S A T I R I C O N
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S A T I R I C O N
SATIRICON *COPERTINA E DISEGNO DI VITO GEMMATI SATI R I C O N a Tinto Brass e al suo “Caligola”; a Sir Lawrence Alma-Tadema e ad Alberto Arbasino e al loro Eliogabalo; a Federico Fellini immodestamente. Personaggi del romanzo: Encolpio, il narratore (etimo del nome: “nella fica”); Ascilto: compagno e amasio di Encolpio (etimo del nome: il culattone); Trimalcione: l'anfitrione ricchissimo (etimo: il furbone incallito); Gitone: l'efebo amato da Encolpio (etimo: l'intimo); Eumolpo: il vecchio poeta (etimo: il buon cantore); Lica: l'armatore invertito (etimo del nome: la lupa); Trifena: la moglie di Lica (etimo del nome: molle, lasciva). N.B.: I nomi di altri personaggi, in genere minori, sono quasi sempre presi dall'Odissea di Omero alla quale l'autore sembra essersi ispirato e sono quindi facilmente riconoscibili. ISTRUZIONI PER LA LETTURA: Il testo è scritto in due caratteri: con questo, che hai in nero sotto gli occhi e che sul mio computer si chiama “Times New Roman”, ho scritto tutte le parti frutto della mia fantasia da me usate per congiungere tra loro, secondo il mio modo di vedere, tutti i frammenti del romanzo a noi pervenuti; con quello che sul mio computer si chiama “AppleGothic” e che è quello che ora hai in rosso sotto gli occhi, ho scritto invece le “traduzioni” dei frammenti, alcuni dei quali lunghissimi. Dunque in “Times New Roman” leggi me; in “Apple Gothic” leggi i frammenti del Satiricon tradotti (cioè riscritti) da me. Con questa operazione ho voluto fornire al common reader un romanzo intero fruibile senza avere le necessarie conoscenze filologiche. Chissà se ci sono riuscito?! Ma ovviamente non si è trattato solo di un'integrazione, come si capirà benissimo leggendo: operazioni come queste infatti sono quasi sempre pro domo sua. A MARSIGLIA Dov'è il mio fratellino? Mi chiedevo. Eravamo appena arrivati a Marsiglia da Patrasso dopo un pauroso nubifragio e lui improvvisamente si era involato. Asciltooo! Gridavo. Asciltoooo! Ma non c'era risposta. Decisi di perlustrare la città palmo a palmo, ma Marsiglia non era la piccola Patrasso che avevamo lasciato pieni di speranze, per andare a Roma, da dove, quando eravamo quasi arrivati, una tempesta aveva allontanato la nostra nave trascinandola sulle coste della Provincia e aveva anche consentito a dei furfanti di derubarci dei pochi soldi che ci eravamo portati da casa per andare a studiare oratoria nella capitale dell'impero. La lingua? Avevamo imparato il latino in una scuola di Atene, frequentata per volontà delle nostre famiglie e, parlando greco, imparare il latino fu uno scherzo. Poi all'improvviso fra me e il mio fratellino adorato, Ascilto, una reciproca innominabile passione ci aveva sconvolto la vita e gli studi. Le nostre famiglie non ci permettevano di stare sempre insieme ed erano diventate insopportabili per entrambi. Me, che ero un po' più grande, mi costrinsero a sposare Doride e a non vedere più Ascilto. Poveretti! Non capivano che se nasci tondo non puoi diventare quadrato. Doride era giovane e bella e scopavamo, ma io con disgusto perché pensavo ad Ascilto e lei con insoddisfazione perché, mi diceva, si sentiva quasi respinta da me nel tempo stesso in cui la tenevo tra le braccia. E allora io e Ascilto avevamo deciso di fuggire da Atene e di recarci a Roma. Ma sì! La grande Atene ormai era scaduta al rango di piccolo centro provinciale, pieno di gloria e di cultura, ma privo di vita. Per noi due, assetati di sapere, ma soprattutto affamati di vita e di amore, Roma era una specie di miraggio. Sentivamo dire che ormai la ricchezza che vi confluiva quotidianamente aveva completamente cambiato i costumi, che la vecchia morale catoniana, non lo fo per piacer mio ma per dare figli a Roma, era ormai decaduta e che i giovani vi potevano sfogare tutte le loro passioni solo che avessero avuto un po' di parlantina per cercare il successo come oratori o come maestri di greco nelle scuole. “Vedrai, fratellino.” dicevo ad Ascilto “Guadagnerò tanti soldi, ti spoglierò e ti ricoprirò di monete d'oro e poi ti spoglierò di nuovo anche delle monete portandole via una ad una dal tuo corpo meraviglioso.” Un corpo meraviglioso davvero aveva, Ascilto, meglio di quello di una donna. Completamente privo di peli, aveva una pelle più soffice della seta, ma soprattutto sapeva darmisi con la innocente passività di una fanciulla che sa il male che la aspetta nell'amplesso, ma sa anche quale bene ne scaturirà. Asciltooo! Che ti strilli? mi disse un vecchio mendicante. Non ti sente nessuno. Stanno tutti al porto a quest'ora. Al porto troverò anche Ascilto, mi dissi, e corsi come un invasato nella direzione indicatami dal vecchio. Lo trovai praticamente svenuto per la fame e circuito da un porcone che voleva farselo. Mi avvicinai, lo abbracciai e lui mi sussurrò in un orecchio: “Mi ha promesso cento dracme. Che dici?” “Mai!” risposi, “Tu sei mio e nessuno mai ti avrà al posto mio.” In realtà un pensierino ce l'avevo fatto. Con Ascilto scopavamo insieme ormai da anni; era sempre bellissimo ma la sua pelle non era più quella di quando ne aveva quindici, di anni, e la passione ci aveva travolto; come la fame ci stava travolgendo adesso. “No!” Dissi con convinzione. “Ho visto un orticello fuori città con delle mele stupende. Appena scende la sera potremo mangiarne a sazietà e riprendere un po' di forze.” Mi mise il braccio destro sulle spalle, io lo cinsi alla vita col mio sinistro e insieme ci recammo nella bottega di un oste che era sempre generoso con i giovani e che quando ci vide ci rifocillò in cambio di un po' di lavoro in cucina. Piangevamo dalla fame ma a nessuno di noi due uscì mai una parola di pentimento per quanto stavamo facendo. Eravamo giovani, anzi giovanissimi, e ci sembrava di poter sollevare il mondo con un dito. Quando ero in forze perché avevo mangiato come si doveva, la sera, invece di farlo a letto, spogliavo Ascilto ancora in piedi e lo sollevavo, lui mi abbrancava il collo con le braccia e la schiena con le gambe e poi si lasciava calare lentamente sul mio pisello in fiamme che lo penetrava senza difficoltà e così, in piedi, me lo facevo anche due e tre volte finché esausto venivo aggredito, sì: aggredito, dal sonno. Ah, notti memorabili! Adesso un po' per i continui digiuni e un po' perché proprio giovane giovane non ero più, quel giochetto non mi riusciva più sempre. Il furto delle mele. Lavorammo in quell'osteria fino a quando l'ultimo avventore ubriaco non se ne andò e a notte fonda ci avventurammo per le stradine che portavano in campagna. La notte, quella notte, non ci faceva paura perché una bella luna, tonda e piena, la illuminava e ci si vedeva quasi come se fosse giorno. “Ecco Priapo!” dissi ad Ascilto, “Riconosco la statua. Chi ce l'ha più grosso, io o lui?” Ascilto rise e mi mise una mano tra le cosce come a dire “tu, naturalmente” e lesse sprezzantemente i brutti versi messi in bocca al dio dal contadino ignorante, padrone di quel bell'orticello: “Bada ch'io non ti prenda, bel pischello, che se ti prendo mal non ti farò con un bastone né con il sarchiello crudelmente ferire ti vorrò; ma te lo metterò tutto nel culo e ti aprirò talmente lo sfintere che crederai di non avere più le pieguzze nel buco del sedere.” Scherzò anche, l'incosciente, sul fatto che la statua era di legno e quindi innocua e disse che solo i cretini davano credito a quelle sciocche minacce. Non immaginava quanto siano potenti gli dei! “Fai la guardia” gli dissi, “e se senti rumore di passi avvisami.” Ma, mentre io rubavo le mele, quell'incosciente si mise a rispondere ai versi del dio con un pezzo di carbone trovato per terra: “A Priapo stanotte di mano la falce cadendo gli ha reciso di netto il pisello sicché adesso l'occhiuto guardiano non ha più né questa né quello.” E, finito di scrivere, aveva tirato giù con un salto la scure con cui il dio minaccia i ladri e con un colpo secco gli aveva staccato il membro di enormi proporzioni che quella statua aveva. Il rumore del legno quando lo spezzi svegliò il contadino che vide Ascilto e non gli parve vero. Io riuscii a fuggire con la bisaccia piena di frutta, Ascilto invece, povero amore mio, fu acciuffato da quell'infame che, minacciandolo con un coltellaccio, lo costrinse a fargli tutti i servizi possibili immaginabili e alla fine lo aveva penetrato col membro del dio che era più grosso di quello, di enormi proporzioni, di Ascilto stesso. Io non ebbi il coraggio di mettermi a difenderlo, mi preoccupavo più delle mele e nella notte raggiunsi, correndo come un pazzo, la taverna che ci ospitava gratuitamente perché di tanto in tanto Ascilto pagava l'affitto, ma in natura, alla vecchia megera che la gestiva e che amava fare i pompini a chiunque glieli chiedeva, ma più di tutti ad Ascilto che trattava come un figlio anche quando l'amore mio non era proprio propenso a farsi sleccazzare tutto da quella vecchia sdentata e lussuriosa che non solo lo leccava lì, ma con le sue manacce sembrava anche volerlo avvolgere completamente e volerselo reinfilare tutto nella fica. Quando arrivai era quasi l'alba: la vecchia maiala dormiva ancora. Senza far rumore mi sistemai sul nostro giaciglio di foglie secche ma fui assalito dal pianto pensando a che cosa poteva essere accaduto all'amore mio e non riuscii a prendere sonno. Per fortuna ecco che alle prime luci lo vedo tornare che camminava come una papera tanto era il dolore che sentiva lì. Mi raccontò tutto mentre io me la prendevo bestemmiando contro quel dio crudele e contro quel porco che si erano vendicati tanto crudelmente. “Me, me dovevi colpire, carogna di un dio! Non questo ragazzino indifeso e incapace di reggere gli assalti del villico rozzo a te devoto. Me la pagherete, tu e lui, maledetti! Me colpite, me sol, son io 'l colpevole: / contro di me le spade rivolgete.” Mi tornavano alla memoria prepotentemente i versi di Virgilio, quando Niso decide di morire sul corpo dell'amico Eurialo. Cercai di consolare Ascilto curandolo come potevo e, nel massaggiarlo delicatamente in quel posto affinché l'amore mio si rilassasse e il sangue smettesse di scorrere, entrambi ci addormentammo tenendo stretta a noi la bisaccia con le mele. La vendetta di Priapo. Il sole già alto ci svegliò all'improvviso. Fuori si sentivano le voci di quelli che si davano da fare nell'aia della taverna: non si sentiva neanche la voce della vecchia porca che di solito dava ordini a tutti. Il mio fratellino decise di voler dormire ancora e si rannicchiò in grembo a me. Sempre, quando il risveglio era così, lui si rannicchiava nel mio grembo e sempre il mio fringuello dopo qualche attimo tirava su la testa con prepotenza mentre le mie mani si appropriavano di quel culetto piccolo piccolo e pure così capiente. Ma che stava succedendo quella mattina? Ascilto era fra le mie braccia e lui, il mio fringuello, continuava a dormire? Che gli era preso? Che mi stava accadendo? Presi la mano di Ascilto, come facevo spesso quando lui si rannicchiava in grembo a me e così moscio com'era glielo misi in mano nella speranza che quel contatto più intenzionato risvegliasse il dormiente. Non Ascilto, intendo. Mi piaceva quando Ascilto, anche nel sonno era così succubo ai miei voleri. Prese a manipolarlo, ma non c'era niente da fare. Dopo un bel po' di sfregamenti vani che il mio ragazzo accompagnava con incitamenti ed eccitamenti finti, anche lui dovette ammettere che mi stava capitando qualche guaio: una malattia, una fattura, la fine del nostro amore. “Che hai, fratellino?”, mi disse, “Non mi vuoi più bene?” Piangevo; anzi: singhiozzavo. Ero malato? Ma no! Mi alzai, feci alcuni esercizi ginnici che avevo appreso nelle palestre greche e tutto funzionò alla perfezione meno che la parte che più delle altre mi stava a cuore. Che mi stava succedendo? Piangevo e a quel punto Ascilto si mise a piangere anche lui e ad abbracciarmi per consolarmi e mi diceva: “Vedrai che passerà presto. Succede sai.” Ma era come se lo dicesse a se stesso perché pensava che, se non fossi guarito, addio amore.” Era un momento di stanchezza? Ma quale stanchezza, all'età nostra, dopo aver dormito sodo per un'intera notte? Ero perseguitato da un dio? Chi poteva escluderlo? Non mi restava, anzi, non ci restava che piangere. Passavano i giorni tra furti, marchette e una fame implacabile che ci esponeva alle avventure più assurde, la migliore delle quali era un invito a cena quando rifocillati in qualche modo potevamo mostrarci al meglio di noi stessi. Eravamo giovani, belli, stranieri, sapevamo parlare latino e mostravamo entrambi sotto le tuniche arnesi che attiravano l'attenzione di donne vogliose dell'uno e dell'altro sesso. Ma la fame, la fame, all'età nostra è una dea implacabile. Nonostante tutte le nostre trovate alla fine ci sembrava sempre di avere la pancia vuota. “Ma non sarà, fratellino, che sei troppo debole e per questo non ti si addrizza più?” “E allora tu?” risposi, “che mangi quanto me... perché ci hai sempre l'alzabandiera pronta?” Ascilto rimase pensieroso e non ribatté più nulla, ma alla fine, in mancanza di meglio, come si diceva là in Provincia, provammo ugualmente a fare l'amore con un risultato disastroso. Piangevamo tutti e due come fontane ma non avremmo mai saputo dire se era per la mia impotenza o per la nostra fame. Porfirione. Una notte finalmente riuscimmo a rubare un maialino ad un allevatore a cui avevamo fatto credere di essere due mercanti della Tuscia venuti in Provincia a posta perché ci avevano detto che là si allevavano maiali di una razza speciale e il marpione aveva subito detto ad Ascilto, con cui parlava tenendomi stretta una natica con la mano, che eravamo capitati nell'allevamento giusto. Non dissi niente ad Ascilto di quella mano che mi frugava il culo con violenza, per due motivi: primo perché Ascilto era fumantino e gli sarebbe subito saltato addosso procurandoci altri guai e due perché volevo che quel furfante si illudesse che io ci stavo; ma appena, per un movimento brusco di Ascilto, lasciò la presa mi staccai da lui e col culo dolorante mi affiancai ad Ascilto in modo che non mi potesse più abbrancare se non osservato dal mio amico. Perché poi avesse scelto me, me lo sono sempre chiesto. Ascilto, nonostante la sua dotazione impressionante, era molto più efebico di me e con la sua vocina da donna dava l'impressione di essere uno disposto a sottomettersi subito. Invece no. Ho scoperto in seguito che ci sono dei maschioni froci che godono solo se sottomettono quello che loro credono sia un altro maschio. Insomma quel porco mi si voleva inculare e non gli si poteva dare torto visto che io ed Ascilto lo volevamo inculare tutti e due insieme. E ci riuscimmo. Infatti la trattativa andò avanti in modo per noi soddisfacente. Il furfante diceva sempre di sì e ogni volta che Ascilto non lo ascoltava perché fingeva di occuparsi dei maiali, ma in realtà aveva capito tutto, mi sussurrava nell'orecchio “tu però stanotte dormi con me.” “Ma certo!” dicevo io ad alta voce fingendo di rispondere ad Ascilto sulla trattativa, ma in realtà per ingannare lui. “Porfirione” si chiamava quel burino con la erre moscia, per cui in realtà mi diceva “Va bene. Concesso. Stanotte pevò tu dovmi con Povfivione.” e io facevo di sì con la testa fingendo di non volermi far vedere dal mio amico. Intanto Ascilto aveva adocchiato il maialino che avremmo rubato. Salutammo Porfirione dicendogli “affare fatto” e che saremmo tornati l'indomani per concluderlo perché non avevamo portato con noi i soldi. “Stanotte ho da fare. Domani notte dormirò con te per festeggiare l'affare.” gli dissi alludendo ambiguamente sia al maialino da comprare sia al suo cosino insignificante che non increspava neanche un po' la sua tunica, tanto doveva essere piccolo. Rise soddisfatto per entrambi i significati della mia battuta e ci congedò con grande entusiasmo. Non immaginava nemmeno che appena notte e appena calato il buio pesto io e Ascilto che ci eravamo opportunamente appostati saremmo entrati nel recinto e, afferrato il maialino appena ci capitò a tiro, mentre gli altri maiali grugnivamo disperatamente e per poco non svegliarono servi e padrone, ce la saremmo squagliata rapidamente. Ci andò bene. Tornammo nell'albergo e sul retro di esso dove c'era un ottimo focolare all'aperto cuocemmo alla svelta la povera bestiola dopo averla decapitata, sventrata e ripulita delle interiora. Per fortuna c'era un pozzo vicino da cui potemmo attingere acqua a volontà e verso mezzanotte, lavati e ripuliti, potemmo mangiare a sazietà. Il povero Ascilto si privava di tutto e mi pregava di mangiare e vedrai che questo gli piace al nostro piccolo! Diceva ironicamente. Ci mettemmo finalmente a dormire. Ascilto lo sapeva che per eccitarmi doveva mettersi a dormire vestito e io lo dovevo spogliare lentamente mentre lui fingendosi ritroso mi sottraeva sempre le natiche tenendole attaccate al giaciglio. Incominciò quindi quel gioco bellissimo che quella notte si rivelò un tormento. Alla fine Ascilto si girò verso di me sospirando: “Prendilo, fratellino, è tutto tuo!” Ma io cominciai a imprecare contro il dio sconosciuto che ce l'aveva con me e contro Venere che se ne stava tranquilla a Citera senza pensare a me che soffrivo le pene dell'inferno a vedere quei meloni dolcissimi senza poterli gustare. La furia blasfema che non si placava perché io insultavo questo o quel dio senza alcuna distinzione stringendo e tormentando con le mie mani le natiche di Ascolto che sussurrava dolcemente “così così mi piace” alla fine mi eccitò. Dopo tanto digiuno, intendo digiuno sessuale, finalmente il bischero venne sù più rovente che mai e io subito infilzai Ascilto che gridò per il dolore ma poi si adattò al mio vaevieni che non finiva mai; sudavo come se stessi sollevando per la centesima volta cento chili: il bischero non voleva saperne né di liberarsi del suo contenuto né di arrendersi. Alla fine mi sentii mancare e non so se venni o se svenni davvero. Ascilto con gran soddisfazione mi disse che ero venuto ma che ero rimasto svenuto a lungo, tanto che lui a un certo punto si era messo a piangere perché credeva che fossi morto. Allora mi aveva abbracciato sollevandomi e riempiendomi di baci e di lacrime: “Addio, fratello crudele, che mi lasci proprio nel meglio dei nostri giorni.” Evidentemente il calore e lo sfruculiamento di Ascilto avevano risvegliato i miei sensi. Eravamo entrambi soddisfatti di quella prestazione quasi divina; ma da allora il problema divenne ancora più grave perché ogni volta che io, dopo l'abbuffata di qualche ricco invito a cena, ci riprovavo, Ascilto si rifiutava dicendo che mi preferiva vivo e impotente piuttosto che morto per una sola nottata d'amore. “O si risolve il problema” diceva “o vivremo cosi come due fratelli. Io non posso perderti: non so cosa farei senza di te. Ti prego, fratellino, calmati e rassegnati. Hai visto che funziona? Prima o poi riprenderà regolarmente il suo standard di lavoro. Abbi fede.” “Sì, sì: fede!” dicevo io “Qui finisce che io diventerò uno di quegli eunuchi imbellettati che i padroni mettono a guardia delle loro concubine.” La partenza da Marsiglia. Intanto si era sparsa la voce che Porfirione, uomo potentissimo a Marsiglia, si era rivolto al pretore romano per acciuffare i due manigoldi, cioè noi, che lo avevano ingannato e rubato il porcellino. Girando per il mercato e per il porto sentivamo dire cose tremende sulla crudeltà dei Romani verso i condannati per qualche delitto anche minimo e già ci vedevamo con una mano tagliata o con un occhio cavato. Dopo due giorni non uscimmo più dal nostro rifugio protetti dalla vecchia immonda che si sarebbe fatta uccidere pur di non vedere Ascilto evirato, perché anche questo i Romani erano capaci di fare. Se ti coglievano in flagrante per qualsiasi motivo te lo tagliavano senza tante discussioni né processi perché tanto, dicevano, non era un organo utile per fare la guerra. Era una diceria, naturalmente, ma io ci credevo e la vecchia pure. Insomma a casa sua stavamo al sicuro, ma di nascosto complottavamo di andarcene al più presto ma non prima di aver consultato una maga famosa che si diceva fosse capace di guarire da tutte le fatture, anche quelle di un dio. Ci recammo da lei di notte, non voleva riceverci, ma alla fine convinta dalla avvenenza o dalla parlantina o dal conto in banca di Ascilto ci fece entrare. Si coprì la testa col suo stesso mantello, recitò quasi gridando delle formule per noi incomprensibili, poi sollevò lentamente la mia tunica per osservare il mio bischero, lo osservò e cadde a terra svenuta. “Maledetti, disgraziati, andate via, via di qui.” gridava l'ancella ma mentre ci spingeva fuori dalla baracca la fattucchiera rinvenne e le fece cenno di star buona. Poi con un gesto imperioso ci invitò a tornare dentro e ci spiegò. La fattura era opera del dio Priapo e contro le fatture di Priapo non c'era niente da fare; lei almeno non avrebbe saputo proprio come aiutarci. “Vai dunque;” mi disse “ma tu, bel ragazzo,” rivolgendosi ad Ascilto, “resta pure, se vuoi: passerai una notte indimenticabile nel letto della maga Gorgo.” Ce la demmo a gambe tutti e due, senza voltarci mai indietro: ormai era chiaro quello che dovevamo fare: andar via da quella città disgraziata che mi aveva procurato quel danno irreparabile e che ci aveva ridotto alla fame. Ma come fare? Non ci avevamo una lira e se anche l'avessimo avuta l'avremmo spesa per mettere qualcosa sotto i denti perché la fame ci stava consumando. “Volete scappare, eh? Anzi: dovete scappare!” ci disse un marinaio con cui ci imbattemmo in uno dei vicoli che ci riportavano dalla immonda vecchiaccia. “Voi dovete essere quei due che le guardie vanno cercando. Se vi beccano, siete finiti. Vi tortureranno e poi vi crocifiggeranno. Porfirione è il mercante più potente della città. Vi conviene imbarcarvi e andar via.” “No, non siamo stati noi a rubare il porcello di Porfirione.” Piagnucolai. “Ah no! E come fai a sapere che si trattava di un porcellino? Dio solo sa perché non vi denuncio io stesso alle guardie. Anzi no, lo sa bene. Se volete che vi aiuti, io posso farlo e lo farò perché questo bel ragazzo mi piace da morire.” “No, prendi me!” Gridai. “Sono io il colpevole! Ascilto non c'entra niente.” “No. Voglio lui. Da questa parte del vicolo non viene mai nessuno. Tu mettiti dall'altra e fai il palo.” Mi diede una spinta e Ascilto mi accompagnò sorridendomi rassegnato, ma anche curioso di farsi il marinaio. Che era un omone muscoloso. Prese Ascilto per i fianchi, lo sollevò, gli ordinò di stringerli le gambe sulla schiena e mentre gli succhiava la bocca avidamente se lo calò piano piano sul pisello allargandogli smisuratamente le chiappe. Ascilto gridò di dolore ma a quel porco sembrava non importasse nulla. “Grida, grida che mi piace di più.” ansimava e alla fine lo lasciò cadere mezzo morto nel viottolo mentre si riaggiustava il cazzo sotto la tunica e ci diceva che, se volevamo partire subito, o pagavamo con i soldi, ma noi non ne avevamo, o dovevamo sottostare tutti e due a turno, una notte per uno, alle voglie del capitano. E quello che non stava col capitano doveva stare con lui. Rifiutammo recisamente. “Bene, bene.” disse il furfante “Io sono un buono e non vi denuncerò, tanto più che domani all'alba ce ne andiamo via da Marsiglia. Ma tanto, prima o poi Porfirione vi acciufferà e..... Se preferite morire sulla croce peggio per voi.” E si avviò per andarsene. “Non andare via.” gli gridò Ascilto che piangeva un po' per il dolore e un po' per la paura. “Non andartene, io ti voglio bene, voglio stare con te anche tutte le notti. Ti prego, prendimi con te.” L'uomo si volse intenerito da quella professione di amore che Ascilto gli faceva. Lo abbracciò non come un uomo, ma come un bambino, lo baciò teneramente e gli disse: “Ti porto io. Chissà come ti fa male! Ma ti passerà presto e sulla nave abbiamo tutto il necessario per sistemarti per bene e per fare colpo sul capitano. Di' al tuo amico di seguirci: per amor tuo voglio salvare anche lui.” Gli tenni dietro sconsolato e bestemmiando in silenzio il dio Priapo che ci stava punendo tanto crudelmente. Sulla nave per Roma. Al capitano piacemmo tanto, sia io che Ascilto. Quella notte ci tenne nascosti nella stiva; all'alba partimmo e, lasciata Marsiglia, un mare calmo e purificatore ci accompagnò per giorni e giorni con venti sempre favorevoli che ci spingevano a sud est verso Roma. Era una meraviglia, ma finché non scendeva la sera: prima di andare nei rispettivi talami Ascilto mi consolava dicendomi: “Tanto, fratellino, il dio non ti permetterebbe di amarmi. Godiamoci questi due bistecconi fino a Roma. Poi si vedrà.”, ma dicendo così piangeva e io piangevo con lui. Tutto però era sopportabile perché ci teneva in pugno una paura folle di quei due che mentre facevamo l'amore ci avvisavano di continuo “Se mi tradisci ti butto a mare, frocetto!” Poi faceva una breve pausa e aggiungeva minaccioso: “Hai capito?” e noi annuivamo con la testa senza dire niente. Il capitano poi, mentre ci inculava, pretendeva che gridassimo e ci difendessimo perché voleva avere ogni volta l'illusione di stuprarci. Alla fine quei giochi ci piacquero: tutto era meglio che morire sula croce o finire in mare! L'incidente del Giglio. Arrivati all'isola del Giglio, la sera, il capitano, ubriaco fradicio, sentenziò: “Niente amore, stasera. Voglio restare a prua per salutare il mio amico Prudenzio come faccio tutte le volte che passo di qui. Tu portami il corno grande e accendi i bracieri in modo da essere visibili nella notte. Poi diede ordini secchi e precisi per cui la nave puntò sull'isola del Giglio a tutta velocità fra le grida dei marinai spaventati che dicevano “andiamo a sbattere, capitano, andiamo a sbattere.” Ma quale sbattere, sosteneva lui. E' una manovra che ho fatto non so quante volte e che faccio sempre senza alcun rischio. Dateci sotto coi remi, mangiapane a tradimento, lavativi; forzaaaa: uno, due, uno due. Com'era prevedibile la nave andò a sbattere e rimase incagliata su uno scoglio per fortuna abbastanza alto per cui nessuno di noi si fece male. L'equipaggio era salvo e poteva dedicarsi tutto a tamponare il buco provocato dall'urto che non era neanche tanto grande. Avete visto gridava il capitano che non si rendeva conto del danno che aveva fatto e che suonava a pieni polmoni il corno con cui doveva salutare l'amico. “Ma chi è quest'amico? Questo Prudenzio?” “E che ne so?” mi rispose un mozzo, “Dicono che sia stato un grande amico del capitano, ma adesso é morto e lui ogni volta che passa qui dove é sepolto lo deve salutare.” In due giorni la nave fu aggiustata e fu in grado di ripartire. Tutto andò bene fino ad Ostia, ma arrivati ad Ostia quel furfante annunciò: “A Roma non possiamo andare perché abbiamo perso troppo tempo al Giglio. Chi era diretto a Roma la raggiungerà via terra da Napoli dove sbarcheremo per fare una breve sosta. Non si può fare altrimenti: a Napoli mi aspettano da giorni i mercanti africani e già sono in ritardo massimo. Coraggio dunque: salutate la capitale dell'Impero e tiriamo avanti: i rifornimenti ci bastano sì e no per arrivare a Napoli.” Quale capitale? Ostia? Ostia era un borgo di pescatori poveri in canna che vivevano in baracche fatte alla meglio. Chissà come doveva essere quella città meravigliosa che per la seconda volta sfuggiva al nostro assedio. “Roma, Roma: non ci arriveremo mai!” Dissi ad Ascilto che intanto piangeva. Facciamo lo sciopero dell'amore, mi disse, se non ci porta a Roma. Quando lo comunicammo al mozzo ci rispose cinicamente: volete essere buttati a mare? E se ne andò. Ci rassegnammo ad andare a Napoli di cui i mercanti che erano sulla nave raccontavano meraviglie. Ma quando arrivammo in vista di Napoli la città non sembrava tutto quello che quei chiacchieroni dicevano. E comunque non potemmo verificare, perché all'improvviso il cielo si rabbuiò, cominciò a piovere a secchiate, il mare si ingrossò e la nave, portata a largo, in poco tempo naufragò. Abbracciami, feci in tempo a dire ad Ascilto, ma quello aveva appena proteso le mani verso di me che una terribile ventata lo spazzò via sottraendolo alla mia vista. Allora mi lasciai andare anch'io deciso a morire in mezzo alle onde gigantesche che si sovrastavano l'una con l'altra. A BAIA Mi risvegliai completamente nudo su una spiaggia assolata e luminosa dove una brezza freschissima sembrava mandata dagli dei apposta per risvegliare dolcemente i dormienti. Sono nei Campi Elisi, pensai; ma l'illusione durò poco: in realtà ero stato risvegliato da una fame che mi mordeva le budella e davanti a me avevo una bellissima fanciulla che mi guardava incantata tenendo in mano il mio bischero. Lascia perdere, le dissi, non serve più a nulla: credevo di essere morto io, in realtà il vero morto è lui. Mi guardò come se gli dei mi avessero tolto il senno e la sua idea si rafforzò ancora di più quando improvvisamente fissatomi nel pensiero del mio amico le chiesi con naturalezza, come se Ascilto fosse arrivato lì con me e lei lo conoscesse, “Ascilto?” Rise. Non capiva bene la mia lingua. Allora le ripetei in greco dov'è il mio amico? Quale amico? Disse. Allora capii che il destino ci aveva separato di nuovo e che forse Ascilto era anche morto. Dove siamo? Le chiesi. A Baia. E dov'è? Vicino Napoli. Allora ricordai tutto. La fanciulla si alzò, mi sollevò dalle ascelle e per mano mi condusse in una capanna bellissima e ordinatissima. Su una specie di altare c'erano tanti vasetti con un po' d'acqua dentro la quale crescevano piantine di grano. Dietro di esso c'era la statua di un giovane bellissimo disteso a terra e con una coscia lacerata da un'enorme ferita. Era una statua fatta di cenci e la ferita era riconoscibile come tale perché un panno rosso fuorusciva dalla coscia come se fosse sangue. “Inginòcchiati”, mi disse Cinzia, “inginòcchiati e ringrazia il dio di averti salvato.” Mi inginocchiai ma non sapevo che dire, conoscevo poco quella divinità, pensavo addirittura che fosse una divinità locale, sconosciuta a noi Greci, ma quando sentii che Cinzia intonava un canto in onore di Adone mi resi conto che quello era un tempietto dedicato a Venere dove si venerava la divinità del giovane da lei amato. O Adone, pregai, io ti ringrazio di avermi salvato da una morte precoce come la tua; ma fa, ti prego, che anche il mio amico Ascilto si salvi. Ahò, che voi ci crediate o no, in quel momento dal mare si sentì un coro di marinai che intonavano i cori sacri a Adone per ringraziarlo di aver potuto salvare tanti naufraghi, fra i quali c'era anche il mio Ascilto. Non resteremo a Baia, gli dissi, né andremo a Napoli. Ho sentito dire che a Pompei c'é molta vita: lì potremo trovare lavoro in qualche scuola di retorica per impiegarci come maestri di oratoria. Adesso va molto di moda fra le famiglie ricche mandare i figli a studiare retorica per poter fare la carriera politica o forense. Vedrai che lì le nostre conoscenze potranno essere impiegate in modo proficuo. Non andare, mi disse Cinzia, resta qui. Con il tuo amico. Qui non avrete bisogno di lavorare. C'è il mare, si pesca facile, e poi il tempio rende bene. A Pompei sono tutti avidi, gente desiderosa solo di fare soldi, gente che non conosce le gioie del vivere liberi e felici sotto la protezione di un dio. Non andate. Da lei, effettivamente, stavamo benissimo. Ci ospitava in modo sontuoso perché io mi godevo Ascilto mentre lei era impegnata nei riti e Ascilto si godeva lei le notti che io mi riposavo dalle mie fatiche d'amore con lui. Quello era proprio un tempio di Venere, altro che Adone! Ma noi eravamo due vagabondi abituali. Dopo un po' ci stancavamo della routine e volevamo un altro viaggio, un'altra avventura. Ma quale viaggio? Quale avventura? Diceva Cinzia. Pompei è a due passi. Ci potete andare in qualsiasi momento. Però promettetemi che quando vi sarete stancati anche di Pompei tornerete da me, disse alla fine rassegnata. A POMPEI La città era veramente vicina. Chiedemmo un passaggio su un carro di mercanti che vollero una cifra iperbolica prestataci da Cinzia e dopo tre ore eravamo a Pompei. Non credevamo ai nostri occhi. La bellezza di quella città era paragonabile alla nostra Atene. Le vie erano piene di gente indaffarata che si occupava delle cose più diverse. Passavano lettighe favolose portate da schiavi bellissimi. Insomma eravamo in una sorta di paradiso in terra dove il sole, i marmi e le ginestre ci abbagliavano in continuazione con le loro splendenti tonalità di giallo. Camminavamo, io e Ascilto, abbacinati da quella luce sovrumana, a bocca aperta per lo stupore. Non credevamo che tanta bellezza fosse possibile. A un certo punto cercammo riparo all'ombra di un'enorme colonna, una delle tante che sorreggevano, al centro del foro, il tempio di Giove. Gitone. Stavamo lì in contemplazione quando nel pieno della luce che inondava tutta la piazza vedemmo avanzare, proprio verso di noi, una creatura che sembrava danzare volando, senza mai toccare terra. Non riuscirò mai a descrivere Gitone e la sua bellezza. Ci rinuncio. Lo lascio tutto all'immaginazione del lettore, avvertendolo però che era biondo come un angelo ed esile come una fanciulla. Gli occhi erano grandi e pieni delle luci di quel golfo ineguagliabile. Si fermò davanti a noi e ci guardò a lungo. Poi visto che noi eravamo insensibili alla sua bellezza (in realtà eravamo attòniti) disse: “Stranieri?” Sì! “Greci?” Sì! “Davvero?” Sì, sì, davvero. “Ehi, ma è un dio che vi manda. Qui pensano tutti ai soldi e all'amore delle donne e nessuno capisce come sia bello amarsi tra uomini e tra donne. Voi che siete greci lo sapete bene. Voglio passare la notte con uno di voi. Con te.” disse indicandomi decisamente. E così dicendo mi si mise in braccio perché io mi ero messo seduto mentre Ascilto era rimasto in piedi. Lo abbracciai e lo riempii subito di baci convinto di stare in un sogno. Ascilto si era allontanato e con indifferenza intratteneva un vecchio mercante cercando di cavargli tutte le informazioni possibili su quella città meravigliosa. Gitone ricambiava i miei baci con ardore e intanto col culetto esplorava i miei inguini per accertarsi subito se io ero sensibile o no all'amore efebico. Non dovette aspettare molto per la risposta. Sembrava che la fattura di Priapo fosse scomparsa del tutto. “Non vedo l'ora di stare con te.” mi disse. “Ma tuo padre e tua madre non dicono niente?” “No. Non ce li ho per fortuna. Io sono un valletto del tempio di Priapo e il sacerdote mi manda in giro a rimorchiare nuovi adepti di quel culto. A noi non ci piacciono le donne anche se le donne ci cercano in continuazione per imparare a fare quello che facciamo noi. Noi sosteniamo che l'amore efebico deve essere il primo degli amori di qualsiasi maschio che poi, una volta adulto, potrà scegliere se continuare cogli efebi o andare con le donne o con tutti e due. E lo stesso le donne. Invece questi idolatri di dei orientali sostengono che l'amore efebico sia un amore osceno e peccaminoso. Sono dei pazzi. Io non potrei vivere senza il cazzo di un compagno che mi fruga dappertutto. I miei genitori mi lasciarono nel tempio di Priapo due giorni dopo che ero nato e i sacerdoti e le sacerdotesse del tempio mi hanno allevato e cresciuto fino ad oggi. Ma voi che siete venuti a fare qui a Pompei?” “Vorremmo studiare retorica e anche insegnarla visto che siamo greci.” “Ah bene! Qui a Pompei c'è la scuola di Agamennone che è molto frequentata, là sotto il portico.” Mi mossi subito per andarci. Gitone mi disse: ci rivediamo, vero? Certo, dissi. Io non ti lascerò mai più. Verrò a cercarti al tempio. E' lontano? No, è là! e me lo indicò. Era un piccolo tempio di fattura deliziosa. Questo dio Priapo aveva avuto in Italia la fortuna che la Grecia gli aveva negato. Ma capivo perché. Da noi l'amore efebico non aveva bisogno di essere protetto da un dio. Era considerato come doveva essere: un comportamento normale della vita. Cosa facevano i soldati romani negli accampamenti quando non riuscivano a catturare neanche una donna? E che se ne facevano, poi, di quelle donne barbare che non si lavavano mai, neanche le mani quando cucinavano? I soldati più giovani e più carini lo sapevano che non si potevano rifiutare alle voglie del centurione o del capocoorte o del luogotenente e, i più fortunati, alle voglie del generale. E i più dotati lo sapevano benissimo che se il capo era una vecchia checca impenitente se lo dovevano inculare quando lui glielo ordinava e che quello era il miglior passepartout per fare la carriera militare. Insomma i maschi romani quando erano in guerra si inculavano tra loro e solo quando tornavano a Roma scopacchiavano con le mogli per dare figli a quella grande città guerriera. Dove le donne, quando gli uomini le lasciavano per andare in guerra, non erano da meno di essi. Ma Gitone non se n'era andato... per tornare, come aveva detto, al tempio. Ci seguiva continuando a interrogarmi su tutto. Sembrava imbambolato dalla mia cultura e dal mio modo di parlare. Ci seguiva come un anatroccolo segue qualsiasi cosa che si muove. Ascilto al mio fianco non si muoveva neanche un po' per non darmi modo di parlare più intimamente con Gitone. Il dio Priapo che evidentemente ce l'aveva con lui che gli aveva sconciato la statua a Marsiglia, e non con me, anche se prendendosela con me tagliava il pisello al marito per far dispetto alla moglie, come si dice, probabilmente mi venne in aiuto. Uno scugnizzo più curioso che affamato gli sfilò proditoriamente la spada e scappò via: Ascilto si mise ad inseguirlo e io ne approfittai per prendere letteralmente in braccio quell'angelo, Gitone, ricoprirlo di baci e dirgli che abitavo in un alberghetto di legno a tre piani con due sole finestre nella parte bassa della città. Lo conosco mi disse. Verrò io da te. E stavolta se ne andò davvero senza più ripensamenti. Agamennone il retore. Io e Ascilto che nel frattempo aveva recuperato la spada continuammo senza di lui e, arrivati davanti alla scuola di Agamennone (lo chiamerò così, per sfotterlo, quel pallone gonfiato che non faceva che citare Omero) io mi misi ad ascoltare. Stava insegnando ai suoi allievi come si può invertire l'ordine delle argomentazioni di un discorso in modo da rendere accettabile una tesi di cui prima si è sostenuto il contrario. Ma Ascilto incominciò a farmi una scenata di gelosia. “Smettila!” gli dissi, “Lo sai che io amo solo te. Questo è solo un momentaneo infiacchimento della mia potenza, ma presto...” Mi interruppe. Non parlava di questo: parlava di quel ragazzetto: “Io lo so cosa ti piace a te ma ti ricordo che a me mi hai stuprato quando ero poco più che un bambino e non puoi dimenticartelo.” “Cos'è?” dissi, “Una scenata di gelosia? Ma non lo vedi che l'ho già congedato? Lasciami ascoltare questo pallone gonfiato. Senti quante sciocchezze sta mettendo in fila.” A un certo punto non ne potei più e cominciai io a declamare ad alta voce in modo che mi sentissero lui e i suoi quattro discepoli: “Come è possibile sostenere che la forza della parola sia tale da far digerire nello stesso tempo una tesi e il suo contrario? Solo menti stravolte dalla ricchezza e dalla corruzione possono pensare che dei briganti che assalgono un carico di merci hanno ragione tanto quanta ne hanno quelli che sono stati derubati. Solo chi non discerne il bene dal male può pensare che la verità del bene sia uguale alla verità del male. E così infiocchettando tutto con citazioni da grandi poeti o con paroloni poco usati e altisonanti ci si illude di poter fare ciò che neanche un prestigiatore da teatro riuscirebbe a fare.” A questo punto Agamennone, sentendosi attaccato, schizzò fuori dall'aula per contrastare le mie posizioni ma non fece in tempo a togliermi la parola prima che io concludessi scherzosamente con dei versi: “Dell'oratore è il fin la meraviglia. La verità può starsene lì buona senza chiedersi mai se quella figlia, intendo dire la declamazione, è prostituta o vergine o matrona. Matrona no, e vergine non fu neanche da bambina, ma, cresciuta, pensò ch'era assai meglio fare la prostituta a quattro mani vendendosi nei trivi ai ciarlatani.” Agamennone restò colpito da questa mia capacità di improvvisare versi adatti alla situazione ed io ne approfittai per continuare, ma in prosa, declamando: “Quando Euripide fa delirare Oreste sotto l'impulso delle Furie che lo tormentano per il matricidio appena compiuto pone forse in dubbio la criminosità di quel gesto? Certo che no! Oreste è in preda ad una contraddizione per lui insanabile: lui ha ritenuto giusto uccidere la madre: ora perché le furie lo perseguitano? Sono forse furie diverse quelle che perseguitano gli oratori quando gridano: 'Queste ferite io le ho subite per la libertà della patria; quest'occhio: per voi l'ho perso; datemi un accompagno che mi conduca dai miei figli perché i legamenti recisi dalla spada nemica non sostengono più le mie gambe.'? Frasi anche accettabili, se però fossero utili ad insegnare ai giovani l'eloquenza. Invece il vaniloquio delle parole altisonanti e lo sproloquio delle citazioni inutili ottengono solo il risultato di farli sentire stranieri quando approdano al foro e vengono messi alla prova. Ed io ritengo che i ragazzi nelle scuole divengono degli scimuniti perché non ascoltano né vedono nessun fatto oggettivo a riscontro delle nostre parole, ma solo pirati che ti aspettano sulle spiagge con le catene, per massacrarti, tiranni che impongono ai figli di decapitare i padri, responsi di oracoli che impongono di immolare tre o più fanciulle per fermare una pestilenza, smielati confetti di parole e tutto, parole e fatti, conditi di papavero e sesamo. Chi viene istruito così non può essere un sapiente più di quanto possa profumare uno che lavora in cucina. Fidatevi: siete stati voi maestri di retorice, prima di tutti gli altri, a corrompere l'eloquenza. Infatti eccitando le vostre farneticazioni con soluzioni verbose e prive di contenuto avete fatto sì che il nerbo del discorso si indebolisse e decadesse. I giovani non erano ancora affascinati dall'oratoria quando Socrate o Euripide trovarono le soluzioni verbali dei loro pensieri. E, per non parlare solo dei poeti, non avevano ancora distrutto il talento oratorio i maestri di strada quando Pindaro e i nove lirici esitarono persino ad imitare Omero. L'orazione grande non é, per cosi dire, né macchinosa né turgida, ma risplende solo per la sua naturale bellezza. E' da poco che questa loquacità logorroica è arrivata dall'Asia ad Atene ed ha corrotto, come un'enorme cometa impestata, gli animi dei giovani destinati a grandi imprese oratorie e, una volta stuprate le norme, l'oratoria ne fu corrotta e rimase muta. In seguito chi ha più raggiunto le sublimi vette dei grandi oratori greci? Ma neppure la poesia poté risplendere dei sani colori della buona salute: come se avesse mangiato cibo avariato, non riesce ad arrivare non dico alla morte ma neanche alla vecchiaia. E neanche la pittura ebbe altro destino dopo che la superficialità degli Egiziani ha inventato la realizzazione accelerata di un'arte finora così grande.” Il buon Agamennone non tollerò che io stando sotto al portico declamassi più a lungo di quanto lui aveva fatto dentro l'aula sudando come un somaro, ma: “Giovanotto,” disse “poiché hai uno scilinguagnolo non del tutto volgare, e, ciò che è molto raro, ami la verità, non ti terrò nascosti i segreti del mestiere. Non devi meravigliarti se gli insegnanti cadono in questi vizi nelle loro esercitazioni poiché essi sono costretti a comportarsi come sciocchi trovandosi in mezzo a degli sciocchi. Infatti se essi non dicono delle cose che piacciono ai ragazzi “saranno lasciati da soli nelle scuole”, come dice il grande Cicerone. Come gli attori di teatro che cercano inviti a cena da parte dei ricchi non dicono niente altro che quello che è più gradito ai loro ascoltatori (e infatti non li otterranno altrimenti che tendendo trappole alle loro orecchie) così il maestro di eloquenza si attarda sullo scoglio senza preda proprio come il pescatore che non ha messo nell'amo l'esca che lui sa gradita ai pesci. Conclusione: i responsabili sono i genitori che non sanno più educare i figli con severità. Prima di tutto essi affidano alla loro ambizione le loro speranze e tutto il resto; poi, per realizzare subito i loro desideri, spingono i figli nel foro che ancora non sanno parlare, li obbligano sul nascere a studiare l'oratoria che è l'arte più difficile di tutte. Se invece pazientassero e aspettassero che i loro figli percorrano i gradini del sapere uno per uno affinché divenuti giovani studiosi fossero arricchiti da severe lezioni, piegassero i loro animi ai precetti della filosofia, scavassero le parole con penne affilate, ascoltassero a lungo ciò che vogliono imitare, si persuadessero che non c'è niente di grande in ciò che piace ai piccoli, allora sì che la grande oratoria tornerebbe ad avere tutto il peso della sua grandezza. Oggi invece i bambini, a scuola, si fanno giocare; da ragazzi, vanno nel foro ma per divertirsi e, ciò che è più grave di entrambe queste cose, da vecchi disconoscono ciò che hanno male imparato da giovani. Ma perché tu non pensi che io rifugga dalle improvvisazioni alla Lucilio ti dirò anch'io in un carme quel che penso. Ma se uno desidera il successo in quest'arte sovrana e dedicarsi ad argomenti di grande importanza i costumi suoi ispiri alla severa frugale legge della temperanza e a testa alta non si curi affatto del truce volto di chi ha il potere né offuschi, perduto tra i perduti, col vino la sua mente e non applauda, a pagamento, chi sta sulla scena, corrotto e prezzolato da istrioni. Ma sia che gli sorridano le rocche di Minerva, di armi portatrice, o la terra abitata dal colono spartano, ovver delle Sirene la casa, i primi anni dedichi alla poetica arte del grande cieco e impari bene Omero. Poi pieno dei profondi dettami filosofici di Socrate agli allievi lasci liberamente sciolte le briglie al vento le armi inimitabili e vibri arditamente del celebre Demostene. Quindi si spanda intorno e fatto fuori il subdolo cambi lo stile e fughi l'esercito romano scilinguagnolo greco il vuoto stile asiano. Ogni tanto, sottrattasi la paginetta al foro, corra rapida e libera e libero il caso la faccia da sovrano privo di ghirigori; feste e banchetti anche le guerre posson fare celebrate col sacro verso del ritmo epico e minacciose suonino di Cicerone i fremiti. Di questi insegnamenti così con largo effluvio egli empirà la mente: diffonderà parole modellando il suo stile sul canto delle Muse.” La fuga di Ascilto. Mentre mi sorbisco diligentemente questi versi vacui, non mi accorgo che Ascilto se l'è squagliata e mentre nel ribollire della discussione passeggio nei giardini, ecco che arriva sotto al portico un numeroso gruppo di studenti, tali almeno mi sembravano, provenienti dalla declamazione di un tizio che aveva risposto con altra declamazione a quella di Agamennone. I ragazzi deridevano le idee esposte da quello e ne smontavano pezzo per pezzo l'orazione; Agamennone si distrae e io colgo l'occasione per squagliarmela di corsa e mettermi a cercare Ascilto. Ma non sapevo da che parte andare perché non conoscevo neanche l'ubicazione del nostro albergo. E così in qualsiasi direzione andavo mi ritrovavo sempre allo stesso punto, finché stanco per il correre e grondante di sudore mi avvicino a una vecchietta che vendeva ortaggi e le dico: ”Ti prego, madre mia, sai forse dov'io abito?”. Quella si divertì alla mia battuta scema e mi rispose: “Come non lo so?”, poi si alzò e mi fece segno di seguirla. Così feci pensando che fosse un'indovina e poco dopo, arrivati in un luogo molto nascosto, la vecchia tirò via una tenda e mi disse: “Forse è qui che abiti, c'è anche tua madre.” Quella stronza! E sì che stavo per dirle, come un cretino, che non era quella la mia casa, ma fui distratto da due tipi che si aggiravano furtivamente fra le celle delle prostitute nude leggendo quali erano le loro specialità. Tardi, troppo, mi ero reso conto che ero stato portato in un lupanare. E perciò maledicendo quella vecchiaccia mi coprii il capo e cominciai a correre in mezzo a quel bordello verso l'altra uscita, quando ecco che proprio sulla porta mi viene incontro Ascilto, stanco come me e mezzo morto; forse era stato condotto lì da quella stessa vecchia. E così ridendo, appena lo ebbi salutato, gli chiesi cosa stesse facendo in un luogo tanto sordido. Quello si asciugò il sudore con le mani e mi disse: “Se sapessi... quello che mi è accaduto!” “Cosa?” gli chiesi. E lui abbracciandomi per appoggiarsi mi disse: “Mentre giravo confuso da una parte all'altra della città perché non riuscivo a ricordare dove stava il nostro albergo, mi si avvicinò un signore dall'aspetto serio, un padre di famiglia, ti dico, gli chiesi l'indicazione e lui si offrii spontaneamente di farmi da guida verso quell'albergo. Poi attraverso vicoli e stradine mi condusse fin qui e, offrendomi del denaro, mi chiese di dargli il culo. Già una mignotta aveva riscosso l'affitto della cella, già quello mi aveva messo le mani addosso e se non fossi stato più forte di lui mi si sarebbe fatto lì per lì.” ”Fuggiamo, allora!” gli dissi, “non vorrei che quel tipo tornasse all'attacco e ci mettesse nei guai con una rissa.” Non lo sapevamo neanche noi perché, ma ci mettemmo a correre come due matti fuggendo da qualcosa o qualcuno che non esistevano. La paura ci inseguiva, quella sì, perché Ascilto aveva potuto capire che quel padre di famiglia era uno potente a Pompei e che se ci avesse coinvolto in qualche grossa questione avremmo rischiato grosso. A un certo punto, era più furbo di me, si fermò e si mise a ridere come un matto. “Perché ridi?” “Perché dove cazzo vogliamo andare? Pompei l'abbiamo percorsa tutta e siamo arrivati in campagna, dove vogliamo arrivare? Piuttosto rientriamo, concentriamoci e cerchiamo di ritornare al nostro albergo.” Mentiva quello sciagurato. Lui lo sapeva bene dove stava, il nostro albergo, ma fingeva di non saperlo mentre sceglieva questo o quel vicolo per studiare un percorso che invece gli era ben noto, come potei capire dopo. Licurgo. A un certo punto del nostro cammino senza meta incontriamo una casa tutta illuminata dalla quale proveniva un melodioso suono di flauto. Stavano facendo festa, chissà per quale motivo. Ci fermammo ad ascoltare estasiati da quella musica che il flautista estraeva con maestria dal suo strumento. “Qui, qui. Venite qui, bei giovani. Questa casa ama i bei ragazzi. Venite, venite: si balla.” Era il portiere che evidentemente invitava tutti quelli, pochissimi, che a quell'ora di notte, passavano per di lì. “Siamo stranieri. Greci, per la precisione.” Dissi mentre Ascilto mi tirava le braghe per dirmi di non parlare, di non dire niente. Ma ormai era fatta. “Greci?” disse, “Allora più volentieri la casa vi accoglierà. I Greci conoscono l'amore. Venite. Venite. In questa casa si mangia che è una bellezza. Venite. Non abbiate paura.” Dopo tutte quelle corse la fame ci mordeva lo stomaco con dolori inenarrabili. Quindi più che la paura di qualche altro inganno poté il digiuno di un giorno con tanto di esercizi fisici estenuanti. Il portiere era una cinedo vomitevole, grasso come un tacchino da brodo, dipinto in volto con la volontà di sembrare una donna e con una parrucca femminile assolutamente non credibile. Faceva schifo. Ascilto, quello stronzo, si riparò dietro di me e quello, una vera e propria regina, mi appioppò un vomitevole bacio sulla bocca. Mi pulii le labbra col dorso della mano ed entrammo in casa. In una sala da pranzo sontuosa i musici, più d'uno, si alternavano in melodie dolcissime che inducevano facilmente al sonno. “Non si mangia.” pensai. Ma uno schiavo che sembrava avermi letto nel pensiero mi disse: “Siediti, bel ragazzo, che il padrone ti farà servire tutto quello che vuoi. Il padrone ama i bei ragazzi e vuol compiacerli in tutti i modi possibili. Siediti. Siediti. Mi sdraiai sul primo letto vuoto e Ascilto si sdraiò davanti a me muovendosi sui fianchi caso mai il mio fringuello desse segni di vita. Macché! Gitone ci voleva, non lui! La sua barba ispida mi scoraggiava tanto che la mente non riusciva a coinvolgere il mio bambino. A un certo punto divenne così esplicito nel tentativo di eccitarmi che gli dissi “Smettila, mi vergogno!” ma lui si mise a ridere. “Di che ti vergogni? Qui non c'è nessuno!” E aveva ragione! Sembravano tutti addormentati, a tal punto la casa era piena dovunque di gente che sembrava ubriaca di satirio. Tutti credono che il titolo di questo libro sia dovuto alla volontà di fare satira contro i nostri governanti, di Roma e di tutti quelli sparsi per l'impero. In realtà non è così. Non è da “satyra” che deriva il titolo di Satyricon, ma da “satureia”, un'erba aromatica che si usa in cucina per dare sapore ai cibi e da cui, insieme ad altre erbe, si ricava un infuso, il satirio, una bevanda stupenda che ti stravolge l'anima. Il suo titolo deriva da questo infuso meraviglioso che viene usato dappertutto nell'impero per consentire ai Romani di raggiungere la massima potenza sessuale, fare all'amore e poi abbandonarsi a dei sonni ristoratori durante i quali la mente viene consolata da un susseguirsi di immagini e sogni meravigliosi. Come si potrebbe fare la satira al felice impero di Nerone? Come si potrebbero prendere in giro i governi imperiali che si sono susseguiti fino ad oggi e che hanno fatto la fortuna di Roma e di tutte le città del mondo? Il satirio! Il satirio! Non so quanto ne bevvi, ma il mio piccolo, si fa per dire, non dette comunque segni di vita neanche quando Ascilto me lo prese in bocca con la sua maestria di maschio abituato a fare la femmina. Mi addormentai e dormii fino a quando non sentii un gran trambusto e Ascilto che mi scuoteva. Il padrone, Licurgo, aveva finalmente fatto ingresso nella sala e aveva ordinato agli schiavi di servire le prime pietanze. Il dormitorio si era improvvisamente trasformato in un mercato e Licurgo con la sua toga bordata in oro, al centro di esso, in compagnia di una donna vecchia ed arcigna, impartiva ordini agli schiavi per il buon andamento del banchetto. Ascilto finalmente riuscì a svegliarmi e la coscienza mi ritornò del tutto quando mi sussurrò in un orecchio che il padrone, Licurgo, era il padre di famiglia che se lo voleva inculare dentro al bordello. “Ma adesso non può farti niente: c'è la moglie!” dissi, “Mangiamo a sazietà e poi ce la squagliamo.” E così fu. Ma il vecchio porco aveva riconosciuto Ascilto e quando fummo fuori della villa era già lì: era solo ed era chiaro che non aveva intenzioni violente; infatti ci fermò e ci scongiurò di farlo felice per quella notte. “Se non ci vuoi stare tu,” diceva ad Ascilto, “convinci il tuo amico. Vi farò ricchi. Ma non vedete quant'è vecchia e brutta mia moglie? Che vi costa? Voi greci siete abituati a prenderlo in culo. Vi prego, restate. Diventerete i miei preferiti e vi farò fare la carriera politica prima qui a Pompei e poi a Roma.” Ascilto mi fece il solito cenno di intesa e, congiunte le nostre forze, sistemammo quell'importuno. Mi prostrai improvvisamente dietro di lui fingendo di accettare il suo invito. Ascilto gli diede una spinta. Licurgo, incontrando il mio corpo chino, cadde a terra di schiena e non si rialzò più: noi, mentre lui cercava invano di farlo, aggirammo di corsa la casa arraffando vesti e gioielli e dopo avergli strappato di dosso anche la toga che lui ormai non era in grado di difendere, fuggimmo a perdifiato nella notte. In casa di Quartilla, vicino al tempio di Priapo. Riposàti e rifocillàti come eravamo, la nostra corsa durò veloce fino a quando non ci trovammo di nuovo in campagna vicino a un povero tempio costruito alla meglio. Entrammo per ripararci dall'umidità della notte che a Pompei è terribile e ci addormentammo. Al mattino ci risvegliò una gradevole voce di donna che rivolgendosi ad Ascilto gli diceva: “Ma il tuo amico è impotente? Sono tre ore che cerco di eccitarlo in tutti i modi e sono tre ore che lui e il suo piccolo non danno segni di vita. Sta male?” “No, non sta male.” le spiegò, “E' vittima di una fattura del dio Priapo che non glielo fa addrizzare più. Non sappiamo perché.” “E mbè? Io sono sacerdotessa del dio e in quattro e quattr'otto gli farò concedere il perdono.” “Magari!.... E qual è il tuo nome, sorellina? Ti prego, fallo guarire.” “E come no? Vedrai che presto tornerà a fare l'amore meglio e più di prima. Il mio nome è Quartilla. Ma adesso sveglialo e fallo mettere in ginocchio nudo.” “Ma fa freddo, signora.” “Meglio! Il freddo indurisce. Deve stare nudo davanti al dio.” “Ma quale dio? Dove sta?” “Vieni, vieni!” Prese per mano Ascilto e lo condusse davanti al tempio. Io li seguii e sul cancello dell'orto che stava intorno al tempio vidi la statua di Priapo uguale uguale a quella che Ascilto aveva rotto a Marsiglia e davanti ad essa Gitone inginocchiato. “Inginòcchiati e pregalo. La conosci la preghiera del dio?” “No.” “Va bene uguale. Di' soltanto: Salve, padre santo, salve, Priapo. Il dio capirà.” Poi uscì e dopo un po' tornò con un coniglio che teneva per le orecchie e che sbraitava per quella scomoda posizione. Era accompagnata da una specie di schiavetta che appena rientrati nel tempio vicino all'altare le passò un coltellaccio e Quartilla, senza né “a” né “ba”, sgozzò la povera bestia facendo scorrere il suo sangue sull'altare e quasi gridando mi disse: “Vieni, vieni, inginòcchiati!” Così feci e quella invasata affondava le mani nel sangue del povero coniglio agonizzante e poi le stringeva intorno al mio pene con l'intento di colorarlo di rosso. Ora o che fosse il sapiente contatto delle sua mani o che fosse realmente la potenza del dio, il mio pisello alzò prepotentemente la testa e lei senza esitazione se lo infilò nella fica gridando come una pazza “Sì, siii. Ce l'abbiamo fatta!” Poi, quando fui venuto, se lo sfilò con destrezza e alzandosi e tornata all'altare squarciò il corpo della povera bestia, lo eviscerò e offrì al dio le interiora pronunciando strane parole, non traducibili né in latino né in greco, che erano tutti anagrammi del termine sator, termine che forse allude alla grande potenza di inseminazione del dio. Finita la preghiera, Quartilla intinse le mani in quel corpo ancora palpitante, ne estrasse il fegato, si fermò ad osservarlo e poi invasata cominciò a cantilenare: “Grazie, Priapo, ti rendo grazie, mio dio, di averlo fatto guarire. Fallo armare di nuovo, o grande iddio!” Poi bevve ancora sangue del coniglio e di nuovo incominciò a verniciare con esso il mio fringuello che si eccitò subito. A quel punto ebbi paura. Quella pazza sanguinava da ogni parte e mostrava chiaramente di volermisi fare ancora. Fuga da Quartilla. Feci un cenno ad Ascilto e anche stavolta non avemmo il coraggio di affrontare la situazione fino in fondo. Di nuovo una grande corsa per sfuggire a quella pazza, che mi si era fatto quasi senza che me ne accorgessi, e per rientrare in città alla ricerca del nostro albergo. Prima infatti Gitone per correre ci aveva perso di vista. Giravamo come due storditi cercando un segno che ci permettesse di orientarci, ma quando noi cercavamo l'albergo Pompei diventava più grande di Atene. Non si finiva mai di perlustrarla e ci si ritrovava sempre al punto di partenza. A notte fonda esausti ci accasciammo sui gradini di una casa qualsiasi e lì restammo fino all'alba. Che ci svegliò presto quando ancora il sole non era visibile ma il cielo si era già tinto di rosa. Ci rimettemmo a cercare sperando che con la luce la ricerca fosse più proficua, macché! Per fortuna improvvisamente, come se fosse attraverso il fumo di un fuoco acceso lì vicino, vidi Gitone che se ne stava in piedi ai bordi di una stradina secondaria e allora, insieme ad Ascilto, mi precipitai verso di lui e Gitone, divertito, ci disse che l'albergo era poco distante. Gitone piange. Tornammo dunque in albergo e mentre chiedevo al mio amichetto se avesse preparato qualcosa da mangiare, quello, sedutosi sul letto, cominciò a piangere come una fontana asciugandosi le lacrime col pollice. Poi, dopo una lunga pausa in cui si mostrava reticente a spiegare il perché di quel pianto dirotto, indotto dalla mia furia incominciò a parlare: “Il tuo fratellino, come dici tu, prima che tu arrivassi è venuto di corsa qui in albergo e ha cominciato ad allungare le mani perché mi si voleva fare. Io ho cominciato a chiamare aiuto e allora lui ha sguainato la spada e mi ha minacciato.” Non gli feci dire altro. Mi avventai a pugni chiusi su Ascilto gridandogli: “E tu che dici, marchettaro figlio di puttana che di puro non hai neanche il fiato?” Ascilto finse di meravigliarsi e poi alzando la voce più di me gridò:”Sta zitto, gladiatore di mmerda, che il pubblico graziò solo perché crollasti a terra senza vita. Sta zitto. Zitto, assassino notturno, che non ti sei mai cimentato con una donna e che ti ho fatto da amante come fa ora questo pischello.” “Mi hai abbandonato mentre discutevo col maestro di retorica.” “Che dovevo fare, idiota? Avevo una fame da morire. Avrei dovuto mettermi a sentire le chiacchiere di un maestro di oratoria, cocci vecchi e interpretazioni di sogni. Sei molto più riprovevole tu che ti sei messo a lodare quel poetastro improvvisato per rimediare una cena.” “Perché? Io, secondo te, non avevo fame, no?” “Il nostro guaio è proprio questo:” disse Ascilto, “noi due siamo più devoti alla dea Fame che a Priapo.” La battuta ci fece ridere e così, a forza di ridere, da uno scontro durissimo passammo serenamente a fare quello che c'era da fare. Però il tentativo di Ascilto di sedurre Gitone non mi si voleva levare dalla testa. Mettevo in ordine, rifacevo il letto, preparavo l'acqua per il bagno, cercavo insomma di distrarmi da quel pensiero ossessivo, ma non c'era niente da fare. Gitone, solo Gitone, sempre Gitone ritornava nei miei pensieri. Ed ecco che a un nuovo assalto di quel ricordo, cioè dell'offesa arrecatami da Ascilto gli dissi: “Ascilto, io capisco che noi non si può più andare d'accordo. Perciò dividiamoci le bisacce e cerchiamo di vincere la nostra miseria ognuno per conto suo. Sia tu che io conosciamo la letteratura: io, per non ostacolare le tue iniziative, cercherò qualcos'altro; altrimenti ogni giorno avremo mille motivi per litigare e finiremo nelle chiacchiere di tutta la città.” Ascilto disse di sì e aggiunse: “Oggi però, poiché abbiamo accettato un invito a cena come studenti non roviniamoci la nottata; poi io mi procurerò un altro alloggio e un altro amico.” Ma io volevo concludere subito e gli risposi: “Perché rimandare quel che si può fare subito? E' una perdita di tempo.” La libidine mi spingeva ad accelerare la separazione: da un pezzo infatti desideravo che quello scomodo terzo incomodo si togliesse di mezzo per il desiderio di farmi Gitone secondo come avevamo cominciato a fare da quando ci eravamo incontrati. Infatti quel ragazzo, non so perché, o forse perché era un devoto del dio Priapo, nonché addetto al suo tempio più importante, quello sul foro di Pompei, me lo faceva addrizzare subito con misteriose cantilene in latino arcaico di cui io non capivo nulla. Sembrava, il mio fringuello, come il cobra che si ergeva spaventoso dal cesto dell'indiano suonatore di flauto sulla piazza di Atene. Ma per Gitone il mio pisello non era spaventoso affatto. Anzi! Lo venerava come un attributo sacro del suo dio e lo salutava gioiosamente con la solita cantilena “Salve, padre santo, divino Priapo, salve.” E dopo, dopo, o amplessi memorabili, o deliziosi gridolini di Gitone che sembrava aprirsi totalmente fra le mie braccia stretto da me in una morsa colma di libidine! A cena da Agamennone. Ma non ci fu verso di convincere Ascilto né io e Gitone potevamo essere a nostra volta tanto convinti perché anche noi la fame ci tormentava e dunque, dopo esserci dati una ripulita, ce ne andammo a cena da Agamennone, quel vecchio maestro di retorica con cui avevo avuto la discussione sulla decadenza dell'oratoria romana e che, grazie a me, ci aveva invitato a cena. Che fu modesta ma sufficiente a sfamare i nostri stomaci. Gli invitati erano pochi e tutte persone colte che parlavano di argomenti importanti mostrando di conoscere i nostri filosofi molto meglio di noi greci. Il successo di Gitone era enorme: incedeva tra gli invitati circondato di ammirazione e non c'era nessuno che cercasse di fargli la corte. Perciò mi insospettii e chiesi spiegazione al commensale che avevo vicino. “Ma come? Non lo sai? E' un sacerdote di Priapo e gode del diritto di scegliere lui l'uomo con cui vuole andare a letto; sembra però che la cosa non gli interessi. Non c'è nessuno a Pompei che si possa vantare di averlo avuto per amante. Forse si sarà innamorato di qualcuno dei sacerdoti, magari quello che gli ha fatto la festa per primo, beato lui! E' tanto bello quanto casto. E' così, lui dice, che deve essere un sacerdote, anche se del dio Priapo. In realtà alcuni dicono che riceva solo i più dotati, quelli che nessuna donna per paura vuole, e che li soddisfi masturbandoli con grande perizia. Ma sono chiacchiere. Non se ne sa niente di certo.” Fui rassicurato da queste parole e cominciai a parlare della filosofia greca tenendo banco fra quei sapienti che ne sapevano abbastanza per starmi ad ascoltare con una certa competenza. Agamennone poteva ritenersi soddisfatto. I suoi invitati mostravano verso la mia sapienza la stessa ammirazione che avevano per la bellezza di Gitone. Insomma per quella sera aveva indovinato gli inviti e quella cena sarebbe rimasta a lungo nella memoria dei suoi convitati. A mezzanotte ci congedammo, sazi e soddisfatti del successo avuto. Una notte indimenticabile. Era l'inizio del novilunio e non ci si vedeva a un palmo dal naso. Mettemmo Gitone in mezzo tra me e Ascilto e cautamente, piano piano, cercammo di ritornare all'albergo, perdendoci come al solito. Ci rimettemmo in cammino e improvvisamente mi resi conto che non avevo più con me il mio mantelletto sdrucito. “Me l'ha preso! Ascilto, me l'ha preso!” “Cosa?” “Il mio mantello.” “Ma chi?” “Quell'uomo che abbiamo incontrato poco fa. Si è avvicinato per salutarci e mi ha sfiorato. E' stato lui che me l'ha preso!” “E che ti importa? Era tutto vecchio e a pezzi.” “Sì, ma ci avevamo cucito dentro i pochi denari che avevamo e i gioielli rubati a casa di Licurgo.” Nella notte fonda l'insulto di Ascilto risuonò più sprezzante: “Deficiente! L'ho sempre detto che sei un deficiente! Ma di più lo sono io che ti vengo appresso.” Piangevo e camminavo come un automa. Gitone era ammutolito e io disperato. Ascilto si era scostato da me. Sentivo i suoi i passi ma quasi non lo vedevo. “Con questo buio è inutile cercarlo. Rassegnati. Non piangere, cretino! Non serve a niente.” La notte pompeiana nel novilunio è nera nera e compatta, però un lampo sinistro del vulcano che erutta improvvisamente può illuminarla completamente rivelando alla vista edifici, colonnati e statue della città con lunghe ombre che vanno verso il mare. La paura ci teneva stretti stretti e camminavamo a turno io all'indietro e Ascilto con Gitone in avanti, oppure il contrario ma con Gitone che camminava sempre in avanti perché conosceva meglio di noi la città. Quando si udì il fragore di un'eruzione e la luce della lava lanciata in aria illuminò i vicoli Gitone gridò: “Ci siamo: vedo l'albergo.” Si svincolò dal nostro abbraccio e corse verso la porta; io lo seguii, ma Ascilto che in quel momento camminava all'indietro fu lasciato lì da noi due e si perse di nuovo nei vicoli che ormai credeva di dominare grazie all'indicazione di Gitone. Io non sono né un vigliacco né un ingrato. Voglio bene ad Ascilto che è stato il mio compagno per tutti questi anni, come ne voglio a Gitone, ma non ci posso fare niente se Gitone me lo fa addrizzare e lui non più. Quando mi accorsi che non era in casa, dissi subito a Gitone che bisognava cercarlo immediatamente e mi slanciai fuori non sapendo neanche io dove andare. Dopo aver perlustrato tutta la citta mi rassegnai e ritornai nella cameretta dove Gitone ci aspettava e lì, dopo avergli strappato tanti baci, a cui il pischello rispondeva volentieri lo abbracciai più volte strettamente dando sfogo alla mia libidine con orgasmi da urlo. Non avevamo ancora finito quando Ascilto si avvicina quatto quatto alla porta della cameretta e, scardinata violentemente la serratura, mi sorprese che me la godevo con il mio fratellino. Evidentemente incazzato, riempì la cameretta di risate ironiche e di applausi rivolti a me, tirò via la coperta che avevamo sopra e: “Che stavi facendo, amico caro, sotto la stessa coperta del ragazzo?” Ma non si accontentò solo delle parole di scherno: sfilò la cinghia della bisaccia e cominciò a frustarmi mica tanto per finta, aggiungendo anche sprezzanti rimproveri: “Così impari a non condividere i tuoi beni con tuo fratello!” Grazie a Gitone, che era un ragazzo davvero giudizioso, quello scontro durò poco. Io mi nascosi sotto al letto e lui gli si gettò ai piedi supplicandolo di non frustarmi e giurando e spergiurando che io non lo avevo toccato e che invece mi stavo riposando perché ero andato a cercare lui per tutta la città. “Allora mi vuoi bene, fratellino? Non ci dividiamo più? Vieni fuori, dai.” disse Ascilto. “Ma certo che no.” rispose per me Gitone, “Lui non viene con me perché non ama più te; ci viene perché io conosco le formule per compiacere il dio Priapo. Vedrai che quando sarà guarito tornerai ad essere tu il suo amante. Via, adesso calmati e distenditi anche tu, che sarai stanco. Io vado a cercare alla vecchia qualcosa da mangiare. Tu perciò riposati, che quella, lo sai, dopo vuol essere pagata.” “E tu esci fuori da là sotto, cretino!” concluse Ascilto ridendo e sporgendosi a guardarmi da sopra al letto su cui si era finalmente disteso. Al mercato. Il giorno dopo decidemmo di andare a vendere la toga rubata a Licurgo. La fame era tanta e la vecchia si rifiutava categoricamente di aiutarci se Ascilto non la scopava. Ma Ascilto diceva che non avrebbe potuto neanche se fosse intervenuto personalmente il dio Priapo. Il sole già era al tramonto quando arrivammo nel foro, in cui trovammo un bel po' di merci, non molto preziose ma la cui provenienza sospetta era molto meglio che fosse nascosta dal calar della sera. Poiché dunque anche noi avevamo portato lì un mantello rubato decidemmo di cogliere quell'opportunità e in un angolo più scuro cominciammo a scuotere il bordo di quella toga per vedere se caso mai lo splendore di quella veste potesse attrarre qualcuno. Non dovetti aspettare a lungo. Un contadino che già avevo intravisto in città accompagnato dalla sua mogliettina mi si fece più accanto e cominciò ad esaminare il mantello. Ascilto a sua volta alzò gli occhi sulle spalle del contadino e rimase basito. E neppure io potei guardarlo senza una profonda emozione: mi sembrava proprio quell'uomo che in quel vicolo solitario mi si era avvicinato fingendo di volermi salutare. No, anzi, era proprio lui. Ma Ascilto non si fidò solo della sua vista. Per non sbagliare, prima gli si avvicinò come se fosse un compratore interessato a quell'oggetto e poi cominciò a palparne il bordo per vedere se il mantello era proprio quello. Che botta di culo! Il contadino almeno fino a quel momento non aveva ritenuto di dover osservare più di tanto l'oggetto rubato considerandolo uno straccio di poco conto da vendere il prima possibile. Ascilto, visto che il denaro era ancora lì e che la persona del venditore non poteva dare alcun problema mi tirò in disparte e mi disse: “Lo sai, fratello, che il tesoro che davi per perduto è tornato a noi? A quanto pare è quello il mantelletto pieno di denaro che ti fu rubato. Che si fa? A che titolo possiamo rivendicarne il possesso?” Rinfrancato non tanto perché vedevo recuperata la mia roba ma soprattutto perché mi liberavo di uno spiacevole sospetto, dissi che non era il caso di agire con sotterfugi ma di seguire le vie della legge. Se quello non voleva restituire la roba non sua l'avremmo chiamato davanti al pretore. Ascilto invece non si fidava della legge. “Chi crederà a due stranieri? Ho idea che sia meglio ricomprare ciò che è nostro e con pochi soldi recuperarlo piuttosto che rischiare una lite temeraria. Che possono le leggi dove il denaro regna o dove nessun povero vincere mai potrà? Anche quelli che seguono il cinico pensiero molte volte barattano con il denaro il vero. Altro non è giustizia che merce da scambiare e vota il cavaliere sentenze da scontare.” Non avevamo che pochi spiccioli per fare la spesa. Perciò, affinché nel frattempo il mantello non sparisse, comprato da altri, decidemmo di mettere in vendita la toga di Licurgo ad un prezzo più basso del suo valore pensando che la perdita sarebbe stata compensata dal recupero del nostro tesoro. Appena cominciammo a dispiegare quella toga la donna col capo coperto che accompagnava il contadino, ispezionate le rifiniture dell'oggetto, cominciò a gridare a piena voce “Al ladro, al ladro!”. Noi, colti di sorpresa, per non sembrare di esserlo, a nostra volta, afferrammo il loro mantello e con la stessa forza cominciammo a gridare che la loro roba era roba rubata. Ma la lite era assolutamente asimmetrica e dei sensali accorsi alle nostre grida lo sottolineavano sorridendo, come fanno di solito, perché da una parte si rivendicava una veste elegantissima, dall'altra uno straccetto sbrindellato che neanche dei rattoppi avrebbero potuto rendere appetibile. Perciò Ascilto cercò di farli smettere di ridere e ottenuto a fatica il silenzio disse: ”E' evidente che a ciascuno di noi sta a cuore la propria roba. Dunque ci restituiscano il nostro mantello e si riprendano il loro. Al contadino e alla moglie la proposta piacque, ma degli avvocati, o piuttosto dei furfanti notturni, che volevano approfittare della lite e lucrarci sopra, insistevano che affidassimo a loro i due mantelli e che il giorno dopo se ne sarebbe occupato il giudice. Infatti, secondo loro, e a ragione, erano in discussione non tanto gli oggetti contesi quanto la loro provenienza sulla quale gravava un forte sospetto di furto. Già erano tutti d'accordo sul deposito e uno dei sensali, pelato, con la fronte piena di brufoli enormi, uno che qualche volta discuteva anche delle cause, aveva afferrato la nostra toga e assicurava che il giorno dopo l'avrebbe presentata al giudice. Era chiaro che non si cercava altro: gli indumenti depositati se li sarebbero spartiti quei bricconi perché noi per paura del furto commesso non ci saremmo presentati in giudizio. Noi ovviamente stavamo pensando la stessa cosa che pensava il contadino e così il caso venne in aiuto ad entrambe le parti in contesa. Infatti il contadino, incazzato, perché noi chiedevamo che la sua merce fosse oggetto di giudizio, scagliò in faccia ad Ascilto il suo straccetto per noi prezioso e ci ingiunse, non essendoci più motivo di litigare, di restituire loro la toga che era la sola che l'aveva provocata. Noi a nostra volta ingiungemmo all'intrigante sensale di consegnare al contadino la merce che era sua. E il sensale obbedì: ormai era stanco come tutti noi di una discussione che per l'esiguo valore delle merci era durata sin troppo a lungo e recuperato, almeno credevamo, il nostro tesoro, corremmo di filato verso l'albergo e, chiusa bene la porta, cominciammo a ridere come pazzi dell'acume dei sensali non meno che degli avvocati, che ci avevano accusato di furto, poiché, proprio grazie al loro acume, ci avevano ridato il nostro denaro. Se un desiderio preme e non dà pace soddisfarlo all'istante non mi piace né mi piace di avere un talismano che metta la vittoria a portata di mano. L'arrivo di Quartilla. Ma ci eravamo appena ingozzati della cena gentilmente preparataci da Gitone che all'improvviso sentimmo bussare con forza alla porta. Pieni di paura chiedemmo chi fosse e la risposta fu: “Apri e lo saprai!”. Mentre ci consultiamo sul da farsi la serratura cede di sua iniziativa e la porta si apre alla visitatrice. Era proprio quella che col capo coperto stava poco prima insieme al contadino e ci disse: “Voi vi credete di avermi fregato? Io sono l'ancella di Quartilla, la donna che avete interrotto mentre stava compiendo il rito davanti all'altare di Priapo. Peggio per te, mi disse, eri quasi guarito e adesso invece tornerai ad essere impotente. Non si offende impunemente il dio. La mia padrona è venuta qui di persona e chiede di potervi parlare. Non preoccupatevi: non intende né rimproverare né punire il vostro errore; anzi, si chiede meravigliata quale dio sia, se non è Priapo, quello che ha condotto sul suo territorio giovani come voi, così colti e così bene educati. Noi eravamo interdetti e non sapevamo che fare. La donna allora entrò, senza aspettare il nostro invito, con una ragazzina per mano. Si sedette sul mio letto e cominciò a piangere. Neppure allora noi riuscimmo a parlare. Aspettavamo che finisse quel pianto chiaramente ostentato per mostrare quanto dolore la opprimesse. Finalmente quel rovescio di lacrime finì, si tolse il velo dal fiero capo e, facendo schioccare le nocche delle mani, incominciò: “Da dove viene questa audacia? Su quali libri avete imparato simili comportamenti? Per Giove protettore dei segreti, ho pietà di voi, perché mai nessuno poté assistere impunemente a dei riti sacri segreti, anche se in questa regione ci sono più dei che uomini. Ma io non sono venuta qui per vendicarmi. Sono indulgente con la vostra età più di quanto sia offesa per il vostro comportamento sacrilego: avete commesso ma non in piena consapevolezza un crimine inespiabile. Io quella notte, intirizzita dal freddo, temo di essermi presa la febbre terzana. E perciò dormendo nel tempio di Priapo ho chiesto al dio di rivelarmi qual è la medicina per questo male e in sogno il dio mi ha ordinato di cercarvi e di alleviare così gli assalti del male nei momenti di maggiore violenza. E non mi preoccupo tanto della medicina; più forte è la preoccupazione che ho dentro e che mi sta portando alla morte: che cioè voi, per giovanile intemperanza, non divulghiate ciò che avete visto nel tempio di Priapo e riveliate a tutti i segreti del dio. Tendo quindi le mie palme alle vostre ginocchia e vi scongiuro di non fare oggetto di scherno i riti a cui avete assistito quella notte, riti protetti da una secolare tradizione e che a malapena un migliaio di uomini conosce.” Dopo questa supplica ricominciò a piangere e profondi singhiozzi le stravolgevano il volto che affondò di nuovo nel mio petto. Io la invitai a stare di buon animo e a non cedere né alla compassione né alla paura: infatti nessuno avrebbe divulgato il contenuto dei riti cui avevamo assistito e se il dio le avesse suggerito qualche rimedio alla sua febbre noi l'avremmo aiutata anche a nostro rischio e pericolo. Resa più allegra da questa mia promessa mi baciò fittamente e passando dalle lacrime al riso con mano delicata e leggera incominciò ad accarezzarmi dietro l'orecchio i capelli che io allora portavo lunghi e disse: “Facciamo una tregua. Io vi assolvo perché avete accettato di aiutarmi nel cercare la medicina di cui ho bisogno. Sia chiaro che se non aveste accettato era già pronto uno squadrone di miei schiavi etiopi che vi avrebbero punito severamente. Essere offesi è indecenza, ma perdonare è un gran bene. Amo poter andar liberamente là dove l'estro mi chiama. Anche il saggio, offeso, reclama e se non lo fa con violenza di solito esce vincente.” Recitati questi versi, esultò in un applauso e in una risata così scomposta e rumorosa che ci fece temere il peggio. Anche perché la stessa cosa fecero l'ancella e la ragazzina che erano venute con lei. Tutta la stanza fece eco a quelle risate fragorose che riempirono di sé l'albergo e noi ci guardavamo tra noi o guardavamo le tre donne che, ridendo come pazze, facevano una specie di girotondo a tre vorticando con violenza finché non caddero tutte e tre a terra svenute. Poi piano piano si ripresero e il riso nuovamente si mutò in qualcosa d'altro, una specie di coro muto che quelle intonavano voltolandosi per terra con la stessa violenza con cui avevano riso. Noi tre, io Ascilto e Gitone, non sapevamo che fare. Restavamo in silenzio in attesa che quelle invasate riprendessero il loro aspetto umano: per il momento esse sembravano cuccioli di belve feroci che stessero facendo un loro gioco violento ma innocuo. A un certo punto, spossate, si fermarono e tacquero. Noi ci rinfrancammo, ma per poco. Improvvisamente Quartilla schizzò in pedi con occhi di fuoco dilatati e crudeli e rivolgendosi a me dopo avermeli piantati a due dita dal naso, disse: “Per questo io ho proibito che oggi nessuno sia ammesso in questo albergo, perché, senza che nessuno ci disturbi, io possa avere da voi il farmaco per curare la febbre terzana.” Quando disse queste parole, Ascilto ne fu un po' preoccupato; io invece, reso più distaccato e freddo dagli inverni marsigliesi, riuscii a non proferire verbo. Ma i miei compagni mi inducevano a non temere niente di peggio. Infatti erano tre donnette: se avessero voluto tentare qualcosa, erano naturalmente inferiori; noi invece eravamo, se non altro, di sesso maschile. E inoltre eravamo in vesti molto più succinte. Anzi, io avevo già formate le coppie da combattimento: io con Quartilla, Ascilto con la schiava e Gitone con la ragazzina. Quella stronza però aveva preorganizzato tutto. Batté tre volte le mani come per manifestare la gioia di aver ottenuto il nostro assenso, ma in realtà per mandare il segnale convenuto a sei negri da due metri di altezza che irruppero nella sala e neutralizzarono Ascilto e Gitone, lasciandomi libero di essere circondato dalle tre che mi spogliarono nudo, ma lentamente, perché io facevo resistenza e “Dai, spogliati e spogliati, che sei così bello!” “Come gli piace il culetto al dio Priapo, anche se è di un uomo!” cantavano in coro infilandomi le dita nell'ano. Io mi difendevo e gridavo di rifiuto e di dolore, anche perché quelle tre scalmanate non ci andavano piano e la piccola cercava di penetrarmi con la sua manina delicata ma decisa che mi faceva gemere come una donna in orgasmo. “E spogliati! e spogliati!” “E come sei bello!” “Guarda, se vuoi guarire, che cosa devi fare. E' la punizione che Priapo pretende per i miscredenti come te.” E io, vigliacco: “Non sono stato io, è stato Ascilto!” “Ma quale Ascilto? quale Ascilto? E guarda, e guardaaa!” e così dicendo mi girò la testa verso i due negroni che erano rimasti a sbarrare la porta: uno dei due aveva un membro pauroso, e in erezione. Le tre donne mi trascinarono fino a lui e gridavano: “Bacialo, bacialo e prega il dio di perdonarti, peccatore, miscredente. Lo vedi che c'è il dio. Bacia il cazzo se vuoi guarire. E prepara il culo. Ci vogliono due coglioni come i tuoi per prenderlo in culo senza gridare e cosi dicendo mi infilò a forza un grosso panno in bocca affinché non gridassi e con l'altra mano piena di grasso di maiale mi massaggiò l'ano cantando: “Prendilo, Priapo. E' tuo. E perdona questo peccatore che non ti vuole credere. Prendilo, spaccalo in due, fagli capire qual è la tua potenza e finché non mugola e sbava come una troia non smettere di incularlo. Prendilo, o grande iddio, fallo guarire.” Guardavo il negro con occhi terrorizzati ma finché stava fermo, pensavo, non correvo rischi... però a un certo punto vidi che affondando una mano nella stessa vescica di grasso dalla quale si era rifornita Quartilla stava ora spalmando quel membro pauroso e mentre se lo masturbava in quel modo si avvicinava lentamente verso il nostro gruppo di donne, cioè delle tre donne più me; anche l'altro negro avanzò, mi abbracciò e mi mise in piedi. Io con le braccia libere cercavo di dargli dei pugni sulla schiena ma per quel monumento di negro erano carezze; poi Quartilla mi fermò le braccia e sempre cantando diceva: “E fermo! Fermo! Non lo sai che per Priapo devi essere una verginella paurosa di dargli la fica. Lui dai maschi vuole il culo, ma come se fossero donne. E sta buono!” Ero perduto! Il negrone mi teneva stretto a sé; Quartilla mi teneva le braccia incollate sulla sua schiena e quelle due disgraziate, la serva e la ragazzina, avevano afferrato ciascuna una delle mia natiche e le divaricavano paurosamente. “Grande iddio, prendilo, prendilo è tuo!” Ma io resistevo e con tutta la forza che potevo cercavo di stringere gli sfinteri. Ma ormai tutti, compreso il toro che quella pazza aveva incaricato di stuprarmi, cantavano verso di me: “Rilassati, bambina, non farti violentare. Vedrai che se resisti lui ti farà più male. Ormai sei una fanciulla che deve dare il culo al dio che se ti incula presto ti guarirà.” Già il negro me lo aveva appuntato tenendomi saldamente per i fianchi. Cercavo di gridare ma... mi pareva di gridare: era solo un'illusione. Quel toro infojato e determinato mi premeva con quel suo enorme attributo. Decisi di rassegnarmi e di rilassarmi, aspettando la morte. Ma quello, stranamente, agiva con cautela e destrezza. Con la testa del pene mi massaggiava l'ano delicatamente e io ormai rilassato e rassegnato mi abbandonavo lentamente a quel massaggio che incominciava a piacermi. Sentivo che gli sfinteri uno dopo l'altro cedevano e quel porco, evidentemente abituato a svolgere quella funzione, quando le tre donne cominciarono a gridare impazzite “sfondalo sfondalo” mi diede il colpo di grazia. Il dolore tremendo mi tramortì, nella testa ebbi come un fulmine che la attraversava con un'enorme scia di luce e svenni fra le braccia dell'altro negro che non mi mollava e che quando mi vide senza coscienza prese con una mano una brocca d'acqua che le tre puttane avevano messo lì per la bisogna e me la scaraventò in faccia. Non so quanto restai svenuto e quando rinvenni (ma quando rinvenni?) mi sentivo quell'aggeggio che stantuffava dentro di me perlustrandomi le viscere senza pietà. “Devi godere consapevolmente” mi disse il negro con tono imperativo, “sennò il dio non ti fa la grazia.” E l'altro spingeva e spingeva procurandomi un dolore insopportabile perché si rinnovava ad ogni botta che dava dentro di me col suo pisello e quella condizione di dolore incominciava a sembrarmi eterna. Svenni di nuovo e di nuovo fui svegliato nel modo che ho detto. Cercai di resistere e di essere il più cosciente possibile e allora mi accorsi che il mio fringuello era teso come nelle sue migliori prestazioni. “Lo vedi, lo vedi.” Gridavano quelle tre forsennate. “E spingi, spingi!” gridavano al negro, “che il santo padre Priapo lo sta perdonando. Guarda come gli si addrizza, guarda come gli si addrizza.” Quartilla si inginocchiò e cominciò a farmi un pompino magistrale. Il dolore e il piacere si unirono e io credo di non aver mai più goduto così pienamente. Il cazzo del negro che mi inculava era implacabile come la lingua di quella maiala di Quartilla. Facevo fatica a restare cosciente, ma a quel punto me lo imposi come un dovere e non so per quanto tempo potei godere come una troia, ma sicuramente fino a quando lo schizzo del mio sperma inondò il viso di Quartilla e allora quella balzò in piedi gridando come invasata. Tutti in contemporanea lasciarono le loro prese. Anche il negro che mi stava inculando; dandomi però, a mano libera, per così dire, un altro paio di botte e venendo anche lui; gli altri liberarono Ascilto e Gitone e cominciarono a danzare cantando di nuovo la canzone di ringraziamento al dio che fa “Salve, padre santo, Priapo, salve.” Io non ce la feci ad alzarmi. Il negro che mi teneva mi fece bere da una coppa un liquore dolcissimo che seppi poi essere il celebre satirio e mi sdraiò su un letto che era stato apparecchiato come tutto il resto per quel rito. Non mi addormentai perché l'ano mi sanguinava vistosamente, ma ero felice. Sembra che il satirio abbia questa straordinaria capacità: se te lo bevi non ti addormenta, ti leva solo una parte della coscienza in modo che la mente possa fluttuare, senza che tu possa farci niente, da un'immagine all'altra, immagini che sembrano pensieri ma pensieri non sono: sono solo ribollii della tua mente che resuscitano il passato e che si confondono con la realtà presente. Vedevo il Partenone, il Pireo, il primo uomo che mi aveva stuprato consenziente compensandomi con mille dracme e poi Ascilto e poi Gitone e poi la ragazzina e non capivo se li stavo sognando o se stavo realmente vedendo quelli che erano lì con tutti gli altri. E le note del loro canto di ringraziamento accompagnavano il fluttuare delle immagini che mi si avvicendavano nella testa. Non ho più provato in seguito un piacere tanto grande. E quando questa fluttuazione dei miei pensieri cominciò a finire mi accorsi di avere ancora il cazzo dritto per un'erezione violenta e impossibile da far rientrare. Cercavo con lo sguardo Gitone, ma il ragazzo sembrava che si fosse eclissato. Cercai Ascilto ma vidi che uno di quei negri se lo stava inculando sull'altro letto che avevamo in quella misera stanza d'albergo. Vedo allora Quartilla che con la faccia ancora sporca del mio sperma si stava chinando sul mio fringuello. Capisco che quella porca vuole scoparmi ancora perché è salita sul mio letto e si è inginocchiata su di me a gambe divaricate. ”Non vuoi restituire al dio quello che ti ha dato? Ma allora sei proprio un miscredente fottuto!” E allora le dico: “Signora, tu sai qual è il mio problema. Il tuo dio mi vuole punire perché forse in qualche modo io l'ho offeso. Ma io non posso fare quello che tu vuoi da me.” “Per questo, infamone, sei fuggito, quando nel tempio io ero quasi riuscita a convincere Priapo a perdonarti e a restituirti la potenza sessuale.” “E' vero, signora, sono fuggito, ho avuto paura: troppo sangue, troppo dolore; quello per me non era un piacere, era una tortura. Fare l'amore senza desiderio è una tortura.” Rise sguaiatamente secondo il suo solito e gridò: “Allora non mi vuoi, beccamorto?” “No, signora; non ti desidero, ma non ti devi offendere! Io non desidero le donne. A me piacciono solo i ragazzi e solo quando vedo o penso al loro culetto riesco ad eccitarmi. Io sono nato in Grecia ed ero bello come una fanciulla. Sai quanti uomini mi si sono fatti insegnandomi l'amore degli efebi; sicché alle donne non ho mai pensato né ci penso più. Non riesco proprio a pensarci! Ogni volta che qualcuna mi si offre o mi costringe io cedo, se è bella come te, ma non provo proprio nessuna emozione.” Lasciò il letto, balzò in piedi e gridando come una furia mi fece una predica con una voce alterata da un'ira profonda: “Ecco perché il dio ti punisce, disgraziato! Tu non sai che ti perdi, povero infelice. Se non scopi con le donne come farà l'umanità a riprodursi? Devo curarti; per Priapo, devo curarti!” Poi a Gitone: “Vieni qui. Tu sei il trovatello di Priapo, no? Siete voi che avete rovinato il nome del dio, tu e quei frocioni dei sacerdoti che ti hanno allevato. Vieni qui.” Ma Gitone, miracolosamente riapparso da dove era nascosto, sembrava non volersi muovere. In realtà era trattenuto da uno di quei negri che se lo stava inculando e che io non vedevo perché era completamente nascosto dal buio della stanza che in quel punto era totale. Capii che quella porcona voleva assistermi mentre mi facevo Gitone che però per il momento non era disponibile e perciò infojata dal mio fringuello perfettamente eretto, gridando “Il dio lo vuole!” balzò di nuovo su di me e se lo infilò nella fica godendo come una pazza. Io però non riuscivo a venire. E perciò quando quella pazza venne lei, cambiò di nuovo posizione e si infilò il mio pisello anche nel culo sempre cantando le lodi del dio. Credetti di morire; in realtà essendo semicosciente fui ingannato dal trucco di quella porca fottuta che gridava “Ecco Gitone, ecco Gitone!” Pensai che il culo di Quartilla fosse quello di Gitone. Mi arrovesciai su di lei e la inculai selvaggiamente come facevo con quel ragazzetto bellissimo che io amavo come fosse mio fratello, mio figlio, mio tutto. Il rito volgeva al termine. Ognuno di noi, ormai sfiancato da quell'orgia di accoppiamenti ripetuti, si abbandonò al sonno pensando che non fosse il sonno ma una sicura morte ciò che ci stava chiudendo gli occhi. A notte fonda un delicato e crescente suono di tamburelli ci svegliò piano piano a tutti. Nessuno di noi si rendeva conto di dove si trovasse e che cosa fosse accaduto prima. Né ci fu consentito di rendercene conto. Quartilla aveva istruito uno di quei negri (gli altri che non avevano compiti dovevano solo provvedere a tenerci fermi se tentavamo fughe o violenze) e lo aveva dotato di una frusta dolorosissima e quello si aggirava per la stanza ordinandoci imperiosamente di bere le coppe che quella pazza di sacerdotessa aveva fatto riempire dall'ancella dopo averla mandata a procurarsi il satirio al tempio. Beviamo. C'è poco altro da fare, ma io ci provo ugualmente: “Ti supplico, signora, se ci stai preparando qualcos'altro di terribile, che sia veloce e definitivo. Noi non abbiamo commesso niente di così grave da dover essere puniti tanto crudelmente.” “Ma che dici? Che dici, scemo? Stai guarendo. Stai godendo. Stai sognando. Che vuoi di più? E' così che si prega il dio se vuoi guarire definitivamente. Devi avere pazienza, devi avere. Sei un idiota. Non capisci che solo io ti posso guarire? Non dar retta a quel frocetto del tuo amico. Lui sta nel tempio di Priapo solo perché è un trovatello ed è così bello da fare la gioia di quei vecchi maiali dei sacerdoti. Ma loro non possono nulla, il dio non li ascolta. Il dio ama la fica, le donne vogliose, le pazze come me che quando vedono un cazzo gli si buttano addosso. Obbediscimi, se vuoi guarire; altrimenti vattene pure a fa 'n culo tu e i tuoi amichetti froci.” I risultati c'erano: le diedi credito. Bevvi un'altra coppa di satirio e mi affidai alla volontà del dio. Intanto la schiava, che si chiamava Psiche, distese accuratamente un tappetino sul pavimento. Spense le fiaccole più vicine e si gettò sui miei inguini, che erano a portata di mano perché bastava alzarmi il gonnellino. “E' inutile, Psiche, anche se hai rovesciato i ruoli del mito a me con una donna non mi si addrizza.” “Ah no?” disse infuriata “Vediamo se ti si addrizza adesso.” Entrarono due di quei giganti negri che ci avevano fatto il servizio prima. “Sono perduto!” pensai. Cominciai a gridare come un pazzo. Gridavo. Gridavo e basta, in preda ad un attacco isterico che assomigliava ad un episodio di epilessia. I due negri si spaventarono. Credettero che veramente il dio mi avesse graziato e mi avesse fatto il dono dell'epilessia e inginocchiatisi cominciarono ad adorarmi come se fossi io il dio e non Priapo. Capii subito il gioco e quindi continuai a gridare strizzando l'occhio a Gitone che mi capì al volo e che si inginocchiò anche lui cominciando a biascicare una incomprensibile preghiera in latino arcaico che ormai nessuno capiva più. Ascilto allora si tirò su dal suo giaciglio, si spaventò e cominciò a piangere come una pavida femminuccia smarrita che teme di veder morire il marito. Non sapevo che fare, ma visti i risultati, a scanso del peggio, continuai a gridare, questa volta però parlando, ma in greco, in modo che solo Ascilto potesse comprendermi. Gli dicevo: “Non aver paura, sto benissimo, lo faccio solo per tener buoni questi due energumeni che mi credono una creatura divina. Dai, inginocchiati anche tu come Gitone e fingi di pregarmi.” Eseguì immediatamente, anche perché nessuno poteva più controllarlo; infatti Quartilla e la ragazzina erano sparite. Potevo compiere l'opera. Sempre urlando posi le mani sulla testa dei due negri e recitai la formula con cui a Roma si emancipavano, cioè si liberavano, gli schiavi. Appena ebbi finito, i due energumeni si alzarono, mi baciarono e poi se ne andarono abbracciati come se avessero vinto una lotteria. Psiche era interdetta. Ora era lei che non capiva più. Per fortuna tornò Quartilla con la ragazzina e le disse: “Levati, buona a nulla! Ho quello che ci vuole per questo smidollato. E' un rimedio consigliatomi dal dio. Spegni tutte le fiaccole e lascia la stanza nell'oscurità. E tu, Encolpio, non ti muovere se vuoi guarire veramente.” Uscì, restò fuori della stanza per qualche minuto e poi rientrò con un'ampolla di profumo con cui mi cosparse da capo a piedi togliendomi di dosso tutti i panni. Profumavo come una puttana dopo il bagno. “Sei bellissimo!” Mi diceva lei. “Ah, se ti piacessero le donne, che notti potremmo trascorrere insieme. Ma ho una sorpresa per te.” Poi rivolta a Psiche: “Portami un'altra coppa di satirio.” “Bevi, mi disse, vedrai che sorpresa!” La sorpresa. Intanto Psiche e e la ragazzina Pannichide avevano spento tutte le fiaccole meno una che faceva una tenue luce con la quale non era possibile neanche riconoscere una persona. Quartilla batté le mani ed ecco che compare sulla porta un giovane cinedo di angelica bellezza. Non era la solita regina vecchia, con la parrucca e imbellettata in modo da sembrare un'improbabile donna; era giovane ed aveva un cosino quasi invisibile che sembrava una clitoride. Era di una bellezza mozzafiato. Mi si avvicinò, mi divaricò le gambe e si inginocchiò in mezzo ad esse poggiando le sue mani sul mio ventre. Io pensavo che come al solito mi avrebbe preso in mano il pisello e invece quell'angelo sembrava del tutto indifferente al mio bischero. Mi prese le mani e se le portò dietro la schiena facendomi sollevare. Seduto, guardavo i suoi occhi splendenti e luminosi e i riccioli abbondanti e perfetti che gli incorniciavano il bellissimo viso completamente glabro e senza neanche l'ombra di un pelo. Era una donna? ma no! Da vicino il suo sesso anche se minuscolo recava i chiarissimi segni del maschio. Automaticamente abbassai le mie mani dalla schiena al fondoschiena. Ma lui si rilassò più pesantemente sulle gambe anteriori in modo da impedirmi di afferrargli le natiche. “Baciami, stupido!” mi sussurrò. Non me lo feci dire due volte, mentre le mani cercavano di sorpassare lo sbarramento che quel perfido opponeva loro e che gli impedivano di arrivare in paradiso. Lo baciai senza interruzione, lui mi prese la testa con entrambe le manie e me la schiacciò contro la sua, poi la staccò dalle labbra e continuando a sussurrarmi “Baciami, baciami!” me la spostava lui dove voleva essere baciato: sulle spalle, sulle mammelle, sul ventre. Era un maestro di anatomia oltre che di seduzione. Lentamente il mio bischero si sollevò e allora le mie mani cercarono freneticamente il suo culetto che quel perfido continuava a negarmi. Lo baciavo, gli sbavavo addosso tutto il mio desiderio, gli cercavo con le mani le natiche, ma lui fingeva di non capire. Quando vide che la mia erezione era completa si tirò indietro di scatto e inchinatosi me lo prese in bocca e contemporaneamente dovette liberare le natiche e lasciarmele afferrare con tutta la violenza del desiderio represso fino a quel momento. Non so se sospirasse gridando o se gridasse sospirando. Anche lui sembrò esaudire un desiderio represso fino a quel momento con violenza. Non ebbi più freni, lo girai e me lo inculai con suo grande piacere, arrivando a mia volta a raggiungere il massimo del godimento. Ma stavo lì lì per venire quando Gitone che aveva finalmente capito cosa stava succedendo ci piombò addosso e con un bastone cominciò a bastonarci provocando in me un piacere anche maggiore. Gridava come un pazzo per la gelosia e per fortuna io ebbi l'idea di fargli credere che avevo scambiato per lui quello splendido cinedo che mi ero appena inculato. Sembrò aspettare e desierare anche lui quella scusa assurda per rassicurarsi del mio amore per lui. E allora lo rafforzai nella sua convinzione aggiungendo che avevo creduto che fosse Priapo a mandarlo da me. Guardò finalmente anche lui quello splendido cinedo che giaceva mezzo svenuto sul tappeto steso a terra da Psiche: lo avevo letteralmente sfondato come mai mi era accaduto prima: il ragazzetto singhiozzava in silenzio nascondendo il viso sulla stuoia e coprendosi l'ano con una mano come a volerlo proteggere da un secondo attacco violento, come quello che aveva appena subito. Ero guarito? Il solo pensiero mi faceva girare la testa. Abbracciai Gitone e immediatamente il mio bischero rispose. Ero dunque guarito e Gitone era sempre il mio amore; ma Gitone mi respinse e, con la sua solita grande sensibilità, si inginocchiò vicino al cinedo e lo accarezzò a lungo fino a quando non si addormentò. Mi sembrò che i due si conoscessero: avrei indagato. Infatti il sonno, dopo il cinedo, sembrò impadronirsi di tutti noi e la nostra povera stanza in poco tempo piombò nel silenzio. Mi svegliai che quella puttana di Psiche mi stava letteralmente possedendo come se fosse lei il maschio. Mi teneva stretto e mi baciava furiosamente tenendomi infilato nell'ano un fallo finto di non so che materiale. Sperava così di eccitarmi, ma niente da fare. Allora con l'altra mano cercò di eccitarmi davanti, ma il mio attributo era ormai morto di mille morti. “Cosa stai facendo al mio amico?” le disse Ascilto, nel frattempo svegliatosi anche lui; non ricevette risposta: la ragazza come una furia afferrò il bastone che Gitone aveva lasciato lì e gli appioppò una gragnola improvvisa di colpi dai quali Ascilto non si poté riparare. Però si era coperto il capo col mantello, ma quando ormai era troppo tardi, così imparava a impicciarsi degli affari altrui: la furia della ragazza era stata repentina e a termine. Si calmò subito e si distese a terra chiamando vicino a sé le altre due. Si addormentarono e restarono tranquille per un bel pezzo. Appena si accorse che dormivano, Gitone ci chiamò a raccolta per vedere se si poteva uscire da quella situazione, ma nessuno di noi aveva idee convincenti e per di più io non volevo andar via perché mi pareva veramente che stessi incominciando a guarire. Insomma, alla fine decidemmo di dormire anche noi e di riposarci in attesa degli eventi. Che notte fu quella! Non era ancora l'alba e le tre pazze ci svegliarono di nuovo improvvisamente per continuare a fare i loro giochi erotici che facevano passare per riti sacri a Priapo, ma che oggi, a ritroso, penso che erano solo la loro insaziabile voglia di cazzo. Ci svegliammo e ancora satirio. Il satirio si presenta come una bevanda gradevole che sembra avere per base vino più miele, ma poi anche altra roba per cui più ne bevi più senti che ti sciogli e ti apri agli altri. Ci trovammo senza neanche accorgercene nel bel mezzo di una conversazione sulla bellezza delle città e sulla bellezza di Roma in particolare, di cui tutti avevamo sentito parlare. Più di un milione di abitanti! Piazze con enormi templi di marmo! Terme grandissime con tutti i bagni a diversa gradazione termica! E vita, vita notturna interminabile e movimentata! Oh, Roma, Roma! Che desiderio avevamo io e Ascilto di arrivarci, ma ormai pensavamo che non ci saremmo arrivati mai. L'avevamo avuta due volte in vista e due volte l'avevamo perduta. La nostra condizione era quella di chi desidera una cosa immaginata di cui sa però con certezza che esiste la realtà corrispondente ma sa anche di non poterla raggiungere mai. Era la peggiore forma di disillusione continua con cui forse quel dio voleva punirci. Ma che dio! Che Priapo! Chi ci credeva più negli dei? Erano stati tutti cacciati dal mondo da quella nuova dea, Roma, potente e superba, l'unica capace di decidere del destino di ognuno. Un po' favoleggiando e un po' riportando notizie vere avevamo trascorso un bel po' di tempo a parlare di Roma e della vita che vi si svolgeva, quando l'ancella tirò fuori da una tasca due nastri e con uno ci legò i piedi, con l'altro le mani. Noi la lasciammo fare; ormai eravamo rassegnati a quella vera e propria persecuzione sessuale, io per la speranza di guarire e Ascilto perché più che altro divertito. Anzi, poiché l'occasione delle chiacchiere cominciava a venir meno, cambiò discorso: “Ma come? Io non sono degno di bere con voi?” L'ancella, avvertita dalla mia risata, cominciò a battere le mani e mi disse: “Bello, io l'ho versato per tutti e tu ti sei trincato da solo tutta la medicina.” “E' proprio così?” disse Quartilla: “Encolpio si è scolato tutto il satirio che c'era? Brutto porco! Allora sei pronto! Vieni vieni, il dio Priapo ti vuole!” Mi trascina sul pavimento come uno stuoino fino ai piedi del negrone già pronto a farmi il servizio e lì mi gira sulla pancia cominciando a pregare Priapo di guarirmi. Ero legato mani e piedi. Che potevo fare? Solo gridare per il male che quell'energumeno mi faceva penetrandomi e chiavandomi con estrema decisione e violenza. Con me per solidarietà gridava anche Ascilto che però non poteva far niente neanche lui e anche Gitone, che avrebbe voluto soccorrermi, gridava, ma un altro negrone lo tratteneva inculandoselo e l'amore mio gridando gli rendeva due servizi. Le nostre grida si univano a quelle delle tre pazze che urlavano, come ammattite, scomposte preghiere al dio. Il mio negrone finalmente venne e mi liberò del suo arnese. Quartilla mi rigirò e con mia grande sorpresa vidi che mi si era addrizzato l'uccello come nelle migliori occasioni. La pazza cominciò a versare lacrime a fiumi, poi si mise a ridere scompostamente e, tiratasi su la veste, abbandonandosi ad uno spegnicandela furioso come quello che un pittore ha disegnato poi sulle pareti della casa di Vettio venne più e più volte. Gridava come se fosse veramente invasata dal dio. Io non provavo alcun piacere ma il mio bischero fece la sua funzione fino alla fine, fino a quando cioè quella puttana quasi non svenne raggiungendo l'orgasmo. Si arrovesciò all'indietro sul pavimento e restò lì immobile che sembrava morta, ma all'improvviso si riscosse e invocò con un grido il dio Priapo e un riso aggraziato le scuoteva i fianchi. Era una risata strana, a garganella, si diceva allora, strana e contagiosa. Prima la seguì l'ancella, poi la bambina, poi i negri, poi Ascilto, poi anche il negrone che si stava inculando Gitone e che lo lasciò andare ridendo con un riso ancor più contagioso di quello di Quartilla, la quale ogni tanto inseriva in quella sorta di sequela il nome del dio. Quasi quasi stavo per convertirmi. L'uccello aveva ripreso a funzionare. Il mio amichetto, Gitone, mi si avvicinò e neanche lui poté più trattenersi dal ridere. E rise ancora di più quando Pannichide, la ragazzina, gli saltò addosso riempiendolo di baci senza che lui le opponesse la minima resistenza. “Hai capito?” Pensai. “Quel frocetto non disdegna le attenzioni delle donne.” Ridevamo tutti come se fossimo impazziti né potevo smettere se provavo a farlo. Era chiaro che qualcosa, forse il satirio, aveva avvolto le nostre anime in una specie di semicoscienza che non ci faceva capire niente di quello che facevamo. Ed era proprio così. Non dovevamo capire. I negri si ripresentarono tutti e sei a cazzo dritto e noi fummo torturati fino a notte inoltrata. Era un'orgia sanguinaria che quelle tre pazze avevano programmato da prima. Noi, poveri disgraziati, cercavamo di chiamare aiuto, ma chi ci poteva sentire? E inoltre ogni volta che riuscivo a farlo gridando “Aiuto, Quiriti, io sono un cittadino romano!” quella disgraziata di Psiche mi punzecchiava le guance con uno spillone da capelli e intanto la ragazzina tormentava Ascilto con un pennellino che intingeva nel satirio. Poi ecco che all'improvviso arriva un cinedo con una veste verdemirto e una cintura ai fianchi alla quale agganciava la veste per scoprirsi il culo e strofinarcelo addosso sculettando; poi ci leccò il viso con baci schifosissimi finché Quartilla, con una bacchetta di balena e con la veste tirata sù ordinò alle altre due di concederci la grazia gladiatoria. Poi, rivolta a noi, ci promise di lasciarci in pace se avessimo ripetuto il giuramento che già le avevamo fatto. Entrambi, io e Ascilto, formulammo in modo più solenne il giuramento che un segreto così raccapricciante si sarebbe estinto con noi. Allora Quartilla batté imperiosamente le mani e rivolta ai suoi schiavi negri ordinò: “Sù sù: tutti al tempio del dio per ringraziarlo della grazia che ci ha fatto.” Noi tre non facemmo neanche in tempo a riflettere su quanto stava accadendo. Tre di quei sei energumeni ci sollevarono di peso; un altro raccolse le nostre povere cose e la processione si avviò verso il tempietto di Priapo dove era stato sgozzato quel povero coniglio. Cantavano cantilene incomprensibili. Forse erano preghiere, forse no. Cantano tutti sempre in questo cazzo di paese, mentre il negro mi diceva: “Se non scappi ti poso e ti faccio camminare da solo: non fuggire perché tanto il dio ti riacciuffa.” “Sì, sì: te lo prometto.” Allora mi posò a terra, mi tolse le bende dai piedi ma non dalle mani e mi lasciò camminare da solo come l'ultimo degli schivi incatenati. Tristi pensieri mi attraversavano la mente. Stranamente non avevo fame: forse era quel dolore insopportabile all'ano che mi distraeva dal pensiero del cibo. Non c'era altro da fare che mettermi a cantare con loro: “Che lodato / sempre sia / il gran nome / di Priapo / che lodato / sempre sia...” Arrivammo al tempio che il sole era già alto: nessuno di noi tre avrebbe mai potuto dimenticare quella notte di orge sfrenate. In casa di Quartilla. Mica lo so quanto dormimmo! A un certo punto fummo svegliati da un grande frastuono. Trombe e tamburi che suonavano una specie di marcetta assordante al suono della quale entrarono in casa parecchi palestrati, che, senza chiedere il nostro permesso, ci massaggiarono con un olio profumato e ci rimisero al mondo. Perciò, andata via la stanchezza, ci rivestimmo per la cena e fummo condotti in una stanza vicina nella quale c'erano tre letti per mangiare e una tavola piena di ben di dio apparecchiato con estrema eleganza. Ricevuto l'invito a sdraiarci e invitati a quella fantastica degustazione fummo letteralmente inondati da un profluvio di Falerno. Poi fummo serviti e riveriti con una serie portentosa di altre pietanze e già stavamo scivolando nel sonno, quando Quartilla disse: “Ah, è così? Come vi viene in mente di dormire sapendo che dobbiamo a Priapo una notte di veglia?” Una notte di veglia! Quella fu una notte di tregenda dalla quale nessuno di noi sperò mai, finché non ebbe termine, di uscire vivo. I negroni ci tenevano letteralmente per il naso e di tanto in tanto ci costringevano a bere di nuovo un po' di satirio. Quel liquido maledetto ci toglieva il senno e ci dava il sesso. Ormai giravamo intontiti per la casa quasi sempre a cazzo dritto e loro, quegli assatanati, negri e no, maschi e femmine, appena ne vedevano uno bello dritto si inginocchiavano per succhiarcelo o, in due, uno ci teneva e l'altro o l'altra si metteva a pecoroni, ci costringevano a metterglielo in culo o nella fica. Era un'orgia, ma quelle pazze la accompagnavano ogni volta che la foja diminuiva con misteriosi canti al dio Priapo che avevano l'andamento di sentitissimi inni cletici. Lo invitavano a venire tra noi, ma in realtà invitavano solo i nostri cazzi ad ergersi per appagare le loro voglie insaziabili. Non vi dico poi cosa accadeva se a qualcuno di quei negri giganteschi gli si addrizzava. Sembravano ammaestrati. Uno ci teneva in ginocchio e a testa in giù, un altro ci sbatteva fra le natiche un liquido biancastro e vischioso che secondo loro doveva facilitare la penetrazione e il terzo, quello col cazzo dritto, ci penetrava in modo violento e spietato e noi... hai voglia a gridare! Le tre pazze coprivano grida e lamenti con le loro cantilene sacre in onore del dio. “E' finita!” dissi ad Ascilto in un momento che ci trovammo faccia a faccia. “Addio, amore mio!” Mi rispose con gli occhi allucinati e pieni di lacrime. Ma gli aguzzini non avevano pietà. Appena dette queste parole ci tirarono su per il naso e di nuovo satirio e satirio fino a ridurci a poveri corpi inerti. Ma quella bevanda era davvero miracolosa! Dopo un po' che eravamo stati sdraiati a terra le forze ci tornavano e il sesso tornava a inturgidirsi. Allora balzavamo di nuovo in piedi e lo infilavamo nel primo culo che capitava, maschio o femmina che fosse, e appena avevamo raggiunto l'orgasmo di nuovo uno dei negroni ci penetrava violentemente facendoci sanguinare. Le tre pazze intanto andavano in giro con tre ampolle in cui raccoglievano tutto lo sperma e il sangue che potevano e ogni volta che riuscivano a riempirne una la depositavano sulla mensola del focolare cantando un inno di ringraziamento al dio. Ma ecco che ad un segnale di Quartilla tutti sembrarono placarsi. Tutti si distesero a terra e sembrò finalmente che fosse arrivato il momento di trovare un po' di riposo. Nei momenti di lucidità pensavo ad Ascilto più che a Gitone. Ascilto sembrava essere la preda più ambita da tutti quei pazzi. Bello e aitante com'era e soprattutto ben dotato com'era evidentemente li faceva sognare, quei maiali! Pensai veramente di non rivederlo mai più. Lo avevano violentato in continuazione, glielo avevano messo dappertutto e appena che gli si addrizzava glielo fiaccavano con un pompino o con un culo voglioso. Ora era a terra, secondo me agonizzante, ma per fortuna no, come potei constatare in seguito. E mentre, fiaccato da tante violenze, stava scivolando nel sonno, l'ancella che lui, sfiancato, aveva da poco respinto, gli cosparse tutta la faccia di fuliggine e gli disegnò dei falli sulla bocca e sulle spalle. Ma Ascilto non era più in grado di accogliere provocazioni sessuali. Aveva veramente dato tutto e io credevo veramente che stesse per morire come del resto io. Tramortito da tante violenze anch'io avevo, per così dire, cominciato a scivolare nel sonno; anche tutta la servitù, dentro e fuori della casa, sembrava ormai abbandonarvisi e cercare in esso un po' di riposo; alcuni sdraiandosi si accovacciavano ai piedi dei commensali, altri dormivano in piedi appoggiandosi alle pareti, alcuni si appoggiavano l'un l'altro non trovando altro supporto. Anche le lucerne poiché l'olio stava per finire emettevano ormai una debole luce. A questo punto due schiavi sirii entrarono nel triclinio per rubarsi una bottiglia e litigandosela vicino al tavolo dell'argenteria la fecero rompere e fecero tracollare anche il tavolo: un bicchiere volato in alto ricadde violentemente sul capo di una schiava ferendola seriamente. Quella si mise a strillare come un'aquila e in questo modo attirò l'attenzione sui due ladri e svegliò parte degli ubriachi addormentati. I due, quando capirono di essere stati scoperti, finsero di dormire slanciandosi entrambi su un letto vuoto con una sincronia che sembrava concordata in precedenza. Si concluse così quella giornata terribile che Quartilla sosteneva essere dovuta a Priapo se volevamo che la sua ira si placasse. Io intanto, mentre il sonno calava su di me, pensavo non di addormentarmi ma di morire, così come credevo che fossero morti il povero Ascilto e quel fiorellino di Gitone che la sorte mi costringeva ad abbandonare proprio in un simile frangente. Il secondo giorno in casa di Quartilla. Già il servo addetto all'organizzazione del triclinio, svegliatosi, aveva rimboccato l'olio delle lucerne e gli altri schiavi stropicciandosi un po' gli occhi erano tornati al loro lavoro quando una cembalista entrando nella stanza e sbattendo i piatti di bronzo svegliò tutti. Dunque si ricominciò a mangiare e Quartilla, eccitata da quella suonatrice, ci invitò di nuovo a bere. Io, svegliatomi, quando vidi Ascilto e Gitone che si congratulavano l'un l'atro dandosi il buon giorno, pensai di stare in una zona dell'Inferno molto simile alla stanza in cui Quartilla ci aveva ospitato e che tutti fossimo morti. Mi pizzicai le braccia e piano piano mi convinsi anch'io che invece eravamo ancora incredibilmente tutti vivi. Cominciai veramente a credere che la forza di quel dio doveva essere immensa e che il potere del satirio doveva essere tale da farti ricongiungere la realtà col sogno e di non darti più la possibilità di giudicare e di misurare alcunché per la tua infelicità. Cominciavo insomma ad acclimatarmi in quell'ambiente di gaudenti religiosi, o se credete, di religiosi gaudenti, che col pretesto di onorare un dio mangiavano e scopavano a loro piacimento qualsiasi cosa gli si parasse davanti senza alcuna remora. Quartilla guardava quasi esclusivamente agli inguini degli uomini. La sua serva non faceva altro che massaggiarle la fica col pretesto di mantenergliela sempre calda e sempre pronta a ricevere il maschio, ma in realtà, e si vedeva, provocandosi un certo ormai celebre piacere, quello scoperto la prima volta dalla poetessa di Lesbo. Non riuscivo a immaginare che cosa mai potesse avere in mente per quel secondo giorno in quella sua casa vicina al tempio. Non vedevo in giro ampolle di alcun genere, né di satirio né di sangue né di sperma, e mi colpiva una calma inconsueta nella quale tutti sembravano muoversi con una lentezza innaturale. Pensai di nuovo che fossimo tutti morti, mi pizzicai di nuovo le braccia, ma le braccia mi risposero che ero lì in carne e ossa, vivo e vegeto, nonostante le sregolatezze della notte appena trascorsa. Quartilla improvvisamente scomparve. Tutti si ricomponevano e coprivano la propria nudità anche con un tocco di eleganza. Tutti si aggiustavano i capelli e si guardavamo negli specchi per controllare le fattezze dei propri visi. Io e i miei due amici ci guardavamo con sguardi interrogativi perché nessuno di noi tre capiva che cosa mai ci sarebbe potuto succedere più di quello che ci era già successo. La sua curiosità fu subito accontentata. Di lì a poco ricomparve Quartilla con una culix in mano e alla testa di uno sparuto corteo cantando un inno a Priapo e al dio Imeneo. Più di tanto, mio dio, darti non posso: tu non me ne volere e fai in modo che io trovi un marito forte e sodo che come te ce l'abbia bello grosso. Tutti applaudivano e tutti gridavano “Priapo è tuo marito! Priapo ora ti prende, ti ingravida e tu avrai un figlio che sarà un portento.” Si alzò una specie di sipario e la stanza si trovò in comunicazione col tempio del dio. Sull'altare c'era la sua statua enorme con un cazzo dritto dalle proporzioni inimmaginabili. Uscirono da dietro l'altare bellissimi ballerini che fecero una danza meravigliosa agitando le fiaccole e invocando Imeneo a nome del dio Priapo. A quell'invito sembrò rispondere una specie di primo ballerino bellissimo e superdotato che si slanciò su Quartilla e la scopò senza tanti complimenti. La donna mugolava sotto i colpi di quel torello imbestialito e tutti gridarono evviva di auguri fino a quando il rito non ebbe termine. Il ballerino si ritirò. Quartilla si alzò e si ricompose, poi con la massima calma invitò tutti a riprendere il proprio posto nella sala del banchetto. Dove ecco che entra un cinedo, uno scimunito, un degno rappresentante di quella casa di squinternati. Si fa scricchiolare le nocche delle mani dalle quali uscì un suono acuto e stridente e poi sciorinò questi versi incredibili: “Venite qui, cinedi delicati, venite qui di corsa, anzi volate, voi pronti di bacino, il culo morbido e le mani espertissime a eccitare, teneri, ben frollati nelle carni voi che dal dio di Delo, il grande Apollo, un dì foste evirati.” Balbettati questi versi orrendi, evidentemente una sua creazione, mi si avvicinò e mi appioppò un bacio schifoso sbavante saliva. Poi venne addirittura sul mio letto e mi spogliò nonostante la mia resistenza. Mi grufolò tra le gambe sleccazzandomi gli inguini in lungo e in largo, ma inutilmente. Sudava per la fatica e aveva la fronte bagnata della resina del suo sudore e tra le rughe delle sue guance c'era tanto di quel fard che le avresti credute una parete sgretolata da un temporale. Non riuscii a trattenere le lacrime più a lungo, ero ormai alla disperazione e dissi: “Ti prego, signora, non avevi dato ordine di servirci della culinaria?”; lei batté le mani delicatamente e mi disse: “Ma che uomo di mondo! ma che arguzia da servo! Ma come? Non avevi capito che il cinedo si chiama 'Culinaria'? Allora per fare uno scherzo al mio amico, le dico: “Ma come, signora, in questo triclinio solo Ascilto se ne può stare senza far niente?” E Quartilla: “Vero, vero: sia servito della culinaria anche ad Ascilto.” A queste parole il cinedo cambiò cavalcatura e saltato addosso al mio amico lo soffocò di natiche sul viso e di baci e sleccazzate sugli inguini. Intanto Gitone se ne stava in piedi e si sbellicava dal ridere. Allora Quartilla, accorgendosi di lui, chiese con insistenza a chi appartenesse quello schiavetto. Le risposi che era il mio amasio. E quella: “E allora perché non mi ha ancora baciato?” Lo chiamò a sé, se lo strinse al petto e gli affibbiò un bel bacio. Poi gli fece scivolare la mano tra le gambe e dopo aver maneggiato a lungo la sua dotazione ancora acerba disse: “Questa robetta me la farò servire domani come antipasto: oggi, dopo quello di un asino, che me ne faccio di uno strapuntino simile?” Ma ecco che Psiche le si avvicinò all'orecchio ridendo e le disse qualcosa che non potei sentire, ma Quartilla si agitò tutta e le rispose: “Certo, certo, che bella idea, perché no? questa è proprio una bellissima occasione per far sverginare la nostra Pannichide. E subito fu introdotta la bambina, molto graziosa, che non sembrava avere più di sette anni, la stessa che era venuta in camera nostra la prima sera in compagnia di Quartilla. Tutti applaudivano ovviamente e reclamavano a gran voce le nozze. Io trasecolai e dissi che né Gitone, timidissimo con le donne, avrebbe avuto la forza di portare a termine un'impresa simile né una bambina di quell'età avrebbe potuto ricoprire il ruolo sessuale di una donna adulta. “Perché?”, disse Quartilla, “lei è forse più piccola di quanto lo ero io quando dovetti sopportare il primo uomo? Giuro su Giunone che io non mi ricordo di essere mai stata vergine. Infatti, da bambina, mi si facevano i bambini miei coetanei, però una volta fui stuprata da un vecchio porco; poi, mano a mano che passavano gli anni, mi mettevo con quelli più grandi fino ad arrivare ad oggi. Da qui credo che derivi il proverbio “può sollevare un toro chi ha sollevato un vitello.” A quel punto, per evitare che Gitone ricevesse a mia insaputa un'offesa maggiore, mi alzai e mi unii alla celebrazione di quelle nozze. Già Psiche aveva avvolto col velo da sposa il capo della bambina; già Culinaria si era messo in testa al corteo con una fiaccola; già le donne, ubriache, battendo le mani, avevano formato un corteo dopo aver ricoperto il talamo con una sporca coperta, quando anche Quartilla, eccitata dalla libidine di quei debosciati si alzò anche lei, prese Gitone e lo trascinò in camera da letto. Certo il ragazzo non si era rifiutato né la bambina si era spaventata al sentire la parola “nozze”. E così mentre quelli se ne stanno chiusi nel baldacchino del talamo noi ci sediamo davanti ad esso e tra i primi ci fu Quartilla ad appiccicare il suo occhio curioso ad uno spiraglio del tendaggio praticato ad arte e ad osservare morbosamente i giochi erotici dei due bambini. Poi indusse anche me, prendendomi carezzevolmente la mano, ad assistere a quello spettacolo e, poiché i nostri due volti erano attaccati ogni volta che c'era una pausa, storceva verso il mio le sue labbra per affibbiarmi un diluvio di bacetti come se me li stesse rubando. La cosa non mi dispiaceva, tanto più che la sua mano era scesa furtivamente verso i miei inguini e cercava furiosamente di masturbarmi e poi fingendo di voler guardare nella fessura ma in realtà perché era mostruosamente eccitata mi si metteva davanti e gridava “Guarda Gitone, guarda Gitone!” evocando col suo culetto quello del mio amasio ed eccitandomi oltre ogni dire. Non so quante volte venni e gli altri con me e alla fine stremati trascorremmo a letto il resto della notte. Nel sonno sentivo i commenti degli altri sull'andamento della prima notte di nozze del mio Gitone. Da quel poco che sentivo si capiva che non era stata una grande notte. I due ragazzini si baciavano, si accarezzavano, ma mai a Gitone veniva in mente di deflorare quella bambina e quando provava a girarla per incularla lei si metteva a gridare facendo capire che sapeva bene di cosa si trattava e che lei non voleva. Quando però lui le chiedeva di prenderglielo in bocca allora tutto si aggiustava con grande soddisfazione di entrambi. Il terzo giorno in casa di Quartilla. Quando ci svegliammo era ormai giunto l'ultimo giorno, cioè quello della cena di liberazione, ma noi ormai esasperati da tutte quelle sevizie preferivamo starcene da parte piuttosto che mischiarci con quelli che erano tutti agitati in attesa di chissacché. E allora mentre noi preoccupati cercavamo di capire in che modo avremmo potuto evitare l'incombente catastrofe, un servo di Agamennone disse: “Voi non sapete dunque da chi ci si riunisce oggi. Ma da Trimalcione! Quel ricco sfondato che ha un orologio con annesso trombettiere per farsi informare minuto per minuto di quanta vita abbia già vissuto.” Messo da parte il ricordo delle sventure passate ci sistemiamo per bene per andare da Trimalcione e io ed Ascilto ordiniamo a Gitone, sempre pronto ad obbedirci come un fedele schiavetto, di non allontanarsi mai da noi dal momento in cui saremmo stati introdotti nella piscina dell'ingresso della casa, dove ti accoglieva un grosso orologio portaiella. A cena da Trimalcione. Dopo l'ingresso con l'orologio, andiamo oltre e arriviamo in una grande sala da bagno. Incominciamo però a girare qua e là ancora vestiti scambiando battute oscene con gli altri convitati che facevano pesanti allusioni alla nostra bellezza: “A tua madre!” “A tua sorella!” “A quella bocchinara di tua moglie!” e così via. Ma ad un tratto vediamo un pelato sulla cinquantina avvolto in una preziosissima tunica rosso smagliante che giocava a palla con dei ragazzini stupendi: un profluvio di riccioli. Lo spettacolo non ci attirò tanto per i ragazzini, che pure erano magnifici, ma proprio per quel vecchio che giocava con loro con una palla di un tenue colore verde. Che se gli cadeva, mica la raccoglieva: c'era uno schiavo raccattapalle con una cesta piena che ne gliene dava subito un'altra. Il tutto era molto strano. Infatti dall'altra parte di quella pista circolare c'erano due frocetti in piedi, dei quali l'uno teneva in mano un vaso da notte d'argento e l'altro teneva il conto delle palle che cadevano per terra, chissà perché. Noi guardavamo stupiti ogni cosa ma ecco che arriva Menelao e fa le presentazioni: “E' questo l'uomo che vi ospita e la cena è già incominciata.” Aveva appena finito di parlare che Trimalcione fece schioccare le dita e subito il frocetto incaricato gli mise davanti il vaso da notte mentre lui ancora giocava. Pisciò, poi immerse le dita in un vaso d'acqua pòrtogli da un altro schiavo e se le asciugò fra i riccioli di uno dei ragazzini. Non c'era più tempo per ammirare tutte le meraviglie di quella casa. Perciò andammo subito nella sauna e di lì, grondanti di sudore, andammo sotto le docce fredde. Intanto Trimalcione che si era spalmato di unguento si faceva ormai asciugare ma non con dei teli qualsiasi, bensì con morbidi accappatoi di ciniglia. Intanto i tre che lo stavano massaggiando si rifocillarono, stando davanti a lui, con del Falerno, ma siccome se lo litigavano e lo facevano cadere in gran parte per terra, Trimalcione, senza arrabbiarsi, diceva che quelle erano libagioni agli dei per propiziare la sua salute. Fu poi avvolto in una coperta rosso scarlatto, adagiato su una lettiga preceduta da quattro guardie armate e da una carrozzella che trasportava il suo piccolo amasio, un ragazzo non più tanto tale, cisposo e più brutto del suo padrone. Un musico, che suonava e continuò a suonare per tutto il percorso all'altezza della sua testa, accompagnava Trimalcione standogli proprio accosto, come se gli volesse dire qualcosa all'orecchio. Noi seguivamo il piccolo corteo insieme ad Agamennone, stupefatti... e a un certo punto arrivammo davanti all'entrata della casa vera e propria la cui porta era sormontata da una scritta così: “Ci sono cento frustate per ogni schiavo che dovesse uscire di casa senza l'autorizzazione del padrone.” E proprio all'ingresso c'era un portiere in carne ed ossa, divisa verde con cintura rosso ciliegia, intento a sgranare piselli in una bacinella d'argento. Proprio sulla soglia era appesa una gabbia d'oro con dentro una gazza che dava il benvenuto a chi entrava. Stupito da tutte queste meraviglie, all'improvviso, per la paura, faccio un salto all'indietro e per poco non mi rompo le gambe: paura perché? perché a sinistra, poco distante dalla stanza del portiere, c'era un cane enorme con tanto di catena, solo che era dipinto sulla parete insieme con la solita scritta “attenti al cane”, in caratteri cubitali. Gli infami dei miei compagni ridevano come matti del mio spavento; intanto io, rassicurato, mi guardavo incuriosito gli affreschi di tutta la parete: c'era dipinto un mercato di schiavi ciascuno con la sua brava targhetta contenente nome e provenienza. E Trimalcione, ancora un ragazzo dai bei capelli lunghi, faceva il suo ingresso con in mano il bastone di Mercurio e guidato personalmente dalla dea Minerva. E poi a partire da qui per tutta la parete c'era la storia della sua vita, tutta rappresentata dallo scrupoloso pittore. Come avesse imparato a far di conto, come poi fosse divenuto cassiere eccetera eccetera eccetera. Nell'ultima parte dell'affresco, là dove il portico stava per finire, Mercurio lo rapiva in alto tirandolo su per il mento fino a metterlo seduto su di un trono regale. Gli stava accanto, da una parte, la dea Fortuna, prona ai suoi piedi con una cornucopia strapiena, e, dall'altra, le dee della morte, le Parche, che gli misuravano la vita col filo che continuamente filano. C'era dipinto di tutto: una squadra di servi che un istruttore stava allenando a correre, un grande armadio e, nella parte superiore del portico, inquadrate in edicole, delle statuette d'argento che rappresentavano gli antenati morti di Trimalcione, una statua di Venere in marmo e un calice d'oro, non tanto piccolo, nel quale dicevano che si trovasse custodita la prima barba di Trimalcione. Chiesi allora al portiere il soggetto delle altre pitture nella parte centrale dell'affresco. Mi rispose: “L'Iliade, l'Odissea e il grande spettacolo gladiatorio offerto a Trimalcione dal magistrato Gneo Pompeo Lenate, suo benefattore.” I miei compagni non mi dettero il tempo di fermarmi a guardare né d'altra parte era possibile soffermarsi su qualche figura, tanta era l'abbondanza dei dettagli. Arrivammo dunque vicino al triclinio proprio mentre l'amministratore di Trimalcione stava facendo i conti della spesa. Anche qui stranezze: sullo stipite della porta c'erano affissi dei fasci littori con tanto di scure e la loro parte più bassa terminava in un rostro di bronzo, come quello delle navi, sul quale c'era scritto: “A Gaio Pompeo Trimalcione, assessore augustale, il tesoriere Cinnamo.” Con la stessa iscrizione c'era una lampada a due fuochi che pendeva dal soffitto. Poi, fissate ai lati della porta, c'erano due lastre delle quali una recava la scritta: “Il 30 e il 31 dicembre il nostro Gaio cena fuori.”; l'altra era dipinta con il corso della luna e dei sette pianeti e i giorni fortunati e quelli no erano contrassegnati da borchie differenti. Stufi di tutto questo ci accingevamo ad entrare nel triclinio quando uno schiavetto addetto a questo servizio ci gridò: “Col piede destro! Si deve entrare col piede destro!” Per un attimo tremammo al pensiero che qualcuno di noi potesse aver violato quella prescrizione; poi ci rassicurammo, ci accordammo ed entrammo tutti in fila col piede destro. Fu allora che uno schiavo tutto nudo si inginocchiò di botto ai nostri piedi e ci implorò perché lo aiutassimo ad evitare la punizione che gli era stata assegnata; protestava che non era grave quello che aveva fatto e che la punizione era esagerata: nel bagno si era fatto rubare la veste del tesoriere arrecandogli un danno di massimo dieci sesterzi. Tirammo indietro il piede destro e scongiurammo il tesoriere, che intanto senza badarci continuava a contare i soldi, di perdonare il poveretto. Quello si degnò di alzare la testa e disse: “Non è tanto il danno che mi fa arrabbiare quanto la noncuranza di questo buono a nulla. Mi ha perduto un abito da cerimonia regalatomi da un cliente per il mio compleanno: un'autentica porpora di Tiro; però era già stata lavata una volta. Ma tant'è. Ve lo regalo questo scimunito.” Entrammo nel triclinio carichi della nostra generosità. Lo schiavetto uscì fuori da non so dove e ci riempì con una serie infinita di baci che ci lasciarono attoniti e che quello accompagnò con ripetuti ringraziamenti per la nostra comprensione. Poi disse: “Basta! Capirete subito chi sono io: il vino del padrone, quello buono, è il ringraziamento dello schiavo!” Finalmente ci sdraiamo per mangiare e intanto schiavetti di Alessandria ci versavano acqua ghiacciata nelle mani; altri ancora, subito dopo i primi, si inginocchiarono per toglierci dai piedi, senza farci soffrire per niente, le pellicole che avevamo intorno alle unghie. E cantavano! Riuscivano a cantare mentre lavoravano pur dovendo assolvere un compito così sgradevole. Per vedere se tutti gli schiavi cantavano lavorando chiesi da bere. Uno schiavetto lì pronto mi servì... cantando! Tutti gli schiavi cantavano: sembrava un'opera buffa, non un triclinio dove si mangiava, almeno nelle case per bene. Fu servito un antipasto raffinato: ormai tutti si erano sdraiati meno Trimalcione al quale era riservato, contro ogni regola, il primo posto del primo letto. Generalmente infatti il padrone di casa si siede al primo posto del terzo letto della fila di sinistra entrando. Ma non è importante: torniamo all'antipasto! Su un grande vassoio c'era un asinello di bronzo corinzio con una bisaccia a due tasche rispettivamente con olive chiare e scure. Sulla parte dei fianchi lasciata scoperta dalla bisaccia l'asinello recava due piatti d'argento con inciso il nome di Trimalcione e la caratura dell'argento stesso. Dai piatti invece sporgeva una piccola mensola che sosteneva un ghiro cosparso di miele e spolverato con polvere di papavero. Sullo stesso vassoio delle salsicce friggevano su una griglia d'argento e sotto la griglia c'erano prugne siriane e chicchi di melograno. Ma ecco che sempre a suon di musica viene portato a tavola Trimalcione. Fu accolto da una montagna di cuscini, imbottiti fino all'inverosimile, sui quali Trimalcione si sdraiò suscitando le nostre risate. La sua testa pelata sbucava da un mantello scarlatto e intorno al collo già strozzato dal vestito portava un largo scialle purpureo con tanto di frange alle estremità. Al mignolo della sinistra un grande anello placcato in oro; un anello più piccolo, ma tutto d'oro, nell'ultima falange del dito medio. Tutto d'oro per come potevo giudicare io dalla mia posizione, ma tutto intarsiato con pezzetti di ferro in forma di piccole stelle. Non bastandogli ciò, a un certo punto si scoprì il braccio destro ostentando un bracciale d'oro e uno di avorio intrecciati con una lamina splendente. Si pulì i denti con uno stecchino d'argento, poi disse: “Amici miei, scusatemi ma non potevo ancora venire a tavola; però per non prolungare la vostra attesa sono venuto lo stesso: voi mi consentirete di finire qui la mia partita.” Lo seguiva infatti uno schiavetto con una scacchiera di legno pregiato, dadi di cristallo e, invece delle pedine solite, monete d'oro o d'argento per i due giocatori. Si mette a giocare e giocando sciorinava tutto il repertorio delle parolacce dei carrettieri. Noi intanto, finito l'antipasto, vediamo arrivare a tavola una cesta con dentro una gallina di legno ad ali aperte a mo' di ventaglio come le mettono quando covano. Subito si avvicinano alla cesta due schiavetti e fingono di rovistare in mezzo alla paglia; sanno che tireranno fuori delle uova di pavone da distribuire agli invitati. Allora Trimalcione si girò verso quella sceneggiata di cattivo gusto e disse: “Amici, sono uova di pavone, ma, perdio, vuoi vedere che dentro c'è già il pulcino?” Ne bevve una e concluse sganasciandosi dalle risate: “No, no, si possono bere.” Arrivano dei cucchiai pesantissimi con i quali rompiamo le uova ricoperte di uno spesso strato di farina impastata. Rotto il mio uovo, mi sembrò davvero che dentro ci fosse il pulcino e fui sul punto di gettare via tutto, ma sentii fra gli invitati un veterano che diceva: “Qui dentro ci deve essere qualcosa di buono.” Infilai la mano nel guscio e trovai un beccafico che nuotava nel tuorlo ben impepato. Trimalcione, interrotta la sua partita, si fece servire i nostri stessi antipasti senza saltarne nessuno e ci invitò ad alta voce a bere del vino melato nel caso che qualcuno avesse desiderato fare il bis. Aveva appena finito di parlare che esplose dall'orchestra il segnale che era per i servi addetti a ritirare i vassoi. I servi portarono via tutto, ovviamente cantando, ma nel trambusto del servizio uno fece cadere a terra un'insalatiera e un altro la raccolse. Trimalcione ordinò che il primo fosse schiaffeggiato e al secondo di rigettare a terra il vassoio in modo che il cameriere addetto alle stoviglie, scopando per terra portasse via il vassoio insieme agli altri rifiuti. Entrarono quindi due schiavi etiopi con i capelli lunghi recando in mano piccolissimi otri, di quelli che negli anfiteatri si usano per spargere la sabbia, e con quelli ci versarono del vino sulle mani. Acqua, niente! Piovvero le lodi dei commensali su queste raffinatezze e Trimalcione se ne beò fino alle lacrime. Poi disse: “Marte ama il giusto. Per questo ho fatto apparecchiare una mensa per ciascun invitato in modo che questi schifosissimi servi non ci disturbino troppo durante il servizio.” Arrivano delle anfore di vetro con tanto di sigillo e di etichetta: “Falerno Opimiano di cento anni.” Noi osserviamo stupiti le etichette mentre quello commenta: “Ahimè, dunque, il vino può durare più a lungo di un pover'uomo. Ma allora ubriachiamo le nostre budella. Il vino è la vita. Vi sto facendo servire dell'autentico Opimiano. Ieri ne ho fatto servire di meno pregiato, anche se avevo a cena gente molto più importante di voi.” Bevevamo ed osservavamo stupefatti tutto quel lusso senza perderci il minimo particolare. Ma ecco che uno schiavo portò uno scheletrino d'argento fornito di un automatismo che gli faceva muovere automaticamente gambe e braccia in ogni direzione. Trimalcione lo posò sul tavolo più di una volta in modo che assumesse tutte le posizioni di cui era capace e sciorinò i suoi versi scombiccherati: Poveri poveri noi, / l'uomo ahimè non è nulla. Tutti saremo così, / dopo la morte, all'Inferno. Perciò godiamoci tutta / la vita finché stiamo bene. Applausi a non finire; poi una portata che non era granché, ma originale, tanto da attirare l'attenzione di tutti. Era un vassoio rotondo con sopra, disposti in cerchio, i dodici segni zodiacali su ciascuno dei quali il capocuoco aveva disposto cibi appropriati. L'Ariete: ceci cornuti; il Toro: una bistecca di manzo; i Gemelli: testicoli; il Cancro: una corona; il Leone: fichi d'Africa; la Vergine: la vulva di una piccola scrofa vergine; la Bilancia: una bilancia che sui due piatti aveva rispettivamente una focaccia salata e una dolce; lo Scorpione: un pesciolino di mare; il Sagittario: un totano; l'Acquario: un'oca; i Pesci: due triglie. Al centro del vassoio una zolla ti terra, sradicata insieme con l'erba, sulla quale era adagiato un favo. Uno schiavo egiziano distribuiva il pane ai commensali tirandolo fuori da un piccolo forno d'argento e cantando. Allora anche Trimalcione, con orrendi gorgheggi, straziò un'aria del “Mercante di laterizi”, un'operetta allora in voga. I cibi dello zodiaco erano proprio immangiabili ma noi molto malvolentieri cercavamo di mangiarli lo stesso per non offendere il padrone di casa. E Trimalcione incalzava: “Mangiamo! Mangiamo! Questo è il pezzo forte della cena!” Dette queste parole, a tempo di musica entrarono danzando quattro camerieri e tolsero la parte alta di quel “trionfo”; quindi vediamo dentro di esso pollame, pancette e in mezzo una lepre agghindata con ali di pollo affinché sembrasse un Pegaso, il mitico cavallo. Notammo anche, agli angoli del trionfo, quattro Marsia con piccoli otri: da questi colava garum sui pesci i quali nuotavano come in un acquario. Tutti applaudiamo appresso agli schiavi e tutti ci gettiamo ridendo su quei cibi prelibati. Allo stesso modo, contento per quella raffinatezza, Trimalcione esclamò: “Squarcia!”. Si fece avanti subito un addetto e muovendosi a suon di musica anche lui ridusse in porzioni quella pietanza sicché ti veniva da pensare che non era un cuoco, ma un gladiatore che combatteva a suon di musica. Nondimeno Trimalcione lo incalzava sillabando: “Squarcia! Squarcia!”. Io, sospettando che un grido tante volte ripetuto si riferisse a qualche trovata spiritosa di Trimalcione, non esitai a interrogare su ciò uno che mi sedeva accanto. E quello, che aveva assistito spesso a giochetti di questo tipo, mi disse: “Quello che taglia si chiama 'Squarcia', così Trimalcione con una parola sola lo chiama e gli dà l'ordine di tagliare.” Ròso dalla curiosità non riuscii più a mangiare, ma rivoltomi verso di quello, per saperne quanto più possibile, cominciai, prendendola alla lontana, a chiedergli chi era quella donna che andava di qua e di là . “E' la moglie di Trimalcione.” mi disse, “Si chiama Fortunata, una che i soldi li misura a secchi. Ma fino a qualche tempo fa chi era? Mi perdoni il tuo dio, non avresti accettato neanche un po' di pane dalla sua mano. Oggi, com'è come non è, ha fatto fortuna ed è il fiore all'occhiello di Trimalcione. Insomma se a mezzogiorno gli dirà che è notte, lui le crederà. Non lo sa neanche lui quel che possiede, tanto è ricco. E questa mignottona pensa a tutto lei e te la trovi dove meno te l'aspetti. E' astemia, sobria, di buoni principi – ha le mani d'oro però è una linguacciuta, una gazza da conversazione; ma solo se gli piaci; se no, no. Trimalcione poi ha tali latifondi che ci volano i nibbi, soldi su soldi. Nella guardiola del suo portiere c'è più argento di quanto chiunque ne possa annoverare nelle sue fortune. Quanto agli schiavi, 'leva e metti', giuro su dio che neanche la decima parte conosce il suo padrone. Insomma, prendi uno qualsiasi di questi babbei invitati stasera: Trimalcione se lo incarta in una foglia di ruta.” Non c'è niente che egli debba comprare, tutto gli nasce in casa: lana, cedri, pepe; vuoi il latte di gallina? Lui te lo procura. Insomma, gli producevano lana che non gli sembrava buona? Comprò degli arieti di Taranto e li mise nel gregge. Perché gli nascesse in casa del miele attico, ordinò delle api di Atene: quelle che aveva in casa sarebbero divenute un po' meglio insieme a quelle greche. Alcuni giorni fa ha scritto affinché gli mandino dall'India dei semi di boleto, un fungo pregiato che qui non si trova. Ha sempre il meglio: non ha una sola mula che non sia nata da un onagro. Guarda quanti cuscini: non ce n'è uno che non abbia la copertura di porpora o di scarlatto. Tanto grande è la felicità del suo animo; però non sottovalutare gli altri liberti suoi pari. Sono pieni di soldi. Vedi quello sdraiato lì in fondo? Oggi come oggi arriva agli ottocentomila sesterzi. E' venuto su dal nulla, come si dice. Fino a ieri portava mannelli di legna sulle spalle. Ma a quanto dicono - io non so niente - ha rubato la lampada ad un Folletto ed ha trovato un tesoro. Io non invidio nessuno, se a qualcuno un dio gli concede un po' di fortuna. Ha ancora i segni della schiavitù, ma ora non si fa mancare nulla. E così davanti alla casa padronale in cui ha sgobbato finora ha messo un cartello con su scritto: “Gaio Pompeo Diogene dal primo luglio affitta questa casa di cui ha comprato le mura.” Che dovrebbe dire quello che sta sdraiato nel posto riservato ai liberti? Come se l'è cavata bene! Non lo rimprovero. Arrivò fino al decimo sesterzio, ma poi fallì. Non credo che abbia più un capello non ipotecato, e non, per dio, per sua colpa, non c'è un uomo migliore di lui, ma dei suoi liberti scellerati che gli presero tutto. Ricordati dunque: la pentola ai mezzi non bolle mai e appena la tua fortuna prende una brutta piega gli amici se la squagliano. Lavorò troppo onestamente, perciò si è ridotto così. Fece l'impresario di pompe funebri. Faceva cene da re: cinghiali in crosta, torte al forno, uccelli, cuochi, pasticceri. Sotto la sua tavola scorreva più vino di quanto uno possa averne in cantina. Un mito, non un uomo! Quando la sua fortuna cominciò ad andare in malora, temendo che i creditori non subodorassero che stava per fallire organizzò un'asta con questo avviso: “Gaio Giulio Proculo metterà all'asta il superfluo dei suoi beni.” Questa bella conversazione fu interrotta da Trimalcione. Il trionfo era stato portato via e i commensali avevano cominciato a bere e a chiacchierare allegramente tra loro. Ma dovettero smettere perché Trimalcione, appoggiato sul gomito, incominciò a parlare: “Voi dovete fare buono questo vino; i pesci, bevono acqua. Ditemi, pensate che io possa accontentarmi della cena che avete visto in cima al trionfo? Così poco vi è noto Ulisse? Fatemi fare una citazione dotta, anche a cena la cultura non guasta. Riposino in pace le ossa del mio padrone che mi fece uomo tra gli uomini. Per me non ci può essere niente di nuovo, come dimostra la pietanza di prima che ora vi spiegherò. Questo cielo, nel quale abitano dodici dei, si trasforma in altrettante figure, la prima delle quali è l'ariete. Chiunque nasce sotto quel segno, possiede molte pecore, molta lana, e inoltre una testa dura, una fronte spavalda, corna aguzze. Sotto questo segno nascono molti maestri di scuola e avvocati.” Lodiamo tutti la finezza dell'astrologo che aggiunse: “Il cielo quindi si trasforma in toro. Allora nascono i tipi riottosi, i bifolchi e i misantropi. Sotto i gemelli invece nascono gli aurighi, i bovari, i coglioni e i bisessuali. Sotto il cancro sono nato io. Per questo tengo i piedi in più staffe e ho possedimenti sterminati per mare e per terra. Infatti il cancro tiene i piedi in due staffe. Perciò già da tempo non faccio mettere niente su questo segno: per non nascondere la mia nascita. Sotto il leone nascono i crapuloni e i violenti; sotto la vergine le donne da quattro soldi, gli schiavi fuggitivi e quelli in catene; sotto la bilancia, i macellai, i profumieri e tutti quelli che per mestiere debbono pesare qualcosa; sotto lo scorpione, gli avvelenatori e gli assassini in genere; sotto il sagittario, gli strabici che ti fanno credere di guardare alle verdure e intanto nel piatto si calano il fritto; sotto al capricorno nascono i disgraziati a cui per i guai che hanno crescono le corna; sotto l'acquario, gli osti e gli zucconi; sotto i pesci, gli addetti alla spesa e i retori. Così il mondo come un mola sempre gira e fa sempre qualche sbaglio affinché gli uomini nascano o muoiano. Nel mezzo voi vedete una zolla e un favo. C'è un motivo: la zolla è la madre Terra che sta nel mezzo rotonda come un uovo e contiene in sé il favo che a sua volta contiene ogni bontà.” “Bravo! Bravo!” gridiamo tutti e con le mani alzate verso il cielo giuriamo che i più grandi astronomi greci non erano uomini da reggere il confronto con lui. Finalmente arrivarono i camerieri e distesero sui letti delle coperte, sulle quali erano ricamate reti da caccia e cacciatori pronti con gli spiedi e insomma tutta l'attrezzatura da caccia al completo. Noi non avevamo ancora modo di formulare congetture per spiegarci quei meravigliosi ricami quando una muta di cani della Laconia, dopo aver fatto un gran baccano fuori del triclinio, irruppe fra i letti correndo qua e là anche intorno alla tavola. Appresso a loro un grande vassoio con sopra un cinghiale di enormi dimensioni, con tanto di cappuccio e due panierini che gli pendevano dalle zanne: erano di foglie di palma intrecciate e contenevano, uno, datteri freschi, e l'altro, datteri secchi. Dei lattonzoli finti, fatti di pasta abbrustolita erano attaccati ai capezzoli della bestia per indicare che era una femmina: sarebbero stati poi per i commensali dei doni da portare a casa. Per tagliare il cinghiale non si presentò Squarcia, ma un gigante con la barba che aveva le gambe avvolte da fasce e sulle spalle un mantello di vari colori; impugnò un pugnale da caccia, squarciò con violenza un fianco del cinghiale e dalla ferita uscì in volo uno stormo di tordi. Ma degli uccellatori stavano lì pronti con le panie ed in un attimo catturarono tutti quegli uccelletti che svolazzavano nella sala. Poi dopo aver ordinato di riportare i tordi ciascuno al suo posto, Trimalcione aggiunse: “Guardate un po' di che ghianda raffinata si nutriva quel maiale selvatico!” E subito i camerieri si avvicinarono ai panieri che pendevano dalle sue zanne e distribuirono equamente ai commensali datteri freschi e datteri secchi. Io mi chiedevo dal mio cantuccio come mai il cinghiale fosse arrivato col cappuccio. Dopo un po' di supposizioni senza costrutto tornai ad interrogare il mio informatore di prima. E quello: “Che domande fai? Lo capirebbe perfino uno schiavo che oggi il cinghiale rifiutato dai commensali di ieri sera ritorna in tavola con la tenuta da liberto.” Mi rammaricai con me stesso per la mia ingenuità e non feci più domande per non far capire che non ero mai stato a cena con gente importante. Intanto ecco un bel ragazzino incoronato con tralci di vite e di edera (stava impersonando infatti le diverse manifestazioni del dio Bacco) che se ne andava in giro con un panierino d'uva e con voce da soprano interpretava poesie del suo padrone. Trimalcione gli fa eco coi suoi soliti doppisensi: “Dioniso, sii Libero!” che sono i due nomi con cui in greco e in latino viene chiamato Bacco. Il ragazzo obbedì immediatamente, tolse il cappuccio dalla testa del cinghiale e se lo mise lui. Allora Trimalcione col solito cattivo gusto sentenziò: “Se sono padre di un Libero, anche mio padre era Libero!”. Applaudimmo tutti quella battuta insulsa e riempimmo di baci il ragazzino che faceva il giro per farseli dare. Poi Trimalcione si alzò per andare al gabinetto e la conversazione senza di lui che la dominava incontrastato riprese liberamente. Un certo Dama disse che il giorno non esisteva perché non facevi in tempo ad alzarti che già era notte. Dunque era meglio andare subito a pranzo appena alzati. E quel giorno in particolare, perché faceva un gran freddo, perché il bagno non ti riscaldava e perché era bene aiutarsi con bevande calde. Lui infatti se ne era scolate parecchie una dopo l'altra.” “Io non faccio il bagno tutti i giorni - disse Seleuco - l'acqua ha i denti e così ci consuma dentro e fuori. Invece dopo un buon vino e miele il freddo se ne va a far fottere. Del resto oggi non ho neanche avuto il tempo di lavarmi perché sono dovuto andare ad un funerale. Povero Crisanto! Ci ho parlato fino all'altro ieri. Si era messo a dieta, ma non è servito a niente. Mamma mia, siamo niente! Siamo meno delle mosche! Sono stati i medici a rovinarlo... o la mala sorte? E' più probabile la seconda, tanto si sa che i medici non servono ad altro che a consolarti se devi morire. Però ha avuto un bel funerale. Un bel compianto. Ci credo: con tutti gli schiavi che ha liberato! La moglie soltanto non ha versato neanche una lacrima. Vai a far del bene al mondo, va. Alle donne poi!” Filerote non ce la fece più. “Pensiamo un po' ai vivi!”, gridò: “Crisanto ha avuto il suo: è vissuto con decenza e con decenza è morto. Si può lamentare? Da poveraccio era diventato ricco, magari raccattando due soldi con i denti anche in un letamaio. Però è così che li fece, i soldi. Tanti! Ne ha lasciati proprio tanti e in contanti. Però diciamo le cose come stanno: fu una malalingua, un mettizizzania, non un uomo. Il contrario di suo fratello che era generoso con gli amici e sempre pronto a dare a chiunque. Ma lui all'inizio se la passò brutta. Non fosse stato per una vendemmia fortunata e per un'eredità che in gran parte sottrasse al fratello non avrebbe mai rialzato il capo. Naturalmente il suo testamento lo fece non a favore del fratello ma a qualche figlio di nessuno. Ed ecco com'è andata a finire! Dice bene il proverbio: légami mani e piedi e géttami in mezzo ai miei. Infatti, adesso che ci penso, sono stati i suoi schiavi a rovinarlo. Troppa confidenza lui e troppo chiacchieroni quelli. Comunque un gran risparmiatore e l'eredità che aveva in gran parte rubato se l'è goduta alla grande. Aveva più di settant'anni e se l'è sempre spassata. In casa sua non ha lasciato in pace neanche il cane, ragazzini a parte. Almeno così dicono. Ma sai che ti dico? Ha fatto bene! Questa è l'unica cosa che ti porti nell'aldilà. A quel punto anche Ganimede volle voltar pagina. “Ma che ci importa di Crisanto? Io penso alla carestia che ci sfa affamando ogni giorno di più. Oggi non sono riuscito a trovare neanche un pezzetto di pane. E la siccità non vuol finire. E' tutta colpa degli assessori che sono d'accordo con i fornai. Io ti do una cosa a te, tu mi dai una cosa a me. Così la povera gente crepa e loro se la spassano. Non era così quando arrivai qui. Allora gli assessori erano persone tutte d'un pezzo e facevano il loro dovere. E i fornai dovevano rispettare le leggi. Mi ricordo di Safinio che quando parlava in consiglio li attaccava uno per uno facendo i nomi e quando parlava nel foro tuonava come un trombone che va in crescendo. Ai suoi tempi il grano era quello buono e costava poco: con un soldo non ce la facevi a finirlo. Oggi invece la città va sempre peggio. Abbiamo un simdaco che non vale niente e che pensa solo a quello che riesce ad intascare. E così se la spassa guadagnando senza neanche uscire di casa. Ma se noi cittadini avessimo le palle, le cose non andrebbero così. Gli è anche che gli dei ce l'hanno con questa città di miscredenti dove più nessuno rispetta i riti e i miti sono tutti scaduti. La gente se ne frega di Giove, tutti pensano a calcolare quanto possiedono. Quando le matrone andavano a pregare il dio di far piovere pioveva subito, ma oggi chi lo fa più? Chi ci crede più? Non c'è più religione e i campi... Fu interrotto da Echione, un mercante di stracci antincendio: “Parla come si deve, Ganimede. Il nostro sindaco è un grande e fa le cose in grande e se vai a vedere altre città ti renderai conto che la nostra affronta la crisi meglio di tante altre. Il nostro sindaco è ricco di suo perché ha ereditato trecento milioni di sesterzi. Vedrai che spettacoli sta allestendo! Ha ingaggiato un bel po' di energumeni e addirittura un'amazzone. Poi farà scendere nell'arena il tesoriere di Glicone, quel cretino che si è fatto sorprendere a letto con la moglie del padrone. Che infame però, Glicone! Mandare alle belve il tesoriere. Questo è volersi far male da soli. Il tesoriere ha solo obbedito a quella puttana della padrona. Piuttosto lei, quella chiavica, avrebbe dovuto essere infilzata da un toro! Ma si sa che chi non può bastonare l'asino bastona il basto. Ormai si è messo da solo alla berlina. Comunque affari suoi! Alle prossime elezioni vincerà Norbano se Mammea non farà quello che ha promesso: un bel pranzo per tutti noi liberti e due bei denari per uno. Ma, lo vogliamo dire, cos'ha fatto Norbano per noi? Ha ripescato solo gladiatori vecchi decrepiti e cavalieri da operetta. Lui dice che lo spettacolo ce l'ha dato, e io lo applaudo. Ma se fai il conto, gli ho dato più io.” Poi continuò rivolgendosi ad Agamennone: “Tu te ne stai zitto zitto perché questi discorsi non ti piacciono. Ma allora parla tu che sai parlare, che stai sempre a studiare. Fra poco ti manderò anche mio figlio che promette bene: sa far di conto e studia con successo il greco e il latino. Io però gli ho comprato dei libri di diritto perché voglio che si dedichi a questi studi che in casa possono sempre servire. Quando non vorrà più studiare lo manderò a bottega. Glielo dico sempre: con un mestiere e un po' di conoscenze te la cavi sempre nella vita perché la cultura è un bene prezioso ma un mestiere dura per sempre.” Rientra Trimalcione, si asciuga il sudore, si lava col profumo e riprende in mano la conversazione: “Scusatemi, cari, ma già da molti giorni il mio intestino non funziona bene. Neanche i medici ci capiscono niente. Un po' mi ha fatto bene la scorza di melagrana e la resina di pino immersa nell'aceto. Forse così qualcosa otterrò. Se no, lo stomaco continuerà a brontolare come un toro infuriato. Perciò se qualcuno di voi ha bisogno del bagno non faccia complimenti: non c'è niente da vergognarsi. Nessuno nasce senza buchi e per me non c'è peggior tortura che il doversi trattenere. E' cosa che Giove in persona non potrebbe ordinare. Tu ridi, eh, Fortunata, perché tutta la notte non mi fai dormire con le tue scoregge sonore. Nel triclinio potete fare quel che vi pare. Anche i medici lo proibiscono, di trattenersi. Perché se anche vi capitasse di dover andare di corpo, là fuori c'è tutto l'occorrente: acqua, pitali e quant'altro. Credetemi: se la scoreggia, trattenuta, arriva al cervello, provoca flussioni anche nel resto del corpo. Molti sono morti per non volere riconoscere che le cose stanno così.“ Noi lo ringraziamo e cerchiamo di nascondere le risate fingendo di sorseggiare il vino. Ma non erano queste tutte le raffinatezze che Trimalcione ci voleva offrire. Ripuliti i tavoli a suon di musica, furono portati vivi tre maiali bianchi con tanto di museruole e sonagliere. Il capocameriere ci informò che il primo aveva due anni, il secondo tre e il terzo sei. Io pensavo a qualche esibizione spettacolare di atleti da circo con i maiali. Macché! Trimalcione ci sorprese tutti: “Quale di questi tre maiali volete che sia cotto all'istante? I cuochi di paese sanno cuocere così solo un galletto, lo spezzatino e simili quisquiglie; i miei invece saprebbero cuocere in casseruola anche un vitello.” Convocò immediatamente il cuoco e senza attendere la nostra risposta fece ammazzare il maiale più vecchio e, rivolto al cuoco: “Da quale distretto provieni?” “Dal quarantesimo.” “Ma comprato o nato in casa?” “Nessuna delle due: ti sono stato lasciato in testamento.” “Allora vedi di fare le cose fatte bene; se no, ti mando nel quartiere degli scopini.” Quindi il cuoco, istruito su chi comandava, fu riportato in cucina al guinzaglio del maiale condannato a morte. Poi Trimalcione, ripresa la sua espressione compiacente, si rivolse di nuovo a noi: “Se volete vi cambio il vino. Siete voi che dovete scegliere qual è quello più buono. Grazie a dio, io non compro niente, ma questo vino qui proviene da un mio podere che ancora non conosco, fra Terracina e Taranto. Fra poco, acquistando qualche altro poderetto, ho intenzione di collegarmi con la Sicilia, in modo che quando mi va di andare in Africa posso navigare sul mio. E tu, Agamennone, quale arringa hai declamato oggi? Io anche se non faccio il tuo mestiere un po' di cultura me la sono fatta, per i bisogni di casa più che altro. Non pensare che io non ami studiare. Ho tre biblioteche: una di greco e una di latino. Dai, allora, dimmi cosa hai declamato.” E Agamennone: “Un povero e un ricco erano nemici...” Ma Trimalcione lo interruppe: “Che significa 'povero'?” “Per favore!” disse Agamennone e continuò ad esporre la sua arringa. Ma Trimalcione incalzò: “Ma se le cose stanno già così, che arringa è? Se non c'è il motivo del contendere a che serve l'arringa?” Ridevamo tutti facendogli i complimenti più sperticati per queste spiritosaggini. E Trimalcione implacabile cominciò a sfidare Agamennone sul piano culturale infilando una serie di sciocchezze incredibili: che conosceva la storia delle dodici fatiche di Ercole perché aveva letto Omero a scuola; ma Omero non parla di dodici fatiche, bensì di un numero inferiore; che il Ciclope aveva storto un dito ad Ulisse con un coltellino; che a Cuma aveva visto la Sibilla sospesa in un'ampolla e che ai ragazzini che le chiedevano in greco se voleva qualcosa, lei in greco rispondeva che voleva morire. Per fortuna fu interrotto dall'arrivo di un enorme maiale depositato sulla tavola dai camerieri. Tutti restammo meravigliati della sveltezza con cui era stato cucinato. E Trimalcione: “Ehi, ma questo maiale non è stato eviscerato. Fate venire subito qui il cuoco!” Il poveretto si fermò davanti alla tavola centrale con la coda tra le gambe scusandosi per essersi dimenticato di eviscerare la povera bestia. “Spogliatelo!” ordinò Trimalcione e quello, nudo com'era, andò a mettersi tra i due aguzzini che lo avevano denudato. A quel punto tutti si misero a intercedere per lui. Io no, però perché sono fatto così, un uomo tutto d'un pezzo. Non riuscivo a capire come ci si possa dimenticare di eviscerare un maiale prima di cuocerlo. Perciò dissi in un orecchio ad Agamennone: “Io non gliela farei passare liscia.” Ma Trimalcione, di diverso avviso, diede ascolto alle suppliche degli altri commensali e ordinò al pover'uomo: “Dunque, visto che sei uno smemorato, puliscilo adesso, qui, davanti a noi.” Allora il cuoco, rivestitosi in fretta, si mise ad incidere il maiale da una parte e dall'altra in modo che dai due tagli venissero fuori le salsicce e i sanguinacci che ci aveva messo dentro per inscenare quella pagliacciata. Viva Gaio!” urlavano ripetutamente gli altri schiavi applaudendo. Anche il cuoco fu premiato con un invito a bere, con una corona d'argento e con una coppa e un piatto corinzio. Agamennone fu incuriosito da questi oggetti e allora Trimalcione: “Io sono l'unico ad avere autentici bronzi di Corinto.” Poi aggiunse superando qualsiasi immaginazione e sempre rivolto ad Agamennone: “Ti chiedi come mai io sia l'unico? Ma è chiaro: il mio bronzista si chiama Corinto!” E poi, dandogli praticamente del cretino, spiegò: “Che significa 'corinzio' se non che uno si serve da Corinto? Ora ti spiego la vera storia del 'corinzio'. Quando Troia fu conquistata, Annibale, uomo furbo e dalle mille risorse, riunì in un solo mucchio le statue di bronzo, argento e oro e le fece fondere in un'unica lega metallica. Quindi gli artigiani ne ricavarono scodelle piatti e statuette. Da qui nacque la lega corinzia: dal molteplice all'uno e dall'uno al molteplice. Io però preferisco il vetro, perché gli oggetti di vetro almeno non puzzano. E se non fossero così fragili io li preferirei anche all'oro. E' per la loro fragilità che hanno così scarso valore. Una volta un vetraio realizzò una coppa di vetro infrangibile. Andò da Cesare per regalargliela, ma dopo che l'imperatore l'ebbe osservata se la fece ridare e la scagliò sul pavimento. Cesare si spaventò, ma lui la raccolse prontamente e riaggiustò l'ammaccatura con un martelletto: la coppa era ancora sana. Credeva, l'ingenuo, di aver conquistato Cesare, ma quello gli chiese se qualcun altro, oltre lui, conoscesse quel metodo di lavorazione del vetro e, avendo lui risposto di no, lo fece decapitare immediatamente in modo che il prezzo del vetro non distruggesse quello dell'oro. Poi, sull'argenteria sono proprio fissato. Mi devi lasciar stare. Non so più neanch'io quante coppe d'argento possiedo. E che storie ci sono scolpite sopra: Cassandra che fa uccidere i suoi bimbi per vendicarsi di Giasone; Dedalo che rinchiude Niobe dentro al cavallo di Troia. Un migliaio me le ha lasciate il mio padrone al quale le aveva lasciate a sua volta il console Mummio, il disruttore di Corinto. E poi ho un'infinità di boccali con su incise le lotte gladiatorie e in particolare quelle dei celebri Ermerote e Peraite. Ho una competenza nel vasellame d'argento che levati! Non la baratterei con nessuna cosa al mondo.” Mentre sciorinava tutte queste sciocchezze a uno schiavo scivolò di mano un calice. E Trimalcione: “Su, svelto, picchiati da solo, buono a nulla.” Il ragazzo si mise subito a chiedere perdono: “Che parli con me? Dillo a te stesso di smetterla di essere un buono a nulla.” Alla fine, come al solito, lo perdonò e quello si mise a correre intorno alla tavola distribuendo baci per aver interceduto per lui. Allora Trimalcione ricominciò a parlare cambiando discorso: “Fuori l'acqua e dentro il vino!” Grandi applausi soprattutto da parte di Agamennone, il retore, che conosceva bene l'arte di farsi invitare e rinvitare. Trimalcione già mezzo ubriaco disse: “Ma perché nessuno chiede alla mia Fortunata di ballare? Nessuno balla bene come lei!” Mentre diceva così teneva le braccia in alto come un celebre attore del tempo e la servitù lo accompagnava al ritmo di “Ebbrezza, o dolce ebbrezza!” E sarebbe arrivato al centro della sala se Fortunata non gli si fosse accostata all'orecchio probabilmente per impedire quello spettacolo indecoroso per gente come loro. Grande contraddizione di Trimalcione! Si fermava per obbedire a Fortunata ma poi la voglia di divertirsi lo spingeva a riprendere la danza, poi si rifermava e così via fino a quando la passione del ballo gli fu stroncata dal segretario che incominciò a leggergli ad alta voce i resoconti dei suoi possedimenti e dei suoi affari: “Il 26 luglio sono nati 30 maschi e 40 femmine; sono stati trasportati nel granaio del cortile 500.000 moggi di grano; sono stati aggiogati 500 buoi. Sempre il 26 luglio è stato crocifisso lo schiavo Mitridate perché ha bestemmiato il nome del nostro padrone, Gaio, e si sono riposti nella cassaforte 10.000.000 di sesterzi per l'impossibilità di reperire investimenti vantaggiosi. Poi, verso sera, essendosi sviluppato un incendio nei giardini pompeiani vicino alla casa di Nasta....” “Cosa?” lo interruppe Trimalcione, “In che data sono stati comprati per mio conto quei giardini?” “L'anno scorso: perciò non sono ancora registrati.” “D'ora in poi vi proibisco di registrare nei miei conti qualsiasi acquisto che non mi viene notificato entro sei mesi dalla data dell'acquisto stesso.” gridò Trimalcione. Poi seguirono le comunicazioni di vari altri eventi di non grande importanza. Poi irruppero nella sala gli acrobati e fecero dei numeri per i quali Trimalcione andava pazzo. Ma durante uno di questi numeri uno di essi, un ragazzo, sbagliò e piombò sul letto di Trimalcione. I commensali impauriti incominciarono a gridare, non perché preoccupati per il ragazzo, bensì perché pensavano che la cena si potesse concludere male. E in effetti Trimalcione, dopo una specie di dolorante grugnito, si accasciò su un braccio come se gli si fosse fratturato. Allora irruppe uno stuolo di medici con a capo Fortunata che gridava come un'aquila. Intanto il ragazzino come al solito andava in giro pregando noi commensali di intercedere per lui. Pensai che si trattasse del solito scherzo cretino di Trimalcione. Pensiero che si rafforzò quando fu preso a frustate uno schiavo colpevole, pensate in po', di aver fasciato il braccio del padrone con una benda bianca invece che con una rossa. E infatti poco dopo fu letto un decreto di Trimalcione col quale il ragazzo, colpevole di essergli piombato addosso, veniva liberato affinché nessuno potesse mai dire che lui era stato ferito da uno schiavo. Tutti d'accordo, naturalmente, e a quel punto Trimalcione volle eternare l'accaduto con dei versi scritti proprio da lui. Dopo un po' di concentrazione sfornò questi tre “originalissimi” capolavori: “Quel che da lunga pezza non succede capita in un secondo: è la fortuna! Versami il vino, via. Via la tristezza!” L'epigramma scatenò una lunga conversazione sui poeti e su quale di essi fosse il migliore. Alla fine la palma toccò a un certo Mopso che nessuno sa chi è. Poi Trimalcione, per cambiare discorso, propose un confronto fra Cicerone e il mimo Publilio, esprimendo il suo favore per il secondo a cui sarebbero appartenuti, diceva, dei versi che citò a memoria: “Si consumano ormai nel lusso abnorme le gloriose gesta di una volta. Chiuso nella sua stia un bel pavone sotto l'orientale aureo piumaggio viene ingrassato per il tuo palato, per te viene allevata la gustosa gallina di Numidia, per te viene nutrito un bel cappone. E anche una cicogna, sacra agli dei, gradita pellegrina dalle lunghe eleganti esili zampe, che con il becco instancabilmente batte a tempo di musica il comignolo. Uccello che d'inverno vola via e a primavera torna a fare il nido nella padella della tua insaziabile famelica ingordigia. Perché ti è cara la perla che proviene dall'Oriente? Forse perché la tua signora, adorna di mirabili gioie d'oltremare, apra le cosce senza posa in letto che non è il tuo? E a che ti serve lo smeraldo dal verde evanescente? Perché vuoi da Cartagine le pietre indurite dal fuoco se non perché risplenda la sua onestà da quei carboni accesi? E' giusto che una sposa, ricoperta da velo come il vento inafferrabile, si mostri nuda a tutti avvolta solo da un'impalpabile nuvola di lino?” Dopodiché incominciò uno sproloquio per fare la solita graduatoria fra i lavori più ingrati partendo da quello dei poeti e dei letterati. E avrebbe tirato in ballo anche i filosofi se i servi non fossero giunti con i doni da estrarre a sorte fra i convitati. E qui, inutile dirlo, il gusto di Trimalcione si scatenò nei noiosi doppi sensi che gli piacevano tanto e che non vi sto a ripetere perché sciocchi ed insulsi come quelli che ho raccontato fino ad ora. Ne basti uno per tutti: “coppa argentata” in realtà era un'acetiera d'argento abbinata a coppa di maiale. A questo punto capii che Ascilto non ne poteva più e infatti cominciò a ridacchiare prendendo in giro tutti e tutto. Piano piano prese gusto a questo gioco e alla fine si piegava su se stesso ridendo fino alle lacrime. Un liberto amico di Trimalcione non sopportò quel comportamento da pidocchio che sputa nel piatto in cui mangia e attaccò una pippa che non ti dico contro Ascilto: “Che hai da ridere, morto di fame? Le tue cene sono forse più ricche e divertenti? Se ti stessi vicino te la farei vedere io, brutto scroccone, vagabondo, ladro. Se pisciando ti disegnassi un cerchio intorno intorno non ne usciresti vivo. E ridi ancora? Ma che hai da ridere? Ridi di noi liberti che da schiavi siamo diventati cittadini romani? Ma guarda in casa tua, scervellato. Io sono stato schiavo quarant'anni, ma nessuno se n'è mai accorto e da uomo libero non c'è nessuno che avanzi qualcosa da me. La mia sì che è stata una vita ben spesa, io che da schiavo mi sono ricomprata la libertà. A nascere liberi sono buoni tutti, ma fai un po' il mazzo che ho fatto io appresso al mio padrone per guadagnarmi la libertà.” Non avesse mai parlato. Anche Gitone cominciò a ridere come un matto in modo tale che tutti se ne accorsero. E allora quello: “Anche tu ridi, cretino? E certo il tuo padrone non ti ha insegnato nulla, salvo che a prostituirti per denaro. Ma tanto dove andate? Vi aspetto fuori a tutti e due e vi farò scontare queste risate senza senso. Solo perché sapete un poco di retorica. E io so far di conto e so leggere le lettere scolpite. Tu non sapresti risolvere neanche uno degli indovinelli che io conosco e ti dai tante arie. Ma giuro che nessun dio ti salverà dalle mie botte quando saremo fuori di qui. Ora mi trattengo per rispetto del mio amico Trimalcione.” Il quale, sentendo il suo amico esprimersi così bene, intervenne togliendo la parola ad Ascilto che stava incominciando a rispondergli: “Lascialo stare, Ermerote, non vedi che è un ragazzino? Ha il sangue caldo! Sei tu che devi avere più giudizio. Vince chi cede, non lo sai? Siamo qui per divertirci, non per litigare. Arrivano gli omeristi.” Gli omeristi sono attori mediocri che recitano parti delle opere di Omero. Entrarono e cominciarono a fare casino battendo con le lance sugli scudi e intanto parlavano tra di loro utilizzando versi di Omero in greco. A Trimalcione non sembrò vero di sedersi su un cuscino più alto e di seguire le loro conversazioni leggendo lagnosamente su un canovaccio la loro traduzione in latino. E rivolto a tutti i convitati spiegò: “Si tratta del brano del rapimento di Elena che scatenò la guerra di Troia.” Ma non disse proprio così: infilò come al solito una serie di errori in cui confondeva situazioni e personaggi del mito in modo assolutamente irriproducibile qui, concludendo con la pazzia di Aiace. Quando finì di spiegare, gli omeristi levarono un grido e i valletti portarono a tavola un vitello lesso con un elmo in testa su un enorme vassoio d'argento. Gli teneva dietro un omerista vestito da Aiace che, mimando la sua incipiente follia, calava fendenti a ritta e a manca sul povero vitello che fu ridotto in pezzi, poi distribuiti dal “folle” a ciascun commensale utilizzando la punta della sua lancia. Non ci fu dato il tempo di ammirare l'elegante artificio. Improvvisamente i cassettoni del soffitto scricchiolarono paurosamente rimbombando per tutta la stanza. Balzammo tutti in piedi impauriti, temendo di dover assistere alla caduta di qualche altro acrobata; e invece, apertosi il soffitto, lentamente discese a poca altezza dalla tavola un cerchio, forse tolto a una botte gigante, che recava appese tutto intorno coroncine d'oro con vasetti di profumo in alabastro. “Prendete, prendete!” invitavano i valletti e noi per prendere non ci accorgemmo che al centro della tavola era stato approntato velocemente un trionfo, circondato di focacce, a centro del quale era stato sistemato un Priapo fatto da un pasticcere che gli aveva messo in grembo ogni ben di dio. Fu un arrembaggio seguito da una gustosa sorpresa. Le cose che prendevamo si aprivano e diffondevano polvere di zafferano dall'odore acre, come si sa. La cosa era tanto più divertente in quanto non capivamo se si trattasse di un rito propiziatorio come avviene solitamente quando si impiega lo zafferano o se fosse semplicemente un'ulteriore trovata scherzosa del padrone di casa. Io comunque arraffai a piene mani quanto più potevo di quel ben di dio pensando che ne avrei fatto dono al mio Gitone. Fecero il loro ingresso tre valletti, di cui Trimalcione annunciò i nomi, “Arraffatutto”, “Fortunato”, e “Lucro”. Noi come tutti dovemmo baciare il ritratto dal vero di Trimalcione che uno di quei tre faceva girare intorno alla tavola. Ma era un momento di stanca. Allora il padrone di casa si rivolse a un commensale che si chiamava Ermerote e gli disse: “Stasera non sei del solito umore. Che hai fatto? Perché non ci racconti quella storia che ti è capitata mesi fa. Dai, raccontala! Che sono tutti curiosi di conoscerla o di saperne ancora più particolari.” Ermerote prima giustificò il suo umore che invece secondo lui era ottimo, poi augurò lunga salute a Trimalcione e infine iniziò il suo racconto: ”Vi ricordate tutti quando facevo il filo a quella magnifica cicciona di Melissa, la moglie dell'oste. Non che me la volessi portare a letto o scoparmela: l'avevo solo scelta come tesoriera perché era innamorata di me e amministrava i soldi che guadagnavo con una onestà impeccabile. Dopo tutto ero uno schiavo e neanche lei pensava seriamente di poter venire a letto con me. Un bel giorno capita che il mio padrone deve recarsi a Capua per affari. A me non sembrò vero di andare a trovare Melissa che abitava al quinto miglio e per raggiungerla di notte chiesi di accompagnarmi a un soldato, un omaccione grande e grosso, dalla forza erculea. Eravamo quasi arrivati quando, mentre attraversavamo un cimitero, quello improvvisamente, senza dirmi niente, si mise a pisciare. Io continuo a camminare fingendo per discrezione di non accorgermene. Ma nel girarmi per vedere se aveva finito vedo invece che si era completamente denudato e che stava ancora pisciando sopra e intorno ai suoi abiti. Quando ebbe finito vidi le sue membra trasformarsi una ad una in quelle di un lupo. Non sono balle, ragazzi! Possa morire se racconto balle! Subito dopo quello cominciò ad ululare e corse verso il bosco scomparendo. Io ero completamente stordito da quell'evento e quando mi ripresi la prima cosa che mi venne da fare fu di raccogliere i suoi panni. Ma, sorpresa! Erano duri come rocce, anzi mi sembrarono proprio rocce, per cui li lasciai lì. Mi stavo cacando sotto per la paura, ma decisi di non lasciarmi andare. Impugnai la spada di quello e a forza di fendenti mi aprii la strada attraverso il bosco al di là del quale sapevo che c'era la casa della mia Melissa. Avevo gli occhi sbarrati e mi sentivo morire. Ci volle un bel po' prima di riavermi. Melissa mi rimproverò perché andavo in giro ad un'ora così tarda. Almeno fossi arrivato un po' prima avrei dato una mano a catturare un lupo che li aveva aggrediti. Ci è sfuggito, ma non se l'è cavata a buon mercato. Un nostro schiavo lo ha centrato con una freccia trafiggendogli il collo. Non chiusi occhio per tutta la notte. All'alba corsi sul luogo dove quello si era involato a cercare i panni, ma non li trovai: c'era solo del sangue. Allora corsi in casa, cioè nella casa del mio padrone, e, arrivato lì trovai il soldato sdraiato sul letto e il medico che gli curava la ferita al collo. Era un lupo mannaro. Da allora, alla larga! E quanto a voi, se mi volete credere, bene; se no, fate come vi pare. Ma io vi giuro sugli dei che questo racconto non contiene neanche una bugia.” E Trimalcione: “Nicerote non è uno che racconta balle, amici. Parla poco e ficca assai; e quando parla dice solo cose vere. Del resto anch'io devo raccontarvi una storia incredibile, praticamente 'un asino che vola'. E vi dico quel che ha detto Nicerote: se ci credete bene; se no, fate come vi pare. Dunque tanti anni fa, quando ero un bel pischello e sfoggiavo dei bei capelli lunghi, per darmi alla bella vita, morì il favorito del mio padrone, un ragazzo fatto per vedere, un amasio perfetto, con tutte le doti che uno può desiderare. La madre era disperata e molti di noi parteciparono addolorati alla veglia funebre che si protrasse per tutta la notte. Ma ecco che a notte fonda si presentano le streghe circondando la casa. Emettevano un insopportabile stridio, per cui tutti rimanemmo senza fiato: un soldato forzuto che era con noi uscì fuori e cominciò a menare fendenti in ogni direzione. Quando rientrò noi pensavamo che avesse avuto la meglio, invece era pieno di graffi e di vere e proprie ferite. Si si sdraiò affaticato su un letto e la povera madre riprese il suo straziante compianto. A un certo punto il dolore la spinse verso il cadavere di quel giovinetto bellissimo e, sorpresa! si accorse che le streghe lo avevano sostituito con un fantoccio di paglia avvolto nei vestiti del morto. Voi non ci credete, ma io vi dico che esistono donne che vivono nella Notte, di cui sono figlie, e che vagano per portare scompiglio ovunque. Io non so dove portarono il corpo del giovinetto, ma so con certezza che quel soldato, dopo qualche giorno, impazzito morì.” Poi Trimalcione invitò un certo Plòcamo a recitare o a cantare qualcosa; ma Plocamo si schermì accampando la vecchiaia e la gotta che ormai gli impedivano di essere il giovane damerino di una volta. Allora Trimalcione si rivolse al suo ragazzetto, che lui chiamava Creso, chissà perché, ma quello non se ne dava per inteso, tutto intento com'era a rimpinzare la sua cagnetta. Allora Trimalcione intimò ai servi di portare Cucciolo, il suo cane, un bestione enorme tenuto alla catena che si andò a mettere, dritto sulle zampe anteriori, proprio davanti alla tavola. E Trimalcione: “Eccolo il mio Cucciolo: solo lui mi ama in questa casa.” Punto da queste parole e dalle coccole che il padrone faceva al suo cane, Creso mise a terra la sua cagnetta incitandola alla zuffa con Cucciolo. Che per poco non la fece a pezzi. Ma tutto si mantenne entro i limiti della zuffa senza che nessuno si facesse male. Cucciolo però riempì la sala di latrati spaventosi, si agitò nonostante la catena lo trattenesse saldamente, per cui alla fine un candelabro enorme si rovesciò e si abbatté sui vasi di cristallo che contenevano olio bollente e gli schizzi andarono a colpire i commensali più vicini: urla, balzi repentini, fughe concitate: un disastro! Trimalcione mostrava di non preoccuparsene affatto. Ordinò a Creso di salirgli sulle spalle e quello non se lo fece dire due volte cominciando ad assestargli dei colpi in testa e chiedendogli quante fossero le dita che mostrava a tutti meno che a lui. Trimalcione, divertito da quel gioco, bambinone com'era, ordinò di distribuire vino ai servi e, se quelli lo avessero rifiutato, di versarglielo sulla testa. All'improvviso un littore bussò alla porta del triclinio e annunciò l'arrivo di un tale Abinna preceduto dai numerosi componenti del suo seguito, per cui io, credendo che si trattasse del pretore, cercai di ricompormi mettendomi almeno le scarpe. Ma Agamennone mi prevenne: “Calmati, coglione! E' solo un assessore come Trimalcione. E' un marmista che lucra abbondantemente costruendo tombe colossali.” E infatti Abinna proveniva da una cena di commemorazione di uno schiavo che il padrone aveva liberato in punto di morte e che aveva voluto onorare con una tomba di riguardo. Abinna raccontò di essersi divertito e di aver bevuto abbondantemente anche se, per volontà dell'ospite, tutti prima di bere avevano dovuto versare metà del vino sul corpo di quel poveretto. E sì, che erano nove giorni che era morto! “Ma per cena che cosa avete mangiato?” incalzò Trimalcione incuriosito dallo stato di ebrezza di Abinna. Quello sciorinò un elenco interminabile di portate descritte con un linguaggio volgare che faceva spesso riferimento alla merda e insomma facendo intendere che non si era mangiato bene. Lui aveva salvato due mele che si era portato via per regalarle al suo amasio, su suggerimento della moglie Scintilla. Allora, ubriaco com'era, gli venne in mente Fortunata, la moglie di Trimalcione, e chiese come mai non stesse a tavola con gli altri. “Sai com'è fatta?” disse Trimalcione, “Se prima non sistema tutto come vuole lei non tocca nemmeno una goccia d'acqua.” “Ah, è così?” disse Abinna, “Allora se lei non viene a tavola, io me ne vado subito subito.” Fu un coro di invocazioni per Fortunata, invitata tre o quattro volte a venire a tavola. Lei si presentò con la sua mise studiatissima che metteva in risalto tutte le sue parti più costose e, adocchiato il letto di Scintilla, si andò a sdraiare accanto a lei e la rimproverò: “Ti si vede, finalmente!” e la baciò. I convenevoli andarono avanti un bel pezzo. Fortunata si tolse i bei bracciali per mostrarli all'amica; infine le mostrò gli anelli, anche quelli da caviglia, ripetendo più volte che erano d'oro zecchino. Trimalcione si accorse di quello sfoggio, chiese di portargli tutti quei gioielli e quindi inveì contro la coglioneria dei mariti che si lasciano derubare dalle mogli. Poi però ci pensò bene e disse che anche lui si era comprato un bracciale pesantissimo e fece portare la bilancia per pesare sia quello che gli ori della moglie. A quel punto Scintilla, sentendosi provocata, fece pesare anche lei i suoi gioielli compreso un medaglione che si tolse dal collo e che doveva essere una specie di amuleto e infine gli orecchini con le perle che commentò dicendo: “Grazie a mio marito, nessuna ne ha di più belli.” “Sfido io!”, disse Abinna, “Mi hai prosciugato per farti comprare quei vetracci. Se avessi una figlia, le farei mozzare le orecchie. Se le donne non esistessero tutta questa roba non varrebbe un fico secco. Spendi un capitale per non mangiare niente.” Le signore ridevano e intanto se la spassavano stando abbracciate e scambiandosi bacetti e chiacchierando animatamente per raccontare, una, le sue doti di madre attenta e affettuosa, e l'altra, le scappatelle del marito con i maschietti. Allora Abinna, di soppiatto, si avvicinò ai piedi di Fortunata e afferrandoli scaraventò l'una e l'altra a gambe all'aria in modo da far scoprire loro le sottovesti. Fortunata si ricompose velocemente e nascose la faccia, rossa dalla vergogna, in grembo a Scintilla. Seguì una specie di gara fra Trimalcione e Abinna che sfoderarono, il primo, uno schiavo comprato ad Alessandria che cercava di recitare Virgilio facendone scempio e, il secondo, uno schiavo, acquistato per trenta denari, di cui lui decantava gli infiniti pregi e la grande duttilità nel piegarsi a tutti i mestieri. Tutti capimmo che quelle lodi derivavano dal fatto che lo schiavo era il suo amante, e se avevamo qualche dubbio ci fu tolto da Scintilla che cominciò a parlarne male. A Trimalcione non sembrò vero di poter fare un intervento pacificatore fra i due coniugi suoi amici: “Non essere gelosa, Scintilla. Lo sappiamo come siete voi padrone. Vorreste che gli schiavi più belli stessero sempre a menarvela. Non te la prendere se questo piace anche a tuo marito. Io quando ero ragazzo stavo sempre a letto con la padrona, tanto che alla fine anche il padrone se ne accorse e mi trasferì con una scusa.” Lo interruppe quel briccone dello schiavo di Abinna il quale, come se quelli fossero per lui dei complimenti, tirò fuori una lucerna di terracotta e diede inizio ad un bel numero di imitazioni accompagnato dal suo padrone, che lo seguiva comprimendosi il labbro inferiore con la mano. Alla fine il numero piacque tanto che Abinna si mise ad elogiarlo di nuovo e gli regalò anche un bel paio di scarponi. Non l'avrebbero mai fatta finita se gli inservienti non avessero portato a tavola tutte le pietanze del postpasto. Che esagerazione! Mai vista una simile grascia: tordi alla crosta con farina di segale e infarciti di uva passa e noci; mele cotogne con degli spini infilzati in modo che sembrassero dei ricci ecc. ecc. ecc. Tutte cose tollerabili... ma alla fine arrivò in tavola una bestia che ci sembrò un'oca ingrassata ma che presto si rivelò ben altro. Sentimmo infatti Trimalcione tuonare: “Tutto quello che è arrivato sul tavolo è fatto con un unico materiale.” Mi vennero in mente le pietanze servite durante le feste di Saturno e inorridito chiesi ad Agamennone: “Non mi stupirei che fossero tutte fatte di merda.” Non avevo finito di parlare che ancora la voce di Trimalcione mi rassicurò: “E' tutta roba ricavata con carne di porco. Io ho un cuoco che è un genio. A richiesta può trasformare qualsiasi parte del maiale in un'altra, senza scomporsi. Perciò su mio suggerimento ha preso il nome di Dedalo, il mitico ingegnere del labirinto, e io gli ho portato da Roma degli splendidi coltelli della Gallia.” Cominciò a mostrarli a tutti invitandoci a provarne il filo sulla guancia: quella interminabile ostensione non si sarebbe mai conclusa se non fossero arrivati due schiavi con delle brocche che si stavano ancora litigando dopo essersi accapigliati presso la fontana. Trimalcione cercò di mettere pace tra di loro, ma quelli non gli diedero retta e cominciarono a picchiarsi con dei bastoni che finivano più spesso sulle brocche che sulle loro teste. Stupiti da tanta impudenza pensammo che fossero ubriachi: perciò li guardammo meglio e, sorpresa! dalle brocche scivolavano fuori ostriche e frutti di mare che un valletto raccoglieva in un piatto e distribuiva a tutti. Poi ci fu una cosa per me molto strana: dei valletti con i capelli lunghi cominciarono a girare di letto in letto e ad ungere i piedi dei commensali dopo averli legati con delle coroncine. Poi, siccome l'unguento spalmato colava giù, loro lo raccoglievano e lo versavano nella lucerna e nel recipiente del vino. Che schifo! Ma questa volta purtroppo, non riuscendo a capire il perché di tutto ciò e non avendo più vicino a me il commensale che mi spiegava tutto, rimasi nella curiosità di capire il significato di un rituale tanto schifoso. Intanto a Fortunata era venuta voglia di ballare e Scintilla, stanca di chiacchiere, si era messa ad applaudire qualsiasi cosa accadesse. Era un segnale: i convitati si davano alle danze e gli schiavi si potevano sdraiare a posto loro per consumare gli avanzi. “Anche tu, Carione, anche se non sei del mio partito!” tuonò Trimalcione e fummo scaraventati tutti giù dai letti dagli schiavi affamati. Il cuoco “Squarcia” non solo si mise a tavola con tutti gli altri ma osò anche sfidare il suo padrone dicendo che il suo partito avrebbe vinto il prossimo palio. Trimalcione, messo di buon umore da quella specie di sfida, attaccò il solito sermone questa volta però non privo di interesse: “Amici, gli schiavi sono esseri umani come noi e hanno bevuto il latte da una mammella esattamente come noi. Il destino, poi, per loro ha deciso diversamente, ma ciò non cambia quanto ho detto. Perciò quanto prima ritroveranno anch'essi il gusto di essere liberi perché io, i miei, ho intenzione di affrancarli tutti nel mio testamento.” Si fece quindi portare il testamento e ne dette lettura dalla prima all'ultima riga. Poi disse ad Abinna: “Amico mio, la mia tomba la stai costruendo o no? Tu sai che ci voglio la mia statua e ai piedi la cagnetta, le corone, i vasi di profumo, tutte le vittorie del mio gladiatore preferito in modo da farmi vivere a lungo anche dopo morto. Il monumento deve essere nell'insieme largo cento metri e lungo duecento. Intorno alle mie ceneri deve crescere ogni genere di frutta in abbondanza. Che significa infatti che in vita ci preoccupiamo tanto delle nostre dimore e da morti non teniamo in nessun conto la dimora in cui dobbiamo abitare molto più a lungo? In alto farai scolpire ben visibile la scritta “Questo monumento non va in eredità.” Nel mio testamento nominerò uno dei miei liberti affinché faccia la guardia e impedisca a chiunque di andarci a cagare sopra. Poi mettici una scultura con delle navi che navigano a gonfie vele e seduto in tribuna me con cinque anelli d'oro mentre distribuisco monete al popolo. Ciò a commemorazione del banchetto pubblico che ho organizzato con distribuzione di due denari a testa. Poi se ti va mettici pure le mie cene e il popolo che si dà alla pazza gioia grazie a me. Alla mia destra, naturalmente, la statua della mia Fortunata con in mano una colomba e nell'altra il guinzaglio con cui porta a spasso la cagnetta. Poi il mio pischelletto. Poi delle anfore grosse e ben sigillate in modo che non perdano vino. Al centro, proprio in mezzo a tutto questo, ci deve stare un orologio in modo che chiunque si ferma a guardare che ora è sia costretto a leggere anche il mio nome. L'epitaffio sia questo, se ti sta bene: “Passante, qui riposa Gaio Pompeo Trimalcione Mecenaziano. Per i suoi meriti fu eletto assessore a sua insaputa. Volontariamente rinunciò a far carriera politica a Roma che era pronta a spalancargli le porte. Rispettoso degli dei, forte, fedele, si fece ricco venendo su dal niente. Non volle mai ascoltare filosofi. Ha lasciato trenta milioni di sesterzi. Ti auguro lunga vita, passante.” A questo punto cominciò a piangere come un bambino. E con lui piangevano la moglie Fortunata, il suo amico Abinna e tutta la servitù come se fossero stati assoldati per piangere al suo funerale. Stavo per piangere anch'io, ma Trimalcione riprese: “Se è vero che dobbiamo morire, perché non vivere godendoci la vita? Buttiamoci tutti nel bagno. L'ho fatto riscaldare a dovere.” Abinna approvò e fu il primo a seguirlo. Io dissi ad Ascilto: “Che facciamo? Io mi sento morire solo al pensiero di un bagno!” E lui: “Fingiamo di aderire all'invito e quando tutti si sono incamminati noi ce la squagliamo.” Così facemmo e Gitone, gentile come al solito, ci guidò verso l'uscita perché conosceva la casa; ma un po' prima dell'uscio un terribile cane tenuto alla catena cominciò ad ululare come un lupo e Ascilto, impaurito, perse l'equilibrio e cadde nella piscina. Io, ubriaco com'ero, per tirarlo fuori un altro po' gli andavo appresso. Per fortuna il portiere, ignaro delle nostre intenzioni, calmò il cane e ci tirò fuori dall'acqua. Ma prima del portiere ci aveva pensato Gitone che aveva messo davanti al cane tutti gli avanzi della cena che noi gli avevamo regalato. Chiedemmo al portiere, così gentile, di farci uscire perché eravamo tutti bagnati e infreddoliti. Ma quello fu irremovibile. Nessuno in questa casa esce da dove è entrato. Da una porta si entra e da un'altra si esce.” Non ci restava che prendere anche noi un bel bagno caldo. Ci denudammo dunque completamente ed entrammo nella piscina, per la verità molto piccola, in cui Trimalcione si era già immerso. E, invogliato dall'ambiente acusticamente favorevole, incominciò a straziare le arie di Menecrate, un cantante di cui era ammiratore. E mentre cantava, si fa per dire, tutti gli altri invitati, senza entrare in acqua facevano un girotondo sul bordi della vasca. Entrammo in acqua e io così potei smaltire la sbornia. Poi fummo condotti in un'altra stanza della casa dove Fortunata aveva fatto una specie di mostra delle suppellettili più eleganti che possedeva: oggetti d'oro e d'argento, figurine in bronzo di pescatori, piastre d'argento massiccio e, sopra e tutt'intorno, calici di terracotta laminati d'oro e sacchetti di tela che filtravano il vino sotto i nostri occhi. Di nuovo la voce di Trimalcione annunciò che bisognava festeggiare il primo taglio della barba da parte di un suo schiavo. “Restiamo a tavola fino all'alba, dunque!” Intonò con la sua voce da tenore un invito che era piuttosto un ordine. Si ingozzò di antipasti e poi rivolto agli schiavi presenti li invitò ad andare a mangiare facendosi sostituire da altri. Assistemmo perciò al solito balletto. Una schiera che usciva cantando: “Arrivederci, Gaio!” e un'altra che la sostituiva entrando e intonando: “Salve, Gaio!” La lite con Fortunata. Da quel momento non avemmo più pace. Perché? Perché tra gli schiavi appena acquistati ce n'era uno di una bellezza folgorante e Trimalcione, obnubilato dal vino, gli si gettò addosso ricoprendolo di baci. Figuratevi Fortunata! Fu presa da un attacco di gelosia che sfogò seduta stante insultando il marito con una tiritera interminabile che però si concluse con un insulto preciso: “Cane!” Trimalcione le lanciò contro un calice e la prese in pieno. Quella si coprì la faccia con le mani e cominciò a gridare come se ci avesse rimesso un occhio. L'amica Scintilla, impressionata, l'accolse tra le braccia per consolarla. Arrivò subito un valletto con un boccale di acqua fredda che avvicinò alla guancia colpita. E Trimalcione: “Ma guardate un po'! Questa sgualdrina da avanspettacolo non mi vuole perdonare proprio nulla. Io... io l'ho levata dalla strada restituendole la dignità di donna e lei si comporta come una bestia, non come una donna. Ma se gli dei mi aiutano, ci penso io a questa Cassandra vestita da uomo. E dire che io avrei potuto riscuotere, sposando un'altra, una dote da dieci milioni di sesterzi. Tu lo sai che non racconto balle. Ancora l'altro ieri il profumiere mi ha tratto in disparte e, siccome vuole darmi la figlia, mi ha detto: 'Non far estinguere la tua stirpe!', volendo dire che era pronto a darmi la figlia giovanissima se avessi deciso di ripudiare questa scemunita. Ma io, più scemo di lei, ho tergiversato per non apparire superficiale e così mi sono dato la zappa sui piedi. Ma tu non ti preoccupare che troverò io il modo di farmi rispettare da una scema come te. E tanto per cominciare: tu, Abinna, amico mio, sulla mia tomba non ci mettere la sua statua perché non voglio che mi rompa i coglioni anche da morto. Anzi scrivete sul mio testamento che, da morto, le è proibito baciarmi.” E Abinna: “Suvvia adesso, calmati. Tutti possono sbagliare.” E la stessa Scintilla cercava di calmarlo e lo blandiva chiamandolo col suo nome proprio. E lui: “Abinna, giudica tu, che gli dei te ne renderanno merito. Che ho fatto di male? Un ragazzo educatissimo! L'ho baciato non per la sua bellezza ma per la sua bravura: sa dividere per dieci; legge senza sillabare; risparmiando sulla sua razione quotidiana si è comperato un vestitino da gladiatore, coi soldi suoi si è comprato una poltroncina e due vasi. Non si merita di essere premiato da me? Ma Fortunata non vuole, appollaiata com'è sui suoi tacchi da quindici. Stammi a sentire, scimunita! Accontentati di goderti la ricchezza che ti è capitata, razza di avvoltoio, e non stuzzicare il cane che dorme, donnetta da quattro soldi; altrimenti proverai cosa succede quando mi fai arrabbiare. Quando io ti dico una cosa, è quella e basta. Hai capito? Ma basta così. Pensiamo ai vivi. State allegri, amici. Anch'io una vola ero un poveraccio come voi, ma poi grazie al mio cervellino ho costruito quello che vedete. E' semplice: “Compro a poco e vendo a molto!” Se qualcuno vi dice un'altra cosa è un imbecille. Io intanto nuoto nella ricchezza che vedete. E tu, scoreggiona, ancora piangi? Guarda che ti faccio piangere con ragione. Lasciamo perdere, va. Come vi dicevo, a questa condizione mi ci ha portato il mio saper fare. Arrivato dall'Asia ogni giorno mi misuravo con questo candelabro per vedere se crescevo in altezza. Mi ungevo il mento per far cresce la barba al più presto. Fortuna volle che quando avevo quattordici anni il mio padrone si invaghì di me. Che male c'è a fare quello che il padrone ti comanda? Però io di nascosto accontentavo anche la padrona. Ci siamo capiti no? Basta così! Io sono un gentiluomo. Quel brav'uomo del mio padrone me lo conquistai del tutto e quindi mi fece erede di tutti i suoi beni. Un patrimonio favoloso! Feci costruire cinque navi, le caricai di vino, che allora valeva quanto l'oro e le spedii a Roma. Una tempesta se le inghiottì in un sol giorno. Credete che mi sia dato per vinto? Neanche per sogno! Ne faci costruire altre cinque, più belle, più grandi e capaci di darmi un reddito anche maggiore. E anche più resistenti. Le riempii come un uovo: vino, lardo, fave, profumi e schiavi. E via a Roma. Fortunata. Questo lo devo dire. In quell'occasione Fortunata prese una grande decisione in mio favore. Vendette tutti i suoi averi e mi diede i cento pezzi d'oro che ne ricavò. Il mio patrimonio li inghiottì come l'impasto si beve il lievito. Con quel solo viaggio realizzai dieci milioni di sesterzi. Riscattai tutti gli immobili del mio padrone che avevo dovuto impegnare. Mi costruii una casa, comprai quanti più campi potei e bestie schiavi e quant'altro: da quel momento qualsiasi cosa toccavo diventava oro. Quando arrivai ad avere possedimenti più ampi di quanti ne avesse la città nel suo insieme cambiai mestiere e misi su una banca per i liberti. Anche qui mi arrise un successo senza precedenti per cui mi stancai di occuparmi di affari. Ma ecco che si presenta un piccolo greco di nome Serapa, un astrologo portentoso che conosceva tutto di me come se fosse cresciuto in casa mia e mi convinse a continuare. Abinna che era presente ve lo può dire: mi preannunciò un'eredità che poi ebbi e che avrei congiunto i miei fondi campani con la Puglia. Intanto finii di costruirmi questa casetta: quattro sale da pranzo, venti stanze da letto, due portici in marmo, una serie di disimpegni al piano di sopra; e a piano terra il salottino dove dormo io, la stanza di questa stronza, lo sgabuzzino del portiere e una foresteria che può reggere fino a cento ospiti. Quel riccone di Scauro ha preferito alloggiare qui da me piuttosto che recarsi nella splendida villa di suo padre al mare: vi ho detto tutto! Ma ci sono molte altre cose in questa casa: poi ve le farò vedere. Datemi retta: hai un soldo, vali un soldo; hai qualcosa, sei qualcuno. Così il ranocchio di una volta ora è un re. 'E tu' disse a uno schiavo, 'porta i paramenti funebri con i quali voglio esser trasportato alla tomba e l'unguento con cui si ungono i morti e un assaggio di vino che è in quell'anfora che dovrà essere usata per lavare le mie ossa.'” La prova generale delle esequie e fine della cena. Lo schiavo si sbrigò ad obbedire e così ebbero inizio le esequie. Arrivarono due coperte che Trimalcione ci invitò a palpare per vedere se erano di qualità: “Se non le conservi come si deve” disse allo schiavo, “ti farò bruciare vivo. Ricordati che io voglio essere portato via fra il compianto sincero della gente.” Poi arrivò il nardo, il profumo tipico delle cerimonie funebri. Ci unse tutti e concluse: “Fate conto di essere stati invitati al mio funerale.” Poi, era ubriaco fradicio, chiamò un altro gruppo di suonatori, si distese sui cuscini e ordinò loro di suonare qualcosa di adatto come se lui fosse morto. I suonatori diedero vita ad una chiassosa marcia funebre. Uno schiavo che aveva accompagnato l'impresario delle pompe funebri, si calò tanto convintamente nella parte che cacciò un acuto così potente da svegliare tutto il vicinato. I vigili che presidiavano quella zona, credendo che la casa di Trimalcione stesse andando a fuoco sfondarono la porta con un gran trambusto, com'erano soliti fare, e cominciarono a inondare la casa con enormi secchi d'acqua. A noi tre non sembrò vero: ce la demmo a gambe come se veramente stessimo fuggendo da un incendio. Ma fuori della casa fummo inghiottiti da un buio pesto per cui ci si ripresentò il solito problema: come raggiungere il nostro albergo? La seconda lite per Gitone. Non avevamo una fiaccola di scorta per illuminare i nostri passi in mezzo a quel labirinto di strade sconosciute né la notte ormai fonda e silenziosa ci dava la speranza di incontrare qualcuno provvisto di lucerna. Inoltre eravamo ubriachi e assolutamente ignari dell'assetto stradale della città, il che ci creava problemi anche di giorno. Camminammo per più di un'ora con i piedi massacrati dai cocci in cui incappavamo non potendo controllare la strada. Ma alla fine la solita ingegnosità di Gitone ci trasse d'impaccio: perché? che si era inventato quell'angelo venuto di cielo in terra a miracol mostrare? Poiché temeva di perdersi ancora, anche di giorno, fino ad un certo punto della nostra andata aveva contrassegnato con segni riconoscibili il cammino da noi fatto: pilastri, colonne, svolte; poi, finiti i gessetti che aveva preso con sé, aveva dovuto desistere. Ma al primo segno noto che riconobbe anche in piena notte, perché i gessetti erano bianchi, la sua gioia si espresse con una specie di balletto indiavolato in cui tutte le sue forme splendide di tanto in tanto “illuminavano” anche il buio pesto di quella notte terribile. Le strisce da lui lasciate ci guidarono nell'oscurità e ci indicarono la strada in quel viluppo di vicoli. E come gli dei vollero arrivammo all'albergo dove noi pensavamo che i nostri guai sarebbero finiti. Ma niente da fare, la vecchia tenutaria che si era ingozzata di vino per tener compagnia ad alcuni avventori, era caduta in letargo e non volle sentire in alcun modo né le nostre bussate né il baccano a cui demmo vita in tutti i modi possibili. E ci eravamo quasi rassegnati a rimanere lì fuori per il resto della nottata senonché sopraggiunse un corriere di Trimalcione con un seguito di ben sette carri, che ponendo fine al baccano, semplicemente sfondò la porta immettendoci direttamente nella nostra camera. E lì finalmente mi potei godere fino in fondo e più volte le grazie di quell'angelo che non solo mi blandiva col suo corpo indimenticabile ma si metteva al mio servizio ogni volta che se ne presentava il bisogno. Cielo, che notte fu quella! Che morbido letto! E che stretta ci avvinse nel gorgo dei sensi ardendo di rara passione per cui labbra a labbra mischiando le anime nostre indagammo. Al diavolo umani pensieri! Non è forse questo il morire? Gioivo, ma incautamente. Perché quando, travolto dal vino, misi a posto le mani, quel diavolo di Ascilto, inventore di tutti gli inganni, durante la notte mi si prese il ragazzo e se lo portò nel suo letto e poi, abbracciandosi in totale libertà, con un compagno non suo, connivente o no che fosse, si consegnò alla fine ad un sonno ristoratore dimentico di ogni legge umana e divina. Quando mi svegliai e presi a tastare con la mano il posto lasciato vuoto dal mio amore e lo trovai vuoto... mi dovete credere: mi chiesi se non dovessi trafiggerli entrambi facendoli passare dal sonno alla morte. Poi, calmandomi un po', svegliai Gitone a forza di botte e dissi truce ad Ascilto: “Fai fagotto e vattene via subito, traditore degli amici e degli dei. Te ne devi andare, hai capito?” Quello non replicò, cominciò a spartirsi in silenzio la sua quota dei nostri poveri averi e quando ebbe finito mi disse: “Bene! Adesso dividiamoci il ragazzo!” Pensai che fosse una delle sue solite insulse spiritosaggini. Invece quello aveva già impugnato la spada e mi gridava: “Non te lo godrai tutto da solo, un bocconcino simile. Anche se non mi avete voluto contare nel gruppo, mi dovete dare la mia parte o sono pronto a prendermela anche con la spada.” Allora anch'io presi posizione: mi avvolsi il mantello sul braccio e feci capire che avrei venduto cara la pelle del ragazzo. Che però piangendo disperatamente si era messo in ginocchio e ci supplicava, abbracciandoci alle ginocchia, ora me ora Ascilto, di non macchiare col sangue la nostra così antica amicizia. Poi si scoprì il collo e come Eurialo nell'Eneide di Virgilio gridava: “Me, me dovete colpire; me che ho violato il sacro patto dell'amicizia!” Ci lasciammo convincere da quelle lacrime di bellezza e allora Ascilto prendendo la parola mi disse: “Perché non lasciamo scegliere al ragazzo? O me o te.” Sicuro di me, caddi nella trappola tesami da quell'imbroglione. “Va bene!” dissi, “Scelga lui.” Non avevo neanche finito di dare il mio assenso che Gitone inopinatamente si alzò e corse tra le braccia di Ascilto. Mi avesse colpito un fulmine non avrebbe avuto su di me lo stesso effetto devastante che ebbe quella decisione presa da Gitone senza un attimo di esitazione. Caddi quasi svenuto sul lettuccio dei nostri amori e stavo lì lì per uccidermi, ma mi trattenne la volontà di non dare soddisfazione a quei due traditori. Ascilto prese Gitone e tronfio e gonfio di orgoglio abbandonò il suo vecchio compagno di trincea nonché suo amatissimo amante nella disperazione più nera in un posto che più sordido non si poteva. Il nome di 'amicizia' resta saldo fino a quando conviene e fino a quando la sorte regge il gioco in tuo favore. Ma se la sorte cambia, l'amicizia se la squaglia da te e si abbandona a una sordida fuga vergognosa. Va in scena una commedia: questo il padre, un altro il figlio e un altro ancora il ricco interpreta in teatro, ma alla fine quando il copione è ormai rappresentato le maschere scompaiono e ciascuno ritorna alla sua triste tragica verità. Mi consolai con questi versi e non piansi più, ma per evitare di essere raggiunto da qualche altro invito inopportuno in quel momento, cambiai dimora e presi in affitto una stanza in un alberghetto vicino alla spiaggia. Vi rimasi chiuso per tre giorni e mi disperai piangendo e prendendomela con me stesso perché non trovavo il coraggio di farla finita. E imprecavo contro la terra e il mare che non mi inghiottivano per strapparmi al dolore di quel tradimento e del pensiero che quei due se la stavano spassando e magari ridendo alle mie spalle. Poi passavo agli insulti contro di loro. Ascilto, un bellimbusto dedito ad ogni depravazione, degno di essere messo a morte per sua stessa ammissione, uno che si è ricomprato la libertà facendosi stuprare e sempre facendosi stuprare si è conquistato un nome rispettabile, uno che prima di allora era stato messo in vendita come schiavo con un'etichetta che indicava prezzo e età, uno che si era prostituito come femmina anche a chi lo aveva comperato come maschio. E Gitone? Che dire di Gitone? Il giorno in cui avrebbe dovuto indossare la toga virile aveva preferito mettersi la gonna, uno che la madre aveva convinto a fare la femmina, addirittura in una galera per schiavi, un dissoluto che dopo avermi illuso come amante mi aveva lasciato dimenticando senza esitazione il nostro amore, uno che come una ninfomane insaziabile si era giocato il nostro amore per le carezze di una notte. E poi concludevo con il mio forsennato desiderio di vendetta: li troverò, li stanerò, li ucciderò, spargerò il loro sangue, colpevole di un così grave affronto. Il “fantolin da culo”. Mi allacciai la spada, mi rifocillai con un pasto abbondante che mi desse le forze necessarie per la mia spedizione punitiva, uscii fuori e incominciai a cercarli per tutti i portici di Pompei. E mentre me ne vado in giro come impazzito e con lo sguardo truce di chi medita una cruenta vendetta mi nota un militare. Un soldato, sì, ma giovane e dall'aspetto assai strano. Se ne andava in giro a passeggio o cercava l'occasione per borseggiare qualche malcapitato? Non riuscii a capire. Certo che non aveva l'aspetto rude del combattente: sembrava piuttosto un soldato da operetta. Comunque era armato di tutto punto e faceva indubbiamente paura. Mi fa: “Dimmi un po', tu? A quale legione appartieni? Si va in giro di notte armato fino ai denti e con le scarpe da ballerina?” Mi inventai il numero di una legione ma l'espressione impaurita e il volto tremante tradirono la mia bugia. Allora quello mi impose di deporre le armi e di andarmene se non volevo passare un guaio. Le possibilità di vendicarmi di quei due cadde insieme alle mie armi. Intanto il soldato, dopo averle raccolte, sembrava essersi avviato in direzione contraria alla mia. E io quasi quasi gli fui grato di avermi indotto alla rassegnazione. Mi avviai dunque in lacrime verso il mio alberghetto, stanco per tutte le novità di quel giorno, incluso lo spavento che quel furfante mi aveva fatto prendere. Ma ecco che mentre stavo per bussare sentii di nuovo la sua voce che mi accoglieva come se mi stesse aspettando: “Ma che strada hai fatto? Quanto tempo ci hai messo? E' un'ora che ti aspetto!” “No, è che mi sono fermato a parlare con degli amici.” “Quando la smetterai di dire bugie? Tu non sei di Pompei, non hai amici e chissà che strada hai fatto e per quale motivo. Dai, bussa, fammi entrare con te.” Il padrone dell'albergo mi salutò educatamente, ma quando vide che il soldato entrava tranquillamente con me, lo fermò dicendogli: “Ehi, tu, dove vai? Chi sei? Prima ti devo registrare.” Il soldato sfoderò la spada e gli disse sprezzantemente: “Zitto. E' un suo diritto ospitarmi, senza registrazione. Si prende lui la responsabilità. Tu sei garantito di tutto. E poi, non lo vedi che sono un soldato?” L'albergatore non replicò e neanch'io ebbi il coraggio di farlo. E il soldato senza tanti complimenti prese una torcia e mi fece cenno di guidarlo verso la mia stanza. Che quando entrammo, illuminata dalla torcia, mi sembrò migliore di quanto lo era di giorno. “Ma io non ti ho mai detto che volevo ospitarti. Anche tu dici le bugie.” “Eh, hai voglia! Avrai tutta la nottata per scoprirle tutte. Intanto eccoti la prima sorpresa.” Mentre parlava si spogliava velocemente e in un attimo mi si mostrò tutto nudo. Sacri dei! Quello non era un uomo! Glabro come un efebo, aveva una carnagione abbronzata al sole di quelle spiagge meravigliose e si presentava con un fisico mozzafiato che dimostrava non più di vent'anni. “E tu di che legione sei?” gli chiesi per cominciare a capire qualcosa. “Quale legione?” mi rispose “Io sono un soldato per tutte le legioni. Quando i generali riescono a trovare i soldi per arruolare anche un solo volontario in più mi portano con loro per sfogarsi con me se non catturano belle donne da scopare. Prima ti ho spaventato perché quello è il mio modo di rimorchiare. Appena ti ho visto ho detto che mi ti sarei portato a letto perché sei troppo bello. Ma adesso al lume della torcia sei ancora più bello. Dai, spogliati e distenditi che ti faccio vedere di cosa sono capace. Esibiva un cazzo di enormi proporzioni a riposo; mi figurai che cosa doveva essere in erezione e tremai all'idea di farmi sfondare ancora una volta come a casa di Quartilla. Pregai in silenzio Priapo di risparmiarmi quella punizione e gli promisi un cesto di mele mature per riparare al furto che mi stava procurando tanti danni. Quel dio crudele questa volta sembrò voler accogliere la mia preghiera. Quella meraviglia di soldatino si distese a pancia in giù e quasi mi ordinò di incularlo con una voce da donna che mi impressionò. Era una donna a tutti gli effetti: bellissima! Col cazzo nascosto era anche più bello di una qualsiasi donna e io col pensiero ringraziai il dio di avermi esaudito. Mi misi in ginocchio e a cavalcioni su di lui e cominciai a tormentargli le natiche con carezze morsi e baci. “Più dentro. Vai più dentro.” Gli leccavo il culo e con la punta della lingua cercavo di penetrarlo come facevo con Gitone. Ma era qui che si annidava la vendetta del dio implacabile. Secca la fonte del piacere / il desiderio intatto. Dopo un po' il soldato cominciò a smaniare e disteso come stava portandosi la mano destra sulla schiena cominciò a frugarmi gli inguini trovando alla fine il mio fratellino inerte. Schizzò su sorpreso e stizzito e me ne chiese la ragione. Allora d'istinto gli recitai questi versi bellissimi che mi ricordavo a memoria e che mai in altre situazioni erano stati più opportuni. “Non puoi né bere le acque né cogliere i frutti, infelice Tantalo, o tu che sei il simbolo del ricco che vede ogni cosa e tutto desidera eppure fame e sete ahimè lo torturano.” Dopodiché cominciai a raccontare la mia disavventura. Il soldato rideva un po' divertito e un po' stizzito per essere andato completamente in bianco. Pensavo che presto se ne sarebbe andato e che mi avrebbe finalmente lasciato dormire. Quello però mostrava tutta l'intenzione di rimanere lì ad ascoltarmi. Mi aveva quasi preso in braccio e mentre io raccontavo e giustificavo la mia inerzia sessuale lui mi cercava con ansia le natiche e quando ebbe raggiunto l'orifizio senza esitazione mi stuprò, ma infilandomi dentro quasi tutta la mano. Io gridai per il dolore ma lui prontamente mi tappò la bocca con un bacio che dire appassionato è dir poco. 'Stai buono!” mi disse, “vedrai!” Chiamò l'albergatore, gli diede dei soldi e gli chiese di portargli al più presto una ciotola con acqua caldissima. Intanto si sdraiò come prima a pancia in giù, poi si mise in ginocchio sul letto divaricando le gambe quanto bastava e poi mi ordinò di prendere dalla sua borsa una delle cotiche di maiale che portava sempre con sé. Mi ordinò poi di ingrassargli l'ano per bene e poi di stuprarlo come lui aveva fatto con me. “Tutta la mano, tutta!” ansimava quasi pregandomi; ma la mia mano era troppo grande. Con il pugno chiuso cominciai a fargli i massaggi come aveva fatto il negro con me. E sentivo gli sfinteri di quell'ano delizioso piano piano allentarsi e cedere alle mie spinte discrete. Ero quasi riuscito a far passare metà del pugno quando l'oste bussò con l'acqua calda. Ci ricomponemmo velocemente. Il soldato gli disse di posare a terra la ciotola e di andarsene, ma l'albergatore aveva intuito che qualcosa di piccante si stava svolgendo in quella camera e cercava di traccheggiare. L'ordine del soldato si ripeté perentorio e allora quello sia pur malvolentieri lasciò la stanza chiudendosi la porta alle spalle. Il soldato prontamente si sedette sulla ciotola che era abbastanza ampia per accogliere quel suo portentoso culetto e lo sentivi ansimare come una troia in calore alle carezze di quell'acqua caldissima. “Che fai?” chiesi. “Il tuo pugno è troppo grosso.” mi disse, “L'acqua calda aiuta gli sfinteri a dilatarsi e tu fra un po' riproverai a stuprarmi, vero, amore?” Era vero. Contento lui! Quel giochetto eccitava la mia fantasia in modo nuovo e incredibilmente piacevole. Infilargli un pungo chiuso nel culo facendolo mugolare come una troia in calore mi dava una sensazione di potenza che si rifletteva immediatamente sul mio fratellino. “Ecco, ecco! Sono pronto.” Si alzò e velocemente prese la posizione di prima. “Prendimi, amore; prendimi.” Ormai esperto, feci entrare velocemente una buona metà del pugno chiuso e quando sentii che anche l'ultimo sfintere aveva ceduto, mi fermai un attimo perché lo stupro fosse il più doloroso possibile. “Di chi sei tu?” gli sussurrai in un soffio nell'orecchio mentre lo mordevo sul collo leccandoglielo tutto. Ebbe appena il tempo di rispondermi “tuo” in un soffio, ansimando come un moribondo, che gli assestai il colpo di grazia penetrandolo fino in fondo. Gettò un grido disumano. L'ano ormai mostruosamente dilatato si stringeva ritmicamente e furiosamente sul mio braccio quasi fermandomi la circolazione sanguigna e come se volesse espellermi a qualsiasi costo, anzi a qualsiasi dolore; poi piano piano il poveretto si rilassò e mi permise di incularlo dolcemente col va e vieni che scioglie piano piano la stretta anale. Voleva godere da tutte le parti. Cercò la mia mano in modo che gli prendessi il pisello eretto e lo masturbassi mentre l'altra mano lo inculava. E continuava a gridare fino a quando l'albergatore non poté più fingere di non sentire. Aprì la porta e quando capì che ero praticamente ammanettato mi sollevò un po' e mi inculò a sua volta selvaggiamente. Aveva anche lui un pisello mostruoso che penetrandomi esaltò l'erezione già in atto e mi condusse a un piacere indescrivibile. Poi il trio si disunì per riunirsi di nuovo in ruoli differenti. Chissà dov'era Priapo quella notte! Ognuno di noi cambiò posizione per almeno cinque volte nel corso di quell'orgia a tre. E quando il gallo cantò annunciando il sorgere del sole, sfiniti dal piacere, ci accasciammo sul letto senza saper distinguere quali parti del corpo fossero le nostre e quali quelle degli altri. Il più lucido era l'albergatore che si allontanò per tornare subito con delle ampolle di satirio. “Beviamo!” disse e quel dolce liquore ci accompagnò nel sonno verso sogni deliziosi. Per tutta la notte e poco prima di svegliarmi mi apparve in sogno una donna bellissima con le sembianze forse di Quartilla che mi disse: “Non è bene confidare troppo nelle proprie forze e nei nostri piani perché la sorte segue percorsi tutti suoi imperscrutabili per gli umani. Domani di' al soldato di condurti con sé ad Ercolano se vuoi ritrovare ciò che hai perduto.” A ERCOLANO “A Ercolano? E perché?”, mi chiese la checchina. Non avevo voglia di dargli tante spiegazioni e perciò mentii spudoratamente. Fra me e quella checca sfondata era tutto un gioco di menzogne. Era, il nostro, uno strano intendersi attraverso bugie piuttosto che seguire le belle strade della verità. “A vedere il celebre tempio di Ercole. In Grecia non si parla d'altro. Non l'ha costruito Vitruvio?” “Ma quale Vitruvio? Quello lo hanno costruito i soldi di Lica che ora ci mangia alla grande.” “E quanti soldi avrà mai questo Lica per permettersi di costruire un tempio simile? Più di Trimalcione?” Il soldatino da culo fece spallucce e disse: “Trimalcione è un poveraccio di fronte a lui. Lica è un armatore che possiede più navi di tutte le flotte romane messe insieme. Pensa che quando l'imperatore decide di dare battaglia in mare lo convoca e chiede il suo aiuto. Lica ha tanti di quei soldi che non gli basterebbero cento vite, a lui e alla moglie, per mangiarseli tutti.” “E figli non ne ha?” chiesi, incuriosito. “Che figli? Lui è una checca peggio di me che con le donne non gli si addrizza proprio, neanche se un negrone nel frattempo se lo incula. E lei, bellissima, è una... strana, che rifiuta di fare figli fuori dal matrimonio. Il marito gli mette nel letto dei bistecconi che le invidierebbe perfino Venere, ma niente, lei non allarga le cosce neanche a pagarla. E' una specie di vestale che ha dedicato alla dea la sua verginità.” “Interessante!” esclamai; “Interessante? Vi porterò da loro: quelli cercano solo giovinetti belli come te. Se ti fai fare un pompino, Lica è capace di ottenere subito per te la nomina di questore, ma non a Ercolano... a Roma! Capisci?” Decisi che, sarebbe stato meglio andare subito da lui perché con un protettore simile avrei riacciuffato quei due traditori immediatamente. E altro che pompino ero disposto a farmi fare se mi si fosse addrizzato! Però quel cretino del militare aveva dimenticato di dirmi che Lica era vecchio più di Matusalemme, che aveva un occhio di vetro e che puzzava perché per chissà quale strano male l'urina gli si trasformava in sudore piuttosto che seguire la vie naturali. In compenso, come sperimentai personalmente, aveva conservato un forza erculea grazie alle aderenze divine col dio Ercole di cui aveva fatto costruire il tempio. Non so se sei mai stato ad Ercolano, lettore. Ercolano è un'enorme conchiglia che il mare ha depositato sulla terra, a poca distanza da Pompei, e che gli dei hanno abbellito con doni di inenarrabile fascino. Il foro, piccolo ma perfetto, giace in una specie di valle sulle cui pendici si adagiano case e templi baciati da un sole perenne. Gli abitanti ridono sempre perché le loro industrie fiorenti di ceramiche e tele ne fanno uno dei paesi più ricchi della Campania e se la loro vita non fosse tormentata dall'eterna paura del Vulcano che sta sempre lì lì per eruttare essi sarebbero più felici dei sibariti. Ma forse lo sono, i più felici del mondo, perché proprio quella paura rende la loro ricerca del piacere più stimolante e appagante. Mentre giravamo per la città il soldatino mi mostrava questa o quella bellezza, ma soprattutto mi magnificava la pinacoteca. “Ci dobbiamo andare prima di andare da Lica, se no quello non vi ci manda più.” “No, prima dobbiamo ritrovare Gitone.” gli dissi: “Che ci vado a fare nella pinacoteca se non posso concentrarmi e soprattutto se lui non è con me? La mia mente pensa sempre a lui e quindi a quel criminale di Ascilto. No! Troviamo prima loro!” “Ma no! - mi disse il soldatino - eccola, siamo arrivati! Distràiti un po': ci sono opere di un bellezza infinita che ti faranno dimenticare il tuo dolore. Dai, entra un attimo, mentre io saluto un amico mio che abita qui di fronte.”. A malincuore, ma entrai, da solo. Eumolpo. La pinacoteca era in un salone del tempio di Apollo, quello grande dopo le fontane. Mai visto tanti quadri tanto belli e tanto vari. C'erano opere di Zeusi non ancora rovinate dal tempo. Potei quasi toccare con mano i quadri di Protogene e i corridori di Apelle, ritratti su una sola gamba mentre con l'altra, già levata, si danno lo slancio nella corsa. Pittori così bravi che attraverso la perfezione con cui ritraggono i corpi sembrano raggiungere anche la forma dell'anima. Giove con sembianze di aquila rapiva in cielo Ganimede; Ila respingeva le lusinghe della ninfa che poi lo portò via ad Ercole; Apollo malediceva le sue mani per aver sbagliato il tiro e ucciso così Giacinto e in ricordo di lui intrecciava giacinti alle corde della lira. E io, in mezzo a tutte quelle immagini che ritraevano mitici amori efebici, gridai, come se stessi da solo in quel posto: “Anche gli dei dunque soggiacciono all'amore! Giove, non trovando in cielo amanti adeguati, è disceso sulla terra per le sue scappatelle. Che male faceva in fondo? E la ninfa che rapì Ila non l'avrebbe mai fatto se avesse saputo che poi se la sarebbe dovuta vedere con Ercole. Apollo fece rivivere in un fiore il giovinetto amato. Anche tutti gli altri racconti mitologici parlano di amori in cui non erano presenti dei rivali. E a me invece mi tocca di sopportare questo stronzo di Ascilto che in amore è più spietato di Licurgo e che appena mi distraggo mi sottrae Gitone.” Protestavo in questo modo a voce alta quando nella pinacoteca entrò un vecchio con i capelli bianchi e una faccia già segnata da una lunga vita, ma che però sembrava capace di lusinghe irresistibili, nonostante la trascuratezza del vestire. Era uno dei soliti intellettuali straccioni che i ricchi in genere detestano. Mi arrivò vicino e mi rivolse la parola senza tanti complimenti. Evidentemente faceva affidamento sulla sua vecchiaia. Mi disse: “Io sono un poeta e anche di un certo livello se si deve credere ai riconoscimenti che ho avuto e che adesso danno a cani e porci. E non chiederti perché sono vestito così: con la poesia non si mangia, lo sanno tutti. E quindi sciorinò dei brutti versi d'occasione: “Si sa: chi va per mare presto diventa ricco; chi va in guerra e combatte presto si farà d'oro; l'adulatore ipocrita se ne può star sdraiato su morbidi tappeti e chi scopa matrone ha più soddisfazione d'altri. L'ispirazione poetica va in giro povera e nuda, ahimè, e l'arte del poetare per non restare sola va in cerca di altre arti proprio come fai tu.” Poi riprese la sua arringa contro la corruzione operata dalla ricchezza e contro le persecuzioni a cui i ricchi sottopongono i poeti per tenerli aggiogati alle loro mense e dimostrare così che anche loro sono sottoposti al potere del denaro. Poi si fermò un attimo come per concentrarsi e concluse: “E' sicuro che c'è un legame naturale tra povertà e genio, ma per quanti sforzi io faccia non riesco a darne una spiegazione plausibile.” “Ma che mi frega della povertà o del genio?!” dissi, “Io vorrei che l'unico possibile nemico della mia continenza, cioè Gitone, si fosse mantenuto puro lasciandosi corteggiare solo da me. Invece è una vecchia checca più furba anche dei suoi magnaccia.” “Piano con le parole, giovanotto! Tutti gli innamorati gelosi parlano così, ma il tuo ragazzo a quanto ho capito non è più tanto ragazzo. Vedrai che torna da solo e magari sarai tu a non volerlo più perché si deve depilare ogni mattina.” Era indubbiamente un personaggio interessante e il suo aspetto ispirava una certa fiducia. Decisi di sfogarmi e di raccontargli le mie disavventure amorose per spiegargli i miei lamenti di prima. Mi ascoltò attentamente, cercò di ravvivare in me la speranza di ritrovare quei due infamoni e infine, forse per consolarmi, mi raccontò un divertente episodio della sua vita che aveva per tema l'amore efebico. Allora mi misi in guardia. Vuoi vedere che questo vecchiaccio ha intenzione di farmisi, anche se non sono più proprio un efebo? E incominciò: “Da giovane, andando soldato al seguito di un questore che era stato inviato in Asia, arrivati a Pergamo, presi alloggio presso una buona famiglia di quella città. Ci stavo come un dio in quella casa, primo perché era sommamente accogliente ma soprattutto perché il giovane figlio del mio ospite era di una bellezza mai vista prima. Avevo dunque deciso di farmelo, prima che il mio pretore ripartisse per qualche altra destinazione. Naturalmente senza che il padre si insospettisse. Perciò ogni volta che a tavola la conversazione cadeva sull'amore efebico io davo in escandescenze e pregavo i commensali di non insultare il mio pudore con quel genere di discorsi. La madre piano piano si fece di me l'opinione che io fossi un grande filosofo. Facile capire quali effetti sortirono queste mie ostentate prese di posizione. Cominciai ad accompagnare l'efebo a scuola, a programmare il suo studio, a dargli lezioni e ammaestramenti affinché non permettesse a nessuno di entrare in casa e di attentare alla sua castità. E una buona volta, mentre ci attardavamo nella sala da pranzo perché il giorno festivo aveva prolungato il gioco e la divertente conversazione della tavola aveva indotto in noi un certo torpore che ci tratteneva dall'andare a letto, all'incirca verso la mezzanotte mi accorsi che il ragazzo non dormiva ancora. Allora con un fioco sussurro, ma non tanto fioco che il ragazzo non mi sentisse, formulai questo voto per la dea dell'amore: 'Venere madre, se io ora bacerò questo ragazzo e lui non se ne accorgerà domani gli regalerò un paio di colombi.' Il furbetto incominciò a russare fingendo di dormire e consentendomi di dargli una lunga serie di bacetti con mio supremo godimento. E naturalmente il mattino successivo sciolsi il voto regalandogli una magnifica coppia di colombi. Poi, la prima notte che si ripresentò l'occasione alzai la posta: 'Se potrò accarezzargli a lungo il culetto senza che lui se ne accorga, domani in cambio gli regalerò due superbi galli da combattimento.' e restai in attesa. Il ragazzo allora si avvicinò di sua iniziativa, temendo, credo, che mi fossi addormentato. Placai subito la sua ansia saziandomi di quello splendido corpo, ma senza osare di più. Quale fu la sua gioia quando la mattina seguente mi presentai con i galli promessi! Terza notte, solita occasione favorevole. Il mio desiderio ormai sfrenato mi spinse a chiedere il massimo sussurrando il mio voto proprio all'orecchio di quel furbetto che dormiva per modo di dire. 'Dei immortali, ascoltatemi, se riuscirò a strappare a questo bellissimo ragazzo addormentato la piena intimità, ciò che io desidero più di ogni cosa al mondo, però senza che lui se ne accorga, domani gli regalerò in cambio uno splendido puledro macedone. Sembrava che fosse sprofondato in un coma irreversibile. Mi riempii le mani delle sue tettine ancora implumi, mi incollai alle sue labbra baciandolo fino a restare senza fiato e alla fine lo girai e colsi quel fiore a cui tutta la mia strategia aveva teso fin dall'inizio. La mattina presto era già sveglio e pronto in camera sua a ricevere il premio promesso. Già, ma procurarsi due colombe o due galli è facile; il prezzo di un puledro macedone invece andava molto oltre le mie possibilità e poi avevo paura che un regalo così vistoso potesse insospettire i genitori. Passeggiai a lungo prima di raggiungerlo, poi anche questa volta decisi di tentare il tutto e per tutto. Niente puledro, solo un bacio! Al che lui mi fa: “Maestro, il cavallo?” Era la fine. Mi rassegnai. Però in seguito inopinatamente il ragazzo mi diede modo di riconquistare le sue simpatie. Dopo vari giorni di mutrie per me insopportabili, ecco che una notte si ripresenta l'opportunità di potergli parlare senza essere sentito dagli altri. Il padre russava e allora io incominciai a supplicarlo di fare la pace e di concedermi quanto mi aveva dato anche con suo piacere e insomma tutte le parole più adatte che un desiderio scatenato può suggerire. Irremovibile ad ogni mia pausa di attesa mi ripeteva rabbiosamente: “Dormi o sveglio mio padre!”. In certe battaglie però il desiderio è uno stratega infallibile. Mentre ancora una volta mi ripete rabbioso: “Dormi o....” gli salto addosso e gli strappo, ma non è che si difendesse in modo tanto convinto, la gioia suprema. Il mio colpo di mano, ma dovrei dire diversamente, non gli dispiacque affatto. Colse l'occasione per lamentarsi a lungo e per rimproverarmi. Ciò che gli dispiaceva di più era che gli avevo fatto fare una brutta figura con i compagni con i quali si era vantato del puledro che non gli avevo regalato. Dopo un po' di lamentele sussurrate quasi stando fra le mie braccia, inopinatamente concluse: “Io non sono un imbroglione come te. Se vuoi possiamo farlo ancora.” Facemmo la pace alla grande e dopo essermi congiunto con lui altrettanto alla grande mi addormentai ormai rasserenato in tutti i sensi. L'efebo, come tutti quelli della sua età, aveva una gran voglia di farsi fare e, non accontentandosi di quella splendida replica, mi svegliò e mi sussurrò all'orecchio: “Non vuoi nulla?” La cosa non mi era ancora del tutto sgradita e, tra sbuffi e sudore, gli diedi quello che voleva ripiombando subito in un sonno profondo. Ma era passata forse un'ora quando sentii di nuovo la sua mano che mi vellicava la nuca. Aprii gli occhi e lui: “Lo facciamo un'altra volta?” A quel punto non ce la feci più e gli dissi: “Senti: o dormi o sveglio tuo padre!” La guerra di Troia. La favola mi tirò sù e allora incominciai a consultare il saggio poeta sulle date dei quadri e su alcuni soggetti che non capivo bene e poi, una parola tira l'altra, il discorso andò a finire, come era prevedibile, sulla decadenza della cultura ai giorni nostri e in particolare sulla pittura che era ormai sparita anche dalle case più ricche. “L'avidità di denaro ha rovinato tutto. Una volta gli artisti si infischiavano del denaro e pensavano soltanto a lasciare le cose belle, da loro create, alle generazioni future. E non solo gli artisti, anche i filosofi e gli scienziati. Democrito passò tutta la vita a fare esperimenti su piante e minerali per scoprirne le virtù terapeutiche; Eudosso la passò tutta su una montagna per scoprire la meccanica dei movimenti dei corpi celesti; Crisippo assumeva infusi di erbe particolari per aumentare le capacità percettive della sua mente. E gli scultori? Lisippo morì di fame per potersi dedicare completamente a perfezionare le riproduzioni del corpo umano invece che vendersi alle richieste volgari dei ricchi e dei potenti; Mirone non trovò seguaci, lui che sapeva infondere l'anima nelle creature che scolpiva. Noi oggi invece, tra fiumi di vino e stuoli di puttane, non ci interessiamo neanche al bello che le arti hanno già prodotto. E contro la moralità antica, impariamo e poi insegniamo solo dissolutezza e vizi. Dov'è finita la dialettica? Dove l'astronomia? Dove il sapere una volta inseguito da folle di amatori? Chi si sogna più di entrare in un tempio per chiedere agli dei la capacità di un buon oratore? o di essere un buon filosofo? Pensa che ormai a Roma mica chiedono agli dei la salute del corpo e dell'anima. Macché. Pur di ascendere al Campidoglio promettono doni a tutti: se gli muore un parente ricco o se troverà un tesoro o se arriverà senza inciampi ad ammucchiare trenta milioni di sesterzi. Perfino il senato, che dovrebbe essere il custode della moralità promette oro a destra e a sinistra e corrompe la gente rubando le elemosine che racimola con una cassetta esposta nel tempio di Giove. Non c'è da stupirsi dunque se la pittura è finita come è finita, visto che la gente ammira più la bellezza di un lingotto d'oro che quella di quegli imbecilli di Apelle e di Fidia. “Vedo che ti piace molto quel quadro: rappresenta la conquista di Troia da parte dei Greci. Tu sai come andò, vero?” E senza aspettare la mia risposta cominciò di nuovo a sciorinare versi: Il decimo anno “Già da dieci anni fra tristi presagi, contrastanti fra loro, dei Troiani insidiavan la fede ch'essi avevano nei pronostici oscuri di Calcante il nero dubbio e l'incertezza atroce, quando i Greci obbedienti al dio di Delo tosando d'Ida le cime boscose fanno d'alberi un mucchio da portare sulla spiaggia di Troia e costruire il cavallo fatale alla città. S'apre il suo enorme ventre e in sé gli oscuri recessi accoglie pronti a contenere le schiere greche che per ben dieci anni l'ira e il furore in campo hanno temprato. L'ampio ventre dai Greci è costipato del cavallo che in voto han dedicato agli dei... e noi illusi che credemmo di liberarti, Troia, dal nemico e dalle mille minacciose navi: questo leggevi nella scritta incisa col ferro su di un fianco del cavallo e questo confermò quindi Sinone, genio del male e al male ammaestrato. Già il popolo infelice dei Troiani, spalancate le porte e senza guerra, s'avvicina al cavallo per vedere esaudito l'auspicio della pace. Lacrime ignare rigano quei volti, lacrime che alla gioia s'accompagnano. Laocoonte Il timore le asciuga e infatti il sacro del dio Nettuno sacerdote arriva con i capelli sciolti e tutto il popolo assorda coi suoi gridi disumani. E' Laocoonte: la sua lancia sferra e il cavallo colpisce, ma il destino raffrena la sua mano e indebolito il colpo torna indietro rafforzando la fede che ormai il popolo in sé nutre. Colpisce ancora la sua mano invalida senza alcun risultato ma, lì dentro chiusa, la meglio gioventù dei Greci freme e mormora insieme, mentre quella mole di legno sembra sospirare non per il suo ma per l'altrui timore: andava quella schiera prigioniera a imprigionare Troia e tutta quanta la guerra decennale a terminare con un inganno mai veduto prima. I serpenti Altri prodigi a questo si aggiungevano: da Tenedo rocciosa enormi gorghi s'alzaron verso il cielo ma silenti vennero verso Troia più di quanto fanno in un mare calmo onde serene se nella notte senza luna i remi insieme con la chiglia cautamente lo fendono ed a lor l'acqua risponde con lamentoso flebile sospiro. Noi ci volgemmo e i gorghi si mutarono in due serpenti che spingevan l'onde verso le rocce con due spire enormi e come fanno le navi in alto mare suscitavano schiume spaventose ai loro fianchi e le code squarciavano l'acqua con dei rumori impressionanti e le creste fiammanti al par degli occhi spuntavano dall'acqua e uno splendore accecante la piana pervadeva. I figli di Laocoonte Sbigottimmo perché sopra la spiaggia stavano in sacre bende i due figlioli del sacerdote Laocoonte come impone il rito Frigio ai suoi cultori. Con le piccole mani i due fanciulli si copron gli occhi e poi con generoso fraterno slancio invano si proteggono l'un l'altro, ma la morte inesorabile li rapisce che ognuno paventava per la morte dell'altro inutilmente. Il padre volle un altro lutto ancora cercando di aiutarli disperato. I due mostri assalirono anche lui e lo misero a terra e sull'altare sola vittima giacque il poveretto. E violata ogni regola del culto la città ch'era ormai predestinata perse prima di tutto i propri dei. La strage E già la luna piena dispensava il suo raggio splendente conducendo in cielo le altre stelle quando i Greci uscendo dalla pancia del cavallo se ne vanno tra i miseri Troiani sprofondati nel sonno ed ubriachi. Fan prova delle armi i capi, come quando il puledro tessalo, disciolto dalle briglie, la testa in alto scuote e la criniera, prima di lanciarsi nella sua corsa libera e sfrenata: sguainate le spade, i loro scudi brandiscono gagliardi ed alla strage muovono inesorabili e a quel punto chi sgozza gli ubriachi agevolando il passaggio dal sonno nella morte, chi si fa luce con le tede accese dai fuochi degli altari e chi bestemmia invocando gli dei della città contro la città stessa ormai perduta.” I fedeli che si erano attardati nel portico, non potendone più, incominciarono a prenderlo a sassate. Ma Eumolpo che sembrava già sapere la conclusione delle sue declamazioni si coprì tempestivamente la testa col mantello e scappò via. Io, temendo di essere preso a sassate anch'io, seguo d'istinto la sua fuga finché non arrivammo sulla spiaggia. E una volta arrivati fuori dalla portata dei lanci gli dico: “Ma insomma, la smetti con questi versi? Ci conosciamo da meno di due ore e hai parlato più in versi che in prosa.” Mi rispose: “Ragazzo mio, sono abituato a questo trattamento. Ma siccome vedo che anche tu non ami la poesia, da adesso in poi mi conterrò.” “Ecco. Bravo. Così va bene. Se parli come mangi ti invito a cena a casa mia.” “A casa tua? E dove?” “Non è proprio casa mia. E' un alberghetto qua vicino dove si mangia bene e si spende poco.” Come dio volle ci arrivammo. E debbo dire che nonostante la fuga e la lunga corsa quel vecchio era ancora vispo come un grillo e si preparava a mangiare alla grande. Pensai che era meglio non assecondarlo troppo. Visto mai che me lo ritrovavo stecchito fra le braccia!? Perciò entrato nella cucina ordinai alla cuoca di preparare una cenetta leggera per due. Ero inspiegabilmente felice! Eumolpo era un conversatore infaticabile. Volle sapere tutto di me, di Ascilto, di Gitone e soprattutto tutti i particolari della maledizione di Priapo. “Allora, se non ti piacciono le donne, sei soltanto passivo.” “Ma no!” gli risposi, “Con Gitone di tanto in tanto mi riesce ancora e con Ascilto, se vuole, sono passivo, ma ora senza entrambi sono rovinato.” Me ne stavo in piedi perché la cena non veniva ancora servita: Eumolpo mi si avvicinò senza farmi capire le sue intenzioni, mi prese alla vita, mi girò verso di lui e me lo mise in culo, senza tanti preamboli e solo dopo averlo umettato con due dita piene di saliva. Mi fece un male cane, ma non feci un fiato per non farmi sentire dalla cuoca. Non so quanto tempo durò, ma a me sembrò un'eternità. E provai un piacere mai provato prima, da passivo. Mi aveva sbragato sulla tavola e mi chiavava magistralmente. Io speravo di liberarmi presto, visto che era vecchio; invece il vecchio era resistente come una quercia e sfruttava tutti i miei tentativi di resistenza per assestarmelo meglio. Che inebriante supplizio! Che gusto, farlo senza poter emettere neanche un sospiro, per non farsi sentire dalla cuoca intenta ai fornelli e lenta come nessun'altra mai. Mi venne dentro, il porco, e per un po' sembrò placato, ma, visto che la cuoca non arrivava mai tentò di nuovo di incularmi. Allora gli dissi perentoriamente in greco, in modo che quella non capisse, “Smettila o lo dico alla cuoca…. e annullo l'invito a cena.” e rivolsi l'indice verso la cucina. Pensai che mi avesse capito dalla mimica e invece quello parlava greco meglio di me e in greco mi rispose: “Se non ti è piaciuto me ne vado. In caso contrario, ti voglio per sempre. Mi sono innamorato di te appena ti ho visto in pinacoteca e anche prima di farti mio, adesso; ma se mi dici di non volermi più, esco e mi uccido perché tu sei forse l'ultima cosa bella che la vita mi concede.” A modo mio, mi ero innamorato anch'io di lui, profondamente, ma concedermi di nuovo non era possibile tanto era il male che sentivo; perciò gli risposi sempre in greco: “Anch'io ti amo!” e così dicendo gli presi il cazzo con la mano sotto la tavola per rassicurarlo. E ogni volta che tentavo di lasciarglielo lui mi rimetteva la mano al suo posto. Che resistenza, il vecchietto! Chi l'avrebbe mai detto? Alla fine sudavo più io a masturbarlo in quella scomoda posizione che lui a godersi il servizio. Per fortuna alla fine la cuoca arrivò. Lo ospitai per la notte come avevo fatto per il soldatino ormai perso di vista e finalmente le instancabili fatiche d'amore a cui Eumolpo mi sottopose per ore alla fine indussero in me il sonno e, momentaneamente, l'oblio di Gitone. Il ritrovamento di Gitone Il mattino successivo quando mi svegliai Eumolpo era già in piedi e mi disse subito: “Andiamo a cercare i tuoi amici?” Quel sonno profondo mi aveva tolto la memoria. “Ah si, certo!” Uscimmo per Ercolano che Eumolpo conosceva pietra per pietra e, guidato da lui, cominciammo a cercare i due furfanti fuggitivi. Non credevo mai che sarei riuscito a trovarli e invece all'improvviso la solita apparizione di Gitone, più bello di sempre e più innamorato di sempre. Stava appoggiato a un muro con tanto di asciugamano e striglia come se facesse l'inserviente in una sauna prestigiosa. La cosa non gli doveva andare gran che a genio. Non sembrava neppure che mi riconoscesse. Allora mi avvicino e lui quando mi vede esplode nel suo solito sorriso radioso che esprimeva sempre una gioia piena e sincera: “Perdonami, Encolpio! Ora che non ci sono armi in giro ti posso dire tutta la verità. Puniscimi pure con la massima severità per la colpa che ho commesso lasciandoti solo, ma portami via da quel bandito di Ascilto, crudele e sanguinario: sarà bello per me morire per tua volontà pur di sfuggirgli.” Gli dissi di smetterla subito con quella lagna per non far capire a nessuno gli affari nostri e, gettati via asciugamano e striglia, lasciamo Eumolpo che intanto, guarda caso, stava declamando versi a dei poveri malcapitati dentro la sauna, per cui noi ce la svignammo attraverso uno scomodo pertugio naturale, sporco e puzzolente, dal quale però potemmo correre verso il mio alberghetto. Nessuno dei due per un lungo periodo poté parlare: io, perché non sapevo da dove incominciare, e lui, perché irrefrenabili singhiozzi gli impedivano di parlare. Alla fine mi decisi: “A quale umiliazione hai sottoposto l'uomo che ti ama più della sua vita! Che ferita gli hai inferto nel cuore che mi sembrava incurabile e che invece adesso appena ti ho visto si è rimarginata. Ia ti amo, lo vuoi capire o no? E tu ti sei dato a un bastardo che ti ha preso con la forza. Me la meritavo questa vergogna, di'? Me la meritavo?” Quando capì che il mio amore era sincero e profondo strizzò quei suoi occhi splendidi come faceva sempre quando la sua mente capiva: stava elaborando la difesa. Allora continuai: “Io non ho chiesto nessun intermediario per dirimere la mia contesa d'amore, ma adesso, visto che ci siamo ritrovati, mettiamoci una pietra sopra e non rivanghiamo più il passato; a patto che tu mi prometti eterna fedeltà, altrimenti davvero questa volta faccio uno sproposito. E lui: “Encolpio, cerca di ricordare bene il giorno che ci siamo separati. Chi ha tradito chi? Non sei stato forse tu ad abbandonare la contesa impaurito dalla violenza di Ascilto? Io per conto mio lo ammetto: di fronte alle armi sono debole e allora pur di evitare quello scontro che sicuramente sarebbe finito male ho preferito rifugiarmi dal più forte.” Era proprio una creatura divina! Lo abbracciai con trasporto baciandolo a lungo per fargli capire che il mio amore per lui non era mai morto. Il ritrovamento del fantolino Il giorno successivo uscimmo di nuovo per Ercolano insieme ad Eumolpo che era rientrato a notte fonda ma si era levato di buon ora come un giovanotto nel pieno vigore dell'età. Bighellonammo tutto il giorno per Ercolano e all'improvviso ci si para davanti il soldatino che avevo lasciato in casa del suo amico davanti alla pinacoteca. “Ehi, che fine avevi fatto? Hai ritrovato i tuoi amici?” “Si, uno almeno.” Il soldato già non mi ascoltava più. Guardava estasiato Gitone e non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. “Ehi tu!” gli dico, “Smettila. Non è roba per te. Piuttosto perché non ci porti da Lica che stiamo morendo di fame?” “Ma certo! Subito. Gliel'ho già detto che sei qui e ti aspetta.” Gli indicai Gitone: “Ma figurati! Sarà felice di accogliere anche lui.” A casa di Lica. Lica era sulle scale del tempio di Ercole che era di proporzioni enormi e di un'imponenza straordinaria. Quando vide il soldato gli corse incontro e finalmente venni a sapere il vero nome di quella checchina sfrenata. Si chiamarono con nomi femminili “Lichina!” “Gaiuccia!” e si baciarono delicatamente sulle guance e poi sulla bocca accarezzandosi lungo la schiena e lodandosi il culo reciprocamente: “Come ti mantieni bene! Che fai? Cazzi, non ne prendi più?” Insomma fu tutto un complimentarsi sulle rispettive doti femminili. Ma Lica, Lica, non c'era proprio nulla di cui complimentarsi. Era di una bruttezza indescrivibile. Non aveva solo un occhio di vetro ma anche un accentuato strabismo che ne faceva una specie di mostruoso Polifemo, anche per la sua statura del doppio superiore al normale. “Suvvia, presentami questi tuoi amici, Gaiuccia. Sono tutte signorine come te?” “Non saprei. Coi tempi che corrono non ci si capisce più nulla, chi è frocio e chi no. Fanno tutti finta che gli piacciono le donne, ma poi di riffa o di raffa, se capita, lo pigliano in culo. Poi gli farai tu un esame, no, Lichina? Io so solo che hanno bisogno di aiuto. Starnutiscono per la fame. Dagli subito qualcosa da mangiare.” Quando Lica si accorse che io e Gitone non ce la facevamo neanche a salire i gradini del tempio, ci si avvicinò, aprì le sue manone facendone due sedili, ce le infilò da dietro tra le gambe e ci portò su al tempio senza alcuno sforzo. Naturalmente palpandoci brutalmente per darci, diciamo così, il benvenuto. Noi non avemmo la forza di ribellarci. Lica spalancò con i piedi la porta della sua casa che stava affiancata al tempio e, oh meraviglia! Non ti dico altro, lettore: quella di Trimalcione era una capanna al confronto. File interminabili di colonne! Un vero e proprio lago a posto della piscina con tanto di pastori che pascevano pecore sui suoi bordi perché Lica quando voleva latte o formaggio dovevano essere freschissimi. Uno stuolo di schiavi tutti vestiti uguali e tutti belli si presentarono e gli si inginocchiarono davanti. “Avvertite subito la padrona, belli! Ditele che abbiamo ospiti due greci e che c'è un pischelletto che sembra fatto apposta per lei.” Poi non contento cominciò a chiamare lui stesso la moglie: “Trifena! Trifenaaa!” La moglie non tardò ad arrivare. Era proprio una vestale: esile e sottomessa, parlava a voce bassa facendolo arrabbiare perché, come se non bastasse, era anche un po' sordo. Quando vide Gitone fece cenno al marito di metterlo giù e rimase estasiata davanti alla bellezza ormai diafana dell'amor mio morto di fame. Lei, da madre mancata, ordinò agli schiavi di portargli subito qualcosa. Uno di loro, chissà come, aveva in mano due pere coscia; gliele diede; lei le offrì a Gitone che, voi non ci crederete, le inghiottì intere come se fossero pilloline medicinali: tanto la fame gli aveva dilatato le fauci all'amore mio affamato. Dopodiché, ovviamente, cadde a terra non sapendo neanche lui che cosa gli stesse accadendo. Trifena fece un gesto con la mano e gli schiavi accompagnarono lei e l'amor mio svenuto nelle stanze da letto che li inghiottirono e non li rivedemmo che l'indomani. Lica quindi mi depose, si girò verso di me e alzandomi il gonnellino davanti mi disse: “Fammi vedere come ce l'hai!” La mia dotazione anche a freddo era molto abbondante, perciò vidi Lica impallidire dall'emozione e contemporaneamente esclamare con una battuta che doveva essere sempre la stessa in circostanze simili: “Piacere, Lica! E tu come ti chiami?” prendendomelo in mano. “Io mi chiamo Encolpio, ma lui non ha più nome da quando il dio Priapo lo perseguita.” Al nome di Priapo Lica ebbe un sussulto. E litaniò: “Salve, padre santo, divino Priapo.” Non era proprio questa la formula, ma lui evidentemente conosceva bene solo le preghiere per Ercole. “Vieni, vieni, bello! E che ti ha fatto Priapo? Dimmelo, sù, dimmelo!” E intanto mi tirava tenendomi per il pisello fino a quando non arrivò nella sua stanza da letto dove trovammo sdraiati nei vari triclini almeno una ventina di schiavi maschi, tutti possenti e tutti col cazzo in erezione pronti a soddisfare le voglie di quella vecchia checca pazza che più pazza non si può. Ero perduto. Quando Lica si sarebbe accorto che il mio bischero, pur così grosso, davvero non funzionava, mi avrebbe fatto uccidere; perciò cominciai di nuovo a pregare Priapo di assolvermi almeno in quella circostanza in modo da potermi salvare la vita. L'eccitazione della vecchia maiala intanto era già cresciuta oltre ogni dire. Mi aveva sollevato fino a portare il mio bischero all'altezza della sua bocca e cominciò a succhiarmelo avidamente come fosse il capezzolo della madre quando era bambino. Necessità fa virtù: “Non hai del satirio?” Gli chiesi. “Il satirio! Che ne sai tu del satirio?” “L'ho bevuto a Pompei nel tempio di Priapo ma anche a casa di Trimalcione.” “Ah sì? Figurati se quel cafone ripulito non faceva sfoggio delle ultime novità!” “Che ci fai col satirio? Questo non ti si tiene in piedi neanche con le stampelle!” E come se i due schiavi più vicini avessero capito subito le sue intenzioni, si presentarono con due fiale tutte d'oro e Lica mi disse: “Bevi, scimunito. Vedrai. Altro che satirio!” Obbedii soltanto per la paura di perdere la vita. Ma capitò una cosa che poi, lasciato Lica, non potei sperimentare mai più. Improvvisamente i miei occhi si appannarono e vidi Gitone; le mie orecchie ebbero dei rumorosi tintinnii entro i quali mi pareva di udire la voce di Gitone; stringevo un culo che era lì davanti a me e mi pareva di stringere quello di Gitone. E che baci appassionati mi dava, l'amore mio! E che abbracci! L'amore mio era dunque tornato a me e Priapo mi stava facendo la grazia di farmi guarire; ridiventai il toro di sempre e sentivo la voce dell'amore mio che in un latino un po' strano gridava “Prehèndeme, prehèndeme, càrpeme col tuo manicon de tauro!” Non mi aveva mai parlato così, Gitone: evidentemente il ritorno alle vecchie abitudini amorose gli ispirava questo linguaggio da checca burina che cercava di eccitare l'amante con inconsuete trovate linguistiche. Non so quante volte me lo inculai. Poi caddi in un sonno profondo che mi lasciò soltanto nella tarda mattinata del giorno successivo. Quando mi svegliai giacevo su un letto pieno di cuscini, circondato da dieci schiavi, pronti ai miei ordini, che già mi avevano lavato e rivestito di abiti lussuosissimi. Ai piedi del mio letto era seduto Lica in lacrime che mi accarezzava la mano e mi guardava estasiato col solo occhio buono che aveva, mentre con l'altro, diretto a destra in alto, sembrava ringraziare il cielo della grazia ricevuta. Era mostruoso, quell'energumeno, e io non capivo niente: perché stava lì? Perché piangeva? E a me, che cosa mi stava capitando? “Dov'è Gitone?” gli chiesi. “Eccolo!” mi disse e mi indicò il ragazzo che né più né meno di me se ne stava sdraiato su morbidi cuscini, lui però sotto lo sguardo amoroso di Trifena. “Mia moglie si è innamorata di lui! Ma io non sono geloso perché tanto lei non si fa scopare da nessun maschio, molte volte neanche da me, che poi maschio...” Quella battuta lasciata in sospeso mi fece girare la testa. Quel quadrilatero non mi piaceva affatto, ma quella vita era piena di divertimenti e soprattutto piena di lusinghe. “Diventerai il segretario dell'imperatore. Vedrai. E potrai tenere sempre con te Gitone. E anche io e Trifena verremo a Roma per aiutarvi. Cesare è molto esigente. E noi dobbiamo consigliarvi su tutto quello che dovrete fare.” Solo la sera, dopo cena, e solo a me, venivano offerte le due fiale di quel dolce liquore che Lica sosteneva essere migliore del satirio. “Bevi!” mi ordinava perentoriamente. Io bevevo ed era come se Gitone si spostasse dal suo letto nel mio per offrirsi col suo latino malandato da checca infojata pronta a tutte le mie voglie. Che pacchia! Passavano i giorni. Ascilto e Gaio, cioè “Gaietta”, il soldatino da culo, non si sa come, anzi lo si può capire bene, non si vedevano più in giro. Intanto io e Gitone ricevevamo in continuazione messi imperiali che dopo lunghi colloqui si complimentavano con lui per la bellezza e con me per il mio latino forbito, visto che ero greco, e più di uno di loro mi garantiva che Cesare prima o poi mi avrebbe convocato per inserirmi nella segreteria del suo ministero degli esteri. Ma un pomeriggio afoso di agosto, mentre me ne stavo stravaccato sul mio letto ed almanaccavo sul mio radioso avvenire ecco che vengo colpito ripetutamente da olive verdi evidentemente colte da un albero dell'orto antistante la casa. Mi giro e vedo Ascilto che mi fa segno di tacere, poi si avvicina cautamente e mi fa: “Ma sei impazzito? Per quanto tempo ti vuoi scopare ancora quel mostro?” “Quale mostro?” “Lica! Quello ti droga con satirio africano, potente al punto da toglierti la ragione per ridarti il cazzo e ti fa credere di avere tra le braccia Gitone mentre è lui che ti stai inculando.” “Sei il solito vigliacco invidioso del nostro amore.” gli dissi. “No. Ha ragione Ascilto!” Era la voce di Gitone che questa volta mi aveva raggiunto realmente e che mi spiegò qual era l'incantesimo a cui quei due vecchi pazzi ci sottoponevano ogni notte. Improvvisamente si sentirono rumori di passi. Alla svelta ci demmo un appuntamento per l'indomani e l'indomani stesso organizzammo un piano di fuga, difficile da escogitare, difficilissimo da organizzare e ancora più difficile da mettere in atto. Ma con l'aiuto degli dei, ci dicemmo, anche stavolta saremmo riusciti a venir fuori dall'imbroglio che quel ricco sfondato aveva costruito sulle nostre teste a nostra insaputa. Nell'ora dell'appuntamento concordato, quando i due si presentarono con le fiale di satirio africano di ultima generazione io finsi di berlo e lo versai nella coppa di Lica e altrettanto fece Gitone con Trifena. E quando vidi che il mostro strabuzzava l'unico occhio buono mi sdraiai sul letto tutto nudo com'ero, tirai su le gambe in modo che l'ano salisse all'altezza alla quale di solito le donne hanno la fica e in un falsetto femminile molto discutibile cercai di imitare la voce di Trifena: “Vieni amore, vieni dalla tua Trifena. Facciamo un figlio, amore mio.” Il mostro già eccitato da quella ovrerdose di satirio mi si gettò addosso convinto di stare a scopare la moglie. Aveva un membro proporzionato al resto, enorme! Sentii un dolore insopportabile, ma strinsi i denti per non gridare già pregustando la libertà ormai a portata di mano. Non credo di essere stato più inculato in modo così violento e selvaggio, tanto violento e selvaggio che alla fine, benedetti tutti gli dei dell'Olimpo, quel mostro si accasciò come svenuto tra le mie braccia. Lo scansai con grande sforzo con il culo che mi bruciava in modo insopportabile e claudicando, ma di corsa, andai da Gitone. Una nuova fuga. Quel ragazzetto mi faceva innamorare sempre di più. Lo trovai che fingendo di essere Lica si stava scopando Trifena con un membro di cartilagine suina che la faceva godere come una maiala, scusate il gioco di parole mancato, e che la induceva a credere alla promessa che quell'angelo le faceva di volerla ingravidare a tutti i costi. Si capisce che con un membro finto poteva resistere all'infinito e quella porca che era a digiuno da anni ogni volta voleva ricominciare. Quando però vide me vicino al loro letto subodorò qualche inganno e cominciò a gridare, ma Gitone che aveva previsto quell'epilogo prontamente le sfilò il membro finto dalla fica e con quello la colpì due volte sulla testa con una violenza tale che credei che l'avesse uccisa. Invece solo tramortita Trifena perse i sensi e noi due ce la demmo a gambe verso un balcone che dava sul giardino e che veniva lasciato incustodito in quanto i guardiani venivano messi solo ai cancelli del giardino stesso. Mentre correvamo come per prendere la rincorsa verso la balaustra dissi scherzando a Gitone: “A me non mi scopi mai così!” E lui: “Parla con Ascilto: io sono la tua donna e basta!” Ascilto era sotto al balcone ad aspettarci. Con nostra grande sorpresa! Eravamo senza parole: “Come hai fatto ad arrivare fin qui?” “Ho corrotto i guardiani. Da queste parti si può comprare tutto. Mi sono prostituito a tutti e due e loro hanno accettato di prendere un colpo in testa per giustificare la loro guardia mancata.”, poi aggiunse: “Via, via, niente chiacchiere! Parliamo a Pompei. Adesso dobbiamo allontanarci il più possibile da qui.” Corremmo a perdifiato per tutta la notte per tornare all'albergo e raccogliere le idee, ma quando arrivammo, con mio grande piacere mi accorsi che ancora una volta avevamo seminato Ascilto. Dopo un po' arrivò invece Eumolpo spaventatissimo perché era sfuggito ad una specie di massacro nel foro: uomini, presumibilmente di Lica, avevano ucciso un giovane soldato e un altro che stava con lui e nel quale lui aveva creduto di riconoscere il nostro amico. Ascilto? Oh Ascilto, no! Non mi lasciare così. Io ti odiavo per via di Gitone ma ti amavo anche. Oh, amico mio, non mi lasciare, così bello, così giovane, oh no no! Gitone mi abbracciò piangendo anche lui convulsamente. E diceva tra i singhiozzi: "E l'altro sarà quel bel soldatino con cui si era eclissato." Povero Ascilto, povera Gaia.” Ma Eumolpo non ci si filava: era terrorizzato e non vedeva l'ora di lasciare Ercolano. “Andiamo, andiamo: si sta facendo tardi e potremmo non trovare più navi al porto. Perciò pagammo, raccogliemmo le nostre cose e quindi di corsa al porto di Ercolano per vedere se potevamo trovare un'imbarcazione diretta a Pompei. Edile. Ci disperdemmo per arrivare il prima possibile alla soluzione del problema e cercando informazioni per un eventuale nolo venimmo a sapere che nel porto di Ercolano era quasi costantemente ormeggiata una nave con sopra la statua di Iside, il piccolo tempio che ospitava la statua della dea e le sacerdotesse addette al suo culto. “E' vero. L'ho vista anch'io. Proprio sul ponte ha una statua della dea a grandezza naturale che mi ha rapito e sapete perché? Perché sembra che lo scultore abbia avuto me come modello. Quella statua è uguale identica a me.” Tutti ridevamo increduli e al tempo stesso divertiti, ma Eumolpo stava già elaborando il suo piano. “Tu, fannullone,” mi disse, “hai mai spinto sui remi?” “Per chi mi hai preso, vecchio?” gli dissi: “Io sono nato libero. Non so neanche cosa sia un remo. Se mai, armato, posso immobilizzare il capociurma e costringere i rematori a remare frustandoli e minacciandoli.” “Bene.” disse Eumolpo: “E' fatta. Andiamo subito al porto, studiamo i particolari della statua e facciamo in modo che Gitone si mascheri esattamente come lei, al resto ci penso io.” Ci disperdemmo tutti, in giro per il mercatino del porto, in modo da trovare quanto serviva per addobbare Gitone esattamente come Iside. Intanto avevamo scoperto che la sacerdotessa si chiamava Edile. Appena scese la sera, Eumolpo mi raccomandò di aspettarlo là sull'imbarcadero e poi chiese al capociurma se per favore lo faceva salire perché voleva adorare la dea. Il capociurma chiamò la sacerdotessa che venne fuori dalla stiva e chiese ad Eumolpo chi era e come osava fare una richiesta così inusuale. Eumolpo le rispose che c'era un motivo grave: “La dea è discesa in terra dal cielo e vuole che tu tolga via la statua perché da adesso in poi sarà lei a dover essere onorata sulla nave di Lica.” La sacerdotessa lo guardò come se fosse matto anche se abbastanza perplessa perché Eumolpo le aveva fatto il nome di Lica; così quando Gitone avanzò lentamente uscendo dall'oscurità e seguito da alcune straccione velate che Eumolpo aveva assoldato per pochi denari la donna rimase come folgorata. Cadde in ginocchio, cominciò a chiedere perdono alla dea per non aver creduto subito agli ordini di quel santo vecchio e piangendo la invitava ripetutamente a salire sulla nave. Gitone che era un attore nato con largo gesto mi invitò a “seguirla”; poi, una volta saliti sulla nave e gettata in mare la statua, prese il suo posto ordinandomi di arrestare il capociurma, ciò che feci agevolmente; poi ad Eumolpo di neutralizzare Edile che si era messa a gridare come una pazza e al militare, messosi al timone, di partire subito dando il ritmo ai rematori. La piccola trireme schizzò via dal porto e puntò dritta su Baia. Qui giunti, saccheggiammo la nave di tutto quello che potemmo e in particolare, Gitone, dei preziosi oggetti di culto della dea come legittimamente suoi; quindi sbarcammo dopo aver slegato la sacerdotessa a cui Gitone, sempre nella veste di Iside e in un falsetto androgino che suscitava un intenso orrore religioso, ordinò di tornare ad Ercolano e di riferire a Lica che aveva avuto un incidente di mare per cui aveva perso la statua e i suoi ori e le intimò anche di non rimettere mai più la sua statua su quella nave perché “lei” ogni volta che glielo avesse chiesto nei modi dovuti sarebbe discesa dal cielo per assisterla personalmente. DI NUOVO A POMPEI. Da Baia a Pompei ci volle un giorno. E a Pompei, ormai di casa, affittammo il solito alberghetto, tra le lacrime di Gitone, che si ricordava di Ascilto. Depositati i nostri bagagli, uscimmo e ci disperdemmo tutti per la città in cui Gitone era nato e alla quale perciò mi ero ormai affezionato. “Io vado al tempio a salutare i miei sacerdoti. Ci vediamo a cena all'albergo; chi arriva prima si dà da fare per ordinare un bel menu e festeggiare il rientro.” disse Gitone ed io ed Eumolpo bighellonammo un po' per vedere che aria tirava a Pompei in quel momento ma non notammo niente di particolare. La città sembrava essere tale e quale l'avevamo lasciata. La gente correva qua e là come se dovesse fare cose della massima importanza, gli indovini agli angoli delle strade promettevano a tutti un radioso avvenire, le prostitute si affacciavano con i loro volti imbellettati e tristi alla ricerca di qualche passante in vena di trastulli, sulle scalinate dei templi i sacerdoti bruciavano viscere di poveri animali sacrificati a questo o a quel dio. Solo tardi una lettiga lussuosissima si fece largo tra la gente preceduta da un cavaliere che urlava come un pazzo invitando a lasciar passare il console. Il console! Per quello che valeva quel console! Figuriamoci se aveva messo l'allarme perché doveva fare qualcosa di urgente! Si recava di sicuro da quella puttana che gli rubava anima e cuore e in continuazione; tutta Pompei sapeva che per quella ragazzetta aveva perso la testa, un vecchio come lui, e si stava rovinando tra le risate della gente. Eumolpo raccolse un sasso e glielo lanciò senza colpire la lettiga. “Sei impazzito?” gli dissi. “Non ti preoccupare. Un console ormai non ha più alcun potere, specialmente qui. Anche se lo avessi colpito farebbe finta di niente. Lo sa che davanti a Cesare un console è come un cittadino privato.” E così ci mettemmo a discutere animatamente della politica romana di cui noi greci capivamo molto poco, e alla fine gli diedi ragione perché per ovvi motivi non volevo contrariarlo. Ma ero stato troppo ottimista. Da lontano vedo due guardie e sento una di esse che dice: “Eccolo: è lui quello che ha tirato il sasso!” Fulmineamente Eumolpo scomparve. Vidi i due che correvano in una certa direzione, ma secondo me quella era esattamente la direzione contraria. Dopo un po' riapparve Gitone e dopo aver vagato qua e là decidemmo di tornare, noi due soli, in albergo. Gitone piace anche ad Eumolpo. Quando arrivammo era già notte e l'albergatrice aveva già provveduto ad eseguire le istruzioni per la cena. Ma ecco che bussa alla porta Eumolpo. Prendo tempo e chiedo: “Quanti siete?” E intanto mi metto a spiare da una fessura della porta se non abbia portato con sé qualcun altro. Resomi conto che era solo, lo faccio entrare alla svelta. Quello si mette seduto sul letto e avendo visto Gitone che stava apparecchiando fa: “Complimenti, Ganimede. Stasera ci divertiamo.” Quelle parole e tanto meno il nome del giovinetto amato da Giove non mi piacquero per niente e cominciai a pensare che avevo fatto entrare in casa un degno compare di Ascilto buonanima. Ma non fu il solo ad interessarsi a Gitone. Dopo un po' si unirono a noi due avventori di quell'hotel che l'albergatrice ci presentò come due personaggi importanti e che avrebbero potuto esserci molto utili, essendo noi stranieri. Due persone educate ma non insensibili al fascino di Gitone che Eumolpo continuava a corteggiare senza ritegno. E infatti, scolandosi un bel bicchiere di vino, insisteva: “Preferisco te ai bagni. Una cosa penosa. Solo vecchie checche in cerca di avventure. Nessuno che volesse ascoltarmi. Mentre mi stavo lavando ho rischiato di prenderle perché cercavo di recitare una bellissima poesia a quelli seduti sul bordo della piscina. Fui cacciato in malo modo come al teatro e allora incominciai a cercarti e a chiamarti: “Encolpio! Encolpio!” Mi rispondeva facendomi eco un tizio che tutto nudo chiamava invece te, Gitone. E naturalmente mentre una schiera di ragazzini attorniava me sfottendomi e facendomi il verso quello veniva accolto da una selva di applausi non per lui ma per il suo aggeggio che, perdinci, è così grosso da far apparire lui una sua povera appendice. Che roba, ragazzi! Con un aggeggio simile quello incomincia oggi e finisce domani. E infatti tutti si fecero avanti per aiutarlo. Un cavaliere romano, così dicevano, un tipo dal culo molto chiacchierato, come si dice, gli gettò addosso il suo mantello e se lo portò a casa per godersi tutto da solo quel po' po' di bottino. Quando si dice il potere! Lui poté uscire subito anche coi panni di un altro; io, i miei, non li avrei mai riavuti indietro dal guardarobiere se non avessi trovato un galantuomo che mi fece da garante. A quanto sembra è meglio spremersi i testicoli che le meningi a questo mondo.” Il fatalismo di quel vecchio rimbambito aveva una sola definizione: vesuviano. Se tu gli obbiettavi un rischio reale lui ti rispondeva sempre: “Eh, che vuoi che sia? E allora se erutta il Vesuvio!” Era incredibile come si stava godendo quella serata con due sbirri alle calcagna e due sconosciuti come convitati. Aveva, della vita, beato lui, una concezione assolutamente unica, e della morte non si curava affatto, come si vedrà nel prosieguo del mio racconto. Lui parlava parlava ammiccando sempre più o meno velatamente a Gitone e io cambiavo espressione ad ogni passaggio del suo racconto: se era lui a soffrire, gioivo io; se era lui a gioire, io soffrivo. Feci finta comunque di non conoscerlo né lui né gli altri personaggi delle sue storie e descrissi il menu della cena che quello scroccone professionale commentò in modo poco carino, al punto che stavo per cacciarlo via. Alla fine, accorgendosi lui stesso di star esagerando, si scusò e concluse col solito moralismo stucchevole: “Ormai tutto ciò che è permesso viene disprezzato come la peste e perciò gli animi, fuorviati da questo andazzo, cercano solo ciò che è illecito.” detto soltanto per ricominciare con i suoi versi: “L'uccello che catturano sul Caucaso e costa un occhio quindi ed i pennuti provenienti dall'Africa al palato sono graditi e invece l'oca bianca o l'anatra con penne variegate sanno di poveraccio al giorno d'oggi. Da spiagge lontanissime arrivato piace lo scauro e dalla scandagliata Sirte ci arriva il pesce che si compra al prezzo stesso a cui acquisteresti quello scampato ad un naufragio. Insomma le triglie oggi fanno schifo a tutti. Le amanti hanno la meglio sulle mogli e temono le rose la cannella. Il meglio è solo quel che è ricercato.” “Questo mi avevi promesso, disgraziato? Di continuare a far versi? Risparmia almeno noi che siamo tuoi amici. Perché se qualcuno degli ubriachi ospiti di questo albergo entra in sospetto che qui c'è un poeta, ci rovina tutti, non solo te, avvisando il vicinato. Non infierire e pensa a quello che ti è capitato alla pinacoteca o al bagno.” Gitone, che evidentemente è un ragazzo educato a dovere, mi rimproverò: “Non si tratta così una persona più anziana rischiando per di più di rovinare con inutili discussioni una tavola che ho apparecchiato con tanta cura.” Ed Eumolpo: “Beata 'a mamma che t'ha fatto! Bello e assennato: raramente accade. Perciò non credere di aver sprecato tempo a parlare così bene. Hai trovato l'amatore. Canterò coi miei versi le tue virtù. Sarò il tuo pedagogo e la tua guardia del corpo dovunque tu vorrai che io ti segua. Tanto Encolpio che fa: lui ama un altro!”: meno male che il soldatino mi aveva requisito la spada altrimenti avrei sfogato contro di lui tutto l'astio che covavo contro Ascilto, anche se morto, forse. Gitone capì al volo e uscì subito dalla camera per stemperare la tensione che quelle parole avevano creato. Mi calmai un po' e gli dissi, a Eumolpo: “Quasi quasi è meglio che parli in versi, disgraziato, se in prosa riesci a dire tutte queste sciocchezze. Lo devi capire: tu sei un volgare pedofilo e io sono un tipo fumantino. Come possiamo andar d'accordo? Quindi fai conto che io sia pazzo e assecondami, altrimenti è meglio che te ne vai da qui.” Eumolpo, più furbo di una volpe, si alzò come per obbedire al mio invito; e invece uscì al volo e chiuse fulmineamente la porta della camera con mia grande sorpresa. Lo sentii che toglieva anche la chiave e pensai che sarebbe andato subito da Gitone, quel porco, per spassarsela con lui. Ero proprio un cretino. Decisi di farla finita e di impiccarmi. I due ospiti non capivano bene cosa stesse accadendo e restavano lì imbambolati ad osservare. Alzai il letto appoggiandolo alla parte, ci legai la cintura e stavo per infilarmi il cappio quando la porta improvvisamente si aprì e i due rientrarono. Gitone non ne poteva più della mia gelosia ed esasperato cominciò a gridare dando contemporaneamente una spinta al letto per rimetterlo giù e impedirmi di compiere l'insano gesto. “Amore mio, come ti sbagli se credi di potermi precedere nel morire! Io te l'ho già dimostrato in casa di Agamennone: se non ti avessi ritrovato lì mi sarei gettato in un burrone. E per farti capire che la morte è un attimo se te la cerchi, guarda me ora.” Strappò al servitore di Eumolpo un rasoio e colpendosi la gola con due fendenti netti si accasciò al suolo. Io mi metto a gridare come un forsennato e tento di fare la stessa cosa con lo stesso rasoio. Ma Gitone era integro e senza ferite e io non sentivo alcun dolore per quelle che mi ero inferto: infatti il rasoio, che il servitore aveva già rimesso nella custodia era senza filo perché serviva per far esercitare gli apprendisti. Per questo Eumolpo e il suo servitore non si erano mossi né quando Gitone né quando io avevamo messo in atto i rispettivi insani gesti. Per il gran casino l'albergatore si insospettisce, arriva con una portata e incomincia a insolentirci col sospetto che volessimo svignarcela senza pagare. Eumolpo non trovò di meglio che mollargli uno schiaffone. Quello già mezzo ubriaco per i numerosi brindisi offertigli dagli altri avventori gli lanciò contro una brocca di terracotta, lo centrò in pieno sulla fronte e fuggì via a precipizio dalla camera. Eumolpo si mette ad inseguirlo dopo aver afferrato un candelabro che era a portata di mano. Un gran parapiglia: gli schiavi, gli avventori privati, noi della camera, insomma tutti, scateniamo una rissa in piena regola della quale questa volta io approfittai per chiudere fuori Eumolpo e trattenere invece Gitone, col quale, dopo aver finito di cenare, me la spassai per tutta la notte. La battaglia di Eumolpo. Il povero Eumolpo, chiuso fuori, fu circondato dagli schiavi della cucina: uno gli brandiva davanti agli occhi uno spiedo fumante, un altro prese posizione di combattimento con un forchettone da macelleria, una vecchia laida e cisposa, con un vecchio grembiule lercio, gli aizzava contro un enorme cane tenuto al guinzaglio. Ma Eumolpo si difendeva bene. Il candelabro teneva lontano tutto quell'esercito, cane compreso. Io e Gitone guardavamo a turno da una fenditura della porta, apertasi quando si era rotta la serratura. Io gioivo quando Eumolpo le prendeva; Gitone invece, sensibile, l'amore mio, mi implorava di aprire la porta e di andare a soccorrerlo. Allora, siccome ero ancora pieno di rabbia contro quel fottuto pedofilo persi la pazienza anche con Gitone e gli mollai un cazzotto in testa colpendolo con le nocche. Lui quasi cadde sul letto e si mise a piangere e io tutto solo mi saziai dello spettacolo delle botte che prendeva Eumolpo. Per sfotterlo gli consigliavo una transazione legale, previo consulto di un buon avvocato, quando arrivò, avvisato per tempo, il padrone della locanda, un tale Bargate che a quanto pare conosceva Eumolpo. Costui cominciò a inveire contro quella torma di ubriaconi e di schiavi fuggitivi ordinando loro di astenersi da quell'ignobile attacco al più nobile dei poeti viventi: “O dolce labbro di Calliope, come osano questi avanzi di galera recarti offesa? Come osano inscenare questa rissa ignobile? Non sei tu Eumolpo, il redivivo Omero? “ E quando si fu accertato della esatta identità del grande poeta, continuò: “La mia donna mi tratta come uno stuoino e mi disprezza. Perciò, per favore, scrivimi un'invettiva contro di lei e svergognala, quella bagascia.” Ad Eumolpo sembrò di sognare. Quando mai era accaduto che gli si chiedessero dei versi in commissione? Esitò per far intendere a Bargate che voleva essere pagato, ma quello che aveva già previsto tutto, più per allontanarlo e por fine alla rissa che perché avesse veramente bisogno di quei versi gli mollò un po' di monete e se ne andò. Ed Eumolpo che già aveva cominciato “Tu sei / come la vipera / che mi avvelena / l'anima; / tu sei ….. ecc.” rimase con l'ispirazione a mezzo per la fortuna di quello sconsiderato che sarebbe stato definitivamente lasciato dalla moglie se le avesse fatto leggere i versi di Eumolpo. Subito dopo ecco che entra nella locanda un banditore accompagnato da una guardia e da un piccolo codazzo di gente. Il banditore, scuotendo una torcia che faceva più fumo che luce lesse questo bando: “Alle terme poco fa si è perduto un ragazzo di nome Gitone, facilmente riconoscibile perché giovanissimo, bellissimo e riccioluto. Ci sono mille sesterzi per chi lo riconsegnerà al suo amico.” E indicò Ascilto che stava poco distante, in piedi. Incominciai a tremare. Dunque non era lui quello che Eumolpo aveva creduto di riconoscere in uno dei due uccisi nel tafferuglio a cui era stato presente. Era avvolto da un mantello dai colori vari e vistosi ed esibiva su un piatto d'argento la ricompensa promessa. Dissi a Gitone di nascondersi sotto al letto infilando mani e piedi nelle cinghie che tenevano legato il materasso per sfuggire così ai palpeggiamenti di chi lo avesse cercato proprio come aveva fatto Ulisse sotto l'ariete per sfuggire al Ciclope. Gitone obbedì immediatamente ed io, messi dei panni sul letto, vi impressi la sagoma di un solo occupante per allontanare tutti i possibili sospetti. Ecco che arriva Eumolpo, il quale, trovando la mia porta chiusa a chiave, nutrì più grandi speranze e indusse la guardia a scardinarla. Anch'io quando irruppero nella stanza risposi con un colpo di teatro. Mi gettai ai piedi di Ascilto, gli abbracciai le ginocchia e lo pregai di farmi rivedere Gitone per l'ultima volta prima di morire. Poi aggiunsi: “Lo so che sei venuto per uccidermi. Eccomi: sono pronto! Uccidimi, tanto la mia vita per me non vale più nulla senza Gitone. Mi scansò dicendomi che non era venuto per quello e che comunque non avrebbe mai ucciso nessuno e tanto meno il suo primo amore, cioè io, a cui volva ancora bene. La guardia che lo accompagnava, immune da sentimentalismi di questo genere, strappò la canna che l'oste aveva portato con sé e con quella cominciò a esplorare le parti inarrivabili della camera. Gitone, terrorizzato, per la paura divenne più agile e sventò tutti i colpi che quello tirava sotto al letto trattenendo il fiato per non essere scoperto. A quel punto, convinto, andò via ed Eumolpo, visto che la porta scardinata non poteva fermare più nessuno rientrò dentro e, come un forsennato, cominciò a gridare: “Ho vinto mille sesterzi. Vado subito a denunciarti al banditore.” Io gli abbracciai le ginocchia scongiurandolo di non uccidere due uomini morti e poi, gli dico, la tua denuncia andrebbe a vuoto perché nel frattempo Gitone è fuggito ed io non so dove possa essere andato. Parole sprecate, infatti a quel punto Gitone sollecitato dalla posizione scomoda non poté frenare gli starnuti, per cui quel volpone di Eumolpo lo salutò cordialmente e scoprendo il letto scovò quel povero Ulisse che avrebbe commosso anche Polifemo. Poi rivolgendosi a me disse: “Come la mettiamo, disgraziato? Vuoi negare anche l'evidenza? Tanto ti dispiace la verità? Se il ragazzo non avesse starnutito starei ancora in giro a cercarlo.” “Ah, sono io il disgraziato!? E tu? che vuoi fare la spia dopo esserti intromesso in casa mia e avermici chiuso dentro per attentare al pudore del mio fratellino?” Gitone, più conciliante di me, prima gli curò la ferita sulla fronte con ragnatele inzuppate d'olio, poi gli diede il suo mantello per sostituire la veste che gli si era strappata nel casino generale della rissa e alla fine lo riempì di baci che lo convinsero più di tutto il resto. “Siamo nelle tue mani, padre caro; tu solo puoi salvarci; se vuoi, punisci solo me perché sono io la causa di tutte queste sventure. La mia morte eliminerebbe qualsiasi motivo di lite.” Eumolpo gli restituiva tutti i baci con mio grande disappunto, ma dovevo abbozzare: eravamo nelle sue mani. Perciò gli dissi: “Non dargli retta, Eumolpo! Sono io che ormai devo morire: anzi voglio morire sapendo che lascio Gitone in buone mani e lontano da quel brigante di Ascilto.” Le mie parole ambigue lo lasciarono perplesso e gli fecero intravvedere la possibilità di godersi quel bocconcino senza di me. Poi sembrò riflettere concentrandosi a lungo e alla fine disse: “Io ho vissuto sempre e dovunque considerando ogni nuovo giorno come se fosse l'ultimo. Dunque domani se sarò ancora vivo voglio esserlo insieme a voi due. Voi siete adesso la mia famiglia e io non ho mai avuto seriamente l'intenzione di denunciarvi. A mia volta dopo aver versato un'enorme quantità di lacrime lo pregai di fare la pace; doveva capirmi – gli dissi - chi ama non può nulla contro la gelosia suscitata dalla passione. Gli promisi che da quel momento in poi mi sarei guardato dall'offenderlo nuovamente con parole o con atti e lui in cambio calasse una pietra tombale su tutti i nostri dissapori passati. Non erano proprio versi, ma riuscii a trovare parole molto ispirate per suggerirgli il mio stato d'animo: “Nelle deserte lande, incolte e montagnose, le nevi si raccolgono abbondanti e vi restano a lungo inattaccabili; ma dove la terra dall'aratro è doma si dilegua ogni bruma in breve tempo. Così nei petti deboli l'ira si installa stabilmente, assedia i cuori grezzi e ineducati, sfiora appena appena quelli che han finezza.” “Parole sante” disse Eumolpo ed io paventai che ci avrebbe ammannito un'altra sfilza di versi. Invece continuò in prosa: “Parole sante e ti do un bacio per suggellare la nostra rinnovata amicizia. Niente più collera, solo amore fra noi due.” E mi strizzò l'occhio per farmi capire quali erano le sue intenzioni di vecchio maiale.” “Eumolpo,” gli dissi allora: “Io e Gitone dobbiamo andare via da Pompei perché Ascilto se ci trova questa volta ci uccide.” “Ah, ma allora è Mercurio che vi ha mandato da me. Sapete che vi dico? Che il dio ce la mandi buona: si parte! Preparate i bagagli e seguitemi.” Stava ancora parlando quando la porta si aprì e comparve un marinaio con una bella barba: “Eumolpo, è tardi. Bisogna sbrigarsi.” Aveva già preso accordi, il furfante! Ci alzammo in fretta, pagammo il conto dell'albergo e, fatti alla meglio i bagagli, andammo dietro a quell'uomo fino al porto. E lì, aiutato da Gitone e affidandomi agli dei, salii con loro due sulla nave. VERSO LA SICILIA Mentre gli altri erano in attesa di imbarcarsi anche loro, Eumolpo si appartò con Gitone sicuramente nel tentativo di trovare un posticino in cui incularselo o qualche altra cosa gli fosse stato concesso di farsi fare da quel ragazzo sempre così gentile ma non sempre disponibile alle avances di chi non gli stava bene. Io intanto mi disperavo perché il mio bischero non dava reazioni di nessun tipo anche quando erano fantasticherie a sfondo violentemente sessuale. Mi immaginavo quel vecchio porco che costringeva Gitone prima a prenderglielo in bocca in modo da bagnarglielo ben bene di saliva e poi a girarsi e a prenderlo in culo, ciò che quel frocetto faceva molto volentieri. Niente. Il mio fringuello non dava segni di vita. Allora lo incalzai con una sequela di male parole, come se parlassi a me stesso: “Va bene: non sopporti che quel vecchio porco cerchi di farsi Gitone. Lo capisco. Ma che c'è di male? Non hanno tutti il diritto di godersi il meglio che la natura crea? Il sole non risplende per tutti? La luna e le stelle non illuminano anche le belve quando escono a caccia? E l'acqua? Cosa si può pensare di più bello? Eppure non è di nessuno e tutti possono goderne. E dunque? Solo l'amore dovrebbe essere di proprietà, furtivo, riservato a pochi? Tu invece non desideri avere altri beni che non siano quelli che suscitano l'invidia della gente. Eumolpo è vecchio. Anche se gli viene in mente di fare qualcosa, il fiatone gli impedirebbe di andare avanti.” Cercai con queste parole di convincere il mio animo, ma il mio animo non ne voleva sapere; allora al primo riparo dal vento che riuscii a trovare, mi sdraiai, mi tirai giù il cappuccio e cercai di addormentarmi, senza neanche aspettare né accertarmi che gli altri fossero saliti a bordo. Ma la mala sorte volle evidentemente mettere alla prova i miei propositi di fermezza contro la gelosia: due voci, maschio e femmina, che mi pareva di conoscere, cominciarono a sferzare il mio cuore già in tempesta per Gitone; gridavano: “E' riuscito a farmela una seconda volta!” E quella femminile: “ Se mi riesce di acchiappare Gitone gli tiro il collo a quel traditore!” Il sospetto stava per divenire certezza. Andai da Eumolpo e gli dissi: “Per amor del cielo, caro, di chi è questa nave?” Quello che si era quasi addormentato si arrabbiò e mi disse: “Hai cercato un posto riparato per non farci dormire, di' la verità! Che ti importa adesso a te se ti dico che questa nave è di Lica di Taranto e che sta portando a Taranto sua moglie Trifena mandata in esilio dal pretore?” Gitone mi si gettò addosso piangendo come una fontana e io tornai a maledire la malasorte che aveva voluto annientarmi in quel modo. Poi, dopo avergli raccontato i fatti, mi gettai ai piedi di Eumolpo e lo scongiurai di trovare il modo di tirarci fuori da quell'impiccio. E, se no, di ucciderci lui prima di consegnarci nelle mani di quei due delinquenti.” “E che mostro sarà mai, questo Lica, che io conosco per uomo rispettabilissimo e padrone di una flotta intera e ricco sfondato? Annibale? Polifemo? Alla fin fine viaggia per mettere al riparo la moglie, Trifena, una donna bellissima che ha solo avuto un incidente con la legge. Facciamo così: ognuno di voi esponga un suo piano di uscita da questa incresciosa situazione.” Cominciò Gitone: “Corrompi il timoniere, Eumolpo, fagli credere che uno di noi, tuo fratello, sta malissimo e convincilo ad attraccare in modo che io ed Encolpio possiamo sbarcare di nascosto e filarcela.” “Non se ne parla proprio!” disse Eumolpo: “Non è credibile e poi così ci mettiamo dritti dritti nelle mani di Lica che sicuramente vorrà visitare il malato.” Allora io: “Caliamoci con una fune in una scialuppa, rubiamola, filiamocela e quello che sarà sarà. Così almeno non ti coinvolgiamo, Eumolpo. Tu sei innocente e noi non vogliamo che tu paghi per colpe che non hai.” “L'idea è ingegnosa,” disse Eumolpo: “ma non può avere un esito felice. Se ne accorgerebbe il timoniere che sta sveglio tutta la notte, se ne accorgerebbe la sentinella che sta sempre a guardia della scialuppa, se ne accorgerebbero gli altri marinai perché l'operazione è rumorosa anzichenò. Se riuscisse, lo dovreste solo alla vostra audacia che non mi pare proprio all'altezza. State a sentire, invece! Vi chiudo in due sacchi, vi faccio passare per bagagli e mi metto a gridare che due uomini sono caduti in mare, così allo sbarco il conto torna.” “Sì!” dissi io,“come se noi fossimo creature senza buchi che non mangiano e non vanno al bagno. Sentite invece questa: tu che sei un letterato hai sicuramente dell'inchiostro: tingiamoci tutti e due di nero e facci passare per tuoi schiavi etiopi.” “Come no?” disse Gitone, “circoncidici anche e facci passare per ebrei. Non se ne parla proprio. Basta uno spruzzo d'acqua per diluire l'inchiostro e tutto il piano andrebbe a monte. No, no, non se ne parla.” Prevalse alla fine l'idea di Eumolpo: il suo cameriere ci avrebbe rapato a zero e lui ci avrebbe disegnato un marchio sulla fronte in modo da renderci irriconoscibili e farci passare per due suoi schiavi. Seguì tutto un balletto per compiere queste operazioni e tutto sarebbe andato per il meglio se... uno che si stava vomitando l'anima appoggiato al bordo della nave non avesse intravisto nell'oscurità il barbiere di Eumolpo che ci stava radendo le teste. Apriti cielo! Cominciò a gridare come un forsennato e a fare gli scongiuri perché, secondo lui, sulle navi si radevano solo i naufraghi come sacrificio estremo per ottenere la salvezza dagli dei. Poi si ritirò nella sua cabina, ma noi, pur cercando di non dare importanza alle sciocchezze di quel cretino, passammo una notte agitata in un dormiveglia denso di oscuri presagi. Lica scopre tutto. “Trifena, senti un po' che sogno ho fatto. Ho sognato Priapo che mi diceva di cercare Encolpio su questa nave dove lui lo ha fatto capitare a posta.” “Nooo!” disse Trifena, “Sembra quasi che abbiamo dormito insieme. A me è venuto in sogno Nettuno che mi ha detto che su questa nave c'è Gitone.” Eumolpo che era presente a questo scambio di battute intervenne prontamente: “Da questo potete capire quanto abbia ragione Epicuro quando bolla come stupidaggini i sogni premonitori.” Lica, un bacchettone, non lo degnò neanche della minima attenzione. Fece compiere i riti espiatorii richiesti dal sogno di Trifena e quanto a lui disse: “Nessuno ci vieta di ispezionare la nave. Non dobbiamo contrastare la volontà degli dei quando essi si degnano di esternarcela.” Il destino è destino, ragazzi! Quando ti vuole crocifiggere lo fa, qualsiasi cosa tu faccia per impedirlo. Che poi sia la volontà degli dei, o la Sfiga, poco importa: il destino ti aspetta al varco e ti si fa senza tanti preamboli. Aveva appena finito, Lica, di parlare che ecco quell'imbecille che ci aveva scoperto mentre ci rapavamo a zero. Rivolto a Lica gli chiese: “Chi sono quelli che stanotte si sono fatti rapare a zero quando è noto a tutti che non è consentito a nessuno di tagliarsi né capelli né unghie sulla nave perché ciò porta iella?” Lica non esitò neppure un istante: “Portatemi subito i colpevoli. Voglio i colpevoli qui davanti a me o vi faccio crocifiggere tutti.” Eumolpo capì al volo l'emergenza e come al solito intervenne prontamente: “Lica, sono stato io a dare quell'ordine. Sono due manigoldi che mi hanno derubato e che io portavo con me per consegnarli alla giustizia; ma per il decoro della nave gli ho fatto aggiustare un po' i capelli anche perché altrimenti gli avrebbero coperto i marchi che gli ho fatto imprimere sulla fronte.” Lica, preso dal terrore del cattivo presagio, non stette troppo a cavillare su queste dichiarazioni di Eumolpo e si dette subito ad eseguire quanto poteva placare lo spirito della nave offeso da quella rasatura. Quaranta frustate a ciascuno di noi due. I marinai pronti con le corde ci legarono e incominciarono. Io ressi fino alla terza frustata. Gitone già alla prima cominciò a gridare disperato più per il suo corpo che veniva rovinato che per il dolore che provava. Trifena riconobbe la sua voce; Gitone con la sua divina bellezza aveva ipnotizzato i marinai supplicandoli di non infierire e le ancelle di Trifena cominciarono a gridare: “E' Gitone, padrona, fermateli, fermateli!” Lica aveva riconosciuto la mia voce perciò Trifena corse verso Gitone e Lica verso di me. E mica indagò il mio volto o la mia persona per identificarmi, ma come al solito stese la sua mano verso il mio bischero e lo strinse dicendomi: 'Bentornato, Encolpio!' Io dico: c'è più da meravigliarsi che la nutrice di Ulisse lo abbia riconosciuto dopo vent'anni da una cicatrice al polpaccio? Trifena, povera donna, prendendo per veri i marchi che Eumolpo ci aveva disegnato in fronte ci chiedeva premurosa in quale carcere fossimo stati detenuti e chi avesse avuto l'ardire di infliggerci una tale punizione anche se, fuggendo, una punizione l'avevamo meritata! Allora Lica si incazzò con lei: “Ma sei proprio scema! Magari i marchi fossero davvero solchi provocati dal ferro rovente! Sono dei volgari trucchi da teatro con cui questi imbroglioncelli volevano fregarci.” Ma Trifena ormai era di nuovo caduta sotto il fascino irresistibile di Gitone e mostrava di essere propensa a non infierire. Lica invece ancora incazzato per gli affronti subiti sotto al portico d'Ercole, cominciò ad urlare: “Ma non capisci, Trifena, che gli dei immortali ci hanno avvisato congiuntamente dell'inganno che questi due manigoldi ci avevano preparato? E ora tu gliela vorresti far passare liscia? Così facendo inganneresti gli dei stessi che si sono dimostrati così favorevoli a noi in questa vicenda. Neanch'io voglio infierire, ma non vorrei subire le ritorsioni degli dei che quando si adirano divengono implacabili.” Queste parole furono molto convincenti per cui Trifena cambiò parere e si dichiarò favorevole ad una punizione che vendicasse anche il suo onore tradito e infamato in pubblico. Il processo. A questo punto ebbe inizio un vero e proprio processo a cui partecipava tutto l'equipaggio e tutte le persone che si trovavano a bordo, tanta era la bellezza di Gitone anche così conciato. Prese la parola Eumolpo e la tirò così per le lunghe che alla fine Lica lo fermò ribattendo punto per punto tutte le sue argomentazioni per altro assai deboli. Lica sembrava invasato: che vuol dire che sono venuti da soli a costituirsi? Che vuol dire che sono gente per bene? Che vuol dire che sono stati nostri amici? Chi fa del male a chi non conosce è un delinquente comune; chi fa del male agli amici è un assassino degno della peggiore morte. Allora Eumolpo cambiò discorso: “Devo dedurre che la colpa peggiore che questi ragazzi hanno commesso è l'essersi fatti tagliare i capelli la notte scorsa? Io vi assicuro che essi avrebbero voluto farlo a terra, prima di imbarcarsi, però il vento affrettò l'imbarco e li costrinse a farlo sulla nave: essi non sapevano che questo potesse essere un motivo di malaugurio.” Ma Lica era implacabile: “Farsi tagliere i capelli per presentarsi come supplici! Ma che c'entra?”, ma poi rivolto ad Eumolpo: “E' inutile ch'io cerchi la verità per interposta persona. Dimmelo tu, impostore: quale salamandra ti ha mangiato le sopracciglia? A quale dio hai offerto in dono i tuoi capelli?” Io cominciai ad essere terrorizzato che non ci toccasse il supplizio estremo a me e a Gitone. E lo fui ancora di più quando ci lavarono il volto: l'inchiostro si sciolse, i marchi scomparvero e in compenso quella specie di acqua sporca che ci colava in viso ci rendeva inguardabili come fossimo fantasmi. L'ira di Lica si tramutò in odio. E tutti sembrarono volersi schierare con lui. Eumolpo a quel punto si rese conto della situazione e dichiarò che non avrebbe permesso a nessuno di far del male a delle persone per bene che si erano imbarcate con lui e prese le nostre difese non solo con le parole ma anche con i fatti tenendo lontani da noi i più accaniti. Ciò trovò qualche seguace. Io allora presi coraggio e minacciando a pugni alzati Trifena dichiarai che non le avrei permesso di far del male a Gitone. Lica allora si adira ancora di più e Trifena, spinta dalle mie parole incomincia a strillare come una pazza. Ma le due cose ebbero un solo effetto: ciurma e passeggeri si divisero in due fazioni che incominciarono, variamente armate, a passare ai fatti. L'unico che si era tenuto fuori dalla mischia, il timoniere, alzò la voce e disse che avrebbe abbandonato la nave al suo destino se non fosse finita quella gazzarra dovuta solo a passioni innominabili di gente infojata. Niente da fare. La battaglia infuria. Non ci furono morti, ma molti si accasciarono sul ponte sanguinando. A quel punto, grande Gitone! diede vita al suo solito colpo di teatro: prese il rasoio senza lama, si scoprì i genitali e minacciò tutti di reciderseli se non la facevano finita con quell'inutile casino. Trifena si slanciò verso di lui per trattenerlo, ma né Gitone si astenne dalle minacce né i litiganti si astennero dal combattimento. A quel punto Trifena strappò un ramoscello di ulivo dalla statua protettrice della nave e si fece portatrice di proposte di tregua che alla fine ebbero la meglio. E giù anche lei a sciorinare versi non richiesti e di cui nessuno sentiva il bisogno: Quale furore trasformò la pace in guerra? Che delitto hanno compiuto le nostre mani? Non l'eroe troiano su questa nave porta la spartana moglie di Menelao, la bella Elena, né su di essa medita Medea il parricidio dei suoi bimbi. Il solo che scatena lo scontro è un vano amore. Ahimè chi è dunque quello sciagurato a cui non basta solo questa morte e in mezzo ai gorghi suscita altri gorghi? Non sperare, infelice, di convincere il mare ad inghiottirti nei suoi flutti. Eumolpo, molto furbescamente, fa intendere a tutti di interpretare questi versi come rivolti contro Lica e dopo averlo rimproverato aspramente stende velocemente un trattato di pace nel quale Lica e Trifena si impegnavano a mettere una pietra tombale sul passato e a non perseguitare più né me né Gitone per rancori maldigeriti. I due firmano e si impegnano a pagare salate multe qualora contravvenissero ai termini del contratto. Si depongono le armi. Tutti invocano una riconciliazione piena. Tutti si scambiano baci e il segno della pace stringendosi la mano e alla fine si imbandisce un bel pranzo per tutti, equipaggio e passeggeri. Tutta la nave risuona di canti e poiché la navigazione fu interrotta da un'improvvisa bonaccia ci fu chi si mise addirittura a catturare con la fiocina i pesci che venivano a fior d'acqua. E chi, dandogli una mano, una volta catturate, liberava le povere bestie dall'amo. Qualcun altro, abile uccellatore, dispose delle canne invischiate sul ponte e catturava in questo modo gli uccelli marini che vi rimanevano attaccati. Una brezza leggera allora faceva mulinare a fior d'acqua le piume che quelli perdevano. La matrona di Efeso. Tutti stavamo allegri grazie al vino e alla pace ristabilita. Lica mi faceva le coccole sognando chissà quali avvicinamenti del terzo tipo e Trifena brindava al ritrovamento di Gitone accarezzandoselo come una reliquia. Eumolpo non volle perdere l'occasione di raccontare un po' di barzellette sui calvi, ma alla fine la sua mania di poeta ebbe la meglio e giù con la solita tiritera di versi misti di cui nessuno capiva nulla: “L'unico tuo ornamento è ormai caduto e primavera i ricci ha consegnato all'inverno implacabile, visetto che nascondevi fra di essi il fiore dei tuoi anni gentili: ora le tempie, ormai prive dell'ombra naturale che da essi cadeva e le copriva, piangono, come piange la pelata che tostata dal sole al sole brilla. O mente ingannatrice degli dei! Le prime gioie che ci doni prime ti porti via e non ritornan più. Poco fa risplendevi assai più bello di Apollo e di Diana, sua sorella, ora più liscio d'una bronzea lastra o di un fungo che spunta all'improvviso su dall'umida terra, ti nascondi e cerchi di sfuggire delle belle il dileggio e lo scherno. E presto morte arriverà: devi sapere, caro, che per primi i capelli essa ti toglie.” E non sarebbe finita lì: la vena di Eumolpo era inesauribile se lo lasciavate fare. Un'ancella di Trifena però prese Gitone, lo portò sotto coperta e gli restituì i capelli utilizzando una parrucca della padrona e anche le sopracciglia, con dei trucchi che aveva in una scatoletta. Quando Trifena lo vide e riconobbe l'antica bellezza del ragazzo versò un fiume di lacrime baciandolo come era solita baciarlo lei. Io, timoroso dell'ipotetico confronto, cercavo di nascondere il mio viso che doveva essere veramente brutto se Lica, un altro po', non mi rivolgeva neanche la parola. Ma il mio sconforto durò poco perché l'ancella rimediò anche per me una parrucca, e per di più bionda, per cui il mio volto riacquistò accresciuto il suo antico splendore. Non capii bene il nesso logico ma Eumolpo approfittò della situazione per una tirata interminabile contro le donne insistendo in particolare sulla passione con cui si innamorano, quando si innamorano, talmente incontrollabile da non temere neppure l'adulterio o di abbandonare i figli. Sapeva lui dove voleva andare a parare. Aveva già pronta la sua bella novella con cui deliziare l'uditorio tutto già su di giri per il buon pasto e, ancora più buono, il vino di Lica. “C'era una volta ad Efeso una matrona così rinomata per la sua pudicizia da attirare la curiosità anche di donne straniere che venivano da lontano ad ammirare la sua fermezza e la sua forza di carattere. Questa donna straordinaria, quando il marito morì, non si accontentò di piangerlo e di accompagnarlo alla tomba come si fa di solito, no! Fece lasciare aperta la tomba sotterranea nella quale il morto era stato adagiato e decise di passare lì giorno e notte in compagnia dell'uomo amato, decisa a lasciarsi morire di fame. A nulla valsero le parole dei genitori e poi dei parenti e poi anche delle autorità chiamate a convincerla. Ormai dopo cinque giorni di digiuno tutti con grande ammirazione la davano per spacciata. La notte la assisteva un'ancella che aveva il compito di rimettere l'olio alla lampada quando questa diventava troppo fioca. Ormai in città non si parlava d'altro e tutti asserivano che quello era veramente l'unico esempio di un amore che va anche oltre la morte. Al sesto giorno la sorte decise di far crocifiggere proprio nei pressi di quella tomba tre criminali condannati a morte dal governatore. La notte successiva il bel soldato messo a guardia dei tre crocifissi affinché i parenti non sottraessero i loro corpi per onorarli con la sepoltura, notando l'insolito chiarore tra le tombe e curioso di sapere che cosa fosse, discese nel sepolcro e vista la matrona che era ormai di una bellezza spettrale prima ebbe un sussulto e si fermò, poi, essendo intelligente, capì di che si trattava e fu preso da compassione per quella poverina che evidentemente non riusciva ad accettare la morte del marito. Andò quindi a prendere la parca cena che gli passava l'esercito e cominciò a pregare la sventurata di recedere dalla sua disumana decisione. “A flere mortuos su lacremae iettate!” le diceva nel suo latino da analfabeta. La donna invece di trovare un po' di pace grazie agli argomenti del soldato ricominciò a strillare, a massacrarsi il bellissimo volto con le unghie e a strapparsi i capelli che spargeva sul corpo del marito. Ma il giovane ormai era partito e non si dette per vinto. Cominciò a mangiare lentamente facendo espandere il profumo dei cibi e soprattutto del vino dal quale l'ancella fu sedotta irreversibilmente. Accettò dal soldato vino e cibo e, riacquistate le forze, tornò all'attacco con la padrona: “Che credi di fare lasciandoti morire di fame? Che ti credi che qualcuno ti darà la medaglia? Molti diranno: guarda quella scema! Bella com'è, invece di fare la vedova allegra e di godersi la vita, si è lasciata morire. Ma io non dico questo. Ti dico soltanto: non darmi questo dolore, padrona mia. Che farò io se tu mi muori?” E a questo punto ricordandosi, chissà come, un paio di versi di Virgilio che diceva sempre suo padre, chissà perché, se li sparò sicura che avrebbero fatto effetto: “Credi forse che ceneri e morti / tutto ciò apprezzeranno? Io non credo.” E quindi ricominciò ad esortarla a recedere da quella decisione che era dovuta a stolti pregiudizi femminili ormai in disuso: proprio il corpo di quel pover'uomo morto così giovane doveva insegnarle che la vita è una e che non si torna mai più dall'aldilà. E' difficile, quando si è digiuni da cinque giorni, non lasciarsi convincere a mangiare e più in generale a non tornare a vivere. Alla fine la matrona cedette e si ingozzò anche più dell'ancella. “Bene!” pensò il soldato, “il più è fatto!” Era arrivato il momento di aggredire anche la virtù della matrona, tanto più che l'ancella si mostrava assolutamente d'accordo visto che il ragazzo non era niente male e sapeva esporre abbastanza bene le sue ragioni, anche se in un latino che non si poteva sentire. E ancora una volta sfoderò il suo bel verso di Virgilio: “Se l'amante è gradito come opporsi?” E' inutile che mi dilunghi. Avete già capito. Scoparono quella notte e per parecchie altre notti successive ovviamente chiudendo la porta del sepolcro e prima rimpinzandosi con le prelibatezze che il soldato si procurava oltre al rancio. E così, scopa oggi, scopa domani, i familiari di uno dei banditi morti in croce si portarono via con tutto agio il corpo del loro caro. Figurarsi la disperazione del soldato quando se ne accorse: quando il governatore fosse venuto a conoscenza della cosa, per lui sarebbe stata morte certa! Parlò subito con la donna e fra le lacrime le disse che preferiva uccidersi da solo prima di aspettare la condanna a morte e che a lei chiedeva soltanto di consentire che fosse sepolto vicino al marito di lei. Ma la donna, ormai scatenatasi verso la vita gli disse: “Ma che sei scemo? E' meglio crocifiggere un morto che uccidere un vivo, no?” E diede immediatamente l'ordine di sollevare il cadavere del marito e di crocifiggerlo al posto del bandito sottratto dai parenti. In questo modo salvò l'amante che fu ben lieto di quella trovata. Ma la gente del paese che conosceva l'uomo, si chiedeva incuriosita: “Come avrà fatto il morto a salire da solo sulla croce?” Il quadrifoglio di Eros. I marinai si sganasciarono dalle risate, Trifena fece finta di vergognarsi riuscendo addirittura ad arrossire e a nascondere il viso pudicamente sul collo di Gitone. Ma Lica, Lica, incorreggibile nel suo moralismo da quattro soldi: “Ha sbagliato il governatore! Se era un uomo giusto doveva far togliere il morto e far crocifiggere la donna al suo posto.” Chissà, forse gli era tornata in mente Edile e lo scorno che aveva subito. Ma che c'entrava? I termini del paragone non erano corretti né l'allegria ormai diffusa giustificava quella sua rabbia eccessiva. Sempre fuori dalle righe il mostro! Ma forse erano altri i motivi. Trifena letteralmente sbragata su Gitone o gli riempiva il petto di bacetti bacetti a non finire o gli riaggiustava la parrucca che gli aveva messo in disordine con tutti quei baci. Anche a me come a Lica mi rodeva un po' il culo e non sapevo se la gelosia che scatenava la mia rabbia era nei confronti di Gitone che mi tradiva con Trifena o nei confronti di Trifena che se la spassava con Gitone. L'una e l'altra cosa comunque mi offrivano uno spettacolo per me più atroce dell'imprigionamento appena subito. Oltre a ciò nessuno dei due mi degnava di uno sguardo: Trifena inspiegabilmente, visto che in passato eravamo stati amanti al satirio; Gitone, forse perché non voleva turbare l'atmosfera di riconciliazione che avevamo tanto faticosamente costruito. A un certo punto fui vinto da un pianto irrefrenabile, da singhiozzi irreprimibili e da sospiri così violenti che quasi mi soffocavano. Quei due traditori non poterono non accorgersene e Gitone che non c'era dubbio mi amava più di qualsiasi mignotta lo avesse sedotto si mosse a compassione e mi invitò con un gesto discreto ad unirmi a loro. Figuriamoci Trifena: voleva tenersi tutto per sé quel bocconcino e temeva che se mi fossi sdraiato sul loro stesso letto il ragazzo non le avrebbe più rivolto le sue attenzioni. Non capiva, la cretina, che invece sarebbe stato il contrario. Era bella e seducente, ma Gitone stava malvolentieri con le donne per cui se si abbandonava tra le loro braccia le poverine dovevano fare la parte del maschio che però facevano volentieri grazie alla bellezza di quel pischello divino. Ma se fossi intervenuto io, si sarebbe risparmiata la fatica, quella scema; invece cominciò a mugugnare che il letto era troppo stretto, che Lica si sarebbe arrabbiato, che lei si vergognava di fronte a tutta quella gente ecc.; ma quando vide che Gitone si apprestava a lasciarla per venire da me fece subito marcia indietro e accettò di buon grado che io mi distendessi con loro. E buon per lei perché quando io abbracciai Gitone da dietro e gli feci sentire il mio aggeggio che, modestia a parte, anche moscio fa la sua cazzo di figura, Gitone si eccitò come un torello alle prime esperienze e le diede così il modo di godere più e più volte fino a quando non fu costretta a dire basta altrimenti mi fai morire. Non godeva, rantolava come dieci gatte messe insieme. Perdeva completamente la testa, quella porcona, e allora non c'era più pudore che potesse castigarla. Se lo fece mettere dappertutto e quando Gitone sembrava voler gettar la spugna lei lo riattizzava o col satirio o prendendoglielo in bocca come una furia. A quel punto anche Lica si fece venire le fregole e cercava in tutti i modi di essere ammesso a prendere parte al concerto e, deposta l'arroganza del padrone, prendeva i toni del supplice che elemosinava il mio assenso: un bacio, una stretta, un po' di spazio in quel letto di goduria e cercava di convincermi a bere il satirio per far dimenticare a Priapo la sua maledizione e per potermelo così inculare a suo piacimento in modo da sostituire Gitone con Trifena. Io mi dimostrai più incazzato di lui e gli dissi che se saliva su quel letto io me ne sarei andato. E cosi feci, prendendo per mano l'ancella di Trifena, che era niente male, e facendo intendere che me la sarei andata a spassare con lei. Ma Trifena e Gitone si misero a sfottermi: è un povero cinedo, fa così perché non gli si addrizza e non vuole godere con la bocca e col culo. Io allora mi rivolsi a Gitone dicendogli che era un traditore e che si era fatto irretire da quella puttana bocchinara. Il ragazzo allora si spaventò e cominciò anche lui come Lica a pregarmi con voce supplichevole: “Fallo per me, ti prego, Encolpio. Non vedi che senza di te non riesco a godere. Non ti arrabbiare! Torna il bel ragazzo di sempre: quello che io amo. Ti prego, torna indietro. Unisciti a noi.” A quel punto mi convinsi, però chiesi una breve pausa per bere il satirio che un'ancella mi aveva porto, ma con altre finalità: mi prese in disparte e mi disse: “Non ci tornare con quei tre. Vedrai che Lica ti ha fatto un tiro mancino e vuole che tu ti scopi la moglie mentre lui si fa fare da Gitone. Quella è una ninfomane, una troia insaziabile come è insaziabile quel frocione di Lica. Se, come dici, tu sei un uomo libero, se c'e in te anche soltanto una goccia di sangue libero, non puoi andare con una che va considerata per quello che è: una maiala insaziabile. E se sei un uomo, non ci vai proprio con una che la dà a tutti.” Ovviamente non le diedi retta perché diceva cose non vere dettate dal suo personale interesse. Il suo discorso era falso e interessato. Anche un bambino avrebbe capito che mi si voleva fare e che era gelosa della sua padrona. Perciò bevvi il satirio che Trifena le aveva ordinato e tornai a gettarmi su quei tre afferrando natiche e sessi col metodo “'ndo cojjo cojjo”. Trifena godeva davvero come una porca se riuscivi a infilarle un dito nella fica e a stimolarle con una certa rudezza la clitoride; ma godeva ancora di più se un altro le faceva nello stesso tempo lo stesso servizio nell'altro buco. Insomma nessuno fra noi riusciva più a capire che cosa ci si potesse inventare più di quello che avevamo già fatto. Io mi volli rilassare un attimo e ciò mi bastò per vedere che stava arrivando Eumolpo. Non c'era più scampo: o gli permettevamo anche a lui di unirsi al quadrifoglio epicureo o quello ci avrebbe scritto sù dei versi satirici terribili. E a me niente mi dava più vergogna del fatto che quel bell'imbusto, avendo capito che cosa era successo fra noi quattro fino al momento del suo arrivo, ne avrebbe fatto, ciarlatano qual era, una terribile satira in versi. Non mi sbagliavo: quando ebbe messo a fuoco il ruolo che quei tre mi avevano riservato sparò subito dei versi che ancora non colpivano me direttamente ma che si capiva dove sarebbero andati a finire: Ma se Trifena, o Priapo, il puttanone che ora sta agitando tutta spoglia natiche e ventre in ogni direzione, smuoverà sculettando in te la voglia, non te soltanto, io penso, ecciterebbe, Priapo mio, ché forse un'eccezione perfino il casto Ippolito farebbe. Indovinate chi era Ippolito nella testa di quello scellerato? Naturalmente quel maiale, andando oltre, avrebbe fatto sicuramente riferimento alla mia impotenza e alla maledizione di Priapo mettendomi in bocca a tutti. Con un duro cenno gli dico di avvicinarsi e quando si fu avvicinato gli dico sottovoce che se avesse continuato su quel tema non gli avrei più concesso la minima intimità. Lui si mette a ridere e allora io in sovrappeso lo minaccio di svelare a Lica tutti i dettagli del nostro stratagemma. Smette di ridere, allora, il pusillanime, e giura con formula solenne che avrebbe posto fine alla sua declamazione e che se ne sarebbe andato a dormire nella sua cella dove, strizzandomi l'occhio, mi disse di raggiungerlo. Non ci pensavo proprio, ma non pensavo neanche di dare retta all'ancella o a quei tre zozzoni insaziabili che mi invitavano ad avvicinarmi con gesti osceni di lingua e di mano e facendomi capire che Lica aveva finalmente fatto venire altro satirio e che perciò ci saremmo divertiti. Non avevo più scampo. Dissi all'ancella di smetterla di tirarmi, tanto non c'era niente da fare e mi avviai a malincuore verso quel trio di depravati. Non feci in tempo a raggiungerli però. La tempesta e il naufragio. Il mare è traditore. Avevamo appena doppiato Scilla e Cariddi lasciandoci sulla destra Messina e a sinistra Reggio e già navigavamo in mare aperto sognando l'Africa, quando all'improvviso scoppia una tempesta dalla quale mai avremmo creduto di poterci salvare. Il mare improvvisamente incominciò ad incresparsi e le nuvole raccogliendosi fecero la notte su di noi. I marinai, terrorizzati, corsero ai loro posti e cercarono di ammainare le vele per sottrarle al vento che soffiava vorticosamente. Ma non soffiava in una direzione certa per cui il timoniere non sapeva a quale rotta affidarsi. A volte sembrava che il vento volesse sospingerci verso le coste della Sicilia, ma più spesso l'Aquilone, che la fa da padrone sulle coste italiche occidentali, faceva vorticare la nave completamente in sua balia e le tenebre ormai avevano talmente oscurato la luce che il timoniere non riusciva più a vedere neanche la prua della nave. Ormai era chiaro che saremmo morti tutti e allora Lica tremando stese le mani supplici verso di me e mi implorava: “Encolpio, aiutaci in quest'ora di pericolo: restituisci alla nave la veste sacra e il tirso che tu ben conosci. Abbi pietà di noi, in nome degli dei. Tu sei generoso, aiutaci!” ma un terribile colpo di vento lo spazzò via e la burrasca lo inghiottì in un vortice repentino. Trifena invece fu trasportata dai suoi schiavi, ormai mezza morta, su una scialuppa in cui misero anche i suoi bagagli cercando di sottrarla ad una morte ormai certa. Io mi strinsi a Gitone e piangendo gli gridavo: “Questo gli dei ci hanno riservato: di unirci di fronte alla morte. Ma la Sorte forse non ci concederà neanche questo. La furia delle onde sta per ribaltare la nave e il mare forse non consentirà agli amanti di rimanere abbracciati. Dunque baciami finché ci è permesso: rubiamo al destino quest'ultima gioia.” Gitone mi diede subito ascolto. Si spogliò e infilatosi sotto la mia tunica fece spuntare in alto la testa per coprirmi di baci. E per impedire ai flutti di separarci rafforzò il legame della mia tunica con una cinta che fece girare intorno alle nostre vite legandola strettamente. “Se non altro”, disse, “il mare ci porterà a lungo allacciati e, se vorrà, ci depositerà uniti sulla stessa spiaggia dove un passante misericordioso ci ricoprirà di sassi o il mare stesso ci seppellirà sotto la sabbia, come spesso avviene.” Io accetto gli estremi vincoli di quel nostro amore con cui il mio amore mi legava in quel momento tragico e mi rilasso come su un letto di morte aspettando l'epilogo che ormai non mi appare più tanto insopportabile. La tempesta intanto compie l'opera voluta dalla Sorte e distrugge quel poco che restava della nave: un relitto informe senza più né albero né timone né funi né remi, che vagava in balia delle onde che però inaspettatamente incominciavano a placarsi. Io è come se mi risvegliassi da un incubo. Guardavo incredulo Gitone e poi il mio sguardo vagava sulla superficie del mare, che piano piano si stava calmando: casse, pezzi di legno, corpi senza vita, insomma i resti di un naufragio pauroso che aveva voluto risparmiare, almeno sembrava, me e il mio amore. Gitone, bianco per la paura e ormai senza capelli e senza trucco sembrava ancora più bello dopo il lungo non voluto bagno. I miei occhi percorrevano su e giù quel giovane corpo tostato dal sole e dilavato dal sale che appariva più come quello di un dio che quello di un uomo. Fui preso da un pianto convulso mentre il sole che tornava a risplendere tra quei pochi stracci di nuvole rimasti illuminava Gitone in tutto il suo splendore e come incredulo mi gettai su di lui abbracciandolo e baciandolo furiosamente e, miracolo! il mio fringuello tornò anche lui alla vita e così su un relitto di nave squassata dal mare e ormai in balia di onde dolcissime che ci cullavano ci unimmo finalmente in un amplesso che lui mi concesse pienamente sollevando le sue belle gambe in avanti e lasciandosi penetrare, esperto com'era di tutte le posizioni amorose degli efebi. Sentii una dolcezza infinita e lui ansimava sotto le mie spinte cercando di correggere il ritmo che io imprimevo loro tenendomi per le natiche e aiutandomi ad entrare ed uscire da lui finché con un grido liberatorio gli venni dentro mentre lui piangeva di un pianto altrettanto liberatorio. Gli leccai il pianto dal viso dicendogli parole di incoraggiamento. “E' finita, amore mio! E' finita! Non piangere più!” Non so quanti giorni il mare ci trasportò dove voleva, forse uno, forse tanti. Ci nutrivamo di pesciolini crudi che riuscivamo ad agguantare grazie ad una retìna da pesca che eravamo riusciti a recuperare in mezzo a tutti qui pezzi di nave che ondeggiavano con noi oppure di cibi ormai maleodoranti che la nave portava con sé e che la tempesta aveva risparmiato. Una mattina, forse proprio la mattina successiva al giorno della tempesta, mentre dormivo profondamente fiaccato dalla stanchezza sento la voce di Gitone che annunciava la terra. Apro gli occhi e lo vedo sbracciarsi a fare dei segni stando in piedi su quello che restava del ponte. Mi alzo in piedi anch'io e vedo delle piccole imbarcazioni che non lontano dalla costa di davano un gran da fare, non capivo bene a che scopo. Quando capirono che sul relitto c'era qualcosa da recuperare, subito erano accorsi, a bordo delle loro piccole imbarcazioni, dei pescatori chiaramente intenzionati a fare bottino di quanto restava della nave. Quando però capirono che sul relitto più grande c'erano persone capaci di difendere le loro cose, mutarono il loro atteggiamento spietato in offerte di soccorso. Ma Gitone, intelligente com'era, rifiutò recisamente e mi disse: “Guarda che ci sono altri sopravvissuti. Se ci mettiamo tutti insieme riusciremo a portare sulla spiaggia non solo questo relitto ma anche tutto quello che ancora galleggia e che le onde hanno portato fin qui. Approvai senz'altro quello che proponeva e mi misi anch'io a far cenno a quegli sciacalli di tornarsene indietro perché se si fossero avvicinati di più sarebbe finita male per loro. Per fortuna riuscii a spaventarli ed essi ritornarono tranquillamente verso la spiaggia. Gitone si gettò in mare, mi invitò a fare altrettanto e nuotando con un braccio solo, aiutati anche dagli altri superstiti, riuscimmo a portare in secco il relitto più grande che ci aveva salvato la vita, a me e a lui. Giunti sulla spiaggia, sentiamo una voce d'uomo brontolare non so che contro qualcuno. Proveniva dalla cabina del timoniere e pareva il ruggito di un leone in gabbia che voglia uscire al più presto dalle sbarre. Era Eumolpo e non voleva affatto uscire. Semplicemente farfugliava versi intento a riempire una enorme pergamena con qualche suo poema tanto impellente da fargli dimenticare la morte che era stata a un passo dal portarselo via. Lo tiriamo fuori di lì, mentre lui protestava furiosamente, invitandolo ad essere ragionevole e a prendere atto della realtà. E lui: “Lasciatemi correggere la frase: il carme è manchevole nel finale!” A quel punto gli metto le mani addosso e ordino a Gitone di aiutarmi a trasportare sulla spiaggia il poeta ragliante. Poi, sistemato lui, ci portammo faticosamente verso una capanna di pescatori e nutrendoci coi cibi ormai andati a male della cambusa della nave passammo una notte tristissima. Il giorno successivo discutevamo di dove andare a ripararci e a quale luogo affidare la nostra Sorte, quando vedo un corpo umano trasportato dalle onde verso riva. Nessuno può comprendere lo stato d'animo di un naufrago appena sopravvissuto ad una tempesta che non lasciava speranze. Fui sopraffatto dal dolore come se si trattasse di mio padre o di mio fratello. Guardai con gli occhi pieni di pianto l'enorme distesa di quel mare inaffidabile e come se mi rivolgessi a lui incominciai a gridare come un pazzo: “In qualche parte del mondo c'è una donna o un uomo a cui costui prima di imbarcarsi ha dato un bacio per salutarli e andare in cerca di fortuna. Questa è la volontà degli dei, questi sono i progetti degli uomini: ecco come l'uomo sa stare a galla!” Il mio era un vero compianto, anche se dedicato ad uno sconosciuto; ma all'improvviso un'onda spinge sulla riva una testa senza corpo nella quale riconosco l'occhio storto di Lica fino a poco prima arrogante e sprezzante e ora ai miei piedi senza più volontà. A quel punto le lacrime cominciarono a sgorgare ancora più copiose e il mio compianto dedicato a Lica si fece ancora più esplicito: “Dov'è ora la tua ira, la tua prepotenza, Lica? Eccoti qui in balia delle onde e dei pesci. Tu che prima vantavi il tuo dominio su una nave tanto grande ora non hai neanche un pezzo di legno a cui aggrapparti. Coltivate, uomini, le vostre grandi idee; programmate per mille anni il consumo di ricchezze ammucchiate con la frode! Sicuramente costui ieri faceva il bilancio dei suoi averi, sicuramente progettava il viaggio di ritorno. Com'è lontano ora dai suoi progetti, o dei! E non parlo solo del mare e delle sue tempeste. E' la stessa cosa per quello che combatte armi in pugno, per chi compie sacrifici agli dei e gli crollano addosso le statuette dei suoi antenati; chi è ucciso dal cibo; chi dall'astinenza, chi caduto dalla sua lettiga resta senza fiato e muore. C'è un naufragio dovunque tu guardi!” Il mio compianto preludeva alla sepoltura che volevo dare a Lica, ma mi resi conto che mi si sarebbe potuto obbiettare che chi muore in mare non ha diritto alla sepoltura sulla terra. Allora continuai: “Non è importante per un corpo destinato a decomporsi se chi lo consumerà sarà la terra o il mare o il tempo. L'epilogo è lo stesso. L'unica vera follia è questo nostro darci da fare perché nulla di noi resti dopo la morte.” Ricomponemmo dunque il corpo di Lica e lo lasciammo sulla spiaggia perché gli schiavi superstiti potessero a loro volta compiangerlo. Poi cercammo di capire da quella gente che non parlava nessun linguaggio minimamente comprensibile quale fosse il posto in cui eravamo capitati e come si chiamasse. “Voi siete a Capo Rizzuto.” Ci dissero e intanto ci chiesero il permesso di racimolare le cose che eventualmente il mare avesse ancora restituito alla spiaggia. Quando ci ebbero spiegato la strada per arrivare alla città più vicina, demmo loro il permesso e ci organizzammo per partire alla volta di quella celebre città. Lica fu deposto su un rogo organizzato dalle mani ostili degli abitanti di lì che avrebbero preferito piuttosto spogliarlo dei suoi vestiti e lì bruciava. Eumolpo, chiamato a comporre un epitaffio in onore del morto, rimase a lungo assorto con un sguardo lontano spinto verso il mare, come se l'ispirazione gli dovesse provenire di lì. Verso Crotone con la guerra civile. Dopo aver reso gli onori funebri a Lica, ci incamminiamo verso la città più vicina e arriviamo sudati come asini in cima ad una collinetta dalla quale si poteva ammirare poco lontana una città adagiata su un rialzo scosceso. Noi, naufraghi dispersi, non sapevamo di che città si trattasse finché un contadino non ci informò che era Crotone, città antichissima e un tempo una fra le più fiorenti d'Italia. Poi gli facemmo domande più precise per sapere che tipo di gente fossero gli abitanti e a quali attività generalmente si dedicassero specialmente dopo che l'ultima crisi dovuta alle incessanti guerre civili aveva devastato l'economia di tutta la penisola. Al contadino non parve vero di poter parlare con qualcuno: “Cari stranieri, se siete uomini d'affari qui dovete cambiare mestiere e cercarvi un'attività diversa per sostentarvi. Se invece siete di quelle persone che hanno la lingua sciolta e sanno dire bugie una appresso all'altra allora Crotone fa al caso vostro. Incamminatevi pure che state andando verso la ricchezza. Lì onestà e sobrietà non hanno corso, le belle lettere e l'eloquenza manco a parlarne. I cittadini si dividono in due categorie: quelli che imbrogliano gli altri e quelli che dagli altri sono imbrogliati. Nessuno riconosce i propri figli perché chi ha eredi legittimi ai quali dovranno lasciare la loro eredità non vengono invitati né a cene né a spettacoli e in genere vivono una vita sordida in completa solitudine. Quelli che ottengono gli onori più alti sono quelli che non prendono moglie, che non hanno né figli né parenti prossimi: essi soli sono considerati dei bravi militari, uomini dotati di ogni qualità positiva come la fermezza e l'ineccepibilità. Crotone è una specie di castello fortificato durante un'epidemia: ci sono o cadaveri che vengono fatti a pezzi o corvi che li fanno a pezzi.” Io mi sentii il sangue ribollire nelle vene e proposi subito di tornare indietro e di aspettare sulla riva un'occasione per riprendere il mare verso l'Africa. Ma mi calmarono le sagge riflessioni di Eumolpo e le preghiere irresistibili di Gitone. Come avrei potuto rifiutare qualcosa a quell'angelo che mi aveva fatto rinascere dal naufragio con uno degli amplessi più straordinari che io ho nella memoria? E poi mi fecero ridere i versi con cui Eumolpo commentò la situazione: “Affinché tu non possa negare che ne eri già stato avvisato: se ti provi a incularmi e ad entrare di sicuro ne esci inculato.” Si riferiva ai crotoniati ovviamente con uno dei suoi soliti voli pindarici che mi mise di buon umore. “Perciò, ragazzi, sotto!” disse, “Qui c'è da cuccare!” Più accorto di me, Eumolpo aveva già messo a fuoco la situazione e disse subito che quel modo di fare soldi non gli dispiaceva affatto. Io pensai che il vecchio rimbambito volesse continuare a scherzare e invece disse: “Se potessi avere a disposizione un apparato più appariscente, cioè un abbigliamento più sfarzoso e dei bagagli più lussuosi per rendere credibile la finzione che ho in mente, per Ercole, non rimanderei a domani il mio progetto e vi porterei di filato verso la ricchezza.” Gli dico che ero in grado di accontentarlo se si accontentava di certi abiti che avevamo portato via dalla villa di Licurgo la notte della rapina. E quanto al denaro, dissi, certamente ce lo farà trovare la madre degli dei.” Nel dire questo guardavo argutamente Gitone che come Cibele/Iside aveva convinto perfino la sacerdotessa Edile; in realtà pensavo che all'evenienza non ci si poteva sottrarre neanche alle soluzioni più estreme: ci saremmo prostituiti io e lui fino a raggiungere la cifra richiesta dalla circostanza. “E allora che aspettiamo?” disse Eumolpo, “Mandiamo subito in scena lo spettacolo. La parte più importante è la mia: io sarò il vostro padrone, se il progetto vi piace.” Nessuno se la sentì di bocciarlo. La situazione era veramente particolare e noi non avevamo niente da perdere. Perciò su indicazione di Eumolpo giurammo tutti che avremmo subìto qualsiasi cosa se lui lo avesse ordinato. Insomma ci consacriamo a lui, nostro padrone, come fanno di solito i gladiatori veri. E fatto il giuramento e salutato in veste di schiavi il nostro capo passiamo all'apprendimento della trama. Eumolpo è un vecchio africano ricchissimo che ha seppellito da poco l'unico figlio, un giovane dal radioso avvenire, e che perciò ha lasciato la sua casa e la sua città d'origine per non assistere alla vita dei clienti e degli amici del figlio e soprattutto per non avere più davanti agli occhi la tomba in cui il giovane era sepolto, fonte per lui di continuo dolore. Il destino ha voluto che mentre fuggiva per mare da quel dolore un altro dolore si è aggiunto al primo: un naufragio in cui ha perduto ben 2.000.000 di sesterzi. Cosa di cui non gli importava nulla se non fosse per il fatto che non era più in grado di procurarsi la servitù necessaria per mostrare quale fosse in realtà il suo rango. Egli proviene dall'Africa dove possiede tra terreni e soldi un capitale di 30.000.000 di sesterzi e quanto a schiavi ne possiede tanti nelle sue tenute numidiche che gli sarebbero sufficienti per conquistare Cartagine. Sulla base di tutta la finzione noi gli raccomandiamo di tossire spesso, di accusare diarrea, e di proclamare sempre in presenza di gente il suo disgusto per ogni genere di cibo; di preferire nelle conversazioni temi riguardanti l'oro, l'argento, la incostante produttività dei terreni, e la sterilità del suolo; di stare ogni giorno per un po' seduto a fare i conti dei suoi averi; di rinnovare ogni mese le disposizioni dell'ultimo testamento e, per completare, la farsa di chiamarci ogni volta che ci chiamava con un nome diverso dal nostro per dare l'impressine di avere un numero così grande di schiavi da confondersi continuamente sui loro nomi. Fissate queste regole e fatte le dovute preghiere agli dei affinché ci aiutino a far riuscire bene la cosa, ci incamminiamo finalmente verso Crotone. Strada facendo qualcuno di noi annoiato dal percorso troppo lungo si rivolse ad Eumolpo chiedendogli quali fossero le ragioni per cui lui era così attratto dalla poesia al punto di dimenticarsi perfino della vita, come era successo il giorno prima nel naufragio. Io non potei fare a meno di esternare il mio sgomento per una iniziativa come quella. Mi son detto: vedrai che questo adesso per rispondere a quella domanda banale attacca come al solito a cianciare di letteratura e alla fine ci ammollerà pure dei versi come fa sempre. E infatti! “Vedi,” disse, “non tutti possiamo essere poeti perché la poesia è come il colore dei capelli: se nasci biondo non puoi essere moro e viceversa. E così se nasci poeta non puoi non esserlo e se non nasci poeta è inutile cercare di diventarlo. La poesia viene direttamente da Apollo che quando trova il tipo predisposto per questo o quel tema poetico incarica la musa addetta, sua figlia, e le ordina di entrare dentro quello. Così quando il poveretto parla, non parla lui, ma la musa che ha dentro ed è per questo che quasi tutti i poeti hanno una sensibilità femminile che li fa sembrare spesso delle fanciulle vaganti nel mondo con una maschera da uomo che non si addice loro. “Ma tu” disse Gitone, “a me non sembri uno con la sensibilità raffinata di una dona. Tu mi sembri piuttosto un gran maiale che quando si tratta di mangiare o di scopare non stai tanto a fare versi. Ti butti subito sulla preda e via.” “Caro ragazzo, sei intelligente ma questa cosa forse non la puoi capire. Non è che la musa può stare sempre dentro allo stesso poeta, perché al mondo i poeti sono tanti. Lei ci sta quando il poeta entra in crisi di astinenza in fatto di versi e lei deve essere presente affinché la sua ispirazione vada a buon fine. Perciò quando la musa sta nel corpo di un altro poeta quello che ne è libero si può dedicare tranquillamente ai piaceri della vita che egli ama molto più degli altri perché sa che la vita è breve e la giovinezza lo è ancora di più e che perciò se non carpisce al volo i piaceri che essa gli offre poi tutto passa e l'occasione si perde. Hai capito? Insomma perché venga fori il poeta ci vogliono tre condizioni: (i) che egli abbia una sensibilità predisposta; (ii) che Apollo decida di fargli sviluppare questa sensibilità; (iii) che la musa addetta alle sue tematiche (le Muse sono nove, mica una!) abbia tempo per entrare in lui quando una di quelle tematiche preme per essere messa sulla pergamena. Voi capite che, se non si danno queste tre condizioni, vengono fuori quei poeti illeggibili e noiosissimi che credono di essere tali ma che sono soltanto degli imbrattacarte. La poesia, cari ragazzi, ha tratto in inganno molti. Non appena qualcuno mette su un verso coi suoi bravi accenti e la sua brava rima, conferendogli anche un significato profondo esposto con morbida eleganza, si crede subito di aver raggiunto la sublime vetta della poesia. Gli avvocati per esempio quando stanno lontani dal foro si rifugiano spesso tra le sue braccia convinti che è più facile fare una poesia che scrivere un'arringa composta di perioducci agghindati con parole luccicanti. Sono degli illusi, poveretti, e le posie che scrivono sono quasi sempre delle brutture! In realtà c'è anche un'altra condizione che non vi ho detto, perché è ovvia. Nessuno spirito di alto livello culturale né alcun intelletto predisposto per la poesia possono dedicarsi ad essa se prima non passano attraverso la cultura e soprattutto attraverso la cultura letteraria corrente. Altrimenti rischiano di fare la scoperta dell'acqua calda e di annoiare mortalmente gli ascoltatori. Bisogna scegliere parole appropriate con significati lontani dall'uso corrente in modo da rispettare l'insegnamento oraziano: “odio il volgo profano / e me ne tengo lontano.” La poesia è il frutto, come la tela, di una trama e di un ordito e questa tela è una sorta di organismo che si autoregola per cui non sono ammesse frasi o espressioni che vadano al di là dei limiti imposti da essa. Omero e i lirici in Grecia, Virgilio e Orazio a Roma sono la testimonianza più convincente di ciò. Gli altri o non capirono o se capirono non ebbero il coraggio di dedicarsi ad una attività così difficile ma anche così gratificante. Prendiamo per esempio il tema della guerra civile. Non puoi raccontarla in versi se non possiedi una conoscenza profonda delle astuzie letterarie che su di essa la cultura ha scovato fino a quel momento. Non si tratta di mettere in versi avvenimenti politici che gli storici, fra l'altro, racconterebbero meglio di te. Si tratta di accogliere la musa Clio dentro di sé e poi di lasciarla libera di suggerirti sentenze enigmatiche, interventi divini, pensieri profondi, tipici delle narrazioni mitologiche, in modo tale che il risultato appaia all'ascoltatore/lettore più la profezia di un animo invasato che non un discorso chiaramente e linearmente argomentato. Il modello per esempio potrebbero essere questi versi che ho composto di getto sul tema della guerra civile e che spero vi piacciano anche se non sono ancora del tutto rifiniti. E ti pareva, mi dissi; comunque, mi dissi, anche l'ascolto di versi su un tema ancora così attuale era meglio di quel silenzio assordante, per ingannare la noia e la fatica di quel viaggio estenuante. Ed Eumolpo attaccò (ci ho messo dei titoli per guidare un po' il lettore in mezzo ai numerosi eventi che quel poetastro ammucchiava confusamente senza la minima vergogna): LA CORRUZIONE DI ROMA “Già Roma tutto il mondo dominava / per mari e terre da là dove nasce / il sole fino a dove si inabissa. / Ma non era ancor sazia: le sue navi / ancora perlustravano ogni dove: /se un qualche porto o un angolo di terra / c'era che le facesse guadagnare / dell'oro ancora, suo nemico era: / un destino crudele e ineluttabile / la spingeva alla guerra per cercare sempre nuove ricchezze e nuovi averi. / Non più le gioie solite, banali, dell'amore e del cibo quotidiani. / Un qualsiasi soldato ora voleva piatti e coppe di bronzo da Corinto, / pietre preziose, dalla terra estratte, il cui splendore gareggiasse a prova / coi bagliori accecanti della porpora. Niente paura! Ci pensava l'Africa: / Nùmidi, Cirenaici, Egizi ed Arabi saccheggiavano a gara i loro campi / per dare a Roma più ricchezza ancora. Ma erano soltanto gravi offese / e attentati alla Pace e al quieto vivere! Si catturano in Africa le belve / vendute a peso d'oro sui mercati della città perché facciano strage / di poveri infelici nelle arene: elefanti di cui si collezionano / le zanne note per i loro morsi mortali ed infallibili e le tigri / viaggiano in gabbie d'oro sulle navi su cui regna la fame in modo tale / che affamate le belve faccian scempio degli uomini ad esse destinati / per farli divorare in mezzo a folle sanguinarie che applaudono in delirio. / Ahi, che vergogna a rivelare e a dire quale orrendo destino aspetta Roma! / Secondo un uso in voga tra i Persiani anche da noi si uccidono dei maschi / nel pieno della loro giovinezza per strappargli le viscere col ferro / e impiegarle poi in pratiche di sesso affinché il corso rapido del vivere / cessi per una tregua circoscritta rimandando il trascorrere degli anni: / così se stessa la natura insegue senza prendersi mai. E dunque tutti / cercano di imitare le puttane camminando con passo sculettante / e molli movimenti delle anche lunghi i capelli e sciolti sulle vesti, / ultima moda insieme a tutto quanto attiri sguardi virili assatanati, / ciechi di desiderio e di passione. Ecco, alla terra d'Africa strappata / s'apparecchia una tavola di tuia con macchie che all'oro rassomigliano / per servi e senatori perché attragga i loro sguardi. Intorno a questo legno / che non dà frutti e ingiustamente viene considerato un legno assai pregiato / si siede una congrega di ubriachi e in giro per il mondo i nostri eserciti / cercano, armi in pugno, tutti i beni che appaghino la loro cupidigia. / Fame e gola aguzzano l'ingegno. Lo scauro delle coste siciliane / viene servito vivo sulle tavole e, strappate agli scogli del Lucrino, / le ostriche le paghi una fortuna per risvegliare spasmi ormai sopiti. / Son le acque del Fasi deprivate dei mirabili uccelli che ci vivono / e sulle rive silenti odi spirare solo le brezze fra le verdi fronde. / La follia ormai si spande dappertutto. A Roma, in Campo Marzio, i cittadini / votano solo chi promette lucro e denaro sonante. Sono in vendita / i Quiriti, signori, siano popolo o siano gli stessi senatori. / Il voto ormai è solo una questione di chi offre di più, solo di prezzo. / Sì, anche i padri nostri, i senatori hanno dimenticato ormai per sempre / cos'è la dignità libera d'ogni costrizione. Perduti i patrimoni, / hanno svenduto ad altri quel potere che una volta era solo del senato. / Ma oramai è ben chiaro che il fior fiore dei senatori è sensibile all'oro. / Catone, sì, Catone, quel Catone, a scacciarlo è bastata un'elezione! / Povero! Ma è più povero il romano che si è venduto per strappargli i fasci. / Ma ora si vergogna, questo popolo, capendo che Catone c'entra poco / e che con lui ha distrutto ed annientato il potere e il prestigio ch'era in Roma. / Che ora messa in vendita nessuno di riscattarla è più capace, oggetto / e preda al tempo stesso del denaro. E neanche questo, perché ormai l'usura / con i suoi tassi esagerati mangia rendite e capitali senza tregua. / A Roma ormai non c'è una sola casa sicura, non c'e' più un uomo solo / che non sia contagiato dalla peste che sta erodendo tutta la città / subdola serpeggiando nelle fibre più recondite e ascose e fa morire / tra spasmi insopportabili e alte grida. E miseri ricorrono alla sola / soluzione che sanno adoperare: le armi, e credono col sangue / di riscattare i soldi sperperati coi vizi, il lusso e con la corruzione. / Rischio alcuno non c'è per chi infelice non ha nulla da perdere impugnando / armi che ben conosce. E solo armi e furori e passioni, scatenate / dalle armi in pugno, ormai posson salvare Roma che annega nella corruzione / e nel sonno e nel fango e il disonore. L'IRA DI ADE Tre grandi generali aveva dato / la Sorte a Roma e tutti li disperse chi qua chi là sotto montagne d'armi / Marte crudele: Crasso in mezzo ai Parti, Pompeo nel mare libico e il gran Giulio / in Roma che coprì di stragi e sangue, per cui la terra non ce la faceva / a contenere tante sepolture. Tra Napoli ed i Campi che si chiamano / Flegrei proprio nel fondo d'una vasta voragine bagnata dal Cocito / esala i suoi vapori portatori di morte il vento gelido dell'Ade. / Non verdeggia d'autunno questa terra né nutre prati di fertili zolle / né a primavera melodiosi cantano virgulti mossi dalle dolci brezze / ma scoscesi dirupi di terragne pomici e intorno cumuli su cumuli / su cui sorgono lugubri cipressi. Seduto in mezzo all'orrido scenario / Ade nero in volto ma bianco di capelli convocò a sé la Sorte e la spronò / ad annientare Roma e il suo potere: “Signora del destino a cui soggiacciono / uomini e dei senza discussione, tu che subito crei ed altrettanto / velocemente quel che crei distruggi poiché è solo il nuovo che ti aggrada, / non vedi che oramai ti pesa troppo la grandezza di Roma che tu stessa / hai voluto finora? Anche la nuova generazione di Romani è stanca / di portar sulle spalle tanto peso. Dovunque vedi facili bottini / e patrimoni dissipati al vento, segni che ormai la fine si avvicina. / Costruiscono case che si spingono fin su nel cielo sperperando d'oro / mucchi enormi ed indietro si respingono le acque dei fiumi per formare laghi / ed il mare è portato in mezzo ai campi L'ordine delle cose è ormai sconvolto / e si fa guerra alla natura stessa. Alche i miei regni temerari assalgono / che le profonde viscere proteggono. S'apre la terra per fornire marmi / utili solo a far sfoggio di lusso in crepacci mostruosi e sotto i monti / s'aprono buchi oscuri che risuonano d'echi profondi e mostruosi. Le anime / di ritornare sperano alla luce. Perciò, Sorte, signora del destino, / muta il tuo volto e dalla pace in guerra gira il tuo sguardo ed istiga i Romani / a procurare morti al regno mio. Da tempo, vedi, il volto mio biancheggia / perché il sangue non scorre su di esso né la mia Erinni lava le sue membra / da lungo tempo in esso, cioè da quando per le armi di Silla dalla terra / non spuntò grano concimato a sangue.” L'IRA DELLA DISCORDIA Quindi irato concluse con un gesto / che congiungendo destra a destra ruppe la terra in un abisso senza fondo. / Spaventata la Sorte allora disse: “Padre, pur se la legge non consente / di svelare il futuro io ti prometto che le tue volontà saranno tutte / soddisfatte entro breve che tu sei il padre dell'Inferno e a te obbediscono / lo Stige, l'Acheronte ed il Cocito. Dentro questo mio petto non è l'ira / della tua men violenta né più lieve ardore infiamma in me i miei precordi. Tutto ciò che io diedi a questa grande città, tutti i miei doni ora mi fanno / rabbrividire d'odio e di vendetta. Lo stesso dio che la fece grande / ora l'abbatterà: questo colosso crollerà su se stesso indegnamente. / Ed io personalmente brucerò tra le fiamme i suoi uomini infedeli / e annegherò nel sangue la lussuria in cui ignari si rotolano ed inermi; / vedo Filippi, vedo i numerosi roghi che in Tessaglia si preparano / e le uccisioni e i lutti della Spagna. Tremano ormai le mie povere orecchie / al rimbombo delle armi strepitanti. E già ti vedo, o Nilo, contrapporre / le tue correnti agli eserciti che marciano verso la Libia e vedo il golfo d'Azio assistere impotente alla rovina che le frecce d'Apollo ovunque spargono. / Apri dunque i tuoi regni, santo padre, alle anime dei morti perché plachino / quelle lande da tempo ormai deserte. Non basterà la barca di Caronte / a trasportarne tante: il gran nocchiero ti chiederà una flotta alla bisogna. / E tu pallida Erinni finalmente potrai saziarti della strage immensa / e di sangue, insaziabile, appagarti. Ai morti dello Stige perverrà / il mondo fatto a pezzi dalla guerra.” PRESAGI DIVINI Parole sante. Finì di parlare / e il cielo si squarciò che da una nube da un fulmine solcata il suo bagliore / proiettò sulla terra. Il padre Dite nei recessi dell'Ade si nascose / paventando la furia del fratello. I presagi di Giove erano chiari: /stragi d'uomini e danni incalcolabili si sarebbero avuti sulla terra. / Si oscurò il Sole ricoperto tutto di sangue e di vergogna, si poteva / dire che ormai la guerra fratricida era già incominciata. D'altra parte / anche la Luna si oscurò negando luce allo scempio. Da sui monti i gioghi / rovinavano a valle e le correnti dei fiumi fuoruscendo dalle rive / andavano a morire in mezzo ai prati. Rimbomba il cielo al rimbombar delle armi / e la tromba di guerra Marte chiama e l'Etna fiammeggiando scaglia al cielo / bagliori enormi e massi incandescenti. Spettri d'uomini morti si rincorrono / tra i campi insanguinati e mesti gridano minacce contro tutti in mezzo ai mucchi / d'ossa insepolte e ai tumuli di pietre. Una cometa fiammeggiante seguono / torme di stelle mai vedute prima: spande Giove dovunque vasti incendi / e dal cielo discende come pioggia che non è pioggia ma soltanto sangue. / Ma il dio tali presagi presto scioglie. Perché Cesare al fin desideroso / di vendicarsi delle gravi offese recategli da Roma. Pone fine / agli indugi e lasciate le armi galliche impugnò quelle che lo conducevano / contro color che a Roma gli eran contro. Sulle alte Alpi là dove digradano / in modo da lasciar passare gli uomini, là dove passò Ercole e dove ora / c'è un tempio che gli è stato consacrato c'è un luogo che l'inverno seppellisce / sotto una neve dura e insormontabile e al ciel lo innalza con la bianca vetta. / Sembra che il cielo lì precipitando alla neve si unisca e sbarri il passo / a chiunque tentasse di passare. Non lo addolcisce il sole coi suoi raggi / né le tiepide brezze a primavera ma tutto giace sotterrato sotto / la neve che l'inverno prende e ghiaccia in un gelido manto irremovibile. / Quella mole da sola sosterrebbe il mondo intero sulle proprie spalle. L'ARRIVO DI CESARE Quando Cesare calca questi gioghi / coi soldati festanti e vi si accampa dalla cima più alta e si sospinge / verso i campi d'Italia e le sue terre e da quel luogo al cielo rivolgendo / le palme e le preghiere così dice: “ O grande Giove e tu, terra d'Italia, / un tempo lieti delle imprese mie e dei trionfi con cui vi onorai / oggi vi invoco come testimoni: non per mia volontà io oggi chiamo / Marte sul campo di battaglia e alle armi. Ma è la vergogna che a questo mi spinge / d'esser stato da Roma esiliato mentre per Roma combattevo contro / quei Galli che l'afflissero in passato e che di nuovo stavano mirando / al nostro Campidoglio; mentre cerco di trattenerli al di là delle Alpi / e proprio mentre accumulo vittorie su vittorie mi vedo più costretto / ad un esilio che mi è insopportabile. Ben sessanta trionfi riportai / sui Galli e diventò questa la colpa l'unica colpa che mi si potesse / attribuire... ma da chi? da gente vile ignobile rozza mercenaria / di cui Roma è matrigna, non è madre. Ma non sarà un codardo ad imbrigliare / questa mia destra senza la vendetta che poi dovrà subire certamente. / Soldati miei, correte dunque verso la vittoria che attende e che voi soli / ottenere potrete combattendo. L'accusa infatti ci riguarda tutti /e su tutti ricade il disonore della sconfitta. Che non ci sarà / perché onore io rendo al vostro merito: da solo certo non avrei mai vinto. / E poiché la vittoria meritata sventa la punizione che sovrasta / chi perde ed è sconfitto, il dado è tratto: deciderà la Sorte il vincitore. / Guerra vogliono? Ebbene guerra sia! Affidate la vita al vostro braccio. / Il fatto è certo. E' inutile discutere. Avendo al seguito voi sono invincibile!” / Detto ciò, su dal cielo alto levato fendendo l'aura con ampie volute / il falco del dio Apollo mostrò a tutti che l'Olimpo era tutto favorevole. / E da un bosco vicino sterminato voci mai udite prima si levarono / a incoraggiare il prode condottiero a cui una fiammata spaventosa / fece seguito tanto che persino il Sole ebbe accresciuto il suo splendore / e il disco suo adornò d'ampi bagliori. CESARE PUNTA SU ROMA Incoraggiato dai presagi Cesare / muove le insegne e a capo del suo esercito compie imprese fulminee inenarrabili. / Dapprima passa il valico innevato perché né il ghiaccio né la neve possono / fermare quell'esercito guidato da un generale tanto coraggioso. / La resistenza dei monti fu crudele: carri e cavali caddero inghiottiti / dal ghiaccio inesorabile e qua e là si vedevano corpi ammonticchiati / d'uomini morti uccisi dal rigore di un freddo insopportabile, ma Cesare / con la sua lancia si faceva largo fra ghiacci e neve e brume insormontabili / come Ercole o anche come Giove corrucciato che ostacoli disperde / col divino potere incontrastabile per discendere in terra e sotterrare / i superbi Titani a lui ribelli. TERRORE A ROMA E FUGA DI POMPEO E mentre varca impavido e furente / le rocche alpine che la neve chiude la Fama vola verso Roma rapida / dove ogni statua per sua bocca parla e dice che sul mare navigando / flotte arrivano a Roma e che le Albi grondano ormai di sangue transalpino. / Agli occhi dei Romani si presentano immagini di sangue, stragi, incendi, / di armi e di catastrofi e di morte. I cuori martellati dal terrore / si scindono in due schiere: sceglie l'una di fuggire via terra mentre l'altra / di affidare a una nave il suo destino perché il mare oramai è più sicuro / del patrio suolo. Però c'è qualcuno che affida ormai alla Sorte, / armi in pugno, la vita. In conclusione quanto più teme ognuno tanto più / fugge lontano dalla propria terra. Il popolo travolto dal frastuono / di voci che si intrecciano abbandona la città non sapendo dove andare. / Basta una diceria senza costrutto e tutta Roma fugge impaurita / abbandonando case beni e amori. Chi trascina per mano il figlioletto, / chi le ceneri porta dei suoi cari abbandonando casa ed ammazzando / nel pensiero il nemico che già avanza. Chi scoraggiato piange tra le braccia / della propria consorte ed a lei lascia il vecchio padre. E i giovani, ignorando / ogni fatica, portano con sé sol ciò a cui si sono affezionati. / L'incauto porta invece proprio tutto ma lo trasporta ahimè per consegnarlo / al nemico che intanto si avvicina. E come quando l'Austro imperversa / e trascina la nave in mezzo ai gorghi e ognuno cerca di porre riparo / correndo chi ai remi e chi alle vele e chi al timone e chi alla zavorra, / così.... Ma che sto io qui ad insistere? Insieme coi due consoli Pompeo, / lui un tempo terrore del Mar nero, lui baluardo in mar contro i pirati, / lui celebrato con ben tre trionfi, a cui si genuflessero sconfitti / il Caucaso ed il Bosforo ed il Ponto, abbandonato il titolo di capo, / si rassegnò alla fuga perché il Fato la sua viltà mostrasse al mondo intero. FUGA DELLE DIVINITA' PACIFICHE Chi mai aveva visto una rovina / così grande e cruenta da creare spavento negli dei oltre che agli uomini? Una schiera di dei terrorizzati abbandonò la terra sola e inerme / allo scempio di fronte e a tanto sangue. La bella Pace dalle nivee braccia / nascondendo nell'elmo il capo vinto guida la schiera delle dee e la porta / a rifugiarsi nell'inesorabile regno di Dite ed è a lei compagna / la Fede silenziosa e coi capelli sciolti piangendo segue la Giustizia / e affranta la Concordia con le vesti lacere; ma di contro ecco la schiera / guerrafondaia degli dei degli Inferi che segue Dite: la terrificante / Erinni minacciosa e la tremenda Bellona con Megera che s'è armata / di torce e la Sciagura che decreta morte a chi incontra e poi il Tradimento / e lo spettro crudele della Morte. Libero e a briglie sciolte va il Furore, / solleva a tratti la sua testa lorda di nero sangue e il volto devastato: / innumeri ferite sotto l'elmo nasconde, anche questo insanguinato. / E Marte stesso lascia penzolare lo scudo appesantito da migliaia / di frecce e va brandendo con la destra una torcia che sparge dappertutto / incendi e distruzione dove arriva. LA CADUTA DEGLI DEI Cadono sulla terra gli dei affranti, / perdon le stelle il loro peso antico, precipita l'Olimpo e si divide / schiantandosi in due parti. Nel frattempo Venere guida Cesare e con lei / lo guidano Minerva con Quirino che libbra l'ascia sua terrificante. / Apollo e la sorella invece stanno con Pompeo Magno insieme con Mercurio / e con Ercole sire di Tirinto simile al dio in tutte le sue imprese. / Rimbomba il suono delle trombe e allora la Discordia leva il capo / verso gli dei Superni. Aveva sangue rappreso sulla bocca ed i cisposi / occhi copiose lacrime riempivano, digrignava i suoi denti arrugginiti / mentre il sangue scorreva sulla lingua circondato era il volto di serpenti / e una veste cenciosa le copriva il petto mentre lei brandiva in alto / con la destra tremante una fiammante torcia dalle scintille insanguinate. / Appena ebbe lasciato il regno d'Ade s'incamminò cercando l'Appennino / e dall'alto del monte volse gli occhi verso le terre e i lidi dell'Italia / dove caterve d'uomini sconvolti c'erano senza meta né orizzonte. Di lì discese e il petto furibondo queste parole emise dal profondo: / “All'armi, cittadini, all'armi, all'armi: scagliate in alto torce e i cuori ardenti / date alla furia della guerra contro la città che rovina. Sarà vinto / chiunque si nasconde sia che esso sia una donna o un bimbo oppure un vecchio / che gli anni hanno già vinto; tremi la terra e insorgano le case /ad una ad una anche se dirute. Tu Marcello la legge imponi a tutti / ma tu Curione eccita la plebe e tu, Lentulo, Marte non frenare. / Divino Giulio, perché mai tentenni e raffreni il furore che alle porte / della città ti spinge ed alle mura e non le radi al solo per razziarne / i tesori nascosti? Se non sai proteggere di Roma i sette colli / vai a Epidamno e fai scorrere il sangue per tingere di rosso i litorali / della Tessaglia.” Così disse quella e tutto quel che disse si avverò. Sembrava che li avesse misurati quei versi orrendi scopiazzati da Virgilio e da Lucano. E infatti quando ci annunciò che la sua ispirazione era venuta meno entrammo finalmente a Crotone. Ci ricoverammo nel primo alberghetto che trovammo con l'intenzione di cercarne in seguito uno migliore. E il giorno successivo, rinfrancati, ci mettemmo in cerca, ma ecco venirci incontro un gruppo di cacciatori di eredità. Vedendo che eravamo stranieri ci subissarono di domande sulla nostra provenienza e sulla nostra identità. Noi rispondevamo secondo gli accordi presi il giorno prima ma con tali coerenza ed enfasi che nessuno dei presenti ebbe il minimo dubbio sulla verità delle nostre informazioni. Naturalmente incominciò subito il corteggiamento ad Eumolpo. I più cretini lo riempivano di doni con la speranza di accattivarsi le sue simpatie; i più furbi insieme ai doni solleticavano la sua vanità chiedendogli di dare una prova della sua bravura letteraria. Non si era mai visto un uomo così ricco e nello stesso tempo così colto. Eumolpo non si fece pregare molto. Io tremai al pensiero di una altra gragnuola di versi inascoltabili. Eumolpo dichiarò che avrebbe raccontato loro una novella divertente, che in realtà aveva scelto per comunicare a quegli ingenui i suoi gusti sessuali nella speranza che qualche cacciatore di eredità pur di conquistarlo, insieme ai doni, gli portasse qualche bel figlio giovinetto. E incominciò: “Quando militavo nelle fila del centurione Tito Quinzio Aulente, un energumeno, che si chiamava così perché non si lavava mai, mi aveva dato l'incarico pericolosissimo di esploratore, per fortuna insieme al mio amico Tullio, che era anche lui una specie di montagna capace di sbaragliare anche venti uomini tutti in una volta. Ci faceva fare, quello stronzo, ventimila “passi” al giorno, dieci all'andata e dieci al ritorno, a cavallo naturalmente, sicché quando ci capitava di acchiappare un giaciglio ci addormentavamo senza obbligo di rendere conto a lui del tempo impiegato. L'importante per lui era che, quando ci aveva assegnato un sentiero da esplorare noi tornassimo con tutte le osservazioni che gli occorrevano per spostare lungo quel sentiero l'accampamento, se glielo ordinava la sua centuria. Capitò una volta che il percorso da esplorare fosse particolarmente lungo e molto accidentato, per cui avremmo potuto incappare in una grande quantità di tranelli e perciò ci vollero giorni e giorni di esplorazioni prima che Aulente si sentisse al sicuro nel caso di uno spostamento lungo quel tracciato. A noi la cosa non dispiacque affatto perché giusto a metà strada c'era una taverna dove si mangiava bene e a poco prezzo e dove c'erano anche donne, diciamo così, disponibili, che, se dormivamo lì, Tullio se le portava a letto con pochi soldi. A quel porco piacevano le donne, ma io sbavavo per Tarcisio, il giovane figlio dell'oste, di una bellezza tale che mi aveva fatto innamorare come un adolescente alla prima esperienza. Non parlava la mia lingua e ciò mi intrigava ancora di più. Se veniva lui a prendere gli ordini gli dicevo in latino, accompagnandomi con la mimica, per far ridere Tullio: “Io voglio il tuo culetto, ma senza vino né zucchero, perché voglio mangiarmelo così com'è al naturale.” Tarcisio non capiva, rideva come se invece avesse capito, e regolandosi dal mio gesto mi portava mezzo cocomero che era dolce sì ma non come ciò che io volevo da lui. Una volta, poiché non mi vedeva nessuno, a parte Tullio, che conosceva bene i miei gusti in fatto di sesso, fingendo di spiegargli cosa volevo, gli misi entrambe le mani su quella meraviglia e lo attrassi a me per baciarlo. Si divincolò adirato, sbatté la scodella di legno sul tavolo e se ne andò. Dissi a Tullio: “Sfodera la spada che stavolta so' cazzi!” Tullio non se lo fece dire due volte e vedendo arrivare padre e figlio, balzò in piedi e sfoderò davvero la spada. Ma il padre fece subito capire a gesti che aveva intenzioni pacifiche. Fece inginocchiare Tarcisio e gli fece abbracciare le ginocchia di Tullio come per chiedere perdono. Allora balzai subito in piedi anch'io e l'amore mio fu costretto ad abbracciare in ginocchio anche le mie gambe. “O dea Venere,” pregai in silenzio, “fa che ciò accada anche quando siamo da soli in camera da letto.” E così dicendo lo presi per le ascelle, lo feci alzare e prima di lasciarlo lo strinsi a me baciandolo sulle guance, non senza una leccatina. Avrebbe potuto schivare le mie labbra lascive ma capiva che ormai non c'era niente da fare. Il padre avrebbe interpretato quei baci come un segno di perdono e non di lussuria e qualsiasi sua resistenza sarebbe stata inutile. Ma c'era di più: quel ragazzetto aveva ormai ceduto al mio corteggiamento. Aveva paura del padre; anche spiegandosi con lui, il padre non gli avrebbe creduto; insomma era costretto, poverino! a concedermisi. Ormai si trattava solo di aspettare l'occasione. Che però non veniva mai. Tullio mi voleva bene, ma incominciava a stancarsi. “Basta!” mi diceva, “Sei un buono a nulla; se era una ragazza da mo' che me l'ero scopata.” “Ma io lo amo!” gli dicevo, “non voglio fargli violenza né esporlo al dileggio della sua famiglia.” Non so quante notti feci dormire Tullio in quella piccola taverna che aveva solo una stanza da letto nella quale l'oste ci ricoverava quando glielo chiedevamo restringendo la famigliola tutta nell'altra camera: lui e la moglie nel letto grande, Tarcisio in un lettuccio a fianco al letto, la culla di un altro figlioletto che essi avevano avuto da poco dall'altra parte del letto e... basta, perché la stanza già così era piena come un uovo. Una sera però... Venere aveva ascoltato le mie preghiere e quella sera finalmente potei raggiungere il culmine dei miei desideri. Di ritorno da una faticosissima esplorazione, ci fermammo a mangiare in quella taverna e, dopo aver cenato, essendosi fatto molto tardi, chiedemmo all'oste di ospitarci come sempre. L'oste che era un fifone e bastava parlare latino con un accento imperioso per farlo cacar sotto si inginocchiò come aveva fatto fare al figlio e piangendo coi gesti ci fece capire che aveva già affittato la stanza non pensando che noi quel giorno a quell'ora saremmo ripassati. Tullio mi fece capire che ci dovevamo rimettere a cavallo e marciare verso l'accampamento. Ma lo disse ovviamente molto incazzato per cui l'oste si spaventò ancora di più e sempre a gesti ci fece capire che se avessimo accettato di dormire in due nel lettino di Tarcisio avrebbe improvvisato un giaciglio per il ragazzo in fondo al loro letto nuziale. Era intelligente, Tullio! Capì al volo che quella era la volta buona per far passare anche a me una notte ruggente. Mi strizzò l'occhio e accettò senza discutere, dicendo che eravamo molto stanchi e che perciò una sistemazione qualunque ci stava bene. Durante la notte tutto sembrava tranquillo e né io né Tullio avremmo potuto immaginare che... a un certo punto si sentì un rumore nell'altra parte della casa e la donna, preoccupata per i suoi figli, si alzò per andare a vedere di cosa si trattasse. Il marito russava beatamente e perciò lei, visto che era tutto in ordine, approfittò anche per andare a fare i suoi bisogni nella latrina antistante l'osteria. Era una notte tranquilla e forse il rumore che si era sentito era solo la gatta che, spostandosi incautamente, era caduta dal trespolo nel quale di solito si accoccolava per dormire. Appena uscita la donna, visto che l'oste russava, mi alzai deciso, lasciando solo Tullio, raggiunsi Tarcisio non dopo aver spostato dall'altra parte del letto la culla del bambino che mi intralciava e lo trovai sveglio come se mi aspettasse. Che baci, quali carezze e quali abbracci, quante volte estrassi la spada dal suo fodero e quante volte l'elsa mi si drizzò di nuovo in mano. Avrei voluto mangiare quel corpo delizioso e, non potendo farlo, quando riuscivo a prendere tra le mie labbra la sua, di spada, lo facevo godere succhiando il latte da quel prodigioso capezzolo turgido. Tarcisio miagolava come una gattina in calore e sembrava che anche lui non avesse aspettato altro che quella meravigliosa notte di equivoci per spassarsela a dovere. Il padre russava e lui ansimava senza ritegno, sicuro di nascondere nel russare del padre sospiri e gridolini di piacere. Quando però capì che la madre stava tornando mi mise le mani a posto e mise una delle sue sulla mia bocca in modo che anch'io ponessi fine ai miei sospiri lussuriosi. Che meraviglia restare così avvinghiati senza poter godere e sentire solo il palpito del suo cuore come se fosse l'unico cuore a battere per entrambi! La donna rientrò, cercò il suo letto, ma, poiché io avevo spostato la culla del bambino, ingannata dal punto di riferimento cambiato, invece di rientrare nel suo, di letto, rientrò in quello di Tullio dove c'era il posto da me lasciato libero. E Tullio, senza porsi domande inutili, trovandosi gratis tra le braccia quella splendida tardona, bella almeno quanto il figlio, anche lui sfoderò e rinfoderò la spada più volte con grande meraviglia della donna, la quale, pensando che fosse il marito, gli diceva godendo come una porca: “Questa sera non russi come sta facendo Tullio, marito mio.” Io naturalmente, approfittando dell'inaspettato secondo atto, non ci pensai due volte a rinfoderare ancora la mia spada con grande piacere di Tarcisio fino a quando tutto quel sollazzo non fu interrotto dall'oste che svegliatosi e non trovando la moglie al suo fianco la chiamò dicendole: ”Vespa, quanto tempo ti ci vuole per tornare a letto?” Le donne! Vespa capì al volo la situazione. Balzò in piedi e gli disse: “Eccomi, eccomi, sto sistemando il bambino che piangeva.” e così dicendo rimise la culla al posto suo e permise a me di ricoricarmi, ma ahimè questa volta con Tullio. A quel punto ringraziai la dea e le dissi mentalmente: ”O grande provvidenza di Venere che spargi nel mondo i piaceri della bellezza e dell'amore e dai a ciascuno il suo senza che egli sappia che sei tu a darglielo né perché.” E pensando alla dea mi addormentai tra le braccia di Tullio che mi conciliò il sonno accarezzandomi delicatamente i capelli, pensando a sua volta, come mi rivelò al mattino, di stringere ancora tra le braccia quella matrona insaziabile.” Finita la narrazione, ci fu una salve di applausi che provocò il diffondersi della fama di Eumolpo nella città in men che non si dica. Arrivavano doni. Arrivavano stuoli di ragazzi nudi che improvvisavano danze intorno a lui nella speranza di essere prescelti da quel porco per i suoi piaceri. Ma il porco, data l'abbondanza, faceva anche lo schizzinoso. Li rimandava indietro dopo avergli palpato a tutti il sedere per fargli una specie di preesame e commentava schifato: cos'è questa plebaglia, io cerco un giovinetto come questo, e indicava Gitone, che sappia leggere e scrivere e far di conto. Ho bisogno di un amasio ma anche di un contabile che mi faccia anche da segretario: non posso riempire l'albergo di giovinetti che schiamazzano e non fanno dormire nessuno. E come arrivavano i ragazzi, così arrivavano doni su doni e questo andazzo non sembrava voler cessare mai. Eumolpo al colmo del successo selezionava i suoi seguaci fissi e si vantava con loro che nessuno poteva più di lui avere influenza sui più potenti della città. Le sue conoscenze gli garantivano l'impunità, a lui e ai suoi protetti, anche se si fossero resi responsabili di qualche illecito. Noi, mangia e mangia, che non ci sembrava vero, eravamo tutti diventati belli pienotti e io in particolare avevo acquistato peso in eccesso cosicché pensavo che la Fortuna avesse distolto i suoi occhi dalla vigilanza su di me, come faceva una volta per mantenermi un fisico bello e sano. Ma il pensiero per me più assillante era un altro. Mi chiedevo che cosa sarebbe successo di noi se qualcuno fosse venuto a sapere la verità. Eumolpo aveva selezionato tra i ragazzi più belli un servitore personale, un tale Corace, innamoratissimo di lui e al quale sotto le coperte aveva rivelato la nostra vera identità e il mio terrore era che il ragazzo potesse anche involontariamente uscirsene con qualcuno. In questo caso saremmo dovuti fuggire di nuovo e ci saremmo dovuti di nuovo rassegnare ad una vita grama per sopravvivere alla quale ci saremmo dovuti ridurre a chiedere l'elemosina. Pensavo: “O dei, come è brutto vivere al di fuori della legge: non si dorme mai tranquillamente e si sta sempre ad aspettare che prima o poi qualcuno ci dia quello che ci meritiamo.” Circe e Polieno/Encolpio Intanto in mezzo a tutta quella gente che corteggiava Eumolpo si trovava anche, non notata da me, una donna di bellezza straordinaria che però stava cercando di prendere due piccioni con una fava. Come venni a sapere in seguito io le piacevo moltissimo e quindi pensava, la furbetta, di venire a letto con me e tramite me arrivare al testamento di Eumolpo. Era molto colta. Leggeva Omero in traduzione ma anche in greco ed era talmente infatuata di quel grande poeta che rinominava tutti con nomi presi dall'Iliade o, più spesso, dall'Odissea. Io non ho mai saputo come si chiamasse veramente. Come Circe si era presentata e come Circe io la ricorderò per sempre. E me, pensate un po', mi aveva chiamato “Polieno”, cioè col nome dell'amante più amato da quella puttana di maga. E omerico era anche il nome della sua ancella, Criside, incaricata da lei di avvicinarmi e di fare da ruffiana fra noi due. La ragazza, a sua volta di notevole bellezza, si fece notare da me con il trucco più banale che le donne hanno per attirare l'attenzione dei maschi. Camminavamo entrambi nel mercato di Crotone che è sempre così affollato e lei, che mi si era messa davanti, mi ostacolava, avresti detto volontariamente, spostandosi sempre sulla direzione che io ogni volta cambiavo per sorpassarla. A un certo punto, non potendone più, la sollevai di peso e le dissi: “E lèvati, scema!” “E che maniere!” fece lei continuando con una serie di insulti fra i quali 'maleducato' è il più ripetibile. “E smettila, le dissi, che non ti ho fatto niente.” “Non mi hai fatto niente, ma mi hai fatto cadere tutta la spesa. Guarda qua, ora mi tocca raccoglierla, altrimenti chi la sente la mia padrona.” Adirata era ancora più bella e il mio istinto mi spinse ad approfittare chissà perché di quell'occasione per approfondire la conoscenza. “Dai che ti aiuto, tu però potresti stare più attenta quando cammini.” A quest'ultima mia battuta lei rispose con un sorriso ammiccante che mi fece capire subito la situazione. Che volete che vi dica? Il bischero non voleva più funzionare ma l'istinto di maschio era in me, nonostante ciò, così forte che non resistetti al fascino di quegli occhi e di quel corpo mezzo nudo, tipico delle schiave: lei non sembrava essere una schiava, e così intrecciai con lei una relazione fatta di parole, talvolta di carezze che io però non spingevo mai oltre perché sapevo che il mio fratellino non avrebbe apprezzato quanto me quel ben di dio che si esprimeva con una voce ancora più incantevole dei suoi occhi. Lei d'altra parte non sembrava molto interessata ad andare oltre. Sembrava piuttosto interessata a farmi parlare e ad estorcermi la verità sulla nostra presenza a Crotone e in ogni caso su tutto quello che mi riguardava. Eravamo, per così dire, due sorelle; anzi no, due lesbiche alla prima esperienza che non sanno bene quale strategia adottare per arrivare ad una intimità più profonda in cui rivelarsi l'una all'altra per quelle che sono. A me la cosa piaceva molto e sembrava piacesse anche a lei. Ma le donne la sanno sempre più lunga di noi maschi. Come lesbica, che non era, Criside non aveva alcuna strategia, ma come donna sapeva bene sempre dove doveva e voleva arrivare. E così un giorno, di punto in bianco, mentre sembrava essersi quasi assopita fra le mie braccia mi fa: “Ormai ho capito tutto: tu lo sai di essere bello, perciò te la tiri per prostituirti a caro prezzo: i tuoi favori non li regali, come si dovrebbe, ma vuoi farteli pagare. Perché ti cureresti tanto attentamente i capelli, perché avresti sempre il volto truccato e, soprattutto, perché ostenteresti sempre un molle ammiccare nei tuoi sguardi, un passo attentamente studiato in modo che non travalichi mai l'andamento da te voluto se non per fare in modo che la tua bellezza attiri degli ammiratori e ti permetta di prostituirti? Io non sono una maga, ma non c'è bisogno di essere una maga per capire una persona dal suo aspetto, dai suoi sguardi e dal suo modo di comportarsi. Perciò, se ho indovinato, sappi che io ho pronto l'amatore che comprerà i tuoi amplessi; se invece tu, da gentiluomo, volessi offrirglieli gratuitamente, sappi che te ne sarei infinitamente grata. Considera che la tua ritrosia e il tuo frequente mettere avanti che sei uno schiavo di basso livello che non può aspirare all'amore di una signora attizzano ancora di più il fuoco di chi già arde dal desiderio di averti tra le braccia. Ci sono donne, lo sanno tutti, che si eccitano per la plebaglia e non riescono a lasciarsi andare se non tra le braccia di schiavi o messaggeri che girano con la veste tirata su e legata alla cinta. Ad altre piacciono gli acrobati del circo, ad altre ancora mulattieri impolverati da un lungo viaggio, ad altre infine i guitti di teatro che devono mostrare a tutti per mestiere le loro doti. Questo è il temperamento della mia padrona: a teatro lei abbandona la platea e va cercare nel loggione, fra i poveracci, il lacché sessuale per farsi sbattere come piace a lei.” Più che lusingato da quel discorso inatteso, ma non tanto corto da non consentirmi di riflettere, la interrompo all'improvviso e le chiedo: “Non stai mica parlando di te?” Rise di cuore e mi rispose: “Sei così sicuro di te e del tuo fascino? Non è proprio il caso, almeno per quanto mi riguarda. Fino ad ora io non sono mai andata a letto con uno schiavo e voglia il cielo che io non debba mai spedire i miei amplessi sulla croce di qualche mio amante. Le signore facciano pure se si divertono a baciare i segni delle frustate sulle schiene dei loro amanti; io per me se non è almeno un cavaliere a letto non ci vado, anche se sono una schiva.” Non c'è che dire, la cosa mi colpì molto. Mi pareva strano che le donne di Crotone avessero invertito le loro preferenze in fatto di amanti: le padrone con gli schiavi e le schiave con i padroni. Ma! Comunque dissi a Criside che mi facesse incontrare questa signora in un bel bosco di platani che c'era allora a Crotone e la ragazza accettò di buon grado la mia richiesta. Non ci volle molto. Si tirò un po' più su la veste e si dileguò entro un bosco di alloro che fiancheggiava la passeggiata e dopo un po' ricomparve tirando fuori da quel nascondiglio la sua padrona... la donna più bella in assoluto che io abbia mai visto in vita mia! Non credo che potrei mai riuscire a descrivere a pieno la sua bellezza e infatti le mie parole non sono adeguate né sono capaci di farlo. I lunghi capelli ondulati le ricadevano sulle spalle coprendole completamente e partivano da una fronte minuscola per ricadere graziosamente all'indietro, le sopracciglia coprivano tutto l'arco dell'occhio arrivando fino all'inizio delle guance e dall'altra parte arrivavano quasi a congiungersi all'altezza degli occhi, i quali erano più brillanti delle stelle quando non c'è la luna, le narici erano delicatamente ripiegate verso l'interno e la boccuccia doveva essere come quella di Diana scolpita da Prassitele. Ma che dico, Prassitele? Il mento, il collo, le mani, i piedi, le gambe adorne di una sottile catenina d'oro, il nitore della sua pelle, tutto, tutto superava di molto il marmo di quel grande scultore. Il bellissimo ricordo che avevo di Doride, un mio vecchio amore, fu piano piano oscurato da quell'immagine stupenda di donna. Perciò non potei fare a meno di declamare i versi che mi ispirò all'istante: “Ma che è successo, Giove, che tu, smesse le tue armi d'un tempo, te ne stai muto e silente fra gli dei del cielo? Per costei ti dovresti trasformare in un toro infojato o in un bel cigno. Questa è la vera Danae: tu prova solo a sfiorarle quel suo corpo splendido e le tue membra tutte bruceranno al fuoco ardente del tuo desiderio.” Lusingata, la donna sorrise con tanta dolcezza che mi parve di vedere la luna quando si affaccia dietro una nuvola. Poi accompagnando le sue parole con delle mosse graziose mi disse: “Se ti può piacere una donna distinta che ha solo da poco provato l'uomo per la prima volta, io posso fornirti, bello, una sorella. E' vero che tu hai già un fratello: ho preso le mie informazioni. Ma cosa ti vieta di adottare anche una sorella? Io vengo allo stesso titolo di lui. Tu degnati soltanto di conoscere, quando ti pare, i miei baci.” “Non ci siamo” dissi, “sono io che in nome della tua bellezza ti prego di accogliermi, straniero, nella cerchia dei tuoi ammiratori. Lasciati adorare: sarò il tuo servo più fedele! Lascia che io entri nel tempio dell'Amore: non mi presenterò a mani vuote, ti porterò in dono il mio fratellino.” E lei: “Che dici? Mi vuoi offrire in dono la persona senza la quale non puoi vivere, che ha legato il tuo cuore ai suoi baci, che ami con la passione con cui io vorrei che amassi me?” Che voce, ragazzi! Lei parlava e a me pareva di udire il coro delle Sirene. La ascoltavo sedotto dalla sua grazia e dalla sua voce: la luce era diventata così intensa che mi sembrava di non vedere altro che lei. Chiesi il suo nome. “Ma come?” disse, “La mia ancella non ti ha detto che mi chiamo Circe. Non sono, per la verità, figlia di dei, però lo interpreterò come un segno degli dei se il destino vorrà unirci. Sono sicura che già adesso il misterioso influsso di un dio sta macchinando qualcosa. Non è senza motivo che Circe ama Polieno: questi due nomi insieme fanno sempre scintille. Prendimi, dunque, se vuoi. Non temere occhi indiscreti: il tuo fratellino ora è lontano da qui.” Stavamo davvero al riparo da sguardi indiscreti su un prato ricoperto da una manto d'erba con fiori di vario colore. Lei mi strinse tra le sue braccia delicate come una piuma e dolcemente mi accompagnò facendomi scivolare a terra. Mi strinsi a lei e di nuovo non potei fare a meno di declamarle i versi che quell'amplesso mi dettava dal profondo. Quali furono i fiori che dall'Ida la madre Terra riversò dall'alto quando il suo amore a lei concesse Giove col cuore e il petto ardenti di passione (rose e viole e il cipero ed il verde prato era tutto un luccicar di gigli) così la terra ora alle dolci erbe ci invita... e favorisce il nostro amore segreto questo giorno luminoso. Quanti baci allacciati su quel prato e che lusinghe di un maggior piacere! Ma quali fiori, che baci, quali amplessi? Più glielo strofinavo sulla fica più quello stronzo rimaneva moscio! Più le agguantavo con le mani i glutei entrandole coi pollici nell'ano più la débacle stava sotto gli occhi miei e di lei. Armeggiammo parecchio perché il gioco ci piaceva, e anche tanto, ma si sa che qualsiasi bel gioco dura poco. Quando lei capì che il mio fratellino era vittima di una irreversibile impotenza mi guardò dritta in viso ed arrossendo mi disse: “Che succede? Per caso i miei baci ti fanno schifo? Forse per il digiuno mi puzza l'alito? O mi puzzano le ascelle per il sudore che vi ristagna? O non è forse il pensiero di quel frocetto che ti rende inattivo ed impotente?” Arrossii in un modo così violento che sentivo il calore spandersi sulle mie guance e se un pizzico di forze ancora mi restava lo persi tutto irrimediabilmente sentendomi le membra squinternate. Le dissi: “Ti supplico, mia regina, non insultare la mia condizione infelice. Sono vittima di una fattura.” “Ma quale fattura, vigliacco? Tu sei un frocione. Col tuo amichetto come ti si addrizza! Lo capisco da come ti sbava appresso aspettando che il tuo bischero alzi la testa dietro alle sue natiche.” Poi, inviperita, si alzò su di scatto, mi mollò un calcio su una gamba e in lacrime si allontanò da quel prato correndo. Andava verso Criside che per discrezione si era tenuta lontana dal luogo del nostro amplesso. Mi alzai anch'io e le corsi dietro per tentare ancora di darle una spiegazione. Ma quando vidi che le due erano intente a discutere tra loro mi fermai, non visto, poco distante. Circe le diceva: “Dimmi senza riserve, Criside: sono una racchia? Sono una donna inelegante? Ho qualche difetto che deturpa la mia bellezza? Non ingannarmi, ti prego. Non so in che cosa, ma in qualche cosa o io o tu abbiamo sbagliato.” Criside non rispondeva. Allora lei le strappò di mano lo specchio, lo girò in tutte le direzioni con l'allegria di chi è innamorato e osserva specchiandosi le doti che dovrebbero sedurre l'amato, si alzò la veste che strusciava sul terreno e corse a rifugiarsi nel tempietto di Venere. Io ero inebetito e forse nell'ebetudine, a cui nel mio caso si aggiungeva l'orrore di chi ha avuto una visione mostruosa, è la radice dell'ispirazione poetica. Mi vennero in mente dei versi in cui mi interrogavo sulla reale natura di quel piacere che il mio “fratellino” mi negava. Come quando di notte arriva il sonno e i sogni illudono i tuoi occhi stanchi facendoti sognare che tu scavi la terra e che la terra oro ti rende e che tu con la mano disonesta ti prendi la preziosa refurtiva ed il sudore addirittura bagna il tuo viso perché hai timore che qualcun altro, messo sull'avviso, ti derubi a sua volta, così subito appena quel piacere si allontana dalla mente delusa ed alla vera forma della realtà la riconduce l'animo ciò che ha perso torna ancora a chiedere e di nuovo si concentra sull'immagine ormai fioca e perduta. Preso dall'ispirazione non mi accorsi che le due donne erano entrate nel tempio di Venere lì vicino. Allora incominciai a cercarle qua e là chiedendo un po' a tutti e finalmente un sacerdote che usciva dal tempio recando in braccio una bimba seminuda e insanguinata in ogni parte del corpo mi disse: “Ma sì, sono due donne giovani molto belle, stanno proprio davanti all'altare.” Corsi per raggiungerle ma davanti all'altare non c'era proprio nessuno. Ricominciai a chiedere ma alla fine stanco mi misi seduto su un muretto di mattoni che divideva due ambienti destinati a coloro che volevano dedicare i loro amplessi alla dea. Ma in quel momento non c'era nessuno e io ne approfittai. Stavo in preghiera col viso basso e le braccia incrociate sul petto quando due mani delicate mi coprirono gli occhi e una voce femminile mi disse: “Indovina chi è?” Io pensai subito a lei, ma nessun elemento della situazione avallava quella mia supposizione. “Criside!” dissi. “Chi è Criside, traditore fedifrago?” Non era Gitone? che, tolte le mani dai miei occhi e svelatosi, mi si presentò in tutta la sua fulgente bellezza. Lo abbracciai piangendo e lo trascinai senza indugi in una delle stanzette vuote e ben riparate del tempio. Anzi, per nostra fortuna c'era anche un mucchio di paglia di cui feci un giaciglio per distenderci. La bellezza di Gitone! Ve l'ho già descritta ed è inutile che mi ripeta, ma non mi fece effetto. Me lo prese in bocca, me lo strinse in mano, se lo mise fra le natiche massaggiandolo da professionista, tutte pratiche considerate da tutti le migliori offerte che si possono fare alla dea Venere. Niente! L'unica offerta che quella porcona di una dea avrebbe gradito, cioè la mia erezione, non si verificava. Gitone stava per piangere, ma poi, in un ultimo disperato tentativo mi mise in bocca il suo per farsi fare un pompino, e poiché io lo eseguivo svogliatamente non andò a compimento o per la mancata partecipazione di entrambi o probabilmente perché la dea non lo gradì; infatti poco dopo arrivò una coppia a guastare la festa e incominciò a sbattersi, mentre noi due dormicchiavamo in attesa di riprendere le forze dopo tutto quell'inutile armeggiare. Gitone mi disse con feroce ironia: “Non mi hai tradito. Non avresti potuto tradirmi. Per questo motivo io ti ringrazio e ti ringrazio anche perché mi ami con la correttezza di Socrate. Alcibiade non avrebbe potuto levarsi dal letto del suo maestro più intatto di me.” Io ero disperato, il pianto mi impediva persino di parlare, lo accarezzavo ma la sensazione di impotenza mi faceva impazzire. Tutto quel ben di dio tra le mani e non poterne trarre il piacere che se ne poteva trarre. Imprecai contro tutti gli dei e in particolare contro Venere che neanche all'interno del suo tempio poneva un veto alle angherie di un altro dio, per di più minore, come Priapo. Cercai di rassicurare Gitone con promesse che non sapevo se avrei potuto mantenere. Gli dissi che sarei rimasto senza toccarlo per tre giorni e per tre notti e che poi sarebbe tornato tutto normale, me lo aveva detto una sacerdotessa di Venere che avevo interpellato in proposito. Mentivo e si vedeva chiaro che il ragazzo non mi credeva. Aveva un sorriso beffardo che voleva significare che non valeva la pena di rovinarsi la reputazione per me. Temeva di diventare lo zimbello della gente perfino se si fosse fatto trovare con me in quel luogo dove si offrivano alla dea accoppiamenti tra uomini. Perciò si allontanò di corsa ma verso l'interno del tempio. Anch'io mi allontanai piangendo e pensando che forse il mio amore era andato dalla dea per pregarla di restituirmi ciò di cui Priapo mi aveva privato. Me ne tornai a casa e mi sdraiai sul letto incapace né di dormire né di stare sveglio. Sentivo solo le lacrime che fluivano dai miei occhi bagnando il giaciglio e non consentendomi di pensare a niente. Ma ecco che arriva Criside e mi porta una missiva della sua padrona: “Caro Polieno, se io fossi una ninfomane o una puttana, ora mi lamenterei di essere andata in bianco. Invece ti dirò di più: io ringrazio la tua impotenza. E' stato bello prolungare i preliminari e non arrivare mai al culmine del piacere. Però desidero sapere come stai. Sei arrivato a casa con le tue gambe? I medici escludono che possa camminare con le sue gambe chi è sprovvisto di muscoli. Dammi retta, ragazzo, vai da un medico. La paralisi è una brutta bestia. Tu sei malato. Dalla cinta in giù sei già perduto. Se la paralisi arriva alle ginocchia, puoi cominciare ad organizzare il tuo funerale. Io, nonostante lo smacco, non sono né gelosa né vendicativa. Ti dico io come fare. Rivolgiti a Gitone. Digli di dormire lontano da te per tre giorni e vedrai che i tuoi muscoli riacquisteranno il loro tono di sempre. Per quanto riguarda me, sono sicura di aver trovato in te l'amante a cui piaccio di meno: me lo dicono lo specchio e la mia reputazione. Addio, Polieno.” Quando ebbi finito di leggere, Criside mi disse: “Sono cose che capitano, queste, in questa città in cui le donne sono capaci di tirare giù dal cielo la luna pur di far tornare sù quello che vogliono. Dunque io e la mia padrona ci prenderemo cura anche di questo problema. Tu scrìvile una appassionata lettera d'amore, piena di parole dolci e persuasive e cerca di riconquistare il suo cuore con l'eleganza delle tue espressioni. Ti dico la verità: da quando ha subìto lo smacco non è più in sé.” Le obbedii immediatamente e scrissi a Circe questa lettera: “Padrona mia, ammetto di aver sbagliato più di una volta. Sono giovane, mi si può comprendere. Però almeno fino ad oggi non mi sono mai macchiato di alcun crimine nefando. Ma eccomi ora davanti a te per proclamarmi reo confesso. Qualunque punizione vorrai infliggermi sarà per me meritata. Ho tradito? Ho ucciso? Ho compiuto sacrilegi? Pensa tu a punirmi e se la condanna è a morte eccoti la mia spada, e se ti accontenti delle frustate vengo di corsa già spoglio per offrirmi a te. Ricordati però che questa volta non ho sbagliato io, ma il mio bischero. Io ero un soldato già pronto alla battaglia ma non potei impugnare la spada. Chi mi abbia tradito non lo so. Può darsi che sia stato il pensiero correndo più del corpo, può darsi che il corpo abbia corso più del pensiero esaurendo la mia passione in breve tempo. Mi consigli di curarmi la paralisi. Come se me ne potesse capitare una peggiore di quella che mi ha mutilato del mio uccello. Concludo: se mi darai una seconda possibilità io saprò soddisfarti come si deve. Addio, Circe. Io sarò per sempre il tuo Polieno.“ Dissi a Criside che il giorno dopo avrei aspettato lei e la sua padrona nel boschetto di lauri che era stato il teatro del mio fallimento. E dopo averla salutata consegnandole la lettera per la sua padrona decisi di dedicarmi un po' a me stesso per vedere se potessi in qualche modo resuscitare la parte che mi aveva fatto fare quella brutta figura. Evitai un bagno completo e mi limitai ad una breve frizione di tutto il corpo; poi consumai un pasto più sostanzioso del solito: cipolle, teste di lumache senza salsa e poco vino. Poi una breve passeggiata per digerire e conciliare il sonno e infine mi coricai senza Gitone. Era mia intenzione obbedire a quella bellissima donna e avevo paura che il mio fratellino mi sfiorasse perfino il fianco dormendo accanto a me. La maga Proseleno e il secondo fallimento di Encolpio/Polieno. Il giorno successivo in gran forma mi addentrai nel boschetto di platani, anche se quel luogo sfortunato mi faceva un po' paura e mi misi ad aspettare in mezzo agli alberi l'arrivo di Criside che mi avrebbe indicato la strada. Il luogo era bellissimo ma per me ingrato; l'ansia mi strangolava e così l'ispirazione non tardò ad arrivare: Fresche ombre nell'estate i tremolanti platani diffondevano all'intorno e l'alloro di bacche incoronato e i tremuli cipressi e intorno i pini le cui cime stormivano nel cielo. In mezzo a queste piante verdeggianti gorgogliava con acque spumeggianti un rapido torrente chiacchierino che lambiva con spruzzi e mormorii le lucide rocciose amene sponde. Un vero e proprio luogo per l'amore! Aveva testimoni la canaria, aedo delle selve, e l'usignolo che svolazzando intorno, per i prati e sulle viole, alle dimore loro gorgheggi dedicavano dolcissimi. Feci qualche giretto e poi mi sdraiai proprio nel posto del giorno prima. Criside arrivò quasi subito portandosi appresso una vecchietta. Mi salutò dicendomi: “Come va, bel tenebroso? Hai deciso finalmente di mettere la testa a posto?” Anche la vecchia mi salutò con un sorriso laido che però significava chiaramente che era felice di poter manipolare un giovanottone come me. Criside le fece cenno di cominciare e lei subito si attivò. Tirò fuori da una piega della veste una cordicella di fili colorati che mi legò intorno al collo; poi impastò la sua saliva con una polvere che aveva con sé, la tirò su col dito medio e me ne segnò la fronte anche se io cercavo di sottrarmi. Poi recitò: Santo Priapo, rustico custode, guarisci questo membro derelitto tu che te ne stai lì sempre a cazzo dritto. Recitò più volte questa preghiera che nella sua boccaccia sdentata sembrava piuttosto una formula magica; poi mi ordinò di sputarmi tre volte sul pisello e di gettarvi sopra delle pietruzze, da lei consacrate precedentemente, che aveva portato con sé avvolte in un panno rosso. Poi allungò le mani e cominciò a testare la resilienza del mio pene. Incredibile! Quello in un attimo balzò sù e si distese con vistosi scatti nelle mani di quella vecchia incantatrice di serpenti. Lei me lo teneva ma nello stesso tempo faceva salti di gioia anche lei dicendo a Criside: “Eccolo, Criside, lo vedi che ho stanato la lepre, ma purtroppo... per altre cacciatrici!” Criside allora la pagò e poi, presomi per mano, mi condusse di corsa dalla sua e mia padrona. La trovammo in casa ed era chiaro che ci stava aspettando. Era mollemente sdraiata su un morbido letto ed appoggiava il collo marmoreo su un cuscino dorato facendosi vento con un ramo di mirto fiorito. Quando mi vide, arrossì, naturalmente pensando al mio smacco del giorno prima; poi dopo aver congedato tutti i presenti mi disse di sedermi accanto a lei e mi pose sugli occhi il ramoscello di mirto con cui prima fendeva l'aria calda dell'estate. Era una specie di paraocchi che la rese più intraprendente: “Come stai, bel paralitico? Sei venuto qui con tutti i tuoi pezzi?” Le risposi: “Non fare domande. Fai la prova.” e così dicendo mi tuffai tra le sue braccia e le diedi un'infinità di baci che lei ricambiava appassionatamente. La bellezza stessa del suo corpo mi invitava prepotentemente e mi spingeva a godermi senza remore i piaceri di Venere. Già le labbra risucchiavano le une dalle altre infiniti saporosi baci, già le mani intrecciate avevano in precedenza esplorato le carezze più impudiche, già i corpi erano avvinghiati in un amplesso inscindibile, già i nostri sospiri risuonavano all'unisono quando quel disgraziato mi tradì per l'ennesima volta; disperato lo sentii ritrarsi e abbandonare lentamente il turgore che quell'amplesso magnifico gli aveva provocato. Maledissi mentalmente Priapo e mentalmente cercai una via d'uscita. Mi venne in mente il mito di Endimione che la dea Artemide amava solo quando lui dormiva e stava dunque, pensavo, col pisello inerte e decisi di ingannare il disappunto di lei raccontandole quel mito a mia parziale giustificazione. Ma non feci in tempo ad introdurre il racconto e il nome del bellissimo ragazzo amato dalla dea, che lei, donna istruita e, secondo me, anche navigata, capì al volo la situazione e la mia intenzione, si ritrasse, si levò e cominciò ad urlare come una pazza. E, ferita da quell'ennesimo flagrante oltraggio, decise di prendersi la giusta vendetta. Chiamò i servi e diede loro l'ordine di frustarmi. Poi non contenta di quell'umiliazione che mi si infliggeva senza pietà, chiamò a raccolta tutte le schiave e gli schiavi di infimo rango e ordinò loro di sputarmi tutti addosso. Io mi proteggevo gli occhi con le mani e, senza preghiere, perché ero convinto che la mia colpa era manifesta, mi feci buttare fuori dalla casa a forza di frustate e di sputi. Lo stesso accadde alla vecchia e la povera Criside fu picchiata selvaggiamente dalla padrona mentre tutta la servitù mormorava chiedendosi chi mai avesse potuto farla infuriare fino a quel punto. Il monologo di Encolpio. Fuori dalla casa di Circe cercai di raggiungere velocemente la mia cercando di rassettarmi alla meglio e di dare il meno possibile nell'occhio alla gente che mi incrociava. Senonché a un dato momento sento chiamarmi proprio quando la gente che mi incrociava era più numerosa. Era Gitone che insieme ad Eumolpo probabilmente stavano tornando a casa anche loro, carichi di sacchi. Mi resi conto che per la vergogna avevo sbagliato direzione. Cosa trasportate? Chiesi. Regali. Avevano con sé ogni ben di dio per mangiare e vestirsi e anche per vendere perché spesso si trattava anche di gioielli; addirittura nel fondo di un sacco da me rovistato su due piedi vidi che c'erano anche delle monete. Esternai a quel punto il mio stupore. Ma quel furbone di Eumolpo non mi permise di parlare e chiamandomi con un nome finto, Cecilio, mi disse a voce altissima in modo che tutti lo sentissero: “Aiuta Mèmnone (che in realtà era Gitone) e non ti meravigliare: altro che questo devono portarmi se vogliono un po' della mia eredità.” Fummo raggiunti subito da una schiera di bei ragazzi coi loro visetti truccati che ci seguirono inscenando un graziosissimo balletto. Me li sarei fatti tutti quanti lì, seduta stante, e quella donna stupenda... invece... non mi riusciva neanche di pensare di convincere il mio arnese a soddisfarmi! Comunque..... rianimato da quella imprevista compensazione delle mie disgrazie, cercai immediatamente di coprire i segni delle frustate in modo che Eumolpo non mi sfottesse per le ferite inflittemi e Gitone non se ne addolorasse. Appena arrivati a casa, l'unica cosa che mi riuscì di fare per salvare il mio onore fu di simulare un forte mal di pancia, così mi infilai nel letto per scaricare tutta la mia rabbia contro colui che era l'unica causa dei miei mali. Tre volte presi in mano il mio fringuello inerte come un frustulo di tirso, ma tre volte fui preso dal timore che quello ahimè non desse più risposta a me che ero lì tutto tremante perché più non potevo fare quanto invece prima mi piaceva tanto; e infatti lui costretto dal terrore, più freddo della bruma in pieno inverno, mi si era nascosto in mezzo agli inguini rifugiandosi sotto mille rughe, sicché io non potei trovarne il capo a cui infliggere l'ultimo supplizio, ma depistato da quel manigoldo ricorsi alle parole più violente che potessero nuocergli di più. Mi alzai appoggiandomi sul gomito non interessato e, continuando a cercare di stanarlo, quell'infame, gli dissi più o meno così: “Che dici in tua difesa, infamone, vergogna degli uomini e degli dei? Io ti dovrei ignorare parlando di loro. Mi meritavo questo, io? Che mi facessi precipitare in questa vergogna? Mi meritavo che tu mi prendessi gli anni migliori della giovinezza e mi consegnassi a questa debolezza da vecchi? Ti prego, ti scongiuro, fammi almeno capire che ci sei.” Niente da fare. Dette queste parole... quello l'occhio teneva fisso al suolo senza guardarmi e non si commuoveva né voleva ascoltarmi (e non avevo neppure incominciato!) più di quanto farebbero dei salici piangenti o i fragili pieghevoli papaveri. Ciononostante, giunto alla fine del mio sermone, incominciai a pentirmi di esso e nell'intimo ad arrossirne perché senza pudore mi ero messo a discutere col mio arnese che le persone appena un po' più civili non ammettono neanche di possedere. Quindi mi riconduco alla ragione fregandomi a lungo la fronte e mi dico: “Che cosa ho fatto di male rimproverando il mio arnese? Che differenza c'è con chi se la prende con lo stomaco, la gola o la testa quando gli fanno male? Che differenza c'è? Forse Ulisse non litigava col suo cuore e certi personaggi delle tragedie greche non rimproverano forse i loro occhi come se quelli potessero capirli? I gottosi se la prendono con i piedi, i malati alle mani se la prendono con le mani stesse, i cisposi con gli occhi, e chi riceve un calcio alle palle scarica sui piedi tutto il dolore. “Ipocriti Catoni, perché mai mi imbruttite con fronte corrucciata e condannate questo mio lavoro ispirato ad inedita schiettezza? Non splende in esso la grazia triste d'un parlare pulito e raffinato ma un linguaggio diretto qui racconta ciò che il popolo fa. Chi non conosce i dolci amplessi e le gioie di Venere? Chi sotto le coperte mai proibisce che le membra si scaldino? Epicuro, padre e maestro della verità, ce l'ordinò e disse che la vita ha questo solo come fine. Chiaro? Così il cuore mi dettava, ma anche il pensiero mi diceva chiaramente la stessa cosa: “Non c'è niente di più ipocrita al mondo di uno stupido preconcetto né della finta moralità.” Mentre io mi intrattenevo come ho detto col mio arnese in sciopero era rientrato Gitone e per non disturbarmi si era fermato nel vestibolo dove stava mettendo in ordine le cose che si era diviso con Eumolpo. L'angoscia dell'inerzia con cui il mio arnese rispondeva alle mie rampogne mi metteva in un'ansiosa agitazione che si sfogava in azione e in pensieri. Ebbi un'idea. Misi fine all'arringa accusatoria, chiamai Gitone e gli dissi: “Fratello mio, raccontami per filo e per segno la notte che Ascilto ti rapì a me, ma mi devi dire tutta la verità: è stato sveglio fino a quando non ha compiuto il suo oltraggio o si è addormentato trascorrendo la notte senza partner né sesso?” Il ragazzo si mise le dita in croce sulla bocca e giurò e spergiurò che Ascilto non era riuscito a fargli nessuna violenza. Mi tornò il buon umore. In fondo, anche se non ci riuscivo con le donne, con questo bellissimo ragazzo che mi amava così fedelmente sarei riuscito ugualmente a costruirmi una storia d'amore. Lo tirai a me e lui mi guardò stupito pensando alla malattia che mi aveva colpito. Ma io ero così eccitato che anche se il mio arnese non si addrizzava Gitone si abbandonava estatico tra le mie braccia e godeva godeva e cercava in tutti i modi di eccitare anche me e, non riuscendoci, mi prendeva le mani e se le portava su quel culetto delizioso facendomi intendere di fare con quelle ciò che non riuscivo a fare col mio fratellino morto. Non mi feci pregare. Lo penetrai quasi con tutta la mano mentre mugolava di piacere. Un piacere anche più intenso provavo io ma non mi riusciva di trasmetterlo al defunto che avevo tra le gambe. Mi pareva di impazzire: non c'era niente da fare e quando Gitone si mostrò pago di quell'amplesso atipico ricominciai a piangere, ma lui che mi amava davvero mi disse di non disperare e di accompagnarlo al tempio di Priapo per pregare il dio di guarirmi. Con Gitone, Enotea e Proseleno nel tempio di Priapo. Fummo là in un attimo perché Gitone conosceva bene il tempio e al tempio lo conoscevano tutti e infatti salutava tutti lungo il breve viale che conduceva all'entrata. Appena arrivati, senza inoltrarmi troppo, mi inginocchiai e rivolsi al dio che mi si dimostrava così avverso la seguente preghiera non senza aver prima vantato le sue parentele divine e le città che gli erano devote e che gli dedicavano un culto: “Accogli, Padre, questa mia preghiera. Non sono un assassino né un sacrilego ma solo un poveraccio che peccò con una sola parte del suo corpo. Un povero che pecca è men colpevole: accetta dunque questa mia preghiera, libera dal rimorso la mia mente e la minore colpa a me perdona. Poi un giorno, quando infine la mia sorte vorrà concedermi un piccolo sorriso, vedrai, sarò all'altezza del tuo nume e ti dedicherò sopra l'altare un capro ed un agnello ed un maiale e col vino novello libagioni di continuo a te dedicheranno molte schiere di giovani festanti e inni sacri in tuo onore intoneranno. Mentre pregavo, quel giovinetto impagabile era andato a comperare dei fiori e li stava intrecciando per dedicarli alla statua del dio. Anch'io mi misi ad aiutarlo e man mano che finiva mettevo le sue coroncine o al collo o sulla testa o addirittura sul membro eretto del dio. E mente sbrigavo queste faccende e osservavo attentamente il mio defunto arnese per vedere se desse segni di resurrezione, entrò nel tempio Proseleno con i capelli scompigliati e una veste nera, orribile: mi afferrò e mi trascinò nel vestibolo. “Quali streghe ti hanno mangiato le forze, quale merda o carogna hai pestato di notte in qualche trivio per ridurti così? Neanche col tuo ragazzetto ci sei riuscito; ma moscio, debole e sfiancato come un cavallino in salita hai sprecato inutilmente sudore e fatica. E non contento di ciò mi hai messo contro anche gli dei irati.” Poi, di nuovo, senza alcuna resistenza da parte mia, mi trascinò nella cella della sacerdotessa, mi buttò sul letto e di nuovo prese a bastonarmi le spalle con una scopa che stava lì dietro la porta. Non reagii lo stesso, ma per fortuna al primo colpo la scopa si spezzò, se no quella mi avrebbe fracassato anche le spalle e la testa. Però strillavo come se mi stessero impiccando e con lo sguardo oscurato dalle lacrime che fluivano abbondantemente ripiegai il capo sul cuscino. La vecchia, anche lei piangendo copiosamente, con la voce tremante cominciò ad imprecare contro i fastidi della sua vecchiaia mentre si sedeva dall'altra parte del letto. A quel punto arrivò la sacerdotessa che ci ingiunse di smetterla con quei piagnistei e ci disse: “Siete venuti nella mia cella per un funerale? E in un giorno di festa che anche chi è in lutto si concede un sorriso?”. La vecchia prese la parola e disse: “O Enotea, questo ragazzo qui presente è nato sotto una cattiva stella: non riesce a vendere la sua mercanzia né alle ragazze né ai ragazzi. Uno sfigato cosi io non l'ho mai visto: al posto dell'uccello ha un batacchio inerte. Pensa che si è alzato dal letto di Circe senza essere riuscito a farsela!” Enotea venne a sedersi in mezzo a noi e, dopo aver scosso lungamente il capo, disse: “Questa malattia, io sono la sola che la possa guarire. Perciò bando alle chiacchiere. Questo ragazzo dorma con me una notte e al risveglio vedremo se non sarò riuscita a renderglielo duro come il corno.” Poi anche lei incominciò a recitare una sorta di formula magica: “Quello che vedi tutto a me obbedisce. Se io lo voglio la fiorente terra subito inaridisce disseccata delle sue linfe e l'acqua faccio nascere dalle più dure rocce in abbondanza. Al mio passaggio il mare si assoggetta e fa inchinare i flutti più violenti. Ed ai miei piedi i venti si distendono; a me i fiumi obbediscono e le tigri, e i serpenti soccombono al mio cenno. Non basta? Allora sappi che la luna discende giù dal cielo e suo fratello, il sole, resta attonito a guardarla e inverte la sua corsa al mio comando i destrieri piegando che lo portano. Tanta é la forza delle mie parole magiche! Ad esse i tori più furiosi placano il loro ardore presto estinto dai miei possenti riti verginali. Con magiche parole un giorno Circe sottrasse a Ulisse i valorosi eroi per trasformali in porci grufolanti; per esse Proteo sempre si trasforma. Ed io che le conosco tutto posso: far nascere nel mare erbe montane e i fiumi far salire sopra i monti.° Quando ebbe finito ordinò a Gitone di uscire e a Proseleno di fare un piccolo impasto con la sua saliva e con varie polverine che conservava in una teca; le ordinò di spalmarmele poi nell'ano massaggiandolo lungamente; poi le ordinò di prendere un bicchiere di satirio, di scaldarlo al lume di una candela e di mettervi dentro un cucchiaio di miele, una bacca di cipresso, tre semi di zucca e i due occhietti di una lucertola che catturò all'istante; poi le ordinò di farmi bere quel guazzabuglio senza tante storie, tenendomi il naso turato. Io a sentire quegli ordini mi sentii morire: il programma mi sembrava delirante e perciò mi misi ad osservare più attentamente la vecchia per vedere se mi riusciva di impedirle di attuarlo. Ma Enotea era implacabile: “Allora? Volete osservare o no i miei ordini?” E lei stessa incominciò a trappolare fra vasi e vasetti biascicando litanie incomprensibili che probabilmente invocavano l'assistenza del dio. Strano che per guarire un maschio il tempio avesse incaricato una sacerdotessa, ma l'obiezione ebbe subito la risposta perché era evidente che Enotea era venuta lì per farmi fare l'amore con lei. Quando ebbe finito, lavatasi accuratamente le mani, si piegò sul letto e mi baciò più volte anche sul corpo. Poi si dedicò lungamente al mio bischero cercando di cavarne almeno qualche piccolo fremito, ma quello non aveva alcuna intenzione di reagire a quelle labbra carnose e calde come un il fegato di un animale appena immolato. Lei non se ne preoccupò minimamente. Era chiaro che il rito appena iniziato avrebbe dovuto svilupparsi su un lungo tratto di tempo. Perciò si alzò con tutta calma e dicendomi: “Dormi, bello, non aver paura!” mi lasciò là sul letto già mezzo tramortito. Poi piazzò al centro dell'altare una vecchia tavola cospargendola di carboni ardenti, riparò con della pece calda una vecchia scodella di legno crepata dal tempo; appese alla parete il chiodo che le era rimasto in mano quando l'aveva staccata dal muro. Quindi, legatasi intorno alla vita una parannanza, mise sul fuoco una pignatta enorme e immediatamente trasse fuori dalla dispensa con un forchettone un pacchetto contenente una manciata di fave e un pezzetto muffito di testa di maiale che aveva i segni di numerosi tagli. Slegato il pacchetto ne prese una manciata di fave e mi ordinò di sbucciarli accuratamente. Io obbedii e separai i legumi dai baccelli completamente marci. A un certo punto si infastidì della mia lentezza, prese lei l'iniziativa, sbucciò le fave con i denti sputando a terra le bucce che erano così marce e nere da sembrare mosche stecchite. Chissà quante volte quelle due avevano compiuto quel rito. Sembrava che stessero facendo una specie di balletto tanto erano coordinate nei movimenti e nello spostamento dei vasetti e delle fiale. Ma il tutto a me non piaceva. Ero seriamente preoccupato. Avevano messo il chiavistello alla porta e addio Gitone! Insomma non mi fidavo: il mio arnese aveva le stesse probabilità o di essere guarito o di staccarsi e lasciarmi come una femmina. Cominciai a pensare al solito piano di fuga, ma non era facile. Il tempio era sorvegliato ed Enotea, a quanto pareva, doveva essere una delle sacerdotesse più potenti all'interno di esso. Insomma per il momento preferii godermi quella specie di balletto che era davvero inusuale per me. Certe cose solo in provincia si riescono a vedere! Soprattutto osservavo stupito fino a che punto la povertà può essere creativa e ammiravo la grande abilità che esse ponevano nei singoli dettagli. Quello non era un tempio. Non vedevi brillar da qualche parte indiano avorio nell'oro incastonato né splendeva di calpestati marmi il pavimento, marmi portati via alla madre terra; c'era, su un graticcio di salice distesa, paglia di grano a Cerere rubato, e c'eran tazze d'argilla appena fatte da un vecchio tornio assai rudimentale. Un vaso modestissimo per l'acqua e cestelli di vimini pendenti da un ramo fluttuante ed una brocca maculata di vino. E la parete, a sua vola imbottita tutto intorno di paglia secca e d'argilla buttata dove càpita càpita, mostrava una fila di chiodi arrugginiti su cui poggiava un'esile cannuccia di giunco ancora verde. Poi provviste che l'umile capanna conservava: sorbe pendenti da un trave annerito dal fumo degli incensi eran sospese intrecciate in corone profumate e santoreggia messa lì a seccare insieme ad uva in grappoli appassiti. Pareva proprio la capanna d'Ecale, la vecchia che ospitò l'eroe ateniese che poi per ricompensa le concesse d'essere accolta, morta, tra gli dei. La vecchia Proseleno, dopo aver staccato una fettina di carne dalla testa di un maiale che doveva avere la sua stessa età, salita su uno sgabello di legno fradicio per accrescere la sua statura, stava armeggiando con un forchettone per riporre la testa nella dispensa quando lo sgabello improvvisamente cedette e la fece cadere di peso nel focolare. Già il fuoco la stava per attaccare ma per fortuna nella caduta si era rotta la pignatta dell'acqua che lo spense. La vecchia va a sbattere con un gomito su un tizzone ardente e la nuvola di fuliggine le ricopre il volto di nero. Io balzai al volo e la rimisi in piedi non potendo ovviamente trattenermi dal ridere. Proprio mentre la tiravo su, fuori del tempio si sentì un calpestio ed un vociare che facevano capire che qualcuno là fuori stava litigando o che stava inseguendo un animale riottoso fuggito dalla sua stalla. Non si capiva bene. Proseleno uscì per andarsi a rimettere in sesto dopo l'incidente, o forse per andare a procurare altri ingredienti per il sacrificio e perciò anch'io decisi di andare a vedere e mi affacciai alla piccola porta di quella capanna con pretese di tempio. L'uccisione dell'oca sacra. Ma non feci in tempo ad uscire perché la mia curiosità fu subito appagata. Tre oche del tempio, probabilmente affamate e che perciò starnazzavano furiosamente per chiedere la loro razione di mezzogiorno, mi si avventarono contro circondandomi e terrorizzandomi con le loro grida raccapriccianti di animali infuriati. Una mi strappò di dosso la tunica, un'altra si attaccò ai lacci dei miei calzari e tentò di scioglierli evidentemente per mangiarseli; la terza, probabilmente la capa di quel trio furibondo, mi affibbiò un terribile morso alla gamba col suo becco a seghetto. A quel punto feci marcia indietro rientrando nel tempio, ma le oche inferocite mi inseguirono; allora staccai un piede del tavolo e cominciai a combattere contro quella che era la più furiosa per buttarla fuori. Ma ormai anch'io dopo il morso ero in preda ad un indescrivibile furore bellico. Per cui non mi limitai ad assestarle solo dei colpi leggeri per allontanarla, ma menai ripetutamente e con violenza fino a quando la bestia non stramazzò a terra, morta. Non fui diverso, immagino, da Ercole quando i mostri di Stinfalo sconfisse o da Fineo che massacrò le Arpie che le mense ed il cibo gli smerdarono: strida e grida inumane risuonarono riempiendo di sé la terra e il cielo. Mentre io uccidevo quella bestiaccia le due superstiti si erano mangiate tutte le fave sparse qua e là sul pavimento. Tutto contento per la vendetta compiuta, io nascosi l'anatra uccisa dietro al letto e mi dedicai alla ferita inflittami disinfettandola con l'aceto. Poi, pensando che avrei dovuto affrontare un litigio per quell'uccisione, prese le mie cose, mi mossi per andarmene. Ma ecco che arriva Enotea con un vaso pieno di braci ardenti. Feci dietro front e, gettato il mantello sul letto, mi piazzai sull'uscio facendo la finta di starla ad aspettare già da un bel po'. Quella mise la brace su uno strato di canne secche, vi ammucchiò sopra un bel po' di legna e poi cominciò a scusarsi per il ritardo adducendo come spiegazione che l'amica a cui si era rivolta aveva voluto a tutti i costi bere con lei i tre bicchieri di vino previsti dalla legge che regola l'ospitalità. “Tu nel frattempo che hai fatto? E dove sono le fave?”. Convinto di aver compiuto un'azione grandiosa le raccontai ordinatamente tutta la battaglia e per tirare a lungo la sua curiosità scoprii solo alla fine la carogna dell'oca e gliela offersi a titolo di risarcimento. Appena Enotea la vide cominciò a strillare come un'ossessa; anzi, come le oche che mi avevano assalito poco prima. Sconcertato da quella reazione e ignaro di quale mai crimine avessi commesso, le chiedevo perché stesse dando in escandescenze e perché si preoccupava più dell'oca che della mia ferita. “Disgraziato,” mi rispose sbattendo le mani e continuando a sbraitare, “hai anche il coraggio di parlare? Tu non sai quale grave infamia hai commesso: hai ucciso l'oca prediletta da Priapo, l'oca preferita di tutte le matrone del vicinato. Non credere che sia una cosa di poco conto. Se la legge ne viene informata, per un reato simile si finisce sulla croce. E inoltre hai insozzato di sangue il tempio, la mia casa, e perciò uno qualsiasi dei miei nemici, se lo vuole, mi può far destituire come sacerdotessa. “Ti prego,” le dissi, “smettila di gridare; se no, lo vengono a sapere tutti: ho uno struzzo da sostituire all'oca uccisa! Va bene?” Lei non colse il mio umorismo per la verità un po' fuori luogo, anzi non mi ascoltò neanche. Con mio grande stupore se ne stava accasciata sul letto tutta presa nel compianto della cara estinta. Per fortuna tornò Proseleno con il necessario per il sacrificio, capì la situazione e quando seppe l'accaduto cominciò a piangere anche lei e a compatirmi come se avessi ucciso mio padre. Non ne potei più di tutti quei piagnistei e dissi: “Statemi a sentire: non è possibile risarcire il danno con del denaro? Anche se vi avessi insultato, anche se avessi commesso un omicidio ci sarebbe comunque il modo per rimediare. Son sicuro che anche in questo caso un rimedio ci deve essere. Ecco qua!” misi sul tavolo due monete d'oro e aggiunsi: “Con queste potete ricomprare l'oca e, perché no? Potete comprare anche gli dei.” Enotea cambiò subito umore: “Abbi pazienza, caro, io mi preoccupavo per te. La mia reazione deve essere per te una prova del mio affetto. Io non ti voglio male. Come potrei? Neanche ti conosco, un altro po'! Faremo in modo che non si sappia in giro. Tu però pregali, gli dei, di perdonarti questo grave peccato.” “Co' 'no soldo tunno tunno / vajo 'n cujo a tutt'jo munno.” diceva un vecchio adagio che in latino sarebbe suonato cosii “Con un soldo tondo tondo / vado in culo a tutto il mondo.” E come era vero! Chi ha i soldi navighi sicuro e pieghi ai suoi voleri la fortuna. E se vuole in isposa una fanciulla che il padre gli rifiuta lo sommerga con una pioggia d'oro e poi vedrà. Faccia il poeta, faccia l'avvocato: se ha i soldi gli applausi può comprare. Stanno a zero le chiacchiere si sa: quello che vuoi, se vai soldi alla mano, sta sicuro che certo arriverà: anche Giove se vuoi ti puoi comprare! Enotea intascò i soldi e poi mi disse che prima di risolvere il mio problema dovevamo compiere un rito propiziatorio per espiare la grave colpa da me commessa uccidendo un'oca sacra. Mi mise sotto le mani una ciotola con del vino, mi purificò le dita, che mi ingiunse di tenere strette e ben tese, con porri ed apio; immerse nel vino delle nocciole accompagnando ciascuna con degli scongiuri ed emettendo pronostici ricavati da quelle a seconda che restassero a galla o sprofondassero. Ma era evidente che alcune erano vuote e perciò restavano a galla e altre più pesanti, perché avevano conservato il frutto intatto, calavano a fondo. Finalmente prese l'oca. La sventrò ne estrasse un fegato più che pingue e ancora fumante e da quello mi predisse un futuro catastrofico. Poi però, per far scomparire ogni traccia del delitto, fece a pezzi il resto dell'oca, mise i pezzi in uno spiedo e in quattro e quattr'otto allestì un lauto banchetto anche per colui, cioè io, di cui aveva poco prima pronosticato la morte. Aspettammo che il fuoco facesse il suo dovere e poi tutti a tavola. Le due vecchie mangiavano più di me e, se non mi fossi affrettato, di quell'oca, non me ne sarebbe rimasto neanche un po'. E cicalavano in continuazione mentre che i bicchieri di ottimo vino volavano ripetutamente sulla tavola. Era chiaro che quelle due vecchiacce avevano deciso di divertirsi alla grande. Ubriache com'erano non nascondevano per niente di essere infojate come due scrofe in amore e io non riuscivo a staccarmi di dosso le loro mani che mi frugavano dappertutto nel tentativo di farmi capire la loro intenzione che fin dal primo bicchiere a me era stata più che chiara. Ma alla fine del banchetto ero ubriaco anch'io e non riuscivo più ad opporre alcuna resistenza tanto è vero che quelle due maiale mi trascinarono sul letto. Enotea tirò fuori un fallo di cuoio, lo cosparse d'olio, di pepe macinato e di semi di ortica pestati, e prese ad infilarmelo piano piano nel culo. Non ricordo con precisione tutto quello che accadde. O il mio ano, bruciando sotto lo stimolo dell'intruglio che la vecchia vi stava introducendo, rilasciava qualche umore/rumore o la vecchia raccoglieva ciò che il pene di cuoio lasciava fuori e lo impastava con la sua saliva; fatto sta che con quella poltiglia quella vecchia crudele immediatamente dopo mi spalmò da dietro anche le cosce. Più che dolore sentivo un potente prurito, doloroso e piacevole al tempo stesso. Mi tenne a lungo così; poi improvvisamente mi girò e mi cosparse l'arnese, con annessi e connessi, con succo di nasturzo e abrotono; quindi afferrato un fascio di ortica appena colta cominciò a staffilare con colpi cadenzati tutta la zona sotto l'ombelico. Incredibile! Il mio pene, nonostante quelle due vecchie mi facessero schifo al cazzo, come si diceva allora tra ragazzi, si risvegliò, alzò la testa, divenne turgido e duro come un corno di bue e si lasciava lavorare volentieri non vendendo mai meno al suo dovere. Quelle due porche se lo litigavano furiosamente: l'una lo strappava dalle mani o dalla bocca dell'altra e viceversa per infilarselo dovunque le veniva più facile. Insomma mi si stavano facendo, me complice. Ma io giuro che la mia complicità ci fu solo all'inizio, perché ero ubriaco e frastornato dalla lieta sorpresa di quell'erezione che sembrava essere l'inizio della mia guarigione. Ma poi quando mi resi conto che quelle due mi si stavano facendo davanti, di dietro e insomma dappertutto perché quella di esse che perdeva il mio bischero in favore dell'altra si consolava con le mie labbra che succhiava a ventosa perlustrandomi la bocca con la sua vecchia linguaccia di pompinara professionale. Tornai in me. Che schifo! Ancora adesso se ci ripenso mi viene da vomitare. Ma in quel frangente ci volle un po' prima che riuscissi a fare mente locale, come si dice. Le scaraventai lontano da me con una sola aperta di braccia, afferrai il mio mantello, mi scaraventai a mia volta verso la porta e cominciai a correre quanto più potevo per seminare quelle due vecchie puttane assatanate che ovviamente mi inseguivano. Per fare meglio, imbattutomi in un pendio non del tutto pericoloso, mi ci lasciai rotolare aiutandomi mani e piedi; ma quelle, ahimè, per quanto ubriache e infojate, riuscirono comunque a seguirmi. Allora, sempre fuggendo, mi gettai nell'abitato gridando “Al ladro! Al ladro!”, per un bel numero di traverse, riuscii finalmente a seminarle e a squagliarmela anche se con le dita sbucciate per essermi lasciato rotolare in quel pendio. Arrivai a casa, mi misi sul letto e con le mani cercai il mio arnese che, non mi pareva vero, aveva ripreso il nerbo perduto durante la corsa e ciò mi emozionò al punto che incominciai a piangere di gioia e a rivolgere preghiere a Priapo per ringraziarlo e per chiedergli perdono del mio incorreggibile agnosticismo. Adesso anche Criside. Dopo un po' arrivò Criside e mi dice: “Senti un po', ma è proprio vero quello che mi ha detto Enotea? Che ti ha guarito e che tu poi sei fuggito senza pagarla?” “E' vero tutto”, le dissi, “tranne che non l'ho pagata; l'ho pagata in moneta sonante e in natura.” “Ma allora devi tornare da Circe, la mia padrona: quella non fa che pensare a te e mi dice che se tu volessi si farebbe penetrare anche da un fallo di cuoio. Ti prego, torna, falla felice. Da quando ti ha cacciato non è più lei e nessuno di noi servi riesce più a consolarla: ci tratta male a tutti.” Non sapevo che dire. La mia mente turbinava nel ricordo degli abbracci di Circe. Che cosa ebbero meglio di lei Arianna o Leda? Si potevano confrontare con lei? Cosa avrebbero potuto fare in gara con lei Venere o Elena? Se Paride l'avesse vista durante la gara avrebbe mandato a ramengo non solo Elena ma anche le altre dee. Se le potessi rubare un bacio, toccare quel suo seno celestiale, divino, il mio corpo riacquisterebbe subito il suo vigore e la parte che un sortilegio mi aveva addormentato ora tornerebbe a svegliarsi, grazie alla benevolenza del dio. Non mi importa niente delle offese, ho già dimenticato le frustate; sono stato messo alla porta? E che fa? Purché io possa ritornare nelle sue grazie. Mi girai verso il muro per non far vedere a Criside che stavo piangendo. Lei restò in silenzio per un po'; poi improvvisamente mi chiamò col mio nome e io come un cretino mi volsi. Lei si mise a ridere e mi disse: “Lo vedi quante cose ho scoperto di te, tenebroso mio! Tu non sei Cecilio come ti fai chiamare dal tuo padrone, ma Encolpio ed Encolpio è il nome più adatto a te, come dice la mia padrona, la quale prega sempre il dio di restituirti l'attributo per onorare un così bel nome. Era così bella, Criside, che faceva dileguare dalla mia memoria anche l'immagine bellissima di Circe. Mi volsi completamente e incurante delle lacrime che mi bagnavano il viso, l'abbracciai e la baciai. Lei si divincolò dicendomi: “Ehi, schiavo, sta al tuo posto!” “Ma quale schiavo?” le dissi, “Io vengo da Atene dove sono nato libero e libero sono ancora e dove ho studiato per fare l'avvocato e questa è tutta una messinscena di Eumolpo per abbindolare i tuoi concittadini. Io parlo e scrivo bene il greco e il latino, lo senti, lo conosco ormai benissimo. E vorrei uscire dalla pantomima di Eumolpo e mettermi a lavorare onestamente e sposarti se tu vorrai.” “Smettila di dire balle!” mi gridò e fuggì via. Era chiaro che non mi credeva. Ma piangeva ed era altrettanto chiaro che anche lei mi amava. Ed infatti dopo un po' arrivò un'altra schiava mandata da lei che mi disse sottovoce: “Sei tu Encolpio?” e al mio assenso aggiunse: “Criside detestava la tua precedente condizione, ma ora, in questa, che le hai rivelato, è decisa a seguirti fino in fondo, anche a costo della vita.” Poi visto che avevo capito bene aggiunse: “Inoltre ti chiede se vuoi lavorare come scriba traduttore presso un suo amico architetto che commercia con la Grecia.” Altro che innamorata, a quella le era proprio partita la brocca! La raggiunsi subito, mi feci subito portare da Simone, il mio futuro datore di lavoro, e d'altro, come vedremo, il quale appena mi vide gli si dipinse sul viso un tale lieto stupore che io mangiai subito la foglia. Gli piacevo, ma tant'è: se mi pagava bene avevo trovato anche il modo di spassarmela un po'. Tutto quel pepe che Enotea mi aveva messo nell'ano me lo faceva bruciare di desiderio. E quel datore di lavoro era proprio un bell'uomo ancora giovane. Salutò Criside amabilmente, ci fece accomodare e quando ebbe sentito le mie referenze mi disse con la voce che gli tremava nella gola: “Se vuoi, puoi cominciare anche subito. Ho tanta di quella corrispondenza da sbrigare in greco! Per la paga non ti preoccupare. Ci mettiamo d'accordo sicuramente.” Salutammo Criside che si congedò ringraziando e quindi Simone mi disse: “Vieni che ti accompagno al tuo scrittoio!” Ma appena fummo fuori dal vestibolo da dove Criside ci avrebbe ancora potuto vedere, fingendo di cercare la mia mano per guidarmi, invece della mano mi agguantò una natica con un piglio dal significato inequivocabile. Finsi di credere a quell'errore e giunti allo scrittoio appena mi ebbe spiegato il lavoro da fare mi misi subito seduto per incominciare a lavorare e nello stesso tempo per togliergli ogni tentazione e spingere al massimo la seduzione che operavo su di lui; ma quello mi salutò appioppandomi un bacio sulla bocca molto più eloquente della tastata precedente. Era un lavoro semplice: si trattava di tradurre in greco delle banali lettere commerciali. Mi avrebbe pagato a cottimo, cioè tanto a lettera, perciò mi sbrigai in modo da liberarmi il prima possibile. Verso le sei del pomeriggio misi in bell'ordine tutti i rotoli di papiro che avevo riempiti e andai da lui per dirgli che avevo finito. “No”, mi disse, “qui si lavora fino a tardi, anche al lume di candela.” “Lo so” gli dissi “ma io non ho più niente da fare. La corrispondenza che mi hai dato è tutta esaurita.” “Non ci posso credere!” disse, ma poi verificò che avevo detto la verità, contò i papiri, mi diede la giusta ricompensa secondo quanto pattuito e poi come fanno in amore tutti gli uomini d'affari andò subito al dunque: “Ti va di guadagnare altrettanto dormendo questa notte con me invece di andartene a casa?” “Non posso” gli dissi, “il mio arnese è fuori uso, non vuole funzionare più.” “Con me funzionerà.” mi rispose; “No, purtroppo no: è un dio che mi perseguita.” “Vedremo. Tu resta. Ti pago uguale in ogni caso.” Fece preparare una cena meravigliosa, ma io mangiai pochissimo e pregai anche lui di fare altrettanto: non è mai bene affrontare una notte d'amore con la pancia piena. “Bravo.” disse, ordinò agli schiavi di spegnare tutte le fiaccole e di ritirarsi e appena l'ultimo fu uscito si buttò sul mio arnese succhiandolo avidamente: aveva ancora fame evidentemente! ma quando dopo numerosi inutili sforzi si convinse che quello non reagiva, mi girò e mi penetrò con una tale furia che non ho mai goduto tanto. Sarà stato il pepe di Enotea ma io sentivo un desiderio sfrenato di farmi inculare da qualcuno. E quello ogni volta che veniva ricominciava a succhiarmelo non convinto e poi visto che di nuovo non mi si addrizzava tornava ad incularmi mordendomi furiosamente in ogni parte del corpo ormai completamente denudato e a un certo punto anche morso. E una! e due! e tre! e quattro!... alla fine temetti che non gli prendesse un coccolone e gli dissi. “Dormi un po', bello! Chissà quante notti abbiamo ancora davanti a noi!” “Non ti lascerò mai!” mi disse e si abbandonò ad un sonno profondo. “Sarò io a lasciarti!” pensai, ma a lui ovviamente non lo dissi. La mattina successiva mi permise di tornare a casa (ma solo dopo avermi fatto giurare che sarei tornato il prima possibile) per cambiarmi e farmi bello, ma a casa ritrovai Criside che mi aveva aspettato tutta la notte. “C'era un tale lavoro arretrato!” Mi giustificai (in realtà mi riferivo mentalmente al mio datore di lavoro: doveva essere un bel pezzo che non scopava!). Lei annuì e mi gettò le braccia al collo e io, sicuro per quanto era accaduto al mio pene con quelle due vecchiacce, ero ben disposto, riposato com'ero, a godermi quella dea che si era trasformata in schiava per il mio piacere. La baciai e ribaciai, le morsi i seni fino a farle male, la manipolai fin dentro alla fica; ma quel bastardo niente: continuava a restare inerte in un sonno profondo. Di nuovo mi si riempirono gli occhi di lacrime per lo sgomento. Lei mi guardò, capì, si rivestì furiosamente insultandomi al contempo: “Frocione, rotto in culo, lo vuoi capire o no che sei frocio e che non devi più molestare le donne per bene. Questa è l'ultima volta che ti fai vedere, schifoso, traditore, non di me, ma di quel povero ragazzetto che abbandoni continuamente per far la prova con le donne. Quante volte la devi fare questa prova, frocione? Vuoi che ti rilasci un attestato, stronzo?” Allungai una mano per una carezza, ma lei la scansò con violenza: “Ma vaffanculo, va!” e se ne andò ancora una volta di corsa. Che aveva voluto dire con “traditore di quel povero ragazzo”? Che io potevo amare solo Gitone? Com'era possibile che lasciassi a tutti gli altri uomini la metà del genere umano senza poter godermene neanche una. Gitone? Gitone! La sua immagine si impossessò della mia mente. Dov'era Gitone? Perché non era in casa? Andai da Eumolpo: non ne sapeva nulla. Lo cercai per tutta la città. Nulla. Che cos'era accaduto? Fino a tal punto gli dei mi volevano punire? Era un'ipotesi del tutto possibile: Non sono il solo che un destino infame, da un dio voluto, perseguita a morte. Non fu perseguitato da Giunone Ercole, l'innocente figlioletto nato dall'adulterio del dio Giove? Non fu perseguitato Laomedonte, il re di Troia, che non onorò il debito contratto con due numi? E la stessa Giunone non punì severamente Pelia? E dal dio Bacco non fu punito Telefo troiano che impugnò l'arma ma non contro i Greci bensì contro un tralcio verdeggiante che il dio alle caviglie gli intrecciò? E Ulisse poi non fu perseguitato dal dio Nettuno per punire il crimine con cui l'eroe aveva offeso il figlio? E me, povero me, non mi perseguita di Lampsaco quel dio che con due armi protegge gli orti nelle notti illuni? Tornai in albergo scoraggiato e disperato. Dov'era mai andato a finire? Gitone, Gitone, chiamavo nella speranza che qualcuno mi rispondesse, ma non accadeva proprio nulla. Mi misi a scuotere il letto da tutte le parti come se sperassi di trovarvi l'immagine dell'amore mio. Era la tipica goffa reazione dell'innamorato deluso. Ma perché tanta ansia di riaverlo vicino a me. Era quello l'amore? Desiderare una persona anche se il pisello non ti funziona più. L'amore era dunque prima di tutto la cura della persona amata e non la ricerca del mezzo attraverso cui appagare i desideri corporali? Mi venne un'idea. Come mi aveva risposto il sacerdote del tempio non mi era piaciuto affatto. Dovevo tornare là. Era già notte, ma dovevo tornare là a tutti i costi per verificare che quel nuovo rovello della mia mente era infondato. Uscii di nuovo e di nuovo mi misi a correre verso il tempio. Arrivai in un fiato. Tutto spento. Tutto chiuso. Ombre sinistre della notte si stendevano al di qua e al di là del colonnato. Dentro però si sentivano voci. I sacerdoti cantavano prima di andare a dormire? No! Studiavano ancora a quell'ora ? No! E poi le voci erano troppo alte. Mi avvicinai con circospezione. Non sia mai che da qualche parte si nascondesse un guardiano notturno. Nessun intoppo. A un certo punto da una fessura del muro più interno sento voci che gridano animatamente. Attacco il mio orecchio al muro e che sento? La voce inequivocabile di Gitone, di Gitone mio. Aggirai il muro e cominciai a bussare con pugni e calci fin quando non mi fu aperto. “Che vuoi?” “Restituitemi subito Gitone!” “Non è qui.” “Non fare il furbo: ho sentito la sua voce. Liberatelo o dò fuoco al tempio.” Con gesto fulmineo tentò di chiudere la porta ma non ci riuscì perché mi aspettavo quella mossa. Avevo messo il mio piede fra la porta e il montante; ebbi la meglio su quel sacerdote inerme e del tutto sorpreso dalla mia irruenza; tanto più che sfoderai il mio pugnale, glielo misi sotto la gola e “Non c'è due senza tre!” Gli gridai. “Che vuol dire?” dice; “Che ne ho ammazzati già due e che mi manca il terzo per compiere l'opera. Fuori Gitone o, quant'è vero il dio Priapo, dò fuoco a tutto il tempio col tuo cadavere dentro.” Gli altri sacerdoti non meno sconvolti di lui mi portarono l ragazzo. Io credetti che la questione fosse ormai definita ma quell'idiota, che poi seppi essere stato il primo amante di Gitone, quello cioè che se l'era goduto nel fior fiore della pubertà, si liberò dalla mia stretta, approfittando del mio aver abbassato la guardia, impugnò una spada e mi assalì deciso a finirmi. Troppo lento! Al suo colpo mi abbassai e gli infilai il mio pugnale sotto al cuore. Stramazzò a terra all'istante: un colpo da maestro! Approfittando della confusione, presi Gitone e, mano nella mano, fuggimmo di nuovo verso l'albergo. Esausti ci mettemmo a dormire senza dire una parola. Al risveglio credevamo di aver sognato ma lo credemmo per poco. Mano a mano che i ricordi affioravano la realtà di quel mio terzo omicidio si imponeva alla nostra memoria con tutta evidenza. Ma eravamo giovani: che volete che fosse per due ragazzi la morte di un uomo? A volte ne ridevamo anche. A un certo punto chiesi a Gitone: “Come sei andato a finire nelle grinfie di quei corvi neri?” “E' stata Criside a convincermi. Si è consigliata con Enotea ed entrambe hanno deciso che tu non ce la fai a scopare con loro perché ami solo me, solo me desideri, solo per me esisti. E allora io ho deciso di aspettarti al sicuro, nel mio tempio.” “Com'è vero che sei tuo il mio solo pensiero!” pensai e poi lo dissi ad alta voce. Gitone aveva le lacrime agli occhi. Lo abbracciai e subito il mio pisello venne su come un fulmine. “Lo vedi?” dissi, “Funziona solo con te; non con le donne e neanche con gli altri uomini. Tu sei l'amore mio, Gitone. Non sono guarito, non sono mai stato malato. Priapo se mai avrebbe dovuto perseguitare Ascilto che quella notte lo offese veramente e forse così è stato perché quel brigante non si è più visto in giro e più nessuno parla di lui.” Gitone piangeva un po' per la gioia e un po' per la paura. Lo rassicurai e gli dissi di non uscire per nessun motivo perché ormai guadagnavo bene e avrei comprato io quello che serviva. E così tornai al lavoro da Simone. Quell'uomo, avrà avuto, sì o no, una decina d'anni più di me, era insaziabile e siccome c'erano solo due lettere da inviare, appena ebbi finito, mi trascinò in camera sua e mi si fece senza tanti preamboli pretendendo che facessi gli straordinari anche per tutta la notte e il giorno dopo. Alla fine del secondo giorno mi congedò pagandomi il doppio. Io mi misi subito a correre per raggiungere Gitone ma fui fermato dalla vecchia Proseleno che mi disse che Enotea mi aveva denunciato per l'uccisione dell'oca sacra. Avevo ben altro per la testa e la mandai al diavolo dicendole che quello era il minimo. Tornato a casa, cominciai a interrogare Gitone: “E' venuto qualcuno? Mi ha cercato qualcuno?” “Nessuno,” mi rispose “ ieri però è venuta una donna niente male che si è fermata a lungo a parlare con me tempestandomi di domande. Alla fine, quando ebbe chiarito che eri tu quello che stava cercando, mi disse che avevi commesso un grave sacrilegio e che saresti stato punito come si puniscono gli schiavi se la controparte non avesse ritirato la querela.” Allora era vero: quella puttana di Enotea mi aveva denunciato davvero. Dissi a me stesso che se mi fosse stato imposto di andare in tribunale l'avrei sputtanata raccontando tutto ai giudici e dicendo che mi aveva denunciato non per l'oca, che ci eravamo beatamente divorato insieme, ma perché non le avevo concesso di farmi un pompino dopo che lei me lo aveva tirato sù in nome di Priapo. Io sarei andato sulla croce, ma lei avrebbe perso il posto! Dati i tempi non era possibile stabilire se fose meglio morire di fame o sulla croce. Decisi di starmene rintanato anch'io: non si sa mai. Passò un giorno, poi un altro e la mattina del terzo, mentre stavo lamentandomi delle mie sventure con Gitone con cui conversavo sempre molto volentieri prima e dopo e durante, insomma sempre, quando arrivò Criside, che finse di non meravigliarsi della presenza di Gitone, ma ormai era inutile ogni recriminazione. Ormai avevo capito. Io amavo solo quel ragazzo che era sempre pronto a darmi la donna comunque io la volessi e solo con quel ragazzo il pisello mi funzionava e dunque era inutile andare in cerca non solo di altri uomini, ma anche di altre donne. Ma Criside mi si buttò addosso come se fossimo soli e come se fossimo soli parlò: “Eccoti tra le mie braccia, amore mio, proprio come speravo di trovarti: tu sei la mia voglia, il mio piacere, il fuoco di una passione che non riuscirai a spegnere se non col sangue.” Mentre lei parlava Gitone aveva guadagnato discretamente l'uscita. Allora io staccai Criside da me e incominciai: “Senti, Criside, è inutile che...” ma non riuscii a finire. Uno degli operai appena assunti da Simone arrivò di corsa e senza neanche riprendere fiato mi disse che il padrone era arrabbiatissimo con me poiché da due giorni mancavo al lavoro. Dunque avrei fatto bene a prepararmi una giustificazione adeguata. Altrimenti sarebbero state frustate. “Si, va be'!” gli dissi, “di' al padrone che vengo subito.” L'eredipeta e la guarigione definitiva. Ovviamente non avevo alcuna intenzione di andare al lavoro. Le cose si stavano aggravando seriamente ed io pensavo seriamente di andarmene da Crotone insieme a Gitone e possibilmente anche con Eumolpo. Mi cercavano tutti e tutti con intenzioni malevole, tranne forse il buon Simone, che mi voleva tenere tra le braccia. Dissi dunque a Gitone di venire subito con me da Eumolpo che aveva in quell'albergo una stanza molto più grande e lussuosa della nostra, ma quello non volle riceverci subito e ci ordinò da dentro, senza farci entrare, di tornare più tardi. Naturalmente in breve venimmo a sapere tutto sui motivi di quel rifiuto. C'era a Crotone una matrona di grande lignaggio, di nome Filomela, che da giovane aveva estorto con le sue grazie un gran numero di eredità; ma ormai vecchia e rugosa non aveva scrupoli a far fare lo stesso mestiere al figlio e alla figlia, due ragazzi di notevole bellezza: compiacere i vecchi senza figli e senza eredi diretti in modo da carpirne l'eredità. Grazie a questo passaggio di staffetta la vecchia porcona continuava a fare il mestiere senza soluzione di continuità. Naturalmente, avendo avuto notizia di Eumolpo, si era recata da lui e aveva raccomandato i suoi figli alla sua saggezza e alla sua bontà d'animo. Lei non esitava ad affidare ad un uomo di tale reputazione se stessa e le sue ambizioni. Diceva di essere convinta che Eumolpo era l'unico uomo al mondo capace di educare giorno per giorno i giovani con insegnamenti fondamentali per l'animo. Insomma gli voleva lasciare in casa i ragazzi affinché quelli lo ascoltassero quando parlava perché consiste solo nella parola l'eredità che si può lasciare loro. E così fu: lasciò nella camera da letto di Eumolpo la figlia, che era uno splendore, in compagnia del fratello, un efebo altrettanto bello, con la scusa di dover andare al tempio per adempiere a certi suoi voti. Eumolpo, che era sempre così allupato da scambiare perfino me per un efebo, non perse neanche un momento e invitò subito la ragazza a celebrare i sacri misteri anali. Ma siccome in precedenza aveva sparso la voce che lui era gottoso e debole di lombi per dare credito al sua irreprensibile castità, adesso, se non voleva rovinare il melodramma di quell'incredibile sodomizzazione e per mantenere credibile quella rozza bugia, pregò la ragazza di venirsi ad accomodare su quella fonte di saggezza, cioè lui, a cui la madre l'aveva raccomandata e al servo Corace di sdraiarsi a pancia in giù sotto il letto e di fare le flessioni per imprimere con la schiena al corpo del padrone, sdraiato sopra, quel movimento che l'amore richiede e che uno debole di lombi non può dare. Lo schiavo eseguiva l'ordine alla perfezione con movimenti lenti e ricambiava con contraccolpi di uguale intensità la prestazione assolutamente professionale della ragazza. Quando la cosa fu al culmine, Eumolpo prese ad incitare Corace urlandogli di accelerare il ritmo. E cosi senza fatica, sdraiato fra lo schiavo sotto e la ragazza sopra, se la spassava come se andasse in altalena. Già lo aveva fatto un paio di volte fra le risate generali, compresa la sua. Gitone se ne andò disgustato, ma io rimasi, con la scusa di braccare il vecchio per comunicargli il mio problema. E siccome ero divertito da quella scena mi lasciai coinvolgere e per tenermi in esercizio mi avvicinai al fratello della ragazza che guardava anche lui dal buco della chiave. Era nella posizione giusta, lui, e adeguatamente eccitato, io. Mi accostai con discrezione e cercai di capire se era disposto a farsi inculare. Gli sollevai il gonnellino e lo trovai senza mutande. Si girò verso di me con un sorriso invitante senza sottrarsi alle mie carezze più che insinuanti. Era tutto pronto, ma quel bastardo del mio bischero si ammosciò irrimediabilmente. Dopo qualche secondo, visto che non succedeva niente, il ragazzetto si girò per vedere cosa stesse accadendo alle sue spalle e quando adocchiò il mio battacchio penzolante ed inerte gli si disegnò sul viso un punto interrogativo grande come una casa. Corsi via pieno di vergogna, raggiunsi Gitone che era già rientrato in camera, lo abbracciai e facemmo l'amore senza problemi. Intanto era arrivato anche Eumolpo e allora dissi ad entrambi: “Gli dei più potenti mi hanno ridato la salute completa. Mercurio il grande traghettatore di anime dalla vita alla morte col suo intervento divino mi ha restituito ciò che un'altra mano irata mi aveva reciso. Ora potete toccare con mano che io da quel punto di vista sono più dotato di qualsiasi eroe del passato.” E detto ciò sollevai la mia tunica e mostrai ad Eumolpo tutti i miei gioielli. Quello prima si stupì e anzi si spaventò; ma poi fingendo di accertarsi della verità di quello che io avevo detto incominciò a palpare il mio bischero che l'intervento divino gli faceva crescere tra le mani. Io però riabbassai la tunica e gli dissi: “Fermo lì: questa è roba di Gitone.” “Lo so” disse lui “ma guardare e toccare non significa portarsela via. “E' vero” dico io “ma non bisogna neanche desiderare la roba d'altri e nessuno è destinato ad avere una più brutta sorte di colui che lo fa. Cosa fanno i vagabondi e gli scippatori? Buttano tra la folla casettine o portamonete con monete sonanti in modo che i passanti siano adescati come i pesci dagli ami. Così come i pesci si salverebbero se non abboccassero a tali ami così gli uomini non finirebbero male se non desiderassero cose che li inducono a più ardite speranze.” Subito Eumolpo concluse con le sue conoscenze filosofiche: “Socrate si vantava di non aver mai guardato una bettola né alcun altro assembramento di gente. Per lui non c'era niente di più proficuo di un colloquio costante con la filosofia.” “Come hai ragione, Eumolpo!" gli dissi “Ma qualche volta bisogna pure abbandonare tali colloqui se pericoli più gravi incombono. Eumolpo, dobbiamo andar via. Io ho compiuto vari crimini e sono stato denunciato. Ancora non è successo niente, ma se mi prendono finisco sulla croce come il più disgraziato degli schiavi.” “Ho sentito qualcosa” mi rispose “poi mi racconterai; ma le cose fatte in fretta non riescono bene quasi mai. Adesso voi due riparate in un nascondiglio di tutta sicurezza e io organizzerò un abbandono alla grande di questa città pure così simpatica.” “Non ti fare illusioni, Encolpio. La tua nave che doveva arrivare dall'Africa carica dei tuoi soldi e dei tuoi schiavi, come avevi promesso, non è arrivata. I cacciatori di eredità hanno cominciato a ridurre i loro donativi. Perciò o io mi sbaglio o la fortuna che finora sembrava assisterci adesso pentita sta facendo marcia indietro. Perciò, Eumolpo, ti scongiuro: andiamo via il prima possibile o io finirò sulla croce e chissà quale sarà la fine di questo ragazzo che io amo più di me stesso.” “Venite,” mi rispose “vi nascondo per bene e al massimo fra due giorni salperemo da Crotone.” Il cannibalismo. Nasconderci! Era il solito Eumolpo: mi fece radere a zero, mi procurò una parrucca bionda per cui se andavo in giro i maschi mi correvano dietro per toccarmi dappertutto, soprattutto il culo, e mi disse: “Più nascosto di così? E poi qui a Crotone non s'è mai vista l'ombra, non dico, del proconsole, che non va neanche a Reggio, ma neanche di un soldato che faccia rispettare la legge. Insomma, puoi ammazzare tranquillamente altri dieci sacerdoti perché tanto nessuno oserà dirti niente per paura che ammazzi anche lui. “E la denuncia di Enotea?” Gli obbiettai. “Ah, quella. O non è vero che ti ha denunciato o ti ha denunciato al sindaco che è analfabeta e non parla neanche calabrese. Non succede niente ma se succedesse qualcosa ci penserei io a corromperlo. Figurati! Con tutti i soldi che ho guadagnato da quando siamo arrivati!” Mi misi l'anima in pace e mi ripresentai dal mio datore di lavoro che apprezzò molto la mia parrucca per cui il lavoro si ammucchiava e anche noi due, ma in camera da letto. Intanto sentite che cosa si era inventato quel matto. Visto che la nave promessa, come era logico, non era arrivata, colse al volo l'occasione per spargere la voce che sarebbe andato personalmente in Africa per caricare su un'altra nave tutti i suoi beni e riportarli poi a Crotone; ma non sarebbe andato via mare perché ci sarebbe voluto troppo tempo: lui conosceva un metodo, molto in uso in Africa, che consisteva nel far rinascere una persona morta immergendo in acqua bollente un pezzetto della sua carne a condizione che parenti e amici mangiassero tutto il resto del corpo. Anche lui avrebbe fatto così per dimezzare i tempi del viaggio. Aveva già programmato, il bastardo, l'uccisione di Corace, che aveva la sua stessa corporatura ed una forte somiglianza anche del viso e mi aveva già fatto prendere accordi con Simone per trasportare tre persone e tre sacchi di indumenti (in realtà tutti i soldi guadagnati vendendo il ben di Dio che quegli idioti dei crotoniati gli avevano regalato) su una sua nave che stava partendo per l'Africa di lì a qualche giorno. Quando obbiettai ad Eumolpo che nessuno avrebbe mangiato la carne di un morto, mi rispose col suo solito cinismo: “Per soldi gli uomini fanno tutto, ricòrdati; ma per soldi investiti di cui aspettano i proventi fanno anche di più. Suvvia, mangiamo e brindiamo allegramente che il giorno della partenza sta per arrivare.” E arrivò finalmente perché io e Gitone non ne potevamo più di aspettare: un'ansia insopportabile ci avvelenava anche la notte per cui dormivamo insieme, Simone permettendo, ma senza mai far l'amore perché il pensiero assillante di dover uccidere Corace e dell'eventuale fallimento dell'intera operazione bloccava ogni nostra emozione. Anzi, quando Simone mi obbligava a restare anche la notte, per me era meglio, perché da passivo lasciavo a lui ogni iniziativa: come sempre, mi succhiava instancabilmente il cazzo ma senza successo per prendersi poi, una volta ccitato a dovere, la parte di me che più gli piaceva, come ammetteva lui stesso. Due giorni prima della partenza procedemmo all'uccisione di Corace che fu sbrigativa e repentina. Eumolpo mi palpò un po' il culo per farselo addrizzare e mi allontanò subito. Chiamò quindi Corace ordinandogli di fargli un pompino che lo schiavo si affrettò a fargli perché la cosa gli piaceva molto molto. Eumolpo durante il rapporto se ne stava tranquillamente seduto sul triclinio e Corace, per prenderglielo in bocca, gli si era inginocchiato davanti. Quando l'operazione stava sul punto di concludersi, Eumolpo, che fingeva di ansimare mentre il poveretto godeva veramente perché con una mano guidava il cazzo di Eumolpo dentro la sua bocca e con l'altra si masturbava, estrasse rapidamente il pugnale che teneva nascosto sotto la toga e con un colpo secco, sferrato sotto la gola di quell'infelice, lo sgozzò senza alcuna esitazione; poi ci chiamò e ci ordinò di seguire gli ultimi stramazzi del povero Corace in modo che non si macchiasse di sangue e fosse pronto per il giorno dopo a sostituirlo sul catafalco. Il giorno dopo radunò un po' di gente sulla pubblica piazza; pagò un banditore perché desse l'annuncio di un suo comunicato importantissimo e annunciò senza mezzi termini che aveva deciso di uccidersi perché il dolore per la morte del figlio gli era diventato insopportabile. Spiegò quindi che due suoi liberti sarebbero partiti per l'Africa il giorno dopo portando con sé un pezzetto della sua carne dalla quale sarebbe rinato e avrebbe portato a Crotone tutta la sua ricchezza. Spiegò anche che in Africa per avere l'eredità c'era l'uso obbligatorio di mangiare la carne del morto e che occorrevano due testimoni del fatto che il rito era stato realmente compiuto dagli eredi di Crotone e quindi concluse: “Coloro che possono vantare di avere il loro nome nel mio testamento, tranne i miei liberti, percepiranno ciò che io ho elargito loro a condizione di fare a pezzi il mio corpo e di mangiarlo in presenza di tutto il popolo.” Fece una pausa, testò da provetto oratore qual era la reazione del pubblico, che se ne infischiava di quello che avrebbe mangiato pur di riavere i soldi investiti al fine di comprarsi la benevolenza di quel “riccone”, e quindi concluse: “Lo sanno tutti che in alcuni popoli vige ancora la stretta osservanza di questa legge: i parenti, e in alcuni popoli anche gli amici, del defunto ne debbono mangiare il corpo.” Poi esagerò com'era solito fare nel suo ostinato egocentrismo: “Capita spesso che alcuni rimproverano i malati perché con il loro pessimo stato di salute peggiorano la carne che essi dopo dovranno mangiare. Perciò io esorto i miei amici a non contraddire le mie volontà, ma con la stessa disposizione con cui mi hanno succhiato l'anima ora provvedano a cibarsi del mio corpo.” Ovviamente non tutti si convinsero seduta stante, per cui si diffuse un certo mormorio sul come quando e perché e soprattutto su quanto fosse l'ammontare della ricchezza di Encolpio. E siccome il furbone aveva fatto circolare notizie mirabolanti sui suoi averi tanto grandi da essere incalcolabili la fama di quella enorme ricchezza accecava le menti di quei poveri disgraziati. Poi, si sa come vanno queste cose: alla fine l'opinione più gradita prevalse e la voce che in fondo si trattava solo di un momento e che bastava fissare alcuni dettagli del tipo “ma si può bere vino dopo che uno ha ingurgitato il suo pezzo?” si impose nettamente su quei pochi dallo stomaco delicato che insistevano nel dire che non è facile accogliere così semplicemente alcune forme rituali di altre culture. A un certo punto si fece largo tra la folla un energumeno con una pancia che fuorusciva da sotto la tunica tanto era sbrindellata e noto a tutti perché si chiamava Gorgia, come il grande filosofo siciliano, e disse dal palco che lui era pronto ad eseguire l'ordine di Eumolpo. Poi gli strinse un braccio e disse: “Voi non avete mai mangiato una carne così buona. Si vede che questo è un maiale ben pasciuto fin dalla nascita.” Eumolpo non apprezzò quel “maiale” e glielo fece pagare caro perché Gorgia lo aveva assoldato lui per fare quella dichiarazione. Qualcuno della folla gli gridò: “Gorgia, sei il solito buffone. L'aspirante suicida non è un maiale e tu, lo sanno tutti, ti ingoieresti anche le mestruazioni di tua moglie.” Risero tutti meno che Gorgia il quale restò serio e sembrò aver mangiato anche le carni, dell' antico filosofo, perché parlò con grande perizia: “La ripugnanza del tuo stomaco non deve darti pensiero. Lo stomaco fa quello che gli dici tu, specialmente se per un po' di nausea gli prometti che poi lo compenserai con pietanze succulente. Devi solo chiudere gli occhi, ingoiare e immaginarti che stai mandando giù dieci milioni di sesterzi. E mettici che sto già studiando qualche spezia che possa cambiare il sapore della carne umana e trasformarla in qualcosa di simile alla carne di maiale, come ho già detto senza avere la minima intenzione di scherzare. Nessuna carne è gradevole in sé: è la manipolazione che la rende gradevole e accettabile al nostro gusto che altrimenti la rifiuterebbe. Gli abitanti di Sagunto, assediati da Annibale, mangiarono carne umana senza neanche avere la speranza di prendere l'eredità. Gli abitanti di Petelia lo fecero anche senza essere assediati, ma col solo fine di poter continuare a vivere qualche giorno in più. Quando Scipione espugnò Numanzia furono trovate delle madri con in braccio i corpicini dei figli mangiati a metà.” Il discorso di Gorgia sembrava scritto dal Gorgia vero di qualche secolo prima. La folla applaudì, si allontanò e si ridusse a qualche crocchio che ancora continuava a commentare e a lodare il discorso: alla fine la piazza si svuotò dei cittadini di Crotone per permettere ad Eumolpo di lasciarli il giorno appresso con l'ultima spettacolare esibizione. Mentre loro mangiavano e vomitavano il corpo di Corace, noi tre coi nostri sacchi pieni di soldi ci avviavamo verso il porto dove l'imbarco fu più facile di quanto pensassi. Temevo Simone soprattutto, ma preso com'era dalle operazioni di carico e avendo in mente la mia prima immagine, quella che gliel'aveva sconvolta, la mente! neanche mi notò. Lo lasciavo con enorme dispiacere, ma non potevo fare diversamente. Mentre la nave si allontanava piangevo come una fontana e allora Eumolpo per consolarmi cominciò coi suoi soliti racconti. “Appena arruolato, avevo diciassette anni, il mio comandante fu spedito in Palestina. Quanti ricordi in quella terra calda e piena di sole e soprattutto piena di giovani palestinesi abituati a vivere sui cammelli e quindi pronti a cavalcare anche il mio senza fare tante storie! Non saprei da dove incominciare, Encolpio, per consolarti e convincerti a non piangere più. Ti racconterò quella di un grande profeta. In Palestina i profeti nascono come le mosche, ma questo che ti voglio raccontare aveva un fascino e una parola che provenivano da una grande ispirazione. E infatti lui diceva di essere il figlio di Dio e che Dio gli comandava di portare tra gli uomini la buona notizia di una nuova alleanza fra Lui e loro. Predicava l'amore tra gli uomini, nient'altro; ma la sua storia è così bizzarra che ti farà dimenticare Simone e Crotone.” “Solo tra gli uomini? Niente donne?” chiese Gitone molto interessato. “Ma no, ragazzo; non alludeva all'amore che intendi tu; intendeva dire che tutti, uomini e donne, avrebbero fatto bene ad amarsi l'un l'altro, o l'altra, e a rinunciare a qualsiasi tipo di ostilità contro chiunque e di cominciare anzi dai nostri nemici. Era un messaggio grandioso che colpiva soprattuto la moralità romana, guerrafondaia com'è, e ancora di più quella palestinese ancora più aggressiva e maschilista. E ciò gli costò caro, ma lui diceva di saperla già qual era la sua fine e di esservi rassegnato. I Palestinesi lo odiarono senza “se” e senza “ma” e i Romani si adeguarono a loro per ragioni politiche, cioè per non suscitare scontento contro di loro che erano pur sempre degli aggressori. Pensa che il proconsole della Palestina nell'anno in cui il mio profeta fu crocifisso avrebbe voluto addirittura salvarlo; ma il popolo palestinese fu irremovibile e lo mandò a morte.” “E non disse niente dunque sull'amore tra uomini?” “No, ragazzo mio, ma se non ne parlò, né di quello tra uomini né di quello tra donne, ciò significa che lo considerava un fatto minore da includere senz'altro nel concetto più generale di amore. Predicava l'amore contro l'odio, la guerra e l'aggressività in genere, il che per Roma è una cosa gravissima: infatti l'impero oggi perseguita i seguaci di quell'uomo ma essi pullulano già in tutto il territorio dell'impero, ma nelle camere segrete del potere tutti hanno capito che quel grande messaggio è inarrestabile e che la parola di quel profeta erediterà per intero le macerie dell'impero romano, quando cadrà, così com'è vero che i cittadini scriteriati di Crotone non erediteranno niente da me.” “Dunque sei sicuro che non ha condannato esplicitamente l'amore, quello che intendo io, tra uomini?” “Ti dico di no. Non si sapeva nulla sulla sua frequentazione di donne e molti facevano infondate chiacchiere insinuanti sull'affetto straordinario che egli dimostrava verso il più giovane dei suoi discepoli, bellissimo. Ma io dico che erano volgari insinuazioni; semplicemente egli riteneva che un comportamento come quello amoroso, di qualsiasi tipo fosse, fosse comunque accettabile e perdonabile e in ogni caso talmente di poco conto da non meritare un suo giudizio.” “Se è così, allora è anche il mio profeta; però per me l'amore non è affatto di poco conto.” concluse Gitone. E così dicendo si staccò dalla balaustra da dove stava ammirando il mare e venne a sdraiarsi in braccio a me non senza prima essersi sollevato la parte posteriore della tunica in modo che il suo culetto nudo aderisse direttamente sul mio fringuello ormai guarito. Avevamo lasciato da un pezzo le coste calabresi ed eravamo già in alto mare e già l'Africa ci faceva di nuovo sognare. INDICE A MARSIGLIA Il furto delle mele La vendetta di Priapo Porfirione La partenza da Marsiglia Sulla nave per Roma L'incidente del Giglio A BAIA A POMPEI Gitone Agamennone il retore La fuga di Ascilto Licurgo In casa di Quartilla vicino al tempio di Priapo Fuga da Quartilla Gitone piange A cena da Agamennone Una notte indimenticabile Al mercato L'arrivo di Quartilla La sorpresa In casa di Quartilla Il secondo giorno in casa di Quartilla Il terzo giorno in casa di Quartilla A cena da Trimalcione La lite con Fortunata Fortunata Prove generali delle esequie di Trimalcione, fine cena La seconda lite per Gitone Il fantolin da culo A ERCOLANO Eumolpo La guerra di Troia Il ritrovamento di Gitone Il ritorno del fantolino A casa di Lica Una nuova fuga p. 1 p. 2 p. 3 p. 3 p. 4 p. 6 p. 6 p. 7 p. 8 p. 8 p. 9 p. 11 p. 12 p. 13 p. 14 p. 14 p. 15 p. 16 p. 17 p. 18 p. 23 p. 25 p. 27 p. 29 p. 30 p. 47 p. 48 p. 48 p, 49 p. 90 p. 94 p. 95 p. 100 p. 105 p. 107 p. 107 p. 111 Edile DI NUOVO A POMPEI Gitone piace anche ad Eumolpo La battaglia di Eumolpo VERSO LA SICILIA Lica scopre tutto Il processo La matrona di Efeso Il quadrifoglio di Eros Il naufragio Verso Crotone con i versi sulla guerra civile Tarcisio Circe e Polieno/Encolpio La maga e secondo fallimento di Encolpio Il monologo di Encolpio Con Gitone, Enotea e Proseleno nel tempio di Priapo L'uccisione dell'oca sacra Adesso anche Criside L'eredipeta e la guarigione Il cannibalismo p. 112 p. 113 p. 114 p. 118 p. 122 p. 124 p. 126 p. 128 p. 132 p. 135 p. 140 p. 146 p. 154 p. 163 p. 166 p. 169 p. 174 p. 178 p. 185 p. 188 N.B.: Questo lavoro sarà seguito relativamente a breve da due saggi: uno riguardante l'omosessualirà e i numerosi temi che ad essa si connettono e l'altro, di natura formale, per chiarire alcuni punti che secondo me potrebbero aiutare gli studiosi a mettere meglio a fuoco il romanzo dal punto di vista critico/letterario.