Bollettino della Società Italiana dei Viaggiatori
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Bollettino della Società Italiana dei Viaggiatori
Bollettino della Società Italiana dei Viaggiatori anno quinto · 2016 | volume quattro firenze Direttore Alessandro Agostinelli Redazione Marcella Croce, Claudio Serni Progetto grafico PetriBros Comitato scientifico Garanti Marcella Antonini Nardoni segretario generale Fondazione Bardini Peyron - Firenze Vinicio Capossela musicista - Milano Franco Cardini storico - Istituto Scienze Umane Firenze Laura Cassi geografo - Università di Firenze Società Italiana dei Viaggiatori firenze Bollettino periodico in attesa di registrazione presso il Tribunale di Firenze Philippe Daverio critico d’arte - Milano Ahmed Habouss antropologo - Università Orientale di Napoli Mario Maffi americanista - Università Statale di Milano Giovanni Pratesi geologo - Università di Firenze Patrizio Roversi attore - Bologna Giorgio Van Straten scrittore - Firenze Revisori Adele Dei Università di Firenze Luigi Marfè Università Parma Filippo Romeo Università Catania Maria Gloria Roselli Museo Storia Naturale, Antropologia Etnologia Firenze Info www.societadeiviaggiatori.org [email protected] Bollettino della Società Italiana dei Viaggiatori alessandro agostinelli La Bussola Serve sempre fare i conti con i grandi viaggiatori del passato, perché non si dà più avventura e scoperta ai nuovi viaggiatori, a quelli del presente. Non sono morti i viaggi, sono cambiate le strutture, le possibilità, le comodità. I luoghi della terra, anche i più remoti, sono ormai turisticamente raggiungibili, cioè sono divetante tutte destinazioni. Pure resistono alcuni bravi escogitatori contemporanei di viaggi stravaganti o avventurosi. Per tutti noi, comunque, un bel confronto, una nuova lettura sui pregi e i difetti dei passati avventurieri è cosa utile. Lo facciamo, affrontando Bruce Chatwin, con il breve saggio di Angelo Tartabini, professore all’Università di Parma. Mentre Marco Giaconi torna sul Bollettino con una breve analisi dedicata alla Russia. Le destinazioni italiane 2017 andranno molto bene. Si stima che sia le città d’arte, i luoghi del turismo invernale (sia sciistico sia del benessere) e quelli del turismo balneare della prossima estate, avranno un posizionamento positivo nelle scelte dei nostri concittadini e anche dei cugini francesi, spagnoli, austriaci e tedeschi. Il globo si è improvvisamente ridotto di nuovo a viaggi vicini? In parte è così, perché le tensioni internazionali (con l’aggravante delle sanzioni economiche) tra Russia, Europa e Stati Uniti hanno creato un discreto malessere del turista medio. Per non parlare dell’importanza che i media e la stampa danno ormai alle notizie del terrorismo islamico, pronto a colpire un po’ ovunque, non disdegnando anche località prettamente turistiche. Il nostro Bollettino serve anche a dipanare temi che, superficialmente, sembrerebbero non avere niente a che fare con i viaggi e che invece sono pienamente in argomento. Il portfolio fotografico di quest’anno è a cura di Marcella Croce, giornalista e fotografa siciliana, condirettrice del Festival del Viaggio a Palermo e socia della Società Italiana dei Viaggiatori. Offriamo qui alcune sue foto che fanno parte di una mostra dedicata ai giardini giapponesi, colti nelle varie sfumature stagionali. Un bel viaggio per immagini in un Paese delizioso e interessante. Per chiudere accogliamo il report della socia Marzia Maestri che ci racconta una delle più belle destinazioni del Medio Oriente (forse la più bella), la Giordania, concentrando le attenzioni soprattutto sull’atmosfera e la vita nel deserto del Wadi Rum. Un emozionante report, fatto di descrizioni di paesaggi e di sentimenti. Buona lettura. Alessandro Agostinelli, direttore Festival del Viaggio e collaboratore de L’Espresso http://atlante.blogautore.espresso.repubblica.it Bollettino 2016 Saggi angelo tartabini bruce chatwin. brontosauri e bradipi giganti: la storia di un viaggiatore 7 marco giaconi la strategia russa 14 Portfolio marcella croce giappone. Un giardino per tutte le stagioni 18 Report marzia maestri emozioni nel wadi rum 26 bollettino 2016 | saggi 7 angelo tartabini Bruce Chatwin brontosauri e bradipi giganti: la storia di un viaggiatore Bruce Chatwin, figlio di un ufficiale della marina inglese, nacque a Sheffield in Inghilterra, nello Yorkshire, il 13 Maggio del 1940. Si rivelò subito un bambino eccentrico ma molto intelligente. A 6 anni decise di scrivere un libro per conto proprio, solo perché i libri per bambini della sua età lo annoiavano. A 18 anni iniziò a lavorare per la prestigiosa casa d’aste di Londra Sotheby’s e si iscrisse all’Università di Edimburgo alla Facoltà di Archeologia, abbandonandola dopo pochi anni, non era per lui. Nel 1973 fu assunto da “The Sunday Times Magazine”, prestigioso giornale illustrato inglese di arte, sport, scienza e politica, con firme prestigiose. Si sposò molto giovane, a 25 anni, con Elizabeth Chanler, sua collega di lavoro, che conobbe mentre era alla Sotheby’s. Poi lei chiese il divorzio, vendettero le loro proprietà e si lasciarono, ma non definitivamente. Infatti, poco prima della morte di Bruce si riconciliarono. Chatwin da giovane aveva la mania degli Atlanti geografici che consultava in continuazione, leggeva con avidità Jack London, ma non gli piaceva Jules Verne perché diceva che la fantasia dello scrittore francese fosse inferiore alla realtà dei fatti. Chatwin divenne un bravo giornalista, portandosi però sempre dietro come una ossessione, la figura di Paul Gauguin, non tanto per la sua arte, ma per la vita che questo grande pittore francese condusse a Tahiti, lontano dalla civiltà ed in cui sembrava aver trovato la gioia e l’umanità di vivere. Chatwin fu inoltre profondamente colpito dalla figura del poeta francese Rimbaud. Grazie alla grande sensibilità artistica di Chatwin, che forse ereditò da qualche suo lontano parente, l’impressionismo divenne la sua specialità. Scrisse molti articoli, oltre che per “The Sunday Times Magazine” anche per “ Vogue”, “History Today” e il prestigioso “The New York Review of Books”. I romanzi che ha pubblicato, in poco più di dieci anni, diventati tutti famosi, sono: In Patagonia (1977), Il Vicerè di Ouidah (1980), Sulla collina nera 8 Società Italiana dei Viaggiatori (1982), Ritorno in Patagonia (con Paul Theroux) (1986), Le vie dei canti (1987), Utz (1989), Che ci faccio qui? (1989). Poi uscirono altre opere postume: L’occhio assoluto (1993), Anatomia dell’irrequietezza (1996), Sentieri tortuosi (1998) e L’alternativa nomade (2013). Tutti sono rappresentazioni dei suoi viaggi o del loro contrario, piccoli o grandi che fossero stati. Da ragazzo Chatwin ebbe una vita difficile. Veniva sempre allontanato dai suoi compagni e non era mai lui a volersene distaccare. Lo consideravano strano, stravagante, un mentecatto, soprattutto quando raccontava storie fantasiose e incredibili. Infatti aveva il gusto del paradosso. Per il giovane Chatwin realtà e fantasia spesso si confondevano tra loro. Di frequente si esprimeva con aneddoti bizzarri attribuendoli però a persone e cose che erano reali. Presto dalla sua vita abolì ogni forma di possesso di cose superflue e visse solo di quelle indispensabile. In un certo senso, nonostante la sua esperienza alla Sotheby’s, divenne un iconoclasta, disse che Dio aveva offerto la Terra agli uomini affinché vi errassero e non vi si stabilissero fermi e sempre nello stesso luogo. Era ossessionato dalla irrequietezza dell’umanità. Disse che gli oggetti, di cui gli uomini sentono feticisticamente possesso (quadri di valore, case, macchine, ecc.), dei quali poi diventano schiavi, se esprimono la loro personalità, allora è meglio disfarsene. A questo proposito Chatwin fece un confronto molto interessante con gli animali. Disse che gli scimpanzé usano degli strumenti, per esempio dei bastoncini per estrarre le termiti dai termitai, ma che nessuno di loro poi custodisce, in sostanza nessuno li possiede. Tornando agli uomini, per Chatwin, un uomo che non si muove è un uomo morto, anzi è morto prima di morire veramente. Purtroppo, quasi mai, i nomadi prendono il sopravvento sugli stanziali, anche se sono più vicini a ciò che ha creato Dio e lontani dalle usanze disdicevoli degli uomini stanziali. L’Abele biblico, il fratello buono, era un nomade che venne ucciso da suo fratello Caino che si stabilì in una città che costruì con le sue mani. Città e civiltà inducono quindi alla staticità e alla simmetria di tutte le cose, anche delle case in muratura e delle strade. Il nomade invece è mentalmente asimmetrico, d’animo irrequieto, impulsivo, ma con una grande capacità intuitiva. Nonostante ciò, gli uomini civilizzati attribuiscono con molto disprezzo ai nomadi proprietà blasfeme e animalesche: sono mostri, bestie a due gambe. Per Chatwin, invece i nomadi hanno sempre avuto e hanno tuttora, un concetto del tempo e dello spazio di- bollettino 2016 | saggi 9 verso dagli uomini stanziali. I nomadi vivono momento per momento e in luoghi diversi. Chatwin disse che la vita è un viaggio da fare soprattutto a piedi ed è la cosa migliore per uscire dalla malinconia. Gli aborigeni australiani si muovono sulla terra con passo leggero e meno prendono dalla terra, meno dovono restituirle. Per Chatwin il migliore intellettuale è un intellettuale morto. Molti grandi uomini del passato, come Buddha e San Francesco misero al centro del loro messaggio mistico il pellegrinaggio, non l’immobilità. Buddha disse ai suoi discepoli: “Proseguite in mio cammino e non poltrite nelle caverne”. Il nomadismo per Chatwin era una forza istintiva irrazionale, anche se tutte le civiltà, se così si possono chiamare, con tutte le guerre che diffondono nel mondo, sono basate sulla regimentazione e sull’assunto sbagliato che la ragione possa essere l’unica fonte di conoscenza. La ragione si può ritenere invece la causa primaria di tutti i mali dell’umanità. Quando l’uomo diventa sedentario, nella sua frustrazione, trova sfogo nella violenza e nella distruzione (qui ci ritroviamo molto di Konrad Lorenz che Chatwin conobbe). Errare e evadere implicano irrequietezza, a volte nevrotica, ma sono liberatorie. Entrambe sono delle caratteristiche che abbiamo geneticamente ereditato dai nostri lontani parenti, in primis, le scimmie, poi i primi Ominidi carnivori che andavano alla ricerca di cibo nella savana, ma che poi sentirono l’esigenza di essere più sicuri, prima nelle caverne, poi nelle palafitte ed infine nelle case. Nonostante ciò, per Chatwin, ma anche per Charles Darwin, emotivamente gli uomini, hanno sempre sentito la necessità di abbandonare la civiltà e creare una vita semplice e nella natura, liberi da ogni vincolo, basti vedere i bambini che costruiscono le capanne sugli alberi o lungo le rive dei fiumi. Chi da bambino non ha fatto queste cose? Rifacendosi a Blaise Pascal, Chatwin, scrisse che l’infelicità dell’uomo deriva dallo star quieto, chiuso in una stanza di una casa o di un castello, pur sapendo che la monotonia induce all’apatia e a nevrastenie. La mente viene stimolata osservando cose nuove, parlando con sconosciuti, con altre genti e questo non si può fare stando fermi. Nel corso della nostra evoluzione, siamo sempre stati dei viandanti e il nomadismo è rivoluzione, è libertà, anche se induce ad un travaglio interno, come quello vissuto da Chatwin viaggiatore. “Travel” in inglese, etimologicamente vuol dire “travaglio”, non viaggio, solo che nel corso del tempo si è modificato il 10 Società Italiana dei Viaggiatori senso di questa parola. Chatwin è stato sempre frainteso. Non a caso i ragazzi della sua età, che avevano altre idee per la testa, molto diverse da quelle del giovane Bruce, lo liquidarono lapidariamente come pazzo. Per esempio, non è a caso che Chatwin avesse un’idea negativa sull’uso delle droghe, diffusissime anche ai suoi tempi. Disse che erano dei veicoli che portavano verso vicoli ciechi per i ragazzi che avevano dimenticato di viaggiare. Per Chatwin i Beatles, i Rolling Stones e gli spinelli erano il frutto di una esigenza fittizia di libertà. Il viaggio per Chatwin era una terapia liberatoria da ogni conformismo, più efficace di mille sedute psicoanalitiche. Viaggiare per Chatwin era un gesto anticonformista. Chatwin, per non sottomettersi alle regole sociali convenzionali, scappava per sentirsi veramente libero. Viaggiava per esistere, anche se sempre in bilico tra realtà e fantasia. Nel 1969 andò in Afghanistan, poi in India, in Marocco, Sudan ed altri paesi africani ed anche in Australia. Conobbe naturalmente l’Argentina ed in Cile andò nell’isola di Chiloé, un luogo che tra l’altro era stato precedentemente visitato da Darwin. Viaggiò in Cina e in Russia sul Volga. Intervistò e conobbe grandi personaggi del suo tempo, come la nota giornalista di moda Diana Vreeland, il regista Werner Herzog, lo scrittore Salman Rashdie, il padre dell’etologia Konrad Lorenz, Indira Gandhi, il filosofo Ernst Jűnger, lo scrittore André Malraux, l’artista Donald Evans, Nadežda Mandel’štam, moglie di Osip, il poeta russo, che Chatwin amava molto, vittima, per le sue idee, delle grandi purghe staliniste e che morì in un Gulag a Vladivostok nel 1938. Chatwin intervistò Lorenz ad Altenberg che gli disse: “Da quando sono qui a Altenberg ho visto una “maializzazione” sempre più crescente dei ragazzi che nuotano nel Danubio”, intendeva dire ragazzi grassi e panciuti, come sono gli animali domestici che per mancanza di selettività (quella darwiniana) di abitudini nutrizionali diventano come maiali. Fu un’altra intervista che però segnò la sua vita, quella fatta a Parigi nel 1970 all’architetta irlandese Eileen Gray che nel salotto di casa, in cui Chatwin la intervistò, aveva appeso alla parete un quadro la lei dipinto a tempera che rappresentava la Patagonia. Chatwin nel vederlo disse senza rifletterci, “vorrei andarci”. Gray rispose: “se ci va ci vada anche per me” (a quei tempi la Gray aveva più di 90 anni). Come sappiamo, qualche anno dopo Chatwin lasciò il suo lavoro, inviò un telegramma al suo giornale con le sue dimissioni e partì per la Patagonia, come se per lui tra il giornale e la Patagonia ci fos- bollettino 2016 | saggi 11 se una incompatibilità insormontabile, che le due cose non si potessero gestire insieme. Perché nel 1974 Bruce Chatwin decise di andare in Argentina, tra l’altro in un periodo che lasciava presagire un futuro molto funesto per questo paese? La dittatura militare e sanguinaria sarebbe infatti iniziata con un colpo di Stato il 24 Marzo del 1976. Chatwin era un grande viaggiatore e quindi, tra tanti paesi al mondo, poteva sceglierne un altro. Perché l’Argentina? Forse per capriccio o per altro? L’Argentina non era un paese che in quel momento poteva interessare al giornale per cui lavorava ancora come consulente d’arte, cioè il Sunday Times Magazine. Per il suo lavoro di giornalista era stato altrove. In sostanza Chatwin non aveva nessuna motivazione apparente per visitare l’Argentina, o meglio, la Patagonia. Però partì lo stesso e portò con se nello zaino poche cose, quelle necessarie, ma ci mise anche, emblematicamente, due libri: “Viaggio in Armenia” del 1933 di Osip Mandel’štam, il marito di Nadežda e “Nel nostro tempo” di Hemingway del 1924. Il modo di fare di Chatwin la dice lunga su quello che è stato questo grande scrittore inglese, uno degli ultimi interpreti di un mondo che noi ai suoi tempi credevamo non esistesse più. Soprattutto credevamo che la natura, il cielo, il mare e la terra della Patagonia non fossero in effetti così come ce li ha descritti Chatwin, con le sue sconfinate praterie e foreste di pioppi, paulonie, pterocarie, betulle e larici, campi di iris e peonie che si perdevano a vista d’occhio. Prima di leggere “In Patagonia” immaginavamo, penso tutti, che questi paesaggi fossero diversi, più statici e che non ci fosse niente di misterioso. Chatwin, sotto molti aspetti, è stato un emulatore di Charles Darwin, tra l’altro erano nati entrambi in Inghilterra, in luoghi piuttosto vicini, lui a Sheffield e Darwin, anche se 131 anni prima, cioè nel 1809, a Shrewsbury, un paesino ai confini con il Galles. Questo potrebbe essere una coincidenza insignificante, probabilmente lo è, però, come Darwin, Chatwin seguì il proprio istinto. Non è infatti un caso che Darwin prima di diventare il padre della teoria evoluzionistica, che poi prese il suo nome, abbia tentato prima di studiare medicina a Edimburgo, senza successo, poi teologia a Cambridge. E’ difficile immaginare Darwin teologo anglicano, ma lo è stato. Chatwin divenne invece un esperto d’arte, non uno scienziato. Ovviamente lesse Darwin, ma certamente, più di ogni altro suo resoconto, si concentrò sull’incontro che il suo connazionale 12 Società Italiana dei Viaggiatori fece con la popolazione locale dei fuegini, gli indios Tehuelche, nella Terra del Fuoco, quest’ultima una popolazione totalmente estinta da diverso tempo: purtroppo un esempio, come molti altri, del fallimento della proposta politica utopica e egualitaria dell’ home sauvage di Jean Jacques Rousseau. Chatwin è stato criticato in vita e purtroppo anche dopo la sua morte per il suo modo di scrivere poco lineare, per i suoi aneddoti fantasiosi, per le sue noiose citazioni e per i suoi personaggi che non venivano mai approfonditi, senza riflettere sul fatto che la Patagonia è questo che può ispirare ad uno scrittore, un bravo scrittore. La Patagonia può sedurre, può coinvolgere qualsiasi persona che la visita per la prima volta e, ovviamente, questo è successo a Chatwin. La Patagonia scatena una fantasia irrefrenabile, nonostante sia in effetti un non luogo, un paradosso unico in cui però si può ascoltare leopardianamente il silenzio. Il fatto che questo posto sperduto del mondo possa inconsapevolmente travolgere, può avere radici profonde, inconsce e inespresse. Questo è successo a Chatwin. Egli con il suo viaggio volle rivivere in Patagonia un racconto fattogli molti anni prima, durante la sua infanzia, da sua nonna, una donna di Aberdeen dall’aspetto, più che di una gentildonna scozzese, di una zingara, la quale gli raccontò di un loro lontano parente, un capitano marinaio che era naufragato nello stretto di Magellano e che le aveva mandato un frammento di pelle di un brontosauro, in realtà si trattava di un milodonte, una sorta di bradipo gigante, che lei conservò come una reliquia. In Patagonia i brontosauri scomparvero circa 65 milioni di anni fa, mentre il Milodonte si è estinto poco più di 10 mila anni fa, prima che ci arrivassero gli uomini. Nulla poteva essere vero e Chatwin lo sapeva bene, ma è proprio per questo che poi si rifugiò, nel suo romanzo “In Patagonia”, in questo luogo, dietro il tentativo di ritrovarci le sue radici, addirittura la storia della sua famiglia. Chatwin era nato per vivere i suoi sogni d’infanzia, attraverso l’incanto della natura. Solo in Patagonia poteva ri-viverli ed è per questo che c’è andato, spinto non da qualcuno o per fare qualcosa di particolare, ma per vivere un’ avventura fantasiosa che segnò per sempre il resto della sua breve vita. Se analizziamo i suoi lavori, specialmente “In Patagonia”, ciò che lo ha spinto a vivere questa esperienza, con lo zaino sulle spalle e senza una meta ben precisa, dormiva infatti dove gli capitava, chiedeva passaggi, è stata la voglia di vivere la sua storia misteriosa, nella soli- bollettino 2016 | saggi 13 tudine, nella bellezza di questi luoghi e soprattutto nella loro purezza. Chatwin non descrisse mai con precisione ciò che vedeva, ma raccontò il paesaggio attraverso le persone che incontrava nel suo viaggio. Questo scrittore, forse senza saperlo, ha rivoluzionato il modo di vivere il viaggio. Viaggiare, non vuol dire solo visitare luoghi e persone non usuali, non vuol dire nemmeno far rivivere queste esperienze ad un gruppo di amici raccontandogliele al rientro, ma è molto di più perché coincide con il mistero e l’incognito. Sembrerebbe un paradosso, ma “In Patagonia” è un libro che è stato scritto, più che per i suoi lettori, per Chatwin stesso, sebbene abbia suggellato la sua fama di scrittore. L’evocazione va rivolta non solo agli altri, ma anche a se stessi. Ciò che può suggerire questo libro è l’idea che per rivivere le esperienze dell’autore, per rivivere le atmosfere che può creare un paesaggio come quello della Patagonia, bisogna andarci con lo stesso spirito con cui ci è andato Chatwin. “In Patagonia” non è una guida turistica e paradossalmente non è nemmeno un libro di viaggi, come tanti altri. E’ il risvolto di una lotta interiore per la libertà. Chatwin per la narrativa è stato un autore rivoluzionario di altissimo livello, quanto Ludwig Wittgenstein lo è stato per la linguistica. Sfortunatamente ebbe una vita breve. Si ammalò di AIDS negli anni ‘80 e morì il 18 Gennaio 1989, in una sedia a rotelle, a Nizza, dove si era trasferito per curare la sua malattia, a soli 48 anni. Spirò tra le braccia della sua Elizabeth. Angelo Tartabini Docente presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma 14 Società Italiana dei Viaggiatori marco giaconi la strategia russa Per i decisori russi attuali, la strategia militare dipende dalle circostanze ed ha una sua logica particolare. Ogni conflitto ha una sua specifica strategia. Si nota quindi ancora l’eredità del pensiero sovietico dove, secondo Lenin, “il comunismo è l’analisi concreta di una situazione concreta”. In particolare, per il Cremlino, la strategia della Federazione Russa, oggi, è definibile soprattutto con i termini “nonmilitare”, “indiretta” e “asimmetrica”. La strategia, inoltre, è una scienza della previsione. L’asimmetria dello scontro bellico accade quando le risorse dei belligeranti sono diverse nella composizione e nella dimensione, e il combattente minore utilizza tattiche tali da compensare i propri limiti. La strategia indiretta è una manovra di contenimento e di usura a lungo termine dell’avversario. Ecco, quindi, i concetti di origine militare che servono per definire la nuova dottrina di strategia globale e politica di Putin, resa pubblica nei primi giorni del Dicembre 2016 in un discorso alla Duma. Prima considerazione strettamente economica: la Russia è divenuta autonoma sul piano agroalimentare, anche se le sanzioni occidentali sono ancora vigenti. Inoltre, senza riferirsi direttamente a Trump, Putin ha ammonito le potenze NATO a “non modificare la parità strategica attuale”. È peraltro vero che ci sono gruppi politici, ad Ovest, che vogliono giocare ancora il tutto per tutto nel momento in cui la Russia è isolata dal punto di vista economico e politico. Certo, è isolata ad Ovest ma è però del tutto integrata ad Est, e ogni chiusura commerciale dell’Occidente prefigura una simmetrica apertura all’economia russa in Oriente. La linea eurasiatica di Mosca, e di conseguenza il principio della fine dell’unipolarità della potenza militare e economica degli Usa, va avanti proprio mentre l’economia russa vede chiuso il suo nesso ad Ovest. bollettino 2016 | saggi 15 Gli americani stanno circondando la Cina e parte dell’Asia, stanno poi chiudendo lo spazio militare ad Ovest della Russia, ma non creano una nuova politica economica con i nuovi potenti asiatici o con la nuova Russia. Errore micidiale, tipico di chi legge la strategia solo in termini militari. Putin ha, infatti, definito come “grande imperativo nazionale” lo sviluppo dell’oriente russo siberiano e del nuovo accordo economico e strategico di Mosca con l’India e la Cina. È proprio in questo contesto che Putin ha parlato di “integrazione eurasiatica a tutti i livelli” con i Paesi più importanti dell’area e, comunque, con la “NATO dell’Est”, la Shangai Cooperation Organization, che oggi conta, dopo i primi cinque stati fondatori, altre nazioni come l’India e il Pakistan, che entreranno il prossimo anno. L’Iran, l’Afghanistan, la Mongolia e la Bielorussia sono già “osservatori” alla SCO mentre i “partners del dialogo” della SCO sono oggi l’Armenia, l’Azerbaigian, la Cambogia, il Nepal, lo Sri Lanka e, notate bene, un Paese che è della NATO davvero, la Turchia. L’Europa è poi addirittura scomparsa dal discorso di Putin, ultima frontiera degli adoratori dei “diritti umani” e della Pace Universale. Un po’ come disse Togliatti all’inizio della discussione per la Costituzione, “fuori i pagliacci!” e si riferiva a tutti i partitini che stavano tra il PCI e l’altro polo maggioritario del potere, la Democrazia Cristiana. Putin, inoltre, con alcuni passaggi del suo discorso, ha posto fine alla separazione tra le varie categorie della memoria russa, tra i carnefici e le vittime delle Grandi Purghe del 1937. Riconoscimento della Memoria Storica russa, ovvero proprio quello che l’Europa non è stata ancora capace di fare. Riferendosi ai punti più critici del passato sovietico, il premier russo ha affermato che tutti i russi sono tali a pari grado, di fatto cancellando gli effetti delle Grandi Purghe e, implicitamente, riaffermando alcuni successi del passato regime sovietico. È la pacificazione della Memoria Storica, quello che l’Europa non si sogna ancora di fare, quel sistema europeo dove l’unico insulto in politica è ancora oggi, anche quando non c’entra nulla, è “fascista!”. Sul piano dei risultati interni, e non si può certo dire che questi possano essere manipolati, Putin ha affermato che il tasso di fertilità russo, ovvero il numero medio di figli per donna, è più alto di quello del Portogallo e della ricca Germania, ed è un tasso che tende ad aumentare. 16 Società Italiana dei Viaggiatori Se non ci sono i cittadini non c’è stato, e i cittadini si producono con il solito vecchio modo. Un Paese che non ha un tasso di fertilità tale da riprodurre almeno l’intera popolazione precedente è destinato a finire, o a sopportare quelle “tecniche di sostituzione” basate sulla immigrazione, legale o meno, che destruttura la società e fa crollare il bilancio pubblico con l’eccessivo peso sul Welfare. Spesso i Paesi da cui vengono i “migranti”, come li chiama il Governo Italiano, non sono affatto in guerra, anche se le nostre amministrazioni pubbliche, ovviamente, non lo sanno. Quindi, da un lato, diminuzione delle tecniche di condizionamento di massa, importate dall’estero e in particolare dagli USA, che favoriscono la depopolazione, dall’altra stabilizzare l’economia e rendere il lavoro meno “interinale” possibile. Putin poi rafforzerà, con grandi investimenti, il settore sanitario, poi l’istruzione secondaria, infine le infrastrutture e la protezione ambientale. La salute per aumentare l’età media, ancora bassa, l’istruzione secondaria per aumentare il numero dei tecnici e evitare la compressione delle università, le reti autostradali per collegare anche militarmente l’immenso territorio russo, poi l’ecologia, carentissima da tempo, per evitare appunto i gravi danni alla salute. Bloccare quindi la caduta del PIL russo, l’obiettivo primario di Putin in economia, un PIL che può crescere solo con forti investimenti pubblici, anche militari. La caduta del PIL nel 2015 è stata del 3,7%, il 2016 mostrerà un leggero miglioramento, con una inflazione che arriva al 5,8% dopo il 12,9% del 2015. Quando c’è crisi, ci sono sempre anche i paradossi economici: le esportazioni alimentari russe hanno generato ultimamente un reddito superiore a quello dell’export militare, con 14,6 miliardi entrati dai contratti del settore militare e 16,9 miliardi dalle esportazioni agricole. E pensare che la Russia è il secondo esportatore di armi al mondo! Sempre dal discorso di Putin deduciamo che, nei prossimi cinque anni, gli investimenti che dovranno essere pari al 30% del PIL saranno l’informatica evoluta (che già oggi genera in Russia un reddito pari alla metà dell’export militare) le tecnologie sanitarie, lo spazio, la robotica, gli apparati quantistici, etc. Quindi, in futuro, l’economia russa sarà caratterizzata, secondo le recen- bollettino 2016 | saggi 17 ti direttive di Putin, dallo sviluppo del complesso militare-industriale, dall’agroalimentare e dalla crescita proprio di tutti quei settori su cui punta la new economy occidentale. E poi, sul piano strategico, dal progetto eurasiatico, che implica che la Russia sta allontanandosi sempre di più dall’Occidente. Una asimmetria strategica, certo, ma anche economica e politica nei nuovi rapporti che Trump, non certo l’UE, ridefiniranno con Mosca. Marco Giaconi Analista strategico, docente all’Istituto di Alti Studi Strategici e Politici IASSP di Milano marcella croce Giappone Un giardino per tutte le stagioni portfolio primavera 19 20 primavera portfolio portfolio estate 21 22 autunno portfolio portfolio autunno 23 24 autunno portfolio portfolio inverno 25 26 Società Italiana dei Viaggiatori marzia maestri EMOZIONI NEL WADI RUM Giordania, ottobre 2016. Un viaggio deciso da tempo, ma non per questo “pianificato”. Partiamo dall’aeroporto di Pisa un lunedì mattina; facciamo scalo a Istanbul, dove ci regaliamo una visita fugace alla moschea blu, pannocchia e castagne per merenda. Di nuovo in aeroporto e dopo tre ore finalmente Amman. Siamo sul van di Mohayed. Mentre Khaled ci racconta della Giordania, dell’Italia e della Juventus… È una guida fantastica e fa il mondo più piccolo, nel senso che conosce così bene il mio paese, lo ama così profondamente, che mi fa sentire la possibilità di essere davvero “cittadini del mondo”. Se solo riuscissimo a sciogliere tutti i nodi creati da economia, conflitti, confini, tutto diventerebbe casa. Siamo arrivati nel deserto del Wadi Rum, dopo aver respirato l’aria metropolitana di Amman, aver provato il “galleggiamento supremo” (com’è scritto sul blog viaggi de L’Espresso) del Mar Morto, aver perso l’uso della parola davanti al tesoro di Petra. Anzi credo che le parole cadano dalle tasche come le briciole di pane di Hansel e Gretel, mentre si percorre il Siq, e che quando si arriva lì, di fronte alla meravigliosa violenza di tutto quel rosa, non ce ne sia rimasta più nemmeno una. Siamo appunto al Wadi Rum e già sul pick-up di Mahamoud i miei piedi sono come due bimbi inquieti che non riescono a stare fermi, per l’incontenibile voglia di uscire. Così, già dalla prima sosta, le mie scarpe sono rimaste lì, a far compagnia alla bollettino 2016 | report ruota di scorta e a due bottiglie d’acqua. La pioggia del giorno prima ha reso la sabbia rossa del deserto una cipria preziosa che ci ha colorato i piedi. Lui corre giù dalla discesa come un bimbo, e io rimango indietro, ammutolita da un abbraccio roccioso. Poi due cammelli dagli occhi buffi e stanchi ci portano in un punto preciso da cui si può godere la vista del tramonto. De “il” tramonto, dove il dentro diventa fuori e il fuori si muta in dentro e dove ci sono tutti quelli prima e quelli dopo di noi. E c’è il bisogno di abbracciarsi. E si sente di stringere un patto. Passa la notte e con lei le pieghe buie. In un’altra parte del campo, dove abbiamo dormito, ci sono due sedie in mezzo a uno spazio circolare molto ampio. Non so se questo pensiero sia nato perché le ho viste la mattina presto, ma mi sono immaginata che siano lì per chi vuole godersi lo spettacolo dell’alba nel Wadi Rum, che sarà facilmente sostenibile se non ti è già scoppiato il cuore la notte prima, alzando gli occhi al cielo, dove sembra che tutte le stelle si siano rovesciate dal barattolo di vetro appoggiato sull’orlo del tavolo del cielo. E quel cielo lo ringrazi se con te c’è qualcuno che puoi abbracciare, per dividere il peso di tanta bellezza. Qua si sente l’unione, si comprende il motivo di “stare con”, il concetto di bisogno muta la sua tipica accezione negativa. Qua il bisogno è necessità di 27 essere in due per vedere nell’altro ciò che da soli non si può contenere. E due, infatti, sono le sedie sistemate in faccia all’alba. Siamo sulla Desert Highway che porta da Aqaba ad Amman, 330 chilometri dritti che lasciano scorrere i pensieri senza trovare ostacoli. Seduto accanto a me il suono della sua stilografica ballerina che stamani non ce la fa a fermarsi, neanche un attimo. Mi sento bene, ma un bene pesante, come dopo una “desert storm”, perché dentro di me, in questi giorni, molte emozioni si sono scatenate senza chiedere permesso. Ho ripensato esattamente a mio padre, complice senz’altro il deserto, che lui amava tanto. Non questo giordano, nello specifico, ma il deserto africano. E credo il deserto come concetto. Guardo fuori dal finestrino del nostro van e noto che, avvicinandoci di nuovo alla città, i colori si fanno più tenui. È come se si volesse mantenere un equilibrio sensoriale: nel Wadi Rum i colori riempiono il vuoto. Invece, nel caso dei villaggi tutto si abbassa cromaticamente, per fare spazio al brulicare umano che profuma di spezie e di tè. E il rosso della sabbia si trasforma in tessuto. Diventa socio. Aderisci alla prima community italiana dei viaggiatori. Un’associazione che dà la possibilità di raccontare i propri viaggi tramite scrittura, fotografia, video. Un modo per diventare protagonista del viaggio e per guardare il mondo con altri occhi. Quote di iscrizione Socio viaggiatore (Euro 20,00) Con questa formula è possibile ricevere una copia del Bollettino della Società Italiana dei Viaggiatori, scrivere due report all’anno (con corredo fotografico di 4 immagini) oppure editare un video di viaggio (durata max. 10 minuti) sul sito web della Società. Inoltre si può partecipare facoltativamente all’adunanza annuale della Società. Socio sostenitore (Euro 50,00) Con questa formula si sostiene direttamente la Società e si ha diritto a tutte le attività menzionate per le altre precedenti forme di associatura. Socio ambasciatore Sono dichiarati ambasciatori della Società quelle persone che si sono distinte per la loro attività riferita anche al viaggio e per l’amicizia che li lega alla Società. 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