre parole: ammettere il costituto possessorio implicito significa azzerare quella speciale protezione che compete ad ogni contraente finché il contratto non sia eseguito. Non solo: in caso di contratto nullo, il compratore o donatario diverrebbe ugualmente possessore mediato; e, nonostante il fatto che il contratto non sia stato eseguito (magari perché le parti si sono rese conto della nullità), potrebbe, decorso un ventennio, usucapire. La tesi del costituto possessorio implicito, sviluppata nelle sue logiche conseguenze, porterebbe a risultati indesiderabili; resta da domandarsi quali argomenti logico-giuridici si possano invocare contro di essa. Spesso si invoca l’art. 1476, n. 1, c.c.: l’articolo obbliga il venditore ad effettuare la consegna della cosa e ciò postulerebbe che la conclusione del contratto non contenga in sé una consegna. Il valore dell’argomento è dubbio: la consegna della cosa è sicuramente dovuta dall’alienante che abbia conservato la detenzione (anche il trasferimento della detenzione è, infatti, una consegna). E l’art. 1476 può ben riferirsi a questo generico obbligo. In dottrina si è scritto che la tesi che nega il costituto possessorio implicito è preferibile non tanto per motivi logici sistematici, quanto per ragioni storiche (139). Si può in effetti osservare che il principio consensualistico è nato per sganciare il trasferimento della proprietà da quello del possesso, e non per sganciare il trasferimento del possesso dalla consegna della cosa. 6.4.3. La successione nel possesso, l’accessione del possesso. L’art. 1146, 1° comma, c.c. dispone che il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione. La “apertura della successione” indica qui il momento cui retroagisce l’accettazione dell’eredità. Ma il chiamato, che non ha accettato, non è erede, e non può invocare l’art. 1146 (provvede a lui in più ristretto ambito l’art. 460 c.c.). (139) TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 33. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.4.3. IL POSSESSO 415 La giurisprudenza concede la protezione interdettale a chiunque sia pacificamente erede, senza bisogno di materiale apprensione dei beni (140). Consegue all’art. 1146, 1° comma, che — se il dante causa fu detentore — l’erede non acquista il possesso se non facendo opposizione al possessore o in virtù di titolo proveniente dal terzo; così, se il dante causa acquistò in modo vizioso o in mala fede, si verificano, anche nei confronti dell’erede, gli effetti della clandestinità, della violenza e della malafede iniziale. Infine l’erede, una volta acquistata la qualità di possessore, misura la durata del proprio possesso conteggiando il tempo del possesso del suo dante causa, il periodo che va dall’apertura della successione all’acquisto del possesso, e il periodo successivo. Il comma in esame si applica pacificamente a qualsiasi successore a titolo universale, anche diverso dall’erede (ad esempio, società derivante dalla fusione di due altre). La regola non si applica al legatario, che è successore a titolo particolare. Egli, dopo l’immissione in possesso, può invece invocare l’accessione. In base al 2° comma dell’art. 1146, il successore a titolo particolare può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti. Questo successore può dunque invocare come fatto acquisitivo del possesso l’atto d’acquisto del suo autore (e computare, ai fini della durata del possesso, anche il possesso del suo autore), oppure invocare l’atto con cui acquistò personalmente il possesso. Potrà preferire procedere nel secondo modo, ad esempio, quando l’autore era possessore di mala fede. A differenza che per la successione di cui al 1° comma, per l’accessione la giurisprudenza richiede che il successore a titolo particolare stabilisca concretamente un rapporto di fatto con la cosa (141). Cosa si intende per “autore”? Secondo parte della dottrina, è autore chiunque consegna. Ai (140) n. 4055. (141) Cass. 21 luglio 1969, n. 2745; Cass. 16 gennaio 1971, n. 80; Cass. 8 settembre 1978, Cfr. Cass. 16 gennaio 1971, n. 80; Cass. 8 settembre 1978, n. 4055. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 416 IL POSSESSO III, 6.4.3. fini dell’accessione sarebbe sufficiente, cioè, la consegna, che è titolo per possedere (142). La giurisprudenza unanime richiede invece un “titolo idoneo in astratto, anche se radicalmente viziato, a trasmettere la proprietà o altro diritto reale” (143). Una parte importante della dottrina approva (144). Una volta stabilito che si richiede un titolo idoneo a trasferire il diritto, nasce il dubbio se taluni requisiti dell’atto di trasferimento siano richiesti anche ai fini dell’art. 1146, 2° comma, e in che limiti il titolo può essere “radicalmente” viziato. Una sentenza ha affermato che, ove si tratti di possesso di beni immobili, è necessaria la forma scritta (145). La sentenza è parsa a qualcuno poco coerente con lo stesso indirizzo giurisprudenziale maggioritario, che ammette anche il titolo invalido (146). Sembra pacifico che non è richiesta la buona fede dell’acquirente (147). Si è giustamente osservato che, accettando l’impostazione dominante, basta che le parti stipulino “una vendita ‘mascherata’ del diritto per raggiungere lo scopo della fruibilità del beneficio dell’accessione in presenza di una semplice immissione nel possesso” (148). Su una delle conseguenze che la giurisprudenza ricava dalla sua lettura dell’art. 1146 c.c. ritorneremo nel prossimo paragrafo. 6.4.4. Circolazione del possesso e autonomia privata. L’acquisto, la circolazione, la perdita del possesso dipendono (142) Cfr. SACCO, Il possesso, cit., p. 197 (e poi SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp. 248-249); B. TROISI, Circolazione del possesso e autonomia privata, Napoli, 2003, pp. 79 ss. (143) Così Cass. 3 luglio 1964, n. 1738, in Giur. It., 1966, I, 1, 182 (donazione rogata da ufficiale incompetente, in difformità dalla delibera che la precedeva); nello stesso senso cfr. anche Cass. 6 aprile 1970, n. 936; Cass., 11 dicembre 1981, n. 6552; Cass. 27 settembre 1996, n. 8528; Cass. 12 novembre 1996, n. 9884. (144) Cfr., ad esempio, TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 12; GALGANO, Diritto civile, cit., p. 418; BIANCA, Diritto civile, cit., p. 754. (145) Cass. civ. 23 gennaio 1982, n. 456. (146) GALGANO, Diritto civile, cit., p. 418. (147) Cfr., esplicitamente in questo senso, Cass. 3 luglio 1964, n. 1738, in Giur. It., 1966, I, 1, 182. (148) TROISI, Circolazione, cit., p. 82. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.4.4. IL POSSESSO 417 da comportamenti umani previsti dal diritto. Il mutuo consenso delle parti è esso stesso, in certi casi, sufficiente per determinare la circolazione del possesso da un soggetto ad un altro. La volontà degli interessati, tuttavia, non potrebbe collegare questa circolazione a fattispecie diverse da quelle che prevede il diritto oggettivo. Così sarebbero nulle le clausole contrattuali che volessero assegnare al conduttore la qualifica di possessore, o privarlo della qualifica di detentore. Poiché il possesso e la detenzione sono situazioni fattuali, la dichiarazione di volontà non può bastare a trasferirli. Nel 1996 la Corte di Cassazione è stata chiamata, per ben due volte, a pronunciarsi sulla questione — fino a quel momento pressoché sconosciuta alla giurisprudenza e marginalmente considerata dalla dottrina — relativa all’ammissibilità di un contratto avente ad oggetto il trasferimento del puro e semplice possesso. Si tratta di un fenomeno tutt’altro che sconosciuto alla prassi notarile (149): non è infrequente, infatti, che la vendita includa beni di cui l’alienante ha il possesso, ma non la proprietà, o di cui non è sicuro di avere la proprietà (perché, ad esempio, non è agevole calcolare se sia decorso il termine per l’usucapione). Nella prima occasione (150) la Suprema Corte ha affermato la nullità di un contratto preliminare atipico con cui le parti si erano obbligate ad alienare e ad acquistare la sola situazione possessoria. Nella specie, il contratto riguardava anche alcuni terreni gravati da diritti d’uso civico, abusivamente occupati dal promittente, il quale aveva promosso il procedimento amministrativo di legittimazione di cui agli art. 9 e 10 della legge n. 1766 del 1927 per acquistarne la proprietà. Nella seconda occasione (151) la Suprema Corte ha escluso che oggetto di un atto di compravendita possa essere il possesso di un immobile in quanto tale, e che da tale trasferimento (149) Cfr., ad es., M. ALBERGO, Alienazione del possesso. Contratto atipico meritevole di tutela, in Vita notarile, 1998, 1422. (150) Cass. 27 settembre 1996, n. 8528 (in Corr. giur., 1997, 162, con nota di P. IAMICELI e in Contratti, 1997, 468 con nota di A. ABBATE). (151) Cass. 12 novembre 1996, n. 9884 (in Vita notarile, 1998, 1422 con nota di M. ALBERGO). © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 418 IL POSSESSO III, 6.4.4. possano discendere gli effetti di cui all’art. 1146 c.c. in materia di accessione del possesso. Nell’ampio dibattito dottrinale sul tema, e nelle stesse motivazioni delle sentenze, si intrecciano problemi diversi, che debbono però essere tenuti separati. La Cassazione ha affermato che “dalla stessa nozione del possesso (…) si evince la sua intrasmissibilità”, perché “un’attività non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa” (152), suscitando l’approvazione di parte della dottrina (153); anzi, qualcuno si è addirittura preoccupato della “pericolosità di concepire un sistema di ‘acquisto’ del possesso fondato sul mero consenso”, che consentirebbe una “moltiplicazione di ‘situazioni di fatto’ in nessun modo suscettibili di controllo” (154). L’osservazione che il possesso non può essere trasferito mediante una semplice dichiarazione di volontà è sicuramente corretta, ma è irrilevante. Il problema di cui si discute non è se il contratto basti a trasferire il possesso; la risposta è sicuramente negativa, essendo necessaria, perché inizi il possesso dell’acquirente, la consegna. E sotto altro profilo, non può neppure dubitarsi che, se la consegna concretamente ha luogo, essa sia idonea a far iniziare il possesso dell’acquirente. I veri problemi al centro dell’attenzione delle corti sono altri. Il contratto di alienazione del possesso (che sicuramente non basta a trasferire il possesso) obbliga l’alienante alla consegna? E, se la consegna avviene, può l’acquirente avvalersi della facoltà di “unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti”, sulla base dell’art. 1146 c.c.? La Corte di Cassazione ha dato, ad entrambi i quesiti, risposta negativa. In particolare, essa ha ribadito, in entrambe le occasioni, che l’accessione del possesso, prevista dall’art. 1146 c.c., ha per presupposto indispensabile la esistenza di un titolo, (152) Cass. 27 settembre 1996, n. 8528. (153) Cfr., ad esempio, F. ALCARO, Note in tema di trasferimento del possesso, in Vita notarile, 1999, 487. (154) P. IAMICELI, Circolazione dei beni gravati da usi civici e “trasferibilità” del possesso, in Corr. giur., 1997, 162. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.4.4. IL POSSESSO 419 anche viziato, idoneo in astratto alla cessione del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) sul bene. Un argomento speso dalla stessa Cassazione e da una parte della dottrina muove dalla definizione di vendita. Siccome secondo l’art. 1470 cc. la vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa oppure il trasferimento di un altro diritto, e siccome il possesso non è un diritto ma una situazione di fatto, “esso non rientra certamente tra i possibili oggetti di un contratto di compravendita” (155). È difficile immaginare un approccio più sterile al nostro problema. Una volta escluso che il contratto di alienazione del possesso rientri nella definizione di vendita, infatti, resta aperta la possibilità di considerarlo un contratto atipico (a cui applicare per analogia una parte delle regole della vendita). Un’analisi proficua del nostro problema non può eludere un dato evidente (156): le parti nel nostro sistema possono raggiungere esattamente i risultati che si vogliono impedire mettendo al bando la “vendita del possesso” attraverso altri strumenti. Si pensi, in particolare, alla vendita a rischio e pericolo dell’acquirente (art. 1488, 2° comma c.c.). Il venditore che sa di non essere proprietario può concludere un contratto di questo tipo con il compratore, consapevole dell’altruità della cosa. Ne derivano: l’obbligo del venditore di consegnare la cosa; l’impossibilità per il compratore di chiedere la risoluzione del contratto, non essendo in buona fede; la totale esclusione della garanzia per evizione; la possibilità per il compratore di avvalersi dell’art. 1146, 2° comma, c.c. Come si è giustamente scritto, “se lo scopo pratico dell’immissione nel possesso può essere raggiunto, per via indiretta, attraverso i suddetti espedienti, non si vede perché lo stesso non possa essere raggiunto in via diretta e immediata, attraverso uno specifico strumento negoziale” (157). Non si vede cioè perché penalizzare il compratore se il contratto descrive in modo onesto (155) (156) (157) Cass. 27 settembre 1996, n. 8528. Giustamente valorizzato da TROISI, Circolazione, cit., pp. 40 ss. TROISI, Circolazione, cit., p. 42. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 420 IL POSSESSO III, 6.4.4. (o, se si preferisce, sprovveduto) quello che è il suo vero oggetto, cioè il possesso e non la proprietà del bene (non essendo fra l’altro il giudice vincolato dalle qualificazioni giuridiche operate dalle parti). Se così è, allora sembra di dover riconoscere ai contratti di alienazione del possesso (comunque le parti li definiscano) gli stessi risultati di una vendita a rischio e pericolo: cioè, sia l’obbligo di consegnare da parte dell’alienante, che la possibilità, una volta avvenuta la consegna, di applicare l’art. 1146, 2° comma, c.c. (158). Sotto quest’ultimo profilo, il rigido orientamento della Suprema Corte non sembra in ogni caso imposto dalla lettera della legge, che parla genericamente di “autore”. I risultati raggiunti sembrano corrispondere anche al favore dell’ordinamento verso la circolazione dei beni e il loro uso produttivo (159). L’impossibilità, per l’acquirente, di avvalersi dell’art. 1146, 2° comma impedirebbe, in molti casi, al possessore di monetizzare la propria situazione possessoria, sostituendo a sé un soggetto che attribuisce un maggior valore al bene, e rischierebbe di paralizzare la circolazione del bene fino a che non sia accertato giudizialmente l’acquisto per usucapione. 6.4.5. Le vicende del rapporto extrapossessorio: la legge, la decisione del giudice, l’atto amministrativo. Finora la dottrina ha mostrato scarsa curiosità in merito alla connessione fra l’atto dell’autorità e le vicende del possesso. Il possesso è una realtà di fatto, l’atto dell’autorità ovviamente modifica la realtà quando opera un cambiamento del mondo fisico esterno. Quando l’ufficiale giudiziario asporta dalla casa del debitore esecutando alcuni titoli di credito, il debitore ne perde la detenzione. Ci si può domandare, invece, se le leggi, le decisioni del (158) TROISI, Circolazione, cit., ammette l’esistenza, nel nostro ordinamento, di un contratto atipico d’immissione nel possesso, ammette che il nuovo possessore possa avvalersi dell’art. 1146 c.c., ma ritiene che il contratto d’immissione nel possesso sia un contratto reale, che si perfeziona solo con la consegna. (159) Nello stesso senso TROISI, Circolazione, cit., p. 39. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.4.5. IL POSSESSO 421 giudice, gli atti amministrativi che incidono sulle situazioni di appartenenza trasformino in modo conseguente (senza bisogno di un’esecuzione a questo fine) le situazioni possessorie corrispondenti. Quando il legislatore modifica rapporti proprietari, modifica in modo corrispondente le situazioni possessorie? Se Tizio è possessore a titolo di piena proprietà di un bene, e Caio ottiene una sentenza che lo dichiara nudo proprietario dello stesso bene, basta la sentenza a ridurre Tizio a possedere un usufrutto (salva nuova interversione)? Se la sentenza dichiara che Tizio, che non è al possesso del bene, è proprietario, Caio, fino a esecuzione della sentenza, resta possessore o è ridotto a guardiano? Fra le situazioni a cui si è accennato è possibile tracciare una importante distinzione, che potrebbe orientare una prima, intuitiva, risposta. Un conto è trasformare un detentore in possessore, o rendere libero un possesso che finora era vincolato. Un conto è assegnare il possesso ad un soggetto che non ha mai avuto alcuna relazione di fatto con il bene. Se la legge cancella la proprietà del concedente, e trasforma l’affittuario in proprietario, sembra plausibile che l’affittuario, senza bisogno di un’interversione, si trasformi in possessore del bene. Se la legge cancella la proprietà di Tizio, e attribuisce la proprietà a Caio, che non ha mai avuto alcuna relazione materiale col bene, sembra meno ovvio che essa cancelli automaticamente anche il possesso di Tizio. L’area in cui la giurisprudenza ha avuto maggiori occasioni di confrontarsi col nostro problema è quella dell’atto amministrativo; le risposte non sono state univoche. Quando l’atto amministrativo trasferisce una situazione dominicale dal privato alla P.A., o quando svuota di contenuto una situazione dominicale privata a favore della P.A., ci si può chiedere se la fattualità trionfi, e la dichiarazione di volontà dell’autorità non intacchi, da sola, i poteri di fatto, o se invece la onnipotenza della P.A. le consenta di acquistare, oltre i diritti, anche le situazioni possessorie, per effetto della parola. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 422 IL POSSESSO III, 6.4.5. Esistono, in materia, due diversi filoni giurisprudenziali. In un primo tempo, la giurisprudenza ha affermato che, in caso di espropriazione per pubblica utilità, viene meno “per volontà impositiva statale” l’elemento soggettivo del possesso, e l’espropriato può “tutt’al più continuare a detenere il bene, come avviene nella ipotesi civilistica del costituto possessorio” (160). La Suprema Corte ha poi espressamente respinto tale orientamento, affermando che occorre distinguere gli effetti traslativi del diritto di proprietà conseguenti alla pronuncia del decreto di esproprio dall’acquisto del possesso del bene espropriato e che “eventuali relazioni di fatto con il bene espropriato da parte dell’espropriato o di terzi permangono invariate fino a quando costoro restino indisturbati nel godimento del bene” (161). Ed anche in una seconda occasione ha ribadito che “un provvedimento di aggiudicazione non determina automaticamente, per il solo fatto che venga pronunciato (ed a prescindere dalla sua esecuzione) il mutamento dell’animus rem sibi habendi del proprietario espropriato, trasformandolo in animus detinendi alieno nomine”; con la conseguenza che se al bene non è stata data “quella destinazione pubblica (…) che comporta la impossibilità di un possesso utile ai fini dell’usucapione”, e se dunque il bene non è entrato nel demanio o nel patrimonio indisponibile dell’amministrazione espropriante, non vi sono ostacoli all’usucapione da parte dell’espropriato rimasto nella disponibilità del bene (162). Una più recente sentenza della Suprema Corte è più difficile da collocare rispetto agli orientamenti descritti (163). Secondo tale decisione, nell’ipotesi di occupazione d’urgenza preordinata alla futura espropriazione, lo spossessamento del bene si intende realizzato in conseguenza del cosiddetto dimensionamento (l’individuazione dell’area mediante infissione di picchetti) e dell’affermazione degli incaricati dell’operazione che da quel momento il possesso dell’area si intende trasferito all’occupante; “l’acquisto (160) (161) (162) (163) Cass. Cass. Cass. Cass. 20 dicembre 1988, n. 6966. 4 dicembre 1999, n. 13558. 22 aprile 2000, n. 5293. 8 giugno 2001, n. 7775. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.4.6. IL POSSESSO 423 del possesso da parte dell’occupante ed il conseguente spossessamento del proprietario e di qualsiasi altro soggetto che vanti diritti di natura reale (…) o personale sul fondo (…), impone poi di ascrivere a mera tolleranza della Pubblica Amministrazione la eventuale permanenza del privato (…) nel godimento del fondo”. In quest’ultimo caso, come si vede, la Cassazione non ha, a rigore, considerato il mutamento della situazione possessoria come effetto automatico, in quanto ha ritenuto, a ragione o a torto, di individuare nel dimensionamento e nelle dichiarazioni degli incaricati dell’operazione un atto concreto di spossessamento. La sentenza però desta qualche perplessità, ed è stata criticata in dottrina: se davvero si considera concretamente realizzato uno spossessamento, sembra difficile negare in linea di principio rilevanza al comportamento del proprietario espropriando che si riimmetta nel pieno godimento del bene (164). La dottrina recente ha perlopiù approvato l’indirizzo che nega che l’espropriazione faccia automaticamente venir meno il possesso dell’espropriato (165). Esso sembra logicamente preferibile sia per i fautori della teoria soggettiva (perché non c’è ragione di ritenere che l’espropriazione faccia automaticamente venir meno l’animus domini, che non è incompatibile con la consapevolezza di non essere proprietario), sia per i fautori della teoria oggettiva (perché manca un titolo che qualifichi il potere di fatto dell’espropriato come detenzione (166)). 6.4.6. La derelizione, la perdita, la rinuncia. Per derelizione o abbandono si intende la volontaria dismissione del potere di fatto sulla cosa. Per perdita si intende la dismissione involontaria del potere di fatto. Per rinuncia si intende la manifestazione della volontà di non aver più il potere di fatto. (164) Cfr. G. DORIA, Decreto di esproprio, occupazione d’urgenza e disponibilità del bene: brevi note sui rapporti tra possesso e detenzione, in Giustizia civile, 2003, II, 133. (165) Cfr. A. CATAUDELLA, Variazioni civilistiche brevi, in Rass. Dir. Civ., 2001, 517; DORIA, Decreto, cit. (166) In questa prospettiva, DORIA, Decreto, cit. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 424 IL POSSESSO III, 6.4.6. La derelizione è il venir meno dei due elementi del possesso: l’operatore non vuole più essere proprietario, e cessa di esercitare il potere di fatto. Non ci interessa in questa sede indagare quando essa incide sulla situazione proprietaria; certamente, comporta la cessazione del possesso. La mera cessazione dell’ingerenza non è derelizione, perché l’intervento non è un requisito del possesso nella fase successiva all’acquisto. La rinuncia è la manifestazione della volontà di rinunciare al possesso. Essa esplicita il venir meno dell’animo; acquista una particolare rilevanza quando il possesso in questione sia mediato. In ogni caso, in cui il soggetto intenda perdere il possesso, egli potrà formulare una rinuncia, oltre a derelinquere il bene: ne guadagnerà la chiarezza. Secondo la giurisprudenza, la rinuncia può desumersi da comportamenti concludenti solo quando questi “indichino univocamente l’intenzione del dominus in tal senso” (167); in particolare, la giurisprudenza è costante nell’affermare che, essendo necessaria una “univoca manifestazione di volontà abdicativa”, “la semplice astensione dall’esercizio del possesso non è sufficiente a determinarne la perdita, potendosi ritenere che permanga l’animus possidendi quando sia sempre possibile al possessore ripristinarne l’esercizio” (168). Si può concordare con l’osservazione che di fatto la rinuncia per comportamenti concludenti coincide con la derelizione (169). Parte della dottrina orientata verso la concezione oggettiva del possesso dubita peraltro della idoneità della semplice rinuncia a estinguere il possesso, e ne critica i presupposti “tenacemente volontaristici” (170). Non sarebbe una manifestazione di volontà, ma solo la concreta dismissione del potere sulla cosa a far cessare il possesso. Sulla irrilevanza della rinuncia come manifestazione di volontà è difficile concordare. (167) (168) (169) (170) Cass. civ. 7 gennaio 1992, n. 39. Cass. 21 dicembre 1999, n. 14370. ALCARO, Il possesso, cit., p. 146. Cfr. ALCARO, Il possesso, cit., p. 146. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.4.6. IL POSSESSO 425 Se Tizio ha nel suo giardino un tagliaerba che giace inutilizzato da mesi, è difficile dubitare che Caio commette uno spoglio se si impadronisce dell’attrezzo. Ma se Tizio dichiara chiaramente, rivolto a Caio e a tutti gli altri vicini, che rinuncia al possesso dell’inutile e ingombrante arnese, la sua rinuncia creerà un affidamento, e Caio non commetterà uno spoglio prelevando il tagliaerba. Ciò non esclude che a certi fini (ad es., responsabilità) il diritto possa continuare a trattare Tizio come un possessore o un proprietario. Chi tiene un comportamento obbiettivamente ambiguo (rinuncio, ma non dismetto il potere di fatto) potrebbe vedersi applicare le regole che colpiscono il possessore con sanzioni e responsabilità, senza poter usucapire e senza potersi valere della tutela possessoria. Si può peraltro rilevare che le responsabilità spesso gravano non tanto sul possessore, quanto sul custode; ed è sostenibile che chi rinuncia al possesso, ma non dismette il potere di fatto, resta custode della cosa. Se l’elemento materiale resta intatto, peraltro, il ritorno dell’animo ricostituisce il possesso. Nelle parole della giurisprudenza, la rinuncia cosciente e volontaria fa “presumere il venir meno dell’animus” “ma non impedisce che esso si riaccompagni al mantenuto potere di fatto un istante dopo, dando luogo ad un nuovo periodo possessorio” (171). Tuttavia, per le stesse ragioni di intelleggibilità della situazione di fatto che richiedono l’ingerenza attuale nel momento iniziale del possesso, il ritorno dell’animo deve manifestarsi o con una espressa dichiarazione o con un’ingerenza attuale nel bene. Il possesso di un fondo si conserva senza bisogno di continui e concreti atti di godimento; ma una volta che al possesso si sia rinunciato può acquistare rilevanza verificare se il rinunciante abbia, in un momento successivo alla rinuncia, ripreso a ingerirsi nel fondo stesso (172). Secondo la giurisprudenza la forma scritta non è necessaria (171) (172) Cass. 30 aprile 1982, n. 2724, in Giur. It., 1983, I, 1, 1313, p. 1315. Cfr. Cass. 30 aprile 1982, n. 2724, in Giur. It., 1983, I, 1, 1313. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 426 IL POSSESSO III, 6.4.6. per la rinuncia, nemmeno se si tratti di immobili (173). Tale orientamento ha destato qualche perplessità in dottrina (174), ma sembra condivisibile, dal momento che non si possono estendere automaticamente al possesso le regole che riguardano la proprietà e i diritti reali. La correlazione fra lo smarrimento e la perdita del possesso dà luogo a problemi. La soluzione preferibile sembra quella di ritenere che lo smarrimento non comporti senz’altro la perdita del possesso; la perdita del possesso consegue invece all’illecita usurpazione dell’inventore che decide di tenere per sé la cosa (e che commette uno spoglio). In alternativa si potrebbe ritenere che il possesso cessi con lo smarrimento, anche se il possessore conserva un diritto alla restituzione ex art. 931 c.c., e ricorrere all’art. 1167 c.c. per risolvere gli eventuali problemi in tema di usucapione. 6.5. I rapporti tra il proprietario e il possessore. 6.5.1. I conflitti tra il possesso (o la detenzione) di cosa aliena e la proprietà. Il proprietario può ottenere il rilascio della cosa da chiunque la possiede o detiene (art. 948 c.c.). Analogamente il titolare di qualsiasi diritto reale può ottenere che la situazione possessoria e detentoria sia resa conforme al suo diritto. Il possesso di cosa aliena (e così la detenzione senza titolo), non consentito dal proprietario, sembra essere un fenomeno oggettivamente antigiuridico. Lo stesso possessore di buona fede, come vedremo fra poco, è colui che ignora di ledere l’altrui diritto (art. 1147); ma di fatto lede l’altrui diritto. Chi versa in una situazione illegittima di norma risponde dei danni purché fosse in dolo o colpa, ossia, purché fosse nota o conoscibile la violazione dell’altrui diritto e purché il danno fosse (173) Cass. 20 ottobre 1975, n. 3432; Cass. 30 aprile 1982, n. 2724, in Giur. It., 1983, I, 1, (174) Cfr. ALCARO, Il possesso, cit., p. 145, nota 430. 1313. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.5.2. IL POSSESSO 427 evitabile. Il danno potrà derivare, nel nostro caso, dal mancato godimento della cosa, dal deterioramento, dalla distruzione, dall’alienazione a terzi, e così via. La proprietà dei frutti naturali spetta di norma al proprietario (art. 821, 1° comma, c.c.). Quanto ai frutti civili, il 3° comma non dice chi li acquisti: normalmente, i frutti civili si acquistano in quanto venga adempiuta da un terzo un’obbligazione (contrattualmente assunta) di corrispondere un corrispettivo per il godimento del bene; il frutto civile spetta perciò, originariamente, allo stipulante, salve le pretese del proprietario nei suoi confronti. Se il proprietario invoca l’art. 2043, potrà conseguire non già il frutto ricavato dal possessore, ma i danni subiti (con i problemi di quantificazione che affronteremo fra poco). L’art. 936 detta poi la disciplina generale per il caso di opere realizzate su fondo altrui. In assenza di una disciplina specifica, esso dovrebbe applicarsi anche al possessore. Fin qui i principii comuni. Il legislatore è poi intervenuto con articoli numerosi, anche se lacunosi, a regolare arricchimenti e acquisti dei frutti (artt. 1147-1151 c.c.). L’interprete potrà domandarsi se questi articoli esauriscano il rapporto che intercorre fra proprietario e possessore, o se si integrino con le regole generali del nostro diritto, specialmente con quelle dettate in tema di responsabilità civile delittuale. 6.5.2. Il possesso di buona fede. Il legislatore, attenendosi ad una tradizione romanistica, suddistingue due categorie di possessori, a seconda che essi ignorino o meno di ledere l’altrui diritto. Tale distinzione assume rilevanza a vari fini: acquisto dei frutti, quantificazione della indennità per i miglioramenti apportati alla cosa, tempo necessario per usucapire. Nel sistema italiano, la fattispecie “possesso di buona fede”, rilevante a tali molteplici fini, è unica, ed è disegnata dall’art. 1147. Tale stato di cose non risponde a una necessità logica; non è inconcepibile che un sistema disegni diversamente il possesso di buona fede ai fini delle diverse conseguenze che ne discendono. Così ad esempio il codice civile © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 428 IL POSSESSO III, 6.5.2. francese ha accolto la regola canonistica della buona fede “continua”, disponendo nell’art. 550 che il possessore “cesse d’être de bonne foi du moment où ces vices lui sont connus”, il che ha rilevanza, ad esempio, ai fini dell’acquisto dei frutti; ma ha accolto la regola opposta per quanto riguarda il requisito della buona fede nel possesso ad usucapionem (art. 2269: “il suffit que la bonne foi ait existé au moment de l’acquisition”) (175). In Italia, è possessore di buona fede chi, al momento dell’acquisto del possesso, ignorava di ledere l’altrui diritto. Di qui la formula “mala fides superveniens non nocet”, che bene rispecchia la tradizione italiana. L’ignoranza dovuta a colpa grave è equiparata a mala fede dallo stesso articolo 1147, il che risponde alla ragionevole esigenza di incentivare a una sia pur minima diligenza chi voglia beneficiare del trattamento riservato al possessore di buona fede. Oggi è pacifico che l’errore di diritto non è incompatibile con la buona fede (176). La buona fede del possessore, secondo l’art. 1147, è presunta. Si discute se il dubbio sia da equiparare alla mala fede. In giurisprudenza si precisa che la presunzione di buona fede “non è vinta dall’allegazione del mero sospetto di una situazione illegittima, essendo invece necessario che l’esistenza del dubbio promani da circostanze serie, concrete e non meramente ipotetiche, la cui prova deve essere fornita da colui che intenda contrastare la suddetta presunzione legale di buona fede” (177). Si è tuttavia precisato che, così come non giova la buona fede derivante da colpa grave, a maggior ragione non può giovare uno stato soggettivo di dubbio che dipenda da colpa grave, in quanto eliminabile con l’uso dell’ordinaria diligenza (178). In altre parole: la certezza assoluta è segno soltanto di ingenuità; il semplice dubbio non può essere equiparato a mala (175) Cfr., sul tema, E. MOSCATI, “Mala fides superveniens non nocet”? (Per la rilettura di un dogma), in Scritti in memoria di Angelo Lener, Napoli, 1989, 645, pp. 652 ss. (176) Cfr., ad esempio, Cass. 26 luglio 1962, n. 2124; Cass. 6 luglio 1966, n. 1764. (177) In termini identici si sono espresse Cass. 24 dicembre 1991, n. 13920 e Cass. 22 maggio 2000, n. 6648; nello stesso senso, cfr. pure Cass. 6 luglio 1984, n. 3971. (178) Cass. 29 giugno 1963, n. 1753. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.5.2. IL POSSESSO 429 fede. Ma se i dubbi possono essere, senza grandi sforzi, chiariti, chi omette una facile verifica versa in colpa grave. La giurisprudenza ripete ormai da tempo che “ai fini della ricorrenza del possesso di buona fede, non è necessaria l’esistenza di un titolo (ancorché viziato) idoneo a trasferire al possessore la proprietà della cosa posseduta” (179), che l’art. 1147 prescinde “dall’esistenza di un titolo ancorché viziato” (180). L’art. 701 del codice civile del 1865 considerava possessore di buona fede “chi possede come proprietario in forza d’un titolo abile a trasferire il dominio, del qual titolo ignorava i vizi”. La pratica si trovava a discutere quale titolo fosse abile, e quali vizi fossero compatibili con la buona fede, per concludere che ogni titolo era abile e ogni vizio si poteva ignorare. Il nuovo legislatore ne ha tratto la conseguenza, eliminando dai costituenti del possesso di buona fede il titolo. La discussione sulla necessità del titolo si intreccia con un altro problema. “Ignorare di ledere l’altrui diritto” non significa necessariamente ritenere di essere proprietario. Poiché non c’è lesione se non si agisce contro la volontà del soggetto leso, il possesso esercitato con il consenso del proprietario non è lesivo. Così chi si immette in un bene immobile a seguito di un contratto verbale di compravendita, magari con l’intesa che il contratto scritto sarà concluso in un momento successivo, dovrebbe considerarsi possessore di buona fede. La giurisprudenza, però, sul punto è divisa (181). (179) In questi termini Cass. 24 dicembre 1991, n. 13920 e Cass. 22 maggio 2000, n. 6648. (180) Così Cass. 20 agosto 1991, n. 8918. (181) Nel senso del testo si è espressa Cass. 20 agosto 1991, n. 8918, che ha respinto, sulla base della irrilevanza del titolo, sia pur viziato, ai fini dell’art. 1147, l’affermazione del ricorrente secondo cui il possessore versava in colpa grave (e quindi non poteva considerarsi di buona fede) non potendo ignorare che il patto concluso verbalmente richiedeva la forma scritta. In senso opposto, cfr. ad esempio Cass. 29 settembre 1962, n. 3219, secondo cui chi possiede sulla base di un accordo verbale con il proprietario, che si è impegnato a trasferire la proprietà, non può essere considerato in buona fede, e il consenso del proprietario avrà il limitato effetto di precludere la facoltà di chiedere la demolizione dell’opera ai sensi dell’art. 936 c.c. Nello stesso senso del testo, cfr. BIANCA, Diritto civile, cit., p. 765. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 430 IL POSSESSO 6.5.3. III, 6.5.3. Restituzione dei frutti e responsabilità per danni. Dall’art. 1148, 1° frase (“Il possessore di buona fede fa suoi i frutti naturali separati fino al giorno della domanda giudiziale e i frutti civili maturati fino allo stesso giorno”), si argomenta che il possessore di mala fede deve restituire sia i frutti naturali (in armonia con la regola generale di cui all’art. 821) che i frutti civili maturati. La seconda frase (“Egli, fino alla restituzione della cosa, risponde verso il rivendicante dei frutti percepiti dopo la domanda giudiziale e di quelli che avrebbe potuto percepire dopo tale data, usando la diligenza di un buon padre di famiglia”) lascia invece aperto il problema se il possessore di mala fede, fino alla domanda giudiziale, risponde solo dei frutti percepiti o anche di quelli percipiendi. La tesi largamente prevalente sostiene che il possessore di mala fede, anche prima della domanda giudiziale, risponde anche dei frutti percipiendi (182), ma non sono mancati sostenitori della tesi opposta (183) (che sostiene che il possessore di mala fede deve restituire i frutti indebitamente percepiti, e solo dopo la domanda giudiziale anche quelli percipiendi). Il divario tra le due tesi appare meno drammatico se si considera che il possessore di mala fede commette un illecito, ed è in ogni caso tenuto a risarcire il danno. In assenza di allegazioni particolari, il danno sarà identificato normalmente nei frutti che un uomo medio avrebbe potuto ricavare dal bene. Un problema delicato, e che qui si può soltanto sfiorare, riguarda l’utilizzo dei beni nel corso di una gestione dinamica, quale avviene se Tizio, immessosi nell’azienda di Caio, ivi svolge funzione d’imprenditore. La giurisprudenza ha ritenuto che, nel caso di beni destinati ad esercizio commerciale, i frutti che si traggono da tale esercizio hanno solo un collegamento “indiretto” coi beni utilizzati, e trovano invece la loro giustificazione “nell’esercizio per sé stesso, come attività speculativa a sé stante”, con la conseguenza che “i frutti che si ritraggono dall’esercizio di (182) Cfr., ad es., TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 40; BIANCA, Diritto civile, cit., p. 772; TROISI e CICERO, I possessi, cit., p. 117. (183) Cfr., ad es., MASI, Il possesso, cit., pp. 481-482. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.5.3. IL POSSESSO 431 un’azienda commerciale, anche se illegittimamente posseduta da chi la gestisce, sono di pertinenza non del proprietario dell’azienda, ma del soggetto che questa ha gestita” (184). La soluzione è stata approvata da buona parte della dottrina (185). In realtà la norma sui frutti sembra adeguata finché la causa principale del prodotto è la cosa madre, mentre la causa principale del profitto imprenditoriale è l’iniziativa dell’imprenditore. Qualche autore ha proposto che al proprietario si riconoscano, come frutti percipiendi, i canoni che l’azienda avrebbe meritato se data in affitto (186) (mentre l’imprenditore potrebbe far proprio l’eventuale maggior profitto). Secondo la giurisprudenza, ha carattere di debito di valore l’obbligo relativo ai frutti naturali, mentre è debito di valuta, soggetto al principio nominalistico, l’obbligo relativo ai frutti civili (187). Si deve ritenere che il possessore di mala fede, tenuto a restituire i frutti che avrebbe potuto percepire con l’ordinaria diligenza, debba pagare il valore del godimento del bene di cui abbia usato personalmente, nonché l’utilità ritratta dal bene sotto forma di risparmio di spese. Non si vede infatti perché trattare diversamente il possessore di mala fede che abita direttamente l’appartamento e quello che lo affitta ad un terzo. Qualcuno si chiede se la regola sull’acquisto dei frutti trovi applicazione analogica in tema di detenzione. Naturalmente il problema si pone solo per quei detentori che, sulla base del titolo, possono far propri i frutti (il conduttore, ad esempio; non il depositario, o l’appaltatore). Se l’atto di concessione proviene dal non legittimato, la detenzione del concessionario lede il diritto del proprietario. Il detentore si trova allora soggetto all’azione di rivendicazione. Se il detentore ignorava di ledere (184) Cass. 13 febbraio 1969, n. 486, in Giur. It., 1969, I, 1, 625. (185) Cfr., ad es., TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 39; SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., p. 458. (186) In questo senso SACCO, Il possesso, cit., p. 361; BIANCA, Diritto civile, cit., p. 772. (187) Cass. 19 novembre 1992, n. 12362; Cass. 12 febbraio 1993, n. 1784; Cass. 15 marzo 2006, n. 5776. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 432 IL POSSESSO III, 6.5.3. l’altrui diritto, potrà far propri i frutti come il possessore di buona fede? Parte della dottrina è favorevole all’equiparazione, che “trova ragione nella medesima esigenza di tutela dell’aspettativa di chi in buona fede utilizza fruttuosamente la cosa” (188). Le regole sul possesso di buona fede non si giustificano, ovviamente, come incentivi rivolti al possessore medesimo (che, per definizione, non sa che esse gli si applicheranno, a parte il caso della mala fides superveniens). Non sembrano plausibili, pertanto, i tentativi di giustificare la regola sull’acquisto dei frutti sulla base di istanze produttivistiche. Tale regola, sotto il profilo degli incentivi rivolti ai consociati, non fa né male (perché, richiedendo la buona fede, non rischia di incoraggiare intromissioni illecite nei beni altrui), né bene. La regola si giustifica sulla base di esigenze equitative (rende meno traumatico il “brusco risveglio” da parte di un soggetto che in fin dei conti non versava in colpa grave), e perché evita i costi di giustizia che scaturiscono dalla regola opposta (189). Le stesse giustificazioni valgono anche nel caso del detentore. Un caso particolare è quello in cui il possessore di buona fede concede il bene ad un terzo. In questo caso almeno sembra logico che il proprietario, che non può chiedere i frutti civili al possessore, non possa neppure chiedere la restituzione dei frutti al detentore; altrimenti bisognerebbe ammettere che questi possa a sua volta agire contro il possessore. In ogni caso, è utile ricordare che la nostra giurisprudenza dà spazio a contratti di locazione di fatto, rilevanti quando il contratto consensuale è nullo (190), il che riduce la rilevanza ai fini pratici del nostro problema. Le regole sui frutti interferiscono con l’applicazione dell’art. 2043. (188) BIANCA, Diritto civile, cit., p. 764; e vedi pure le pp. 772-773. (189) Quando non esistono solide ragioni di giustizia o di efficienza per “spostare” un danno o un arricchimento, l’ordinamento spesso sceglie la soluzione meno costosa, cioè lasciarlo dove è, evitando i costi di accertamento e di esecuzione che inevitabilmente scaturirebbero dalla regola opposta. (190) Cass. 6 maggio 1966, n. 1168; Cass. 3 maggio 1991, n. 4849, in Giur. It., 1991, I, 1, 1313. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.5.3. IL POSSESSO 433 Il possessore di mala fede è responsabile sulla base dell’art. 2043; egli è tenuto a risarcire il danno; il diritto, prescindendo dalla prova del danno, lo condanna comunque a restituire l’ammontare di cui si è arricchito (cioè, i frutti). Ciò evita che il possessore di mala fede, per quanto abilmente abbia saputo far fruttare il bene, e per quanto inutile fosse il bene nelle mani del proprietario, si arricchisca grazie al suo illecito. Ma l’obbligo di restituire i frutti si cumula alla sanzione del risarcimento del danno; per cui, se il proprietario può provare un danno maggiore dei frutti percetti o percipiendi, il possessore di mala fede deve risarcire. La stessa regola (con l’obbligo di pagare la maggior somma fra frutti percepiti e percipiendi e danno arrecato) deve applicarsi al detentore di mala fede, che altrimenti sarebbe trattato, senza giustificazione, meglio del possessore. L’applicazione dell’art. 2043 comporterebbe, a rigore, la responsabilità per danni del possessore di buona fede, quando vi sia una colpa lieve; comporterebbe, a rigore, la responsabilità per danni del possessore in caso di mala fides superveniens. Ciò frustrerebbe la tutela del possessore di buona fede, come risulta dagli articoli 1147 e 1148. Per evitare tale risultato, si deve ritenere che con le norme in commento il legislatore abbia implicitamente escluso l’applicazione dell’art. 2043 c.c. al possessore di buona fede. Fin qui si è parlato della responsabilità del possessore per il solo fatto del possesso. Bisogna ora accennare all’ipotesi che egli danneggi la cosa o la alieni efficacemente. Per il caso di alienazione, sembra ragionevole considerare il possessore di buona fede responsabile nei limiti del corrispettivo ricevuto, in applicazione di un principio desumibile dagli artt. 535, 1776, 2038 c.c. Sempre traendo ispirazione dall’art. 2038 c.c., sembra ragionevole ritenere che in caso di alienazione da parte del possessore di mala fede il proprietario possa esigere, a sua scelta, il valore della cosa o il corrispettivo ricevuto. Si può ipotizzare che gli stessi principi si estendano al danneggiamento o alla distruzione della cosa. In questo caso, il possessore di buona fede sarebbe responsabile nei limiti del suo © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 434 IL POSSESSO III, 6.5.3. eventuale arricchimento conseguente al danneggiamento o alla distruzione; il possessore di mala fede sarebbe tenuto a pagare la maggior somma tra i danni e il suo arricchimento. 6.5.4. Riparazioni, miglioramenti, addizioni. Il possessore gode di rimedi e difese in materia di spese e riparazioni; di miglioramenti; di addizioni; il suo credito è protetto mediante la ritenzione della cosa. Il possessore, come gestore d’affari qualificato, ha diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie, sia egli in buona o in mala fede (art. 1150, 1° comma). La diligenza e la premura del possessore meritano di essere incoraggiate, perché spesso è l’unico soggetto su cui si possa contare per la salvaguardia della cosa. Le riparazioni e spese ordinarie sono considerate come un passivo inerente al godimento della cosa, e si compensano con il godimento del bene e con l’acquisto dei frutti. Ne segue che il possessore di mala fede, che deve restituire i frutti, e che pertanto ha diritto al rimborso delle spese fatte per la produzione e il raccolto, ha diritto anche al rimborso delle spese ordinarie, mentre tale diritto non spetta al possessore di buona fede. Il debito nascente da riparazioni viene considerato di valuta (191). Il possessore ha diritto a indennità per i miglioramenti recati alla cosa, purché sussistano al tempo della restituzione. L’indennità è pari all’aumento di valore della cosa per effetto dei miglioramenti se il possessore è di buona fede, in caso contrario è pari alla minor somma tra l’importo della spesa e l’aumento di valore (art. 1150, 2° e 3° comma). Con tale restrizione, l’ordinamento evita ancora una volta che il possessore di mala fede, per quanto abile, possa trarre beneficio dal suo illecito (come altrimenti potrebbe fare quando apporta alla cosa un aumento di valore superiore alle spese). Se il miglioramento ha carattere di addizione, si applicano i (191) Cass. 9 agosto 1983, n. 5337. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.5.4. IL POSSESSO 435 principii dell’art. 936 c.c. espressamente richiamati. Si debbono allora distinguere tre ipotesi. Infatti l’art. 1150, 5° comma, introduce una particolare considerazione del possessore di buona fede; l’art. 936, a sua volta, distingue il costruttore di buona fede dal costruttore di mala fede. Il possessore di mala fede che sia inoltre costruttore di mala fede è alla mercè del proprietario, che può costringerlo a togliere le addizioni ed a pagare i danni, ovvero può ritenere le addizioni pagando a sua scelta il valore dei materiali e della mano d’opera, oppure l’aumento di valore recato al bene. Il costruttore di buona fede e il soggetto a lui equiparato (cioè colui che ha costruito a scienza e senza opposizione del proprietario), sempreché non sia anche possessore di buona fede, non è soggetto all’obbligo di togliere le costruzioni ed avrà diritto all’indennità che il proprietario preferirà attribuirgli (fra aumento di valore e spese). Il possessore di buona fede ha diritto senz’altro all’indennità nella misura dell’aumento di valore. Secondo l’opinione prevalente, il debito per i miglioramenti, anche quando consista nel rimborso delle spese, è debito di valore (192). La pratica ha additato ai giuristi l’importanza del problema del miglioramento di incerto avvenire, ossia di quel miglioramento che sussiste al momento della restituzione del bene, ma è esposto all’eliminazione. Il prototipo di questi miglioramenti è la costruzione eseguita in modo non conforme a diritto. La giurisprudenza ha affermato in ripetute occasioni che l’esecuzione di costruzioni senza la prescritta licenza edilizia, e dunque esposte al pericolo di demolizione per ordine della competente autorità amministrativa, non realizza un miglioramento indennizzabile ai sensi dell’art. 1150 c.c (193). La soluzione non soddisfa. Il miglioramento eliminabile assomiglia da vicino al danno alla persona reversibile in caso di incerta ed augurata guarigione; al danno consistente in un (192) Cfr., ad esempio, Cass. 18 novembre 1987, n. 8491; Cass. 8 novembre 1993, n. 11051. (193) Cass. 8 aprile 1983, n. 2498, in Giur. It., 1983, I, 1, 1847 (ma attenzione: la sentenza arriva allo stesso risultato applicando le regole comuni sull’arricchimento senza causa); Cass. 17 dicembre 1991, n. 13568; Cass. 10 settembre 1997, n. 8834. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 436 IL POSSESSO III, 6.5.4. aumento del rischio; e così via. Sono figure che pongono problemi delicati al diritto, ma che non possono essere considerate irrilevanti. Condoni o sanatorie sono d’altronde, nel nostro ordinamento, ben lontani dall’essere eventi eccezionali. È dunque necessaria una soluzione più sofisticata. In dottrina si è proposto che si accolli al proprietario il miglioramento come se fosse definitivo, legittimandolo alla ripetizione in caso di eliminazione (194). Certo, in questo modo si esporrebbe il proprietario a un rischio notevole, perché il possessore potrebbe rendersi irreperibile o risultare insolvente. Il diritto alle indennità del possessore di buona fede è spalleggiato dal diritto di ritenzione, che l’art. 1152 regola dettagliatamente. Secondo la giurisprudenza, le disposizioni contenute negli art. 1150 ss. sono norme di carattere eccezionale, e dunque non applicabili per analogia al mero detentore (195). Anche in questo caso, bisogna innanzitutto osservare che il problema non può neppure porsi se non nei limiti in cui il diritto ad indennità per riparazioni e miglioramenti sia previsto dal titolo. In questi limiti, sembra in realtà che il trattamento del possessore di mala fede sia il trattamento normale di chi, avendo arricchito altri, può chiedere la minor somma tra la propria perdita e il vantaggio della controparte. Il possessore di buona fede beneficia invece di uno statuto privilegiato, ed è opinabile se esso si presti ad una estensione per analogia. Ma in molti casi il problema neppure si pone. Ad esempio, nel caso della locazione è ovvio che il conduttore, sulla base degli artt. 1592 e 1593 c.c., non potrà aspirare ad un trattamento equivalente a quello del possessore di buona fede (196). (194) SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., p. 466. (195) Cass. 21 dicembre 1993, n. 12627. (196) BIANCA, Diritto civile, cit., p. 776 ss. è favorevole in linea di principio ad un’estensione delle regole dettate nell’art. 1150 c.c. al detentore, ma ritiene che se la detenzione trae titolo da un rapporto contrattuale, prevalgono le norme regolatrici di tale rapporto. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.2. 6.6. IL POSSESSO 437 Le azioni possessorie. 6.6.1. Le lesioni del possesso. L’interprete ricostruisce i varii tipi di lesione del possesso rilevanti, desumendoli dalle regole che prevedono i relativi rimedii; questi, a loro volta, sono l’azione di reintegrazione, l’azione di manutenzione, la denunzia di nuova opera, la denunzia di danno temuto, la petizione di eredità, la pretesa alla restituzione della cosa smarrita, e l’azione risarcitoria generale. Le ipotesi cui il possessore può reagire possono enumerarsi come segue: lo spoglio; la turbativa o molestia; l’opera nuova dannosa; il pericolo di danno nascente da una cosa; il possesso alieno di cose ereditarie; il rifiuto di restituzione di cose smarrite; il danno ingiusto recato mediante una delle lesioni precedentemente enumerate. Il possessore, attraverso la raggiera dei rimedii possessori, riceve una tutela tanto estesa quanto quella che riceve, attraverso le azioni sue proprie, il proprietario. Ma la difesa del possessore ha un’intensità minore, perché di fronte al convenuto non gli basta provare il suo stato di possessore; deve invece svolgere una compiuta critica della condotta del convenuto, per dimostrare che quest’ultimo si è posto dalla parte del torto. 6.6.2. Lo spoglio. L’art. 1168 non definisce direttamente lo spoglio. Nella lingua volgare, effettuare uno spoglio significa privare qualcosa o qualcuno di qualcosa. La legge, se non definisce lo spoglio, indica che si ripara allo spoglio rimettendo lo spogliato nel possesso, così lasciando intendere che, per effetto dello spoglio, egli ha perduto il potere di fatto. Ne segue che è spoglio il comportamento di taluno, che fa perdere al possessore il potere di fatto sulla cosa. La perdita del potere generale sulla cosa (qual è ad esempio il potere a titolo di proprietà) avverrà nella forma della sottrazione quando la cosa sia mobile, e della deiezione quando la cosa sia immobile. In modo via via corrispondente avverrà la perdita del potere frazionario © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 438 IL POSSESSO III, 6.6.2. del compossessore immobiliare, o di chi esercita una servitù positiva. Da tempo però la dottrina ha evidenziato una certa disponibilità della giurisprudenza a considerare come spoglio anche attentati che non cagionano la perdita del possesso, ma ne diminuiscono o rendono più incomodo l’esercizio (197). Tali aperture contrastano con un’altra corrente giurisprudenziale, che contrappone lo spoglio alla molestia identificando il primo come un’aggressione al possesso che “incide direttamente sulla cosa che ne costituisce l’oggetto, sottraendola in tutto o in parte alla disponibilità del possessore”, mentre la molestia si rivolge contro l’attività di godimento del possessore, “disturbandone il pacifico esercizio, ovvero rendendolo disagevole e scomodo” (198). Al di là delle formule utilizzate, le ragioni delle decisioni non sono sempre trasparenti. In un’occasione la Suprema Corte ha ravvisato uno spoglio nella aratura di un fondo, che privava l’attore della possibilità di utilizzare un certo bene come pascolo (199); mentre in altra occasione ha qualificato come semplice molestia del possesso di un terreno la recisione e l’asporto di piante (200). Una decisione, sulla base del principio che lo spoglio può concretarsi in un atto che “restringa o riduca le facoltà inerenti al potere esercitato sull’intera cosa”, ha considerato spoglio il fatto del condomino che, collocando alcuni tavolini nell’area antistante un fabbricato, aveva compromesso la possibilità di transito ad altri condomini (201). Un’indagine volta ad individuare un filo conduttore della giurisprudenza non è semplice. Molte decisioni sono note solo per massima, e la massima dice poco o nulla sul fatto. In molti casi, le affermazioni delle corti sono semplici obiter dicta, perché il fatto in esame è una vera ablazione o deiezione, e dunque la definizione di spoglio scelta è ininfluente; o perché l’attore è legittimato a reagire sia allo spoglio che alle molestie. Talvolta si (197) Cfr., ad esempio, Cass. 21 marzo 1970, n. 749; Cass. 20 marzo 1978, n. 1386; Cass. 14 novembre 1978, n. 5242. (198) Così Cass. 6 dicembre 1984, n. 6415; nello stesso senso Cass. 6 gennaio 1982, n. 23. (199) Cass. 6 novembre 1991, n. 11853. (200) Cass. 16 aprile 1981, n. 2298. (201) Cass. 16 marzo 1966, n. 754. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.3. IL POSSESSO 439 ha l’impressione di un certa ritrosia della Corte di Cassazione a ridiscutere la qualificazione operata dal giudice di merito. Si deve comunque segnalare una certa discontinuità della Corte di Cassazione; e forse una certa tendenza, in anni più recenti, a rendere più stretta la definizione dello spoglio. Senza pretendere di elaborare una definizione compiuta ed esaustiva, possiamo dire che la giurisprudenza fa sicuramente rientrare nello spoglio: — tutte le innovazioni che pregiudichino, in qualsiasi modo, il rapporto elementare di fatto uomo-cosa, che ostino cioè all’ingerenza della vittima, impendendola o difficultandola (attraverso la erezione di recinzioni e cancelli, l’apposizione di lucchetti, e così via); — i mutamenti di destinazione o le trasformazioni importanti della cosa (ad esempio, il mutamento dell’ordinamento colturale del fondo (202), o la rottura di un muro divisorio per rendere comunicanti due appartamenti (203)). 6.6.3. Lo spoglio del possessore mediato. Il possessore mediato può essere spogliato da un terzo, o dal detentore immediato. Sebbene ciò non venga scritto a tutte lettere, si ritiene comunemente che lo spoglio del potere immediato da parte di un terzo costituisca spoglio del soggetto del potere mediato. Spogliato il conduttore, si considera come spogliato il locatore. La fondatezza di questa equiparazione potrebbe essere messa in dubbio, laddove l’agente proclami di voler essere detentore (se cioè effettui il riconoscimento del possessore); in un simile caso, si potrebbe sostenere che la situazione possessoria del possessore mediato resti immutata. Una sentenza ormai remota, tuttavia, ha affermato che il proprietario-locatore di un palazzo può reagire con l’azione di reintegrazione allo spoglio commesso da uno dei suoi inquilini ai (202) (203) Cass. 23 marzo 1984, n. 1933. Cass. 11 aprile 1959, n. 1065. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 440 IL POSSESSO III, 6.6.3. danni degli altri (nella specie, appropriandosi di un ballatoio di uso comune) (204). Si crea così una figura speciale di azione possessoria che ruota intorno alla identità del detentore immediato, e che trova giustificazione in un intuibile interesse pratico del possessore mediato a conservare un controllo sulla situazione di fatto del bene. La stragrande maggioranza degli attentati al potere mediato si compie, peraltro, ad opera del soggetto del potere diretto. L’occasione più frequente di controversie è il rifiuto, da parte del detentore immediato, di restituire la cosa. Sul tema, una giurisprudenza ormai consolidata oppone il semplice ritardo nella riconsegna del bene alla interversione (che costituisce spoglio). Secondo tale consolidato orientamento, è vero che “colui il quale abbia cominciato a possedere a titolo precario in nome altrui, nel momento stesso in cui manifesti la sua volontà di possedere non più nomine alieno, ma uti dominus, priva l’altra parte del suo possesso”, legittimandola all’esercizio dell’azione di reintegrazione; ma tale azione è “esperibile soltanto quando l’opposizione da parte del precarista alla richiesta di restituzione della cosa detenuta, si fondi sull’allegazione di un proprio possesso e non già allorquando il comodatario o il locatario e il colono, si opponga al rilascio per motivi attinenti alla validità o alla continuazione del rapporto obbligatorio in forza del quale abbia ottenuto la detenzione” (205). Di per sé il rifiuto di restituire il bene non costituisce spoglio “rilevando tale comportamento soltanto sul piano dei rapporti contrattuali, con la conseguenza che il proprietario concedente resta abilitato ad agire non con l’azione di spoglio, ma con l’azione di restituzione fondata sull’estinzione del contratto” (206). Ad esempio, il comodante, una volta revocata la concessione, per ottenere dal comodatario che non restituisce il rilascio del bene, può soltanto avvalersi dall’azione di restitu(204) (205) (206) Cass. 1 febbraio 1950, n. 272, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1950, II, 43. Cass. 21 maggio 1992, n. 6134. Cass. 29 marzo 1995, n. 3700. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.3. IL POSSESSO 441 zione, fondata sull’estinzione del contratto, mentre non è abilitato ad agire mediante l’azione di spoglio (207). Coerentemente, si è ritenuto, in materia di appalto, che “nell’ipotesi in cui l’appaltatore rifiuti la consegna dell’opera al committente, si ha spoglio solo se resti accertata l’assoluta mancanza di contestazione circa l’avvenuta cessazione del rapporto contrattuale, con l’esaurimento delle correlative posizioni soggettive, mentre, in presenza di una controversia relativa alle vicende contrattuali, va escluso il venir meno dello ‘jus detinendi’ dell’appaltatore” (208). Non è impossibile conciliare con tale orientamento giurisprudenziale quelle decisioni che hanno ritenuto che, in caso di detenzione per ragioni di servizio o di ospitalità, il semplice rifiuto di restituire la cosa integri spoglio (209). Poiché il detentore tale per ragione di servizio di ospitalità o di tolleranza detiene a un titolo che implica necessariamente il dovere di restituire la cosa a semplice richiesta del possessore, la mancata ottemperanza alla richiesta implica normalmente una interversione illecita e quindi uno spoglio. In particolare, la Corte di Cassazione, richiamandosi espressamente alla giurisprudenza in tema di mancata restituzione della cosa, ha affermato che non commette spoglio il conduttore che subloca la cosa in violazione di divieto contenuto nel contratto di locazione, “sicché il locatore non è abilitato a proporre l’azione di spoglio non solo nei confronti del conduttore, ma neppure del subconduttore, può semplicemente chiedere la risoluzione del contratto, ed una volta ottenutala pretendere dal subconduttore la consegna della cosa a norma dell’art. 1595”; nella motivazione, la Corte ha affermato che “il regime possessorio non mira a rafforzare l’obbligazione o a renderla insensibile alle vicende che la interessano” (210). L’orientamento della giurisprudenza merita approvazione. Il (207) Cass. 11 gennaio 1993, n. 178. (208) Cass. 21 agosto 1996, n. 7700. (209) In questo senso cfr. Cass. 12 aprile 1972, in Foro Italiano, 1972, I, 3175; Cass. 19 maggio 1982, n. 3086; Cass. 4 giugno 1992, n. 6906. (210) Cass. 29 maggio 2003, n. 8628. In SACCO, Il possesso, cit., p. 222 (e poi in SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp. 279) si affermava che “il regime possessorio non è stato istituito per rafforzare l’obbligazione, o per renderla insensibile alle querele di nullità”. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 442 IL POSSESSO III, 6.6.3. locatore, comodante, committente che lamenta un inadempimento della controparte può invocare il rapporto obbligatorio; ed in quella sede eventuali eccezioni fondate sull’invalidità totale o parziale del contratto, sulla sua interpretazione e qualificazione, etc. potranno essergli opposte. Il regime possessorio non è stato istituito per rafforzare l’obbligazione, né per renderla insensibile alle vicende che la interessano, e che non possono essere discusse in sede di giudizio possessorio. Lo spoglio implica un mutamento della situazione di fatto. Tale mutamento non può consistere in un inadempimento contrattuale, per quanto grave, ma solo nel venir meno della laudatio possessoris. Il riconoscimento non viene meno se il detentore ritarda o rifiuta genericamente la restituzione; viene meno se il detentore ritarda o rifiuta la restituzione perché intende disporre della cosa come dominus. Il caso del detentore per ragione di servizio o di ospitalità merita un trattamento diverso. Da un lato, in questo caso non esiste il timore che l’azione possessoria sia usata per aggirare le legittime discussioni che possono sorgere in sede di azione contrattuale. D’altra parte, il detentore per ragione di servizio o di ospitalità realizza un mutamento della situazione di fatto se, pur continuando a riconoscere il possessore, prende a comportarsi come un detentore qualificato. 6.6.4. La molestia. L’art. 1170 c.c. non aiuta l’interprete a identificare i connotati della “molestia” o “turbativa” cui si ripara con la “manutenzione”. Per definire la molestia bisogna rendere nitide due soglie: la soglia superiore (che separa la molestia dallo spoglio) e la soglia inferiore (che separa la molestia dall’ingerenza lecita). Per definire la soglia superiore è bene procedere per esclusione: è molestia l’ingerenza indebita, che non sia spoglio. Nella sede relativa alla molestia, si deve dare una definizione per segni positivi della soglia inferiore. Cosa costituisce molestia, secondo la giurisprudenza? © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.4. IL POSSESSO 443 Costituiscono molestia: la violazione delle distanze legali (211); le immissioni intollerabili di fumi, vapori ed odori (212); l’innalzamento del muro di cinta che limita l’afflusso di luce ed aria (213); l’accumulo di terra a ridosso del muro di confine, in relazione alle infiltrazioni di umidità ed alla diminuzione di aria e di luce (214). La definizione di molestia, suggerita dal sistema e confortata dalla pratica, sembra essere la seguente: la molestia sussiste se un terzo si ingerisce sulla cosa in un modo che sarebbe illecito ove il possessore fosse titolare del diritto corrispondente al suo possesso, e sempre che questa ingerenza non costituisca spoglio. Non è molestia, invece, l’ingerenza che sarebbe lecita anche alla stregua del diritto cui corrisponde il potere di fatto del possessore. Così ad esempio non è stata considerata molestia l’ingerenza esplicata nello spazio sovrastante il suolo, a tale altezza da non costituire lesione del diritto di proprietà (215). Questa definizione merita alcuni chiarimenti. a) La molestia è nella sua essenza un’ingerenza nella cosa. Essa non implica necessariamente un venir meno del potere di godimento della vittima, né una restrizione ad esso. Ciò non collima perfettamente con le definizioni delle nostre corti, che talvolta richiedono che l’attività abbia “un congruo ed apprezzabile contenuto di disturbo” del possesso dell’attore, tale da “rendere impossibile, gravoso oppure notevolmente difficoltoso l’estrinsecarsi di tale posizione” (216); che il comportamento del molestante “modifichi, restringa o rechi pregiudizio al legittimo possesso altrui o comunque limiti o modifichi apprezzabilmente il modo di esercizio di esso” (217). Prese sul serio, tali definizioni porterebbero ad una ingiusti(211) Cfr., ad esempio, Cass. 23 gennaio 1995, n. 724; Cass. 9 dicembre 1996, n. 10935; Cass. 25 marzo 1998, n. 3147. (212) Cass. 10 settembre 1997, n. 8829. (213) Cass. 4 dicembre 1995, n. 12489. (214) Cass. 18 marzo 1986, n. 1842. (215) Cass. 7 gennaio 1984, n. 106. (216) Così Cass. 24 febbraio 1993, n. 2260. (217) Cass. 29 maggio 1995, n. 6037. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 444 IL POSSESSO III, 6.6.4. ficata restrizione della tutela del possessore. Peraltro, la stessa giurisprudenza finisce in molti casi per neutralizzarne la portata concreta: così, ad esempio, si è ripetutamente affermato che “la violazione delle distanze legali nelle costruzioni integra una molestia al possesso del fondo finitimo contro la quale è data l’azione di manutenzione perché anche quando non ne comprime di fatto l’esercizio importa automaticamente modificazione o restrizione delle relative facoltà” (218). Applicando questa logica, si potrebbe ripetere la stessa affermazione per ogni illecita ingerenza nella cosa. b) La definizione proposta ruota intorno alla illiceità dell’ingerenza. Non è tuttavia sempre facile sapere quale ingerenza debba dirsi lecita. Il terreno che finora ha fatto nascere maggiori problemi è quello delle immissioni. L’art. 844 c.c. assegna al giudice non solo vasti poteri di apprezzare il fatto, ma un’ampia potestà regolatrice, per cui può consentire o meno, discrezionalmente, un’immissione, bilanciando numerosi e disparati criterii (esigenze della produzione, ragioni della proprietà, priorità nella destinazione della cosa). La nostra pratica conosce, altresì, la figura delle immissioni contro cui non è concessa azione inibitoria, ma che comportano un obbligo di risarcire il danno. Come deve comportarsi il giudice del possessorio? In che misura può svolgere lo stesso complesso bilanciamento che spetta al giudice del petitorio? Come deve comportarsi di fronte ad immissioni che non darebbero luogo alla inibitoria, ma al risarcimento del danno? In un’occasione la Suprema Corte ha approvato l’operato del giudice del merito, che, ritenendo che le immissioni sonore non superassero la normale tollerabilità, aveva respinto l’azione di manutenzione; in tale occasione la Suprema Corte ha precisato altresì che l’apprezzamento del giudice di merito sulla normale tollerabilità delle immissioni, onde escludere la turbativa o (218) Così Cass. 19 marzo 1991, n. 2927. Nello stesso senso, Cass. 3 aprile 1976, n. 1185; Cass. 9 settembre 1989, n. 3911. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.4. IL POSSESSO 445 molestia, si sottrae al sindacato di legittimità se esaurientemente motivato (219). In un’altra decisione, la Suprema Corte ha approvato l’operato del giudice di merito, che, accertato che le immissioni sonore ed infiltrazioni di acqua provenienti dal fondo del convenuto superavano la normale tollerabilità, aveva accolto l’azione di manutenzione proposta dall’attrice (220). In modo alquanto fuorviante, la Corte ha ritenuto di precisare che ai fini della configurabilità delle molestie non occorre che l’ingerenza sia “obiettivamente illecita in quanto violativa di un preciso precetto normativo” e che “la lesione normativamente rilevante viene in considerazione come semplice atto materiale (…) idoneo a turbare il possesso altrui, sicché la molestia conseguente a inosservanza da parte dell’agente di precisi precetti normativi rappresenta soltanto uno dei possibili modi pratici con cui la turbativa può essere arrecata”. Nel caso di specie, il fatto che le immissioni eccedessero i limiti della normale tollerabilità era stato puntualmente accertato dal giudice di merito, e opportunamente valorizzato dalla Suprema Corte, il che conferma che l’ingerenza per costituire molestia deve essere illecita. Il problema sfiorato dalla Corte è semmai quello che in alcuni casi i “precetti normativi” non sono sufficientemente “precisi” da essere applicabili senza una complessa valutazione del giudice. Un ormai remoto precedente di merito si è spinto a rigettare, richiamando espressamente il 2° comma dell’art. 844 c.c., e dando prevalenza alle ragioni della produzione, la domanda, proposta in sede possessoria, volta a far cessare un’immissione inquinante (221). Per quanto riguarda la possibilità che il giudice condanni l’immittente al risarcimento dei danni, si rinvia a quanto diremo, fra poche pagine, sul risarcimento del danno da lesione del possesso. (219) (220) (221) Cass. 20 marzo 1995, n. 3223. Cass. 13 settembre 2000, n. 12080. Pret. Gavirate, ord. 11 giugno 1966, in Foro padano, 1966, 1068. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 446 IL POSSESSO III, 6.6.4. c) La lesione in cui si concreta la molestia deve avere una sua realtà e una sua effettività. Non è molestia l’atto che induce in un generico timore di una futura, eventuale turbativa (e la giurisprudenza ha negato accoglimento ad un’azione di manutenzione esperita con riferimento al pericolo di inquinamento del fondo dell’attore, che sarebbe potuto derivare dalla difettosa costruzione di opere da parte del vicino nel proprio fondo (222)). Ma la giurisprudenza non è contraria a riconoscere all’azione di manutenzione una funzione preventiva. Così ha affermato che “un’immutazione dello stato dei luoghi che non arrechi attualmente danno al possesso altrui, può egualmente configurare una molestia, se sia idonea a porre in dubbio o in pericolo siffatto possesso, ma a tal fine è necessario che la detta immutazione sia per sé stessa evolutiva nella direzione di uno specifico attentato pregiudizievole, oppure che sia accompagnata da univoche manifestazioni, da parte di chi l’ha posta in essere, tali da denotare una contraria pretesa” (223) (nel secondo caso, si avrà una molestia di diritto, di cui diremo fra breve). La molestia deve avere un’esistenza non completamente saltuaria e non fuggitiva. Può sussistere anche se la lesione non è duratura, ma non c’è molestia se un atto, isolato, non genera il timore di reiterazione. d) Un insegnamento risalente colloca accanto alle molestie di fatto, che turbano materialmente il possesso, le molestie di diritto, “che consistono in atti giudiziali o stragiudiziali, con i quali si contesta l’altrui possesso” (224). Il punto merita qualche chiarimento. Non può costituire molestia del possesso l’accampare diritto o l’intimare al possessore di comportarsi in conformità di un (preteso) diritto del notificante. Altrimenti, la comune lettera raccomandata che si invia al possessore prima di instaurare un giudizio di rivendicazione costituirebbe molestia. (222) Cass. 10 gennaio 1981, n. 251. (223) Cass. 29 gennaio 1990, n. 532 (si tratta di obiter). Nello stesso senso, cfr. ad esempio Cass. 13 febbraio 1999, n. 1214. (224) In questi termini, MONTEL, Il possesso, cit., p. 540. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.5. IL POSSESSO 447 La molestia inizia là dove il dichiarante contesti il possesso, e non il diritto, altrui, o pretenda il rispetto di un proprio preteso possesso. La distinzione è ben formulata dalla giurisprudenza, secondo cui la molestia può realizzarsi anche senza attività materiali, “attraverso manifestazioni di volontà che devono però esprimere la ferma intenzione del dichiarante di tradurre in atto il suo proposito”; in tal caso è tuttavia necessario “che il possesso sia posto in pericolo; se le manifestazioni di volontà (…) sono volte all’affermazione di un diritto (proprio) e alla negazione di un diritto (altrui) senza far temere imminenti azioni materiali contrastanti con la situazione di possesso, si è in presenza solo di espressioni intese ad evitare, se possibile, una controversia giudiziaria” (225). 6.6.5. La violenza e la clandestinità dello spoglio. Il legislatore distingue due figure di spoglio: quello operato “violentemente o occultamente”, chiamato “spoglio violento o clandestino”, e quello “non violento né clandestino”, chiamato “spoglio semplice” (artt. 1168, 1° e 3° comma, e 1170, 3° comma, c.c.). Le due figure, alla stregua della lettera del codice, appaiono trattate in modo diverso, ed è pertanto di grande interesse accertare in cosa consistano i due fatti dequalificativi dello spoglio di cui all’art. 1168 — e cioè la violenza e la clandestinità. Il legislatore ha imperniato la sistematica delle lesioni del possesso su tre contrapposizioni: possessore — detentore; molestia — spoglio; lesione violenta — lesione semplice. Il solo possessore immobiliare può reagire alle molestie e allo spoglio semplice. Poniamo di fronte al dato testuale del codice il discorso della giurisprudenza. “In tema di spoglio deve ritenersi violenta qualsiasi azione che produca la privazione del possesso contro la volontà anche (225) In questi termini, Cass. 24 giugno 1995, n. 7200. Nello stesso senso anche Cass. 19 febbraio 1999, n. 1409. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 448 IL POSSESSO III, 6.6.5. presunta del possessore, ancorché non vi concorrano veri e propri atti di violenza materiale” (226). Ricorre, dunque, spoglio violento “anche nella privazione dell’altrui possesso mediante alterazione dello stato di fatto in cui si trova il possessore eseguita contro la volontà anche soltanto presunta del possessore”, presunzione “sussistente sempre che manchi la prova di una manifestazione univoca di consenso e che non è superata dal semplice silenzio, fatto di per sé equivoco che non può essere interpretato senz’altro come manifestazione di consenso o di acquiescenza” (227). Dunque, solo una “una manifestazione univoca di consenso” esclude la violenza. Ma laddove esiste una manifestazione univoca di consenso, siamo in presenza di uno spoglio? L’inciso “contro la volontà espressa o presunta del possessore spogliato” non aggiunge e non toglie nulla alla definizione dello spoglio. Definendo così la violenza, ogni spoglio è uno spoglio violento. La giurisprudenza svolge la “violenza” menzionata dal legislatore in un requisito implicito e tautologico, e così facendo pone in essere una interpretazione abrogativa dell’espressione. La giurisprudenza italiana rispetta una linea di evoluzione che si è manifestata in molti ordinamenti e in molti momenti storici. Fin dall’inizio della trattazione abbiamo anticipato che la violenza connotò figure di aggressione ai beni appartenenti ad altri in varii ordinamenti primitivi. Il diritto romano, il diritto inglese, il diritto canonico ci offrono materiali per questa ricostruzione. Peraltro, la evoluzione del diritto ha provveduto a liquidare la tradizione favorevole alla dequalificazione della lesione solo se violenta. Già la storia del diritto romano mostra come si sia annacquato, nelle regole dell’interdetto unde vi, il requisito della violenza, che la regola giustinianea dà senz’altro presente quando la vittima abbandona il fondo per un ragionevole timore, o (226) Cass. 23 febbraio 1981, n. 1101. Nello stesso senso cfr., ad esempio, Cass. 13 febbraio 1987, n. 1577. (227) Cass. 13 febbraio 1999, n. 1204. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.5. IL POSSESSO 449 quando non può ripristinare la situazione anteriore alla lesione senza ricorrere alla forza. L’azione canonistica di spoglio, ispirata originariamente all’orrore per la violenza, fu utilizzata in presenza di qualsiasi ingiustificata perdita del possesso. Non è avvenuto diversamente in Inghilterra, per l’azione di trespass: il requisito della lesione, espresso con la parole “vi et armis”, a distanza di tempo prese a considerarsi come non scritto, o non si scrisse affatto, e la rottura del confine si estese concettualmente a qualsiasi violazione del confine, inteso come delimitazione ideale di uno spazio. La evoluzione verso l’abbandono della violenza come requisito effettivo per la repressione dello spoglio è fondata su ragioni serie. Normalmente, la violenza non nasce da una decisione dell’aggressore, ma dalla resistenza fisica della vittima. Concedere il rimedio solo se ci fu violenza fisica equivale a statuire che la vittima ha l’onere di opporre resistenza fisica, sotto pena di decadere dal rimedio. Può essere una soluzione appagante in uno Stato fragile, che non può garantire l’ordine e demanda all’autotutela la conservazione della pace sociale; non è una soluzione pensabile in un ordinamento moderno. Il detentore o il possessore mobiliare non possono essere penalizzati perché hanno preferito cercarsi un avvocato piuttosto che adoperare il bastone. La giurisprudenza ha assimilato allo spoglio violento lo spoglio semplice. In questo modo, il detentore beneficia della repressione dello spoglio semplice. Il detentore, ridotto dalla legge ad una protezione marginale, viene avvicinato dalla giurisprudenza alla posizione del possessore. La violenza morale è equiparata a quella fisica (228); si precisa che sono sufficienti a integrare il requisito della violenza “anche atti di costringimento morale diretti contro la volontà espressa o presunta del possessore al fine di sottrarre al medesimo il possesso o impedirgliene l’esercizio” (229). Ritraducendo questa affermazione nel linguaggio della giurisprudenza, diremo che lo (228) (229) Cass. 24 aprile 1959, n. 1227. Cass. 29 giugno 1985, n. 3896. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 450 IL POSSESSO III, 6.6.5. spoglio si considera contrario alla volontà della vittima anche là dove la volontà della vittima sussistesse, ma fosse prodotta da minaccia o altro elemento che ne distruggesse il valore. La giurisprudenza, però, precisa che la frode non elimina il consenso, ancorché viziato (230); chi perciò consente perché ingannato ha altri rimedi, ma non può lamentare lo spoglio. Quanto al requisito della clandestinità, bisogna innanzitutto segnalare che esso svolge un ruolo diverso da quello a cui lo destinava la lettera del codice. Se qualunque spoglio è violento, il carattere clandestino della lesione diventa un elemento superfluo e irrilevante ai fini della possibilità per l’attore di reagire allo spoglio. Lo spoglio avvenuto all’insaputa della vittima (e dunque senza il suo consenso) è sempre, secondo la giurisprudenza, uno spoglio violento (231). La discussione sulla clandestinità si fa invece in relazione al decorso del termine di cui all’art. 1168, 1° e 3° comma: in caso di spoglio, l’azione deve essere proposta entro un anno dal fatto; ma, se lo spoglio è clandestino, il termine decorre dal giorno della scoperta. Secondo la giurisprudenza, si ha clandestinità non quando il possessore ha ignorato lo spoglio, ma quando “egli, usando l’ordinaria diligenza e avuto riguardo alle concrete circostanze in cui lo spossessamento si è verificato ed è stato mantenuto, si sia trovato nella impossibilità di averne conoscenza” (232). Di conseguenza, “il termine per l’esercizio dell’azione possessoria, in caso di espoliazione o di turbativa clandestina, non decorre dall’effettiva scoperta del fatto lesivo, ma dal giorno in cui lo stesso avrebbe potuto essere scoperto usando la normale diligenza dell’uomo medio” (233). Dietro la severità dei giudici, che impongono allo spogliato un onere di diligenza nell’accertare le offese arrecate ai proprii beni, si intravvede una lotta del giudice contro i tentativi, (230) Cass. 18 marzo 1975, n. 1048. (231) Significativa in questo senso è Cass. 29 gennaio 1993, n. 1131: “posto che lo spoglio si considera violento quando avviene contro la volontà del soggetto passivo, si presume esservi violenza anche nella semplice inconsapevolezza da parte di quest’ultimo dell’azione perpetrata dall’autore dello spoglio”. (232) In questi termini, Cass. 11 novembre 1986, n. 6589; Cass. 13 settembre 1991, n. 9585; Cass. 4 febbraio 1998, n. 1131. (233) Così Cass. 25 febbraio 1989, n. 1044; Cass. 13 settembre 1991, n. 9585. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.6. IL POSSESSO 451 pretestuosamente intrapresi dall’attore neghittoso, per rimettersi in termini dopo aver lasciato decorrere il termine legale per la proposizione dell’azione. Come spesso accade, essendo difficile la prova positiva della conoscenza, si equipara alla conoscenza la ignoranza dovuta a colpa grave. Significative sono quelle decisioni che respingono i tentativi di qualificare come clandestino lo spoglio sulla base della mera lontananza fisica del possessore (risiedente in altra città o altro Stato), attribuendo rilevanza alla presenza di “persone che in qualsiasi modo rappresentino il possessore” (234) (conduttori, custodi, congiunti incaricati di sorvegliare il bene), e che verosimilmente lo hanno informato dell’avvenuto spoglio (235). 6.6.6. L’elemento psicologico dello spoglio e della molestia. Per lungo tempo la giurisprudenza ha ripetuto che lo spoglio deve constare non solo del comportamento materiale, ma anche di un requisito psicologico, battezzato animus spoliandi, definito come la consapevole volontà di sovvertire la situazione possessoria, contro la volontà espressa o presunta del possessore (236). In modo analogo, la giurisprudenza ha a lungo richiesto, per la configurabilità delle molestie, l’animus turbandi, definito come la coscienza e volontà di compiere un atto che implichi l’alterazione dell’altrui possesso, contro il divieto espresso o anche solo presunto del possessore (237). Il requisito in esame non è menzionato dalla legge, ed è da tempo contestato vigorosamente da una parte importante della dottrina (238). (234) Cass. 4 febbraio 1998, n. 1131. (235) Cfr. Cass. 13 settembre 1991, n. 9585; Cass. 4 febbraio 1998, n. 1131. (236) Le sentenze sono troppo numerose per citarle. A mero titolo di esempio, cfr. Cass. 18 luglio 1985, n. 4226; Cass. 26 novembre 1986, n. 6978. (237) Cfr., ad esempio, Cass. 16 marzo 1984, n. 1800; Cass. 14 febbraio 1987, n. 1620. (238) Fra i primi e più vivaci oppositori della necessità dell’animus spoliandi, si possono ricordare G. DEJANA, Un requisito non richiesto per lo spoglio: l’animus spoliandi, in Giur. compl. Cass. Civ., 1946, I, 159, e C. A. FUNAIOLI, A proposito di animus spoliandi e natura giuridica dello spoglio, in Foro civ., 1949, 34. L’opinione contraria alla necessità dell’animus spoliandi è molto © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 452 IL POSSESSO III, 6.6.6. Bisogna aggiungere che la giurisprudenza ripete spesso che l’animus spoliandi è “insito” nel fatto di privare il possessore della cosa contro la sua volontà (239); e, di conseguenza, che l’animus spoliandi (o turbandi) si presume, una volta accertata la lesione del possesso (240). Ciò ha creato in qualche osservatore l’impressione che la giurisprudenza, che ha inventato il requisito dell’intento, finisca in pratica per vanificarlo, ricomprendendolo negli altri costituenti della lesione. La Corte di Cassazione, nel 1994, con una decisione presa a sezioni unite, ha dato l’impressione di recepire le critiche proposte dalla dottrina contro il proprio precedente orientamento. La Corte ha condannato la dottrina dell’animus; innanzitutto, le disposizioni del codice “prescindono del tutto dal c.d. animus non conferendo ad esso alcuna rilevanza”; in secondo luogo, la stessa giurisprudenza che considera l’animus elemento essenziale dello spoglio e della turbativa “finisce col vanificarlo perché, pur affermando che per esso si richiede la consapevolezza del possesso altrui e della contraria volontà dello spogliato o del molestato, lo riduce poi a una semplice formula, affermando che sia insito (in re ipsa) nella materiale privazione o turbativa del godimento della cosa”. La Corte ha ribadito tuttavia la necessità di un requisito psicologico, da ravvisarsi “nel dolo o nella colpa” (241). Dal 1994 coesistono due indirizzi giurisprudenziali almeno nominalmente contrapposti. Alcuni giudicati si sono adeguati all’indirizzo espresso dalla sentenza del 1994 (242), ma molte decisioni sono rimaste fedeli alla tradizione, parlando di animus spoliandi o turbandi (243). La differenza concreta tra le due nozioni, del resto, non è stata chiarita (244). diffusa in dottrina. Cfr., ad esempio, MASI, Il possesso, cit., p. 464; SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., p. 303 ss.; BIANCA, Diritto civile, cit., p. 842. (239) Cfr., a mero titolo di esempio, Cass. 15 aprile 1982, n. 2281. (240) Cfr., a mero titolo di esempio, Cass. 27 maggio 1987, n. 4729. (241) Cass. S.U. 22 novembre 1994, n. 9871. (242) Cass. 28 maggio 1999, n. 5200; Cass. 1 dicembre 2000, n. 15381. (243) Cfr., ad esempio, Cass. 13 febbraio 1999, n. 1204; Cass. 22 giugno 2000, n. 8489; Cass. civ. 23 febbraio 2001, n. 2667. (244) Qualche decisione sembra considerare l’animus come un requisito ulteriore, e più stringente, rispetto al dolo o alla colpa. Così, ad esempio, Cass. 1 dicembre 2000, n. 15381 © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.6. IL POSSESSO 453 Spostandosi sul piano dei risultati concreti a cui conduce la regola giurisprudenziale dell’animo, si devono analizzare quelle sentenze che in circostanze particolari hanno respinto la domanda di reintegrazione o di manutenzione per difetto di animo. Questa giurisprudenza sembra assegnare all’intento una funzione discriminante. In realtà, non sempre è così. Nell’ambito in cui opera questa giurisprudenza, il difetto dell’animo va spesso di pari passo con il difetto di un elemento oggettivo della fattispecie. Spesso si afferma che esclude l’animus il consenso dello spogliato (che fa venir meno lo stesso elemento oggettivo dello spoglio) (245). Qualche volta la mancanza dell’elemento soggettivo maschera la presenza di una esimente tipica: così quando si dice che manca l’animus nel comportamento di chi agisca in adempimento d’un obbligo giuridico discendente da un provvedimento autoritativo (246). In un caso si è escluso l’animus spoliandi “trattandosi di un bene incolto, senza alcun segno del possesso di altri, che veniva preso in consegna in forza di un contratto di affitto stipulato con la p. a., e mediante operazioni di recinzione effettuate, con l’intervento di funzionari statali, senza alcuna immediata protesta o contestazione di terzi” (247). In molti casi, dunque, il riferimento all’elemento psicologico appare superfluo, essendo possibile escludere già sul piano oggettivo la presenza dello spoglio o della molestia. Qualche volta invece la giurisprudenza sembra riconoscere una effettiva rilevanza all’elemento soggettivo. Così una massima ripetuta statuisce che l’esistenza dell’animus può essere esclusa respinge la tesi che “per l’esistenza dello spoglio o della turbativa del possesso richiede, oltre al dolo o alla colpa nella realizzazione della condotta costituente spoglio o turbativa, anche il cd. animus spoliandi o turbandi”, escludendo che il possessore debba “provare la consapevolezza dell’autore dell’aggressione di aver violata la norma posta a tutela del pieno e libero esercizio del possesso”. In tal modo si contrappone al dolo o colpa “nella realizzazione della condotta” l’animus come specifica consapevolezza della antigiuridicità della condotta stessa. (245) Cass. 18 luglio 1985, n. 4226; Cass. 10 aprile 1996 n. 3291; Cass. 30 dicembre 1997, n. 13101; Cass. 22 giugno 2000, n. 8486. (246) Cass. 7 febbraio 1981, n. 766. (247) Cass. 11 dicembre 1985, n. 6268. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 454 IL POSSESSO III, 6.6.6. quando il convenuto provi “il proprio ragionevole convincimento circa il consenso del possessore alla modifica od alla privazione del suo possesso” (248). In almeno un caso, la giurisprudenza ha escluso l’elemento soggettivo in presenza di un “errore scusabile” del convenuto, accusato di aver violato le norme sulle distanze tra edifici, per la “palese obiettiva difficoltà nel ricondurre alla previsione normativa, pur esaminata con la dovuta diligenza, il caso concreto” (249). Non è chiaro, insomma, fino a che punto la stessa giurisprudenza prenda sul serio il requisito dell’elemento psicologico. La massima giurisprudenziale che richiede l’animo, ovvero il dolo o la colpa, in ogni caso non è da approvare. L’evoluzione del diritto ha configurato il possesso come una forma cadetta di appartenenza, protetta per le stesse ragioni della proprietà, e contro ogni genere di ingerenza; in questo quadro si spiega l’abbandono della tradizione favorevole alla dequalificazione della lesione solo se violenta (250). Il possesso, come la proprietà, merita di essere protetto con rimedii che prescindono dall’origine delittuosa dell’ostacolo che si frappone all’esercizio del titolare. Se Tizio usurpa incolpevolmente un cappotto potrà sempre sottrarsi all’azione di reintegrazione restituendolo. La sua incolpevolezza potrà esimerlo dalla condanna a risarcire il danno, ma non dalla condanna a restituire prontamente il bene. (248) Cass. 7 agosto 1982, n. 4447; Cass. 30 dicembre 1997, n. 13101; Cass. 21 febbraio 2001, n. 2525. In realtà, le sentenze reperibili per esteso non testimoniano per l’effettiva rilevanza dell’elemento soggettivo. In Cass. 30 dicembre 1997, n. 13101 il convenuto aveva provato di aver effettivamente agito con il consenso del precedente possessore, che gli aveva consegnato le chiavi dell’immobile. Cass. 21 febbraio 2001, n. 2525, invece, condanna il convenuto, considerato “consapevole di aver sovvertito la situazione di compossesso contro la volontà del soggetto passivo e di non agire secondo diritto”. (249) Cass. 28 maggio 1999, n. 5200. Attenzione, però: la sentenza di merito aveva ritenuto che in ogni caso le norme locali invocate non fossero applicabili al manufatto costruito dal convenuto. La Cassazione, rilevata la “incerta e non diretta applicabilità al caso di specie delle norme locali in materia di distanze tra edifici”, condivideva la considerazione, “comunque aggiuntiva” secondo cui “anche tale situazione contribuisse ad escludere l’elemento soggettivo della molestia in esame”. L’impressione, cioè, è che l’esclusione dell’elemento soggettivo corrobori semplicemente una conclusione a cui si poteva giungere per altra via. (250) Vedi supra § 6.1.2 e 6.6.5. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.7. IL POSSESSO 6.6.7. 455 Le cause di giustificazione. Dobbiamo domandarci se le comuni cause di giustificazione, previste in materia di fatto illecito, possano essere invocate da chi è convenuto in un giudizio possessorio. La prima ipotesi che viene in considerazione è quella della legittima difesa, regolata dall’art. 2044 c.c. Qualche volta si è parlato di una legittima difesa che fa perdere il carattere di antigiuridicità dello spoglio se esercitata “con immediatezza”, onde non si potrebbe parlare di legittima difesa se lo spogliato “compia a sua volta uno spoglio completamente distinto” (251). Forse più propriamente, si è parlato, in simili contesti, di “difesa privata del proprio possesso, anche mediante contrapposizione della forza”, richiamando il principio “vim vi repellere licet” (252). In realtà, finché lo spoglio dell’attore è in corso, le iniziative del convenuto costituiscono atti di resistenza all’aggressione. Solo impropriamente si dice che il convenuto ha commesso uno spoglio giustificato dalla legittima difesa; in realtà non ha commesso alcuno spoglio, ma ha impedito il perfezionarsi dello spoglio dell’attore (e semmai invoca la legittima difesa per sottrarsi al pagamento degli eventuali danni arrecati mediante la sua attività di resistenza). È chiaro, invece, sulla base del frasario della giurisprudenza, che non può invocare la legittima difesa chi, avendo subito uno spoglio oramai perfetto, opera a sua volta un nuovo spoglio. Un problema diverso è se l’art. 2044 possa essere invocato per giustificare lo spoglio effettuato per la difesa di un bene diverso dal possesso della cosa appresa mediante lo spoglio. Se le azioni possessorie debbono vedersi come poste a garanzia di un regime cadetto di appartenenza, secondo la ricostruzione che si è proposta nelle scorse pagine (253), allora bisogna concludere che il regime di appartenenza non può essere (251) (252) (253) Cass. 8 novembre 1958, n. 3660. Cass. 29 gennaio 1973, n. 277. Vedi supra § 6.1.2. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 456 IL POSSESSO III, 6.6.7. scalfito dalle circostanze che giustificano le lesioni apportate al possesso. Tizio cattura, ferendolo, un cane mordace, che il vicino ha sguinzagliato per mettere a repentaglio la sua incolumità; il vicino, sfrontato, chiede i danni e la restituzione. Non c’è dubbio che Tizio potrà bloccare la domanda di danni; ma, quando l’episodio è archiviato, deve restituire il cane. Il discorso svolto in tema di legittima difesa è valido anche per lo stato di necessità. Le altre esimenti, bene sviluppate nel diritto penale, non ci aiutano a risolvere nessun problema nell’area che studiamo. L’adempimento del dovere pubblicistico di spossessare un soggetto è al centro del meccanismo dell’esecuzione forzata degli obblighi di consegna, di rilascio, oltre che delle procedure di pignoramento ai fini della subasta e di altre procedure di questo genere. Ma l’operato dell’ufficiale giudiziario che precetta e poi spossessa il debitore non appare come semplicemente coperto da una comune esimente; ed infatti qui la legge non solo non vuole reprimere la condotta dell’ufficiale giudiziario che procede all’esproprio, ma vuole precisamente far cessare, in un modo o nell’altro, il possesso dell’esecutato. Così la libertà di chi esercita un diritto non interferisce nel nostro tema assicurando all’agente una causa di giustificazione. In via normale, il proprietario non viene scusato se va a pigliarsi la cosa che altri possiede senza titolo (254). Le norme sul possesso sono tessere del sofisticato mosaico che indica i modi prefissati per esercitare e per difendere i diritti sui beni che ci appartengono. Il sopravvenire di una “causa di giustificazione” la quale operi, in modo generale, ovunque sia configurabile un “esercizio del diritto sul bene” sconvolgerebbe di colpo l’equilibrio voluto dal legislatore. L’aggressione dell’altrui sfera è talora lecita; ciò avviene quando il regime di appartenenza dei beni esige esso stesso lo spoglio o la turbativa, perché esige che il possesso del bene si (254) Vedi infra § 6.6.13. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.8. IL POSSESSO 457 trasferisca dal soggetto attuale all’agente o venga comunque modificato ad opera dell’agente. 6.6.8. Le legittimazione attiva alle azioni possessorie. L’azione di reintegrazione assicura una protezione minimale ad un’ampia cerchia di legittimati. L’azione è data a chi ha perduto al possesso, ma anche a chi aveva la semplice detenzione (purché non per ragioni di servizio o di ospitalità) ed è stato spogliato. L’azione di manutenzione assicura una protezione più estesa ad una cerchia, apparentemente elitaria, di titolari di situazioni possessorie qualificate. Essa è concessa al soggetto del potere di fatto corrispondente ad un diritto reale su immobili o su universalità di mobili, sempreché questo possesso sia stato acquistato in modo non violento né clandestino, e duri da oltre un anno continuo e non interrotto. Abbiamo già illustrato come la giurisprudenza, vanificando il requisito della violenza, estenda l’azione contro lo spoglio semplice a tutti i soggetti legittimati sulla base dell’art. 1168 c.c.; la nostra attenzione si sposta allora sulla possibilità di agire, attraverso l’azione di manutenzione, contro le turbative. In Germania, l’azione contro la turbativa (Störungsklage) è concessa a qualunque Besitzer, anche privo di animus domini (255). In Francia il legislatore nel 1975 ha attribuito la complainte anche al detentore (256). Anche in Italia, la lotta per l’estensione dell’azione di manutenzione al detentore è aperta. Il problema è aperto soprattutto per il conduttore. C’è, innanzitutto, chi inscrive il diritto del conduttore fra i diritti reali (257). Questa via non ha bisogno, per tutelare il conduttore, di ridiscutere l‘art. 1170 c.c.. (255) Vedi supra § 6.1.3. (256) Loi n. 75-569, del 9 luglio 1975. Sul punto cfr. A. GUARNERI, Una legge francese sulle azioni possessorie, in Rivista di diritto civile, 1980, I, 302. (257) In questo senso, cfr. C. LAZZARA, Il contratto di locazione (profili dommatici), Milano, 1961, pp. 109 ss.; M. COMPORTI, Contributo allo studio del diritto reale, Milano, 1997, pp. 327 ss. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 458 IL POSSESSO III, 6.6.8. C’è chi invece, per ottenere l’allargamento dell’art. 1170 al conduttore, ne invoca una interpretazione evolutiva (258). Altri autori hanno sostenuto la legittimazione del conduttore all’azione di manutenzione sulla base dell’art. 1585, 2° comma c.c., che consegna nelle mani del conduttore una parte delle ragioni che competono al locatore nei confronti dei terzi (259). In questa prospettiva, il conduttore, legittimato ai sensi dell’art. 1585 c.c., modella la sua condizione giuridica su quella del locatore suo dante causa: l’annalità, la continuità, la pubblicità del possesso saranno l’annalità, la continuità, la pubblicità del possesso del suo autore. Qualcuno sostiene poi l’estensione analogica dell’art. 1585 ad altre figure di detentori (260). L’estensione dell’azione contro le turbative al detentore, stabilita dal legislatore in altri ordinamenti e caldeggiata in Italia da parte importante della dottrina, risponde a ragioni serie. Se il detentore è molestato da un terzo, la soluzione più semplice è concedergli l’azione, non costringerlo a invocare l’intervento del possessore. In termini generali, “l’intelligenza giuridica media suggerisce che è più opportuno, soprattutto per il proprietario concedente, che l’affittuario si difenda da solo contro le aggressioni esterne” (261). La giurisprudenza italiana, peraltro, risponde pienamente a queste esigenze concedendo al conduttore un’azione, fondata sull’art. 1585, 2° comma c.c., diretta a far cessare le molestie dei terzi, azione che però non è qualificata come azione di manutenzione (262). D’altra parte, la Corte di Cassazione riconosce anche ai titolari di diritti personali di godimento (e in primo luogo ai (258) A. BELFIORE, Interpretazione e dommatica nella teoria dei diritti reali, Milano, 1979, specialmente pp. 30-74 e pp. 119-132. (259) Cfr. SACCO, Il possesso, la denuncia di nuova opera e di danno temuto, 1960, cit., p. 101; LIOTTA, voce Detenzione, in Enc. Giur., X, Roma, 1988, p. 6; GALGANO, Diritto civile, cit., p. 432. (260) LIOTTA, op. loc. ult. cit. (261) A. GAMBARO e R. SACCO, Sistemi Giuridici Comparati, in Trattato di Diritto Comparato diretto da R. SACCO, 2ª ed., Torino, 2002, p. 163. (262) Cfr. Cass. 14 ottobre 1987, n. 7609; Cass. 26 gennaio 1995, n. 939 (in entrambi i casi l’azione, rivolta contro terzi, era diretta a ottenere la potatura di siepi che disturbavano il godimento degli immobili; nel secondo caso la Corte rettificava esplicitamente il nomen iuris dell’azione, proposta come azione di manutenzione ex art. 1170 c.c.). Sul punto, cfr. A. CHIANALE e R. CATERINA, L’art. 1585 comma 2 c.c. e la tutela del conduttore, in Responsabilità civile e previdenza, 2000, 253. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.8. IL POSSESSO 459 conduttori) la possibilità di agire per ottenere la cessazione di immissioni intollerabili, sulla base dell’art. 1585 2° comma e di un’applicazione analogica dell’art. 844 c.c. (263). L’art. 1170 c.c. non tutela qualunque possesso, ma solo il possesso acquistato in modo non violento né clandestino. Si suol dire che l’acquisto è violento o clandestino se procurato mediante spoglio violento o clandestino. Come si è visto, l’aggettivo violento, posposto al sostantivo “spoglio” contenuto nell’art. 1168 c.c., si intende come non scritto (264). Trasponendo il modulo di lettura nell’art. 1170 c.c., avremmo che il possesso acquistato mediante spoglio non giova per ottenere protezione contro le turbative (perché qualunque spoglio è violento). Ma l’art. 1170 concede l’azione al soggetto il cui possesso è viziato, allorché sia “decorso un anno dal giorno in cui la violenza o la clandestinità è cessata”. Se noi riduciamo lo spoglio violento allo spoglio generico, quando potremo considerare cessata la violenza? Una ricostruzione razionale deve integrare i due requisiti dell’ultraannalità e della non viziosità. Anche prima del compimento dell’anno, il possessore “pulito” può agire in manutenzione, perché “unisce al proprio possesso quello del suo autore” (art. 1146 2° comma c.c.). Il possessore che non ha maturato l’anno è solo il possessore che ha acquistato da meno di un anno mediante spoglio. Il possessore vizioso e di fresca data è il possessore esposto all’azione di reintegrazione. La regola gli dice di non cercare la pagliuzza nell’occhio del vicino (che ascolta musica a un volume troppo alto), finché deve rendere conto del fatto di essersi impadronito dell’appartamento mediante una chiave fasulla. Il discorso corre per quanto riguarda la violenza. Fin dal momento dello spoglio la violenza è cessata; dopo un anno, il possessore è sottratto ad azioni possessorie recuperatorie, e può agire in manutenzione. (263) Cfr. Cass. 11 novembre 1992, n. 12133; Cass. 22 dicembre 1995, n. 13069. Sul tema, cfr. anche G. GABRIELLI, Sulla legittimazione a domandare la cessazione di immissioni, in Rivista di diritto civile, 1997, II, 627. (264) Vedi supra § 6.6.5. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 460 IL POSSESSO III, 6.6.8. Il discorso corre per quanto riguarda la clandestinità. La clandestinità ritarda il termine per la proposizione dell’azione di reintegrazione; allo stesso modo, ritarda il decorso dell’anno. La nozione di clandestinità dovrà pertanto essere letta in modo omogeneo negli articoli 1168 e 1170 (265). Il possesso deve durare da un anno. Questo requisito comporta che la protezione possessoria opera se la lesione interviene quando il possesso è diventato ultraannale; se la lesione avviene prima di questo momento, l’azione è respinta anche se proposta quando l’anno è maturato. Altrimenti, la regola dell’ultraannalità consisterebbe nell’imporre al possessore di fresca data di attendere il completamento dell’anno prima di agire, e ciò contro il principio per cui se si attribuisce a qualcuno un potere d’azione si deve spronarlo ad agire subito. Si ricollega alla regola dell’ultraannalità il requisito della continuità. Esso significa che il possesso deve protrarsi per un anno consecutivo; non implica invece che l’ingerenza del possessore debba essere qualificata da una assiduità speciale. 6.6.9. La legittimazione passiva alle azioni possessorie. A quali criterii il legislatore si ispira, disponendo chi possa essere convenuto in un’azione possessoria? Il legislatore ha davanti a sé due possibili criterii alternativi. In base al primo di essi, egli può concentrare la sua attenzione sul fatto che dà luogo alla lite, ossia sull’aggressione al possesso, che si perfeziona quando la vittima ha perduto il possesso o ha perduto le utilità che gli ha sottratte la turbativa. Questo evento storico è irreversibile, e la legittimazione passiva colpisce colui che, al momento della commissione del fatto, ne fu autore. Anche quando il processo si faccia a distanza di tempo, il soggetto da convenire in giudizio si individua con riferimento al fatto storico lesivo, da cui inizia tutta la sequenza; e questa individuazione è immutabile. Il criterio di cui parliamo è adottato nell’area della (265) Vedi supra § 6.6.5. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.9. IL POSSESSO 461 responsabilità aquiliana: l’autore del fatto illecito è legittimato passivo, e la legittimazione si fissa al momento del fatto. In base al secondo criterio, il giudizio è finalizzato a ripristinare la situazione che preesisteva alla lesione. Poco importa, sapere come la lesione è avvenuta. Importa invece domandarsi quale situazione sia di ostacolo al ripristino, a chi faccia capo questa situazione ostativa, quale sia il possesso antagonista a quello dell’attore. Il legittimato passivo all’azione sarà colui, la cui situazione deve essere sacrificata per ripristinare la situazione che preesisteva alla lesione. Solo al momento dell’inizio della lite si saprà chi debba essere convenuto. Il criterio in esame opera ad es. nella rivendicazione. Il legittimato passivo è colui che possiede (o detiene) al momento dell’inizio della lite, perché è suo il possesso che dev’essere travolto se si vuole ripristinare il godimento del bene da parte del proprietario. La concezione del giudizio possessorio come giudizio di responsabilità delittuale inciderà sulla legittimazione passiva, ch’essa riserverà all’autore della lesione. La concezione del giudizio possessorio come azione reale reipersecutoria inciderà sulla legittimazione passiva, ch’essa riserverà al soggetto la cui situazione possessoria sia di ostacolo al ripristino della situazione possessoria originaria della vittima. In particolare, venendo a parlare dell’azione di reintegrazione, se l’azione è regolata come le delittuali sarà convenuto l’autore dello spoglio violento o clandestino; se l’azione è regolata come le azioni reali, sarà convenuto colui che possiede al momento dell’instaurazione del giudizio. La prima soluzione è più coerente con la concezione che vede la tutela del possesso come strumentale alla tutela dell’ordine pubblico. La seconda soluzione è più coerente con la concezione del possesso come forma cadetta di appartenenza. Vediamo quale soluzione è data al problema nell’ordinamento italiano. L’art. 1168 c.c. dispone che l’azione va proposta contro “l’autore dello spoglio”. L’art. 1169 c.c. ammette l’azione di reintegrazione anche “contro chi è nel possesso in virtù di un © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 462 IL POSSESSO III, 6.6.9. acquisto a titolo particolare, fatto con la conoscenza dell’avvenuto spoglio”. La regola legislativa si intreccia con una regola giurisprudenziale che considera legittimato passivo non solo l’“autore materiale”, ma anche l’“autore morale” dello spoglio; è considerato autore morale sia il mandante, sia il soggetto che abbia successivamente approvato gli atti di spoglio, traendone profitto con il fare propri gli effetti della lesione possessoria nella consapevolezza dell’illiceità dell’atto (266). La giurisprudenza sembra prendere sul serio la necessità della consapevolezza dello spoglio commesso da altri. In un caso, i convenuti eccepivano il difetto di legittimazione passiva, in quanto lo spoglio era stato materialmente commesso dal dante causa, il quale aveva poi venduto loro il fondo. Il giudice del merito aveva ritenuto che, avendo approfittato dello spossessamento, i convenuti dovessero esserne considerati autori morali; la Cassazione ha censurato la sentenza di merito, affermando che “chi ha acquistato la proprietà del bene, con diritto alla consegna della cosa, commette spoglio non in qualunque caso in cui comunque ottenga dal suo dante causa l’adempimento, ma soltanto se sia cosciente che lo stesso suo dante causa per effettuare la consegna, abbia con violenza o clandestinità sottratto la cosa a chi la possedeva”, mentre nel caso di specie l’“indagine sull’animus” dei convenuti era stata pretermessa (267). L’ordinamento italiano, dunque, si discosta dalla soluzione che considera legittimato passivo solo l’autore della lesione, ma non arriva a considerare senz’altro legittimato passivo colui che possiede al momento dell’instaurazione del giudizio. Gli interpreti tendono a trattare in modo omogeneo il problema della legittimazione passiva in tema di reintegrazione ed in tema di manutenzione. Molto spesso le sentenze che equiparano all’autore materiale l’autore morale si riferiscono sia (266) Cfr., ad esempio, Cass. 23 febbraio 1981, n. 1101; Cass. 14 marzo 1987, n. 2656; Cass. 10 febbraio 1997, n. 1222; Cass. 8 giugno 2001, n. 7775. (267) Cass. 25 maggio 1993, n. 5873. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.10. IL POSSESSO 463 allo spoglio che alle molestie (268); ed in dottrina si è affermato che legittimato passivamente è non solo l’autore, materiale o morale, ma anche “il terzo acquirente a titolo particolare della cosa a mezzo della quale la molestia sia stata attuata, il quale sia consapevole della turbativa” (269). 6.6.10. Oggetto delle azioni possessorie. Le fonti che incontriamo in tema di spoglio confermano un primo dato elementare: avvenuto uno spoglio, l’ordinamento mette a disposizione del soggetto spogliato un provvedimento di reimmissione in possesso, al conseguimento del quale mirano l’azione di reintegrazione dell’art. 1168 e l’azione di manutenzione di cui all’art. 1170 3° comma. La soluzione appare semplice e piana finché il possesso fa capo all’autore dello spoglio o a un terzo consapevole, perché in tal caso la restituzione nel possesso costituisce un rimedio rivolto contro l’autore dello spoglio o il terzo, che sono parti nel giudizio. Le difficoltà cominciano a profilarsi quando la cosa sottratta ha cessato di esistere, quando la cosa sottratta è nelle mani di un soggetto diverso dall’autore dello spoglio, quando l’attività di spoglio (di una servitù) si è concretata in una costruzione o in una distruzione. Quando l’autore dello spoglio ha “totalmente distrutto o disperso” la cosa sottratta al possessore, la giurisprudenza ritiene che, difettando il presupposto della possibilità del ripristino della precedente situazione possessoria, l’azione di reintegrazione del possesso sia “preclusa” (270) (salvo il diritto della vittima di chiedere il risarcimento del danno). “Nell’azione di reintegrazione lo scopo della tutela possessoria è quello di ripristinare lo stato di fatto preesistente e di restituire il possessore, che ha sofferto lo spoglio, nel possesso della cosa; ne consegue che (268) 11916. (269) (270) Cfr. (sia pure in obiter) Cass. 4 aprile 1987, n. 3272; Cass. 11 settembre 2000, n. MASI, Il possesso, cit., p. 477. Cfr., fra le ultime, Cass. 15 giugno 1982, n. 3635; Cass. 4 novembre 1993, n. 10939. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 464 IL POSSESSO III, 6.6.10. quando quest’ultima sia venuta a mancare del tutto, l’azione di reintegrazione non può essere proposta per l’inesistenza del suo oggetto (senza che possa rilevare la possibilità della ricostruzione dello stesso)” (271). In applicazione di questo principio, la Corte di Cassazione ha cassato la decisione di un giudice di merito che aveva disposto la ricostruzione di un muro distrutto (272). La stessa regola opera quando la cosa, senza essere distrutta, abbia subito modificazioni tali da renderla non più idonea alla originaria destinazione, alla quale si intende recuperarla. Così si è ritenuto che “il completo riempimento di una fossa per l’irrigazione ed il correlativo spianamento del suolo, in modo da rendere impossibile l’individuazione della sua ubicazione” ne determina “la cessazione dell’esistenza in rerum natura, e quindi ne impedisce la reintegrazione a termini dell’art. 1168 c.c.”; la Corte ha escluso anche di poter ordinare la ricostruzione della res, “perché sarebbe posto in essere un quid novi, e non si otterrebbe la restituzione della medesima res, cui tende l’azione di spoglio” (273). In modo ancor più sorprendente, la Corte di Cassazione ha ritenuto impossibile la reintegrazione, e quindi improcedibile l’azione, in un caso in cui il convenuto aveva ostruito l’accesso a una nicchia mortuaria rinchiudendola in una cappella di nuova costruzione (274). L’azione di reintegrazione non è invece preclusa in caso di mera modificazione reversibile della cosa. Così la Corte di Cassazione ha confermato una sentenza di merito che aveva condannato il convenuto a ripristinare nello stato precedente un marciapiedi parzialmente distrutto durante lavori di ristrutturazione (275), affermando peraltro, in modo poco coerente con altre precedenti decisioni, che le innovazioni relative a beni immobili sarebbero di per sé sempre suscettibili di rimessione in pristino. Leggendo la giurisprudenza, non è sempre facile capire in (271) Cass. 28 febbraio 1985, n. 1745. (272) Cass. 9 febbraio 1982, n. 776. Nello stesso senso, vedi già Cass. 13 luglio 1963, n. 1900, in Foro it., 1963, I, 1, 2134. (273) Cass. 29 maggio 1978, n. 2701. (274) Cass. 23 aprile 1969, n. 1316, in Giur. It., 1970, I, 1, 1247. (275) Cass. 3 luglio 1996, n. 6057. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.10. IL POSSESSO 465 base a quali criteri essa distingue le modificazioni reversibili dalle alterazioni che rendono impossibile la reintegrazione. Il che sembra abbastanza naturale, considerando che l’importanza della alterazione dipende dalla lente con cui la si guarda: la demolizione di un muretto è distruzione totale del muretto medesimo, e lieve alterazione della casa di cui fa parte. Sembrerebbe invece pacifico che quando lo spoglio o la molestia si concretino nella costruzione di un manufatto il possessore possa chiederne la demolizione (276); tuttavia, la richiesta di demolizione costituisce domanda autonoma, che non può ritenersi implicita nella domanda di reintegrazione, ed è subordinata alle condizioni previste dall’art. 936 c.c. (277). Il quadro degli orientamenti giurisprudenziali apre qualche interrogativo. Innanzitutto, balza agli occhi la differenza di trattamento tra la costruzione lesiva, che dà luogo alla demolizione, e l’abbattimento lesivo del bene posseduto, che non dà luogo alla condanna alla refezione. La distinzione può lasciare spazio a casi dubbi (perché nella alterazione della cosa, come nel ripristino, possono intrecciarsi demolizioni e ricostruzioni), e non sempre la giurisprudenza la applica in modo coerente. In secondo luogo, l’affermazione che difetta ”il presupposto della possibilità di una reintegrazione della precedente situazione possessoria” (278) appare ovvia in alcune circostanze (il convenuto distrugge un’antica stampa giapponese; il convenuto uccide un cane da esposizione); è meno ovvia quando si tratta di scavare fosse o ricostruire muri. Il nostro tema si intreccia con quello della legittimazione del possessore ad invocare l’art. 2058. In un’occasione la Suprema Corte ha statuito (coerentemente con gli orientamenti appena esposti) che “contro l’autore di spoglio, che abbia distrutto la cosa, l’azione di reintegrazione in forma specifica, ai sensi e nei limiti di cui all’art. 2058 c.c., spetta soltanto al proprietario, non anche al possessore della cosa sottratta” (279). Tuttavia, in tempi (276) (277) (278) (279) Cass. Cass. Cass. Cass. 5 dicembre 1987, n. 9031; Cass. 7 agosto 1990, n. 7978. 5 dicembre 1987, n. 9031. 4 novembre 1993, n. 10939. 15 giugno 1982, n. 3635. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 466 IL POSSESSO III, 6.6.10. più recenti la stessa Cassazione ha affermato, in termini generali, che “la restituzione in pristino (…) non incontra, per essere pronunciata, il limite reale del danneggiato e quindi non può essere condizionata dal previo accertamento della titolarità, da parte del danneggiato, di un diritto di tale contenuto” (280); alla luce di questa posizione, sembrerebbe aperta, al possessore che vuole il ripristino della situazione di fatto antecedente allo spoglio, la possibilità di invocare l’art. 2058 c.c. (purché, ovviamente, il ripristino non sia materialmente impossibile) (281). A questo punto, per mantenere una qualche coerenza con l’orientamento che non ammette l’azione di reintegrazione quando la cosa è distrutta, si potrebbe applicare il 2° comma dell’articolo, escludendo la reintegrazione in forma specifica quando essa risulti eccessivamente onerosa. Non sarebbe dunque applicabile, in tema di possesso, la doctrine, talvolta enunciata dalla Corte di Cassazione (ma ancora da esplorare nelle sue effettive implicazioni), secondo cui il 2° comma dell’art. 2058 non è applicabile alle azioni di tutela di un diritto reale (282). Si potrebbe allora immaginare, ricomponendo ad unità i vari orientamenti giurisprudenziali, una regola così costruita: fuori dai casi di impossibilità materiale del ripristino della situazione di fatto, il possessore ha diritto al ripristino, ma solo se non è eccessivamente oneroso. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha affermato che, fuori dai casi di assoluta impossibilità di conseguire la restitutio in integrum, è inapplicabile alle azioni possessorie il capoverso dell’art. 2058 c.c. (283). La giurisprudenza, insomma, più che applicare un criterio fondato sul calcolo costi-benefici, sembra inseguire una incerta distinzione ontologica tra modificazioni reversibili (che aprono la strada al ripristino, per quanto costoso) e distruzione o (280) Cass. 16 marzo 1988, n. 2472. (281) P.G. MONATERI, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile diretto da R. SACCO, Torino, 1998, p. 325, considera “completamente superata” dai più recenti orientamenti della Suprema Corte l’opinione espressa in Cass. 15 giugno 1982, n. 3635. (282) Cfr. Cass. 4 novembre 1993, n. 10932; Cass. 29 maggio 1995, n. 6035. (283) Cass. 28 aprile 1985, n. 2935. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.10. IL POSSESSO 467 alterazione radicale della cosa (che forse preclude addirittura al possessore la possibilità di invocare l’art. 2058 c.c.). Un ulteriore difetto di coerenza nella giurisprudenza emerge quando si confronta l’orientamento appena descritto con la regola enunciata nei casi in cui l’azione è proposta contro l’autore dello spoglio non più possessore della cosa. Secondo la giurisprudenza, il fatto di avere il convenuto dismesso ogni rapporto materiale con la cosa e di non essere, quindi, in grado di dare esecuzione all’obbligo di reintegrazione del possessore spogliato non esclude la sua legittimazione passiva, conservando pur sempre la sentenza di condanna una sua utilità, quanto meno al fine accessorio di legittimare una richiesta di risarcimento dei danni nei suoi confronti (284). Perfino la restituzione intervenuta, per iniziativa spontanea dell’agente, prima che il giudice gliene abbia fatto ordine non elimina, secondo la giurisprudenza, l’interesse del soggetto passivo ad ottenere una sentenza che esamini la fondatezza, nel merito, dell’azione possessoria (e su cui l’attore potrà basare un eventuale separato giudizio di danni) (285). A questo punto, però, sembra inconseguente che, distrutta la cosa, l’azione non sia proponibile, e invece lo sia quando la cosa è già stata riconsegnata al possessore leso. L’atteggiamento delle corti dovrebbe essere omogeneo nelle due situazioni. L’attore in manutenzione chiede, spesso, la cessazione, per il futuro, delle ingerenze del convenuto. Qualche volta, chiede una pronuncia puramente dichiarativa, di accertamento del suo possesso (così quando lamenti molestie “di diritto”). Come si è anticipato, quando la molestia ha lasciato tracce od opere lesive, l’attore può chiedere la riduzione in pristino delle cose e dei luoghi. (284) (285) Cass. 7 aprile 1987, n. 3356; Cass. 5 giugno 1990, n. 5389. Cass. 13 febbraio 1987, n. 1578. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 468 IL POSSESSO 6.6.11. III, 6.6.11. Termine per la proposizione delle domande. Le azioni possessorie possono essere intentate entro l’anno dalla lesione (art. 1168, 1° comma; art. 1170, 1° comma, c.c.). Ai fini della tempestività dell’azione possessoria si fa riferimento al giorno del deposito in cancelleria del ricorso (286). Se la lesione consiste in uno spoglio clandestino, il termine dell’anno decorre dalla scoperta dello spoglio (art. 1168, 3° comma); sembra ragionevole che la medesima regola valga per ogni ipotesi di lesione clandestina del possesso (compresa la molestia o l’opera nuova), dato che la ragione del 3° comma cit. potrebbe risiedere non già nel fatto che la clandestinità dequalifica lo spoglio, ma nella circostanza che essa impedisce al soggetto una tempestiva reazione (287). Con grande frequenza la pratica deve decidere se, compiuti più atti lesivi del possesso, distanziati nel tempo, l’anno decorra dal primo o dall’ultimo di essi. La giurisprudenza ha elaborato una coppia di massime complementari che vengono formulate come segue: “l’anno utile per l’esperimento delle azioni possessorie nel caso di turbativa o di spoglio posti in essere con più atti decorre dal primo atto senza che si possa tener conto di quelli successivi solo quando questi siano legati tra loro da un nesso di inscindibile dipendenza, così da costituire, nel loro complesso, una unica molestia o un unico spoglio, ma non anche quando si tratti di atti autonomi ciascuno dei quali costituisca una turbativa o uno spoglio a sé stante, nel qual caso il termine annuale decorre dall’ultimo atto” (288). In tema di molestie, si è poi precisato che il termine decorre dall’inizio dalle molestie quando “i vari episodi (…) costituiscono nient’altro che elementi, nella loro essenza e modalità lesiva, del tutto analoghi” e quindi da valutare “meramente ripetitivi” della iniziale molestia turbatrice del possesso (sicché ad esempio si è negata tutela contro le immissioni di rumori provenienti da una (286) Cass. 4 novembre 1993, n. 10936. (287) Sulla clandestinità dello spoglio, vedi supra, § 6.6.5. (288) Così Cass. 15 luglio 1995, n. 7751; nello stesso senso, cfr. ad esempio Cass. 1 dicembre 1994, n. 10320; Cass. 23 marzo 1996, n. 2604. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.12. IL POSSESSO 469 pasticceria che esercitava da anni la sua attività con le stesse modalità e gli stessi rumori) (289). Dell’orientamento della giurisprudenza non si può che prendere atto; esso, tuttavia, può condurre ad applicazioni discutibili. Il termine non decorre da un atto, ma da un evento (perdita del possesso, molestia). Gli eventi da considerare sono di diversa natura. La perdita del possesso è un evento istantaneo; potrà essere reiterato, ma non è mai continuato. La molestia può estrinsecarsi tanto in un fatto istantaneo quanto in un fatto durevole, e può avere intensità varie. Il discorso sul termine non può essere il medesimo per i due tipi di eventi. Trattandosi di eventi istantanei, il primo di essi produce un effetto irreversibile, e gli atti susseguenti sono l’ovvio esercizio della nuova situazione possessoria creatasi, e non possono costituire lesioni nuove. Nel caso di reiterazioni, seguite da recuperi, ogni nuova lesione è un illecito a sé stante, e dà luogo al decorso di un termine del tutto nuovo. Trattandosi di eventi continuati o iterativi, la gravità della lesione è in funzione della intensità, della frequenza, ma anche della durata della lesione. Un fatto nuovo, aggiunto ai fatti precedenti, può essere la goccia che fa traboccare il vaso. Il termine annuale è pacificamente un termine di decadenza. La decadenza non è rilevabile d’ufficio (290), ed è anzi rinunciabile (291). 6.6.12. La domanda di risarcimento del danno. Una tradizione che risale al diritto romano ricollega alla lesione possessoria una ragione risarcitoria. Anche nell’ordinamento italiano, esiste un consenso pressoché generalizzato degli interpreti sul fatto che la lesione possessoria generi l’obbligo di risarcire il danno subito dalla vittima (292). Le opinioni si (289) (290) (291) (292) Cass. 23 marzo 1996, n. 2604. Cfr., ad esempio, Cass. 11 agosto 1997, n. 7481. Cfr. Cass. 8 luglio 1983, n. 4599 (in obiter). Cfr. ad esempio, C. TENELLA SILLANI, Il risarcimento del danno da lesione del possesso, © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 470 IL POSSESSO III, 6.6.12. diversificano invece sia sulle voci di danno concretamente risarcibili, che sull’inquadramento della responsabilità (che alcuni riconducono nella figura generale delineata dall’art. 2043, altri considerano implicitamente ricompresa nei rimedi possessori regolati dagli artt. 1168-1170 c.c.) (293). Senza pretendere di fornire una descrizione dei vari orientamenti, proviamo a delineare alcuni punti che sembrano ragionevoli e che rispecchiano, almeno in qualche misura, le scelte della giurisprudenza (la quale, peraltro, al di là della generica adesione all’idea della risarcibilità del danno, non si muove con perfetta coerenza). Giova partire da una sentenza elaborata con molta consapevolezza (294), che decide un caso in cui il convenuto ha estratto ghiaia da un fondo posseduto dall’attrice, ma, secondo il convenuto, appartenente al demanio dello Stato. La Suprema Corte si misura con la tesi, sostenuta in un remoto precedente dalla stessa Cassazione (295) e condivisa dal giudice del merito, secondo cui altro è il valore del possesso ed altro è quello del bene oggetto dello spoglio: chi ha subito la perdita del possesso non avrebbe, secondo questa tesi, diritto al controvalore del bene perduto, ma solo al danno relativo alla privazione del possesso sino alla pronunzia, dovendosi provvedere per il resto in sede petitoria, nella quale si deve stabilire a chi appartiene il diritto reale sulla cosa. La Cassazione distingue tra il caso in cui autore dello spoglio è lo stesso proprietario del bene e il caso in cui autore dello spoglio è un terzo, che non accampa alcun diritto sulla cosa. In questo secondo caso “non può avere ingresso la questione della proprietà”; una volta accertati gli estremi dell’illecito extracontrattuale, non ha nessuna rilevanza la deduzione secondo cui il bene posseduto dall’attore appartiene a un terzo: il convenuto è tenuto “a risarcire interamente il danno arrecato” al possessore, Milano, 1989; MONATERI, La responsabilità civile, cit., p. 545 ss. In giurisprudenza, cfr., da ultimo Cass. 23 febbraio 2006, n. 4003. (293) La divaricazione è studiata in modo analitico in TENELLA SILLANI, Il risarcimento, cit. (294) Cass. 12 maggio 1987, n. 4367. (295) Cass. 24 gennaio 1957, n. 225, in Giur. It., 1957, I, 1, 976. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.12. IL POSSESSO 471 e questo “dovrà, a sua volta rispondere nei confronti del Demanio o di altro eventuale soggetto che intendesse rivendicare la proprietà del terreno”. La sentenza ha il merito di chiarire un punto: quando autore dell’illecito è un terzo, che non accampa alcun diritto sulla cosa, il possessore ha sicuramente diritto a ottenere l’integrale risarcimento del danno, senza che ciò implichi un diritto del possessore al danno che la perdita del possesso ha causato nella sua sfera. In realtà, la questione della proprietà, come dice la Suprema Corte, semplicemente non ha ingresso; l’aggressore non può difendersi dicendo che un terzo è proprietario, e il giudice non ha bisogno di accertare questo dato. In materia di risarcimento del danno, il nostro ordinamento sembra adottare un sistema fondato sul titolo migliore: il possessore può domandare il cosiddetto risarcimento del danno (il valore della cosa e dei frutti) da chi ha distrutto o danneggiato la cosa, poi il proprietario può rivolgersi (in separato giudizio) al possessore per chiedergli il capitale da lui riscosso (oltre ai frutti, se il possessore è di mala fede). Ad un sistema siffatto vanno riconosciuti due grandi vantaggi. Da un canto, esso assicura al possessore non proprietario il conseguimento del valore della cosa, della quale egli è a sua volta responsabile nei confronti del vero proprietario; e consente poi al proprietario di rivolgersi direttamente contro di lui, anziché contro lo spogliatore, che il proprietario non conosce. In secondo luogo, esso non richiede al possessore di discutere del suo titolo di proprietà contro un autore dell’illecito a sua volta estraneo a qualsiasi controversia sulla proprietà. Ciò si inscrive perfettamente nella ricostruzione che si è proposta nelle prime pagine del fondamento della protezione del possesso (296). Quando il proprietario è assente, il possessore, messo in condizioni di difendere il proprio interesse contro i potenziali danneggianti o usurpatori, finisce per difendere gli interessi del proprietario, ma anche l’interesse più generale della società a prevenire lo spreco e la distruzione delle risorse. (296) Vedi supra § 6.1.2. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 472 IL POSSESSO III, 6.6.12. Più incerto è il problema della tutela risarcitoria del possessore quando l’autore dello illecito è il proprietario della cosa. La giurisprudenza, aperta in linea di principio a concedere un risarcimento al possessore, appare piuttosto incerta al momento della concreta quantificazione del danno risarcibile; talvolta si fa riferimento ai danni subiti per il perduto godimento del bene. In un caso risalente (297), la Corte di Cassazione ha affermato, che, “come la reintegrazione deve essere ordinata indipendentemente dalla sussistenza dello ius possidendi”, del pari, anche ove lo spogliatore sia proprietario, “devono essere restituiti i danni che siano dello spoglio conseguenza diretta ed immediata”, dal momento che il risarcimento è sostitutivo della reintegrazione per il periodo per il quale la privazione del possesso è durata, ed anzi “la reintegrazione non sarebbe completa se, relativamente all’intervallo di tempo interceduto tra lo spoglio ed il recupero del bene, non fosse in sede possessoria riconosciuto il diritto di chi ha subito lo spoglio al risarcimento dei danni inerenti alla perdita di quelle utilità che, per effetto dello spossessamento, non potè conseguire”. Lo spogliato, però, “non può chiedere se non il risarcimento di quel pregiudizio economico che si rimanda alla perdita del possesso ed al protrarsi di tale privazione; pregiudizio che, ovviamente, è diverso da quello derivante dalla definitiva perdita della cosa o del suo valore, e che può essere fatto valere come titolo di risarcimento solo in via petitoria e a condizione che lo spogliato dimostri, in quella sede, di essere titolare del diritto di proprietà”. La logica sottesa alla decisione citata si potrebbe riformulare così. Il nostro ordinamento ha deciso di tener fuori le questioni inerenti alla proprietà dal giudizio possessorio; allo stesso modo, il giudice, constatato uno spoglio, deve disinteressarsi della proprietà, e concedere allo spogliato i danni temporanei, dovuti al mancato godimento del bene. In altra sede si accerterà chi è proprietario del bene, ed eventualmente, se lo spogliato è proprietario, potrà chiedere il valore della cosa. Un simile orientamento deve essere integrato con due preci(297) Cass. 24 gennaio 1957, n. 225, in Giur. It., 1957, I, 1, 976. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.13. IL POSSESSO 473 sazioni. Innanzitutto, se lo spogliatore è proprietario, egli (quantomeno se il possessore è di mala fede) si vedrà in pratica restituire la stessa somma che ha dovuto pagare. Il possessore ottiene i danni dovuti al mancato godimento del bene nel periodo compreso fra lo spoglio e la restituzione. Questo godimento è tutt’uno con l’acquisto dei frutti, il quale a sua volta è consentito soltanto al proprietario e al possessore di buona fede. Ai fini dell’allocazione dei frutti — e dei benefici dipendenti dal godimento temporaneo del bene — il possessore di buona fede è trattato come un proprietario; ma il possessore di mala fede non ha titolo alcuno, e deve restituire i frutti, e pagare il valore del godimento del bene di cui abbia usato personalmente. In secondo luogo, come vedremo nel prossimo paragrafo, oggi il nostro ordinamento sembre consentire, in certi limiti, allo spogliatore di far valere le proprie ragioni petitorie in sede possessoria; l’ordinamento non proibisce sempre e incondizionatamente la ragion fattasi al proprietario, e non concede al possessore rimedi senza limiti contro la ragion fattasi del proprietario. Di ciò si dovrebbe tener conto anche in tema di risarcimento del danno. 6.6.13. Il divieto di cumulo del possessorio e petitorio. Il cardine dei rapporti intercorrenti tra giudizio possessorio e giudizio petitorio è contenuto negli artt. 704 e 705 c.p.c. L’art. 704 riserva al giudice del petitorio ogni domanda che reagisca a lesioni del possesso maturate nel corso dello stesso giudizio petitorio. L’art. 705 nella sua formulazione originaria vietava a chi fosse convenuto in giudizio possessorio di intentare giudizio petitorio prima che il giudizio possessorio fosse definito, e, per quanto dipende da lui, eseguito. Poiché la contemporanea trattazione del giudizio petitorio e possessorio suole chiamarsi “cumulo”, si dice che l’art. 705 enuncia il “divieto di cumulo del possessorio e petitorio”. Divieto di cumulo significa divieto di trattare il petitorio prima che sia definito il possessorio, e divieto di trattare in unico giudizio le ragioni possessorie e petitorie. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 474 IL POSSESSO III, 6.6.13. A questo punto è utile una precisazione. La lettera dell’art. 705 c.p.c. vieta al convenuto di proporre il giudizio petitorio, non proibisce di proporre difese fondate sulla situazione extrapossessoria. Ma un’interpretazione pacifica, fondandosi vuoi sull’art. 705, vuoi sul comma 4° dell’art. 1168 c.c. (che ordina al giudice di ordinare la reintegrazione “sulla semplice notorietà del fatto”), vuoi sui principi generali del sistema, ha sempre vietato altresì al convenuto di proporre un’eccezione petitoria, ossia di difendersi chiedendo che si rilevi incidentalmente che lo spoglio o la molestia era lecita perché proveniva da un avente diritto. In altre parole, gli interpreti hanno ricavato dalla preclusione della proposizione della domanda petitoria il divieto dell’invocazione del diritto come causa di giustificazione della lesione possessoria. La giurisprudenza applica con fedeltà la regola della improponibilità della eccezione. Secondo una massima consolidata, “l’eccezione feci sed iure feci, sollevata dal convenuto nel giudizio possessorio di reintegrazione, consente una valutazione del titolo posto a sostegno di detta eccezione al limitato fine di acquisire elementi di prova in ordine alla esistenza ed estensione del possesso che il convenuto opponga di avere sulla cosa per escludere o limitare quello ex adverso vantato, mentre è preclusa ogni indagine sull’eventuale ius possidendi del convenuto medesimo in considerazione del divieto di cumulo del giudizio petitorio con quello possessorio, stabilito dall’art. 705 c.p.c.” (298). La difesa feci sed iure feci è cioè sicuramente accoglibile se significa “ho operato in modo conforme alla mia situazione possessoria”, se cioè il convenuto vuole far valere la sua situazione possessoria; il convenuto non può invece far valere la situazione petitoria, che determina la sua pretesa al possesso. Il divieto del cumulo è tradizionale (299), ed è sentito dagli (298) Cfr., fra le tante, Cass. 5 dicembre 1988, n. 6583; Cass. 24 gennaio 1984, n. 580. (299) La parola tradizionale deve intendersi in senso relativo. In Italia il diritto comune, dai glossatori in poi, ammetteva la difesa petitoria nel giudizio possessorio se di immediata soluzione, e questa regola permane nel diritto svizzero. Il divieto generale di cumulo è proprio invece della regola canonistica in tema di actio spolii. Dall’actio spolii essa si è diffusa nel diritto francese; di qui, esso è penetrato nel diritto piemontese e poi italiano. La regola canonistica-francese non è universalmente diffusa. In Germania la legge non è © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.13. IL POSSESSO 475 interpreti come qualcosa di ovvio, anche in assenza di una esplicita enunciazione legale. Il divieto di cumulo non opera se il giudizio petitorio non è proposto per secondo, e non è proposto da chi è convenuto nel giudizio possessorio. Il divieto di cumulo del giudizio petitorio con il giudizio possessorio opera pertanto nei soli confronti del convenuto, e l’art. 705 c.p.c. non è ostativo alla proposizione, da parte dell’attore in possessorio, della separata azione petitoria (300). All’inizio del 1992, la Corte costituzionale ha ravvisato l’incompatibilità dell’art. 705 c.p.c. con gli artt. 3 e 24 della Costituzione (301). La Corte costituzionale ha osservato che il giudizio possessorio è organizzato dalla legge come procedimento speciale, con una prima fase di tipo interdittale improntata alle forme del processo cautelare. La cognizione sommaria del giudice è giustificata dall’urgenza di intervento del braccio della legge per ripristinare uno stato di cose alterato dal comportamento arbitrario del terzo, ma è costruita in modo da arrecare al convenuto, che sia titolare di un diritto sulla cosa, un sacrificio transeunte e reversibile, cui porrà riparo il successivo giudizio petitorio. Secondo la Corte, “con questa concezione non è coerente — e perciò contrasta col principio di razionalità di cui all’art. 3 Cost. — l’assolutezza del divieto di invocare il proprio diritto che l’art. 705 impone al convenuto, impedendogli non solo la proposizione di eccezioni ex iure proprio nello stesso processo possessorio, ma anche, fino a quando il processo non sarà conchiuso e la decisione eseguita, la proposizione di un separato giudizio petitorio davanti al giudice competente”. L’autonomia della tutela possessoria deve chiara; la dottrina è divisa (la sua maggioranza consente che la ragione petitoria escluda la sussistenza della lesione possessoria); la giurisprudenza dà corso senza riserve all’eccezione fondata sul petitorio e al cumulo dei due contemporanei rimedii. Si trovano maggiori notizie in G. A BECCARA, La Corte costituzionale ridimensiona la portata del cosiddetto “divieto del cumulo” tra possessorio e petitorio, in Quadrimestre, 1993, 594, pp. 614 ss. (300) Cfr., ad esempio, Cass. civ. 13 maggio 1998, n. 4810; Cass. civ. 22 maggio 1998, n. 5110. (301) Corte cost., 3 febbraio 1992, n. 25, in Foro it., 1992, I, 616, nota di A. PROTO PISANI; in Giur. It., 1992, I, 1, 1634, nota di A. CHIANALE; in Riv. Dir. Proc., 1992, 1184, nota di P. POTOTSCHNIG; Le nuove leggi civ. comm., 1992, 790, nota di G. CIAN. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 476 IL POSSESSO III, 6.6.13. essere bilanciata dalla condizione che il pregiudizio arrecato al convenuto possa essere riparato mediante un altro giudizio. La Corte ha fatto due esempi. “Quando si tratta di cose mobili non registrate, un pregiudizio definitivo e irrimediabile incombe soprattutto (…) quando lo spogliato risulti essere un ladro, un ricettatore, un ritrovatore infedele o, come nella specie, un indiziato di truffa” che, rientrato in possesso della cosa, potrà alienarla a un terzo di buona fede. In materia immobiliare, l’esecuzione del provvedimento possessorio arreca un danno irreparabile quando lo spoglio si concreta nella costruzione di un manufatto; “in tal caso l’onere di eseguire la decisione prima di proporre il giudizio petitorio costringe il convenuto a distruggere un’opera che, come risulterà dal successivo giudizio petitorio, aveva diritto di costruire”. Secondo la Corte, nei casi di irreparabilità del danno inflitto all’avente diritto, l’esecuzione del provvedimento possessorio frustra il giudizio petitorio, e si rende così manifesta una violazione dell’art. 24 Cost., non essendo in tal caso possibile sostenere che la tutela possessoria non preclude la tutela giurisdizionale del diritto del convenuto, ma soltanto la differisce a un giudizio successivo. La sentenza della Corte ha dato l’avvio a più di una ricostruzione. Una prima lettura, che si appoggia senza dubbio ad alcuni passaggi del giudicato (302), suggerisce che la riforma operata dalla Corte legittimi chi è convenuto nel giudizio possessorio a intraprendere nella sede competente — quando sussista il pericolo di danno — il giudizio petitorio (preceduto dalle eventuali misure cautelari idonee a bloccare l’esecuzione dell’eventuale provvedimento possessorio). Secondo questa lettura, la Corte si è occupata del divieto di azione (espressamente formulato dall’art. 705 c.p.c.), e non del divieto di eccezione petitoria; essa ha (302) Lo stesso dispositivo della sentenza dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 705 c.p.c. “nella parte in cui subordina la proposizione del giudizio petitorio alla definizione della controversia possessoria”. L’impressione, tuttavia, è che alcuni commentatori si siano fatti influenzare in misura eccessiva dal mero tenore letterale di alcune affermazioni della Corte. Per una analisi puntuale, cfr. A. BECCARA, La Corte costituzionale, cit. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.13. IL POSSESSO 477 ammesso la proposizione di un autonomo giudizio petitorio, ma non la proposizione di una eccezione petitoria nell’ambito del giudizio possessorio (303). Una seconda lettura muove dal rischio di incentivare “guerriglie giudiziarie”, destinate a combattersi a colpi di provvedimenti tra loro in necessaria collisione; richiama il principio generalissimo del processo che tramite l’eccezione si può far valere tutto ciò che può costituire oggetto di una autonoma domanda; conclude che, nei limiti in cui la Corte ha sancito la caduta del divieto dell’art. 705 c.p.c., il convenuto ha piena libertà di tutelare le proprie ragioni di indole petitoria sia mediante proposizione di apposita domanda, sia in via di mera eccezione (e tale sarà prevedibilmente la via più frequente) (304). Un orientamento che pareva consolidato della Corte di Cassazione ammette che il convenuto in giudizio possessorio faccia valere il diritto che gli compete in via di eccezione. Secondo tale orientamento, il convenuto può opporre le sue ragioni petitorie quando dalla esecuzione della decisione sulla domanda possessoria potrebbe derivargli un danno irreparabile, purché l’eccezione sia finalizzata solo al rigetto della domanda possessoria (e non anche ad una pronuncia sul diritto con efficacia di giudicato) e non implichi, quindi, deroga delle ordinarie regole sulla competenza (305). Successivamente la Corte di Cassazione (curiosamente ignorando i suoi stessi precedenti) si è pronunciata in senso diverso, affermando che la pronuncia di illegittimità costituzionale ha infranto soltanto il divieto per il convenuto in possessorio di agire (303) Interpretano in questo modo P. POTOTSCHNIG, La Corte Costituzionale attenua il divieto di cumulo fra giudizio possessorio e petitorio, in Rivista di diritto processuale, 1992, 1184; G. CIAN, Eccezione ed azione petitoria, in Le nuove leggi civili commentate, 1992, 793. (304) In questo senso cfr. A. PROTO PISANI, La Corte Costituzionale fa leva sull’irreparabilità del pregiudizio per attenuare il divieto di cumulo del petitorio col possessorio, in Il foro italiano, 1992, I, 617; A BECCARA, La Corte costituzionale, cit.; S. CHIARLONI, Note minime sui procedimenti possessori, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1994, 69; SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp. 360 ss. (305) Cass. 22 aprile 1994, n. 3825; Cass. 6 dicembre 1995, n. 12579; Cass. 30 ottobre 1998, n. 10862. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati 478 IL POSSESSO III, 6.6.13. in petitorio, senza porre nel nulla il divieto di sollevare difese di natura petitoria nel giudizio possessorio (306) Rimane da precisare la figura del danno irreparabile, elevato a circostanza determinante per la praticabilità del cumulo del petitorio con il possessorio. La Corte costituzionale, come si è visto, ha fatto due esempi. A quanto pare, tutti i casi in cui la Corte di Cassazione ha considerato ammissibile il cumulo riguardavano manufatti di cui si chiedeva la demolizione nel giudizio possessorio, e che il convenuto sosteneva di avere diritto di costruire (307). Non risultano, invece, casi relativi a cose mobili, di cui il proprietario teme la alienazione a terzi di buona fede (proprio un caso di questo tipo si discuteva invece nel giudizio che ha dato occasione alla pronuncia della Corte costituzionale). In un caso (308) il convenuto sosteneva che il pregiudizio irreparabile va esteso al “danno giuridico derivabile al convenuto dalla pendenza, oltre il limite del ragionevole, del giudizio possessorio”, nella fattispecie rappresentato dal prossimo compimento del termine utile per l’usucapione della servitù controversa. La Cassazione ha respinto tale argomento, affermando che “la nozione di irreparabilità del pregiudizio è stata dal giudice delle leggi inequivocabilmente individuata nella perdita materiale e irreversibile del bene”; ma non senza aggiungere che in effetti “tanto l’azione, quanto l’eccezione petitoria, ancorché irritualmente esperita o sollevata nel corso del giudizio possessorio (…), sul piano sostanziale sono idonee ad interrompere l’usucapione”. Una riflessione sulla figura del danno irreparabile deve muovere dalla constatazione che, se non si vuole restringere in un ambito angusto l’eccezione al divieto di cumulo, la “irreparabilità” non comporta la impossibilità materiale del ripristino. La Corte costituzionale ha citato, approvandola, una remota sen(306) (307) n. 12579. (308) Cass. 13 agosto 2004, n. 15753; Cass. 20 aprile 2006, n. 9285. Cass. 22 aprile 1994, n. 3825; Cass. 26 gennaio 1995, n. 951; Cass. 6 dicembre 1995, Cass. 20 giugno 2001, n. 8367. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati III, 6.6.14. IL POSSESSO 479 tenza della Corte di Cassazione (309), che, sotto il codice previgente, aveva ammesso che un’azione possessoria fosse paralizzata dall’esercizio contemporaneo di un’azione petitoria, con conseguente sospensione dell’ordine di demolizione, allo scopo dichiarato di evitare all’economia nazionale “un inutile spreco di ricchezza”. La Corte costituzionale vuole evitare lo spreco di ricchezza che discende dalla demolizione di qualcosa che dovrà essere ricostruito; e che discende allo stesso modo da qualunque alterazione o trasformazione importante a cui potrebbe seguire, in seguito al giudizio petitorio, un ripristino nello stato originario. È interessante notare che, nel caso da cui è scaturita la sentenza del 1992, il bene mobile, di cui il convenuto temeva la perdita, non era un bene unico o insostituibile (si trattava di una ruspa). 6.6.14. La nuova opera e il danno temuto. Come abbiamo accennato, un rimedio è previsto se vi è ragione di temere che da una nuova opera sia per derivare danno alla cosa che forma oggetto del potere di fatto; e altro rimedio è concesso se vi è ragione di temere che un edificio, albero, o altra cosa possa metta in pericolo di un danno grave e prossimo la cosa che forma oggetto del potere (artt. 1171-1172 c.c.). I rimedii sono concessi al proprietario o titolare di altro diritto reale di godimento, e al possessore. Tuttavia, essi, d’abitudine, vengono illustrati quando si parla del possesso, e non, invece, nelle trattazioni sulla proprietà. I rimedii, dal nome dell’atto che introduce la domanda, si chiamano denunce: rispettivamente, denuncia di nuova opera e di danno temuto. Gli articoli citati regolano le denunce, le procedure e i provvedimenti giudiziarii che ne seguono; e contengono precisi riferimenti ad una successiva trattazione e decisione del merito, così chiarendo che i provvedimenti degli artt. 1171 e 1172 hanno carattere cautelare. (309) Cass. 29 gennaio 1929, n. 405, in Foro it., 1929, I, 242. © Giuffrè Editore - Tutti i diritti riservati