Incontro con Tolkien

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Incontro con Tolkien
VIII Edizione de Le Vie d’Europa
John Ronald Reuel Tolkien “There is more in you of good than you know”
INCONTRO DI PREPARAZIONE
Incontro con Tolkien
Firenze, 9 dicembre 2013
Gabriella Torrini: questo è il primo incontro che facciamo avendo invitato tutti coloro che si sono
iscritti per questa VIII edizione delle Vie d’Europa.
Come ogni anno il primo incontro di tutti gli insegnanti iscritti è un approfondimento dell’autore
che abbiamo scelto quest’anno, che è Tolkien, come ben sapete.
Edoardo Rialti ci aiuta nella riflessione e nell’approfondimento. Al termine della sua
comunicazione, qualora ci fossero domande sia dalla sede da dove parliamo che da tutti coloro
che sono collegati, possiamo aprire i vostri microfoni e fare domande. Grazie a tutti e buon lavoro.
Edoardo Rialti: innanzitutto buona sera da parte mia, col palantir, come direbbe Tolkien. In questo
caso la magia nera ci aiuta, a quanto pare! Quello che vorrei fare con voi è il tentativo di dare
alcuni assi fondamentali con i quali leggere l’opera di Tolkien, in particolar modo, quest’anno
abbiamo un taglio più Hobbit-centrico che su Il Signore degli Anelli, ma in realtà i temi sono
trasversali. Tra l’altro mi permetto di raccontarvi brevemente, all’inizio, un aneddoto, perché mi
sembra significativo, del fatto che le opere di Tolkien non sono opere che hanno avuto il problema
di essere attuali, talmente tanto che una delle grandi obiezioni che un certo mondo critico ha
rivolto all’opera di Tolkien è stata quella di essere una fuga dalla realtà. E Tolkien, in un famoso
saggio sulle fiabe, che è pubblicato oggi in una raccolta che si chiama Il Medioevo e il Fantastico,
che è una sorta di manifesto programmatico di che cosa sia un racconto fantastico per lui, dice che
è vero che le fiabe e i racconti fantastici sono una fuga, ma ci sono due tipi di fughe diverse nella
realtà. La prima, dice, è la fuga del disertore, di chi abbandona una battaglia ed è giustamente
processato, perché ha smesso di fare il proprio dovere; ma c’è un altro tipo di fuga, che è quella
del prigioniero dal lager. Afferma che, se noi sapessimo di qualcuno che scappa da un campo di
concentramento, non diremmo che è un vigliacco, ma che è un coraggioso, perché ha evitato un
ingiusto imprigionamento ed è tornato nel mondo vero. Tolkien dice che le fiabe rispondono a
questo secondo livello di fuga: non sono una fuga dalla realtà, ma una fuga nella realtà, sono un
riacquistare le dimensioni più autentiche della percezione del mondo, del cosmo, della nostra
posizione sulla terra. Per questo motivo le sue opere non sono e non avevano il problema di
essere attuali, ma di essere “perenni”: le fiabe non si occupano di lampadine elettriche, si
occupano di fulmini, che c’erano ieri, ci sono oggi, ci saranno domani. Non vuole dire, questo, che
sono opere che non dialoghino con la contemporaneità; non sono infatti opere fuori dal tempo:
sono opere nel tempo, che dialogano con la sua vita, che è stata quella di un inglese (cosa molto
importante, perché Tolkien amava molto il suo paese e voleva dare una mitologia alla Gran
Bretagna, perché essa, con l’invasione normanna, era stata privata di un contatto più autentico
con le proprie radici culturali, di cui qualcosina restava soltanto nel mito arturiano).
Quindi un inglese, che amando la sua patria e non amando il commonwealth (era assolutamente
anti-imperialista), un padre di famiglia, ma innanzitutto un marito legato a una donna per tutta la
vita, che è stata la sua grande storia d’amore. Tolkien incontra questa ragazza, che si chiama Edith,
quando aveva 16 anni e lei 19, ed era stato cresciuto da un sacerdote cattolico, perché la madre,
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che era rimasta vedova, si era convertita al cattolicesimo nei primi anni del 1900, e per una
famiglia per bene anglicana avere una figlia cattolica era il corrispettivo di avere una figlia perduta,
per cui fu privata di quasi tutti i sussidi economici e, malata di diabete (che si curava male al
tempo), era morta molto giovane per la consunzione e la tensione nervosa. Lei affidò John e il
fratellino Hilary alle cure di questo sacerdote.
Non è un caso, senza indulgere in eccessi di psicologismo, che tutti i protagonisti principali di
Tolkien siano adottati: Aragorn è adottato, Frodo è adottato… ci sono tutte paternità spirituali
(Bilbo ne è esempio). Ci sono solo due padri in Tolkien: Denethor, con tutti i problemi che ne
derivano, è il principale.
Anche nella vicenda di Manzoni, non per caso, i padri sono tutti padri spirituali: c’è questa
incapacità a visualizzare.
Fatto sta che Tolkien incontra questa ragazza, più grande di lui. Il suo tutore, Padre Morgan, gli
impone, con l’autorità del tutore, di non vederla fino alla maggiore età: tre anni pieni. E Tolkien
obbedì, in maniera assolutamente rispettosa, ma la notte della sua maggiore età, a mezzanotte e
un minuto, le scrisse una lettera, in cui le chiedeva di sposarlo. Egli ha sostenuto per tutta la vita
che quella prova, quella attesa, è ciò che ha temprato col fuoco questa cotta adolescenziale,
perché li ha obbligati, in maniera molto pesante, a una serietà su cui poi ha fondato il rapporto
fondamentale di tutta la sua vita.
Conosciamo quest’uomo, un marito, un padre di famiglia innamoratissimo dei suoi bambini, di cui
i suoi figli hanno sempre raccontato che lui, essendo un orfano, ha voluto regalare loro l’infanzia
più bella possibile, riempiendoli di amore, di cura, di una dedizione impressionante: sono famose
le lettere di Babbo Natale che scriveva per i suoi bambini, accordandosi con il postino, perché il
postino le recapitasse e i bambini come non avrebbero potuto credere al postino ufficiale che
portava la lettera? Ritagliava un francobollo, ci scriveva sopra “per via di gnomo urgentissimo” e
glielo faceva arrivare. In queste lettere raccontava le avventure!
Era un professore di Oxford, innamorato dei linguaggi: per Tolkien le parole sono quello che per
altri è la musica, un punto di comunicazione di qualcosa di profondamente emotivo, dotato da
solo di questo dono misterioso che a volte è pertinenza soltanto dei popoli, che è la capacità di
forgiare delle lingue, poiché lui inventa sette o otto lingue da solo, che si possono assolutamente
parlare.
Era un narratore, appassionato di storie, e un uomo di fede, che doveva all’immedesimazione
dello sguardo con sua madre l’immedesimazione forte e appassionata alla chiesa cattolica.
Un narratore, uno che diceva: “io non predico e non insegno nulla, le storie non sono dei trattati,
sono la comunicazione di qualcosa di commovente, nel senso vero della parola, che muove il
cuore del lettore”. Per questo Tolkien diceva di detestare cordialmente l’allegoria, perché diceva
che consiste nel controllo dell’autore, mentre l’analogia, che è il termine che lui preferiva, consiste
nella libera applicazione del lettore: il paragone, per il lettore, è tra sé, la propria vita, e il testo. È
possibile trovare, nella mia vita, qualcosa di cui il testo parla. Questo che cosa comporta? Una
enorme e radicale fiducia nel fatto che quando un uomo racconta qualcosa di vero, si espone a
qualcosa più grande di sé, che non è frutto di un controllo. Questa è la stessa cosa che è al cuore
del punto che continuamente Bilbo ripete: che è pericoloso uscire dalla porta, fare un viaggio.
Scrivere, per lo scrittore, è un viaggio, non meno che per il lettore e per i personaggi.
Tolkien scrive fiabe, racconti eroici, in cui riprende in maniera assolutamente straordinaria,
talmente tanto che è stato salutato come il più grande narratore fantastico del Novecento, cose
che spesso già c’erano, a cui lui dà una forza e una bellezza nuova: il re in esilio con la spada
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spezzata, come Artù, Aragorn che torna come Mosè a rimettere insieme i cocci, i nani che devono
andare a riprendere un tesoro custodito da un drago, il mago consigliere, come Merlino, gli elfi, gli
anelli che rendono invisibili (come in Sigfrido e come in Platone, che cita l’anello della repubblica di
Gige, che rende un uomo il tiranno assoluto). Se ci pensate bene queste cose c’erano già, anche se
Tolkien le racconta in un modo nuovo. Per capire qual è il quid di un autore a volte bisogna
guardare che cosa aggiunge, come nel gioco delle due stanze del cruciverba: sono
apparentemente simili, ma ci sono dei dettagli aggiunti da un lato che fanno la differenza, un
lampione in più…
Cos’è, allora, che Tolkien aggiunge a questo immaginario? Gli Hobbit. I Goblin c’erano, gli Elfi
c’erano (per quanto mai così potentemente raccontati). Gli Hobbit sono suoi, e non è un caso che,
proprio sugli Hobbit, si incentri tutto. Tolkien dice, in una lettera, che gli Hobbit sono decisivi,
perché sono i protagonisti, queste piccole creature, questi mezzi uomini, imparentati con gli
uomini, cugini degli uomini (dice proprio che è una “razza umana”).
La questione interessante, che Tolkien dice, è che da una parte negli Hobbit vede coincidere sia le
cose che amava di più (la vita quotidiana, il quieto vivere, il rapporto con la campagna inglese, con
il mangiare, il fumare all’aperto, i racconti…) ma, annota lo scrittore, gli Hobbit sono interessanti
solo in situazioni poco Hobbit: un intero libro ambientato nella contea diventerebbe noioso, o
semplicemente comico! Ci vuole uno sfondo più grande. talmente tanto che questi personaggi
comici vengono proiettati nei luoghi in cui, fino a poco tempo prima, abitavano le sue leggende
(quelle degli elfi, del Silmarillion, dei draghi) che, improvvisamente, trovano uno sbocco: c’è stato
bisogno di entrare da questa porta stretta della simpatia, della comicità, della piccolezza, perché
quel grande sfondo narrativo non restasse uno splendido pastiches di miti precedenti, ma avesse
una possibilità di colpire il lettore contemporaneo.
Non è un caso che Tolkien non è un conservatore, che dice che il mondo deve attenersi alla
campagna inglese degli anni Venti. Gli Hobbit sono, nella maggior parte dei casi, non soltanto
piccoli fisicamente, ma sono piccoli moralmente, sono meschini: Tolkien dice, nel prologo de Il
Signore degli Anelli, che la maggior parte degli Hobbit sono quei tipi di persone che amano leggere
le cose che ricordano loro quello che già sanno. Questo non è un gran complimento! Non vogliono
niente di inaspettato: avete presente la paura dell’inaspettato? Il timore di tutto quello che rompe
la routine quotidiana: in questo senso non sono piccoli solo fisicamente, ma anche moralmente.
Tutta la vicenda de Lo Hobbit, e de Il Signore degli Anelli, in una prospettiva diversa, è la scoperta
del fatto che un uomo, piccolo fisicamente, possa non essere piccolo moralmente, perché Bilbo è
un uomo piccolo, ma che scoprirà di essere innamorato delle cose grandi, e che può fare qualcosa
di inaspettato.
Adesso vorrei con voi leggere alcuni passaggi che su questo ci permettono di trovare alcune cose.
Uno, innanzitutto.
Uno dei temi fondamentali di Tolkien è il movimento: muoversi. Se ci pensate bene, il viaggio di
Bilbo, che è tradizionale, come quello di Ulisse, e, in maniera diversa, anche quello di Frodo, sono,
almeno nella prima parte, una Divina Commedia all’incontrario: nella Divina Commedia si parte
dall’Inferno e si arriva al Paradiso; qui, invece, partiamo da una situazione di quiete e tranquillità
riposante e gioiosa, e andiamo o verso un esplicito pericolo (le fiamme di Smaug) o all’inferno (la
terra di Mordor). È una Divina Commedia al contrario: si parte dalla pace per andare a fronteggiare
la guerra, un pericolo, il male, anche se è contemplata tutta una parte significativa, che è il ritorno
al pacifico precedente.
Cosa permette di muoversi?
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Come inizia lo Hobbit?
In una caverna nella terra viveva uno hobbit. Non era una caverna brutta, sudicia e umida, piena di
vermi e intrisa di trasudo fetido, e nemmeno una caverna spoglia, arida e secca, senza niente su cui
sedersi né da mangiare: era una caverna hobbit, vale a dire comodissima.
Qui non è tradotta bene, perché in inglese Tolkien dice and that means comfort: e questo vuol dire
comodo. Usa mean, meaning. Attenzione a questo, perché dopo ci torniamo. Bilbo è rispettato,
perché non ha mai fatto niente di strano, non ha mai avuto niente di imprevisto.
Tolkien fa una proposta al lettore: Questa è la storia di come un Baggins ebbe un’avventura e si
trovò a fare e dire cose del tutto imprevedibili. Può anche aver perso il rispetto del vicinato, ma in
cambio ci guadagnò… be’, vedrete voi stessi se alla fine guadagnò qualcosa.
Questa è una proposta al lettore: vieni a vedere se e cosa guadagna Bilbo. Bilbo ha un lato aperto
all’imprevisto, il lato Tuc, in inglese Took, cioè il lato tocco, però ha bisogno di qualcosa da fuori
che lo risvegli.
Questo è il primo punto: ci deve essere una sollecitazione esterna. Nel caso di Frodo sarà l’anello,
in maniera dolorosa e esplicitamente drammatica, è la lotta del bene con il male. Qui, all’inizio, si
pone una questione un po’ più neutra, che è la questione dell’avventura, che ha un connotato
morale, come vedremo.
All’inizio Bilbo ci è presentato come la quint’essenza del comfort e della soddisfazione. È un
tuttotondo: vive in un buco sottoterra, in una collinetta, ha la porta tonda, lui è tondo, con il
panciotto, con i bottoni dorati e fa anelli di fumo tondi. È tutto tondo! Improvvisamente arriva,
però, il mondo di fuori, che è Gandalf, che è il mondo degli spigoli: Gandalf ha il cappello a punta,
la barba, il bastone, è un fil di ferro, è aguzzo e spigoloso, ha enormi stivali (che vuol dire che è
uno che cammina, che marcia, che si inoltra nel mondo).
E si incontrano:
Bilbo vide, quel mattino, un vecchio con un bastone. Aveva un alto cappello blu a punta, un lungo
mantello grigio, una sciarpa argentea sulla quale la lunga barba bianca ricadeva fin sotto la vita, e
immensi stivali neri.
«Buongiorno!», disse Bilbo; e lo pensava veramente.
Tolkien dice: and he meanted, cioè ci credeva, è il meaning che ritorna.
Il sole brillava e l’erba era verdissima: è pacifico! Attenzione, come viene introdotto il mondo di
fuori, e la sua proposta? Con una avversativa: ma Gandalf lo guardò, con le lunghe sopracciglia
irsute ancor più tese della punta del suo cappello. “Che vuoi dire?” disse?
In inglese: what do you mean? Ancora! È una questione di significato: Gandalf non permette a
Bilbo di riposare nella compiaciuta superficialità dell’apparenza. Gli fa una sfida, talmente tanto
che Gandalf fa esattamente la stessa cosa che fa Virgilio all’inizio della Divina Commedia. Vi
ricordate quando Dante è nella selva oscura, sta precipitando, e vede questa figura chi per lungo
silenzio parea fioco? Perché Virgilio sta zitto? Perché il primo discorso diretto deve essere del
protagonista: quando vidi costui nel gran diserto “miserere di me”, gridai a lui: aiutami! Allora uno
ti può aiutare. Virgilio sta già facendo il maestro, perché sta provocando la libertà di Dante a
prendere una posizione chiara.
“Cerco qualcuno in cerca di un’avventura, ma non riesco a trovarlo.”
E Bilbo parla in generale: “Lo credo bene, siamo gente tranquilla! Non sappiamo che farcene delle
avventure, brutte, fastidiose, scomode cose.”
Scomode!
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“Fanno far tardi a cena. Non riesco a capire cosa ci si trovi di bello.”
La questione è: cosa possiamo trovare di bello in qualcosa di scomodo? Guardate che Gandalf
tace, finché Bilbo non viene fuori con un altro buongiorno, e dice: “Buongiorno, non vogliamo
nessun altra avventura qui. Grazie tante!”
E Gandalf gli dice: “Però, quante cose sai dire con il tuo buongiorno!”
Fa venir fuori Bilbo a dei livelli che nemmeno Bilbo, nella sua vocazione britannica, avrebbe il
coraggio di dire. Questa sollecitazione esterna, questa provocazione, è soltanto subita.
Bilbo, quando i nani arrivano, non vede l’ora di liberarsene, non li sopporta, non capisce perché li
deve subire. Qual è il momento nel quale fa un salto quantico? Il momento in cui i nani cantano.
Quello che era già stato detto prima, anche, le mere informazioni su Smaug improvvisamente si
accendono di un’altra cosa: (e questa è la potenza dell’arte, perché l’arte è la possibilità che il
cuore di un altro uomo batta dentro al tuo) si rompe, mi verrebbe da dire, il muro dell’inimicizia,
dell’estraneità, del dire “va be’, ma sono solo fatti tuoi”.
Improvvisamente, mentre cantavano, lo Hobbit sentì vibrare in sé l’amore per le cose belle fatte
con le proprie mani (Bilbo diventa un nano!) con abilità e magia, un amore fiero e geloso, il
desiderio dei cuori dei nani. Allora, qualcosa che gli veniva dai Tuc, (non è che gli stanno facendo il
lavaggio del cervello, lo stanno rendendo più Bilbo di prima!) si risvegliò in lui, e desiderò di andare
a vedere le grandi montagne, udire i pini e le cascate, esplorare le grotte e impugnare la spada al
posto del bastone da passeggio. Guardò fuori dalla finestra.
Questa frase, nella sua semplicità, ci fa vedere che Bilbo è già partito. Il gesto più rivoluzionario
non sarà, da un certo punto di vista, neanche quello della mattina dopo: è questo movimento
dello sguardo che ci dice che Bilbo è già fuori, è già uscito.
Guardò fuori dalla finestra: attirato da una vastità desiderabile.
Questo è così interessante, se ci pensate bene, che alla fine della storia, quando Bilbo e i nani
troveranno il tesoro, come direbbe il grande Eliot: “o voi non avevate uno scopo, o lo scopo che
avevate era al di là della fine che vi immaginavate, e raggiungendolo si cambia”. Potrebbe essere
tutto Tolkien, descritto in questa frase.
Thorin, che ha dedicato tutta la vita, con dedizione, come Mosè, a portare tutto il popolo nella
terra promessa, l’ha sognato, l’ha accarezzato, gli ha dedicato notti insonni, il sudore della propria
vita, quando arriva al tesoro, lui che voleva liberarlo dal drago, paradossalmente diventa il nuovo
drago: il nuovo drago è identico a Smaug, non lo vuole condividere, è disposto a morire di fame,
chiuso dentro la montagna.
Dice infatti: “Io non vi devo nulla” ai popoli del lago, che invece hanno in qualche modo subito la
conseguenza del risveglio del drago. Thorin è diventato prigioniero del proprio orizzonte: anziché
usarlo come un trampolino di lancio diventa la parodia tragica di se stesso. Diventa geloso,
sospettoso degli altri…
Nel momento in cui c’è la battaglia fuori e la faccenda sta andando verso il peggio:
Improvvisamente ci fu un grido fortissimo, e dalla Porta venne uno squillo di tromba: avevano tutti
dimenticato Thorin: parte del muro, scalzato dalle leve, crollò e cadde nella pozza.
Il Re sotto la Montagna balzò fuori (Tolkien è la prima volta che lo chiama re) e i suoi compagni lo
seguirono. Cappuccio e mantello erano spariti: erano tutti rivestiti di abbaglianti armature, e dai
loro occhi divampava una luce rossa. Nella penombra, il grande nano (bellissimo paradosso)
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brillava come oro”. Thorin è diventato il tesoro: nel momento in cui lo abbandona, per andare a
salvare quelli che, fino a pochi istanti fa, guardava come dei nemici. Vedete: non c’è differenza.
Tolkien non sta dicendo che il problema di uscire è un problema che riguarda gli Hobbit, ma che
riguarda gli uomini, gli esseri viventi: non importa che tu sia un Hobbit nella comodità di casa
Baggins, o un orgoglioso principe dei nani che ha riconquistato il suo tesoro con lacrime e sangue,
la questione è se sei ancora, e ancora, e ancora, e ancora, disposto a uscire fuori, uscire! Balzare
fuori!
Il che ti può anche costare molto, perché a Thorin questo costerà la vita.
Questo è un punto. L’altro è: differenza (che per Tolkien è particolarmente importante) tra bene e
male. Il male, per Tolkien, ragiona sempre per quantità, il bene vive di una qualità di esperienza
diversa.
I cattivi, in Tolkien (questo è molto facile averlo presente con Sauron, Saruman, Denethor) sono
sempre in delle torri, non si muovono, mandano gli altri. Questo è quello che Tolkien chiamava “la
macchina”: non è che non stimasse la tecnologia, gli piaceva guidare la macchina in modo
azzardato (e i suoi figli raccontavano che la sua filosofia di guida della macchina era “se li punti si
sposteranno”!) !
Ma Tolkien era consapevole che si può chiedere al potere e alla tecnologia, come racconta in tante
declinazioni diverse sulla magia, che in tante modalità, (quella nera, non la magia buona degli elfi o
di Gandalf) è una forma di potere sulla realtà, quantitativo, di fare lavoro al posto di una
immedesimazione, di un moto: Sauron non si muove, Saruman non si muove, stanno fermi e
chiedono al potere, a questa torre che si alza sempre di più, di permettergli, apparentemente, di
vedere molto lontano. C’è una bella differenza con Gandalf, che è, come ben sapete, l’angelo
mandato da Dio, come una specie di Arcangelo Michele, il coordinatore della resistenza, che ne Il
Signore degli Anelli va a trovare un amico per la festa del suo compleanno, e fa l’animatore della
festa, come si fa coi bambini!
Quanto, da un punto di vista politico e strategico, c’è di meno utile al mondo! Eppure è su queste
trame di rapporti che si innerva il bene ne Il Signore degli Anelli e ne Lo Hobbit. Sauron e Saruman
ragionano per quantità: Tolkien lo dice esplicitamente, quando Gandalf dice nel concilio di Erlond
“Il nostro nemico è molto saggio, e soppesa tutte le cose sulla bilancia della sua malvagità, ma
l’unica cosa che conosce è il desiderio di potere”. Che qualcuno abbia il suo potere e non lo voglia
usare, per lui, è follia. Qui Tolkien sta riprendendo un concetto, che è molto caro all’esperienza di
Diesse, che è: conoscere è riconoscere. Sauron pensa che tutti gli altri siano dei piccoli Sauron, e
che vogliano semplicemente essere come lui. Questa è la differenza tra il bene e il male, come
notò Guido Sommavilla: i cattivi vincono in campo aperto, possono vincere in battaglia ma non
vincono mai se stessi. I buoni sono coloro che, avendo innanzitutto vinto se stessi, possono forse
vincere anche sul campo di battaglia. Gandalf sconfigge il Sauron dentro di sé, Galadriel sconfigge
il Sauron dentro di sé, Thorin sconfigge Smaug dentro di sé. Mentre Smaug non è in grado di
sconfiggere Smaug (pensate a ciò che fa per una coppa). Il male, che conosce tanto, è sempre
fregato da un dettaglio, da degli aspetti che eludono anche le sue complessissime trame. Questo è
vero anche ne lo Hobbit: Smaug si crede invincibile, ma non ha notato che c’è un punto che
manca, e il più piccolo degli uccellini… pensate: quanto può servire un uccellino, in una battaglia
contro un drago, niente! Quanto può servire sapere il linguaggio degli uccellini, niente! Eppure
quel tratto, quel filo che viene dal passato permette a Bard di giocare un ruolo che è
qualitativamente diverso.
Questo è l’altro punto: la conoscenza per qualità o per quantità. Questo, guardate, è quello che
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per Tolkien, attraverso Bilbo, fa la differenza alla fine del viaggio. Quando Bilbo parla con Thorin
morente è un momento quasi metaletterario, perché Thorin è il re dei nani, che è la quintessenza
di tutto quel mondo dell’etica che Tolkien amava. I nomi Thorin, Gimli, Gloin, vengono dall’Edda,
come altri nomi vengono da Beowulf, Gandalf è un nome della poesia Scandinava, come Frodo…
Sul capezzale del re morente, è inginocchiato un piccolo Hobbit: è come se i mondi di Tolkien si
confrontassero, c’è una sorta di passaggio del testimone. Non è un caso che le parole che abbiamo
scelto , come titolo del Convegno, siano quelle che Thorin rivolge a Bilbo. Ma in che termini, in
quale contesto?
Bilbo piegò un ginocchio a terra, pieno di dolore: “Addio re sotto la montagna, amara è stata la
nostra avventura”.
Tolkien non risparmia questo evento: non dice che bisogna fare le avventure così ci si diverte.
“Amara è stata la nostra avventura, se doveva finire così, e nemmeno la montagna d’oro può
essere un adeguato compenso”.
Il tesoro non è ciò che ti dice, alla fine: ne è valsa la pena, perché si è spalancato un altro livello.
“Tuttavia, sono felice di aver condiviso i tuoi pericoli.”
È questo quello che Bilbo ha trovato: non è contento dei pericoli, essi sono ancora brutte,
fastidiose, scomode cose. Cosa fa la differenza? L’aggettivo possessivo: tuoi. La differenza la fai tu.
Cos’è stato diverso per Bilbo? Il rapporto con Thorin. Io preferisco aver pianto con te che essere
rimasto a ridere, solo, a casa Baggins. Questa è la provocazione della scrittura di Tolkien, questa
condivisione di vita che ha introdotto una nuova conoscenza: Bilbo si è conosciuto di più, vivendo
queste scomodità con Thorin, che neanche fosse rimasto comodamente a casa. Attenzione, però:
questo getta una luce sul ritorno.
Vi devo leggere, brevemente, due cose diverse.
Quando Bilbo, all’inizio, sente la poesia dei nani, guarda fuori dalla finestra, e qui accade una cosa
bellissima: l’arte è l’invito a un grande viaggio, il noto ti parla dell’ignoto, apre una prospettiva
diversa.
Guardò fuori dalla finestra, le stelle erano apparse in un cielo buio, pensò ai gioielli dei nani che
scintillavano in caverne buie. Improvvisamente, nel bosco al di là dell’acqua, palpitò una fiamma,
qualcuno che accendeva un fuoco di legna.
Noto – ignoto. Al ritorno, quando fanno il viaggio e gli elfi cantano, che cosa cantano, quando il
drago è morto?
Ogni stella è più lucente delle gemme, immensamente. E la luna è più splendente di ogni argento
appariscente: qui, la fiamma è incandescente, nel tramonto il focolare più dell’oro è rifulgente.
L’ignoto, il grande, ti parla del piccolo, e lo riapprezzi, e lo guardi con occhi nuovi, con occhi
rinnovati. Il personaggio più bilbo-bagginesco del Signore degli Anelli non è Frodo, Frodo è come
Enea.
Bilbo è Ulisse (andata e ritorno) ed è curioso, scopre una naturale curiositas alla battaglia coi troll,
che sembra uguale a Polifemo, è una gara d’astuzia contro la stolidità, Bilbo scoprirà di avere una
vocazione naturale e diventerà uno scrittore, è un narratore, un poeta, un avventuriero!
Frodo è Enea: si brucia il passato alle spalle e non può tornare indietro, è chiamato a una missione
che non è meramente, positivamente naturale, come può essere in parte quella di Bilbo, perché
quella di Frodo è una missione consistente, mentre quella di Frodo è compartecipare, partecipare
alla sconfitta del Signore delle Tenebre, e viene ferito in un modo per il quale non c’è possibilità di
ritorno.
Il personaggio più “alla Bilbo”, per quanto sia apparentemente diverso, è Sam. Sam non ha le doti
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di Bilbo, è molto umile, ma vuole vedere gli elfi e i draghi, e il padre di Sam, se vi ricordate bene,
(che è un personaggio molto importante nella storia, anche se non compare quasi mai) cosa gli
dice all’inizio? “Elfi e draghi? Cavoli e patate sono le cose che spettano a te, non ti impicciare negli
affari dei tuoi superiori”. Se ci pensate bene, invece, la storia di Sam è quella di uno che si impiccia,
e che ha guai a non finire. È anche vero che, formalmente, la profezia del Gaffiere, del padre di
Sam, è vera, perché Sam per tutta la vita dovrà occuparsi dei cavoli e delle patate, tornerà a fare il
giardiniere, ma avendo visto gli elfi e i draghi. Questo è il punto, per Tolkien, che il quotidiano lo
puoi recuperare veramente solo se lo proietti nell’unico grande orizzonte che conta, che è
l’orizzonte in cui il tempo, le storie che vengono da molto lontano, i nani, il capitolo “L’ombra del
passato” del Signore degli Anelli, e lo spazio (il viaggio che è andare lontano), contano. Queste
sono le due coordinate, il tempo e lo spazio, che introducono l’universo morale: nella vita ci sono
cose che non sono giuste, draghi che impediscono a persone di tornare a casa, anelli del potere
che portano la rovina, e l’uomo non può non prendere la posizione, pena la salvezza di quello che
gli è caro.
Ma già nello Hobbit, e alla fine del Signore degli Anelli, c’è un’intuizione che per Tolkien è decisiva:
quando alla fine stanno parlando Gandalf e Bilbo, e uno dei nani lo è andato a trovare, Bilbo dice
“Allora le profezie delle vecchie canzoni si sono rivelate vere, più o meno!” “Ma certo! - disse
Gandalf - e perché non dovrebbero rivelarsi vere? Certo non metterai in dubbio le profezie, se hai
contribuito a farle avverare! Non crederai mica, spero, che ti sia andata bene, in tutte le tue
avventure e fughe, per pura fortuna, così, solo e soltanto per il tuo bene”.
Qui c’è un’altra sfumatura di traduzione: se potete state attenti, vi propongo, a tutte le volte che
Tolkien dice caso: per caso, avvenne per caso… Gandalf dice: “non crederai mica che sia stato un
caso (chance)?” Per cui la traduzione è sbagliato! È opportunità! C’è un’introduzione di senso, un
disegno più grande, chance. “Sei una bravissima persona, signor Baggins, e io ti sono molto
affezionato, ma in fondo sei solo una piccola creatura in un mondo molto vasto”. Attenzione!
“Grazie al cielo!” disse Bilbo ridendo, e gli porse la borsa del tabacco.
Quello che gli aveva detto all’inizio, e che in realtà non voleva fare, perché disse a Gandalf di
sedersi e fumare con lui, ma voleva vedere quando si levava di torno!
Ce n’è voluto perché il quotidiano diventasse questa apertura all’inaspettato: paradossalmente, il
gesto che all’inizio era stato formale, di offerta del tabacco, non sostanziale, qui diventa
sostanziale. Ce n’è voluto perché uno potesse vivere il quotidiano come una grande avventura!
Ma l’elemento dell’introduzione di senso ne Il Signore degli Anelli è molto più esplicito, quando
Gandalf dice: “C’è un’altra potenza in gioco, a parte la volontà del male”.
Questo è decisivo per Tolkien, il fatto che nella vita ci sia un disegno più vasto delle nostre trame,
che è possibile intravedere in alcuni momenti, e uno dei momenti più decisivi per Tolkien, in cui
l’uomo, consapevolmente o meno, paga un tributo a questo potere, è la pietà.
Questo è già presente ne Lo Hobbit, quando Bilbo ha pietà di Gollum: lo vede ed è un percorso di
immedesimazione, “Si immaginò lunghi giorni, da solo, al buio”. È una possibilità di entrare dentro
l’altro.
Graham Greene, ne “Il potere e la gloria”, dice una cosa molto tolkeniana, che in fondo il male è
una mancanza di immaginazione. Il male vede solo il male, mentre il bene è in grado di vedere il
bene anche nel male, o l’assenza di bene anche nel male, o l’anelito di bene anche nel male. La
pietà può decidere il destino di molti, perché in qualche maniera sta riconoscendo che le tue
categorie, quello che sarebbe utile e giusto, può non avere l’ultima parola, e questo dà adito ad
altro di agire.
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Torrini: ringrazio Edoardo per questa chiarissima esposizione. Per chi è venuto alla Convention di
Bologna già alcune cose le conosce, ma si vede che c’è un approfondimento, una possibilità di fare
un passo, sia per coloro che hanno partecipato alla Bottega delle Vie d’Europa a Bologna che per
tutti gli altri: questa è l’occasione di fare domande di chiarificazione, o raccontare eventualmente
esperienze che già sono in atto.
Domanda: hai citato il saggio sulle fiabe. Consigli di leggerlo?
Rialti: il saggio si chiama “Sulle fiabe”, è presente in “Albero e foglia”, e in una raccolta nuova,
edita da Bompiani, che si chiama “Il medioevo e il fantastico”, che è una raccolta di tutte le
conferenze di Tolkien. È molto bella, ed è in un certo senso il manifesto di Tolkien. In queste,
Tolkien presenta tutto il valore di un racconto fantastico: perché ne vale la pena? Cosa accade in
una storia? Tolkien dice una cosa che può suonare, forse anche tra noi, impopolare: di solito si
pensa che i bambini siano i naturali ricettori delle fiabe, che i libri di fiabe siano stati delegati alle
camere dell’infanzia. Lui dice: io non lo credo, perché si confonde la naturale curiosità dei bambini.
Fa notare che i bambini sono innamorati dei “perché” infatti chiedono, sempre: è vero? È successo
davvero? Hanno una naturale curiosità! Non tutti i bambini amano le fiabe veramente, perché
esse non hanno a che fare con ciò che è possibile, ma con ciò che è desiderabile, e non sono
esattamente la stessa cosa.
Lui dice che, da bambino, non voleva che i draghi esistessero veramente: voleva una storia dove ci
fossero i draghi. È una distinzione sottile, ma assolutamente significativa, perché il cuore è
coraggioso anche quando la carne è debole.
Se ci pensate bene Bilbo è uno che è coraggioso anche quando la carne è debole, gli Hobbit sono
l’immagine di questo elemento. Il saggio sulle fiabe tocca tanti elementi importanti per Tolkien. Ce
n’era uno che amava molto: l’eucatastrofe. Le fiabe devono avere un finale positivo, non perché
tutto deve andare bene.
Tolkien dice che in teatro la forma perfetta è la tragedia, perché dice una cosa vera. La tragedia
dice un aspetto dell’umanità: che l’uomo deve morire e incontra la sconfitta, che può vedere il
naufragare dei propri progetti umani , è vero.
La fiaba ha in sé la natura del lieto fine, che Tolkien chiama l’eucatastrofe, il ribaltamento positivo:
quell’improvviso ribaltamento positivo e inaspettato che ti fa venire le lacrime agli occhi, che è
come se gettasse, a sua volta, un suggerimento sull’ultimo esito della storia. Tolkien diceva, in una
sua lettera, che era cristiano e cattolico romano, e non si aspettava che la storia sia altro che una
lunga sconfitta, sebbene contenga in una storia commovente, in maniera ancora più espressa,
esempi e intuizioni della grande vittoria finale.
Domanda: i miei alunni mi hanno domandato degli Hobbit. Stavamo citando queste leggende
nordiche, e trovavamo tutte le somiglianze con tante vicende, ma mi hanno chiesto, appunto: gli
Hobbit li ha inventati Tolkien? Come e perché li ha inventati? Perché proprio imparentati con gli
uomini?
Rialti: come li ha inventati non si sa, perché uno scrittore non programma. Tolkien racconta che
sono nati (e bisogna essere molto grati a questo) perché si annoiò a correggere i compiti! La storia
della letteratura del Novecento è stata salvata da uno studente noioso! Tolkien ha detto che non
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ne poteva talmente più che girò questo compito e c’era una pagina bianca, su cui scrisse: In un
buco sottoterra viveva un Hobbit, senza avere nessuna idea di cosa fosse un “hobbit”. Era una
parola che gli piaceva, aveva da poco letto un romanzo che si chiamava Babbit e gli piaceva il
suono babbit…hobbit… Mentre Gamgee era il nome di una cosa di cotone, aveva inventato allora il
nome di un personaggio che era il Gaffer Gamgee, il vecchio pettegolo papà di Sam: le cose si
compongono piano piano, gli scrittori non programmano mai niente, si espongono, sono loro i
primi in cerca, in viaggio.
Tolkien vede questo nome e vede un personaggio. Non vede un’idea, vede gli Hobbit, e gli va
dietro. Paradossalmente, questa cosa si lega come un corto circuito narrativo, con elementi che,
invece, in lui erano già presenti. Tolkien scriveva racconti epici da quando aveva 15 anni, ma i
racconti del Silmarillion vengono pubblicati per la prima volta quando vengono legati a questa
vicenda. È molto difficile da cogliere come nasce un personaggio, i personaggi, come dice
Pirandello, ti capitano.
Agnoletti: cercano un autore, se no la storia è costruita, ma non è bella.
Rialti: esatto, è una costruzione: sai già dove andare. Di Tolkien è molto bello leggere le lettere, in
La realtà in trasparenza, perché annota molto. Dice: “E’ comparso Aragorn oggi, non so neanche
chi sia”. In realtà credo che i ragazzi che fanno l’esperienza della creatività capiscano questo. È una
grande domanda: è come se balzasse fuori. È un’esperienza, quella creativa, che tutti conosciamo,
e ne conosciamo l’indefinibilità.
Agnoletti: questo è valido anche per giudicare un autore: un autore costruito non è reale, non è
veritiero. Un autore non sa come va a finire il suo racconto, se ne stupisce anche lui, e scrivendo si
scopre chi è l’autore. L’autore scopre anche qual è il suo subconscio, capisce se stesso attraverso i
suoi personaggi.
Rialti: due giorni fa ho fatto un incontro a Perugia su Tolkien. Dicevo agli studenti: pensate, a volte
si dice che “un autore è il personaggio principale della sua opera”… c’è un pezzo che mi è piaciuto
tantissimo, di Mimmi Cassola, che nella prefazione a un suo romanzo dice che lo scrittore è la
protagonista, ma è anche l’albero che compare a pagina 4, è anche il cane del vicino, è anche il
postino che compare di sfuggita, per una lettera. Tutti i personaggi sono suoi e sono lui. Questo è
interessante per noi. Tolkien è anche Bilbo, è anche Smaug, Thorin… questo è interessante per noi,
perché il lettore può scoprire qualcosa di sé in Thorin, in Bilbo, in Smaug, in Sauron, in Saruman, in
Frodo, negli Elfi.
Intervento: io in una terza media ho fatto questo: cercare di vedere non un personaggio, ma quali
caratteristiche di te attacchi ai vari personaggi.
Torrini: una collega in questi tempi ha fatto proprio questo lavoro su Tolkien: cercare di
rintracciare in ognuno dei personaggi de Lo Hobbit degli aspetti di sé, come rintracciare in sé gli
aspetti Tuc e gli aspetti Baggins di noi stessi. Ai ragazzi abbiamo chiesto di rintracciare in sé questi
aspetti.
Rialti: Tolkien, ovviamente, non sta disprezzando il quieto vivere, anzi! Da una parte il quieto
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vivere è ovviamente divertente se proiettato in una situazione drammatica, come Bilbo, che cerca
il fazzoletto appena partito da casa. Oppure quando l’aquila, mentre lo sta portando, gli dice:
“Cosa c’è di più bello che volare alla mattina?…” e lui risponde: “Una colazione a letto!”. I ragazzi
lo capiscono: da una parte un panino si gode molto di più dopo una scarpinata in montagna,
perché è proiettato su uno sfondo più vasto, a due livelli: da una parte, quando uno è proiettato in
un’avventura il quotidiano è riapprezzato, quando una cosa non ce l’hai, ti accorgi di più di cos’è.
Dall’altra parte è vero anche il contrario (questo è un’annotazione di Lewis): che il magico, il
fantastico, il grande, dà sapore al quotidiano. Lewis, autore de Le cronache di Narnia, il più fine
lettore di Tolkien, da amico e sodale, scrive, in una recensione de Il Signore degli Anelli, una cosa
geniale: un bambino che vada a pranzo dai nonni, e la nonna gli fa la carne scotta, perché non le
riesce, se ha appena letto un racconto dei pellerossa e si immagina di essere un indiano che sta
cucinando e mangiandosi il bisonte, non salta il fatto che la carne sia scotta, la gusta perché è
scotta, perché è così che sarebbe cucinata in un bivacco! Mettendola in un racconto non salta il
fatto che è poco saporita, ma è saporita perché non è saporita. È interessante questa dinamica,
perché è la potenza del racconto.
Domanda: mi mancano tante letture, non sono riuscita a seguire tutto. In classe, però, sono
arrivata al capitolo 6: fin qui è densissimo e molto bello. Ha colpito tantissimo i miei alunni la
questione di Gollum, e il rapporto con il tesoro. Mi sembra che la descrizione della vicenda di
Gollum descriva cosa succede in una dipendenza. Siccome, poi, Edoardo ha fatto un accenno a
Thorin, sul finale del racconto, dicendo che non chiude, ma apre, vorrei capire: come si gioca la
questione del tesoro? Ho capito bene questa dinamica? Tolkien qui parla del possesso?
Rialti: innanzitutto mi permetto di suggerire che un insegnante deve precedere nella lettura i
ragazzi, perché questo permette di seguirli meglio, di accompagnarli nella corsa. Quello che dicevo
su Thorin è che lui diventa, a sua volta, prigioniero del tesoro. Il tesoro strega Thorin, o lo strega
un certo modo di intenderlo. Su questo sarà decisivo il gesto che Bilbo fa di sottrarre la parte più
preziosa del tesoro, e darlo ai suoi avversari: Bilbo fa da operatore di pace, quando Thorin lo
accusa di starlo tradendo. Bilbo vuole bene a Thorin, infatti, in un modo che Thorin non capisce:
apparentemente gli sottrae una cosa perché lo vuole rendere più libero, dicendogli come vuole il
bene di tutti, e vuole bene a Thorin oltre quello che Thorin percepisce della situazione.
In Tolkien è decisiva la modalità di rapporto che si innesta tra amore, che crea un vincolo che non
schiavizza, e il potere, in senso tenebroso, che invece avvince. Il titolo Il Signore degli Anelli è una
citazione dal Beowulf, dove i re del mondo anglosassone venivano chiamati i signori degli anelli,
perché avevano sulle braccia dei cerchi che spezzavano a metà: una metà la teneva il re e una il
vassallo, ed era un patto di alleanza, un mutuo rapporto di sostegno. Sauron è un signore degli
anelli, dà degli anelli che promettono immortalità, potere e ricchezza, ma in realtà fanno diventare
schiavi. Sarebbe interessante analizzare il modo in cui gli orchi parlano del padrone, del master
Sauron, e come Sam parla del padron frodo: c’è una persona cui dai la vita in entrambi i casi, ma in
maniera molto diversa. Gollum è schiavo dell’anello, ne è assolutamente diventato schiavo, ma il
rapporto con Frodo, che lui chiama padrone, è un rapporto che inizia tentativamente a liberarlo:
Gollum ricomincia ad essere Hobbit, perché Frodo lo chiama Smeagol, non Gollum, che è il nome
che l’anello gli dà, lo chiama per quello che era, e questo è uno dei momenti più tragici e terribili
del Signore degli Anelli, quando Gollum guarda Frodo e Sam di notte, si commuove, li accarezza, e
Sam, che è buonissimo ma non vede sé in Gollum, cosa che invece Frodo fa, gli urla: “Cosa stai
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facendo?” perché vede solo la superficie del gesto, e gli sembra che Gollum stia frugando nelle
vesti di Frodo per prendergli l’anello.
È un momento di ironia tragica, che il personaggio più buono del Signore degli Anelli è quello che
porta alla deriva Gollum: “La luce, in quel momento, negli occhi di Gollum si spense”, dice Tolkien.
In quel momento decide, definitivamente, di tradirli.
È sempre un affetto fuori di noi che può essere lo stimolo ad uscire: per Bilbo, per Frodo, per
Thorin, persino per Gollum.
Domanda: i miei alunni hanno notato, molto, la musicalità delle parole. Una mia alunna, in
particolare, ama molto la musica celtica, e chiede se c’è un legame tra Tolkien e questa tradizione,
perché la musica celtica, dice, le ricorda il linguaggio degli elfi.
Rialti: Per Tolkien le parole erano musica, e lui era assolutamente sensibile alla musicalità del
linguaggio: è una notazione profonda.
Il linguaggio degli elfi, il Lindarin, che è la lingua degli elfi come Legolas, è modellato sul gallese un
po’, e su qualcosa di irlandese, mentre l’altoelfico, il cosiddetto Quenya, la lingua di Galadriel, è
modellato sul finlandese (infatti è pieno di nomi liquidi). Tolkien era assolutamente entusiasta dei
tentativi di tradurre in musica le sue poesie, li apprezzò molto quando era vivo, e niente gli
farebbe più piacere del tentativo di una ragazza così.
Domanda: sto leggendo in classe il settimo capitolo. C’è stata una rivoluzione, una ribellione al
fatto che Gandalf se ne andasse via. Mentre fino ad ora c’era stata una ultima sicurezza, in questo
personaggio che li accompagna, lì ci siamo dovuti fermare: si sono ribellati, è nata in loro un
domanda forte su cosa sia la paternità, dicendo che un padre non avrebbe mai fatto così. Anche i
nani, in fondo, gli volevano bene, fino a fidarsi di Bilbo, che gli sembra un buono a nulla. Pongono
tutta la loro fiducia in Gandalf, ma lui non li ripaga, li lascia soli. Io non ho voluto chiudere la
domanda, gli ho detto di scriverla, perché alla fine del libro vedremo di capire se c’è una risposta.
Ho solo suggerito che ci dev’essere un motivo, in Gandalf, nel fare questo.
Rialti: pedagogicamente e nel lavoro è molto utile questo taglio sulla cosa, perché in effetti
Tolkien fa la stessa cosa, non ci dà tutte le informazioni in contemporanea, noi non capiamo
perché Gandalf vada via, lo capiremo alla fine. La liberazione del regno dei nani è parte di una
grande strategia collettiva: non è un caso che Gandalf tornerà nel momento decisivo della
battaglia e spiegherà a loro che ci sono degli altri problemi. Continuando sulla metafora della
paternità, si può dire che Gandalf ha più figli, ha tante questioni da affrontare. Ci sono altre cose,
però, interessanti sul personaggio di Gandalf: una presente in modo più esplicito nel Signore degli
Anelli, perché qui è un personaggio più abbozzato che tratteggiato, che Gandalf è profondo, ha
una lettura profonda, ma, come tutti, ha le sue prove. La prova di Gandalf è la fretta, che questa
chiarezza si pieghi allo sviluppo degli eventi. Gandalf ha chiara la situazione, anche nel Signore
degli Anelli: è stato mandato dall’altra parte del mare a risolvere i problemi! Ed è costretto, nel
senso migliore del termine, non ad accompagnarsi, per la maggior parte del tempo, con chi con lui
è più chiaramente compagno (Aragorn, Galadriel, figure altissime…; deve stare al passo di nani e
degli Hobbit, che è un passo corto; è obbligato e si accompagna con loro. Per la maggior parte del
tempo, nel Signore degli Anelli, infatti, non sta nemmeno con Frodo, che è il più maturo: sta con
Pipino, che sembra un ragazzino delle medie in gita nel momento peggiore (tocca tutto quello che
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non deve toccare, fa casino, crea disastri…), è con lui che Gandalf deve stare! E Gandalf perde la
pazienza! Sembra, dalle descrizioni che fa Tolkien, padre Cristoforo. Gandalf ha chiaro cosa deve
fare, ma deve sacrificare i suoi buoni progetti a un passo diverso dal suo, che non ha previsto. Ne
Lo Hobbit è molto forte questo elemento: Gandalf fa una pedagogia che non è di assenza di
responsabilità, non fa mai le cose al posto degli altri. Anche ne Il Signore degli Anelli è così.
Interverrà a un livello diverso dal consiglio, dallo spronare, quando le cose vanno al di là del potere
degli uomini, come accade col Balrog a Moria, il mostro che lo uccide, infatti dice: “E’ un nemico al
di là delle vostre forze”. Ma, se ci fate caso, nel terzo film de Il Signore degli Anelli, durante
l’assedio di Minas Tirith, davanti ai cavalieri le cui urla portano alla disperazione e alla follia,
Gandalf alza il bastone e li caccia, una volta. Potremmo chiederci: perché non li ricaccia durante
l’assedio? Passa tutto il tempo a correre lungo gli spalti delle mura, dicendo agli uomini di non
cedere alla paura, di combattere, di stare in piedi. Gandalf non vuole vincere al posto degli uomini,
vuole vincere con gli uomini.
Questa pedagogia è la stessa, se ci pensate, di Aslan ne Le Cronache di Narnia, per cui il leone non
uccide il lupo al posto di Peter.
Agnoletti: A proposito di Gandalf i miei ragazzi, anche rilevando gli aspetti Baggins e Tuc che sono
in loro, hanno notato che c’è bisogno dell’aiuto di un altro perché l’aspetto Tuc venga fuori e non
si faccia di nuovo incastrare. La figura di Gandalf ha, per loro, questa importanza. Ho trovato molto
interessante leggere l’appendice a Lo Hobbit, (almeno nell’ultima edizione c’è una appendice)
dove Gandalf, parlando del destino di Bilbo e di Frodo, dice che lui stesso ha un destino, nel senso
che c’è come un disegno più grande cui si può accondiscendere oppure resistere, a seconda delle
selta che si opera. Lui stesso deve dire il suo sì, quotidianamente, a quello che è il suo cammino,
che lui stesso fa fino alla fine, quando parte per l’altro mondo, perché ha finito il suo compito in
questo.
L’altra cosa su cui trovo molto interessante parlare con i ragazzi è individuare quali sono i draghi, e
lasciarci convincere da Tolkien che, comunque, ce ne sarà sempre uno. Gandalf dice questo
esplicitamente, alla fine de Il Signore degli Anelli: che ora Sauron è sconfitto ma nella nuova era un
altro ne verrà. Il male non scompare, a ognuno di noi tocca combatterlo.
Rialti: mi permetto di notare che in Tolkien il bene è caratterizzato dall’unione nella differenza:
creature diverse, culture diverse che si incontrano. Mentre il male è annichilente: basta un anello
per domarli tutti, un anello per trovarli tutti, i cavalieri neri non hanno più faccia infatti. Notate
come Smaug parla, perché la caratteristica dei draghi è instillare i dubbi sui rapporti: Bilbo inizia a
ragionare da drago ascoltando Smaug. Smaug non gli dice cose non vere, ma le dice in un modo
tale che ne esce uno specchio deformato della realtà, e lui inizia a crederci, e a dubitare dei nani.
Niente è più vicino alla verità di una menzogna detta bene, infatti!
Agnoletti: è importante che i ragazzini capiscano che c’è questa lotta, che ci sono draghi da
sconfiggere.
Domanda: che rapporto c’è con il mondo onirico? Con un modo non razionale di vedere il mondo?
Rialti: bisogna distinguere, come ribadivo all’inizio: la fantasia è diversa dal mero gioco
immaginativo. Per Tolkien niente è più profondo e chiede più sforzo e realismo del fantastico.
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Pensate: quando scriveva Il Signore degli Anelli teneva vicino il comodino il calendario delle fasi
lunari, perché non voleva che ci fosse dettaglio della sua storia che non fosse vero. Niente chiede
più realismo del fantastico, come diceva Coleridge, perché devi sospendere l’incredulità, ma se
non è talmente vero che ci credi non funziona!
In questo senso, il sogno come visione, come apertura a una vastità che ci supera e veicola delle
verità più profonde, delle immagini di bellezza o di paura importanti è fondamentale per Tolkien.
Ci sono sogni molto importanti all’interno de Il Signore degli Anelli, ma per Tolkien
l’immaginazione non è esattamente coincidente con il sogno. Come dice nel saggio sulle fiabe,
l’immaginazione non è vedere le cose soltanto come dovrebbero essere, ma come eravamo
destinati a vederle, cioè nella loro dimensione più vasta e più autentica. Chesterton diceva che i
grandi libri ci ripalesano una dimensione dell’esistenza: Giobbe è un grande libro, perché è vero
che la vita è un enigma; l’Iliade è un grande libro perché è vero che la vita è una guerra, l’Odissea
perché la vita è un viaggio. Possiamo dire di vedere un uomo se non lo vediamo come il
protagonista di una fiaba? Possiamo dire di vederci, se non ci vediamo in questa dimensione?
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