Trattato dei diritti reali - Volume I: Proprietà e possesso

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Trattato dei diritti reali - Volume I: Proprietà e possesso
Sezione 6
IL POSSESSO
di R. Caterina
6.1. Le relazioni di fatto fra l’uomo e le cose. — 6.1.1. Il possesso come criterio per l’attribuzione
di poteri giuridici sui beni. — 6.1.2. Sul fondamento della protezione del possesso. — 6.1.3. I
molti moduli del potere di fatto. — 6.2. Gli elementi del possesso. — 6.2.1. Gli elementi del
possesso: il potere di fatto. — 6.2.2. Gli elementi del possesso: l’acquisto del potere di fatto. —
6.2.3. Gli elementi del possesso: l’animus domini. — 6.2.4. Il possesso mediato. — 6.2.5.
L’esercizio del diritto reale: ipotesi problematiche. — 6.2.6. L’oggetto del possesso: i beni
immateriali. — 6.2.7. L’oggetto del possesso: l’energia elettrica, le trasmissioni radiotelevisive. —
6.2.8. Gli elementi incompatibili: l’altrui tolleranza. — 6.3. Gli elementi della detenzione. — 6.3.1.
La detenzione. — 6.3.2. Il titolo del detentore. — 6.3.3. La detenzione autonoma, la detenzione
qualificata. — 6.4. Vicende del possesso e della detenzione. — 6.4.1. I modi di acquisto:
l’occupazione, lo spoglio, l’interversione. — 6.4.2. La consegna. — 6.4.3. La successione nel
possesso, l’accessione del possesso. — 6.4.4. Circolazione del possesso e autonomia privata. —
6.4.5. Le vicende del rapporto extrapossessorio: la legge, la decisione del giudice, l’atto
amministrativo. — 6.4.6. La derelizione, la perdita, la rinuncia. — 6.5. I rapporti tra il proprietario
e il possessore. — 6.5.1. I conflitti tra il possesso (o la detenzione) di cosa aliena e la proprietà.
— 6.5.2. Il possesso di buona fede. — 6.5.3. Restituzione dei frutti e responsabilità per danni. —
6.5.4. Riparazioni, miglioramenti, addizioni. — 6.6. Le azioni possessorie. — 6.6.1. Le lesioni del
possesso. — 6.6.2. Lo spoglio. — 6.6.3. Lo spoglio del possessore mediato. — 6.6.4. La molestia.
— 6.6.5. La violenza e la clandestinità dello spoglio. — 6.6.6. L’elemento psicologico dello spoglio
e della molestia. — 6.6.7. Le cause di giustificazione. — 6.6.8. Le legittimazione attiva alle azioni
possessorie. — 6.6.9. La legittimazione passiva alle azioni possessorie. — 6.6.10. Oggetto delle
azioni possessorie. — 6.6.11. Termine per la proposizione delle domande. — 6.6.12. La domanda
di risarcimento del danno. — 6.6.13. Il divieto di cumulo del possessorio e petitorio. — 6.6.14.
La nuova opera e il danno temuto.
6.1.
Le relazioni di fatto fra l’uomo e le cose.
6.1.1.
Il possesso come criterio per l’attribuzione di poteri
giuridici sui beni.
Il diritto regola i conflitti tra le persone, cui danno luogo il
godimento, lo sfruttamento, la percezione del valore delle cose. A
tale fine, il diritto presceglie generalmente una persona o una
pluralità di persone e assegna loro una posizione privilegiata, a tal
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fine disponendo che le altre si astengano da questa o quella
ingerenza nella cosa, e mettendo a disposizione delle prime
rimedi adatti per rendere effettivo questo obbligo di astensione e
per reagire all’ingerenza lesiva. In tal modo, il diritto previene
conflitti violenti, ed evita la “tragedia dei comuni” che si produce
quando è possibile usufruire di una risorsa scarsa senza limitazioni e senza dover pagare un costo adeguato.
Come identificare il soggetto favorito?
L’individuazione può seguire un criterio fondato sulla relazione di fatto che passa fra la persona e la cosa. Si protegge la tale
persona perché si trova nell’immobile conteso, perché porta
addosso l’abito contestato. Beninteso, la protezione può prendere
varie forme: può concretizzarsi in una facoltà di rappresaglia, o
nel diritto ad un risarcimento; può concretizzarsi in un diritto a
riottenere il potere di fatto sulla cosa.
Seguendo un criterio del tutto diverso, l’individuazione del
soggetto favorito può avvenire mediante un indice indipendente
dalle relazioni di fatto che passano attualmente fra la persona e la
cosa; si può stabilire che questo o quell’insieme di circostanze di
fatto, che chiameremo titolo ieratico, assegnino ad un soggetto
dato la protezione dell’ordinamento, e che tale protezione duri
senza un limite di tempo, fino a quando non intervenga un altro
insieme di circostanze di fatto, che porranno termine alla protezione.
Il diritto può dunque scegliere fra un potere dipendente da
una relazione di fatto tra l’uomo e le cose, e un potere dipendente
dal titolo ieratico.
Collegamenti fra i due criterii possono operare in vari modi.
Così, ad esempio, la relazione di fatto protratta per un certo
tempo, o accompagnata da circostanze qualificanti, può essere
essa stessa elevata a titolo per una protezione che, d’ora in avanti,
si perpetuerà anche dopo la perdita della relazione stessa.
L’ordinamento italiano contemporaneo conosce entrambi i
criterii di selezionamento del personaggio favorito. Nelle grandi
linee, si può dire che i rimedi possessorii proteggono il soggetto
che, al momento dell’evento, si trovava in una data relazione di
fatto con la cosa; mentre i diritti reali, e le azioni che ne derivano,
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sono accordati a chi sia munito di un titolo (il modo di acquisto
della proprietà e degli altri diritti reali può peraltro consistere in
un possesso qualificato).
Da secoli i giuristi discutono sulla giustificazione della protezione del possesso. Il problema deve essere precisato. Il
possesso, come criterio per l’attribuzione di poteri giuridici sui
beni, è sicuramente più antico della proprietà. Ciò di cui si
discute è in effetti la coesistenza della protezione del soggetto del
titolo con la protezione del soggetto della relazione di fatto; della
protezione della proprietà con la protezione del possesso.
Se ogni sistema ha bisogno di regolare l’uso delle risorse, e
per ciò stesso di creare situazioni di appartenenza, ciò che
necessita di una giustificazione è la sopravvivenza dei rimedi
possessorii in un sistema che conosce un sistema di appartenenza
fondato sul titolo ieratico.
6.1.2.
Sul fondamento della protezione del possesso.
Della coesistenza della protezione della proprietà con la
protezione del possesso è stata data una celebre giustificazione,
che si fa risalire a Savigny: la protezione della relazione di fatto
impedisce l’uso delle armi da parte dei cittadini impegnati nella
difesa dei propri diritti (“ne cives ad arma veniant”). La tutela del
possesso risponderebbe ad esigenze di tutela dell’ordine pubblico, impedendo il dilagare di esercizi arbitrarii delle ragioni dei
contendenti e di spogli a catena.
La protezione possessoria, se ispirata a questa logica, porta
con sé una serie di regole applicative. In particolare, essa sembra
suggerire la repressione non di qualunque offesa al possesso, ma
solo di quelle offese che costituiscono una concreta minaccia per
l’ordine pubblico, e dunque delle offese violente, o clandestine.
La logica descritta ha contribuito alla formazione di più di un
sistema storico. L’idea della prevenzione e della repressione della
violenza traspare nei nomi dell’interdictum unde vi, dell’interdictum de vi cottidiana, e ancor più dell’interdictum de vi armata. E
in Inghilterra, le formule dei writs che descrivono le originarie
fattispecie di trespass parlavano, all’origine, di “quare vi et armis
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clausum fregit” (trespass to land), “quare vi et armis lapidem
molarem gregit et bona et catalla cepit et asportavit” (trespass to
chattels).
In Italia, il codice civile menziona la violenza o la clandestinità come elementi per la dequalificazione della condotta contro
cui reagisce l’azione di reintegrazione (art. 1168).
Tuttavia, l’evoluzione del diritto ha liquidato da tempo la
tradizione favorevole alla dequalificazione della lesione violenta e
clandestina.
Limitandoci all’ordinamento italiano contemporaneo, si deve
registrare che già secondo il codice alcuni possessori sono protetti
contro ogni lesione, e non solo contro quelle violente o clandestine (art. 1170 c.c.); e, anticipando un dato su cui torneremo,
diciamo subito che la giurisprudenza accoglie un’accezione così
annacquata della violenza dello spoglio da neutralizzarla completamente, svolgendola in un requisito tautologico: per la giurisprudenza ogni spoglio contrario alla volontà espressa o anche solo
presunta del possessore è violento.
La tutela dell’ordine pubblico è una giustificazione insufficiente di fronte all’ampiezza con cui in molti ordinamenti il
possesso è protetto.
Una spiegazione alternativa della protezione del possesso è
spesso ricondotta al nome di Jhering. Proteggendo il possesso, il
diritto proteggerebbe in modo più efficace la proprietà: spesso il
proprietario e il possessore coincidono; proteggendo il possesso,
il proprietario non ha bisogno di provare il suo diritto quando è
spossessato; la protezione accordata a possessori che non sono
proprietari sarebbe un “prezzo” da pagare per proteggere efficacemente i proprietari.
Anche questa proposta non riesce a dar conto di come
effettivamente la protezione del possesso è configurata in molti
ordinamenti. In particolare, non riesce a spiegare perché il
possesso sia protetto anche quando il convenuto riesca a provare
che il possessore non è il proprietario.
Una spiegazione più completa e convincente della protezione
del possesso deve partire dalle stesse ragioni che inducono, più in
generale, gli ordinamenti a dare vita a situazioni di appartenenza,
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cioè l’opportunità di prevenire conflitti violenti ma anche la
distruzione e lo spreco delle risorse che discendono dalle “tragedie dei comuni”.
Come si è detto, l’ordinamento può scegliere se individuare il
soggetto favorito attraverso la relazione di fatto con la cosa o
attraverso il titolo ieratico. Nessun ordinamento moderno si
accontenta di un sistema di appartenenza fondato sulla relazione
di fatto con la cosa; tutti riconoscono una proprietà che sopravvive anche in assenza della relazione di fatto.
Ma i problemi che conducono alla creazione delle situazioni
di appartenenza si riproducono nelle ipotesi in cui il proprietario
è assente. Il proprietario ha diritto di escludere i terzi; ma come
risolvere i conflitti quando nessuna delle due parti in causa è il
proprietario?
L’ordinamento può avere interesse ad individuare un supplente del proprietario assente; ed è naturale che lo individui in
un soggetto che è per definizione presente, cioè nel soggetto del
potere di fatto.
Lo stesso proprietario ha tutto da guadagnare dalla protezione accordata al possessore verso i terzi. Il possessore ha un
interesse proprio a difendere la cosa; l’ordinamento, una volta
concessogli un potere di difesa, potrà imporgli di rispondere nei
confronti del proprietario per come ha difeso la cosa contro i
terzi. Il proprietario ha interesse ad avere di fronte a sé un gestore
responsabilizzato e messo in grado di difendere la cosa piuttosto
che a lasciare, nella sua assenza, il bene alla mercé di qualunque
intrusione.
Il possessore difende il proprio interesse, aspirando a godere
il bene e magari sperando di usucapire, ma allo stesso tempo
finisce anche per difendere gli interessi del proprietario (1).
Il possesso può in questo quadro essere visto come una forma
(1) L’impostazione del testo riflette ampiamente riflessioni già presenti in R. SACCO, Il
possesso, in Trattato di diritto civile e commerciale già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato
da L. Mengoni, Milano, 1988, e in R. SACCO e R. CATERINA, Il possesso, 2ª ed., Milano, 2000.
Per una ricostruzione del dibattito sulle ragioni della tutela del possesso, e per una soluzione
non dissimile da quella proposta nel testo, cfr. anche J. GORDLEY & U. MATTEI, Protecting
Possession, in 44 American Journal of Comparative Law, 293 (1996).
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cadetta di appartenenza, protetto per le stesse ragioni della
proprietà, e contro ogni genere di ingerenza, anche non violenta.
Il soggetto dotato di titolo ieratico avrà gli strumenti per
prevalere sul soggetto del potere di fatto, e recuperare la cosa;
potrà, in quella sede, chiedere conto dei danni arrecati dallo
stesso possessore o da terzi. Potrà, per evitare ingiustificati
arricchimenti, essere chiamato a tenere indenne il possessore di
una serie di spese legate alla gestione della cosa di cui il
possessore ha dovuto darsi carico.
Il dato meno facile da spiegare, e per certi versi sorprendente,
è la possibilità per il possessore, almeno in certe circostanze, di
reagire anche allo spoglio posto in essere dallo stesso proprietario.
Intanto, bisogna dire che si tratta di una regola meno
universale di quella che protegge il possessore verso i terzi. Nei
sistemi di common law, sul possessore prevale il proprietario, che
ha un better title; in Germania, l’opinione maggioritaria consente
che la ragione petitoria escluda la sussistenza della lesione
possessoria (2). Come vedremo, nello stesso ordinamento italiano
il divieto per il convenuto nel possessorio di far valere in via di
eccezione le sue ragioni proprietarie è stato ridimensionato da
una sentenza della Corte costituzionale.
Laddove il possessore è effettivamente protetto anche nei
confronti del proprietario, si possono immaginare alcune ragioni
a sostegno di questa soluzione.
Intanto, un ordinamento può ritenere più facile mettere in
funzione, a favore del possessore, un’azione giudiziale esperibile
nei confronti di tutti, contrappesata da un’azione per il rilascio e
il rendiconto concessa al proprietario, piuttosto che non istituire
un sistema di azioni per la tutela dell’appartenenza, fondate sul
titolo relativamente migliore, in cui il possessore prevale sul terzo
e soccombe di fronte al proprietario.
In secondo luogo, poiché il possesso fa nascere ragioni del
possessore per spese, riparazioni, ecc., esiste un legittimo inte(2) Cfr. G. A. BECCARA, La Corte costituzionale ridimensiona la portata del cosiddetto “divieto
del cumulo” tra possessorio e petitorio, in Quadrimestre, 1993, 594, pp. 617 ss.
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resse del possessore a poter abbinare la definizione dei rapporti
contabili relativi a queste voci con la definizione del suo dovere
di rilasciare il bene al proprietario (tanto che molti ordinamenti
riconoscono al possessore un diritto di ritenzione).
In terzo luogo, la tutela del possessore contro lesioni violente
da parte del proprietario può effettivamente essere ispirata alla
tutela dell’ordine pubblico; e la protezione del possessore anche
contro il proprietario potrebbe essere il residuo di una impostazione (“ne cives ad arma veniant”) che si è affievolita nel corso del
tempo.
6.1.3.
I molti moduli del potere di fatto.
Gli ordinamenti giuridici consentono a chi si trova in una
relazione di fatto con la cosa di reagire alle lesioni del possesso.
Non è questo l’unico effetto che gli ordinamenti assegnano alla
relazione di fatto tra l’uomo e la cosa. La relazione di fatto con la
cosa, accompagnata da circostanze qualificanti, può costituire un
modo di acquisto della proprietà — così avviene per l’usucapione,
per l’acquisto a non domino di beni mobili, per l’occupazione. La
consegna può essere oggetto di un obbligo contrattuale — e bisognerà stabilire quando esso è assolto. Il diritto penale può assegnare una rilevanza alla relazione di fatto con le cose — a seconda
dei casi per proteggere il possessore o per punirlo.
Non necessariamente le relazioni di fatto a cui l’ordinamento
attribuisce, a vari fini, rilevanza, sono identiche. I tratti distintivi
che possono diventare rilevanti sono molti.
Limitiamoci a qualche esempio, relativo all’ordinamento
italiano. Secondo un’opinione consolidata, per non frustrare la
ragione della norma che impone il requisito della consegna, ai fini
dell’art. 1153 c.c. è insufficiente la consegna nelle forme spiritualizzate del costituto possessorio o della consegna delle chiavi; la
regola “possesso vale titolo” presuppone il trasferimento all’acquirente del possesso materiale (c.d. “possesso reale”) (3). Ep(3) Cfr. L. MENGONI, Gli acquisti “a non domino”, 3ª ed., Milano, 1975, pp. 128 ss.; Cass.
17 marzo 1950, n. 720, in Foro it., 1950, I, 1177.
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III, 6.1.3.
pure, ad altri fini, la consegna delle chiavi basta sicuramente a
trasferire il possesso.
Il possessore di buona fede è (quasi ovunque) destinatario di
regole diverse dal possessore di mala fede; ad esempio, in Italia
solo il possessore di buona fede acquista i frutti.
In senso ampio, possiamo dire che ogni relazione di fatto con
la cosa è possesso; ed allora si dovranno precisare di volta in volta
i fatti concomitanti il possesso che sono necessari perché si
produca questo o quest’altro effetto.
Nulla vieta, però, di riservare il nome di possesso solo alle
relazioni di fatto caratterizzate da certi tratti distintivi; ed allora
bisognerà trovare un altro nome per le relazioni di fatto prive di
quei tratti distintivi, ma comunque rilevanti per il diritto.
Una apparente divaricazione tra i sistemi di civil law si
traduce sostanzialmente in una diversa scelta terminologica.
In armonia con la tradizione romanistica, i sistemi italiano e
francese distinguono tra possesso e detenzione sulla base di un
elemento che l’opinione prevalente identifica nell’animus domini — l’intenzione di comportarsi e farsi considerare come titolare
della proprietà, o, più ampiamente, di un diritto reale sulla cosa.
Chi ha un potere di fatto sulla cosa ma non l’animus domini è un
detentore.
Il legislatore tedesco assume un punto di partenza diverso. La
nozione di base è la signoria di fatto sulla cosa. Chi ha la
tatsächliche Gewalt ha il Besitz, cioè il possesso. Chi si comporta
come conduttore, o come depositario, è Besitzer, così come chi si
comporta come proprietario.
La protezione possessoria è in Germania riconosciuta al
Besitzer. E in Francia e in Italia? In Francia e in Italia la azione
contro lo spossessamento (réintégrande, azione di reintegrazione)
è concessa anche al detentore. In Francia la equiparazione è
ancora più ampia, perché una legge del 1975 (l. 75-596 del 9
luglio) ha esteso al detentore anche la azione contro le molestie
(complainte) (4).
(4)
Cfr. A. GUARNERI, Una legge francese sulle azioni possessorie, in Riv. dir. civ., 1980, I,
302.
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In Francia, in Italia solo il possessore può usucapire. E in
Germania? In Germania il BGB distingue tra chi possiede la cosa
als ihm gehörend, come appartenente a lui stesso, e chi possiede
in altro modo; e crea perciò la figura dello Eigenbesitzer,
contrapposto al Fremdbesitzer; solo chi possiede come proprietario acquista per usucapione.
In altre parole: in Germania la categoria dei possessori è ampia,
e dentro la categoria si ritaglia una sottocategoria più ristretta a cui
è riservata la possibilità di acquistare per usucapione; in Francia e
in Italia la categoria dei possessori è più ristretta, ma la protezione
possessoria è estesa anche a soggetti che non sono possessori. La
differenza è principalmente terminologica.
Il legislatore italiano adotta la contrapposizione possessodetenzione; non è detto che vi si mantenga sempre fedele. Ad
esempio, gli artt. 1992 ss. riservano al “possessore” del titolo di
credito la possibilità di presentare il documento all’emittente, per
pretenderne con successo la prestazione. Ma il trattamento
giuridico del detentore non è diverso. Possessore e detentore
possono pretendere la prestazione; il debitore si libera non solo
pagando al possessore, ma anche pagando al detentore. E infatti
le leggi speciali sulla cambiale e sull’assegno identificano il
“portatore legittimo” del titolo con il detentore (cfr. ad es. l’art.
20 della legge cambiaria).
Sotto un diverso profilo, abbiamo già detto che secondo
un’interpretazione pacifica “sebbene nell’art. 1153 c.c. il legislatore parli genericamente di possesso come condizione essenziale
per l’acquisto della proprietà delle cose mobili, egli ha inteso
riferirsi al possesso materiale” (5).
È bene allora tenere a mente una lezione già da tempo
assorbita in altri ordinamenti; possesso è un concetto funzionale
e relativo; non è detto che le relazioni di fatto tra uomo e cosa a
cui il diritto attribuisce rilevanza a vari fini siano identiche fra
loro (6).
(5) Cass. 17 marzo 1950, n. 720, in Foro it., 1950, I, 1177, p. 1181.
(6) Nella letteratura inglese cfr., in questo senso, D.R. HARRIS, The Concept of Possession in
English Law, in A.G. GUEST (ed.), Oxford Essays in Jurisprudence, London, 1961, 69. Nella
letteratura italiana l’esistenza di molteplici figure di possesso, non riconducibili ad una nozione
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6.2.
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III, 6.2.
Gli elementi del possesso.
6.2.1.
Gli elementi del possesso: il potere di fatto.
Secondo la impostazione tradizionale, ai fini della configurabilità del possesso sono necessari due elementi: il potere di fatto
sulla cosa (latineggiando, corpus); l’intenzione di tenere quella
determinata cosa quale proprietario o titolare di un altro diritto
reale (animus).
La descrizione del potere di fatto è difficoltosa. In dottrina si
sono moltiplicate le perifrasi descrittive (signoria di fatto, signoria
economica, dominazione, etc.), che risolvono poco, perché spostano il problema dalla nozione del potere di fatto alle nozioni di
signoria (fisica o economica), dominazione, etc.
Lo sforzo per indicare la struttura del possesso deve passare
attraverso la constatazione di due concezioni alternative, più o
meno esplicitamente seguite nella letteratura.
Una parte della dottrina muove dall’idea che il possessore,
come il proprietario, può essere attivo, o essere inoperoso. Il
proprietario può coltivare il prato, o lasciarlo incolto; può leggere
il libro o lasciarlo sulla scrivania. Il possessore deve poter fare lo
stesso senza smettere di essere tale.
La definizione del potere di fatto deve essere valida anche per
l’ipotesi del possesso inoperoso; ed allora, deve ricorrere ad
elementi diversi dalla condotta del possessore.
Un primo passo in questa direzione si può far risalire a
Savigny, che ebbe il merito di osservare che per la continuazione
del possesso non è necessaria la “immediata fisica disponibilità”
della cosa, ma importa unicamente che duri “la potenza di
riprodurre a piacere quell’immediato rapporto” (7). Basta, dunque, la possibilità di ingerirsi senza ostacoli nella cosa.
Il secondo passo è stato la valorizzazione di un elemento
diverso dall’ingerenza del possessore: l’astensione dei terzi. L’inunitaria, è sottolineata (anche attraverso la scelta del titolo) in B. TROISI e C. CICERO, I possessi, in
Trattato di diritto civile del Consiglio nazionale del Notariato diretto da P. PERLINGIERI, Napoli,
2005. Sulla molteplicità delle relazioni di fatto rilevanti insistono SACCO, Il possesso, cit., e SACCO
e CATERINA, Il possesso, 2a ed.
(7) F.K. VON SAVIGNY, Il diritto del possesso (tr. it. P. CONTICINI), Firenze, 1839, § 18, p. 217.
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gerenza del possessore può essere saltuaria e sfuggente; l’astensione dei terzi è invece requisito del possesso in ogni sua fase. Il
potere di fatto non consiste tanto in una relazione materiale tra il
soggetto e la cosa, ma “nel fatto che i terzi si astengono e che non
vi è invece un ostacolo fisico, almeno di carattere duraturo
all’ingerenza del possessore sulla cosa” (8).
Il potere di fatto sulla cosa, allora, richiede l’astensione
attuale dei terzi da ingerenze sulla cosa e la possibilità di ingerirsi
da parte del possessore; non richiede necessariamente una attività
da parte del possessore (9).
Questa ricostruzione ha suscitato insofferenze in dottrina.
Non sono mancate, infatti, critiche a una eccessiva “spiritualizzazione” del corpus. Il codice civile (art. 1140) richiede una
attività; mentre il proprietario può non esercitare il suo diritto
senza perderlo, il possessore inattivo perderebbe allora il suo
possesso. In questo senso andrebbe respinta la tentazione di un
troppo spinto parallelismo tra possesso ed esercizio del diritto di
proprietà: il non uso non sarebbe adattabile al possesso, che esige
un comportamento positivo (10).
Se la dottrina è divisa, la giurisprudenza è fermissima nel
ritenere che “per la conservazione del possesso non occorre la
materiale continuità dell’uso né l’esplicazione di continui e
concreti atti di godimento e di esercizio del possesso” (11); che
anzi il possesso “può anche concretarsi nel non uso” (12). Per
limitarci a qualche esempio, si è ritenuto che lo stato di
abbandono in cui versa un fondo non vale a escludere il possesso,
“poiché si può possedere un fondo anche trascurandone la
coltivazione, per mancanza di interesse o per altre ragioni”; e ciò
in base al “principio di diritto che non condiziona la conserva(8) AL. FEDELE, Possesso ed esercizio del diritto, Torino, 1950, p. 63.
(9) In questo senso, A. MONTEL, Il possesso, 2ª ed., in Trattato di diritto civile italiano diretto
da F. VASSALLI, Torino, 1962, p. 39 ss.; R. SACCO e R. CATERINA, Il possesso, 2a ed., in Trattato di
diritto civile e commerciale già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni,
Milano, 2000, pp. 76 ss.
(10) In questo senso, U. NATOLI, Il possesso, Milano, 1992, p. 38 ss.; F. ALCARO, Il possesso,
in Commentario del codice civile diretto da P. Schlesinger, Milano, 2003, p. 35 ss.
(11) In questo termini Cass. 11 novembre 1997, n. 11119.
(12) Cass. 29 luglio 1958, n. 2743.
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III, 6.2.1.
zione del possesso all’esplicazione di continui e concreti atti di
godimento e di esercizio del possesso” (13); che “il semplice
abbandono del domicilio coniugale da parte del proprietario del
fondo, ancorché seguito da assoluto disinteresse per le sorti di
questo bene” (disinteresse protrattosi per oltre venti anni) non
basta a far perdere il possesso (14); che non necessariamente
perde il possesso di una servitù di passaggio chi tiene chiuso, per
molti anni, il cancello di accesso alla strada utilizzata, essendo
sufficiente che la cosa resti nella “virtuale disponibilità” del
possessore (15).
La giurisprudenza spesso, adottando una formula latina,
parla di possibilità di conservare il possesso solo animo (16). La
formula latina dichiara superfluo il corpus, perché con la parola
corpus indica la sola ingerenza attuale del possessore. Si dica che
non è necessario il corpus (nel senso di ingerenza attuale), si dica
che il corpus si riduce alla sola ingerenza potenziale accompagnata dalla astensione dei terzi: ciò che è sicuro è che la
giurisprudenza non richiede un comportamento attivo da parte
del possessore.
La concezione attivistica del possesso, se presa sul serio, è
incompatibile con le esigenze di una gestione normale dei beni. I
soggetti di norma non realizzano continui atti di godimento dei
propri beni; anche l’inerzia può essere un comportamento
efficiente, e non c’è ragione di scoraggiarla.
In realtà, la stessa dottrina che nega, in linea di principio, che
l’inattività sia compatibile con l’esistenza del possesso, finisce
spesso per ridimensionare le proprie affermazioni. Si ammette,
infatti, che non è immaginabile una “continuità ‘fisica’ della
relazione con la cosa”, che la attività deve essere valutata tenendo
conto “della specifica funzione del bene di riferimento”, implicando necessariamente anche “momenti di inerzia e di discontinuità”; ma si avverte che occorre “tenere ben distinti i profili
(13)
(14)
(15)
(16)
aestivisque
Cass. 4 giugno 1999, n. 5444.
Cass. 7 gennaio 1992, n. 39.
Cass. 6 settembre 1994, n. 7674.
PAOLO, Sent. V, 2, 1: “retinere tamen nudo animo possumus, sicut in saltibus
contingit”.
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giuridici dell’inerzia rispetto a quelli puramente fattuali, per così
dire naturali ed ‘esistenziali’ e quindi irrilevanti ai fini dell’indagine” (17).
Siccome qui si intende precisamente fornire una descrizione
“fattuale” del potere di fatto, preferiamo chiamare le cose con il
loro nome e dire che l’inerzia del possessore non è incompatibile
col possesso.
Il possesso, secondo la giurisprudenza, viene meno se vengono meno la possibilità di ingerirsi e l’astensione dei terzi.
Così, si è deciso che seppure “il possesso, che si esercita ad
intervalli (come nei pascoli soggetti a soste invernali o estive,
‘saltus hiberni et aestivi’) non cessa di essere continuo, se
l’utilizzazione della cosa, su cui si esercita il potere di fatto,
subisce interruzioni dipendenti dalla natura o dalla destinazione
economica della cosa”, “la possibilità di ripristinare ‘ad libitum’
il contatto materiale con la cosa, ossia il ‘corpus’, viene meno, se
altri abbiano frattanto instaurato sulla cosa il proprio possesso,
sia pure attraverso un autonomo atto di apprensione”; con la
conseguenza che “il possessore, privato del possesso, che (…)
non si avvalga dell’azione reintegratoria, non può recuperare di
sua iniziativa la perduta disponibilità, senza incorrere, sussistendone anche gli altri estremi, in uno spoglio” (18).
Si è escluso che possa considerarsi possessore chi, per
riacquistare il possesso di alcuni beni mobili custoditi in
un’abitazione, sia costretto a penetrare furtivamente nella casa,
effrangendo la serratura di una porta, in quanto “il possesso solo
animo (…) presuppone necessariamente che il titolare abbia la
possibilità di disporre ad libitum ed a propria discrezione del
corpus e senza che debba avvalersi di azioni violente o clandestine” (19).
Ancora, dal momento che “il possesso e la detenzione non
sono ipotizzabili se manchi la disponibilità, anche solo virtuale,
della cosa”, si è escluso il possesso della madre “per l’allontana(17)
(18)
(19)
ALCARO, Il possesso, cit., pp. 45-46.
Così Cass. 20 gennaio 1986, n. 368.
Cass. 5 dicembre 1988, n. 6583.
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370
IL POSSESSO
III, 6.2.1.
mento forzato (…) dal fondo e per gli impedimenti frapposti dal
figlio ai tentativi di riacquisto del godimento del bene” (20).
La giurisprudenza insiste sulla necessità della possibilità di
ripristinare ad libitum il contatto materiale con la cosa. La
casistica evidenzia però che l’impossibilità dell’ingerenza si accompagna puntualmente ad un’ingerenza altrui (e dunque al
venir meno dell’astensione da parte dei terzi). Non c’è da stupirsi.
Finché l’impossibilità di ingerenza materiale (causata ad esempio
da fattori naturali) non si accompagna all’ingerenza altrui, non
sorgono conflitti.
Possono essere utili due precisazioni.
Il potere di fatto è elemento indispensabile del possesso. Lo
spoglio pone fine al potere di fatto, e dunque al possesso; il che
non esclude che lo spogliato abbia diritto a essere ripristinato nel
potere di fatto esercitando le azioni possessorie. Il linguaggio
corrente può indurre in equivoci; molte volte è comodo parlare
del “possessore” per indicare in realtà una persona che ha avuto,
e poi perduto, il possesso. Si dirà così che “il possessore agisce in
reintegrazione” invece di dire che “colui che era possessore fino
al momento dello spoglio agisce in reintegrazione”.
Le molestie, invece, sono ingerenze marginali che modificano
il contenuto del potere di fatto, senza necessariamente distruggerlo. Chi passa sul mio fondo non distrugge il mio possesso;
naturalmente il passaggio potrà preludere all’acquisto del possesso di una servitù di passaggio, il che mi impedirà di passare alle
vie di fatto e ad esempio bloccare il passaggio senza commettere
spoglio.
I requisiti dell’astenzione dei terzi e della possibilità di
ingerirsi nel bene si intrecciano allora in modo stretto. L’impossibilità di ingerenza diventa concretamente rilevante quando si
combina con l’ingerenza altrui; l’ingerenza altrui distrugge il
potere di fatto quando tende ad escludere il precedente possessore.
(20)
Cass. 26 ottobre 1993, n. 10642.
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III, 6.2.2.
6.2.2.
IL POSSESSO
371
Gli elementi del possesso: l’acquisto del potere di
fatto.
Si afferma, solitamente, che l’ingerenza deve essere attuale
nel momento iniziale del possesso, anche se può essere puramente potenziale nella fase ulteriore. Già i Romani insegnavano
che il possesso si può conservare, ma non acquistare solo
animo (21). E la giurisprudenza italiana si mantiene fedele a tale
principio.
La regola così descritta è certamente ragionevole. Senza una
presa di possesso riconoscibile di Tizio, come si potrebbe
stabilire che il possessore è proprio Tizio, e non un altro
soggetto?
Il principio però conosce un’eccezione. Secondo una massima giurisprudenziale consolidata, per stabilire se vi sia stato o
non trasferimento del possesso, non è necessaria l’apprensione
materiale della cosa, “in quanto il potere di fatto deve intendersi
conseguito quando, pur mancando la prossimità o contiguità
materiale tra il soggetto e la cosa, questa sia posta, tuttavia, a
disposizione del soggetto medesimo, il quale abbia la possibilità
di agire liberamente su di essa” (22). Torneremo a parlare della
consegna; per ora registriamo che quando il potere di fatto si fa
derivare dal consenso del precedente possessore, non è necessaria, per iniziare a possedere, nessuna ingerenza materiale.
La necessità di un’ingerenza iniziale non deve allora essere
sopravvalutata. Certo, la situazione di fatto deve essere intelleggibile; e in assenza di qualsiasi ingerenza materiale, di solito non
lo è. Ma quando la situazione è illuminata da altri elementi, anche
della ingerenza iniziale si può fare a meno.
Dal punto di vista dell’ambito spaziale dell’ingerenza, vale la
vecchia regola romana secondo cui “sufficit quamlibet partem
fundi introire” (23). La giurisprudenza ripete fedelmente che
“una volta fornita la prova del possesso della cosa nella sua unità,
(21) PAOLO, Sent. V, 2, 1: “Sed nudo animo adibisci quidam possessionem non possumus,
retinere tamen nudo animo possumus, sicut in saltibus aestivisque contingit”.
(22) Così Cass. 8 ottobre 1963, n. 2676; nello stesso senso Cass. 20 aprile 1962, n. 801;
Cass. 10 dicembre 1996, n. 10986.
(23) PAOLO, Dig. 41, 2, 3, 1.
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372
IL POSSESSO
III, 6.2.2.
non è necessaria l’ulteriore dimostrazione del possesso della parte
o della frazione” (24) (il che presuppone, ovviamente, una cosa
chiaramente individuabile nella sua unità).
Nei limiti in cui gli atti di ingerenza rilevano, si pone il
problema se essi debbano essere atti di ingerenza volontari. Il
problema tende spesso a confondersi con quello della rilevanza
dell’animus domini; sul piano logico, tuttavia, è ben possibile
distinguere tra volontà di assoggettare a sé la cosa e volontà di
essere proprietario.
La risposta tradizionale è che gli atti di ingerenza devono
essere volontari. Nello stesso senso si esprime la giurisprudenza
italiana.
L’atto di acquisto del possesso, secondo la giurisprudenza, è
un atto giuridico, e come tale richiede la consapevolezza e la
volontà dell’agente, ma non è un negozio giuridico; pertanto
“nell’atto di acquisto del possesso è indispensabile la volontà del
soggetto di esercitare la propria signoria sulla cosa mentre
l’effetto è determinato direttamente dalla legge in relazione a
circostanze che esulano del tutto dall’elemento interiore o spirituale”; dal che si ricava che “per l’acquisto del possesso (…), non
è affatto necessaria la capacità di agire ma basta la capacità
naturale di intendere e di volere” (25). Di conseguenza, anche il
minore (26) e l’infermo di mente (27), purché dotati di capacità
naturale, possono porre in essere atti di acquisto del possesso.
Dunque, è indispensabile la volontà del soggetto di esercitare
la propria signoria sulla cosa, e quindi la consapevolezza e
volontà dell’ingerenza; non sarebbero sufficienti ingerenze dovute ad episodi di sonnambulismo o di raptus.
La necessità di questa consapevolezza e volontarietà sono
state criticate. Si è osservato che uno stato psicologico di volontà
non può durare quanto dura il possesso, né protrarsi quando il
possessore dorme o è impazzito, e che si può avere il possesso di
oggetti dimenticati.
(24)
(25)
(26)
(27)
Cass.
Cass.
Cass.
Cass.
11
18
18
25
febbraio 1967, n. 347; nello stesso senso, Cass. 19 luglio 1968, n. 2601.
giugno 1986, n. 4072.
giugno 1986, n. 4072.
febbraio 1952, n. 504.
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III, 6.2.2.
IL POSSESSO
373
Tali censure non sono insuperabili. Come l’ingerenza, la
volontà è richiesta nel solo momento dell’acquisto; come il
possessore non deve mantenere un contatto fisico con la cosa,
così non occorre che in ogni singolo istante pensi al proprio
rapporto.
D’altra parte, la consapevolezza e volontarietà dell’ingerenza
non implica necessariamente consapevolezza delle singole cose di
cui si acquista il possesso: si pensi al rigattiere che, senza
esaminarne il contenuto, acquista una scatola piena di vecchi
giocattoli.
Figure di potere di fatto, in cui l’operazione di ieri vale a
fondare il potere di fatto di oggi, hanno ugualmente fornito
l’occasione per discutere sia del requisito dell’intento che dell’effettiva esigenza di una ingerenza iniziale: si pensi alla predisposizione di una trappola o, più banalmente, di una cassetta per le
lettere.
6.2.3.
Gli elementi del possesso: l’animus domini.
Una lunga tradizione richiede che il potere di fatto sia
accompagnato da un elemento psicologico. Questo elemento
viene definito come intenzione di comportarsi e farsi considerare
come titolare di quel diritto reale, cui corrisponde il potere di
fatto sulla cosa. Si parla, perlopiù, di animus domini, o animus
possidendi, o ancora di animus rem sibi habendi (il che può creare
qualche confusione con il requisito della volontarietà dell’ingerenza, che talvolta è indicata nello stesso modo).
Questo intento viene utilizzato per discriminare il possessore
(il quale intende esercitare la proprietà o altro diritto reale) dal
detentore.
L’insegnamento in esame è saldo in Francia e in Italia. In
Germania, come si è detto, si è abbandonata la distinzione tra
possesso e detenzione; lo stesso BGB, però, distingue tra chi
possiede la cosa als ihm gehörend, come appartenente a lui
stesso, e perciò acquista per usucapione la proprietà, e chi
possiede in altro modo; e dottrina e giurisprudenza richiedono la
volontà di esercitare il potere sulla cosa come proprietario.
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374
IL POSSESSO
III, 6.2.2.
Il codice italiano del 1942 non ha richiesto espressamente
l’intento (mentre il codice civile del 1865, art. 686, parlava
espressamente di “animo di tenere la cosa come propria”).
Tuttavia, distinguendo tra possesso e detenzione, sembra averlo
logicamente sponsorizzato. Il codice, inoltre, menziona il requisito dell’attività corrispondente all’esercizio del diritto reale, e
l’intento sembra un tipico elemento dell’attività-esercizio: l’esercizio del diritto di usufrutto su un appartamento si può distinguere cioè dall’esercizio del diritto personale del conduttore in
base all’intento del soggetto.
La giurisprudenza è saldamente ancorata al criterio discretivo
dell’animus, e contrappone animus possidendi e animus detinendi (28); e, sia pur con formulazioni diversificate, anche in
dottrina rimane diffusa l’idea che sia l’animus a distinguere le
figure del possessore e del detentore (29).
Non manca, tuttavia, una forte corrente dottrinale orientata
verso la concezione oggettiva del possesso, che rifiuta rilevanza
all’intento e propone di rimpiazzarlo con altri elementi.
Una parte degli autori, per sollevare il giudice dall’indagine
su un fatto psicologico, quale è l’intento, suggeriscono di qualificare il potere di fatto in base a comportamenti materiali del
soggetto.
In questo senso si è osservato che “ciò che conta è la condotta
di chi tiene o usa la cosa, non le sue segrete intenzioni, di cui il
diritto non si può occupare”; per il possesso occorre che la
persona si comporti “in modo corrispondente a quello di chi
esercita un diritto”; invece, “detentore è colui che si comporta
non in modo corrispondente all’esercizio di un diritto reale, ma
in modo diverso, cioè dando dei segni di riconoscere un ‘potere’
altrui; per esempio, paga un canone di locazione, chiede un
(28) Cfr., a mero titolo di esempio, Cass. 19 agosto 2002, n. 12232; Cass. 18 febbraio 2000,
n. 1824.
(29) Cfr., ad esempio, C. TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, in Digesto civ., XIV,
Torino, 1996, 8, pp. 15 ss.; A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, 41a ed., Padova, 2004, pp.
546-547.
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III, 6.2.2.
IL POSSESSO
375
contributo per le spese, scrive una lettera di ringraziamento, o
chiede una dilazione per la riconsegna, ecc.” (30).
Altra parte della dottrina propone invece di sostituire all’animo il titolo. In questa prospettiva, “la differenza tra possesso
e detenzione a chi ben guardi non è nella volontà, ma nel titolo,
che dalla volontà o dalla legge si desuma; nell’autonomia o nella
dipendenza obbiettiva dal possesso e dal potere di fatto altrui”;
per cui non si richiede un determinato animus ma “un determinato titolo (che è la qualifica giuridica del fatto)” (31). Ed ancora,
nello stesso senso, si è osservato che la relazione possessore/
detentore “non può non sorgere sulla base di un rapporto (di tipo
obbligatorio) configurato giuridicamente e formalmente inquadrabile in un determinato modello o tipo negoziale, fonte di limiti
e di ‘misurate’ attribuzioni soggettive”; per cui “laddove tale
titolo non si ravvisasse, la posizione del soggetto, nella cui
disponibilità la cosa si trovi, si qualificherebbe senz’altro in
termini di possesso” (32).
Nella dottrina orientata verso la concezione oggettiva aleggia
la diffidenza verso il ricorso ad elementi “di incerta natura
psichica o spirituale”, a “vaghi elementi fondati sulla ricerca delle
segrete intenzioni del soggetto” (33).
La valutazione del dibattito sul requisito soggettivo del
possesso deve essere articolata in più punti.
Innanzitutto, è bene precisare che, ammessa una rilevanza
della volontà, è ovvio che questa volontà deve manifestarsi in
qualche modo all’esterno, e che nessuno intende attribuire
rilevanza a pensieri segreti del soggetto da individuare mediante
tecniche di divinazione sciamanica. Del resto, una generica
irrilevanza degli stati intenzionali per il diritto sembra difficile da
(30) P. ZATTI e V. COLUSSI, Lineamenti di diritto privato, 9ª ed., Padova, 2003, pp. 277-278.
Un discorso non dissimile (ma con toni più sfumati) è in F. DE MARTINO, Del possesso, in
Commentario del codice civile a cura di A. SCIALOJA e G. BRANCA, 5a ed., Bologna-Roma, 1984, pp.
1 ss.
(31) C.A. FUNAIOLI, L’animus nel possesso e il dogma della volontà, in Giust. civ., 1951, 16,
p. 27.
(32) ALCARO, Il possesso, cit., p. 84. Favorevole alla sostituzione della volontà con il titolo
è anche C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, Milano, 1999, p. 729.
(33) P. RESCIGNO, Manuale di diritto privato, Milano, 2000, p. 445. Considerazioni non
dissimili in TROISI e CICERO, I possessi, cit., p. 16.
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376
IL POSSESSO
III, 6.2.2.
sostenere (basti pensare al diritto penale); e naturalmente, laddove rilevano, gli stati intenzionali sono pur sempre ricostruiti
sulla base di indici esterni (34).
Il tentativo di sostituire all’animo il titolo incontra alcune
difficoltà.
Una conferma dell’irrilevanza dell’animus è spesso tratta
dall’art. 1141, 2° comma, c.c.: “la interversione infatti si verifica
esclusivamente in dipendenza di due fatti obiettivi, ritenuti dalla
legge idonei a mutare il titolo della detenzione” (35); “a nulla
varrebbe in contrario la prova di una diversa volontà se non
attuata nelle forme necessarie appunto per mutare il titolo” (36).
Il codice italiano richiede al detentore, per acquistare il
possesso, che il titolo muti per causa proveniente da un terzo o in
forza di opposizione fatta contro il possessore.
Tale disposizione non soltanto non fornisce una prova
decisiva a favore dell’irrilevanza dell’animus, ma anzi fornisce un
indizio in senso contrario.
Certo, non basta al detentore mutare la propria volontà per
trasformarsi in possessore. Ma il fatto che, in questa ipotesi, a
tutela del possessore originario, siano richiesti dei requisiti
(34) Il sospetto di molti giuristi per il ricorso a elementi interni e psichici riecheggia, più o
meno consapevolmente, le tesi del comportamentismo, che è stato il paradigma dominante nella
ricerca psicologica nel corso della prima metà del Novecento. Gli psicologi comportamentisti,
ponendo al centro dei loro interessi teorici la previsione e la spiegazione del comportamento,
escludevano gli stati mentali dall’ambito della ricerca psicologica in quanto non osservabili.
Secondo questo approccio, una teoria appropriata deve cercare di descrivere e spiegare il
comportamento esclusivamente a partire da dati empirici certi, cioè stimoli e risposte; il
riferimento a supposti enti non osservabili è inammissibile. Per un comportamentista la mente non
esiste, almeno nel senso che nella pratica scientifica bisogna operare come se non esistesse; in tal
modo la mente è a tutti gli effetti rimossa dalla spiegazione psicologica e dalla ontologia delle
scienze del comportamento.
Dalla seconda metà degli anni Cinquanta il comportamentismo è entrato in crisi ed è stato
soppiantato dalla psicologia cognitiva. La psicologia cognitiva è la scienza che studia i processi di
elaborazione di informazioni negli organismi complessi. L’organismo di cui si occupa il
cognitivista non è più “vuoto” come voleva il comportamentismo. Tra la stimolazione e la risposta
vi è nuovamente la mente, concepita come elaboratore di informazioni. Le informazioni in
ingresso vengono codificate nella mente, divenendo in tal modo oggetti interni (le rappresentazioni mentali) suscettibili di elaborazioni di vario tipo. Oggi il realismo intenzionale, cioè l’idea che
gli stati mentali esistono e sono causalmente coinvolti nella genesi del comportamento, ha ripreso
vigore tra gli scienziati cognitivi. Per una introduzione a questi temi, cfr. M. MARRAFFA, Filosofia
della psicologia, Roma-Bari, 2003.
(35) ALCARO, Il possesso, cit., p. 111.
(36) FUNAIOLI, L’animus nel possesso, cit., p. 27.
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III, 6.2.2.
IL POSSESSO
377
ulteriori per l’acquisto del possesso non prova l’irrilevanza, in
termini generali, dell’animo. Il fatto che in determinate ipotesi
non basti avere il potere di fatto e l’animus domini per diventare
possessore non prova, cioè, che l’animo sia irrilevante.
Secondo l’art. 1141 il mutamento della detenzione in possesso si verifica (in caso di mutamento del titolo da parte di un
terzo e) in caso di opposizione del detentore contro il possessore.
Sulla interversione dovremo tornare; ma iniziamo a dire che la
opposizione consiste in una manifestazione; per dirla con la
giurisprudenza, una “manifestazione esteriore, dalla quale sia
consentito desumere che il detentore ha cessato d’esercitare il
potere di fatto sulla cosa nomine alieno” (37). Ma cosa deve
manifestare il detentore? Un titolo che non ha? O piuttosto una
volontà, uno stato mentale?
Altre difficoltà nascono quando si considerano casi in cui
manca una qualsiasi relazione preventiva del detentore con il
possessore, quali quello del ritrovatore di cosa altrui o del gestore
di affari. Si è detto, a proposito di queste ipotesi, che “il titolo
può avere fondamento sia negoziale che legale” (38). Ma come si
distingue il ritrovatore dell’oggetto smarrito, che lo detiene per
consegnarlo al sindaco, da chi ha ogni intenzione di tenerselo, e
dunque è possessore? Come si distingue il gestore-detentore
dallo squatter-possessore? Si potrà dire: sulla base di un comportamento, ed allora rinviamo a quanto diremo fra poche righe;
ma non sulla base di un titolo. Qui si può dire che c’è un titolo
diverso; ma il titolo presuppone la distinzione fra le diverse
situazioni, non la fonda.
Il riferimento al titolo sembra a maggior ragione inaccettabile
se si considera detentore anche chi si immette nel bene sulla base
di un contratto di locazione invalido; se si considera detentore
anche chi si immette nel bene sulla base di un contratto di
locazione che si riferisce ad un bene diverso da quello erroneamente individuato; se addirittura si considera detentore chi ha
completamente frainteso la situazione, e non ha affatto concluso
(37)
(38)
Così Cass. 12 maggio 1999, n. 4701.
ALCARO, Il possesso, cit., p. 82.
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378
IL POSSESSO
III, 6.2.2.
un contratto di locazione. Se si ammette che vi sia detenzione in
questi casi, appare completamente fuorviante il riferimento ad un
titolo che può essere invalido ed addirittura inesistente. Ma sul
punto non insistiamo perché, come vedremo, la possibilità di
ravvisare una detenzione nei casi a cui si è accennato è in qualche
misura controversa.
Veniamo alla proposta di qualificare il potere di fatto in base
a comportamenti materiali del soggetto.
I fautori di questa soluzione sembrano nutrire una eccessiva
fiducia nella inequivocità dei comportamenti materiali. Il proprietario di una autovettura compie, in massima parte, gesti
materialmente identici a colui che l’ha presa in affitto.
Si potrà obbiettare che la distinzione deve basarsi non su
singoli gesti, ma su una valutazione complessiva del comportamento.
Gli psicologi ci spiegano, però, che ognuno di noi tende a
spiegare le sequenze di azioni sulla base dell’attribuzione di stati
mentali. Questa pratica mentalistica poggia su una proto-teoria
spontanea, la c.d. psicologia del senso comune, che postula la
esistenza di stati intenzionali. Si discute animatamente se tale
psicologia ingenua abbia basi innate o si sviluppi nell’infanzia; è
sicuro che essa è normalmente utilizzata dagli esseri umani, e, a
prescindere dal suo statuto epistemico, essa sembra costituire una
strategia interpretativa efficace per razionalizzare il comportamento altrui (39).
Si potrà anche pensare, allora, che l’intenzionalità è soltanto
negli occhi dell’interprete; di fatto, noi leggiamo i comportamenti
sulla base dell’attribuzione di stati intenzionali.
Pensiamo, ancora una volta, all’interversione regolata dall’art.
1141 c.c., ed in particolare all’opposizione del detentore contro il
possessore. La giurisprudenza chiarisce che l’opposizione deve
estrinsecarsi in una “manifestazione esteriore, dalla quale sia
consentito desumere che il detentore ha cessato d’esercitare il
potere di fatto sulla cosa nomine alieno”; tale manifestazione
(39) Per una introduzione a questi temi, si rinvia ancora a MARRAFFA, Filosofia della
psicologia, cit.
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III, 6.2.4.
IL POSSESSO
379
deve essere inequivocabile, e non bastano né atti che si traducano
“in una inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la
detenzione era stata costituita, verificandosi in tal caso un’ordinaria ipotesi d’inadempimento contrattuale”, né “meri atti d’esercizio del possesso, verificandosi in tal caso una mera ipotesi di
abuso” (40). Dunque non basta che il conduttore smetta di pagare
il canone, né che compia atti che esulano dai suoi poteri. Ma il
conduttore che non paga il canone, e magari che cambia
arbitrariamente la destinazione economica della cosa, non si
comporta materialmente come un proprietario?
Non sembra facile rinunciare a dire, secondo l’impostazione
tradizionale, che il detentore deve manifestare (espressamente o
tacitamente) una volontà.
Non sembra possibile sbarazzarsi del riferimento a stati
intenzionali del possessore. Si potrà poi precisare che tali stati
intenzionali devono manifestarsi in comportamenti esteriormente
apprezzabili; e rilevare che spesso è il titolo a illuminare e
circoscrivere l’intento, consentendo di leggere una condotta
altrimenti enigmatica.
6.2.4.
Il possesso mediato.
L’art. 1140, 2° comma, c.c., prevede il possesso indiretto,
“per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”.
Alla base del possesso indiretto troviamo dunque l’ingerenza di
una persona diversa dal possessore: dipendente, mandatario,
custode, conduttore, comodatario.
Secondo la impostazione tradizionale, il potere di fatto
imperniato sull’ingerenza propria appartiene per intiero a questa
persona diversa dal possessore. Peraltro il soggetto del potere di
fatto si astiene da quelle forme di interferenza nel bene che
pregiudicherebbero le attese di quel possessore indiretto.
La situazione del soggetto del fatto è assistita da uno stato
psicologico corrispondente, cui si dà il nome di “riconoscimento”
del possessore, o di “laudatio possessoris”.
(40)
Così Cass. 12 maggio 1999, n. 4701.
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380
IL POSSESSO
III, 6.2.4.
I rapporti fra i due soggetti possono essere varii. In certi casi,
il possessore si aspetta che il soggetto del potere di fatto gli
retroceda la cosa a semplice richiesta; in altri casi, egli sa che il
soggetto del potere di fatto tratterrà la cosa finché non scada un
certo termine o non maturi un certo evento. In certi casi il
soggetto del potere di fatto può avvantaggiarsi della cosa; in altri
casi invece non può approfittarne.
La contrapposizione concettuale tra possesso mediato e
immediato si collega con la dicotomia possesso-detenzione. Il
possessore mediato non esplica ingerenza sulla cosa posseduta, e
questa ingerenza viene esercitata dal detentore.
Il quadro che abbiamo tracciato non è incontroverso. In
dottrina sono state proposte ricostruzioni diverse del possesso
mediato e dei rapporti tra possesso e detentore, che riflettono le
controversie già accennate sulla struttura del possesso. Così (in
nome della esaltazione del titolo) si è criticata la coincidenza tra
detenzione e corpus possessionis. Così (in nome della concezione
attivistica del possesso) si è respinta l’idea che il possessore
mediato non eserciti un potere di fatto, sottolineando invece che
anche il possessore mediato svolgerebbe una attività, sia pure
consistente nel compimento di atti giuridici e non materiali (41).
6.2.5.
L’esercizio del diritto reale: ipotesi problematiche.
Quando l’attività del soggetto corrisponde all’esercizio di un
diritto indubbiamente reale, la fattispecie di cui all’art. 1140 c.c.
è integra.
Un dibattito si è acceso intorno ai diritti reali che non
comportano una facoltà di ingerenza per il titolare.
I problemi si presentano analoghi per le servitù negative, per
la nuda proprietà, per l’ipoteca. Una larga maggioranza degli
interpreti ammette un possesso presso chi attua la situazione del
nudo proprietario (42), ma non sono mancate in dottrina opinioni
(41) Per le ricostruzioni “alternative” accennate nel testo, cfr. NATOLI, Il possesso, cit., p. 45
ss.; ALCARO, Il possesso, cit., passim.
(42) In dottrina, cfr., ad es., A. MASI, Il possesso e la denuncia di nuova opera e di danno
temuto, in Trattato di diritto privato diretto da P. RESCIGNO, 8, Torino, 1982, 423, pp. 435-436;
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III, 6.2.5.
IL POSSESSO
381
contrarie (43). Il fronte favorevole è però ulteriormente diviso fra
chi configura un possesso mediato, tramite il titolare del diritto
reale limitato, e chi invece ammette un possesso di contenuto
ridotto, in parallelo con le ridotte facoltà di ingerenza del nudo
proprietario.
Anche per quanto riguarda le servitù negative, la dottrina è
divisa: la maggioranza ammette il possesso a titolo di servitù
negativa (44), ma è ben rappresentata l’opinione contraria (45).
Non tutta la dottrina favorevole parla la stessa lingua: qualche
autore parla di possesso mediato, altri invece richiedono che il
potere sulla cosa si esplichi direttamente attraverso intimazioni al
possessore del fondo servente. La giurisprudenza ammette senza
difficoltà il possesso di servitù negativa; richiede tuttavia che
l’astensione del possessore del fondo servente si manifesti come
dipendente dalla volontà di rispettare l’altrui possesso; considera
adeguati a tal fine o un’esplicita intimazione da parte del
possessore del fondo dominante seguita da un atteggiamento di
osservanza da parte del possessore del fondo servente, o un
titolo (46).
Anche sul possesso corrispondente al diritto di ipoteca i
pareri sono divisi. Mentre non mancano i pareri favorevoli (47),
un’ampia parte della dottrina è in questo caso contraria: se alcuni
autori sono contrari per le consuete obiezioni alla configurabilità
di un possesso senza attività (48), altri considerano decisiva la
stretta dipendenza dell’ipoteca dall’iscrizione del titolo (49).
In realtà, mancano valide obiezioni alla configurabilità di un
possesso corrispondente a diritti reali negativi. Se si considera
possessore chi ha consegnato la cosa al conduttore o al comodaTENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 12; BIANCA, Diritto civile, cit., pp. 735 ss.; in
giurisprudenza, cfr. Cass. 15 marzo 1980, n. 1735.
(43) Cfr., ad es., NATOLI, Il possesso, cit., pp. 48 ss.
(44) Cfr., ad es., DE MARTINO, Del possesso, p. 7; MASI, Il possesso, cit., pp. 436-437.
(45) Cfr., ad es., NATOLI, Il possesso, cit., pp. 63-64.
(46) Cass. 12 ottobre 1971, n. 2865; Cass. 21 aprile 1979, n. 2229, in Giur. it., 1980, I, 1,
293.
(47) Cfr. ad es. DE MARTINO, Del possesso, p. 7; TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione,
cit., p. 13.
(48) Cfr., ad es., NATOLI, Il possesso, cit., p. 62.
(49) Cfr., ad es., MASI, Il possesso, cit., p. 440.
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382
IL POSSESSO
III, 6.2.5.
tario, si ammette una figura di possessore che non esplica
personalmente nessuna ingerenza materiale nella cosa. Chi ha
orrore per l’idea di un possessore inattivo, dirà che l’attività non
si concreta solo in operazioni di carattere materiale, ma anche in
“comportamenti di ampio contenuto gestorio”, e che anche l’atto
di investitura di un terzo costituisce attività (50). Ma l’attività così
intesa “non solo in chiave materiale ma anche giuridica” non
esclude neppure il nudo proprietario. Il possessore potrà, in
dipendenza dalle figure specifiche di detenzione, riscuotere
l’eventuale canone, effettuare controlli, in talune ipotesi esplicare
limitate ingerenze nella cosa; più o meno lo stesso può ripetersi
per il nudo proprietario, a seconda dei vari diritti reali e delle
eventuali pattuizioni delle parti.
Esiste, anche per i diritti reali negativi, l’esigenza che la
situazione di fatto sia intelleggibile. Qui i comportamenti materiali sono più difficili da leggere; può mancare, e anzi di norma
manca, qualsiasi ingerenza materiale nella cosa. Ecco perché la
situazione di fatto in questi casi sarà normalmente illuminata da
un titolo; ma potrà bastare un’intimazione del possessore (di
rispettare la destinazione economica, di non costruire in violazione della servitù, etc.), cui fa acquiescenza la controparte.
Naturalmente, il possessore a titolo di nuda proprietà potrebbe realizzare alcuni atti di ingerenza materiale (ad esempio,
appropriarsi di un albero di alto fusto divelto per accidente;
oppure effettuare una riparazione). Ma sarebbe assurdo condizionare il suo possesso all’occorrenza di simili occasioni.
Il discorso è più sfumato per l’ipoteca. Per l’ipoteca è il
codice a escludere la possibilità di usucapione (gli artt. 1158-1159
parlano di “diritti reali di godimento”). Ma il fatto che l’usucapione non sia possibile non esclude il possesso; il possessore a
titolo di ipoteca potrebbe giovarsi delle azioni possessorie (il
creditore può pretendere, ai sensi dell’art. 2813 c.c., che il
debitore e i terzi si astengano dal compiere atti da cui possa
derivare il perimento o il deterioramento dei beni ipotecati).
(50) In questo senso già NATOLI, Il possesso, cit., pp. 46-47; le parole citate nel testo sono
di ALCARO, Il possesso, cit., pp. 48 ss.
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III, 6.2.5.
IL POSSESSO
383
L’argomento legato alla necessità dell’iscrizione del titolo non
sembra risolutivo, sia perché l’iscrizione è richiesta per il diritto,
ma non è detto che sia indispensabile per il possesso; sia perché
si potrebbe comunque configurare un possesso di ipoteca là dove
un titolo nullo sia stato iscritto.
In altri casi la situazione possessoria è dubbia perché dubbia
è la realità dei diritti. Ad esempio, a proposito della vendita con
riserva di proprietà navighiamo in un mare di incertezze. In
dottrina si è sostenuto che il compratore abbia: un semplice
diritto personale; un’aspettativa reale; un diritto reale innominato; una proprietà piena; un sottotipo di proprietà con contenuto ridotto; una proprietà risolubile. Se si accoglie, in una
qualsiasi delle sue variazioni, la proposta di considerare il
compratore come titolare di un diritto reale, egli sarebbe anche
un possessore (e sembra in effetti opportuno concedere la tutela
possessoria al soggetto su cui gravano i rischi). Pacificamente si
ritiene anche il venditore titolare di un diritto reale (nella tesi più
estrema, che considera il compratore come pieno proprietario, di
un diritto reale di garanzia); pertanto, anche al venditore dovrà
riconoscersi il possesso.
Un punto controverso riguarda quella situazione, che i
giuristi intermedi chiamavano diritto ad rem. La Corte di
Cassazione — fermissima, come vedremo, nel negare efficacia alle
convenzioni che vogliano trasferire il possesso senza trasferire la
proprietà — ha ritenuto compatibile con un preliminare di
compravendita un patto di immediato trasferimento del possesso,
riconoscendo alla consegna “effetti attributivi della disponibilità
possessoria, e non della mera detenzione, anche in mancanza
dell’immediato effetto reale del contratto cui il patto accede” (51);
e ha considerato possessore l’assegnatario in godimento, con
patto di futura vendita, di un alloggio di edilizia residenziale
pubblica (52). La motivazione è, nei due casi, quasi letteralmente
identica: è vero che, per stabilire se in conseguenza di una
convenzione con la quale un soggetto riceve da un altro il
(51)
(52)
Cass. 13 luglio 1993, n. 7690.
Cass. 7 luglio 2000, n. 9106.
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384
IL POSSESSO
III, 6.2.5.
godimento di un immobile si abbia possesso o mera detenzione,
occorre stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti reali
o un contratto ad effetti obbligatori; ma la ragione del principio
di diritto ora enunciato ne fissa anche il limite, “escludendone
l’applicazione alle convenzioni che, per quanto con effetti solo
obbligatori, tendono a realizzare il trasferimento della proprietà
del bene o di un diritto reale su di esso quando ad essi acceda un
immediato effetto traslativo del possesso sostanzialmente anticipatore degli effetti traslativi del diritto che, con la convenzione, le
parti si sono ripromessi di realizzare”; in tali ipotesi “la convenzione non tende solo ad attribuire il godimento del bene (…) ma
è in funzione di un comune proposito di trasferimento della
proprietà o di un diritto reale, alla quale è coerente il passaggio
immediato del possesso, che costituisce solo una anticipazione
dell’effetto giuridico finale perseguito”.
Ma esistono anche decisioni in senso contrario: la stessa
Suprema Corte ha affermato che “nel contratto preliminare ad
effetti anticipati (…) la disponibilità del bene conseguita dal
promissario acquirente ha luogo con la piena consapevolezza dei
contraenti che l’effetto traslativo non si è ancora verificato,
risultando, piuttosto, dal titolo l’altruità della cosa”; la relazione
del promissario acquirente con la cosa andrebbe dunque qualificata come semplice detenzione (53).
Sul piano logico, la soluzione più coerente ai principi è quella
che riconosce al promissario acquirente la mera detenzione. Il
creditore che ha diritto di ricevere la proprietà di una cosa
determinata è pur sempre un creditore, e non esercita il diritto
reale di cui all’art. 1140.
Sul piano pratico, le tentazioni della giurisprudenza sono
comprensibili. Può darsi che sia in atto un processo di “realificazione” del diritto del promissario acquirente, confermato
dall’introduzione dell’art. 2645-bis. Può darsi che per molti
cittadini il contratto preliminare ad effetti anticipati sia difficilmente distinguibile da un contratto definitivo.
Se la situazione attuale del promissario acquirente può
(53)
Cass. 28 giugno 2000, n. 8796; nello stesso senso, Cass. 30 maggio 2000, n. 7142.
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III, 6.2.6.
IL POSSESSO
385
lasciare insoddisfatti, però, non è possibile ricorrere a scorciatoie.
Fra l’altro, il generalizzato riconoscimento del possesso ai promissari acquirenti deve fare i conti con ipotesi problematiche:
l’affermazione si estende anche ai casi in cui il corrispettivo non
è stato pagato, o è stato pagato solo parzialmente? Si estende
anche al preliminare per persona da nominare?
6.2.6.
L’oggetto del possesso: i beni immateriali.
Da più di un secolo in Italia ci si domanda se il godimento di
beni immateriali sia possesso ai sensi dell’art. 1140.
La dottrina favorevole muove dall’ampia definizione dei beni,
qual è contenuta nell’art. 810 del codice, che si presta ad
accogliere le cose immateriali; e dalla configurabilità di un
godimento ed utilizzazione, in chiave possessoria, dei beni
immateriali, che si avrebbe quando di fatto qualcuno si trovi,
rispetto al diritto di utilizzazione, nella posizione che spetta al
titolare (54). La dottrina prevalente è contraria, non solo perché
rifiuta l’assimilazione dei diritti (assoluti) su beni immateriali ai
diritti reali, ma perché i beni immateriali “per loro natura non
sono suscettibili di quell’uso esclusivo, dal significato socialmente
univoco, che consente l’applicabilità delle norme di cui agli artt.
1140 s.s. c.c.”; la loro riproducibilità comporta che possono
essere “contemporaneamente utilizzati da più soggetti senza che
l’esercizio dell’uno impedisca quello dell’altro” (55).
La giurisprudenza sembra aperta verso il riconoscimento di
un possesso di beni immateriali, ma si è sinora espressa su singoli
problemi, senza edificare regole sicure, e non senza qualche
ripensamento.
Una sentenza assai citata della Suprema Corte ha affermato in
termini generali che “i diritti di utilizzazione economica dell’opera intellettuale hanno tutte le caratteristiche dei diritti reali”,
(54) Limitandoci alla dottrina più recente, cfr. MONTEL, Il possesso, cit., pp. 101 ss.; MASI,
Il possesso, cit., pp. 443-444; ALCARO, Il possesso, cit., pp. 149 ss.
(55) Così TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 27; nello stesso senso cfr. ad
esempio NATOLI, Il possesso, cit., pp. 85 ss.; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, 2a ed.,
Padova, 1993, I, pp. 400-401.
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IL POSSESSO
III, 6.2.6.
che “è configurabile come possesso la posizione di chi di fatto si
trovi, rispetto alle possibilità di sfruttamento economico dell’opera, nello stesso rapporto in cui si troverebbe se fosse titolare
dei rispettivi diritti”, e che pertanto va individuato nell’art. 1155
c.c. “il criterio risolutivo del conflitto tra più acquirenti dei
medesimi diritti di utilizzazione economica di un’opera di ingegno” (56).
In un’altra decisione la Cassazione ha ammesso che il diritto
dell’imprenditore sulla ditta possa essere acquistato per usucapione, vista la “natura di diritto reale su bene immateriale” che si
deve riconoscere a detto diritto; ma ha subordinato la usucapibilità
della ditta al “concorso della duplice condizione che si sia verificata
la cessazione del suo uso da parte del titolare originario e che si sia
instaurato un uso a titolo di possesso ad usucapionem da parte di
altro esercente la ditta” (57). In materia di diritto d’autore, la Suprema Corte, pur senza escludere la configurabilità di un possesso,
ha affermato che, per la peculiarità del diritto, non sono invocabili
modi di acquisto a titolo originario diversi dalla creazione, e dunque ha escluso la possibilità di acquisto per usucapione; anzi, ha
affermato esplicitamente che la configurabilità di un possesso “non
implica necessariamente l’applicabilità degli effetti del possesso
che, per i beni materiali, sono collegati all’unicità di godimento del
bene con la possibilità di possesso esclusivo e al trasferimento del
diritto di proprietà o di altro diritto reale unitamente alla consegna
della cosa; elementi questi che mancano nei trasferimenti dei diritti
sui beni immateriali” (58).
Le controversie sul possesso dei beni immateriali possono
ridimensionarsi facendo chiarezza su alcune scelte terminologiche.
Il godimento di fatto dei beni immateriali è un fenomeno ben
conosciuto al legislatore; esso pone problemi in parte simili a
quelli che nascono dal possesso di cose. Il legislatore attribuisce
certe protezioni a chi gode di fatto di beni immateriali, appli(56)
(57)
(58)
Cass. 13 novembre 1974, n. 3004.
Cass. 22 dicembre 1978, n. 6150, in Giur. It., 1980, I, 1, 321.
Cass. 24 febbraio 1977, n. 826, in Giur. It., 1977, I, 1, 1320, p. 1329.
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III, 6.2.6.
IL POSSESSO
387
cando criteri alquanto diversi dalle normali regole sul possesso.
Così l’uso in buona fede di un marchio per cinque anni, tollerato
dal titolare di un marchio anteriore o di un diritto di preuso,
preclude l’azione di nullità (art. 48, r.d. 21 giugno 1942, n. 929).
Chiunque nel corso dei dodici mesi anteriori alla data di deposito
della domanda di brevetto abbia fatto uso nella propria azienda
dell’invenzione può continuare a usarne nei limiti del preuso (art.
6, r.d. 29/06/1939, n. 242). La legge sul diritto d’autore parla
espressamente di possesso (art. 167, l. 22 aprile 1941, n. 633); i
diritti di utilizzazione economica riconosciuti dalla legge possono
essere fatti valere giudizialmente “da chi si trovi nel possesso
legittimo dei diritti stessi” (attraverso i rimedi previsti dalla legge
stessa negli art. 156 ss.). Qualche autore ha tratto dalla disposizione un argomento testuale a sostegno della configurabilità del
possesso; ma l’argomento è reversibile, perché il legislatore parla
non del possesso di una cosa, ma del possesso di un diritto (non
parla di possesso dell’opera dell’ingegno) e dunque non allinea il
proprio linguaggio a quello degli artt. 1140 ss. c.c. Del resto,
l’uso, da parte del legislatore, del termine “possesso” non
garantisce l’identità concettuale col possesso di cui agli artt. 1140
ss. (basti pensare al “possesso dello stato di figlio legittimo” di cui
agli artt. 236 ss. c.c.). La protezione di chi si trova nel possesso
legittimo dei diritti non è poi affidata alle azioni possessorie; ed
anzi, parificando il possessore legittimo al titolare, la legge fa una
scelta asimmetrica rispetto a quella compiuta disciplinando il
possesso delle cose corporali.
Lo stesso fatto che il legislatore abbia dettato numerose
regole in tema di godimento di fatto di beni immateriali induce
alla cautela rispetto alla proposta di estendere le regole di cui agli
artt. 1140 ss.
Il fenomeno del godimento di fatto dei beni immateriali
presenta sicuramente alcune analogie col possesso di cose materiali. Il problema, allora, non è se si possa parlare, in un qualche
senso, di possesso. Nessuno ha difficoltà a vedere le “somiglianze
di famiglia” tra il possesso di cui all’art. 1140, il possesso di stato
di figlio legittimo, il possesso di beni immateriali. Il problema è se
al godimento di fatto dei beni immateriali si possano applicare le
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388
IL POSSESSO
III, 6.2.6.
regole sul possesso elaborate dalla nostra tradizione e precipitate
negli artt. 1140 ss.
Sul punto anche la dottrina favorevole al possesso dei beni
immateriali è cauta. Si avverte che “l’ipotizzabilità di un tale
possesso non implica necessariamente che tutte le norme dettate
dal codice civile in materia di possesso siano, per ciò solo, sic et
simpliciter, applicabili al possesso dei diritti di utilizzazione” (59);
che la peculiarità dei beni immateriali risulta “non del tutto in
linea con la integrale disciplina del possesso dettata dal codice” (60). E, come si è visto, la giurisprudenza a sua volta non
esclude il possesso ma non applica automaticamente le regole di
cui agli artt. 1140 ss.
Non sembra che ci sia molto da guadagnare, allora, da
un’omologazione dogmatica tra fenomeni diversi e che pongono
problemi diversi. Non è proibito parlare di possesso, così come si
parla di proprietà intellettuale o industriale; ma non si tratta del
possesso di cui agli agli artt. 1140 ss. (così come non si tratta della
proprietà di cui agli artt. 832 ss.). Il ricorso all’analogia non è
ovviamente vietato, ma deve essere costruito e argomentato
partendo dai problemi peculiari dei singoli beni immateriali,
verificando che il legislatore non abbia previsto delle soluzioni
specifiche, dimostrando, in caso di lacune, che i problemi
possono essere efficacemente risolti facendo ricorso alle regole
sul possesso delle cose materiali.
Si attaglia perfettamente al nostro problema quanto è stato
detto più in generale sulla tentazione di applicare affrettatamente
gli schemi proprietari a realtà diverse dalle cose materiali: “nella
nostra tradizione giuridica (…) la disciplina dei diritti reali è stata
forgiata e pensata come un insieme di regole coerenti per
governare la circolazione e la tutela dei diritti sulle cose corporali.
Questo tipo di disciplina non può essere trasferita sic et simpliciter a regolare fenomeni assai diversi” (61).
(59) MONTEL, Il possesso, cit., p. 102.
(60) ALCARO, Il possesso, cit., p. 161.
(61) A. GAMBARO, La proprietà, in Trattato di diritto privato a cura di G. IUDICA e P. ZATTI,
Milano, 1990, p. 38.
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III, 6.2.7.
IL POSSESSO
6.2.7.
389
L’oggetto del possesso: l’energia elettrica, le trasmissioni radiotelevisive.
Le conclusioni raggiunte sui beni immateriali si estendono, in
buona misura, a beni che non sono immateriali ma sono molto
diversi dalle cose materiali che sono tradizionalmente oggetto di
proprietà e possesso.
Gli interpreti hanno giocato a lungo con l’idea di concedere
una tutela possessoria all’utente nella distribuzione di energia
elettrica, facendo così assurgere a spoglio il rifiuto del somministrante di proseguire l’erogazione (62). Dopo qualche sussulto, la
giurisprudenza si è assestata sull’idea che, poiché il possesso
inizia con la consegna, che avviene “con l’immissione dell’energia
in quella parte della rete sulla quale l’utente esercita, nel proprio
interesse, un potere di fatto”, mentre prima l’energia soggiace al
potere dell’impresa fornitrice, “un attentato al possesso è (…)
ipotizzabile soltanto quando l’atto che interrompe l’erogazione
dell’energia elettrica avvenga nella parte dell’impianto che (…) si
trova nel luogo o nella cosa posseduta dall’utente” (63). La
dottrina ha parlato, con qualche ragione, di impostazione “ipocrita”, perché la ratio decidendi “scolora in quella, sottaciuta ma
certamente presente, di possesso d’impianto” (64); ma, almeno a
parole, la giurisprudenza ha continuato per lungo tempo a
ritenere configurabile lo spoglio di energia elettrica.
La vecchia, ed equivoca, impostazione giurisprudenziale è
stata poi superata da una decisione della Suprema corte, che ha
operato una ricostruzione attenta della materia, e una feconda
riflessione sui limiti più generali della equiparazione delle energie
alle cose materiali (65).
La Corte ha sottolineato che la disponibilità dell’energia
elettrica da parte del somministrato presuppone la continua
cooperazione dell’ente somministrante, sicché l’utente non è un
possessore, ma un semplice creditore. “Una situazione assimila(62)
1991, 444,
(63)
(64)
(65)
Per una ricostruzione, cfr. R. PARDOLESI, voce Energia, in Digesto civ., VII, Torino,
pp. 446 ss.
Così Cass. 22 giugno 1968, n. 2084.
PARDOLESI, voce Energia, cit., p. 446.
Cass. 3 settembre 1993, n. 9312, in Foro it., 1995, I, 322.
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390
IL POSSESSO
III, 6.2.7.
bile al possesso è ravvisabile soltanto nel momento in cui l’energia
somministrata (…), diviene oggetto di effettiva, materiale apprensione da parte dell’utente”. Ma “l’atto di apprensione dell’energia, in ragione della natura di questa, ne comporta il contestuale
consumo (salva l’ipotesi dell’apprensione a fini di accumulo, in
apparecchiatura apposita)”.
Se l’atto di apprensione è il momento di instaurazione del
possesso dell’energia elettrica, “ne consegue che l’interruzione
dell’erogazione effettuata dal fornitore è suscettiva soltanto di
impedire il sorgere del possesso sull’energia non erogata, e non
anche di integrare spoglio dell’energia già erogata, in quanto
consumata”.
Ne consegue che “pur potendosi riconoscere la sussistenza
del possesso dell’energia elettrica, deve concludersi che esso si
presenta con connotati peculiari, tali da renderlo non suscettivo
di tutela ex art. 1168 c.c.”. E ciò in applicazione del principio più
generale secondo cui, pur essendo le energie, ai sensi dell’art. 814
c.c., “considerate” beni mobili, l’estensione ad esse della tutela
predisposta per i beni mobili deve avvenire “compatibilmente
con le peculiarità che le energie presentano”.
Come si è detto in dottrina, l’art. 814 c.c. deve essere inteso
come una disposizione che facoltizza l’interprete “a considerare
le energie come beni mobili, superando i dubbi che nascono sul
piano della fisica, purché si accerti che l’inquadramento in schemi
di appartenenza è adeguato”; “la tendenza ad adagiarsi sulla
lettera del codice e a considerare l’equiparazione tra energie e
beni un ordine del legislatore anziché una facoltà data agli
interpreti” inverte il cammino concettuale e crea “una tutela
possessoria debordante e irrazionale” (66).
Tale pericolo è perfettamente esemplificato dalla giurisprudenza che si è formata in materia di trasmissioni radiotelevisive.
Si domanda se l’attività di chi trasmette su un determinato
“canale” (cioè mediante onde elettromagnetiche di una data
frequenza) sia difesa, in via possessoria, contro colui che prenda
a trasmettere su quel medesimo canale, deturpando immagini e
(66)
GAMBARO, La proprietà, cit. pp. 28-29.
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III, 6.2.7.
IL POSSESSO
391
suoni prodotti e trasmessi dal primo operatore. Il problema è
nato in un momento di assenza di un piano di ripartizione, in
quella situazione che veniva definita come “far west dell’etere”, in
cui, all’indomani della sentenza della Corte costituzionale n. 202
del 1976, i privati si sono mossi in un quadro di sostanziale vuoto
normativo, e la giurisprudenza si è trovata a cercare strumenti
idonei a risolvere i conflitti. Anche in considerazione della
maggiore celerità della tutela possessoria, la giurisprudenza è
stata chiamata a pronunciarsi su numerose domande di reintegrazione nel possesso esperite dagli imprenditori; dopo momenti
di incertezza, ha optato con decisione per la risposta positiva.
Le ricostruzioni proposte sono state diverse. Limitiamoci ai
percorsi argomentativi più diffusi. Secondo alcune pronunce, le
onde elettromagnetiche costituiscono una forma di energia, da
considerare come “un bene mobile economico che può essere utilizzato direttamente dalla azienda produttrice”; e pertanto “allorché un soggetto disponga di un impianto che gli consente di diffondere i programmi di una determinata zona e su una determinata
frequenza d’onda, esercita un potere di fatto corrispondente al
diritto di proprietà sulla energia elettromagnetica (…) e se tale
esercizio viene impedito mediante sovrapposizione di segnali provenienti da altra emittente, si verifica indubbiamente la turbativa
o lo spoglio in danno del precedente possessore” (67).
Secondo un’altra impostazione, pur costituendo le onde
elettromagnetiche una forma di energia, da ricomprendersi tra i
beni mobili sulla base dell’art. 814, “si tratta pur sempre di res
non obiettivamente isolabili che, per la loro astrattezza, non
possono essere oggetto di possesso indipendentemente dagli
impianti da cui promanano”; “il possesso delle energie in
questione, quindi, è tutt’uno col possesso dei supporti che le
emanano e riceve tutela piuttosto come aspetto della più articolata situazione di possesso dei beni della emittente televisiva,
intesa come il complesso delle apparecchiature che costituiscono
l’azienda di diffusione di programmi televisivi” (68).
(67)
(68)
Così Cass. 19 aprile 1991, n. 4243.
Così Cass. 28 aprile 1993, n. 4999.
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392
IL POSSESSO
III, 6.2.7.
Dunque, giungendo a risultati identici, la giurisprudenza
parla ora di possesso dell’energia, ora di possesso dell’azienda.
Se un consistente filone dottrinale si è pronunciato, fin
dall’inizio, contro la configurabilità di un possesso facente capo
all’operatore (69), altra dottrina ha accolto con favore l’idea di una
tutela possessoria, spesso proponendo ricostruzioni alternative a
quelle della giurisprudenza. Così, parte della dottrina, muovendo
dalla ricostruzione dell’etere come bene pubblico, preferisce
parlare di possesso dell’etere e richiamare l’art. 1145 c.c. (70).
I tentativi di giustificare una tutela possessoria in materia di
trasmissioni radiotelevisive sono deboli sul piano logico, e insoddisfacenti sul piano dei risultati concreti.
Sgombriamo innanzitutto il campo dalla figura del possesso
dell’etere. L’etere non è nulla di reale, è un modo di dire. Fino al
XIX secolo i fisici ritenevano che qualcosa — l’etere, appunto —
dovesse riempire tutto lo spazio ed essere presente negli interstizii fra le particelle materiali, per rendere possibile il propagarsi
della luce e dei fenomeni elettromagnetici. Invece oggi danno per
sicuro che l’etere non fa parte dell’esistente. Quando adoperano
quella parola, con essa vogliono solo indicare che entro quel
confine non hanno trovato nulla.
Quando si dice che il legislatore ha demanializzato l’etere, si
usa un espressione figurata; il legislatore non ha demanializzato
un bene, ha regolato l’attività umana di radiodiffusione. Il fatto
che lo Stato (nel senso di ordinamento giuridico) disponga in
merito a un bene e al suo godimento non significa affatto che lo
Stato (nel senso di soggetto di diritto) abbia un diritto proprietario sul bene.
Il discorso non può vertere sull’etere, ma deve rivolgersi alle
onde elettromagnetiche, che sono (meglio: generano) una energia. Ma la ricostruzione di una tutela possessoria delle onde
elettromagnetiche è a sua volta impervia.
L’interferenza nell’onda non sottrae all’emittente alcun po(69) Cfr. ad es., SACCO, Il possesso, cit., pp. 121 ss.; PARDOLESI, voce Energia, cit., p. 447;
TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 26; TROISI e CICERO, I possessi, cit., pp. 37 ss..
(70) In questo senso GALGANO, Diritto civile, cit., p. 400; F. SCAGLIONE, Possesso dell’etere e
tutela del canale televisivo, Padova, 2000.
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III, 6.2.7.
IL POSSESSO
393
tere nel momento dell’interferenza. La vittima non ha più un
potere sull’energia, una volta che l’ha prodotta; emettere le onde
significa rilasciarle, non avere più un controllo fisico su di esse.
Anche l’idea di una tutela delle onde, o del canale, come
parte dell’azienda lascia molte perplessità. Le onde elettromagnetiche sono prodotte, emanate, rilasciate attraverso le apparecchiature che costituiscono l’azienda; basta a dire che fanno parte
dell’azienda? E basta a dire che l’imprenditore ha un potere su di
esse una volta emanate?
Quanto al canale, esso non è una cosa, e neppure un’energia:
trasmettere su un canale significa semplicemente trasmettere
onde con una determinata frequenza. La stessa Corte di cassazione ha riconosciuto che il canale “rappresenta soltanto la
caratteristica di identificazione dell’onda elettromagnetica utilizzata e costituisce perciò una entità astratta” (71).
Si è detto che la tutela possessoria si rivela anche praticamente inadeguata. Di fatto, la giurisprudenza parla di possesso;
ma applica a questo possesso regole inusuali.
In un caso deciso dalla Corte di Cassazione l’attore aveva
posto in essere una attività strumentale, preordinata al semplice
accaparramento della frequenza (trasmissione ripetitiva di due
brani musicali). La Corte, sulla base della “stretta connessione”
tra tutela possessoria delle trasmissioni radiotelevisive ed espressione del pensiero, “in ragione della quale può affermarsi che il
primo è in funzione della seconda”, ha sostenuto che “la mera
occupazione della frequenza non finalizzata alla realizzazione di
alcuna espressione di pensiero, ma attuata al solo scopo di
precludere ad altri l’accesso al medesimo spazio, dà luogo (…) ad
un potere non corrispondente ad alcun diritto e fa conseguentemente mancare i presupposti di una situazione possessoria
tutelabile” (72). Non è difficile constatare che la decisione applica
criteri lontanissimi dalle normali regole in materia di possesso, a
cui è estraneo un controllo di meritevolezza sull’utilizzo del bene.
L’applicazione delle regole sul possesso, allora, non solo
(71)
(72)
Cass. 19 aprile 1991, n. 4243.
Cass. 19 aprile 1991, n. 4243.
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394
IL POSSESSO
III, 6.2.7.
comporta grandi forzature logiche, ma si rivela (comprensibilmente) inadeguata a problemi così lontani da quelli per cui sono
state forgiate.
Le esigenze che hanno dato vita alla giurisprudenza citata
possono trovare risposte diverse, che consentano alle corti anche
di modellare regole adatte alla peculiarità della materia (attraverso gli strumenti della concorrenza sleale, della responsabilità
aquiliana, e, per le esigenze di tutela celere, dell’art. 700 c.p.c.).
6.2.8.
Gli elementi incompatibili: l’altrui tolleranza.
In virtù dell’art. 1144 c.c., gli atti compiuti con l’altrui
tolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto del
possesso.
Secondo una massima consolidata, gli atti compiuti con
l’altrui tolleranza, o atti di tolleranza, “traendo origine dall’altrui
condiscendenza o da rapporti di familiarità, amicizia o buon
vicinato, implicano, di regola, un elemento di transitorietà e
saltuarietà” (73); ancor più perentoriamente, si afferma che gli atti
di tolleranza “sono quelli che, implicando un elemento di
transitorietà e saltuarietà, comportano un godimento di modesta
portata, incidente molto debolmente sull’esercizio del diritto da
parte dell’effettivo titolare o possessore” (74).
Da questa definizione la giurisprudenza fa discendere che,
nell’indagine diretta a stabilire se una attività sia stata compiuta
con l’altrui tolleranza, la lunga durata dell’attività medesima
integra un elemento presuntivo nel senso dell’esclusione della
tolleranza; ciò, almeno, qualora si verta in tema di rapporti non di
parentela, ma di buon vicinato, “tenuto conto che nei secondi, di
per sé labili e mutevoli, è più difficile il mantenimento di quella
tolleranza per un lungo arco di tempo” (75). La lunga durata
dell’attività non può, invece, integrare un elemento presuntivo in
presenza di vincoli di stretta parentela, “nei quali è ben plausibile
(73) In questi termini, Cass. 27 maggio 1994, n. 5191; Cass. 8 febbraio 1996, n. 1015.
(74) Così Cass. 22 maggio 1990, n. 4631.
(75) Così Cass. 3 agosto 1996, n. 8498. Nello stesso senso, fra le molte, Cass. 22 maggio
1990, n. 4631; Cass. 27 maggio 1994, n. 5191; Cass. 3 febbraio 1998, n. 1042.
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III, 6.2.8.
IL POSSESSO
395
il mantenimento di un atteggiamento tollerante anche per un
lungo arco di tempo” (76). Una decisione ha ritenuto che la lunga
durata dell’attività non possa integrare un elemento presuntivo
quando “l’atteggiamento del proprietario trovi giustificazione
nella mancanza di un interesse ad opporsi ad un determinato uso
che del bene facciano i terzi” (77).
Sarebbe invece incompatibile con la tolleranza ogni modifica,
anche modesta, dello stato dei luoghi, e ciò anche in presenza di
vincoli di parentela (78).
Il codice alla lettera richiede la tolleranza altrui, non la
consapevolezza della tolleranza da parte di chi pone in essere
l’ingerenza, e ancora meno l’animo di approfittare dell’altrui
tolleranza. Ma la giurisprudenza saltuariamente afferma che gli
atti di tolleranza sono caratterizzati non solo dall’animus di chi
tollera (mera permissione), ma anche dall’animus di chi è tollerato (“consapevolezza della inidoneità della permissione a far
sorgere a favore di esso utente un qualsiasi potere incompatibile
con quello del permittente” (79)); ovvero che la tolleranza è
caratterizzata dalla accondiscendenza del dominus “manifestata
al destinatario, in modo che quest’ultimo ne abbia consapevolezza e (…) abbia sempre presente l’eventualità e la legittimità di
un sopravveniente divieto” (80).
Il percorso logico seguito dalla giurisprudenza non è inattaccabile.
Innanzitutto, è arbitrario identificare nella benevolenza
l’unico motivo per cui si tollera l’ingerenza altrui. Tollerato è
quasi sinonimo di sopportato. Le ingerenze tollerate sono tutte
quelle ingerenze che un possessore non vuole, ma non vieta.
I motivi per tollerare sono numerosi. La tolleranza non è
necessariamente benevola. Io tollero l’ingerenza di mio fratello,
(76) Così Cass. 18 giugno 2001, n. 8194. Vedi anche, obiter, Cass. 3 febbraio 1998, n. 1042.
(77) Cass. 11 febbraio 1998, n. 1384 (uso saltuario per il parcheggio di un’area scoperta; la
Corte ha evidenziato che l’uso non era limitato agli attori, che sostenevano di essere possessori, ma
era aperto a qualunque terzo).
(78) Cfr. Cass. 25 febbraio 1986, n. 1185 (l’attore aveva costruito una baracca, incorporata
al suolo da malta cementizia, che sconfinava di 50 cm sul terreno del fratello).
(79) Così Cass. 10 aprile 1986, n. 2497.
(80) Così Cass. 1 dicembre 1997, n. 12133.
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396
IL POSSESSO
III, 6.2.8.
per generosità; ma posso tollerare l’ingerenza del mio vicino, che
è anche un mio buon cliente, per interesse.
Può darsi che alla base della tolleranza ci siano relazioni di
reciprocità. Tollero che il vicino parcheggi sul mio terreno,
perché so che il vicino tollera la mia abitudine di suonare la
batteria fino a tarda notte.
Altre volte tollero semplicemente perché temo reazioni polemiche o fastidiose da parte dell’intruso, e, scegliendo fra due
mali, preferisco sopportare e sperare che il comportamento
invadente cessi spontaneamente. Ancora, posso tollerare perché
temo le sanzioni sociali che colpirebbero una reazione giudicata
eccessiva o ingenerosa.
Una ricostruzione più realistica delle possibili ragioni della tolleranza smentisce l’idea che l’ingerenza tollerata deve essere una
ingerenza saltuaria e transitoria. Questa idea, a sua volta, conduce
a esiti poco conformi ai comuni canoni dell’interpretazione.
La dottrina più attenta si è accorta da tempo che, nella lettura
della giurisprudenza, l’art. 1144 finisce col diventare inutile. “Vengono contemplate come ipotesi di tolleranza situazioni che non
presentano le caratteristiche richieste per potere essere qualificate
come possesso. Conseguentemente l’art. 1144 non troverebbe mai
effettiva applicazione, poiché difettando gli atti tollerati delle caratteristiche richieste per potere condurre al possesso sarebbe superfluo invocare la disposizione in esame” (81). L’ingerenza saltuaria e transitoria, posta in essere da un agente che non intende
attuare un autonomo potere di fatto, difficilmente potrebbe essere
considerata possesso, a prescindere dall’art. 1144.
Parte della dottrina, pur criticando sul piano logico l’orientamento della giurisprudenza, finisce per giudicarne favorevolmente i risultati (82), sulla base di esigenze di certezza nello
svolgimento dei rapporti giuridici e del favore dell’ordinamento
per chi utilizza i beni in senso produttivo. Ad esempio l’efficacia
dell’istituto dell’usucapione “risulterebbe affievolita se il titolare
(81) Così S. PATTI, Profili della tolleranza nel diritto privato, Napoli, 1978, p. 23.
(82) Cfr., ad esempio, PATTI, Profili della tolleranza, cit., pp. 27 ss.; TENELLA SILLANI, voce
Possesso e detenzione, cit., p. 36.
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III, 6.3.1.
IL POSSESSO
397
del diritto potesse provare, dopo il compimento del termine
stabilito dalla legge, che l’effettiva disposizione del bene da parte
del terzo è dovuta alla sua tolleranza” (83).
Le argomentazioni addotte a sostegno dell’orientamento
giurisprudenziale sono serie, ma devono essere bilanciate con la
consapevolezza dei rischi che esso comporta. Quando il legislatore stabilisce che gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non
servono di fondamento all’acquisto del possesso, incentiva il
proprietario a tollerare tutte quelle ingerenze che non ha un
interesse attuale a respingere, fiducioso di poter in ogni momento
ripristinare la situazione precedente. Attraverso la tolleranza si
può realizzare una rete di scambi informali, mutuamente benefici,
che presuppongono la libera revocabilità della tolleranza. Non
ammettere che l’art. 1144 si applichi anche ad ingerenze di una
certa importanza significa in effetti scoraggiare la tolleranza.
6.3.
Gli elementi della detenzione.
6.3.1.
La detenzione.
Non c’è detenzione se non c’è potere di fatto sulla cosa; ma
non qualunque potere di fatto è detenzione tutelata. Il cliente del
ristorante, l’alunno della scuola sarebbero detentori tutelabili se
ogni ingerenza integrasse una detenzione.
Come vedremo, la tutela possessoria si estende al detentore.
La protezione possessoria comporta un divieto di ricorrere ai
mezzi energici per far cessare la detenzione che si prolunga
indebitamente. Per non paralizzare completamente la vita sociale,
si fissa una soglia al di sotto della quale il potere di fatto sulla cosa
non assurge a detenzione.
Poiché la detenzione non è mai definita dal legislatore se non
come potere di fatto al servizio di un possessore (art. 1140, 2°
comma), la dottrina considera detenzione quel potere di fatto
“che si caratterizza in modo da poter integrare l’elemento
(83)
PATTI, Profili della tolleranza, cit., p. 27.
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398
IL POSSESSO
III, 6.3.1.
oggettivo del possesso” (84); o, con maggiore precisione, quel
potere di fatto che può “costituire di per sé (senza bisogno di
integrarsi con il potere di fatto, eterogeneo, di altre persone)
l’elemento materiale di un possesso” (85). Perciò non sono
detentori né il cliente seduto al tavolo del ristorante, né l’alunno
seduto al banco per seguire la lezione.
Il discorso, peraltro, si intreccia con quello della detenzione
per ragione di servizio o di ospitalità, su cui torneremo fra breve.
Un tema controverso è quello della detenzione mediata. Resta
detentore colui che si sia svestito del potere di fatto sulla cosa,
affidandola ad un depositario, ad un sub-conduttore, ad un
vettore, etc.? In altre parole: resta detentore colui che, senza
animo di attuare un diritto reale proprio, si trova nella posizione
di fatto corrispondente a quella del possessore indiretto?
La dottrina è divisa (86).
La giurisprudenza più recente riconosce come detentore il
conduttore che lasci precariamente la disponibilità della cosa al
locatore (di solito, per consentirgli di eseguire delle riparazioni) (87). In passato, la giurisprudenza aveva però escluso che il
sublocatore resti detentore (88).
C’è almeno un caso in cui sembrerebbe doversi riconoscere
che il detentore è tale in virtù di un potere di fatto non suo. Come
vedremo a suo tempo, il detentore, che sia tale per ragioni di
servizio o ospitalità, non può intentare l’azione di reintegrazione.
Tutti concordano nell’idea che, in un simile caso, la protezione
interdittale competa a chi controlla il servizio o all’ospitante —
sia egli possessore o semplice detentore. Nel secondo caso,
avremo una detenzione mediata, perché ad esercitare un potere
di fatto sarà il detentore per ragioni di servizio od ospitalità.
(84) TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 18 (sulla scia di R. SACCO, Il
possesso, la denuncia di nuova opera e di danno temuto, in Trattato di diritto civile diretto da G.
GROSSO e F. SANTORO-PASSARELLI, Milano, 1960, p. 47 e di altri autori).
(85) R. SACCO, Il possesso, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. CICU
e F. MESSINEO, continuato da L. MENGONI, Milano, 1988, p. 142.
(86) Fra gli autori contrari, si veda, ad esempio, NATOLI, Il possesso, cit., pp. 136-137; fra
gli autori favorevoli, MONTEL, Il possesso, cit., p. 75.
(87) Cass. 6 settembre 1995, n. 9381; Cass. 1 settembre 1994, n. 7621; Trib. Roma, 11
marzo 1999, in Foro it., 1999, I, 3081.
(88) Cass. 17 gennaio 1951, n. 127; Cass. 30 luglio 1951, n. 2252.
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III, 6.3.2.
IL POSSESSO
399
Non si vedono ragioni per non generalizzare la regola che consente al detentore di restare tale senza esercitare direttamente un
potere di fatto. La soluzione opposta creerebbe delle remore al
detentore che si trovi a dover lasciare temporaneamente, per le
ragioni più svariate, la disponibilità della cosa al possessore o ad
un terzo.
Secondo la impostazione tradizionale, la detenzione è assistita
da due elementi psicologici. Il primo, chiamato “animus detinendi”, è il generico intento di tenere la cosa in proprio potere,
per qualsiasi fine, anche limitato alla custodia. Il secondo è
l’intenzione di attuare un diritto reale altrui (il diritto reale del
possessore), a cui si dà il nome di “riconoscimento di un diritto
poziore altrui”, o di “laudatio possessoris” (89).
6.3.2.
Il titolo del detentore.
Secondo una giurisprudenza che appare ormai consolidata,
mentre chi invoca il possesso può allegare l’eventuale titolo solo
ad colorandam possessionem (90), chi invoca la tutela possessoria
in quanto detentore qualificato ha l’onere di provare il titolo da
cui la detenzione deriva (91).
Spesso la giurisprudenza (in obiter) richiede addirittura la
validità del titolo (92); altre volte invece precisa che l’attore non è
tenuto a dimostrare la validità ed efficacia del rapporto (93).
La giurisprudenza si è spinta sino ad affermare che “la
posizione lato sensu possessoria del soggetto che assuma essere
detentore qualificato non ha una sua rilevanza oggettiva, che
l’ordinamento le riconosca come autonoma ed indipendente
(89) V. per tutti MONTEL, Il possesso, cit., p. 53 ss.
(90) Cioè per rafforzare la prova del possesso e illuminare una condotta materiale
eventualmente enigmatica.
(91) Cass. 9 ottobre 1991, n. 10606; Cass. 3 marzo 1994, n. 2111; Cass. 17 giugno 1996, n.
5555; Cass. 7 febbraio 1998, n. 1299; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10477; Cass. 16 agosto 2000 n.
10816.
(92) Cass. 17 giugno 1996, n. 5555; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10477; Cass. 16 agosto 2000
n. 10816.
(93) Cass. 9 ottobre 1991, n. 10606; Cass. 3 marzo 1994, n. 2111.
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400
IL POSSESSO
III, 6.3.2.
rispetto al diritto personale d’origine contrattuale dal quale essa
deriva” (94).
In tal modo la giurisprudenza, che pure a parole si mantiene
fedele alla teoria soggettiva, spezza innegabilmente una lancia a
favore della tesi secondo cui il criterio di distinzione tra possesso
e detenzione deve fondarsi non sull’animus ma sul titolo (95).
Parte della dottrina approva (96), anche sulla base della
considerazione che ammettendo che la detenzione possa acquistarsi in mancanza di un titolo “si arriverebbe ad una ulteriore
frantumazione dei poteri proprietari ad esclusiva opera di
terzi” (97).
Oltre a richiamare le considerazioni già svolte contro la
sostituzione del titolo all’intento, si deve osservare che i benefici
di un orientamento che neghi tutela a chi detiene sulla base di
un titolo invalido sono dubbi. Perché consentire al terzo che ha
commesso uno spoglio di opporre la invalidità del titolo? E se
convenuto è il possessore, perché non dovrebbe far valere la
invalidità del contratto nella sede appropriata, invece di spogliare e poi pretendere che la invalidità sia accertata incidentalmente?
Una volta chiarito che anche il titolo invalido è sufficiente, i
risultati concretamente raggiunti dalla giurisprudenza si possono
in molti casi condividere, anche se non se ne condivide l’iter
argomentativo.
Osservando da vicino le sentenze citate, si può osservare che
talvolta il preteso detentore si era limitato ad ingerenze saltuarie
nel bene (98); in un caso, il preteso detentore aveva svolto attività
nell’immobile come istruttore di judo per conto di una società
sportiva comodataria (99); in un altro caso, in effetti era stato
provato che l’attore non aveva concluso una locazione, bensì una
(94) Così Cass. 22 ottobre 1998, n. 10477.
(95) Vedi supra § 6.2.3.
(96) Cfr. G. LIOTTA, Situazioni di fatto e tutela della detenzione, Napoli, 1983, p. 43; ALCARO,
Il possesso, cit., p. 88.
(97) LIOTTA, op. loc. ult. cit.
(98) Cass. 16 agosto 2000, n. 10816.
(99) Cass. 22 ottobre 1998, n. 10477.
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III, 6.3.3.
IL POSSESSO
401
semplice compravendita di erbe, incompatibile con la detenzione
qualificata (100).
Abbiamo già sottolineato l’importanza del titolo per leggere
condotte altrimenti enigmatiche.
Chi non pretende di essere possessore, ma detentore, normalmente agisce sulla base di un titolo (sia pure invalido). Se
qualcuno riconosce un altro come possessore, ma non è in grado
di indicare a che titolo detiene, è legittimo sospettare che eserciti
un potere di fatto tollerato, o una detenzione per ragione di
servizio o ospitalità.
6.3.3.
La detenzione autonoma, la detenzione qualificata.
L’art. 1168 c.c. distingue dalla generica figura del detentore
colui che ha il potere di fatto per ragione di servizio o di
ospitalità, e nega a tale soggetto la tutela possessoria. Il codice
distingue cioè tra il detentore, di solito detto qualificato, munito
di azione, e il detentore per ragioni di servizio o ospitalità, non
munito di azione.
La giurisprudenza ha coltivato però una ulteriore distinzione,
a seconda che il soggetto detenga per interesse proprio oppure
per interesse altrui.
Si è così precisato che “l’azione di reintegra compete (…)
tanto (…) al detentore qualificato (la cui detenzione è collegata
ad un interesse proprio, come il conduttore, il creditore pignoratizio, ecc.), quanto ai detentori non qualificati, che hanno un
potere diretto sulla cosa in nome e per un interesse altrui, quali
i gestori e gli amministratori, ma è esclusa la potestà di agire nei
confronti di coloro in nome e per conto dei quali posseggono o
detengono” (101).
In tal modo si individuano tre figure di detentori:
— il detentore qualificato, munito di azione verso tutti;
(100) Cass. 7 febbraio 1998, n. 1299.
(101) Cass. 26 ottobre 1965, n. 2279, in Foro it., 1966, I, 676, p. 679; nello stesso senso,
Cass. 30 marzo 1951, n. 703, in Foro it., 1951, I, 549; Cass. 23 marzo 1954, n. 829, in Giust. civ.,
1954, 690; Cass. 29 ottobre 1974, n. 3276; Cass. 9 gennaio 1980, in Giur. It., 1980, I, 1, 792 (in
obiter, perché il detentore agiva contro terzi).
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402
IL POSSESSO
III, 6.3.3.
— il detentore non qualificato, ma autonomo, diverso dall’ospite e dal servitore ma sprovvisto di un interesse proprio,
munito di azione verso i terzi, ma non verso il possessore;
— il detentore per ragioni di servizio o ospitalità, sprovvisto
di azione.
La giurisprudenza ha considerato detentori nell’interesse
altrui i gestori e gli amministratori, i mandatari, i depositari.
La tripartizione, priva di fondamento nella legge e incerta nei
confini, ha raccolto molte critiche in dottrina (102), e sembra
essere scomparsa nella giurisprudenza più recente.
La distinzione, così come concretamente applicata dalla
giurisprudenza, muove d’altra parte da una concezione incomprensibilmente restrittiva dell’interesse proprio a detenere. Il
vettore, il mandatario, il depositario sono assistiti da privilegio, e
da diritto di ritenzione (art. 2761 c.c.); essi detengono anche per
esercitare una garanzia, e un interesse personale non può essere
loro negato.
L’orientamento prevalente (almeno in dottrina) si limita
dunque a distinguere tra i detentori qualificati e i detentori per
ragioni di servizio o di ospitalità. Sui confini tra le due categorie
non esiste unanimità di soluzioni.
La Commissione reale aveva inizialmente proposto di negare
l’azione di reintegrazione “a chi tenga le cose per ragioni di
servizio, che implichino rapporti di subordinazione, o per ospitalità” (art. 555).
Nella relazione al progetto, si spiegava che l’azione era
concessa al detentore autonomo “di ogni specie, anche, dunque,
se nell’interesse altrui” perché “in causa delle responsabilità che
gli incombono, è opportuno dargli un mezzo pronto per riavere
la cosa”; “non invece a quello non autonomo, e ciò perché, nei
casi in cui lo spoglio è opera del possessore, essa non sarebbe
giustificata, non avendo il detentore non autonomo alcun diritto
nei riguardi della persona, nel cui nome possiede; se lo spoglio è
(102) Cfr., ad esempio, NATOLI, Il possesso, cit., p. 140; MASI, Il possesso, cit., pp. 469-470;
SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp. 190-191.
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III, 6.3.3.
IL POSSESSO
403
opera di terzi, non è sembrato conveniente lasciare tale iniziativa
ad un operaio, apprendista, domestico o commesso” (103).
La relazione dunque individuava due diverse ragioni per
negare l’azione di reintegrazione, a seconda che lo spoglio sia
opera del possessore o di un terzo; e ciò ha in qualche modo
legittimato la tripartizione già descritta, che pure nel progetto e
nella relazione non è espressamente configurata. Identificava,
inoltre (in armonia con il progetto) i detentori per ragioni di
servizio con lavoratori subordinati addetti a modeste funzioni.
Nel Codice civile l’inciso “che implichino rapporti di subordinazione” scompare. Tuttavia, secondo una opinione assai
diffusa nella dottrina meno recente “la, pur inappropriata,
espressione, delle ‘ragioni di servizio’ è rimasta a significare, in
senso convenzionale, solo i casi di più circoscritte e più modeste
qualifiche e funzioni nella gerarchia dei rapporti di lavoro” (104);
anzi, in questa prospettiva l’azione di spoglio non sarebbe
preclusa agli alti dirigenti (105).
Nella dottrina più recente, una simile lettura delle “ragioni di
servizio” è respinta in quanto restrittiva. Non c’è però unanimità
sul criterio da utilizzare. Qualcuno ritorna all’interesse, contrapponendo chi detiene nel proprio interesse a chi detiene “per
ragioni di servizio, ossia nell’interesse altrui, come il dipendente
che detiene gli strumenti di lavoro o il meccanico che detiene la
vettura da riparare” (106). Qualcuno identifica il servizio con
“qualsiasi rapporto di dipendenza o di lavoro” (107). Qualcuno
ritiene che sussista la ragione di servizio ogniqualvolta l’ingerenza
ha solo lo scopo strumentale di consentire all’una o all’altra parte
di svolgere una prestazione di fare: “c’è una ragione di servizio là
dove il detentore svolge l’opera a favore del possessore (impresa
che detiene il mio ufficio, per lucidare il pavimento), e c’è una
ragione di servizio anche là dove il possessore svolge l’opera a
(103)
242-243.
(104)
(105)
(106)
(107)
Codice civile, Secondo libro - Cose e diritti reali, Relazione al progetto, Roma, 1937, pp.
Così MONTEL, Il possesso, cit., p. 67.
Cfr. ancora MONTEL, Il possesso, cit., p. 67.
Così F. GALGANO, voce Possesso (diritto civile), in Enc. Giur., XXIII, Roma, 1990, p. 11.
MASI, Il possesso, cit., p. 472.
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404
IL POSSESSO
III, 6.3.3.
favore del detentore (paziente che detiene per lunghi mesi la
camera di una clinica)” (108).
Quali sono i casi in cui la giurisprudenza ravvisa una
detenzione per ragione di servizio?
Sono detentori “normali” (autonomi, qualificati) il conduttore e l’affittuario (109), il mezzadro (110), il comodatario (111):
ossia, coloro che detengono per godere la cosa.
Sono detentori per ragione di servizio i lavoratori agricoli
subordinati, non legati al proprietario da un contratto agrario di
carattere associativo (112).
Anche gli agenti sono detentori per ragione di servizio dei
locali in cui si svolge l’attività ad essi affidata (113).
Nell’appalto d’opera l’appaltatore è detentore qualificato (114); la soluzione è opposta per l’appalto di servizi (115).
In prima approssimazione, la giurisprudenza sembrerebbe
negare la tutela possessoria a quelle ingerenze che hanno lo scopo
strumentale di rendere possibile il compimento di un servizio.
Così formulato, però, il criterio renderebbe problematica la
situazione dell’appaltatore d’opera e del depositario. Il primo è
invece considerato detentore qualificato dalla giurisprudenza;
quanto al secondo, escludere la tutela possessoria sembrerebbe
irragionevole, sia perché il depositario ha un diritto di ritenzione
(che sarebbe vanificato dallo spoglio del depositante), sia perché
risponde all’interesse dello stesso depositante che il depositario
possa difendere il bene contro i terzi.
L’appaltatore d’opera non ha un diritto di ritenzione; ma
l’appalto implica un meccanismo di accertamento, liquidazione e
pagamento rispetto al quale la detenzione garantisce all’appaltatore facilità di contraddire e celerità di soluzione.
È più facile, insomma, indicare le ragioni per cui si estende o
(108)
(109)
(110)
(111)
(112)
(113)
(114)
(115)
SACCO, Il possesso, cit., p. 157.
Cfr., ad es., Cass. 29 aprile 2002, n. 6221.
Cfr., ad es., Cass. civ. 4 luglio 2000, n. 8932.
Cfr. ad es., Cass. 27 giugno 1987, n. 5746.
Cass. 11 dicembre 1974, n. 4191.
Cass. 9 marzo 1992, n. 2802.
Cass. 21 agosto 1996, n. 7700; Cass. 18 giugno 1992, n. 7520.
Cass. 4 dicembre 1997, n. 12304; Cass. 17 aprile 2001, n. 5609.
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III, 6.4.1.
IL POSSESSO
405
si nega la tutela possessoria a questa o quella figura di detentore,
che non formulare compiutamente il criterio per individuare la
detenzione “per ragione di servizio”.
L’art. 1168 dà rilievo anche alla categoria del detentore “per
ragioni di ospitalità”.
In prima battuta, l’ospitalità implica un consenso all’ingerenza aliena, maturato per il piacere di godere della compagnia
dell’ospite o per generosità, e liberamente revocabile. L’ospitalità
si distingue senza difficoltà dal comodato; la distinzione sfuma,
però, se si considera il c.d. comodato precario (art. 1810 c.c.).
Di solito la giurisprudenza si è occupata di casi in cui la
ospitalità aveva luogo tra persone fisiche legate da vincoli di
parentela o amicizia. Ma si è considerato detentore per ragioni di
ospitalità anche il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della
Campania, ospitato in locali condotti dalla Associazione Napoletana della Stampa (116).
Ai margini del nostro tema si è svolto un animato dibattito,
che ha riguardato prima i familiari conviventi, poi il convivente
more uxorio (in modo anche più acceso, visto che quest’ultimo è
sprovvisto di altre tutele). In un primo tempo, è prevalsa
l’opinione che sia i primi che il secondo siano ospiti; in epoca più
recente, sembra prevalere la tesi che li considera detentori
tutelati (117).
6.4.
Vicende del possesso e della detenzione.
6.4.1.
I modi di acquisto: l’occupazione, lo spoglio, l’interversione.
Il possesso si può acquistare innanzitutto attraverso l’occupazione o lo spoglio. Sullo spoglio ritorneremo trattando le azioni
possessorie.
L’occupazione è l’atto con cui un soggetto, senza ledere un
(116)
(117)
Trib. Napoli, 10 aprile 2000, in Giur. napoletana, 2000, 253.
Sul punto, si rinvia a SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp. 201 ss.
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406
IL POSSESSO
III, 6.4.1.
possesso altrui, e senza concorso della volontà altrui, crea il
proprio potere di fatto sulla cosa.
L’atto di occupazione implica sempre un’ingerenza nella cosa
occupata, un comportamento commissivo non soltanto psicologico.
In date condizioni, l’occupazione conduce all’acquisto della
proprietà; ma talvolta l’occupante acquisterà soltanto il possesso.
Si pensi ad esempio all’occupazione di un reperto preistorico od
archeologico, o alla cattura di un animale protetto (a meno di non
voler configurare tali ipotesi come spoglio).
Una figura particolare di spoglio è l’interversione.
Con l’art. 1141, 2° comma, il legislatore italiano ha precluso
al detentore l’acquisto del possesso, ove non intervengano determinate circostanze di fatto (titolo proveniente dal terzo, oppure
opposizione). Con l’art. 1164 viene invece preclusa (in difetto di
quelle medesime circostanze) l’usucapione della proprietà da
parte di chi aveva inizialmente il potere di fatto corrispondente
ad un diritto reale limitato.
La dottrina suole presentare l’art. 1164 come una mera applicazione dell’art. 1141, 2° comma, ed arriva a dichiararlo superfluo (118). In realtà l’art. 1141 e l’art. 1164 prospettano due situazioni diverse, poiché nella prima si contrappongono due figure
(detenzione e possesso) che differiscono solo per l’intento che assiste l’esercizio del potere, e nella seconda si contrappongono due
figure (possesso a titolo di proprietà, possesso a titolo di diritto
reale limitato) che differiscono anche per il contenuto dell’esercizio
del potere. D’altra parte, l’art. 1141 ostacola l’acquisto del possesso, mentre alla lettera l’art. 1164 ostacola solo l’usucapione
(senza pregiudicare gli altri effetti dell’acquisto del possesso).
Ma, sulla base di una interpretazione sistematica delle due
norme, in dottrina è comunque pacifico che anche nell’ipotesi di
cui all’art. 1164 l’interversione sia necessaria non solo per usucapire, ma anche per acquistare il possesso ad ogni altro fine (119).
La ratio delle due norme sembra essere quella di proteggere
(118)
(119)
DE MARTINO, Del possesso, cit., pp. 97 ss.; MASI, Il possesso, cit., pp. 448 ss.
Cfr. SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp. 229 ss.
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III, 6.4.1.
IL POSSESSO
407
il proprietario (o comunque, il possessore a titolo di proprietà)
rispetto a comportamenti insidiosi. Il comportamento del conduttore che prende a comportarsi da proprietario, il comportamento dell’usufruttuario che prende a comportarsi da proprietario hanno in comune la scarsa pubblicità, l’equivocità, il fatto di
dipendere esclusivamente da un capriccio dell’agente. Se il
proprietario avesse ragione di temere simili comportamenti,
dovrebbe investire tempo ed energie in una attenta vigilanza
dell’operato del detentore o del titolare del diritto reale limitato;
e non è detto che anche una simile sorveglianza sarebbe sufficiente.
In questa luce, agli artt. 1141 e 1164 sembrerebbe potersi
accostare l’art. 1102, secondo cui il comproprietario “non può
estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri
partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo
possesso”. Anche in questo caso il comportamento del comproprietario che inizia a comportarsi da proprietario esclusivo può
essere oggettivamente ambiguo; anche in questo caso proteggere
i comproprietari dai colpi di mano serve a facilitare la fiducia
reciproca e la cooperazione.
All’indomani del codice, una voce autorevole affermava che
le disposizioni “avrebbero potuto utilmente essere fuse tra di
loro”, e che “la diversità delle formule usate nelle varie norme
non implica nella sostanza alcuna diversità di significato” (120).
L’idea di leggere gli articoli 1102, 1141 e 1164 come espressioni di uno stesso principio non ha avuto fortuna. Secondo una
massima costantemente ripetuta dalla giurisprudenza, il comproprietario “può usucapire l’altrui quota indivisa del bene senza
necessità della interversione del possesso, ma attraverso l’estensione del possesso medesimo in termini di esclusività”, anche se
“il mutamento del titolo, ai sensi dell’art. 1102 comma 2 c.c., deve
concretarsi in atti integranti un comportamento durevole, tale da
manifestare un possesso esclusivo con animo domini, incompatibile con il permanere del compossesso altri sulla stessa
(120) M. D’AMELIO, Del possesso, in Commentario del Codice Civile — Libro della Proprietà
diretto da M. D’AMELIO, Firenze, 1942, 933, p. 992.
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408
IL POSSESSO
III, 6.4.1.
cosa” (121). Considerata la mutevolezza delle fattispecie concrete
sottoposte al vaglio delle corti, non è facilissimo definire cosa sia
attività univocamente incompatibile con il diritto degli altri
partecipanti, e misurarne la distanza concreta dalla interversione;
ma, almeno a parole, la giurisprudenza nega che una interversione nelle forme previste dagli articoli 1141 e 1164 sia necessaria
per il comunista. La dottrina dominante approva (122).
Il divieto di acquistare il possesso quale risulta dagli articoli
1141 e 1164 cade se intervengono due fattispecie: l’opposizione
contro il possessore o il mutamento del titolo, per causa proveniente da un terzo.
La opposizione contro il possessore è una dichiarazione, una
manifestazione di volontà; si tratta certamente di una dichiarazione non formale, e possono essere sufficienti anche atti materiali, che però devono essere compiuti nella direzione del proprietario, una direzione atta a farglieli conoscere.
Si può allora approvare la giurisprudenza quando ammette la
interversione “mediante il compimento di attività materiali che
manifestino inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il possesso esclusivamente nomine proprio, purché risulti rivolta contro
il possessore” (123); si deve approvare l’idea che l’interversione
debba estrinsecarsi in una manifestazione esteriore inequivoca
“specificamente rivolta contro il possessore, in guisa che questi sia
posto in condizione di rendersi conto dell’avvenuto mutamento” (124). Si deve, in altre parole, tenere ferma l’idea che anche
il comportamento che più chiaramente ecceda i poteri del detentore (o del possessore a titolo di diritto reale limitato) non è idoneo,
se non è atto a far conoscere l’opposizione al proprietario (125).
(121) In questi termini Cass. 2 marzo 1998, n. 2261. Nello stesso senso, fra le sentenze più
recenti, Cass. 26 novembre 1997, n. 11842 e Cass. 18 febbraio 1999, n. 1370.
(122) V. per tutti A. LENER, La comunione, in Trattato di diritto privato diretto da P.
RESCIGNO, 8, Torino, 1982, 245, p. 279; P. POLLICE, Contributo allo studio del compossesso, Napoli,
1993, p. 110.
(123) Così Cass. 4 giugno 1992, n. 6906.
(124) Cass. 12 maggio 1999, n. 4701; nello stesso senso, Cass. 20 maggio 2002, n. 7337;
Cass. 28 febbraio 2006, n. 4404.
(125) Non sempre la giurisprudenza padroneggia con sicurezza tale distinzione: tra le
decisioni discutibili, si vedano Cass. 18 febbraio 1995, n. 1802 (costruzione di una strada da parte
del detentore); Cass. 12 maggio 1999, n. 4701 (sostituzione di una serratura; ma si tratta di obiter).
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III, 6.4.2.
IL POSSESSO
409
Si è giustamente ritenuto che il mancato pagamento del
canone di locazione, per quanto prolungato nel tempo, non
costituisce di per sé interversione (126); e più in generale che
“sono inidonei atti che si traducano nell’inottemperanza alle
pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita
(verificandosi in questo caso una ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale) ovvero si traducano in meri atti di esercizio
del possesso (verificandosi in tal caso una ipotesi di abuso della
situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità
del bene)” (127).
Quanto alla causa proveniente da un terzo, essa è un titolo,
proveniente dal terzo, rivolto a vantaggio del detentore, capace di
dar vita al novello possesso di quest’ultimo. Il titolo che qui si
considera è la fattispecie idonea a fondare un possesso. La
giurisprudenza precisa che l’interversione prescinde “dalla perfezione, validità ed efficacia dell’atto medesimo (compresa l’ipotesi di acquisto da parte del titolare solo apparente)” (128).
6.4.2.
La consegna.
La consegna è l’atto bilaterale mediante il quale il possessore
precedente (tradens, trasferente) immette nel potere il possessore
successivo (accipiens, ricevente).
Tradizionalmente la consegna viene presentata come modo di
acquisto a titolo derivativo del possesso (129). In dottrina si è
peraltro sottolineato che tale qualificazione può essere accolta
solo in senso atecnico, perché non si può “trasmettere” un
comportamento, e dunque non è possibile un “trasferimento del
possesso”, costituendo la consegna solo “il presupposto dell’apprensione e quindi dell’autonoma iniziativa del soggetto possessore” (130).
(126) Cass. 8 settembre 1986, n. 5466.
(127) Cass. 20 maggio 2002, n. 7337; Cass. 15 marzo 2005, n. 5551.
(128) Cass. 5 dicembre 1990, n. 11691.
(129) Cfr., ad esempio, DE MARTINO, Del possesso, cit., p. 10; TENELLA SILLANI, voce Possesso
e detenzione, cit., p. 30 (ma con la precisazione che la distinzione tra acquisto del possesso a titolo
derivativo e a titolo originario è da intendersi in senso atecnico).
(130) In questi termini ALCARO, Il possesso, cit., p. 141.
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410
IL POSSESSO
III, 6.4.2.
La consegna consta di un consenso bilaterale e di una
esecuzione. Il consenso non si appoggia a nessuna causa, è quindi
astratto, e non rientra negli accordi contrattuali, perché non verte
sulla variazione di rapporti giuridici. Naturalmente, la consegna
si farà in occasione di un contratto; ma la nullità del contratto
non intacca gli effetti della consegna.
Ci si domanda se la consegna sia un negozio. La questione dà
luogo a soluzioni opinabili, condizionate dalla definizione del
negozio, che non si basa su dati positivi.
Sul piano concreto, l’idea di una vicenda possessoria annullabile, cioè incerta, eliminabile con effetto retroattivo, destinata a
dar vita ad accertamenti complessi in punto alla libertà del volere,
e come tali disadatti al giudizio possessorio, non può che lasciare
perplessi. La consegna intende incidere su situazioni di fatto, e
questa fattualità deve far capo a fattispecie creative semplici,
facilmente accertabili, e destinate a produrre effetti non retroattivi. Perciò le norme destinate al vizio del consenso nel contratto
non paiono applicabili alla consegna. Sussistendone gli estremi,
minaccia e incapacità potranno dequalificare la consegna, riducendola a uno spoglio — e ciò, senza postume pronunce
costitutive di annullamento della volontà. Sembra perciò da
preferire la tesi — prevalente (131) — che nega la natura negoziale
della consegna.
Come si è già detto (132), quando il potere di fatto si fa
derivare dal consenso del precedente possessore, non è necessaria, per iniziare a possedere, nessuna ingerenza materiale. La
consegna non necessita di una apprensione fisica e materiale della
cosa, essendo sufficiente che essa sia posta a disposizione dell’acquirente (133). I requisiti minimi del possesso di chi riceve la
consegna sono cioè quelli proprii del possesso nella fase della
conservazione, essendo sufficiente una mera possibilità di ingerenza.
L’apprensione materiale da parte dell’acquirente — non
(131) Cfr., ad esempio, BIANCA, Diritto civile, cit., p. 749.
(132) Vedi supra § 6.2.2.
(133) Cfr. Cass. 20 aprile 1962, n. 801; Cass. 8 ottobre 1963, n. 2676; Cass. 10 dicembre
1996, n. 10986.
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III, 6.4.2.
IL POSSESSO
411
necessaria — sarà logicamente e cronologicamente successiva al
consenso del trasferente. L’ingerenza del possessore potrà prendere spicco in tutti i casi in cui gli effetti del consenso siano
enigmatici; ovvero quando la volontà di chi dismette il possesso
degradi a consenso a che altri apprenda (come avviene se
autorizzo qualcuno a frugare nel mio solaio per cercare un
oggetto, e, trovatolo, a tenerselo).
Da sempre è equiparata alla consegna della cosa, ai fini della
trasmissione del possesso, la consegna dello strumento che
assicura il controllo della cosa (chiave).
Il possesso viene trasferito anche attraverso due procedimenti
puramente consensuali: il costituto possessorio e la consegna
“brevi manu”.
Con il costituto possessorio il possessore immediato originario abbandona l’intento di essere proprietario, e si costituisce
detentore (ad es., custode) per conto del ricevente — il quale, da
questo momento, diventa possessore mediato. Ad es. il proprietario vende una cosa e si impegna a custodirla per conto
dell’acquirente in attesa che questi la ritiri.
La consegna brevi manu presuppone che possessore e detentore non coincidano; e consiste nella rinuncia al possesso da parte
del possessore mediato, con contemporanea assunzione dell’intento di essere proprietario — e acquisto del possesso immediato
— da parte dell’originario detentore. Così avviene se il proprietario vende la cosa al conduttore.
Costituto possessorio e consegna brevi manu implicano una
convergenza di due volontà. Ma non è detto che questa convergenza sfoci in una apposita dichiarazione. Se le parti concludono
un contratto che incide sulla proprietà, e l’acquirente ha già la
detenzione della cosa, la consegna brevi manu è certamente un
effetto automatico del contratto, e opera anche senza che le parti
ci pensino. Ad esempio se Tizio dona a Caio la casa di cui Caio
è già conduttore, non ha senso immaginare che Tizio voglia che
la proprietà passi, ma rimanga possessore con intento di proprietario. La volontà di trasferire contiene in sé la volontà in cui si
concreta la consegna brevi manu.
Si deve domandare se un discorso analogo valga in materia di
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412
IL POSSESSO
III, 6.4.2.
costituto possessorio. In altre parole: si deve domandare se
quando si trasferisce la proprietà, senza contestuale consegna
della cosa, ciò implichi, in assenza di una dichiarazione delle
parti, un costituto possessorio, per cui l’acquirente diventa
possessore mediato e l’alienante semplice detentore.
Il problema del costituto possessorio implicito è ovviamente
connesso al principio consensualistico. Se la proprietà (come nel
diritto romano, come nel diritto tedesco attuale) trapassa per
effetto della consegna, nessun costituto è implicitamente collegato al contratto (da cui nasce la semplice obbligazione di
consegnare la cosa); anche se la prassi potrà moltiplicare i
costituti possessori, e ciò proprio al fine di anticipare il trasferimento del diritto.
Laddove, invece, il trasferimento della proprietà avviene per
effetto del semplice consenso delle parti (art. 1376), nasce il
problema del costituto possessorio implicito.
Chi vende e aliena vuole il trasferimento della proprietà,
dunque vuole che l’acquirente diventi proprietario, dunque non
vuole conservare egli stesso la proprietà, dunque non può avere
l’intento proprietario; chi acquista vuole per sé l’acquisto della
proprietà, dunque ha l’intento proprietario. “La consegna occorre al trasferimento del possesso nel contratto con efficacia
obbligatoria (…) non nel contratto con efficacia reale, nel quale
non si vede perché il possesso dovrebbe rimanere scompagnato
dalla proprietà, a meno di un’espressa clausola in senso contrario
determinata dalle circostanze” (134).
C’è anzi chi, in senso più radicale, considera insufficiente
anche una espressa clausola pattizia a scindere volontà di trasferire la proprietà e volontà di trasferire il possesso, chiedendosi
“che senso avrebbe una vendita (che è il tipico contratto
traslativo della proprietà), in cui il venditore può mantenere il
possesso” (135).
Un’ampia parte della dottrina, tuttavia, esclude che il costi(134) F. SANTORO-PASSARELLI, Il trasferimento del possesso nel contratto con efficacia reale, in
Rass. Dir. Civ., 1987, 700, p. 701.
(135) G. B. FERRI, La vendita, in Trattato di diritto privato diretto da P. RESCIGNO, 11, 2ª ed.,
Torino, 2000, 481, p. 537.
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III, 6.4.2.
IL POSSESSO
413
tuto possessorio sia implicito nel trasferimento della proprietà
(ammettendo semmai che il costituto possessorio possa risultare
anche implicitamente dal tenore del contratto e dal comportamento delle parti, sulla base di una indagine caso per caso) (136).
Un orientamento giurisprudenziale che appare ormai consolidato afferma che “nel negozio traslativo della proprietà o di
altro diritto reale non è ravvisabile un costituto possessorio
implicito”, per cui “nel caso in cui si protragga il godimento della
cosa da parte dell’alienante, occorre indagare caso per caso,
secondo il comportamento delle parti e le clausole contrattuali
che non siano di mero stile, se la continuazione da parte
dell’alienante dell’esercizio del potere di fatto sulla cosa sia
accompagnata dal animus rem sibi habendi ovvero configuri una
mera detenzione nomine alieno” (137). La tesi del costituto
possessorio implicito era invece ben rappresentata nella giurisprudenza meno recente (138).
Sul piano pratico, l’orientamento che esclude il costituto possessorio implicito sembra preferibile. La volontà di trasferire la
proprietà è presente non soltanto nel contratto di alienazione valido, ma in ogni accordo di alienazione, pur se viziato nella causa
e nella forma. Ove sia vero che ogni vendita e ogni donazione
veicola con sé un costituto, ciò dovrà essere vero ogni qual volta
esista il mutuo consenso ad alienare ed acquistare, indipendentemente dalla presenza della causa idonea e della forma.
Se il venditore di cosa determinata è, dal momento della vendita, mero detentore, il compratore, ove il venditore ne rifiuti la
consegna e si comporti come proprietario, potrà ottenere il rilascio
di essa nel giudizio possessorio, dove non hanno ingresso le critiche
alla validità del contratto traslativo. Se invece ammettiamo che il
venditore è possessore, il compratore dovrà invocare l’esecuzione
del contratto; e a questo punto il venditore convenuto dispone,
senza limiti di tempo, delle eccezioni di nullità e annullamento.
(136) Cfr., ad esempio, TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., pp. 31 ss.; BIANCA,
Diritto civile, cit., p. 753.
(137) Così Cass. 15 febbraio 1996, n. 1156; nello stesso senso cfr. ad esempio Cass. 21
dicembre 1993, n. 12621; Cass. 24 giugno 1994, n. 6095.
(138) Cfr., ad esempio, Cass. 6 ottobre 1978, n. 4463.
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IL POSSESSO
III, 6.4.2.
In altre parole: ammettere il costituto possessorio implicito
significa azzerare quella speciale protezione che compete ad ogni
contraente finché il contratto non sia eseguito.
Non solo: in caso di contratto nullo, il compratore o
donatario diverrebbe ugualmente possessore mediato; e, nonostante il fatto che il contratto non sia stato eseguito (magari
perché le parti si sono rese conto della nullità), potrebbe, decorso
un ventennio, usucapire.
La tesi del costituto possessorio implicito, sviluppata nelle
sue logiche conseguenze, porterebbe a risultati indesiderabili;
resta da domandarsi quali argomenti logico-giuridici si possano
invocare contro di essa.
Spesso si invoca l’art. 1476, n. 1, c.c.: l’articolo obbliga il venditore ad effettuare la consegna della cosa e ciò postulerebbe che
la conclusione del contratto non contenga in sé una consegna. Il
valore dell’argomento è dubbio: la consegna della cosa è sicuramente dovuta dall’alienante che abbia conservato la detenzione
(anche il trasferimento della detenzione è, infatti, una consegna).
E l’art. 1476 può ben riferirsi a questo generico obbligo.
In dottrina si è scritto che la tesi che nega il costituto
possessorio implicito è preferibile non tanto per motivi logici
sistematici, quanto per ragioni storiche (139). Si può in effetti
osservare che il principio consensualistico è nato per sganciare
il trasferimento della proprietà da quello del possesso, e non per
sganciare il trasferimento del possesso dalla consegna della cosa.
6.4.3.
La successione nel possesso, l’accessione del possesso.
L’art. 1146, 1° comma, c.c. dispone che il possesso continua
nell’erede con effetto dall’apertura della successione. La “apertura della successione” indica qui il momento cui retroagisce
l’accettazione dell’eredità. Ma il chiamato, che non ha accettato,
non è erede, e non può invocare l’art. 1146 (provvede a lui in più
ristretto ambito l’art. 460 c.c.).
(139)
TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 33.
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III, 6.4.3.
IL POSSESSO
415
La giurisprudenza concede la protezione interdettale a chiunque sia pacificamente erede, senza bisogno di materiale apprensione dei beni (140).
Consegue all’art. 1146, 1° comma, che — se il dante causa fu
detentore — l’erede non acquista il possesso se non facendo
opposizione al possessore o in virtù di titolo proveniente dal
terzo; così, se il dante causa acquistò in modo vizioso o in mala
fede, si verificano, anche nei confronti dell’erede, gli effetti della
clandestinità, della violenza e della malafede iniziale.
Infine l’erede, una volta acquistata la qualità di possessore,
misura la durata del proprio possesso conteggiando il tempo del
possesso del suo dante causa, il periodo che va dall’apertura della
successione all’acquisto del possesso, e il periodo successivo.
Il comma in esame si applica pacificamente a qualsiasi
successore a titolo universale, anche diverso dall’erede (ad
esempio, società derivante dalla fusione di due altre).
La regola non si applica al legatario, che è successore a titolo
particolare. Egli, dopo l’immissione in possesso, può invece
invocare l’accessione.
In base al 2° comma dell’art. 1146, il successore a titolo
particolare può unire al proprio possesso quello del suo autore
per goderne gli effetti. Questo successore può dunque invocare
come fatto acquisitivo del possesso l’atto d’acquisto del suo
autore (e computare, ai fini della durata del possesso, anche il
possesso del suo autore), oppure invocare l’atto con cui acquistò
personalmente il possesso. Potrà preferire procedere nel secondo
modo, ad esempio, quando l’autore era possessore di mala fede.
A differenza che per la successione di cui al 1° comma, per
l’accessione la giurisprudenza richiede che il successore a titolo
particolare stabilisca concretamente un rapporto di fatto con la
cosa (141).
Cosa si intende per “autore”?
Secondo parte della dottrina, è autore chiunque consegna. Ai
(140)
n. 4055.
(141)
Cass. 21 luglio 1969, n. 2745; Cass. 16 gennaio 1971, n. 80; Cass. 8 settembre 1978,
Cfr. Cass. 16 gennaio 1971, n. 80; Cass. 8 settembre 1978, n. 4055.
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416
IL POSSESSO
III, 6.4.3.
fini dell’accessione sarebbe sufficiente, cioè, la consegna, che è
titolo per possedere (142).
La giurisprudenza unanime richiede invece un “titolo idoneo
in astratto, anche se radicalmente viziato, a trasmettere la
proprietà o altro diritto reale” (143). Una parte importante della
dottrina approva (144).
Una volta stabilito che si richiede un titolo idoneo a trasferire
il diritto, nasce il dubbio se taluni requisiti dell’atto di trasferimento siano richiesti anche ai fini dell’art. 1146, 2° comma, e in
che limiti il titolo può essere “radicalmente” viziato. Una sentenza ha affermato che, ove si tratti di possesso di beni immobili,
è necessaria la forma scritta (145). La sentenza è parsa a qualcuno
poco coerente con lo stesso indirizzo giurisprudenziale maggioritario, che ammette anche il titolo invalido (146).
Sembra pacifico che non è richiesta la buona fede dell’acquirente (147).
Si è giustamente osservato che, accettando l’impostazione
dominante, basta che le parti stipulino “una vendita ‘mascherata’
del diritto per raggiungere lo scopo della fruibilità del beneficio
dell’accessione in presenza di una semplice immissione nel
possesso” (148).
Su una delle conseguenze che la giurisprudenza ricava dalla
sua lettura dell’art. 1146 c.c. ritorneremo nel prossimo paragrafo.
6.4.4.
Circolazione del possesso e autonomia privata.
L’acquisto, la circolazione, la perdita del possesso dipendono
(142) Cfr. SACCO, Il possesso, cit., p. 197 (e poi SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., pp.
248-249); B. TROISI, Circolazione del possesso e autonomia privata, Napoli, 2003, pp. 79 ss.
(143) Così Cass. 3 luglio 1964, n. 1738, in Giur. It., 1966, I, 1, 182 (donazione rogata da
ufficiale incompetente, in difformità dalla delibera che la precedeva); nello stesso senso cfr. anche
Cass. 6 aprile 1970, n. 936; Cass., 11 dicembre 1981, n. 6552; Cass. 27 settembre 1996, n. 8528;
Cass. 12 novembre 1996, n. 9884.
(144) Cfr., ad esempio, TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 12; GALGANO,
Diritto civile, cit., p. 418; BIANCA, Diritto civile, cit., p. 754.
(145) Cass. civ. 23 gennaio 1982, n. 456.
(146) GALGANO, Diritto civile, cit., p. 418.
(147) Cfr., esplicitamente in questo senso, Cass. 3 luglio 1964, n. 1738, in Giur. It., 1966,
I, 1, 182.
(148) TROISI, Circolazione, cit., p. 82.
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III, 6.4.4.
IL POSSESSO
417
da comportamenti umani previsti dal diritto. Il mutuo consenso
delle parti è esso stesso, in certi casi, sufficiente per determinare
la circolazione del possesso da un soggetto ad un altro.
La volontà degli interessati, tuttavia, non potrebbe collegare
questa circolazione a fattispecie diverse da quelle che prevede il
diritto oggettivo. Così sarebbero nulle le clausole contrattuali che
volessero assegnare al conduttore la qualifica di possessore, o
privarlo della qualifica di detentore.
Poiché il possesso e la detenzione sono situazioni fattuali, la
dichiarazione di volontà non può bastare a trasferirli.
Nel 1996 la Corte di Cassazione è stata chiamata, per ben due
volte, a pronunciarsi sulla questione — fino a quel momento
pressoché sconosciuta alla giurisprudenza e marginalmente considerata dalla dottrina — relativa all’ammissibilità di un contratto
avente ad oggetto il trasferimento del puro e semplice possesso.
Si tratta di un fenomeno tutt’altro che sconosciuto alla prassi
notarile (149): non è infrequente, infatti, che la vendita includa
beni di cui l’alienante ha il possesso, ma non la proprietà, o di cui
non è sicuro di avere la proprietà (perché, ad esempio, non è
agevole calcolare se sia decorso il termine per l’usucapione).
Nella prima occasione (150) la Suprema Corte ha affermato la
nullità di un contratto preliminare atipico con cui le parti si erano
obbligate ad alienare e ad acquistare la sola situazione possessoria. Nella specie, il contratto riguardava anche alcuni terreni
gravati da diritti d’uso civico, abusivamente occupati dal promittente, il quale aveva promosso il procedimento amministrativo di
legittimazione di cui agli art. 9 e 10 della legge n. 1766 del 1927
per acquistarne la proprietà.
Nella seconda occasione (151) la Suprema Corte ha escluso
che oggetto di un atto di compravendita possa essere il possesso
di un immobile in quanto tale, e che da tale trasferimento
(149) Cfr., ad es., M. ALBERGO, Alienazione del possesso. Contratto atipico meritevole di
tutela, in Vita notarile, 1998, 1422.
(150) Cass. 27 settembre 1996, n. 8528 (in Corr. giur., 1997, 162, con nota di P. IAMICELI e
in Contratti, 1997, 468 con nota di A. ABBATE).
(151) Cass. 12 novembre 1996, n. 9884 (in Vita notarile, 1998, 1422 con nota di M.
ALBERGO).
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418
IL POSSESSO
III, 6.4.4.
possano discendere gli effetti di cui all’art. 1146 c.c. in materia di
accessione del possesso.
Nell’ampio dibattito dottrinale sul tema, e nelle stesse motivazioni delle sentenze, si intrecciano problemi diversi, che debbono però essere tenuti separati.
La Cassazione ha affermato che “dalla stessa nozione del
possesso (…) si evince la sua intrasmissibilità”, perché “un’attività non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa” (152),
suscitando l’approvazione di parte della dottrina (153); anzi,
qualcuno si è addirittura preoccupato della “pericolosità di
concepire un sistema di ‘acquisto’ del possesso fondato sul mero
consenso”, che consentirebbe una “moltiplicazione di ‘situazioni
di fatto’ in nessun modo suscettibili di controllo” (154).
L’osservazione che il possesso non può essere trasferito
mediante una semplice dichiarazione di volontà è sicuramente
corretta, ma è irrilevante. Il problema di cui si discute non è se il
contratto basti a trasferire il possesso; la risposta è sicuramente
negativa, essendo necessaria, perché inizi il possesso dell’acquirente, la consegna. E sotto altro profilo, non può neppure
dubitarsi che, se la consegna concretamente ha luogo, essa sia
idonea a far iniziare il possesso dell’acquirente.
I veri problemi al centro dell’attenzione delle corti sono altri.
Il contratto di alienazione del possesso (che sicuramente non
basta a trasferire il possesso) obbliga l’alienante alla consegna? E,
se la consegna avviene, può l’acquirente avvalersi della facoltà di
“unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli
effetti”, sulla base dell’art. 1146 c.c.?
La Corte di Cassazione ha dato, ad entrambi i quesiti,
risposta negativa. In particolare, essa ha ribadito, in entrambe le
occasioni, che l’accessione del possesso, prevista dall’art. 1146
c.c., ha per presupposto indispensabile la esistenza di un titolo,
(152) Cass. 27 settembre 1996, n. 8528.
(153) Cfr., ad esempio, F. ALCARO, Note in tema di trasferimento del possesso, in Vita
notarile, 1999, 487.
(154) P. IAMICELI, Circolazione dei beni gravati da usi civici e “trasferibilità” del possesso, in
Corr. giur., 1997, 162.
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III, 6.4.4.
IL POSSESSO
419
anche viziato, idoneo in astratto alla cessione del diritto di
proprietà (o di altro diritto reale) sul bene.
Un argomento speso dalla stessa Cassazione e da una parte
della dottrina muove dalla definizione di vendita. Siccome secondo l’art. 1470 cc. la vendita è il contratto che ha per oggetto
il trasferimento della proprietà di una cosa oppure il trasferimento di un altro diritto, e siccome il possesso non è un diritto
ma una situazione di fatto, “esso non rientra certamente tra i
possibili oggetti di un contratto di compravendita” (155).
È difficile immaginare un approccio più sterile al nostro
problema. Una volta escluso che il contratto di alienazione del
possesso rientri nella definizione di vendita, infatti, resta aperta la
possibilità di considerarlo un contratto atipico (a cui applicare
per analogia una parte delle regole della vendita).
Un’analisi proficua del nostro problema non può eludere un
dato evidente (156): le parti nel nostro sistema possono raggiungere esattamente i risultati che si vogliono impedire mettendo al
bando la “vendita del possesso” attraverso altri strumenti. Si
pensi, in particolare, alla vendita a rischio e pericolo dell’acquirente (art. 1488, 2° comma c.c.). Il venditore che sa di non essere
proprietario può concludere un contratto di questo tipo con il
compratore, consapevole dell’altruità della cosa. Ne derivano:
l’obbligo del venditore di consegnare la cosa; l’impossibilità per
il compratore di chiedere la risoluzione del contratto, non
essendo in buona fede; la totale esclusione della garanzia per
evizione; la possibilità per il compratore di avvalersi dell’art.
1146, 2° comma, c.c.
Come si è giustamente scritto, “se lo scopo pratico dell’immissione nel possesso può essere raggiunto, per via indiretta,
attraverso i suddetti espedienti, non si vede perché lo stesso non
possa essere raggiunto in via diretta e immediata, attraverso uno
specifico strumento negoziale” (157). Non si vede cioè perché
penalizzare il compratore se il contratto descrive in modo onesto
(155)
(156)
(157)
Cass. 27 settembre 1996, n. 8528.
Giustamente valorizzato da TROISI, Circolazione, cit., pp. 40 ss.
TROISI, Circolazione, cit., p. 42.
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420
IL POSSESSO
III, 6.4.4.
(o, se si preferisce, sprovveduto) quello che è il suo vero oggetto,
cioè il possesso e non la proprietà del bene (non essendo fra
l’altro il giudice vincolato dalle qualificazioni giuridiche operate
dalle parti).
Se così è, allora sembra di dover riconoscere ai contratti di
alienazione del possesso (comunque le parti li definiscano) gli
stessi risultati di una vendita a rischio e pericolo: cioè, sia
l’obbligo di consegnare da parte dell’alienante, che la possibilità,
una volta avvenuta la consegna, di applicare l’art. 1146, 2°
comma, c.c. (158). Sotto quest’ultimo profilo, il rigido orientamento della Suprema Corte non sembra in ogni caso imposto
dalla lettera della legge, che parla genericamente di “autore”.
I risultati raggiunti sembrano corrispondere anche al favore
dell’ordinamento verso la circolazione dei beni e il loro uso
produttivo (159). L’impossibilità, per l’acquirente, di avvalersi
dell’art. 1146, 2° comma impedirebbe, in molti casi, al possessore
di monetizzare la propria situazione possessoria, sostituendo a sé
un soggetto che attribuisce un maggior valore al bene, e rischierebbe di paralizzare la circolazione del bene fino a che non sia
accertato giudizialmente l’acquisto per usucapione.
6.4.5.
Le vicende del rapporto extrapossessorio: la legge, la
decisione del giudice, l’atto amministrativo.
Finora la dottrina ha mostrato scarsa curiosità in merito alla
connessione fra l’atto dell’autorità e le vicende del possesso.
Il possesso è una realtà di fatto, l’atto dell’autorità ovviamente modifica la realtà quando opera un cambiamento del
mondo fisico esterno. Quando l’ufficiale giudiziario asporta dalla
casa del debitore esecutando alcuni titoli di credito, il debitore ne
perde la detenzione.
Ci si può domandare, invece, se le leggi, le decisioni del
(158) TROISI, Circolazione, cit., ammette l’esistenza, nel nostro ordinamento, di un contratto
atipico d’immissione nel possesso, ammette che il nuovo possessore possa avvalersi dell’art. 1146
c.c., ma ritiene che il contratto d’immissione nel possesso sia un contratto reale, che si perfeziona
solo con la consegna.
(159) Nello stesso senso TROISI, Circolazione, cit., p. 39.
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III, 6.4.5.
IL POSSESSO
421
giudice, gli atti amministrativi che incidono sulle situazioni di
appartenenza trasformino in modo conseguente (senza bisogno
di un’esecuzione a questo fine) le situazioni possessorie corrispondenti.
Quando il legislatore modifica rapporti proprietari, modifica
in modo corrispondente le situazioni possessorie?
Se Tizio è possessore a titolo di piena proprietà di un bene,
e Caio ottiene una sentenza che lo dichiara nudo proprietario
dello stesso bene, basta la sentenza a ridurre Tizio a possedere un
usufrutto (salva nuova interversione)?
Se la sentenza dichiara che Tizio, che non è al possesso del
bene, è proprietario, Caio, fino a esecuzione della sentenza, resta
possessore o è ridotto a guardiano?
Fra le situazioni a cui si è accennato è possibile tracciare una
importante distinzione, che potrebbe orientare una prima, intuitiva, risposta.
Un conto è trasformare un detentore in possessore, o rendere
libero un possesso che finora era vincolato. Un conto è assegnare
il possesso ad un soggetto che non ha mai avuto alcuna relazione
di fatto con il bene.
Se la legge cancella la proprietà del concedente, e trasforma
l’affittuario in proprietario, sembra plausibile che l’affittuario,
senza bisogno di un’interversione, si trasformi in possessore del
bene. Se la legge cancella la proprietà di Tizio, e attribuisce la
proprietà a Caio, che non ha mai avuto alcuna relazione materiale
col bene, sembra meno ovvio che essa cancelli automaticamente
anche il possesso di Tizio.
L’area in cui la giurisprudenza ha avuto maggiori occasioni di
confrontarsi col nostro problema è quella dell’atto amministrativo; le risposte non sono state univoche.
Quando l’atto amministrativo trasferisce una situazione dominicale dal privato alla P.A., o quando svuota di contenuto una
situazione dominicale privata a favore della P.A., ci si può
chiedere se la fattualità trionfi, e la dichiarazione di volontà
dell’autorità non intacchi, da sola, i poteri di fatto, o se invece la
onnipotenza della P.A. le consenta di acquistare, oltre i diritti,
anche le situazioni possessorie, per effetto della parola.
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422
IL POSSESSO
III, 6.4.5.
Esistono, in materia, due diversi filoni giurisprudenziali. In
un primo tempo, la giurisprudenza ha affermato che, in caso di
espropriazione per pubblica utilità, viene meno “per volontà
impositiva statale” l’elemento soggettivo del possesso, e l’espropriato può “tutt’al più continuare a detenere il bene, come
avviene nella ipotesi civilistica del costituto possessorio” (160).
La Suprema Corte ha poi espressamente respinto tale orientamento, affermando che occorre distinguere gli effetti traslativi
del diritto di proprietà conseguenti alla pronuncia del decreto di
esproprio dall’acquisto del possesso del bene espropriato e che
“eventuali relazioni di fatto con il bene espropriato da parte
dell’espropriato o di terzi permangono invariate fino a quando
costoro restino indisturbati nel godimento del bene” (161). Ed
anche in una seconda occasione ha ribadito che “un provvedimento di aggiudicazione non determina automaticamente, per il
solo fatto che venga pronunciato (ed a prescindere dalla sua
esecuzione) il mutamento dell’animus rem sibi habendi del
proprietario espropriato, trasformandolo in animus detinendi
alieno nomine”; con la conseguenza che se al bene non è stata
data “quella destinazione pubblica (…) che comporta la impossibilità di un possesso utile ai fini dell’usucapione”, e se dunque
il bene non è entrato nel demanio o nel patrimonio indisponibile
dell’amministrazione espropriante, non vi sono ostacoli all’usucapione da parte dell’espropriato rimasto nella disponibilità del
bene (162).
Una più recente sentenza della Suprema Corte è più difficile
da collocare rispetto agli orientamenti descritti (163). Secondo tale
decisione, nell’ipotesi di occupazione d’urgenza preordinata alla
futura espropriazione, lo spossessamento del bene si intende
realizzato in conseguenza del cosiddetto dimensionamento (l’individuazione dell’area mediante infissione di picchetti) e dell’affermazione degli incaricati dell’operazione che da quel momento
il possesso dell’area si intende trasferito all’occupante; “l’acquisto
(160)
(161)
(162)
(163)
Cass.
Cass.
Cass.
Cass.
20 dicembre 1988, n. 6966.
4 dicembre 1999, n. 13558.
22 aprile 2000, n. 5293.
8 giugno 2001, n. 7775.
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III, 6.4.6.
IL POSSESSO
423
del possesso da parte dell’occupante ed il conseguente spossessamento del proprietario e di qualsiasi altro soggetto che vanti
diritti di natura reale (…) o personale sul fondo (…), impone poi
di ascrivere a mera tolleranza della Pubblica Amministrazione la
eventuale permanenza del privato (…) nel godimento del fondo”.
In quest’ultimo caso, come si vede, la Cassazione non ha, a
rigore, considerato il mutamento della situazione possessoria
come effetto automatico, in quanto ha ritenuto, a ragione o a
torto, di individuare nel dimensionamento e nelle dichiarazioni
degli incaricati dell’operazione un atto concreto di spossessamento. La sentenza però desta qualche perplessità, ed è stata
criticata in dottrina: se davvero si considera concretamente
realizzato uno spossessamento, sembra difficile negare in linea di
principio rilevanza al comportamento del proprietario espropriando che si riimmetta nel pieno godimento del bene (164).
La dottrina recente ha perlopiù approvato l’indirizzo che
nega che l’espropriazione faccia automaticamente venir meno il
possesso dell’espropriato (165). Esso sembra logicamente preferibile sia per i fautori della teoria soggettiva (perché non c’è
ragione di ritenere che l’espropriazione faccia automaticamente
venir meno l’animus domini, che non è incompatibile con la
consapevolezza di non essere proprietario), sia per i fautori della
teoria oggettiva (perché manca un titolo che qualifichi il potere di
fatto dell’espropriato come detenzione (166)).
6.4.6.
La derelizione, la perdita, la rinuncia.
Per derelizione o abbandono si intende la volontaria dismissione del potere di fatto sulla cosa. Per perdita si intende la
dismissione involontaria del potere di fatto. Per rinuncia si
intende la manifestazione della volontà di non aver più il potere
di fatto.
(164) Cfr. G. DORIA, Decreto di esproprio, occupazione d’urgenza e disponibilità del bene:
brevi note sui rapporti tra possesso e detenzione, in Giustizia civile, 2003, II, 133.
(165) Cfr. A. CATAUDELLA, Variazioni civilistiche brevi, in Rass. Dir. Civ., 2001, 517; DORIA,
Decreto, cit.
(166) In questa prospettiva, DORIA, Decreto, cit.
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424
IL POSSESSO
III, 6.4.6.
La derelizione è il venir meno dei due elementi del possesso:
l’operatore non vuole più essere proprietario, e cessa di esercitare
il potere di fatto. Non ci interessa in questa sede indagare quando
essa incide sulla situazione proprietaria; certamente, comporta la
cessazione del possesso.
La mera cessazione dell’ingerenza non è derelizione, perché
l’intervento non è un requisito del possesso nella fase successiva
all’acquisto.
La rinuncia è la manifestazione della volontà di rinunciare al
possesso. Essa esplicita il venir meno dell’animo; acquista una
particolare rilevanza quando il possesso in questione sia mediato.
In ogni caso, in cui il soggetto intenda perdere il possesso, egli
potrà formulare una rinuncia, oltre a derelinquere il bene: ne
guadagnerà la chiarezza.
Secondo la giurisprudenza, la rinuncia può desumersi da
comportamenti concludenti solo quando questi “indichino univocamente l’intenzione del dominus in tal senso” (167); in particolare, la giurisprudenza è costante nell’affermare che, essendo
necessaria una “univoca manifestazione di volontà abdicativa”,
“la semplice astensione dall’esercizio del possesso non è sufficiente a determinarne la perdita, potendosi ritenere che permanga l’animus possidendi quando sia sempre possibile al
possessore ripristinarne l’esercizio” (168). Si può concordare con
l’osservazione che di fatto la rinuncia per comportamenti concludenti coincide con la derelizione (169).
Parte della dottrina orientata verso la concezione oggettiva
del possesso dubita peraltro della idoneità della semplice rinuncia a estinguere il possesso, e ne critica i presupposti “tenacemente volontaristici” (170). Non sarebbe una manifestazione di
volontà, ma solo la concreta dismissione del potere sulla cosa a
far cessare il possesso.
Sulla irrilevanza della rinuncia come manifestazione di volontà è difficile concordare.
(167)
(168)
(169)
(170)
Cass. civ. 7 gennaio 1992, n. 39.
Cass. 21 dicembre 1999, n. 14370.
ALCARO, Il possesso, cit., p. 146.
Cfr. ALCARO, Il possesso, cit., p. 146.
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III, 6.4.6.
IL POSSESSO
425
Se Tizio ha nel suo giardino un tagliaerba che giace inutilizzato da mesi, è difficile dubitare che Caio commette uno spoglio
se si impadronisce dell’attrezzo.
Ma se Tizio dichiara chiaramente, rivolto a Caio e a tutti gli
altri vicini, che rinuncia al possesso dell’inutile e ingombrante
arnese, la sua rinuncia creerà un affidamento, e Caio non
commetterà uno spoglio prelevando il tagliaerba.
Ciò non esclude che a certi fini (ad es., responsabilità) il
diritto possa continuare a trattare Tizio come un possessore o un
proprietario. Chi tiene un comportamento obbiettivamente ambiguo (rinuncio, ma non dismetto il potere di fatto) potrebbe
vedersi applicare le regole che colpiscono il possessore con
sanzioni e responsabilità, senza poter usucapire e senza potersi
valere della tutela possessoria. Si può peraltro rilevare che le
responsabilità spesso gravano non tanto sul possessore, quanto
sul custode; ed è sostenibile che chi rinuncia al possesso, ma non
dismette il potere di fatto, resta custode della cosa.
Se l’elemento materiale resta intatto, peraltro, il ritorno
dell’animo ricostituisce il possesso. Nelle parole della giurisprudenza, la rinuncia cosciente e volontaria fa “presumere il venir
meno dell’animus” “ma non impedisce che esso si riaccompagni
al mantenuto potere di fatto un istante dopo, dando luogo ad un
nuovo periodo possessorio” (171).
Tuttavia, per le stesse ragioni di intelleggibilità della situazione di fatto che richiedono l’ingerenza attuale nel momento
iniziale del possesso, il ritorno dell’animo deve manifestarsi o con
una espressa dichiarazione o con un’ingerenza attuale nel bene. Il
possesso di un fondo si conserva senza bisogno di continui e
concreti atti di godimento; ma una volta che al possesso si sia
rinunciato può acquistare rilevanza verificare se il rinunciante
abbia, in un momento successivo alla rinuncia, ripreso a ingerirsi
nel fondo stesso (172).
Secondo la giurisprudenza la forma scritta non è necessaria
(171)
(172)
Cass. 30 aprile 1982, n. 2724, in Giur. It., 1983, I, 1, 1313, p. 1315.
Cfr. Cass. 30 aprile 1982, n. 2724, in Giur. It., 1983, I, 1, 1313.
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426
IL POSSESSO
III, 6.4.6.
per la rinuncia, nemmeno se si tratti di immobili (173). Tale
orientamento ha destato qualche perplessità in dottrina (174), ma
sembra condivisibile, dal momento che non si possono estendere
automaticamente al possesso le regole che riguardano la proprietà e i diritti reali.
La correlazione fra lo smarrimento e la perdita del possesso
dà luogo a problemi. La soluzione preferibile sembra quella di
ritenere che lo smarrimento non comporti senz’altro la perdita
del possesso; la perdita del possesso consegue invece all’illecita
usurpazione dell’inventore che decide di tenere per sé la cosa (e
che commette uno spoglio). In alternativa si potrebbe ritenere
che il possesso cessi con lo smarrimento, anche se il possessore
conserva un diritto alla restituzione ex art. 931 c.c., e ricorrere
all’art. 1167 c.c. per risolvere gli eventuali problemi in tema di
usucapione.
6.5.
I rapporti tra il proprietario e il possessore.
6.5.1.
I conflitti tra il possesso (o la detenzione) di cosa
aliena e la proprietà.
Il proprietario può ottenere il rilascio della cosa da chiunque
la possiede o detiene (art. 948 c.c.). Analogamente il titolare di
qualsiasi diritto reale può ottenere che la situazione possessoria e
detentoria sia resa conforme al suo diritto.
Il possesso di cosa aliena (e così la detenzione senza titolo),
non consentito dal proprietario, sembra essere un fenomeno
oggettivamente antigiuridico. Lo stesso possessore di buona fede,
come vedremo fra poco, è colui che ignora di ledere l’altrui
diritto (art. 1147); ma di fatto lede l’altrui diritto.
Chi versa in una situazione illegittima di norma risponde dei
danni purché fosse in dolo o colpa, ossia, purché fosse nota o
conoscibile la violazione dell’altrui diritto e purché il danno fosse
(173)
Cass. 20 ottobre 1975, n. 3432; Cass. 30 aprile 1982, n. 2724, in Giur. It., 1983, I, 1,
(174)
Cfr. ALCARO, Il possesso, cit., p. 145, nota 430.
1313.
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III, 6.5.2.
IL POSSESSO
427
evitabile. Il danno potrà derivare, nel nostro caso, dal mancato
godimento della cosa, dal deterioramento, dalla distruzione,
dall’alienazione a terzi, e così via.
La proprietà dei frutti naturali spetta di norma al proprietario
(art. 821, 1° comma, c.c.). Quanto ai frutti civili, il 3° comma non
dice chi li acquisti: normalmente, i frutti civili si acquistano in
quanto venga adempiuta da un terzo un’obbligazione (contrattualmente assunta) di corrispondere un corrispettivo per il
godimento del bene; il frutto civile spetta perciò, originariamente, allo stipulante, salve le pretese del proprietario nei suoi
confronti. Se il proprietario invoca l’art. 2043, potrà conseguire
non già il frutto ricavato dal possessore, ma i danni subiti (con i
problemi di quantificazione che affronteremo fra poco).
L’art. 936 detta poi la disciplina generale per il caso di opere
realizzate su fondo altrui. In assenza di una disciplina specifica,
esso dovrebbe applicarsi anche al possessore.
Fin qui i principii comuni. Il legislatore è poi intervenuto con
articoli numerosi, anche se lacunosi, a regolare arricchimenti e
acquisti dei frutti (artt. 1147-1151 c.c.). L’interprete potrà domandarsi se questi articoli esauriscano il rapporto che intercorre
fra proprietario e possessore, o se si integrino con le regole
generali del nostro diritto, specialmente con quelle dettate in
tema di responsabilità civile delittuale.
6.5.2.
Il possesso di buona fede.
Il legislatore, attenendosi ad una tradizione romanistica,
suddistingue due categorie di possessori, a seconda che essi
ignorino o meno di ledere l’altrui diritto. Tale distinzione assume
rilevanza a vari fini: acquisto dei frutti, quantificazione della
indennità per i miglioramenti apportati alla cosa, tempo necessario per usucapire. Nel sistema italiano, la fattispecie “possesso
di buona fede”, rilevante a tali molteplici fini, è unica, ed è
disegnata dall’art. 1147. Tale stato di cose non risponde a una
necessità logica; non è inconcepibile che un sistema disegni
diversamente il possesso di buona fede ai fini delle diverse
conseguenze che ne discendono. Così ad esempio il codice civile
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428
IL POSSESSO
III, 6.5.2.
francese ha accolto la regola canonistica della buona fede
“continua”, disponendo nell’art. 550 che il possessore “cesse
d’être de bonne foi du moment où ces vices lui sont connus”, il
che ha rilevanza, ad esempio, ai fini dell’acquisto dei frutti; ma ha
accolto la regola opposta per quanto riguarda il requisito della
buona fede nel possesso ad usucapionem (art. 2269: “il suffit que
la bonne foi ait existé au moment de l’acquisition”) (175).
In Italia, è possessore di buona fede chi, al momento
dell’acquisto del possesso, ignorava di ledere l’altrui diritto. Di
qui la formula “mala fides superveniens non nocet”, che bene
rispecchia la tradizione italiana.
L’ignoranza dovuta a colpa grave è equiparata a mala fede
dallo stesso articolo 1147, il che risponde alla ragionevole
esigenza di incentivare a una sia pur minima diligenza chi voglia
beneficiare del trattamento riservato al possessore di buona fede.
Oggi è pacifico che l’errore di diritto non è incompatibile con la
buona fede (176).
La buona fede del possessore, secondo l’art. 1147, è presunta.
Si discute se il dubbio sia da equiparare alla mala fede. In
giurisprudenza si precisa che la presunzione di buona fede “non
è vinta dall’allegazione del mero sospetto di una situazione
illegittima, essendo invece necessario che l’esistenza del dubbio
promani da circostanze serie, concrete e non meramente ipotetiche, la cui prova deve essere fornita da colui che intenda
contrastare la suddetta presunzione legale di buona fede” (177). Si
è tuttavia precisato che, così come non giova la buona fede
derivante da colpa grave, a maggior ragione non può giovare uno
stato soggettivo di dubbio che dipenda da colpa grave, in quanto
eliminabile con l’uso dell’ordinaria diligenza (178).
In altre parole: la certezza assoluta è segno soltanto di
ingenuità; il semplice dubbio non può essere equiparato a mala
(175) Cfr., sul tema, E. MOSCATI, “Mala fides superveniens non nocet”? (Per la rilettura di un
dogma), in Scritti in memoria di Angelo Lener, Napoli, 1989, 645, pp. 652 ss.
(176) Cfr., ad esempio, Cass. 26 luglio 1962, n. 2124; Cass. 6 luglio 1966, n. 1764.
(177) In termini identici si sono espresse Cass. 24 dicembre 1991, n. 13920 e Cass. 22
maggio 2000, n. 6648; nello stesso senso, cfr. pure Cass. 6 luglio 1984, n. 3971.
(178) Cass. 29 giugno 1963, n. 1753.
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III, 6.5.2.
IL POSSESSO
429
fede. Ma se i dubbi possono essere, senza grandi sforzi, chiariti,
chi omette una facile verifica versa in colpa grave.
La giurisprudenza ripete ormai da tempo che “ai fini della
ricorrenza del possesso di buona fede, non è necessaria l’esistenza
di un titolo (ancorché viziato) idoneo a trasferire al possessore la
proprietà della cosa posseduta” (179), che l’art. 1147 prescinde
“dall’esistenza di un titolo ancorché viziato” (180).
L’art. 701 del codice civile del 1865 considerava possessore di
buona fede “chi possede come proprietario in forza d’un titolo
abile a trasferire il dominio, del qual titolo ignorava i vizi”. La
pratica si trovava a discutere quale titolo fosse abile, e quali vizi
fossero compatibili con la buona fede, per concludere che ogni
titolo era abile e ogni vizio si poteva ignorare. Il nuovo legislatore
ne ha tratto la conseguenza, eliminando dai costituenti del
possesso di buona fede il titolo.
La discussione sulla necessità del titolo si intreccia con un
altro problema. “Ignorare di ledere l’altrui diritto” non significa
necessariamente ritenere di essere proprietario. Poiché non c’è
lesione se non si agisce contro la volontà del soggetto leso, il
possesso esercitato con il consenso del proprietario non è lesivo.
Così chi si immette in un bene immobile a seguito di un contratto
verbale di compravendita, magari con l’intesa che il contratto
scritto sarà concluso in un momento successivo, dovrebbe considerarsi possessore di buona fede. La giurisprudenza, però, sul
punto è divisa (181).
(179) In questi termini Cass. 24 dicembre 1991, n. 13920 e Cass. 22 maggio 2000, n. 6648.
(180) Così Cass. 20 agosto 1991, n. 8918.
(181) Nel senso del testo si è espressa Cass. 20 agosto 1991, n. 8918, che ha respinto, sulla
base della irrilevanza del titolo, sia pur viziato, ai fini dell’art. 1147, l’affermazione del ricorrente
secondo cui il possessore versava in colpa grave (e quindi non poteva considerarsi di buona fede)
non potendo ignorare che il patto concluso verbalmente richiedeva la forma scritta. In senso
opposto, cfr. ad esempio Cass. 29 settembre 1962, n. 3219, secondo cui chi possiede sulla base di
un accordo verbale con il proprietario, che si è impegnato a trasferire la proprietà, non può essere
considerato in buona fede, e il consenso del proprietario avrà il limitato effetto di precludere la
facoltà di chiedere la demolizione dell’opera ai sensi dell’art. 936 c.c.
Nello stesso senso del testo, cfr. BIANCA, Diritto civile, cit., p. 765.
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430
IL POSSESSO
6.5.3.
III, 6.5.3.
Restituzione dei frutti e responsabilità per danni.
Dall’art. 1148, 1° frase (“Il possessore di buona fede fa suoi
i frutti naturali separati fino al giorno della domanda giudiziale e
i frutti civili maturati fino allo stesso giorno”), si argomenta che
il possessore di mala fede deve restituire sia i frutti naturali (in
armonia con la regola generale di cui all’art. 821) che i frutti civili
maturati.
La seconda frase (“Egli, fino alla restituzione della cosa,
risponde verso il rivendicante dei frutti percepiti dopo la domanda giudiziale e di quelli che avrebbe potuto percepire dopo
tale data, usando la diligenza di un buon padre di famiglia”)
lascia invece aperto il problema se il possessore di mala fede, fino
alla domanda giudiziale, risponde solo dei frutti percepiti o anche
di quelli percipiendi. La tesi largamente prevalente sostiene che il
possessore di mala fede, anche prima della domanda giudiziale,
risponde anche dei frutti percipiendi (182), ma non sono mancati
sostenitori della tesi opposta (183) (che sostiene che il possessore
di mala fede deve restituire i frutti indebitamente percepiti, e solo
dopo la domanda giudiziale anche quelli percipiendi). Il divario
tra le due tesi appare meno drammatico se si considera che il
possessore di mala fede commette un illecito, ed è in ogni caso
tenuto a risarcire il danno. In assenza di allegazioni particolari, il
danno sarà identificato normalmente nei frutti che un uomo
medio avrebbe potuto ricavare dal bene.
Un problema delicato, e che qui si può soltanto sfiorare,
riguarda l’utilizzo dei beni nel corso di una gestione dinamica,
quale avviene se Tizio, immessosi nell’azienda di Caio, ivi svolge
funzione d’imprenditore. La giurisprudenza ha ritenuto che, nel
caso di beni destinati ad esercizio commerciale, i frutti che si
traggono da tale esercizio hanno solo un collegamento “indiretto” coi beni utilizzati, e trovano invece la loro giustificazione
“nell’esercizio per sé stesso, come attività speculativa a sé stante”,
con la conseguenza che “i frutti che si ritraggono dall’esercizio di
(182) Cfr., ad es., TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 40; BIANCA, Diritto
civile, cit., p. 772; TROISI e CICERO, I possessi, cit., p. 117.
(183) Cfr., ad es., MASI, Il possesso, cit., pp. 481-482.
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III, 6.5.3.
IL POSSESSO
431
un’azienda commerciale, anche se illegittimamente posseduta da
chi la gestisce, sono di pertinenza non del proprietario dell’azienda, ma del soggetto che questa ha gestita” (184). La
soluzione è stata approvata da buona parte della dottrina (185). In
realtà la norma sui frutti sembra adeguata finché la causa
principale del prodotto è la cosa madre, mentre la causa principale del profitto imprenditoriale è l’iniziativa dell’imprenditore.
Qualche autore ha proposto che al proprietario si riconoscano,
come frutti percipiendi, i canoni che l’azienda avrebbe meritato
se data in affitto (186) (mentre l’imprenditore potrebbe far
proprio l’eventuale maggior profitto).
Secondo la giurisprudenza, ha carattere di debito di valore
l’obbligo relativo ai frutti naturali, mentre è debito di valuta,
soggetto al principio nominalistico, l’obbligo relativo ai frutti
civili (187).
Si deve ritenere che il possessore di mala fede, tenuto a
restituire i frutti che avrebbe potuto percepire con l’ordinaria
diligenza, debba pagare il valore del godimento del bene di cui
abbia usato personalmente, nonché l’utilità ritratta dal bene sotto
forma di risparmio di spese. Non si vede infatti perché trattare
diversamente il possessore di mala fede che abita direttamente
l’appartamento e quello che lo affitta ad un terzo.
Qualcuno si chiede se la regola sull’acquisto dei frutti trovi
applicazione analogica in tema di detenzione. Naturalmente il
problema si pone solo per quei detentori che, sulla base del
titolo, possono far propri i frutti (il conduttore, ad esempio; non
il depositario, o l’appaltatore). Se l’atto di concessione proviene
dal non legittimato, la detenzione del concessionario lede il
diritto del proprietario. Il detentore si trova allora soggetto
all’azione di rivendicazione. Se il detentore ignorava di ledere
(184) Cass. 13 febbraio 1969, n. 486, in Giur. It., 1969, I, 1, 625.
(185) Cfr., ad es., TENELLA SILLANI, voce Possesso e detenzione, cit., p. 39; SACCO e CATERINA,
Il possesso, cit., p. 458.
(186) In questo senso SACCO, Il possesso, cit., p. 361; BIANCA, Diritto civile, cit., p. 772.
(187) Cass. 19 novembre 1992, n. 12362; Cass. 12 febbraio 1993, n. 1784; Cass. 15 marzo
2006, n. 5776.
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432
IL POSSESSO
III, 6.5.3.
l’altrui diritto, potrà far propri i frutti come il possessore di
buona fede?
Parte della dottrina è favorevole all’equiparazione, che “trova
ragione nella medesima esigenza di tutela dell’aspettativa di chi in
buona fede utilizza fruttuosamente la cosa” (188).
Le regole sul possesso di buona fede non si giustificano,
ovviamente, come incentivi rivolti al possessore medesimo (che,
per definizione, non sa che esse gli si applicheranno, a parte il
caso della mala fides superveniens). Non sembrano plausibili,
pertanto, i tentativi di giustificare la regola sull’acquisto dei frutti
sulla base di istanze produttivistiche. Tale regola, sotto il profilo
degli incentivi rivolti ai consociati, non fa né male (perché,
richiedendo la buona fede, non rischia di incoraggiare intromissioni illecite nei beni altrui), né bene. La regola si giustifica sulla
base di esigenze equitative (rende meno traumatico il “brusco
risveglio” da parte di un soggetto che in fin dei conti non versava
in colpa grave), e perché evita i costi di giustizia che scaturiscono
dalla regola opposta (189). Le stesse giustificazioni valgono anche
nel caso del detentore.
Un caso particolare è quello in cui il possessore di buona fede
concede il bene ad un terzo. In questo caso almeno sembra logico
che il proprietario, che non può chiedere i frutti civili al
possessore, non possa neppure chiedere la restituzione dei frutti
al detentore; altrimenti bisognerebbe ammettere che questi possa
a sua volta agire contro il possessore.
In ogni caso, è utile ricordare che la nostra giurisprudenza dà
spazio a contratti di locazione di fatto, rilevanti quando il
contratto consensuale è nullo (190), il che riduce la rilevanza ai fini
pratici del nostro problema.
Le regole sui frutti interferiscono con l’applicazione dell’art.
2043.
(188) BIANCA, Diritto civile, cit., p. 764; e vedi pure le pp. 772-773.
(189) Quando non esistono solide ragioni di giustizia o di efficienza per “spostare” un
danno o un arricchimento, l’ordinamento spesso sceglie la soluzione meno costosa, cioè lasciarlo
dove è, evitando i costi di accertamento e di esecuzione che inevitabilmente scaturirebbero dalla
regola opposta.
(190) Cass. 6 maggio 1966, n. 1168; Cass. 3 maggio 1991, n. 4849, in Giur. It., 1991, I, 1,
1313.
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III, 6.5.3.
IL POSSESSO
433
Il possessore di mala fede è responsabile sulla base dell’art.
2043; egli è tenuto a risarcire il danno; il diritto, prescindendo
dalla prova del danno, lo condanna comunque a restituire
l’ammontare di cui si è arricchito (cioè, i frutti). Ciò evita che il
possessore di mala fede, per quanto abilmente abbia saputo far
fruttare il bene, e per quanto inutile fosse il bene nelle mani del
proprietario, si arricchisca grazie al suo illecito. Ma l’obbligo di
restituire i frutti si cumula alla sanzione del risarcimento del
danno; per cui, se il proprietario può provare un danno maggiore
dei frutti percetti o percipiendi, il possessore di mala fede deve
risarcire.
La stessa regola (con l’obbligo di pagare la maggior somma
fra frutti percepiti e percipiendi e danno arrecato) deve applicarsi
al detentore di mala fede, che altrimenti sarebbe trattato, senza
giustificazione, meglio del possessore.
L’applicazione dell’art. 2043 comporterebbe, a rigore, la
responsabilità per danni del possessore di buona fede, quando vi
sia una colpa lieve; comporterebbe, a rigore, la responsabilità per
danni del possessore in caso di mala fides superveniens. Ciò
frustrerebbe la tutela del possessore di buona fede, come risulta
dagli articoli 1147 e 1148. Per evitare tale risultato, si deve
ritenere che con le norme in commento il legislatore abbia
implicitamente escluso l’applicazione dell’art. 2043 c.c. al possessore di buona fede.
Fin qui si è parlato della responsabilità del possessore per il
solo fatto del possesso. Bisogna ora accennare all’ipotesi che egli
danneggi la cosa o la alieni efficacemente.
Per il caso di alienazione, sembra ragionevole considerare il
possessore di buona fede responsabile nei limiti del corrispettivo
ricevuto, in applicazione di un principio desumibile dagli artt.
535, 1776, 2038 c.c. Sempre traendo ispirazione dall’art. 2038
c.c., sembra ragionevole ritenere che in caso di alienazione da
parte del possessore di mala fede il proprietario possa esigere, a
sua scelta, il valore della cosa o il corrispettivo ricevuto.
Si può ipotizzare che gli stessi principi si estendano al
danneggiamento o alla distruzione della cosa. In questo caso, il
possessore di buona fede sarebbe responsabile nei limiti del suo
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434
IL POSSESSO
III, 6.5.3.
eventuale arricchimento conseguente al danneggiamento o alla
distruzione; il possessore di mala fede sarebbe tenuto a pagare la
maggior somma tra i danni e il suo arricchimento.
6.5.4.
Riparazioni, miglioramenti, addizioni.
Il possessore gode di rimedi e difese in materia di spese e
riparazioni; di miglioramenti; di addizioni; il suo credito è
protetto mediante la ritenzione della cosa.
Il possessore, come gestore d’affari qualificato, ha diritto al
rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie, sia egli
in buona o in mala fede (art. 1150, 1° comma). La diligenza e la
premura del possessore meritano di essere incoraggiate, perché
spesso è l’unico soggetto su cui si possa contare per la salvaguardia della cosa.
Le riparazioni e spese ordinarie sono considerate come un
passivo inerente al godimento della cosa, e si compensano con
il godimento del bene e con l’acquisto dei frutti. Ne segue che
il possessore di mala fede, che deve restituire i frutti, e che
pertanto ha diritto al rimborso delle spese fatte per la produzione e il raccolto, ha diritto anche al rimborso delle spese
ordinarie, mentre tale diritto non spetta al possessore di buona
fede. Il debito nascente da riparazioni viene considerato di
valuta (191).
Il possessore ha diritto a indennità per i miglioramenti recati
alla cosa, purché sussistano al tempo della restituzione. L’indennità è pari all’aumento di valore della cosa per effetto dei
miglioramenti se il possessore è di buona fede, in caso contrario
è pari alla minor somma tra l’importo della spesa e l’aumento di
valore (art. 1150, 2° e 3° comma). Con tale restrizione, l’ordinamento evita ancora una volta che il possessore di mala fede, per
quanto abile, possa trarre beneficio dal suo illecito (come
altrimenti potrebbe fare quando apporta alla cosa un aumento di
valore superiore alle spese).
Se il miglioramento ha carattere di addizione, si applicano i
(191)
Cass. 9 agosto 1983, n. 5337.
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III, 6.5.4.
IL POSSESSO
435
principii dell’art. 936 c.c. espressamente richiamati. Si debbono
allora distinguere tre ipotesi. Infatti l’art. 1150, 5° comma,
introduce una particolare considerazione del possessore di buona
fede; l’art. 936, a sua volta, distingue il costruttore di buona fede
dal costruttore di mala fede.
Il possessore di mala fede che sia inoltre costruttore di mala
fede è alla mercè del proprietario, che può costringerlo a togliere
le addizioni ed a pagare i danni, ovvero può ritenere le addizioni
pagando a sua scelta il valore dei materiali e della mano d’opera,
oppure l’aumento di valore recato al bene. Il costruttore di buona
fede e il soggetto a lui equiparato (cioè colui che ha costruito a
scienza e senza opposizione del proprietario), sempreché non sia
anche possessore di buona fede, non è soggetto all’obbligo di
togliere le costruzioni ed avrà diritto all’indennità che il proprietario preferirà attribuirgli (fra aumento di valore e spese). Il
possessore di buona fede ha diritto senz’altro all’indennità nella
misura dell’aumento di valore.
Secondo l’opinione prevalente, il debito per i miglioramenti,
anche quando consista nel rimborso delle spese, è debito di
valore (192).
La pratica ha additato ai giuristi l’importanza del problema
del miglioramento di incerto avvenire, ossia di quel miglioramento che sussiste al momento della restituzione del bene, ma è
esposto all’eliminazione. Il prototipo di questi miglioramenti è la
costruzione eseguita in modo non conforme a diritto.
La giurisprudenza ha affermato in ripetute occasioni che
l’esecuzione di costruzioni senza la prescritta licenza edilizia, e
dunque esposte al pericolo di demolizione per ordine della
competente autorità amministrativa, non realizza un miglioramento indennizzabile ai sensi dell’art. 1150 c.c (193).
La soluzione non soddisfa. Il miglioramento eliminabile
assomiglia da vicino al danno alla persona reversibile in caso di
incerta ed augurata guarigione; al danno consistente in un
(192) Cfr., ad esempio, Cass. 18 novembre 1987, n. 8491; Cass. 8 novembre 1993, n. 11051.
(193) Cass. 8 aprile 1983, n. 2498, in Giur. It., 1983, I, 1, 1847 (ma attenzione: la sentenza
arriva allo stesso risultato applicando le regole comuni sull’arricchimento senza causa); Cass. 17
dicembre 1991, n. 13568; Cass. 10 settembre 1997, n. 8834.
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436
IL POSSESSO
III, 6.5.4.
aumento del rischio; e così via. Sono figure che pongono
problemi delicati al diritto, ma che non possono essere considerate irrilevanti. Condoni o sanatorie sono d’altronde, nel nostro
ordinamento, ben lontani dall’essere eventi eccezionali. È dunque necessaria una soluzione più sofisticata. In dottrina si è
proposto che si accolli al proprietario il miglioramento come se
fosse definitivo, legittimandolo alla ripetizione in caso di eliminazione (194). Certo, in questo modo si esporrebbe il proprietario
a un rischio notevole, perché il possessore potrebbe rendersi
irreperibile o risultare insolvente.
Il diritto alle indennità del possessore di buona fede è
spalleggiato dal diritto di ritenzione, che l’art. 1152 regola
dettagliatamente.
Secondo la giurisprudenza, le disposizioni contenute negli
art. 1150 ss. sono norme di carattere eccezionale, e dunque non
applicabili per analogia al mero detentore (195).
Anche in questo caso, bisogna innanzitutto osservare che il
problema non può neppure porsi se non nei limiti in cui il diritto
ad indennità per riparazioni e miglioramenti sia previsto dal
titolo.
In questi limiti, sembra in realtà che il trattamento del
possessore di mala fede sia il trattamento normale di chi, avendo
arricchito altri, può chiedere la minor somma tra la propria
perdita e il vantaggio della controparte. Il possessore di buona
fede beneficia invece di uno statuto privilegiato, ed è opinabile se
esso si presti ad una estensione per analogia. Ma in molti casi il
problema neppure si pone. Ad esempio, nel caso della locazione
è ovvio che il conduttore, sulla base degli artt. 1592 e 1593 c.c.,
non potrà aspirare ad un trattamento equivalente a quello del
possessore di buona fede (196).
(194) SACCO e CATERINA, Il possesso, cit., p. 466.
(195) Cass. 21 dicembre 1993, n. 12627.
(196) BIANCA, Diritto civile, cit., p. 776 ss. è favorevole in linea di principio ad un’estensione
delle regole dettate nell’art. 1150 c.c. al detentore, ma ritiene che se la detenzione trae titolo da
un rapporto contrattuale, prevalgono le norme regolatrici di tale rapporto.
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III, 6.6.2.
6.6.
IL POSSESSO
437
Le azioni possessorie.
6.6.1.
Le lesioni del possesso.
L’interprete ricostruisce i varii tipi di lesione del possesso
rilevanti, desumendoli dalle regole che prevedono i relativi
rimedii; questi, a loro volta, sono l’azione di reintegrazione,
l’azione di manutenzione, la denunzia di nuova opera, la denunzia di danno temuto, la petizione di eredità, la pretesa alla
restituzione della cosa smarrita, e l’azione risarcitoria generale.
Le ipotesi cui il possessore può reagire possono enumerarsi
come segue: lo spoglio; la turbativa o molestia; l’opera nuova
dannosa; il pericolo di danno nascente da una cosa; il possesso
alieno di cose ereditarie; il rifiuto di restituzione di cose smarrite;
il danno ingiusto recato mediante una delle lesioni precedentemente enumerate.
Il possessore, attraverso la raggiera dei rimedii possessori,
riceve una tutela tanto estesa quanto quella che riceve, attraverso
le azioni sue proprie, il proprietario. Ma la difesa del possessore
ha un’intensità minore, perché di fronte al convenuto non gli
basta provare il suo stato di possessore; deve invece svolgere una
compiuta critica della condotta del convenuto, per dimostrare
che quest’ultimo si è posto dalla parte del torto.
6.6.2.
Lo spoglio.
L’art. 1168 non definisce direttamente lo spoglio.
Nella lingua volgare, effettuare uno spoglio significa privare
qualcosa o qualcuno di qualcosa. La legge, se non definisce lo
spoglio, indica che si ripara allo spoglio rimettendo lo spogliato
nel possesso, così lasciando intendere che, per effetto dello
spoglio, egli ha perduto il potere di fatto.
Ne segue che è spoglio il comportamento di taluno, che fa
perdere al possessore il potere di fatto sulla cosa. La perdita del
potere generale sulla cosa (qual è ad esempio il potere a titolo di
proprietà) avverrà nella forma della sottrazione quando la cosa sia
mobile, e della deiezione quando la cosa sia immobile. In modo
via via corrispondente avverrà la perdita del potere frazionario
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438
IL POSSESSO
III, 6.6.2.
del compossessore immobiliare, o di chi esercita una servitù
positiva. Da tempo però la dottrina ha evidenziato una certa
disponibilità della giurisprudenza a considerare come spoglio
anche attentati che non cagionano la perdita del possesso, ma ne
diminuiscono o rendono più incomodo l’esercizio (197). Tali
aperture contrastano con un’altra corrente giurisprudenziale, che
contrappone lo spoglio alla molestia identificando il primo come
un’aggressione al possesso che “incide direttamente sulla cosa
che ne costituisce l’oggetto, sottraendola in tutto o in parte alla
disponibilità del possessore”, mentre la molestia si rivolge contro
l’attività di godimento del possessore, “disturbandone il pacifico
esercizio, ovvero rendendolo disagevole e scomodo” (198). Al di là
delle formule utilizzate, le ragioni delle decisioni non sono
sempre trasparenti. In un’occasione la Suprema Corte ha ravvisato uno spoglio nella aratura di un fondo, che privava l’attore
della possibilità di utilizzare un certo bene come pascolo (199);
mentre in altra occasione ha qualificato come semplice molestia
del possesso di un terreno la recisione e l’asporto di piante (200).
Una decisione, sulla base del principio che lo spoglio può
concretarsi in un atto che “restringa o riduca le facoltà inerenti al
potere esercitato sull’intera cosa”, ha considerato spoglio il fatto
del condomino che, collocando alcuni tavolini nell’area antistante
un fabbricato, aveva compromesso la possibilità di transito ad
altri condomini (201).
Un’indagine volta ad individuare un filo conduttore della
giurisprudenza non è semplice. Molte decisioni sono note solo
per massima, e la massima dice poco o nulla sul fatto. In molti
casi, le affermazioni delle corti sono semplici obiter dicta, perché
il fatto in esame è una vera ablazione o deiezione, e dunque la
definizione di spoglio scelta è ininfluente; o perché l’attore è
legittimato a reagire sia allo spoglio che alle molestie. Talvolta si
(197) Cfr., ad esempio, Cass. 21 marzo 1970, n. 749; Cass. 20 marzo 1978, n. 1386; Cass.
14 novembre 1978, n. 5242.
(198) Così Cass. 6 dicembre 1984, n. 6415; nello stesso senso Cass. 6 gennaio 1982, n. 23.
(199) Cass. 6 novembre 1991, n. 11853.
(200) Cass. 16 aprile 1981, n. 2298.
(201) Cass. 16 marzo 1966, n. 754.
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III, 6.6.3.
IL POSSESSO
439
ha l’impressione di un certa ritrosia della Corte di Cassazione a
ridiscutere la qualificazione operata dal giudice di merito.
Si deve comunque segnalare una certa discontinuità della
Corte di Cassazione; e forse una certa tendenza, in anni più
recenti, a rendere più stretta la definizione dello spoglio.
Senza pretendere di elaborare una definizione compiuta ed
esaustiva, possiamo dire che la giurisprudenza fa sicuramente
rientrare nello spoglio:
— tutte le innovazioni che pregiudichino, in qualsiasi modo,
il rapporto elementare di fatto uomo-cosa, che ostino cioè
all’ingerenza della vittima, impendendola o difficultandola (attraverso la erezione di recinzioni e cancelli, l’apposizione di lucchetti, e così via);
— i mutamenti di destinazione o le trasformazioni importanti della cosa (ad esempio, il mutamento dell’ordinamento
colturale del fondo (202), o la rottura di un muro divisorio per
rendere comunicanti due appartamenti (203)).
6.6.3.
Lo spoglio del possessore mediato.
Il possessore mediato può essere spogliato da un terzo, o dal
detentore immediato.
Sebbene ciò non venga scritto a tutte lettere, si ritiene
comunemente che lo spoglio del potere immediato da parte di un
terzo costituisca spoglio del soggetto del potere mediato. Spogliato il conduttore, si considera come spogliato il locatore.
La fondatezza di questa equiparazione potrebbe essere messa
in dubbio, laddove l’agente proclami di voler essere detentore (se
cioè effettui il riconoscimento del possessore); in un simile caso,
si potrebbe sostenere che la situazione possessoria del possessore
mediato resti immutata.
Una sentenza ormai remota, tuttavia, ha affermato che il
proprietario-locatore di un palazzo può reagire con l’azione di
reintegrazione allo spoglio commesso da uno dei suoi inquilini ai
(202)
(203)
Cass. 23 marzo 1984, n. 1933.
Cass. 11 aprile 1959, n. 1065.
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440
IL POSSESSO
III, 6.6.3.
danni degli altri (nella specie, appropriandosi di un ballatoio di
uso comune) (204). Si crea così una figura speciale di azione
possessoria che ruota intorno alla identità del detentore immediato, e che trova giustificazione in un intuibile interesse pratico
del possessore mediato a conservare un controllo sulla situazione
di fatto del bene.
La stragrande maggioranza degli attentati al potere mediato si
compie, peraltro, ad opera del soggetto del potere diretto.
L’occasione più frequente di controversie è il rifiuto, da parte
del detentore immediato, di restituire la cosa. Sul tema, una
giurisprudenza ormai consolidata oppone il semplice ritardo
nella riconsegna del bene alla interversione (che costituisce
spoglio).
Secondo tale consolidato orientamento, è vero che “colui il
quale abbia cominciato a possedere a titolo precario in nome
altrui, nel momento stesso in cui manifesti la sua volontà di
possedere non più nomine alieno, ma uti dominus, priva l’altra
parte del suo possesso”, legittimandola all’esercizio dell’azione di
reintegrazione; ma tale azione è “esperibile soltanto quando
l’opposizione da parte del precarista alla richiesta di restituzione
della cosa detenuta, si fondi sull’allegazione di un proprio
possesso e non già allorquando il comodatario o il locatario e il
colono, si opponga al rilascio per motivi attinenti alla validità o
alla continuazione del rapporto obbligatorio in forza del quale
abbia ottenuto la detenzione” (205).
Di per sé il rifiuto di restituire il bene non costituisce spoglio
“rilevando tale comportamento soltanto sul piano dei rapporti
contrattuali, con la conseguenza che il proprietario concedente
resta abilitato ad agire non con l’azione di spoglio, ma con
l’azione di restituzione fondata sull’estinzione del contratto” (206). Ad esempio, il comodante, una volta revocata la
concessione, per ottenere dal comodatario che non restituisce il
rilascio del bene, può soltanto avvalersi dall’azione di restitu(204)
(205)
(206)
Cass. 1 febbraio 1950, n. 272, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1950, II, 43.
Cass. 21 maggio 1992, n. 6134.
Cass. 29 marzo 1995, n. 3700.
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III, 6.6.3.
IL POSSESSO
441
zione, fondata sull’estinzione del contratto, mentre non è abilitato ad agire mediante l’azione di spoglio (207). Coerentemente, si
è ritenuto, in materia di appalto, che “nell’ipotesi in cui l’appaltatore rifiuti la consegna dell’opera al committente, si ha spoglio
solo se resti accertata l’assoluta mancanza di contestazione circa
l’avvenuta cessazione del rapporto contrattuale, con l’esaurimento delle correlative posizioni soggettive, mentre, in presenza
di una controversia relativa alle vicende contrattuali, va escluso il
venir meno dello ‘jus detinendi’ dell’appaltatore” (208).
Non è impossibile conciliare con tale orientamento giurisprudenziale quelle decisioni che hanno ritenuto che, in caso di
detenzione per ragioni di servizio o di ospitalità, il semplice
rifiuto di restituire la cosa integri spoglio (209). Poiché il detentore
tale per ragione di servizio di ospitalità o di tolleranza detiene a
un titolo che implica necessariamente il dovere di restituire la
cosa a semplice richiesta del possessore, la mancata ottemperanza
alla richiesta implica normalmente una interversione illecita e
quindi uno spoglio.
In particolare, la Corte di Cassazione, richiamandosi espressamente alla giurisprudenza in tema di mancata restituzione della
cosa, ha affermato che non commette spoglio il conduttore che
subloca la cosa in violazione di divieto contenuto nel contratto di
locazione, “sicché il locatore non è abilitato a proporre l’azione di
spoglio non solo nei confronti del conduttore, ma neppure del
subconduttore, può semplicemente chiedere la risoluzione del
contratto, ed una volta ottenutala pretendere dal subconduttore
la consegna della cosa a norma dell’art. 1595”; nella motivazione,
la Corte ha affermato che “il regime possessorio non mira a
rafforzare l’obbligazione o a renderla insensibile alle vicende che
la interessano” (210).
L’orientamento della giurisprudenza merita approvazione. Il
(207) Cass. 11 gennaio 1993, n. 178.
(208) Cass. 21 agosto 1996, n. 7700.
(209) In questo senso cfr. Cass. 12 aprile 1972, in Foro Italiano, 1972, I, 3175; Cass. 19
maggio 1982, n. 3086; Cass. 4 giugno 1992, n. 6906.
(210) Cass. 29 maggio 2003, n. 8628. In SACCO, Il possesso, cit., p. 222 (e poi in SACCO e
CATERINA, Il possesso, cit., pp. 279) si affermava che “il regime possessorio non è stato istituito per
rafforzare l’obbligazione, o per renderla insensibile alle querele di nullità”.
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442
IL POSSESSO
III, 6.6.3.
locatore, comodante, committente che lamenta un inadempimento della controparte può invocare il rapporto obbligatorio;
ed in quella sede eventuali eccezioni fondate sull’invalidità totale
o parziale del contratto, sulla sua interpretazione e qualificazione,
etc. potranno essergli opposte. Il regime possessorio non è stato
istituito per rafforzare l’obbligazione, né per renderla insensibile
alle vicende che la interessano, e che non possono essere discusse
in sede di giudizio possessorio.
Lo spoglio implica un mutamento della situazione di fatto.
Tale mutamento non può consistere in un inadempimento
contrattuale, per quanto grave, ma solo nel venir meno della
laudatio possessoris. Il riconoscimento non viene meno se il
detentore ritarda o rifiuta genericamente la restituzione; viene
meno se il detentore ritarda o rifiuta la restituzione perché
intende disporre della cosa come dominus.
Il caso del detentore per ragione di servizio o di ospitalità
merita un trattamento diverso. Da un lato, in questo caso non
esiste il timore che l’azione possessoria sia usata per aggirare le
legittime discussioni che possono sorgere in sede di azione
contrattuale. D’altra parte, il detentore per ragione di servizio o
di ospitalità realizza un mutamento della situazione di fatto se,
pur continuando a riconoscere il possessore, prende a comportarsi come un detentore qualificato.
6.6.4.
La molestia.
L’art. 1170 c.c. non aiuta l’interprete a identificare i connotati
della “molestia” o “turbativa” cui si ripara con la “manutenzione”.
Per definire la molestia bisogna rendere nitide due soglie: la
soglia superiore (che separa la molestia dallo spoglio) e la soglia
inferiore (che separa la molestia dall’ingerenza lecita).
Per definire la soglia superiore è bene procedere per esclusione: è molestia l’ingerenza indebita, che non sia spoglio. Nella
sede relativa alla molestia, si deve dare una definizione per segni
positivi della soglia inferiore.
Cosa costituisce molestia, secondo la giurisprudenza?
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III, 6.6.4.
IL POSSESSO
443
Costituiscono molestia: la violazione delle distanze legali (211); le immissioni intollerabili di fumi, vapori ed odori (212);
l’innalzamento del muro di cinta che limita l’afflusso di luce ed
aria (213); l’accumulo di terra a ridosso del muro di confine, in
relazione alle infiltrazioni di umidità ed alla diminuzione di aria e
di luce (214).
La definizione di molestia, suggerita dal sistema e confortata
dalla pratica, sembra essere la seguente: la molestia sussiste se un
terzo si ingerisce sulla cosa in un modo che sarebbe illecito ove il
possessore fosse titolare del diritto corrispondente al suo possesso, e sempre che questa ingerenza non costituisca spoglio. Non
è molestia, invece, l’ingerenza che sarebbe lecita anche alla
stregua del diritto cui corrisponde il potere di fatto del possessore. Così ad esempio non è stata considerata molestia l’ingerenza
esplicata nello spazio sovrastante il suolo, a tale altezza da non
costituire lesione del diritto di proprietà (215).
Questa definizione merita alcuni chiarimenti.
a) La molestia è nella sua essenza un’ingerenza nella cosa.
Essa non implica necessariamente un venir meno del potere di
godimento della vittima, né una restrizione ad esso.
Ciò non collima perfettamente con le definizioni delle nostre
corti, che talvolta richiedono che l’attività abbia “un congruo ed
apprezzabile contenuto di disturbo” del possesso dell’attore, tale
da “rendere impossibile, gravoso oppure notevolmente difficoltoso l’estrinsecarsi di tale posizione” (216); che il comportamento
del molestante “modifichi, restringa o rechi pregiudizio al legittimo possesso altrui o comunque limiti o modifichi apprezzabilmente il modo di esercizio di esso” (217).
Prese sul serio, tali definizioni porterebbero ad una ingiusti(211) Cfr., ad esempio, Cass. 23 gennaio 1995, n. 724; Cass. 9 dicembre 1996, n. 10935;
Cass. 25 marzo 1998, n. 3147.
(212) Cass. 10 settembre 1997, n. 8829.
(213) Cass. 4 dicembre 1995, n. 12489.
(214) Cass. 18 marzo 1986, n. 1842.
(215) Cass. 7 gennaio 1984, n. 106.
(216) Così Cass. 24 febbraio 1993, n. 2260.
(217) Cass. 29 maggio 1995, n. 6037.
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444
IL POSSESSO
III, 6.6.4.
ficata restrizione della tutela del possessore. Peraltro, la stessa
giurisprudenza finisce in molti casi per neutralizzarne la portata
concreta: così, ad esempio, si è ripetutamente affermato che “la
violazione delle distanze legali nelle costruzioni integra una
molestia al possesso del fondo finitimo contro la quale è data
l’azione di manutenzione perché anche quando non ne comprime
di fatto l’esercizio importa automaticamente modificazione o
restrizione delle relative facoltà” (218). Applicando questa logica,
si potrebbe ripetere la stessa affermazione per ogni illecita
ingerenza nella cosa.
b) La definizione proposta ruota intorno alla illiceità
dell’ingerenza. Non è tuttavia sempre facile sapere quale ingerenza debba dirsi lecita.
Il terreno che finora ha fatto nascere maggiori problemi è
quello delle immissioni.
L’art. 844 c.c. assegna al giudice non solo vasti poteri di
apprezzare il fatto, ma un’ampia potestà regolatrice, per cui può
consentire o meno, discrezionalmente, un’immissione, bilanciando numerosi e disparati criterii (esigenze della produzione,
ragioni della proprietà, priorità nella destinazione della cosa). La
nostra pratica conosce, altresì, la figura delle immissioni contro
cui non è concessa azione inibitoria, ma che comportano un
obbligo di risarcire il danno. Come deve comportarsi il giudice
del possessorio? In che misura può svolgere lo stesso complesso
bilanciamento che spetta al giudice del petitorio? Come deve
comportarsi di fronte ad immissioni che non darebbero luogo alla
inibitoria, ma al risarcimento del danno?
In un’occasione la Suprema Corte ha approvato l’operato del
giudice del merito, che, ritenendo che le immissioni sonore non
superassero la normale tollerabilità, aveva respinto l’azione di
manutenzione; in tale occasione la Suprema Corte ha precisato
altresì che l’apprezzamento del giudice di merito sulla normale
tollerabilità delle immissioni, onde escludere la turbativa o
(218) Così Cass. 19 marzo 1991, n. 2927. Nello stesso senso, Cass. 3 aprile 1976, n. 1185;
Cass. 9 settembre 1989, n. 3911.
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III, 6.6.4.
IL POSSESSO
445
molestia, si sottrae al sindacato di legittimità se esaurientemente
motivato (219).
In un’altra decisione, la Suprema Corte ha approvato
l’operato del giudice di merito, che, accertato che le immissioni
sonore ed infiltrazioni di acqua provenienti dal fondo del
convenuto superavano la normale tollerabilità, aveva accolto
l’azione di manutenzione proposta dall’attrice (220). In modo
alquanto fuorviante, la Corte ha ritenuto di precisare che ai fini
della configurabilità delle molestie non occorre che l’ingerenza
sia “obiettivamente illecita in quanto violativa di un preciso
precetto normativo” e che “la lesione normativamente rilevante
viene in considerazione come semplice atto materiale (…)
idoneo a turbare il possesso altrui, sicché la molestia conseguente a inosservanza da parte dell’agente di precisi precetti
normativi rappresenta soltanto uno dei possibili modi pratici con
cui la turbativa può essere arrecata”. Nel caso di specie, il fatto
che le immissioni eccedessero i limiti della normale tollerabilità
era stato puntualmente accertato dal giudice di merito, e
opportunamente valorizzato dalla Suprema Corte, il che conferma che l’ingerenza per costituire molestia deve essere illecita.
Il problema sfiorato dalla Corte è semmai quello che in alcuni
casi i “precetti normativi” non sono sufficientemente “precisi”
da essere applicabili senza una complessa valutazione del
giudice.
Un ormai remoto precedente di merito si è spinto a rigettare,
richiamando espressamente il 2° comma dell’art. 844 c.c., e
dando prevalenza alle ragioni della produzione, la domanda,
proposta in sede possessoria, volta a far cessare un’immissione
inquinante (221).
Per quanto riguarda la possibilità che il giudice condanni
l’immittente al risarcimento dei danni, si rinvia a quanto diremo,
fra poche pagine, sul risarcimento del danno da lesione del
possesso.
(219)
(220)
(221)
Cass. 20 marzo 1995, n. 3223.
Cass. 13 settembre 2000, n. 12080.
Pret. Gavirate, ord. 11 giugno 1966, in Foro padano, 1966, 1068.
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446
IL POSSESSO
III, 6.6.4.
c) La lesione in cui si concreta la molestia deve avere una
sua realtà e una sua effettività.
Non è molestia l’atto che induce in un generico timore di una
futura, eventuale turbativa (e la giurisprudenza ha negato accoglimento ad un’azione di manutenzione esperita con riferimento
al pericolo di inquinamento del fondo dell’attore, che sarebbe
potuto derivare dalla difettosa costruzione di opere da parte del
vicino nel proprio fondo (222)).
Ma la giurisprudenza non è contraria a riconoscere all’azione
di manutenzione una funzione preventiva. Così ha affermato che
“un’immutazione dello stato dei luoghi che non arrechi attualmente danno al possesso altrui, può egualmente configurare una
molestia, se sia idonea a porre in dubbio o in pericolo siffatto
possesso, ma a tal fine è necessario che la detta immutazione sia
per sé stessa evolutiva nella direzione di uno specifico attentato
pregiudizievole, oppure che sia accompagnata da univoche manifestazioni, da parte di chi l’ha posta in essere, tali da denotare
una contraria pretesa” (223) (nel secondo caso, si avrà una
molestia di diritto, di cui diremo fra breve).
La molestia deve avere un’esistenza non completamente
saltuaria e non fuggitiva. Può sussistere anche se la lesione non è
duratura, ma non c’è molestia se un atto, isolato, non genera il
timore di reiterazione.
d) Un insegnamento risalente colloca accanto alle molestie
di fatto, che turbano materialmente il possesso, le molestie di
diritto, “che consistono in atti giudiziali o stragiudiziali, con i
quali si contesta l’altrui possesso” (224).
Il punto merita qualche chiarimento.
Non può costituire molestia del possesso l’accampare diritto
o l’intimare al possessore di comportarsi in conformità di un
(preteso) diritto del notificante. Altrimenti, la comune lettera
raccomandata che si invia al possessore prima di instaurare un
giudizio di rivendicazione costituirebbe molestia.
(222) Cass. 10 gennaio 1981, n. 251.
(223) Cass. 29 gennaio 1990, n. 532 (si tratta di obiter). Nello stesso senso, cfr. ad esempio
Cass. 13 febbraio 1999, n. 1214.
(224) In questi termini, MONTEL, Il possesso, cit., p. 540.
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III, 6.6.5.
IL POSSESSO
447
La molestia inizia là dove il dichiarante contesti il possesso, e
non il diritto, altrui, o pretenda il rispetto di un proprio preteso
possesso.
La distinzione è ben formulata dalla giurisprudenza, secondo
cui la molestia può realizzarsi anche senza attività materiali,
“attraverso manifestazioni di volontà che devono però esprimere
la ferma intenzione del dichiarante di tradurre in atto il suo
proposito”; in tal caso è tuttavia necessario “che il possesso sia
posto in pericolo; se le manifestazioni di volontà (…) sono volte
all’affermazione di un diritto (proprio) e alla negazione di un
diritto (altrui) senza far temere imminenti azioni materiali contrastanti con la situazione di possesso, si è in presenza solo di
espressioni intese ad evitare, se possibile, una controversia
giudiziaria” (225).
6.6.5.
La violenza e la clandestinità dello spoglio.
Il legislatore distingue due figure di spoglio: quello operato
“violentemente o occultamente”, chiamato “spoglio violento o
clandestino”, e quello “non violento né clandestino”, chiamato
“spoglio semplice” (artt. 1168, 1° e 3° comma, e 1170, 3° comma,
c.c.).
Le due figure, alla stregua della lettera del codice, appaiono
trattate in modo diverso, ed è pertanto di grande interesse
accertare in cosa consistano i due fatti dequalificativi dello
spoglio di cui all’art. 1168 — e cioè la violenza e la clandestinità.
Il legislatore ha imperniato la sistematica delle lesioni del possesso su tre contrapposizioni: possessore — detentore; molestia
— spoglio; lesione violenta — lesione semplice. Il solo possessore
immobiliare può reagire alle molestie e allo spoglio semplice.
Poniamo di fronte al dato testuale del codice il discorso della
giurisprudenza.
“In tema di spoglio deve ritenersi violenta qualsiasi azione
che produca la privazione del possesso contro la volontà anche
(225) In questi termini, Cass. 24 giugno 1995, n. 7200. Nello stesso senso anche Cass. 19
febbraio 1999, n. 1409.
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448
IL POSSESSO
III, 6.6.5.
presunta del possessore, ancorché non vi concorrano veri e
propri atti di violenza materiale” (226). Ricorre, dunque, spoglio
violento “anche nella privazione dell’altrui possesso mediante
alterazione dello stato di fatto in cui si trova il possessore eseguita
contro la volontà anche soltanto presunta del possessore”,
presunzione “sussistente sempre che manchi la prova di una
manifestazione univoca di consenso e che non è superata dal
semplice silenzio, fatto di per sé equivoco che non può essere
interpretato senz’altro come manifestazione di consenso o di
acquiescenza” (227).
Dunque, solo una “una manifestazione univoca di consenso”
esclude la violenza. Ma laddove esiste una manifestazione univoca di consenso, siamo in presenza di uno spoglio?
L’inciso “contro la volontà espressa o presunta del possessore
spogliato” non aggiunge e non toglie nulla alla definizione dello
spoglio. Definendo così la violenza, ogni spoglio è uno spoglio
violento.
La giurisprudenza svolge la “violenza” menzionata dal legislatore in un requisito implicito e tautologico, e così facendo
pone in essere una interpretazione abrogativa dell’espressione.
La giurisprudenza italiana rispetta una linea di evoluzione
che si è manifestata in molti ordinamenti e in molti momenti
storici. Fin dall’inizio della trattazione abbiamo anticipato che la
violenza connotò figure di aggressione ai beni appartenenti ad
altri in varii ordinamenti primitivi. Il diritto romano, il diritto
inglese, il diritto canonico ci offrono materiali per questa ricostruzione.
Peraltro, la evoluzione del diritto ha provveduto a liquidare la
tradizione favorevole alla dequalificazione della lesione solo se
violenta. Già la storia del diritto romano mostra come si sia
annacquato, nelle regole dell’interdetto unde vi, il requisito della
violenza, che la regola giustinianea dà senz’altro presente quando
la vittima abbandona il fondo per un ragionevole timore, o
(226) Cass. 23 febbraio 1981, n. 1101. Nello stesso senso cfr., ad esempio, Cass. 13 febbraio
1987, n. 1577.
(227) Cass. 13 febbraio 1999, n. 1204.
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III, 6.6.5.
IL POSSESSO
449
quando non può ripristinare la situazione anteriore alla lesione
senza ricorrere alla forza. L’azione canonistica di spoglio, ispirata
originariamente all’orrore per la violenza, fu utilizzata in presenza
di qualsiasi ingiustificata perdita del possesso. Non è avvenuto
diversamente in Inghilterra, per l’azione di trespass: il requisito
della lesione, espresso con la parole “vi et armis”, a distanza di
tempo prese a considerarsi come non scritto, o non si scrisse
affatto, e la rottura del confine si estese concettualmente a
qualsiasi violazione del confine, inteso come delimitazione ideale
di uno spazio.
La evoluzione verso l’abbandono della violenza come requisito effettivo per la repressione dello spoglio è fondata su ragioni
serie. Normalmente, la violenza non nasce da una decisione
dell’aggressore, ma dalla resistenza fisica della vittima.
Concedere il rimedio solo se ci fu violenza fisica equivale a
statuire che la vittima ha l’onere di opporre resistenza fisica, sotto
pena di decadere dal rimedio. Può essere una soluzione appagante in uno Stato fragile, che non può garantire l’ordine e
demanda all’autotutela la conservazione della pace sociale; non è
una soluzione pensabile in un ordinamento moderno. Il detentore o il possessore mobiliare non possono essere penalizzati
perché hanno preferito cercarsi un avvocato piuttosto che adoperare il bastone.
La giurisprudenza ha assimilato allo spoglio violento lo
spoglio semplice. In questo modo, il detentore beneficia della
repressione dello spoglio semplice. Il detentore, ridotto dalla
legge ad una protezione marginale, viene avvicinato dalla giurisprudenza alla posizione del possessore.
La violenza morale è equiparata a quella fisica (228); si precisa
che sono sufficienti a integrare il requisito della violenza “anche
atti di costringimento morale diretti contro la volontà espressa o
presunta del possessore al fine di sottrarre al medesimo il
possesso o impedirgliene l’esercizio” (229). Ritraducendo questa
affermazione nel linguaggio della giurisprudenza, diremo che lo
(228)
(229)
Cass. 24 aprile 1959, n. 1227.
Cass. 29 giugno 1985, n. 3896.
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450
IL POSSESSO
III, 6.6.5.
spoglio si considera contrario alla volontà della vittima anche là
dove la volontà della vittima sussistesse, ma fosse prodotta da
minaccia o altro elemento che ne distruggesse il valore. La
giurisprudenza, però, precisa che la frode non elimina il consenso, ancorché viziato (230); chi perciò consente perché ingannato ha altri rimedi, ma non può lamentare lo spoglio.
Quanto al requisito della clandestinità, bisogna innanzitutto
segnalare che esso svolge un ruolo diverso da quello a cui lo
destinava la lettera del codice. Se qualunque spoglio è violento, il
carattere clandestino della lesione diventa un elemento superfluo
e irrilevante ai fini della possibilità per l’attore di reagire allo
spoglio. Lo spoglio avvenuto all’insaputa della vittima (e dunque
senza il suo consenso) è sempre, secondo la giurisprudenza, uno
spoglio violento (231). La discussione sulla clandestinità si fa
invece in relazione al decorso del termine di cui all’art. 1168, 1°
e 3° comma: in caso di spoglio, l’azione deve essere proposta
entro un anno dal fatto; ma, se lo spoglio è clandestino, il termine
decorre dal giorno della scoperta.
Secondo la giurisprudenza, si ha clandestinità non quando il
possessore ha ignorato lo spoglio, ma quando “egli, usando l’ordinaria diligenza e avuto riguardo alle concrete circostanze in cui
lo spossessamento si è verificato ed è stato mantenuto, si sia trovato
nella impossibilità di averne conoscenza” (232). Di conseguenza, “il
termine per l’esercizio dell’azione possessoria, in caso di espoliazione o di turbativa clandestina, non decorre dall’effettiva scoperta
del fatto lesivo, ma dal giorno in cui lo stesso avrebbe potuto essere
scoperto usando la normale diligenza dell’uomo medio” (233).
Dietro la severità dei giudici, che impongono allo spogliato
un onere di diligenza nell’accertare le offese arrecate ai proprii
beni, si intravvede una lotta del giudice contro i tentativi,
(230) Cass. 18 marzo 1975, n. 1048.
(231) Significativa in questo senso è Cass. 29 gennaio 1993, n. 1131: “posto che lo spoglio
si considera violento quando avviene contro la volontà del soggetto passivo, si presume esservi
violenza anche nella semplice inconsapevolezza da parte di quest’ultimo dell’azione perpetrata
dall’autore dello spoglio”.
(232) In questi termini, Cass. 11 novembre 1986, n. 6589; Cass. 13 settembre 1991, n. 9585;
Cass. 4 febbraio 1998, n. 1131.
(233) Così Cass. 25 febbraio 1989, n. 1044; Cass. 13 settembre 1991, n. 9585.
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III, 6.6.6.
IL POSSESSO
451
pretestuosamente intrapresi dall’attore neghittoso, per rimettersi
in termini dopo aver lasciato decorrere il termine legale per la
proposizione dell’azione. Come spesso accade, essendo difficile la
prova positiva della conoscenza, si equipara alla conoscenza la
ignoranza dovuta a colpa grave.
Significative sono quelle decisioni che respingono i tentativi
di qualificare come clandestino lo spoglio sulla base della mera
lontananza fisica del possessore (risiedente in altra città o altro
Stato), attribuendo rilevanza alla presenza di “persone che in
qualsiasi modo rappresentino il possessore” (234) (conduttori,
custodi, congiunti incaricati di sorvegliare il bene), e che verosimilmente lo hanno informato dell’avvenuto spoglio (235).
6.6.6.
L’elemento psicologico dello spoglio e della molestia.
Per lungo tempo la giurisprudenza ha ripetuto che lo spoglio
deve constare non solo del comportamento materiale, ma anche
di un requisito psicologico, battezzato animus spoliandi, definito
come la consapevole volontà di sovvertire la situazione possessoria, contro la volontà espressa o presunta del possessore (236). In
modo analogo, la giurisprudenza ha a lungo richiesto, per la
configurabilità delle molestie, l’animus turbandi, definito come la
coscienza e volontà di compiere un atto che implichi l’alterazione
dell’altrui possesso, contro il divieto espresso o anche solo
presunto del possessore (237).
Il requisito in esame non è menzionato dalla legge, ed è da
tempo contestato vigorosamente da una parte importante della
dottrina (238).
(234) Cass. 4 febbraio 1998, n. 1131.
(235) Cfr. Cass. 13 settembre 1991, n. 9585; Cass. 4 febbraio 1998, n. 1131.
(236) Le sentenze sono troppo numerose per citarle. A mero titolo di esempio, cfr. Cass. 18
luglio 1985, n. 4226; Cass. 26 novembre 1986, n. 6978.
(237) Cfr., ad esempio, Cass. 16 marzo 1984, n. 1800; Cass. 14 febbraio 1987, n. 1620.
(238) Fra i primi e più vivaci oppositori della necessità dell’animus spoliandi, si possono
ricordare G. DEJANA, Un requisito non richiesto per lo spoglio: l’animus spoliandi, in Giur. compl.
Cass. Civ., 1946, I, 159, e C. A. FUNAIOLI, A proposito di animus spoliandi e natura giuridica dello
spoglio, in Foro civ., 1949, 34. L’opinione contraria alla necessità dell’animus spoliandi è molto
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452
IL POSSESSO
III, 6.6.6.
Bisogna aggiungere che la giurisprudenza ripete spesso che
l’animus spoliandi è “insito” nel fatto di privare il possessore
della cosa contro la sua volontà (239); e, di conseguenza, che
l’animus spoliandi (o turbandi) si presume, una volta accertata la
lesione del possesso (240). Ciò ha creato in qualche osservatore
l’impressione che la giurisprudenza, che ha inventato il requisito
dell’intento, finisca in pratica per vanificarlo, ricomprendendolo
negli altri costituenti della lesione.
La Corte di Cassazione, nel 1994, con una decisione presa a
sezioni unite, ha dato l’impressione di recepire le critiche proposte dalla dottrina contro il proprio precedente orientamento. La
Corte ha condannato la dottrina dell’animus; innanzitutto, le
disposizioni del codice “prescindono del tutto dal c.d. animus
non conferendo ad esso alcuna rilevanza”; in secondo luogo, la
stessa giurisprudenza che considera l’animus elemento essenziale
dello spoglio e della turbativa “finisce col vanificarlo perché, pur
affermando che per esso si richiede la consapevolezza del
possesso altrui e della contraria volontà dello spogliato o del
molestato, lo riduce poi a una semplice formula, affermando che
sia insito (in re ipsa) nella materiale privazione o turbativa del
godimento della cosa”. La Corte ha ribadito tuttavia la necessità
di un requisito psicologico, da ravvisarsi “nel dolo o nella
colpa” (241).
Dal 1994 coesistono due indirizzi giurisprudenziali almeno
nominalmente contrapposti. Alcuni giudicati si sono adeguati
all’indirizzo espresso dalla sentenza del 1994 (242), ma molte
decisioni sono rimaste fedeli alla tradizione, parlando di animus
spoliandi o turbandi (243). La differenza concreta tra le due
nozioni, del resto, non è stata chiarita (244).
diffusa in dottrina. Cfr., ad esempio, MASI, Il possesso, cit., p. 464; SACCO e CATERINA, Il possesso,
cit., p. 303 ss.; BIANCA, Diritto civile, cit., p. 842.
(239) Cfr., a mero titolo di esempio, Cass. 15 aprile 1982, n. 2281.
(240) Cfr., a mero titolo di esempio, Cass. 27 maggio 1987, n. 4729.
(241) Cass. S.U. 22 novembre 1994, n. 9871.
(242) Cass. 28 maggio 1999, n. 5200; Cass. 1 dicembre 2000, n. 15381.
(243) Cfr., ad esempio, Cass. 13 febbraio 1999, n. 1204; Cass. 22 giugno 2000, n. 8489;
Cass. civ. 23 febbraio 2001, n. 2667.
(244) Qualche decisione sembra considerare l’animus come un requisito ulteriore, e più
stringente, rispetto al dolo o alla colpa. Così, ad esempio, Cass. 1 dicembre 2000, n. 15381
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III, 6.6.6.
IL POSSESSO
453
Spostandosi sul piano dei risultati concreti a cui conduce la
regola giurisprudenziale dell’animo, si devono analizzare quelle
sentenze che in circostanze particolari hanno respinto la domanda di reintegrazione o di manutenzione per difetto di animo.
Questa giurisprudenza sembra assegnare all’intento una funzione
discriminante. In realtà, non sempre è così. Nell’ambito in cui
opera questa giurisprudenza, il difetto dell’animo va spesso di
pari passo con il difetto di un elemento oggettivo della fattispecie.
Spesso si afferma che esclude l’animus il consenso dello
spogliato (che fa venir meno lo stesso elemento oggettivo dello
spoglio) (245). Qualche volta la mancanza dell’elemento soggettivo maschera la presenza di una esimente tipica: così quando
si dice che manca l’animus nel comportamento di chi agisca in
adempimento d’un obbligo giuridico discendente da un provvedimento autoritativo (246). In un caso si è escluso l’animus
spoliandi “trattandosi di un bene incolto, senza alcun segno
del possesso di altri, che veniva preso in consegna in forza di
un contratto di affitto stipulato con la p. a., e mediante
operazioni di recinzione effettuate, con l’intervento di funzionari
statali, senza alcuna immediata protesta o contestazione di
terzi” (247).
In molti casi, dunque, il riferimento all’elemento psicologico
appare superfluo, essendo possibile escludere già sul piano
oggettivo la presenza dello spoglio o della molestia.
Qualche volta invece la giurisprudenza sembra riconoscere
una effettiva rilevanza all’elemento soggettivo. Così una massima
ripetuta statuisce che l’esistenza dell’animus può essere esclusa
respinge la tesi che “per l’esistenza dello spoglio o della turbativa del possesso richiede, oltre al
dolo o alla colpa nella realizzazione della condotta costituente spoglio o turbativa, anche il cd.
animus spoliandi o turbandi”, escludendo che il possessore debba “provare la consapevolezza
dell’autore dell’aggressione di aver violata la norma posta a tutela del pieno e libero esercizio del
possesso”. In tal modo si contrappone al dolo o colpa “nella realizzazione della condotta” l’animus
come specifica consapevolezza della antigiuridicità della condotta stessa.
(245) Cass. 18 luglio 1985, n. 4226; Cass. 10 aprile 1996 n. 3291; Cass. 30 dicembre 1997,
n. 13101; Cass. 22 giugno 2000, n. 8486.
(246) Cass. 7 febbraio 1981, n. 766.
(247) Cass. 11 dicembre 1985, n. 6268.
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454
IL POSSESSO
III, 6.6.6.
quando il convenuto provi “il proprio ragionevole convincimento
circa il consenso del possessore alla modifica od alla privazione
del suo possesso” (248). In almeno un caso, la giurisprudenza ha
escluso l’elemento soggettivo in presenza di un “errore scusabile”
del convenuto, accusato di aver violato le norme sulle distanze tra
edifici, per la “palese obiettiva difficoltà nel ricondurre alla
previsione normativa, pur esaminata con la dovuta diligenza, il
caso concreto” (249).
Non è chiaro, insomma, fino a che punto la stessa giurisprudenza prenda sul serio il requisito dell’elemento psicologico. La
massima giurisprudenziale che richiede l’animo, ovvero il dolo o
la colpa, in ogni caso non è da approvare.
L’evoluzione del diritto ha configurato il possesso come una
forma cadetta di appartenenza, protetta per le stesse ragioni della
proprietà, e contro ogni genere di ingerenza; in questo quadro si
spiega l’abbandono della tradizione favorevole alla dequalificazione della lesione solo se violenta (250). Il possesso, come la
proprietà, merita di essere protetto con rimedii che prescindono
dall’origine delittuosa dell’ostacolo che si frappone all’esercizio
del titolare.
Se Tizio usurpa incolpevolmente un cappotto potrà sempre
sottrarsi all’azione di reintegrazione restituendolo. La sua incolpevolezza potrà esimerlo dalla condanna a risarcire il danno, ma
non dalla condanna a restituire prontamente il bene.
(248) Cass. 7 agosto 1982, n. 4447; Cass. 30 dicembre 1997, n. 13101; Cass. 21 febbraio
2001, n. 2525. In realtà, le sentenze reperibili per esteso non testimoniano per l’effettiva rilevanza
dell’elemento soggettivo. In Cass. 30 dicembre 1997, n. 13101 il convenuto aveva provato di aver
effettivamente agito con il consenso del precedente possessore, che gli aveva consegnato le chiavi
dell’immobile. Cass. 21 febbraio 2001, n. 2525, invece, condanna il convenuto, considerato
“consapevole di aver sovvertito la situazione di compossesso contro la volontà del soggetto passivo
e di non agire secondo diritto”.
(249) Cass. 28 maggio 1999, n. 5200. Attenzione, però: la sentenza di merito aveva ritenuto
che in ogni caso le norme locali invocate non fossero applicabili al manufatto costruito dal
convenuto. La Cassazione, rilevata la “incerta e non diretta applicabilità al caso di specie delle
norme locali in materia di distanze tra edifici”, condivideva la considerazione, “comunque
aggiuntiva” secondo cui “anche tale situazione contribuisse ad escludere l’elemento soggettivo
della molestia in esame”. L’impressione, cioè, è che l’esclusione dell’elemento soggettivo corrobori
semplicemente una conclusione a cui si poteva giungere per altra via.
(250) Vedi supra § 6.1.2 e 6.6.5.
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III, 6.6.7.
IL POSSESSO
6.6.7.
455
Le cause di giustificazione.
Dobbiamo domandarci se le comuni cause di giustificazione,
previste in materia di fatto illecito, possano essere invocate da chi
è convenuto in un giudizio possessorio.
La prima ipotesi che viene in considerazione è quella della
legittima difesa, regolata dall’art. 2044 c.c.
Qualche volta si è parlato di una legittima difesa che fa
perdere il carattere di antigiuridicità dello spoglio se esercitata
“con immediatezza”, onde non si potrebbe parlare di legittima
difesa se lo spogliato “compia a sua volta uno spoglio completamente distinto” (251). Forse più propriamente, si è parlato, in
simili contesti, di “difesa privata del proprio possesso, anche
mediante contrapposizione della forza”, richiamando il principio
“vim vi repellere licet” (252).
In realtà, finché lo spoglio dell’attore è in corso, le iniziative
del convenuto costituiscono atti di resistenza all’aggressione. Solo
impropriamente si dice che il convenuto ha commesso uno
spoglio giustificato dalla legittima difesa; in realtà non ha commesso alcuno spoglio, ma ha impedito il perfezionarsi dello
spoglio dell’attore (e semmai invoca la legittima difesa per
sottrarsi al pagamento degli eventuali danni arrecati mediante la
sua attività di resistenza). È chiaro, invece, sulla base del frasario
della giurisprudenza, che non può invocare la legittima difesa chi,
avendo subito uno spoglio oramai perfetto, opera a sua volta un
nuovo spoglio.
Un problema diverso è se l’art. 2044 possa essere invocato
per giustificare lo spoglio effettuato per la difesa di un bene
diverso dal possesso della cosa appresa mediante lo spoglio.
Se le azioni possessorie debbono vedersi come poste a
garanzia di un regime cadetto di appartenenza, secondo la
ricostruzione che si è proposta nelle scorse pagine (253), allora
bisogna concludere che il regime di appartenenza non può essere
(251)
(252)
(253)
Cass. 8 novembre 1958, n. 3660.
Cass. 29 gennaio 1973, n. 277.
Vedi supra § 6.1.2.
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456
IL POSSESSO
III, 6.6.7.
scalfito dalle circostanze che giustificano le lesioni apportate al
possesso.
Tizio cattura, ferendolo, un cane mordace, che il vicino ha
sguinzagliato per mettere a repentaglio la sua incolumità; il
vicino, sfrontato, chiede i danni e la restituzione. Non c’è dubbio
che Tizio potrà bloccare la domanda di danni; ma, quando
l’episodio è archiviato, deve restituire il cane.
Il discorso svolto in tema di legittima difesa è valido anche
per lo stato di necessità.
Le altre esimenti, bene sviluppate nel diritto penale, non ci
aiutano a risolvere nessun problema nell’area che studiamo.
L’adempimento del dovere pubblicistico di spossessare un soggetto è al centro del meccanismo dell’esecuzione forzata degli
obblighi di consegna, di rilascio, oltre che delle procedure di
pignoramento ai fini della subasta e di altre procedure di questo
genere. Ma l’operato dell’ufficiale giudiziario che precetta e poi
spossessa il debitore non appare come semplicemente coperto da
una comune esimente; ed infatti qui la legge non solo non vuole
reprimere la condotta dell’ufficiale giudiziario che procede all’esproprio, ma vuole precisamente far cessare, in un modo o
nell’altro, il possesso dell’esecutato.
Così la libertà di chi esercita un diritto non interferisce nel
nostro tema assicurando all’agente una causa di giustificazione. In
via normale, il proprietario non viene scusato se va a pigliarsi la
cosa che altri possiede senza titolo (254). Le norme sul possesso
sono tessere del sofisticato mosaico che indica i modi prefissati
per esercitare e per difendere i diritti sui beni che ci appartengono. Il sopravvenire di una “causa di giustificazione” la quale
operi, in modo generale, ovunque sia configurabile un “esercizio
del diritto sul bene” sconvolgerebbe di colpo l’equilibrio voluto
dal legislatore.
L’aggressione dell’altrui sfera è talora lecita; ciò avviene
quando il regime di appartenenza dei beni esige esso stesso lo
spoglio o la turbativa, perché esige che il possesso del bene si
(254)
Vedi infra § 6.6.13.
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III, 6.6.8.
IL POSSESSO
457
trasferisca dal soggetto attuale all’agente o venga comunque
modificato ad opera dell’agente.
6.6.8.
Le legittimazione attiva alle azioni possessorie.
L’azione di reintegrazione assicura una protezione minimale
ad un’ampia cerchia di legittimati. L’azione è data a chi ha
perduto al possesso, ma anche a chi aveva la semplice detenzione
(purché non per ragioni di servizio o di ospitalità) ed è stato
spogliato.
L’azione di manutenzione assicura una protezione più estesa
ad una cerchia, apparentemente elitaria, di titolari di situazioni
possessorie qualificate. Essa è concessa al soggetto del potere di
fatto corrispondente ad un diritto reale su immobili o su
universalità di mobili, sempreché questo possesso sia stato
acquistato in modo non violento né clandestino, e duri da oltre
un anno continuo e non interrotto.
Abbiamo già illustrato come la giurisprudenza, vanificando il
requisito della violenza, estenda l’azione contro lo spoglio semplice a tutti i soggetti legittimati sulla base dell’art. 1168 c.c.; la
nostra attenzione si sposta allora sulla possibilità di agire,
attraverso l’azione di manutenzione, contro le turbative.
In Germania, l’azione contro la turbativa (Störungsklage) è
concessa a qualunque Besitzer, anche privo di animus domini (255). In Francia il legislatore nel 1975 ha attribuito la
complainte anche al detentore (256).
Anche in Italia, la lotta per l’estensione dell’azione di manutenzione al detentore è aperta.
Il problema è aperto soprattutto per il conduttore. C’è,
innanzitutto, chi inscrive il diritto del conduttore fra i diritti
reali (257). Questa via non ha bisogno, per tutelare il conduttore,
di ridiscutere l‘art. 1170 c.c..
(255) Vedi supra § 6.1.3.
(256) Loi n. 75-569, del 9 luglio 1975. Sul punto cfr. A. GUARNERI, Una legge francese sulle
azioni possessorie, in Rivista di diritto civile, 1980, I, 302.
(257) In questo senso, cfr. C. LAZZARA, Il contratto di locazione (profili dommatici), Milano,
1961, pp. 109 ss.; M. COMPORTI, Contributo allo studio del diritto reale, Milano, 1997, pp. 327 ss.
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458
IL POSSESSO
III, 6.6.8.
C’è chi invece, per ottenere l’allargamento dell’art. 1170 al
conduttore, ne invoca una interpretazione evolutiva (258).
Altri autori hanno sostenuto la legittimazione del conduttore
all’azione di manutenzione sulla base dell’art. 1585, 2° comma
c.c., che consegna nelle mani del conduttore una parte delle
ragioni che competono al locatore nei confronti dei terzi (259). In
questa prospettiva, il conduttore, legittimato ai sensi dell’art.
1585 c.c., modella la sua condizione giuridica su quella del
locatore suo dante causa: l’annalità, la continuità, la pubblicità
del possesso saranno l’annalità, la continuità, la pubblicità del
possesso del suo autore. Qualcuno sostiene poi l’estensione
analogica dell’art. 1585 ad altre figure di detentori (260).
L’estensione dell’azione contro le turbative al detentore,
stabilita dal legislatore in altri ordinamenti e caldeggiata in Italia
da parte importante della dottrina, risponde a ragioni serie. Se il
detentore è molestato da un terzo, la soluzione più semplice è
concedergli l’azione, non costringerlo a invocare l’intervento del
possessore. In termini generali, “l’intelligenza giuridica media
suggerisce che è più opportuno, soprattutto per il proprietario
concedente, che l’affittuario si difenda da solo contro le aggressioni esterne” (261).
La giurisprudenza italiana, peraltro, risponde pienamente a
queste esigenze concedendo al conduttore un’azione, fondata
sull’art. 1585, 2° comma c.c., diretta a far cessare le molestie dei
terzi, azione che però non è qualificata come azione di manutenzione (262). D’altra parte, la Corte di Cassazione riconosce anche
ai titolari di diritti personali di godimento (e in primo luogo ai
(258) A. BELFIORE, Interpretazione e dommatica nella teoria dei diritti reali, Milano, 1979,
specialmente pp. 30-74 e pp. 119-132.
(259) Cfr. SACCO, Il possesso, la denuncia di nuova opera e di danno temuto, 1960, cit., p. 101;
LIOTTA, voce Detenzione, in Enc. Giur., X, Roma, 1988, p. 6; GALGANO, Diritto civile, cit., p. 432.
(260) LIOTTA, op. loc. ult. cit.
(261) A. GAMBARO e R. SACCO, Sistemi Giuridici Comparati, in Trattato di Diritto Comparato
diretto da R. SACCO, 2ª ed., Torino, 2002, p. 163.
(262) Cfr. Cass. 14 ottobre 1987, n. 7609; Cass. 26 gennaio 1995, n. 939 (in entrambi i casi
l’azione, rivolta contro terzi, era diretta a ottenere la potatura di siepi che disturbavano il
godimento degli immobili; nel secondo caso la Corte rettificava esplicitamente il nomen iuris
dell’azione, proposta come azione di manutenzione ex art. 1170 c.c.). Sul punto, cfr. A. CHIANALE
e R. CATERINA, L’art. 1585 comma 2 c.c. e la tutela del conduttore, in Responsabilità civile e
previdenza, 2000, 253.
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III, 6.6.8.
IL POSSESSO
459
conduttori) la possibilità di agire per ottenere la cessazione di
immissioni intollerabili, sulla base dell’art. 1585 2° comma e di
un’applicazione analogica dell’art. 844 c.c. (263).
L’art. 1170 c.c. non tutela qualunque possesso, ma solo il
possesso acquistato in modo non violento né clandestino.
Si suol dire che l’acquisto è violento o clandestino se
procurato mediante spoglio violento o clandestino.
Come si è visto, l’aggettivo violento, posposto al sostantivo
“spoglio” contenuto nell’art. 1168 c.c., si intende come non
scritto (264). Trasponendo il modulo di lettura nell’art. 1170 c.c.,
avremmo che il possesso acquistato mediante spoglio non giova
per ottenere protezione contro le turbative (perché qualunque
spoglio è violento). Ma l’art. 1170 concede l’azione al soggetto il
cui possesso è viziato, allorché sia “decorso un anno dal giorno in
cui la violenza o la clandestinità è cessata”. Se noi riduciamo lo
spoglio violento allo spoglio generico, quando potremo considerare cessata la violenza?
Una ricostruzione razionale deve integrare i due requisiti
dell’ultraannalità e della non viziosità. Anche prima del compimento dell’anno, il possessore “pulito” può agire in manutenzione, perché “unisce al proprio possesso quello del suo autore”
(art. 1146 2° comma c.c.). Il possessore che non ha maturato
l’anno è solo il possessore che ha acquistato da meno di un anno
mediante spoglio.
Il possessore vizioso e di fresca data è il possessore esposto
all’azione di reintegrazione. La regola gli dice di non cercare la
pagliuzza nell’occhio del vicino (che ascolta musica a un volume
troppo alto), finché deve rendere conto del fatto di essersi
impadronito dell’appartamento mediante una chiave fasulla.
Il discorso corre per quanto riguarda la violenza. Fin dal
momento dello spoglio la violenza è cessata; dopo un anno, il
possessore è sottratto ad azioni possessorie recuperatorie, e può
agire in manutenzione.
(263) Cfr. Cass. 11 novembre 1992, n. 12133; Cass. 22 dicembre 1995, n. 13069. Sul tema,
cfr. anche G. GABRIELLI, Sulla legittimazione a domandare la cessazione di immissioni, in Rivista di
diritto civile, 1997, II, 627.
(264) Vedi supra § 6.6.5.
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460
IL POSSESSO
III, 6.6.8.
Il discorso corre per quanto riguarda la clandestinità. La
clandestinità ritarda il termine per la proposizione dell’azione di
reintegrazione; allo stesso modo, ritarda il decorso dell’anno. La
nozione di clandestinità dovrà pertanto essere letta in modo
omogeneo negli articoli 1168 e 1170 (265).
Il possesso deve durare da un anno. Questo requisito comporta che la protezione possessoria opera se la lesione interviene
quando il possesso è diventato ultraannale; se la lesione avviene
prima di questo momento, l’azione è respinta anche se proposta
quando l’anno è maturato. Altrimenti, la regola dell’ultraannalità
consisterebbe nell’imporre al possessore di fresca data di attendere il completamento dell’anno prima di agire, e ciò contro il
principio per cui se si attribuisce a qualcuno un potere d’azione
si deve spronarlo ad agire subito.
Si ricollega alla regola dell’ultraannalità il requisito della
continuità. Esso significa che il possesso deve protrarsi per un
anno consecutivo; non implica invece che l’ingerenza del possessore debba essere qualificata da una assiduità speciale.
6.6.9.
La legittimazione passiva alle azioni possessorie.
A quali criterii il legislatore si ispira, disponendo chi possa
essere convenuto in un’azione possessoria?
Il legislatore ha davanti a sé due possibili criterii alternativi.
In base al primo di essi, egli può concentrare la sua attenzione
sul fatto che dà luogo alla lite, ossia sull’aggressione al possesso,
che si perfeziona quando la vittima ha perduto il possesso o ha
perduto le utilità che gli ha sottratte la turbativa. Questo evento
storico è irreversibile, e la legittimazione passiva colpisce colui
che, al momento della commissione del fatto, ne fu autore. Anche
quando il processo si faccia a distanza di tempo, il soggetto da
convenire in giudizio si individua con riferimento al fatto storico
lesivo, da cui inizia tutta la sequenza; e questa individuazione è
immutabile. Il criterio di cui parliamo è adottato nell’area della
(265)
Vedi supra § 6.6.5.
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III, 6.6.9.
IL POSSESSO
461
responsabilità aquiliana: l’autore del fatto illecito è legittimato
passivo, e la legittimazione si fissa al momento del fatto.
In base al secondo criterio, il giudizio è finalizzato a ripristinare la situazione che preesisteva alla lesione. Poco importa,
sapere come la lesione è avvenuta. Importa invece domandarsi
quale situazione sia di ostacolo al ripristino, a chi faccia capo
questa situazione ostativa, quale sia il possesso antagonista a
quello dell’attore. Il legittimato passivo all’azione sarà colui, la cui
situazione deve essere sacrificata per ripristinare la situazione che
preesisteva alla lesione. Solo al momento dell’inizio della lite si
saprà chi debba essere convenuto. Il criterio in esame opera ad
es. nella rivendicazione. Il legittimato passivo è colui che possiede
(o detiene) al momento dell’inizio della lite, perché è suo il
possesso che dev’essere travolto se si vuole ripristinare il godimento del bene da parte del proprietario.
La concezione del giudizio possessorio come giudizio di
responsabilità delittuale inciderà sulla legittimazione passiva,
ch’essa riserverà all’autore della lesione.
La concezione del giudizio possessorio come azione reale
reipersecutoria inciderà sulla legittimazione passiva, ch’essa riserverà al soggetto la cui situazione possessoria sia di ostacolo al
ripristino della situazione possessoria originaria della vittima.
In particolare, venendo a parlare dell’azione di reintegrazione, se l’azione è regolata come le delittuali sarà convenuto
l’autore dello spoglio violento o clandestino; se l’azione è regolata
come le azioni reali, sarà convenuto colui che possiede al
momento dell’instaurazione del giudizio.
La prima soluzione è più coerente con la concezione che vede
la tutela del possesso come strumentale alla tutela dell’ordine
pubblico. La seconda soluzione è più coerente con la concezione
del possesso come forma cadetta di appartenenza.
Vediamo quale soluzione è data al problema nell’ordinamento italiano.
L’art. 1168 c.c. dispone che l’azione va proposta contro
“l’autore dello spoglio”. L’art. 1169 c.c. ammette l’azione di
reintegrazione anche “contro chi è nel possesso in virtù di un
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462
IL POSSESSO
III, 6.6.9.
acquisto a titolo particolare, fatto con la conoscenza dell’avvenuto spoglio”.
La regola legislativa si intreccia con una regola giurisprudenziale che considera legittimato passivo non solo l’“autore materiale”, ma anche l’“autore morale” dello spoglio; è considerato
autore morale sia il mandante, sia il soggetto che abbia successivamente approvato gli atti di spoglio, traendone profitto con il
fare propri gli effetti della lesione possessoria nella consapevolezza dell’illiceità dell’atto (266).
La giurisprudenza sembra prendere sul serio la necessità
della consapevolezza dello spoglio commesso da altri. In un caso,
i convenuti eccepivano il difetto di legittimazione passiva, in
quanto lo spoglio era stato materialmente commesso dal dante
causa, il quale aveva poi venduto loro il fondo. Il giudice del
merito aveva ritenuto che, avendo approfittato dello spossessamento, i convenuti dovessero esserne considerati autori morali;
la Cassazione ha censurato la sentenza di merito, affermando che
“chi ha acquistato la proprietà del bene, con diritto alla consegna
della cosa, commette spoglio non in qualunque caso in cui
comunque ottenga dal suo dante causa l’adempimento, ma
soltanto se sia cosciente che lo stesso suo dante causa per
effettuare la consegna, abbia con violenza o clandestinità sottratto la cosa a chi la possedeva”, mentre nel caso di specie
l’“indagine sull’animus” dei convenuti era stata pretermessa (267).
L’ordinamento italiano, dunque, si discosta dalla soluzione
che considera legittimato passivo solo l’autore della lesione, ma
non arriva a considerare senz’altro legittimato passivo colui che
possiede al momento dell’instaurazione del giudizio.
Gli interpreti tendono a trattare in modo omogeneo il
problema della legittimazione passiva in tema di reintegrazione
ed in tema di manutenzione. Molto spesso le sentenze che
equiparano all’autore materiale l’autore morale si riferiscono sia
(266) Cfr., ad esempio, Cass. 23 febbraio 1981, n. 1101; Cass. 14 marzo 1987, n. 2656; Cass.
10 febbraio 1997, n. 1222; Cass. 8 giugno 2001, n. 7775.
(267) Cass. 25 maggio 1993, n. 5873.
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III, 6.6.10.
IL POSSESSO
463
allo spoglio che alle molestie (268); ed in dottrina si è affermato
che legittimato passivamente è non solo l’autore, materiale o
morale, ma anche “il terzo acquirente a titolo particolare della
cosa a mezzo della quale la molestia sia stata attuata, il quale sia
consapevole della turbativa” (269).
6.6.10.
Oggetto delle azioni possessorie.
Le fonti che incontriamo in tema di spoglio confermano un
primo dato elementare: avvenuto uno spoglio, l’ordinamento
mette a disposizione del soggetto spogliato un provvedimento di
reimmissione in possesso, al conseguimento del quale mirano
l’azione di reintegrazione dell’art. 1168 e l’azione di manutenzione di cui all’art. 1170 3° comma.
La soluzione appare semplice e piana finché il possesso fa
capo all’autore dello spoglio o a un terzo consapevole, perché in
tal caso la restituzione nel possesso costituisce un rimedio rivolto
contro l’autore dello spoglio o il terzo, che sono parti nel
giudizio.
Le difficoltà cominciano a profilarsi quando la cosa sottratta
ha cessato di esistere, quando la cosa sottratta è nelle mani di un
soggetto diverso dall’autore dello spoglio, quando l’attività di
spoglio (di una servitù) si è concretata in una costruzione o in una
distruzione.
Quando l’autore dello spoglio ha “totalmente distrutto o
disperso” la cosa sottratta al possessore, la giurisprudenza ritiene
che, difettando il presupposto della possibilità del ripristino della
precedente situazione possessoria, l’azione di reintegrazione del
possesso sia “preclusa” (270) (salvo il diritto della vittima di
chiedere il risarcimento del danno). “Nell’azione di reintegrazione lo scopo della tutela possessoria è quello di ripristinare lo
stato di fatto preesistente e di restituire il possessore, che ha
sofferto lo spoglio, nel possesso della cosa; ne consegue che
(268)
11916.
(269)
(270)
Cfr. (sia pure in obiter) Cass. 4 aprile 1987, n. 3272; Cass. 11 settembre 2000, n.
MASI, Il possesso, cit., p. 477.
Cfr., fra le ultime, Cass. 15 giugno 1982, n. 3635; Cass. 4 novembre 1993, n. 10939.
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IL POSSESSO
III, 6.6.10.
quando quest’ultima sia venuta a mancare del tutto, l’azione di
reintegrazione non può essere proposta per l’inesistenza del suo
oggetto (senza che possa rilevare la possibilità della ricostruzione
dello stesso)” (271). In applicazione di questo principio, la Corte
di Cassazione ha cassato la decisione di un giudice di merito che
aveva disposto la ricostruzione di un muro distrutto (272).
La stessa regola opera quando la cosa, senza essere distrutta,
abbia subito modificazioni tali da renderla non più idonea alla
originaria destinazione, alla quale si intende recuperarla. Così si
è ritenuto che “il completo riempimento di una fossa per
l’irrigazione ed il correlativo spianamento del suolo, in modo da
rendere impossibile l’individuazione della sua ubicazione” ne
determina “la cessazione dell’esistenza in rerum natura, e quindi
ne impedisce la reintegrazione a termini dell’art. 1168 c.c.”; la
Corte ha escluso anche di poter ordinare la ricostruzione della
res, “perché sarebbe posto in essere un quid novi, e non si
otterrebbe la restituzione della medesima res, cui tende l’azione
di spoglio” (273). In modo ancor più sorprendente, la Corte di
Cassazione ha ritenuto impossibile la reintegrazione, e quindi
improcedibile l’azione, in un caso in cui il convenuto aveva
ostruito l’accesso a una nicchia mortuaria rinchiudendola in una
cappella di nuova costruzione (274).
L’azione di reintegrazione non è invece preclusa in caso di
mera modificazione reversibile della cosa. Così la Corte di
Cassazione ha confermato una sentenza di merito che aveva
condannato il convenuto a ripristinare nello stato precedente un
marciapiedi parzialmente distrutto durante lavori di ristrutturazione (275), affermando peraltro, in modo poco coerente con altre
precedenti decisioni, che le innovazioni relative a beni immobili
sarebbero di per sé sempre suscettibili di rimessione in pristino.
Leggendo la giurisprudenza, non è sempre facile capire in
(271) Cass. 28 febbraio 1985, n. 1745.
(272) Cass. 9 febbraio 1982, n. 776. Nello stesso senso, vedi già Cass. 13 luglio 1963, n.
1900, in Foro it., 1963, I, 1, 2134.
(273) Cass. 29 maggio 1978, n. 2701.
(274) Cass. 23 aprile 1969, n. 1316, in Giur. It., 1970, I, 1, 1247.
(275) Cass. 3 luglio 1996, n. 6057.
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III, 6.6.10.
IL POSSESSO
465
base a quali criteri essa distingue le modificazioni reversibili dalle
alterazioni che rendono impossibile la reintegrazione. Il che
sembra abbastanza naturale, considerando che l’importanza della
alterazione dipende dalla lente con cui la si guarda: la demolizione di un muretto è distruzione totale del muretto medesimo, e
lieve alterazione della casa di cui fa parte.
Sembrerebbe invece pacifico che quando lo spoglio o la
molestia si concretino nella costruzione di un manufatto il
possessore possa chiederne la demolizione (276); tuttavia, la
richiesta di demolizione costituisce domanda autonoma, che non
può ritenersi implicita nella domanda di reintegrazione, ed è
subordinata alle condizioni previste dall’art. 936 c.c. (277).
Il quadro degli orientamenti giurisprudenziali apre qualche
interrogativo. Innanzitutto, balza agli occhi la differenza di
trattamento tra la costruzione lesiva, che dà luogo alla demolizione, e l’abbattimento lesivo del bene posseduto, che non dà
luogo alla condanna alla refezione. La distinzione può lasciare
spazio a casi dubbi (perché nella alterazione della cosa, come nel
ripristino, possono intrecciarsi demolizioni e ricostruzioni), e non
sempre la giurisprudenza la applica in modo coerente.
In secondo luogo, l’affermazione che difetta ”il presupposto
della possibilità di una reintegrazione della precedente situazione
possessoria” (278) appare ovvia in alcune circostanze (il convenuto distrugge un’antica stampa giapponese; il convenuto uccide
un cane da esposizione); è meno ovvia quando si tratta di scavare
fosse o ricostruire muri.
Il nostro tema si intreccia con quello della legittimazione del
possessore ad invocare l’art. 2058. In un’occasione la Suprema
Corte ha statuito (coerentemente con gli orientamenti appena
esposti) che “contro l’autore di spoglio, che abbia distrutto la
cosa, l’azione di reintegrazione in forma specifica, ai sensi e nei
limiti di cui all’art. 2058 c.c., spetta soltanto al proprietario, non
anche al possessore della cosa sottratta” (279). Tuttavia, in tempi
(276)
(277)
(278)
(279)
Cass.
Cass.
Cass.
Cass.
5 dicembre 1987, n. 9031; Cass. 7 agosto 1990, n. 7978.
5 dicembre 1987, n. 9031.
4 novembre 1993, n. 10939.
15 giugno 1982, n. 3635.
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466
IL POSSESSO
III, 6.6.10.
più recenti la stessa Cassazione ha affermato, in termini generali,
che “la restituzione in pristino (…) non incontra, per essere
pronunciata, il limite reale del danneggiato e quindi non può
essere condizionata dal previo accertamento della titolarità, da
parte del danneggiato, di un diritto di tale contenuto” (280); alla
luce di questa posizione, sembrerebbe aperta, al possessore che
vuole il ripristino della situazione di fatto antecedente allo
spoglio, la possibilità di invocare l’art. 2058 c.c. (purché, ovviamente, il ripristino non sia materialmente impossibile) (281). A
questo punto, per mantenere una qualche coerenza con l’orientamento che non ammette l’azione di reintegrazione quando la
cosa è distrutta, si potrebbe applicare il 2° comma dell’articolo,
escludendo la reintegrazione in forma specifica quando essa
risulti eccessivamente onerosa. Non sarebbe dunque applicabile,
in tema di possesso, la doctrine, talvolta enunciata dalla Corte di
Cassazione (ma ancora da esplorare nelle sue effettive implicazioni), secondo cui il 2° comma dell’art. 2058 non è applicabile
alle azioni di tutela di un diritto reale (282).
Si potrebbe allora immaginare, ricomponendo ad unità i vari
orientamenti giurisprudenziali, una regola così costruita: fuori dai
casi di impossibilità materiale del ripristino della situazione di
fatto, il possessore ha diritto al ripristino, ma solo se non è
eccessivamente oneroso.
La Corte di Cassazione, tuttavia, ha affermato che, fuori dai
casi di assoluta impossibilità di conseguire la restitutio in integrum, è inapplicabile alle azioni possessorie il capoverso dell’art.
2058 c.c. (283). La giurisprudenza, insomma, più che applicare un
criterio fondato sul calcolo costi-benefici, sembra inseguire una
incerta distinzione ontologica tra modificazioni reversibili (che
aprono la strada al ripristino, per quanto costoso) e distruzione o
(280) Cass. 16 marzo 1988, n. 2472.
(281) P.G. MONATERI, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile diretto da R. SACCO,
Torino, 1998, p. 325, considera “completamente superata” dai più recenti orientamenti della
Suprema Corte l’opinione espressa in Cass. 15 giugno 1982, n. 3635.
(282) Cfr. Cass. 4 novembre 1993, n. 10932; Cass. 29 maggio 1995, n. 6035.
(283) Cass. 28 aprile 1985, n. 2935.
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III, 6.6.10.
IL POSSESSO
467
alterazione radicale della cosa (che forse preclude addirittura al
possessore la possibilità di invocare l’art. 2058 c.c.).
Un ulteriore difetto di coerenza nella giurisprudenza emerge
quando si confronta l’orientamento appena descritto con la
regola enunciata nei casi in cui l’azione è proposta contro l’autore
dello spoglio non più possessore della cosa. Secondo la giurisprudenza, il fatto di avere il convenuto dismesso ogni rapporto
materiale con la cosa e di non essere, quindi, in grado di dare
esecuzione all’obbligo di reintegrazione del possessore spogliato
non esclude la sua legittimazione passiva, conservando pur
sempre la sentenza di condanna una sua utilità, quanto meno al
fine accessorio di legittimare una richiesta di risarcimento dei
danni nei suoi confronti (284). Perfino la restituzione intervenuta,
per iniziativa spontanea dell’agente, prima che il giudice gliene
abbia fatto ordine non elimina, secondo la giurisprudenza,
l’interesse del soggetto passivo ad ottenere una sentenza che
esamini la fondatezza, nel merito, dell’azione possessoria (e su cui
l’attore potrà basare un eventuale separato giudizio di
danni) (285).
A questo punto, però, sembra inconseguente che, distrutta la
cosa, l’azione non sia proponibile, e invece lo sia quando la cosa
è già stata riconsegnata al possessore leso. L’atteggiamento delle
corti dovrebbe essere omogeneo nelle due situazioni.
L’attore in manutenzione chiede, spesso, la cessazione, per il
futuro, delle ingerenze del convenuto. Qualche volta, chiede una
pronuncia puramente dichiarativa, di accertamento del suo
possesso (così quando lamenti molestie “di diritto”). Come si è
anticipato, quando la molestia ha lasciato tracce od opere lesive,
l’attore può chiedere la riduzione in pristino delle cose e dei
luoghi.
(284)
(285)
Cass. 7 aprile 1987, n. 3356; Cass. 5 giugno 1990, n. 5389.
Cass. 13 febbraio 1987, n. 1578.
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468
IL POSSESSO
6.6.11.
III, 6.6.11.
Termine per la proposizione delle domande.
Le azioni possessorie possono essere intentate entro l’anno
dalla lesione (art. 1168, 1° comma; art. 1170, 1° comma, c.c.).
Ai fini della tempestività dell’azione possessoria si fa riferimento al giorno del deposito in cancelleria del ricorso (286).
Se la lesione consiste in uno spoglio clandestino, il termine
dell’anno decorre dalla scoperta dello spoglio (art. 1168, 3°
comma); sembra ragionevole che la medesima regola valga per
ogni ipotesi di lesione clandestina del possesso (compresa la
molestia o l’opera nuova), dato che la ragione del 3° comma cit.
potrebbe risiedere non già nel fatto che la clandestinità dequalifica lo spoglio, ma nella circostanza che essa impedisce al soggetto
una tempestiva reazione (287).
Con grande frequenza la pratica deve decidere se, compiuti
più atti lesivi del possesso, distanziati nel tempo, l’anno decorra
dal primo o dall’ultimo di essi.
La giurisprudenza ha elaborato una coppia di massime
complementari che vengono formulate come segue: “l’anno utile
per l’esperimento delle azioni possessorie nel caso di turbativa o
di spoglio posti in essere con più atti decorre dal primo atto senza
che si possa tener conto di quelli successivi solo quando questi
siano legati tra loro da un nesso di inscindibile dipendenza, così
da costituire, nel loro complesso, una unica molestia o un unico
spoglio, ma non anche quando si tratti di atti autonomi ciascuno
dei quali costituisca una turbativa o uno spoglio a sé stante, nel
qual caso il termine annuale decorre dall’ultimo atto” (288).
In tema di molestie, si è poi precisato che il termine decorre
dall’inizio dalle molestie quando “i vari episodi (…) costituiscono
nient’altro che elementi, nella loro essenza e modalità lesiva, del
tutto analoghi” e quindi da valutare “meramente ripetitivi” della
iniziale molestia turbatrice del possesso (sicché ad esempio si è
negata tutela contro le immissioni di rumori provenienti da una
(286) Cass. 4 novembre 1993, n. 10936.
(287) Sulla clandestinità dello spoglio, vedi supra, § 6.6.5.
(288) Così Cass. 15 luglio 1995, n. 7751; nello stesso senso, cfr. ad esempio Cass. 1
dicembre 1994, n. 10320; Cass. 23 marzo 1996, n. 2604.
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III, 6.6.12.
IL POSSESSO
469
pasticceria che esercitava da anni la sua attività con le stesse
modalità e gli stessi rumori) (289).
Dell’orientamento della giurisprudenza non si può che prendere atto; esso, tuttavia, può condurre ad applicazioni discutibili.
Il termine non decorre da un atto, ma da un evento (perdita
del possesso, molestia). Gli eventi da considerare sono di diversa
natura. La perdita del possesso è un evento istantaneo; potrà
essere reiterato, ma non è mai continuato. La molestia può
estrinsecarsi tanto in un fatto istantaneo quanto in un fatto
durevole, e può avere intensità varie.
Il discorso sul termine non può essere il medesimo per i due
tipi di eventi.
Trattandosi di eventi istantanei, il primo di essi produce un
effetto irreversibile, e gli atti susseguenti sono l’ovvio esercizio
della nuova situazione possessoria creatasi, e non possono costituire lesioni nuove. Nel caso di reiterazioni, seguite da recuperi,
ogni nuova lesione è un illecito a sé stante, e dà luogo al decorso
di un termine del tutto nuovo.
Trattandosi di eventi continuati o iterativi, la gravità della
lesione è in funzione della intensità, della frequenza, ma anche
della durata della lesione. Un fatto nuovo, aggiunto ai fatti
precedenti, può essere la goccia che fa traboccare il vaso.
Il termine annuale è pacificamente un termine di decadenza.
La decadenza non è rilevabile d’ufficio (290), ed è anzi rinunciabile (291).
6.6.12.
La domanda di risarcimento del danno.
Una tradizione che risale al diritto romano ricollega alla
lesione possessoria una ragione risarcitoria. Anche nell’ordinamento italiano, esiste un consenso pressoché generalizzato degli
interpreti sul fatto che la lesione possessoria generi l’obbligo di
risarcire il danno subito dalla vittima (292). Le opinioni si
(289)
(290)
(291)
(292)
Cass. 23 marzo 1996, n. 2604.
Cfr., ad esempio, Cass. 11 agosto 1997, n. 7481.
Cfr. Cass. 8 luglio 1983, n. 4599 (in obiter).
Cfr. ad esempio, C. TENELLA SILLANI, Il risarcimento del danno da lesione del possesso,
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470
IL POSSESSO
III, 6.6.12.
diversificano invece sia sulle voci di danno concretamente risarcibili, che sull’inquadramento della responsabilità (che alcuni
riconducono nella figura generale delineata dall’art. 2043, altri
considerano implicitamente ricompresa nei rimedi possessori
regolati dagli artt. 1168-1170 c.c.) (293).
Senza pretendere di fornire una descrizione dei vari orientamenti, proviamo a delineare alcuni punti che sembrano ragionevoli e che rispecchiano, almeno in qualche misura, le scelte della
giurisprudenza (la quale, peraltro, al di là della generica adesione
all’idea della risarcibilità del danno, non si muove con perfetta
coerenza).
Giova partire da una sentenza elaborata con molta consapevolezza (294), che decide un caso in cui il convenuto ha estratto
ghiaia da un fondo posseduto dall’attrice, ma, secondo il convenuto, appartenente al demanio dello Stato.
La Suprema Corte si misura con la tesi, sostenuta in un
remoto precedente dalla stessa Cassazione (295) e condivisa dal
giudice del merito, secondo cui altro è il valore del possesso ed
altro è quello del bene oggetto dello spoglio: chi ha subito la
perdita del possesso non avrebbe, secondo questa tesi, diritto al
controvalore del bene perduto, ma solo al danno relativo alla
privazione del possesso sino alla pronunzia, dovendosi provvedere per il resto in sede petitoria, nella quale si deve stabilire a chi
appartiene il diritto reale sulla cosa.
La Cassazione distingue tra il caso in cui autore dello spoglio
è lo stesso proprietario del bene e il caso in cui autore dello
spoglio è un terzo, che non accampa alcun diritto sulla cosa. In
questo secondo caso “non può avere ingresso la questione della
proprietà”; una volta accertati gli estremi dell’illecito extracontrattuale, non ha nessuna rilevanza la deduzione secondo cui il
bene posseduto dall’attore appartiene a un terzo: il convenuto è
tenuto “a risarcire interamente il danno arrecato” al possessore,
Milano, 1989; MONATERI, La responsabilità civile, cit., p. 545 ss. In giurisprudenza, cfr., da ultimo
Cass. 23 febbraio 2006, n. 4003.
(293) La divaricazione è studiata in modo analitico in TENELLA SILLANI, Il risarcimento, cit.
(294) Cass. 12 maggio 1987, n. 4367.
(295) Cass. 24 gennaio 1957, n. 225, in Giur. It., 1957, I, 1, 976.
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III, 6.6.12.
IL POSSESSO
471
e questo “dovrà, a sua volta rispondere nei confronti del
Demanio o di altro eventuale soggetto che intendesse rivendicare
la proprietà del terreno”.
La sentenza ha il merito di chiarire un punto: quando autore
dell’illecito è un terzo, che non accampa alcun diritto sulla cosa,
il possessore ha sicuramente diritto a ottenere l’integrale risarcimento del danno, senza che ciò implichi un diritto del possessore
al danno che la perdita del possesso ha causato nella sua sfera. In
realtà, la questione della proprietà, come dice la Suprema Corte,
semplicemente non ha ingresso; l’aggressore non può difendersi
dicendo che un terzo è proprietario, e il giudice non ha bisogno
di accertare questo dato.
In materia di risarcimento del danno, il nostro ordinamento
sembra adottare un sistema fondato sul titolo migliore: il possessore può domandare il cosiddetto risarcimento del danno (il
valore della cosa e dei frutti) da chi ha distrutto o danneggiato la
cosa, poi il proprietario può rivolgersi (in separato giudizio) al
possessore per chiedergli il capitale da lui riscosso (oltre ai frutti,
se il possessore è di mala fede).
Ad un sistema siffatto vanno riconosciuti due grandi vantaggi. Da un canto, esso assicura al possessore non proprietario il
conseguimento del valore della cosa, della quale egli è a sua volta
responsabile nei confronti del vero proprietario; e consente poi al
proprietario di rivolgersi direttamente contro di lui, anziché
contro lo spogliatore, che il proprietario non conosce. In secondo
luogo, esso non richiede al possessore di discutere del suo titolo
di proprietà contro un autore dell’illecito a sua volta estraneo a
qualsiasi controversia sulla proprietà.
Ciò si inscrive perfettamente nella ricostruzione che si è
proposta nelle prime pagine del fondamento della protezione del
possesso (296). Quando il proprietario è assente, il possessore,
messo in condizioni di difendere il proprio interesse contro i
potenziali danneggianti o usurpatori, finisce per difendere gli
interessi del proprietario, ma anche l’interesse più generale della
società a prevenire lo spreco e la distruzione delle risorse.
(296)
Vedi supra § 6.1.2.
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472
IL POSSESSO
III, 6.6.12.
Più incerto è il problema della tutela risarcitoria del possessore quando l’autore dello illecito è il proprietario della cosa. La
giurisprudenza, aperta in linea di principio a concedere un
risarcimento al possessore, appare piuttosto incerta al momento
della concreta quantificazione del danno risarcibile; talvolta si fa
riferimento ai danni subiti per il perduto godimento del bene.
In un caso risalente (297), la Corte di Cassazione ha affermato,
che, “come la reintegrazione deve essere ordinata indipendentemente dalla sussistenza dello ius possidendi”, del pari, anche ove
lo spogliatore sia proprietario, “devono essere restituiti i danni
che siano dello spoglio conseguenza diretta ed immediata”, dal
momento che il risarcimento è sostitutivo della reintegrazione per
il periodo per il quale la privazione del possesso è durata, ed anzi
“la reintegrazione non sarebbe completa se, relativamente all’intervallo di tempo interceduto tra lo spoglio ed il recupero del
bene, non fosse in sede possessoria riconosciuto il diritto di chi
ha subito lo spoglio al risarcimento dei danni inerenti alla perdita
di quelle utilità che, per effetto dello spossessamento, non potè
conseguire”. Lo spogliato, però, “non può chiedere se non il
risarcimento di quel pregiudizio economico che si rimanda alla
perdita del possesso ed al protrarsi di tale privazione; pregiudizio
che, ovviamente, è diverso da quello derivante dalla definitiva
perdita della cosa o del suo valore, e che può essere fatto valere
come titolo di risarcimento solo in via petitoria e a condizione che
lo spogliato dimostri, in quella sede, di essere titolare del diritto
di proprietà”.
La logica sottesa alla decisione citata si potrebbe riformulare
così. Il nostro ordinamento ha deciso di tener fuori le questioni
inerenti alla proprietà dal giudizio possessorio; allo stesso modo,
il giudice, constatato uno spoglio, deve disinteressarsi della
proprietà, e concedere allo spogliato i danni temporanei, dovuti
al mancato godimento del bene. In altra sede si accerterà chi è
proprietario del bene, ed eventualmente, se lo spogliato è
proprietario, potrà chiedere il valore della cosa.
Un simile orientamento deve essere integrato con due preci(297)
Cass. 24 gennaio 1957, n. 225, in Giur. It., 1957, I, 1, 976.
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III, 6.6.13.
IL POSSESSO
473
sazioni. Innanzitutto, se lo spogliatore è proprietario, egli (quantomeno se il possessore è di mala fede) si vedrà in pratica
restituire la stessa somma che ha dovuto pagare. Il possessore
ottiene i danni dovuti al mancato godimento del bene nel periodo
compreso fra lo spoglio e la restituzione. Questo godimento è
tutt’uno con l’acquisto dei frutti, il quale a sua volta è consentito
soltanto al proprietario e al possessore di buona fede. Ai fini
dell’allocazione dei frutti — e dei benefici dipendenti dal godimento temporaneo del bene — il possessore di buona fede è
trattato come un proprietario; ma il possessore di mala fede non
ha titolo alcuno, e deve restituire i frutti, e pagare il valore del
godimento del bene di cui abbia usato personalmente.
In secondo luogo, come vedremo nel prossimo paragrafo,
oggi il nostro ordinamento sembre consentire, in certi limiti, allo
spogliatore di far valere le proprie ragioni petitorie in sede
possessoria; l’ordinamento non proibisce sempre e incondizionatamente la ragion fattasi al proprietario, e non concede al
possessore rimedi senza limiti contro la ragion fattasi del proprietario. Di ciò si dovrebbe tener conto anche in tema di risarcimento del danno.
6.6.13.
Il divieto di cumulo del possessorio e petitorio.
Il cardine dei rapporti intercorrenti tra giudizio possessorio e
giudizio petitorio è contenuto negli artt. 704 e 705 c.p.c. L’art.
704 riserva al giudice del petitorio ogni domanda che reagisca a
lesioni del possesso maturate nel corso dello stesso giudizio
petitorio. L’art. 705 nella sua formulazione originaria vietava a
chi fosse convenuto in giudizio possessorio di intentare giudizio
petitorio prima che il giudizio possessorio fosse definito, e, per
quanto dipende da lui, eseguito.
Poiché la contemporanea trattazione del giudizio petitorio e
possessorio suole chiamarsi “cumulo”, si dice che l’art. 705
enuncia il “divieto di cumulo del possessorio e petitorio”. Divieto
di cumulo significa divieto di trattare il petitorio prima che sia
definito il possessorio, e divieto di trattare in unico giudizio le
ragioni possessorie e petitorie.
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474
IL POSSESSO
III, 6.6.13.
A questo punto è utile una precisazione. La lettera dell’art. 705
c.p.c. vieta al convenuto di proporre il giudizio petitorio, non proibisce di proporre difese fondate sulla situazione extrapossessoria.
Ma un’interpretazione pacifica, fondandosi vuoi sull’art. 705,
vuoi sul comma 4° dell’art. 1168 c.c. (che ordina al giudice di
ordinare la reintegrazione “sulla semplice notorietà del fatto”),
vuoi sui principi generali del sistema, ha sempre vietato altresì al
convenuto di proporre un’eccezione petitoria, ossia di difendersi
chiedendo che si rilevi incidentalmente che lo spoglio o la
molestia era lecita perché proveniva da un avente diritto. In altre
parole, gli interpreti hanno ricavato dalla preclusione della
proposizione della domanda petitoria il divieto dell’invocazione
del diritto come causa di giustificazione della lesione possessoria.
La giurisprudenza applica con fedeltà la regola della improponibilità della eccezione. Secondo una massima consolidata,
“l’eccezione feci sed iure feci, sollevata dal convenuto nel
giudizio possessorio di reintegrazione, consente una valutazione
del titolo posto a sostegno di detta eccezione al limitato fine di
acquisire elementi di prova in ordine alla esistenza ed estensione
del possesso che il convenuto opponga di avere sulla cosa per
escludere o limitare quello ex adverso vantato, mentre è preclusa
ogni indagine sull’eventuale ius possidendi del convenuto medesimo in considerazione del divieto di cumulo del giudizio
petitorio con quello possessorio, stabilito dall’art. 705
c.p.c.” (298). La difesa feci sed iure feci è cioè sicuramente
accoglibile se significa “ho operato in modo conforme alla mia
situazione possessoria”, se cioè il convenuto vuole far valere la
sua situazione possessoria; il convenuto non può invece far valere
la situazione petitoria, che determina la sua pretesa al possesso.
Il divieto del cumulo è tradizionale (299), ed è sentito dagli
(298) Cfr., fra le tante, Cass. 5 dicembre 1988, n. 6583; Cass. 24 gennaio 1984, n. 580.
(299) La parola tradizionale deve intendersi in senso relativo.
In Italia il diritto comune, dai glossatori in poi, ammetteva la difesa petitoria nel giudizio
possessorio se di immediata soluzione, e questa regola permane nel diritto svizzero.
Il divieto generale di cumulo è proprio invece della regola canonistica in tema di actio spolii.
Dall’actio spolii essa si è diffusa nel diritto francese; di qui, esso è penetrato nel diritto piemontese
e poi italiano.
La regola canonistica-francese non è universalmente diffusa. In Germania la legge non è
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III, 6.6.13.
IL POSSESSO
475
interpreti come qualcosa di ovvio, anche in assenza di una
esplicita enunciazione legale.
Il divieto di cumulo non opera se il giudizio petitorio non è
proposto per secondo, e non è proposto da chi è convenuto nel
giudizio possessorio. Il divieto di cumulo del giudizio petitorio
con il giudizio possessorio opera pertanto nei soli confronti del
convenuto, e l’art. 705 c.p.c. non è ostativo alla proposizione, da
parte dell’attore in possessorio, della separata azione petitoria (300).
All’inizio del 1992, la Corte costituzionale ha ravvisato
l’incompatibilità dell’art. 705 c.p.c. con gli artt. 3 e 24 della
Costituzione (301). La Corte costituzionale ha osservato che il
giudizio possessorio è organizzato dalla legge come procedimento speciale, con una prima fase di tipo interdittale improntata
alle forme del processo cautelare. La cognizione sommaria del
giudice è giustificata dall’urgenza di intervento del braccio della
legge per ripristinare uno stato di cose alterato dal comportamento arbitrario del terzo, ma è costruita in modo da arrecare al
convenuto, che sia titolare di un diritto sulla cosa, un sacrificio
transeunte e reversibile, cui porrà riparo il successivo giudizio
petitorio.
Secondo la Corte, “con questa concezione non è coerente —
e perciò contrasta col principio di razionalità di cui all’art. 3 Cost.
— l’assolutezza del divieto di invocare il proprio diritto che l’art.
705 impone al convenuto, impedendogli non solo la proposizione
di eccezioni ex iure proprio nello stesso processo possessorio, ma
anche, fino a quando il processo non sarà conchiuso e la decisione
eseguita, la proposizione di un separato giudizio petitorio davanti
al giudice competente”. L’autonomia della tutela possessoria deve
chiara; la dottrina è divisa (la sua maggioranza consente che la ragione petitoria escluda la
sussistenza della lesione possessoria); la giurisprudenza dà corso senza riserve all’eccezione
fondata sul petitorio e al cumulo dei due contemporanei rimedii.
Si trovano maggiori notizie in G. A BECCARA, La Corte costituzionale ridimensiona la portata del
cosiddetto “divieto del cumulo” tra possessorio e petitorio, in Quadrimestre, 1993, 594, pp. 614 ss.
(300) Cfr., ad esempio, Cass. civ. 13 maggio 1998, n. 4810; Cass. civ. 22 maggio 1998, n.
5110.
(301) Corte cost., 3 febbraio 1992, n. 25, in Foro it., 1992, I, 616, nota di A. PROTO PISANI;
in Giur. It., 1992, I, 1, 1634, nota di A. CHIANALE; in Riv. Dir. Proc., 1992, 1184, nota di P.
POTOTSCHNIG; Le nuove leggi civ. comm., 1992, 790, nota di G. CIAN.
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476
IL POSSESSO
III, 6.6.13.
essere bilanciata dalla condizione che il pregiudizio arrecato al
convenuto possa essere riparato mediante un altro giudizio.
La Corte ha fatto due esempi. “Quando si tratta di cose
mobili non registrate, un pregiudizio definitivo e irrimediabile
incombe soprattutto (…) quando lo spogliato risulti essere un
ladro, un ricettatore, un ritrovatore infedele o, come nella specie,
un indiziato di truffa” che, rientrato in possesso della cosa, potrà
alienarla a un terzo di buona fede.
In materia immobiliare, l’esecuzione del provvedimento possessorio arreca un danno irreparabile quando lo spoglio si
concreta nella costruzione di un manufatto; “in tal caso l’onere di
eseguire la decisione prima di proporre il giudizio petitorio
costringe il convenuto a distruggere un’opera che, come risulterà
dal successivo giudizio petitorio, aveva diritto di costruire”.
Secondo la Corte, nei casi di irreparabilità del danno inflitto
all’avente diritto, l’esecuzione del provvedimento possessorio
frustra il giudizio petitorio, e si rende così manifesta una
violazione dell’art. 24 Cost., non essendo in tal caso possibile
sostenere che la tutela possessoria non preclude la tutela giurisdizionale del diritto del convenuto, ma soltanto la differisce a un
giudizio successivo.
La sentenza della Corte ha dato l’avvio a più di una
ricostruzione.
Una prima lettura, che si appoggia senza dubbio ad alcuni
passaggi del giudicato (302), suggerisce che la riforma operata
dalla Corte legittimi chi è convenuto nel giudizio possessorio a
intraprendere nella sede competente — quando sussista il pericolo di danno — il giudizio petitorio (preceduto dalle eventuali
misure cautelari idonee a bloccare l’esecuzione dell’eventuale
provvedimento possessorio). Secondo questa lettura, la Corte si è
occupata del divieto di azione (espressamente formulato dall’art.
705 c.p.c.), e non del divieto di eccezione petitoria; essa ha
(302) Lo stesso dispositivo della sentenza dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 705
c.p.c. “nella parte in cui subordina la proposizione del giudizio petitorio alla definizione della
controversia possessoria”. L’impressione, tuttavia, è che alcuni commentatori si siano fatti
influenzare in misura eccessiva dal mero tenore letterale di alcune affermazioni della Corte. Per
una analisi puntuale, cfr. A. BECCARA, La Corte costituzionale, cit.
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III, 6.6.13.
IL POSSESSO
477
ammesso la proposizione di un autonomo giudizio petitorio, ma
non la proposizione di una eccezione petitoria nell’ambito del
giudizio possessorio (303).
Una seconda lettura muove dal rischio di incentivare “guerriglie giudiziarie”, destinate a combattersi a colpi di provvedimenti tra loro in necessaria collisione; richiama il principio
generalissimo del processo che tramite l’eccezione si può far
valere tutto ciò che può costituire oggetto di una autonoma
domanda; conclude che, nei limiti in cui la Corte ha sancito la
caduta del divieto dell’art. 705 c.p.c., il convenuto ha piena
libertà di tutelare le proprie ragioni di indole petitoria sia
mediante proposizione di apposita domanda, sia in via di
mera eccezione (e tale sarà prevedibilmente la via più frequente) (304).
Un orientamento che pareva consolidato della Corte di
Cassazione ammette che il convenuto in giudizio possessorio
faccia valere il diritto che gli compete in via di eccezione.
Secondo tale orientamento, il convenuto può opporre le sue
ragioni petitorie quando dalla esecuzione della decisione sulla
domanda possessoria potrebbe derivargli un danno irreparabile,
purché l’eccezione sia finalizzata solo al rigetto della domanda
possessoria (e non anche ad una pronuncia sul diritto con
efficacia di giudicato) e non implichi, quindi, deroga delle
ordinarie regole sulla competenza (305).
Successivamente la Corte di Cassazione (curiosamente ignorando i suoi stessi precedenti) si è pronunciata in senso diverso,
affermando che la pronuncia di illegittimità costituzionale ha
infranto soltanto il divieto per il convenuto in possessorio di agire
(303) Interpretano in questo modo P. POTOTSCHNIG, La Corte Costituzionale attenua il
divieto di cumulo fra giudizio possessorio e petitorio, in Rivista di diritto processuale, 1992, 1184; G.
CIAN, Eccezione ed azione petitoria, in Le nuove leggi civili commentate, 1992, 793.
(304) In questo senso cfr. A. PROTO PISANI, La Corte Costituzionale fa leva sull’irreparabilità
del pregiudizio per attenuare il divieto di cumulo del petitorio col possessorio, in Il foro italiano,
1992, I, 617; A BECCARA, La Corte costituzionale, cit.; S. CHIARLONI, Note minime sui procedimenti
possessori, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1994, 69; SACCO e CATERINA, Il possesso,
cit., pp. 360 ss.
(305) Cass. 22 aprile 1994, n. 3825; Cass. 6 dicembre 1995, n. 12579; Cass. 30 ottobre 1998,
n. 10862.
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478
IL POSSESSO
III, 6.6.13.
in petitorio, senza porre nel nulla il divieto di sollevare difese di
natura petitoria nel giudizio possessorio (306)
Rimane da precisare la figura del danno irreparabile, elevato
a circostanza determinante per la praticabilità del cumulo del
petitorio con il possessorio.
La Corte costituzionale, come si è visto, ha fatto due esempi.
A quanto pare, tutti i casi in cui la Corte di Cassazione ha
considerato ammissibile il cumulo riguardavano manufatti di cui
si chiedeva la demolizione nel giudizio possessorio, e che il
convenuto sosteneva di avere diritto di costruire (307). Non
risultano, invece, casi relativi a cose mobili, di cui il proprietario
teme la alienazione a terzi di buona fede (proprio un caso di
questo tipo si discuteva invece nel giudizio che ha dato occasione
alla pronuncia della Corte costituzionale).
In un caso (308) il convenuto sosteneva che il pregiudizio
irreparabile va esteso al “danno giuridico derivabile al convenuto
dalla pendenza, oltre il limite del ragionevole, del giudizio
possessorio”, nella fattispecie rappresentato dal prossimo compimento del termine utile per l’usucapione della servitù controversa.
La Cassazione ha respinto tale argomento, affermando che
“la nozione di irreparabilità del pregiudizio è stata dal giudice
delle leggi inequivocabilmente individuata nella perdita materiale
e irreversibile del bene”; ma non senza aggiungere che in effetti
“tanto l’azione, quanto l’eccezione petitoria, ancorché irritualmente esperita o sollevata nel corso del giudizio possessorio (…),
sul piano sostanziale sono idonee ad interrompere l’usucapione”.
Una riflessione sulla figura del danno irreparabile deve
muovere dalla constatazione che, se non si vuole restringere in un
ambito angusto l’eccezione al divieto di cumulo, la “irreparabilità” non comporta la impossibilità materiale del ripristino. La
Corte costituzionale ha citato, approvandola, una remota sen(306)
(307)
n. 12579.
(308)
Cass. 13 agosto 2004, n. 15753; Cass. 20 aprile 2006, n. 9285.
Cass. 22 aprile 1994, n. 3825; Cass. 26 gennaio 1995, n. 951; Cass. 6 dicembre 1995,
Cass. 20 giugno 2001, n. 8367.
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III, 6.6.14.
IL POSSESSO
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tenza della Corte di Cassazione (309), che, sotto il codice previgente, aveva ammesso che un’azione possessoria fosse paralizzata
dall’esercizio contemporaneo di un’azione petitoria, con conseguente sospensione dell’ordine di demolizione, allo scopo dichiarato di evitare all’economia nazionale “un inutile spreco di
ricchezza”. La Corte costituzionale vuole evitare lo spreco di
ricchezza che discende dalla demolizione di qualcosa che dovrà
essere ricostruito; e che discende allo stesso modo da qualunque
alterazione o trasformazione importante a cui potrebbe seguire,
in seguito al giudizio petitorio, un ripristino nello stato originario.
È interessante notare che, nel caso da cui è scaturita la
sentenza del 1992, il bene mobile, di cui il convenuto temeva la
perdita, non era un bene unico o insostituibile (si trattava di una
ruspa).
6.6.14.
La nuova opera e il danno temuto.
Come abbiamo accennato, un rimedio è previsto se vi è
ragione di temere che da una nuova opera sia per derivare danno
alla cosa che forma oggetto del potere di fatto; e altro rimedio è
concesso se vi è ragione di temere che un edificio, albero, o altra
cosa possa metta in pericolo di un danno grave e prossimo la cosa
che forma oggetto del potere (artt. 1171-1172 c.c.).
I rimedii sono concessi al proprietario o titolare di altro
diritto reale di godimento, e al possessore. Tuttavia, essi, d’abitudine, vengono illustrati quando si parla del possesso, e non,
invece, nelle trattazioni sulla proprietà.
I rimedii, dal nome dell’atto che introduce la domanda, si
chiamano denunce: rispettivamente, denuncia di nuova opera e
di danno temuto.
Gli articoli citati regolano le denunce, le procedure e i
provvedimenti giudiziarii che ne seguono; e contengono precisi
riferimenti ad una successiva trattazione e decisione del merito,
così chiarendo che i provvedimenti degli artt. 1171 e 1172 hanno
carattere cautelare.
(309)
Cass. 29 gennaio 1929, n. 405, in Foro it., 1929, I, 242.
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