INTERVISTA A CALOGERO MANNINO di R. Arena
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INTERVISTA A CALOGERO MANNINO di R. Arena
CALOGERO MANNINO “QUEL GIORNO CHE MIO FIGLIO CONVINSE COSSIGA A NON ABBANDONARE FALCONE” “SONO STATO PROCESSATO SEMPRE DALLO STESSO PM, DALL’INIZIO ALLA FINE. È UN PO’ DURA, DA ACCETTARE. LE INDAGINI PRELIMINARI, IL PROCESSO DI PRIMO GRADO, L’APPELLO, POI IL PROCESSO DI RINVIO…”. PERSECUZIONE? “I FATTI DICONO CHE È SEMPRE STATO LO STESSO MAGISTRATO. NON SO SE CI SIA STATA O MENO PERSECUZIONE” di Riccardo Arena M a qual è il politico, in Sicilia, capace di cominciare una lunga conversazione parlando di Aldo Moro, il presidente della Dc finito come non tutti sanno, perché oggi – secondo un sondaggio realizzato nel 2008, a trent’anni dal sequestro e dalla morte – per alcuni studenti Moro era un attore o giù di lì: del resto, se ci hanno fatto una fiction… E qual è il politico ancora in attivi- 18 S - IL MAGAZINE CHE GUARDA DENTRO LA CRONACA L’EX POTENTISSIMO MINISTRO DC, APPENA USCITO DA 15 ANNI DI PROCESSI, RIPERCORRE GLI ULTIMI TRE DECENNI DELLA STORIA SICILIANA: “NON VOGLIO SI PENSI CHE IO CERCHI DI USARE I RAPPORTI PERSONALI PER RIFARMI UNA VERGINITÀ. MA È TUTTO PRONTO IN UN LIBRO CHE USCIRÀ DOPO LA MIA MORTE” tà che li ha conosciuti e frequentati tutti, Moro, Fanfani, Andreotti, De Mita, Martinazzoli, che ha parlato o trattato con Berlinguer, Almirante, Pajetta, Pannella... E che poi ha conosciuto Giovanni Falcone, ma che ancor oggi usa grande riservatezza e forte ritrosia nel parlare di questo rapporto, un rapporto in cui entrò, appena tredicenne, un ragazzino di nome Salvatore. “Perché non voglio equivoci, che si pensi che io cerchi di usare i rapporti umani, personali, per rifarmi una verginità… Io di queste cose non parlo, ma le ho scritte, è tutto pronto, in un libro che uscirà in Francia e in Inghilterra, dopo la mia morte. Anni dopo la mia morte”. Le memorie di Calogero Mannino, settant’anni il prossimo 20 agosto, non sono solo in quel libro che potrebbe uscire pure fra mezzo secolo. Le memorie di quello che fu il politico più potente della Sicilia stanno anche davanti a lui, che ogni tanto indica il divano su cui i cronisti sono seduti: lì si è seduto Tizio, lì ci stava Caio, sono venuti qui, abbiamo parlato, abbiamo deciso. E ogni tanto nello studio, di fronte ad alcuni ospiti di particolare riguardo, si sedeva pure Salvatore, il figlio, che cresceva a pane, nutella e politica, anche se oggi politica ne fa pochina. Erano i tempi della politica che deIL MAGAZINE CHE GUARDA DENTRO LA CRONACA - S 19 cideva, ma i tempi della politica non sono finiti per il senatore dell’Udc. Sono finiti, forse, quelli delle decisioni di grande importanza cui prese parte e forse quelli dei processi. Assolto dall’accusa di concorso in associazione mafiosa, assolto da una sfilza di reati riconducibili alla sofisticazione del vino, alla truffa, a una serie di imbrogli che l’ex potentissimo ministro e segretario regionale della Democrazia cristiana avrebbe commesso in quel di Pantelleria, dove da alcuni anni si è dato all’attività di imprenditore vinicolo. Assolto e ancora con la possibilità che le Procure, quella generale di Palermo e quella di Marsala, facciano ricorso, ma il peggio per lui pare passato. Una sentenza a sezioni unite della Cassazione, scritta apposta per il suo caso ma che ha effetti generali quanto ai principi di diritto elaborati, ha ridisegnato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, quello che a Mannino è stato contestato per anni e anni, 20 S - IL MAGAZINE CHE GUARDA DENTRO LA CRONACA ufficialmente dal 1994, anno del primo avviso di garanzia. Un avviso recapitato l’1 di febbraio, un paio di mesi prima delle elezioni in cui, per la prima volta da quando si era dato alla politica, l’ex ministro non venne eletto al Parlamento. E l’arresto arrivò in febbraio, il giorno 13, del 1995. Comincia da qui, nell’appartamento di piazza Unità d’Italia, la conversazione nello studio pieno di libri di ogni tipo (che prendono tutte le pareti tranne una, quella del divano), in altezza e in larghezza: saranno tre-quattromila, chi può dirlo. Comincia da quell’avviso di garanzia, “di garanzia si fa per dire – attacca Mannino – e il primo a capirlo sapete chi fu?”. Lui, Aldo Moro. “Si discuteva – sarà stato il ’76, il ’77 – della comunicazione giudiziaria, che già cominciava a prendere la forma attuale dell’avviso di garanzia. E Moro lo disse in commissione Giustizia, disse ‘ma che state facendo? Non vi rendete conto che così darete un “IL MIO SBARCO IN SICILIA FAVORITO DA VELLA E PENNINO? IO ALLE POLITICHE DEL 1979 AVEVO PRESO 106 MILA VOTI, A PALERMO. AVEVO BISOGNO DI LORO? IL CARCERE FU UN’ESPERIENZA INDIMENTICABILE, DA NON AUGURARE A NESSUNO. VISSUTA IN SOSTANZA AL 41 BIS. RICORDERÒ PERÒ SEMPRE ANCHE LA GRANDE SOLIDARIETÀ CHE MI CIRCONDÒ” “GIUSEPPE SOTTILE SCRISSE SU L’ESPRESSO UN ARTICOLO SULLE NOZZE PARISI-CARUANA A SICULIANA, DIVENTATE IL TORMENTONE DEL MIO PROCESSO. E POI LA FAMOSA STORIA DEL PRANZO DEGLI UFFICIALI ALLA TAVERNA MOSÈ, PRESENTE DON VITO CASCIOFERRO. FATTI DEL 1977. CI HANNO IMBASTITO TANTE STORIE, SU QUESTI DUE EPISODI…” potere enorme al pubblico ministero, anche nei confronti della stampa, che dovrà legarsi a lui, se vorrà avere e dare le notizie?’. Però lo fecero, la comunicazione giudiziaria nel tempo è diventata avviso di garanzia, ha chiuso carriere, ne ha aperte altre…”. Moro era un garantista, fu lui a tenere, il 9 marzo 1977, la famosa arringa alla Camera, in difesa del ministro democristiano Luigi Gui, quello dello scandalo Lockheed: “La Dc non si farà processare nelle piazze…”. Poi però fu rapito e pro- cessato lui, dalle Brigate Rosse. Che lo condannarono a morte ed eseguirono la sentenza. A Calogero Mannino il processo, invece, lo ha fatto lo Stato. “Sempre lo stesso pubblico ministero, dall’inizio alla fine. È un po’ dura, da accettare. Le indagini preliminari, il processo di primo grado, l’appello, poi il processo di rinvio…”. Persecuzione? “I fatti dicono che è sempre stato lo stesso magistrato. Non so se ci sia stata o meno persecuzione”. Colpa anche dei trasferimenti d’ufficio: Vittorio Teresi è andato dalla Procura alla Procura generale, e non certo per il caso Mannino. È difficile però che l’imputato possa capire e accettare la logica giudiziaria della progressione in carriera, quando ne va della sua vita. Si potrebbe fare una battuta: anche lui ha tenuto gli stessi avvocati – Carlo Taormina a parte – dall’inizio alla fine. E la scelta di Salvo Riela e Grazia Volo ha pagato, dal punto di vista difensivo. A Marsala ha puntato invece sempre sulla Volo e Nino Caleca e sull’“infaticabile Marcello Montalbano, quanto ha camminato, povero Marcello…”. Se volete farlo arrabbiare, chiedetegli se era doveroso indagare su di lui, come ha sempre sostenuto l’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli. Perché Mannino è rimasto ventitré mesi fra galera e domiciliari e tenerlo ancor oggi – 15 anni dopo – in attesa di una sentenza definitiva non è proprio il massimo. Ma indagare si doveva, hanno sempre ripetuto in Procura, specie quando un pentito come Gioacchino Pennino riuscì ad accreditarsi come il “Buscetta della politica” e parlò di patti scellerati tra Mannino e capimafia come l’agrigentino Toni Vella e di decisioni prese per favorire lo “sbarco” a Palermo del politico nato all’Asmara ma con baricentro regionale tra Sciacca e Agrigento. “Lo sbarco favorito da Vella e Pennino? Io alle politiche del 1979 avevo preso 106 mila voti, a Palermo. Avevo bisogno di loro?”. Eppure l’incontro a tre, Pennino, Mannino, Vella, ci sarebbe stato, secondo gli stessi giudici che pure avevano assolto l’imputaIL MAGAZINE CHE GUARDA DENTRO LA CRONACA - S 21 “I SALVO ERANO POTENTI, SAPETE QUANTI FIGLI DI MAGISTRATI C’ERANO NELLE LORO AZIENDE? GESTIVANO UN SACCO DI VOTI. MAI SOSPETTI DI MAFIOSITÀ SU LIMA. IO HO TRATTATO CON LUI IN POLITICA E DA POLITICO. L’UNICA COSA CHE POSSO DIRE È QUANTO MI CONSIGLIÒ FALCONE, E CIOÈ CHE I MIEI RAPPORTI CON SALVO DOVEVANO ESSERE ALLA LUCE DEL SOLE” Salvo Lima to, ma non è penalmente rilevante. “Assolutamente no, non ci fu alcun incontro a tre. Pennino venne una volta a casa mia, si sedette su questo stesso divano dove è seduto lei – sarà un caso? – e mi fece tutto un discorso… Erano i tempi del congresso regionale del partito ad Agrigento, era il 1983, era venuto con un mio amico, Franco Selvaggio, ex segretario della facoltà di Giurisprudenza. Pennino era Ciancimino, parlava a nome dell’ex sindaco che voleva rientrare con tutta la corrente nei giochi da cui noi avevamo deciso di 22 S - IL MAGAZINE CHE GUARDA DENTRO LA CRONACA estrometterli. Ma noi sapevamo che attorno alla persona di Vito Ciancimino c’erano movimenti giudiziari… Pennino fece un discorso lungo, fumoso, io dovevo partire alle tre e mezza, gli avevo dato un quarto d’ora e alle cinque e mezza eravamo ancora lì…”. Il discorso fumoso voleva portare a un listone unico di tutto il partito al Congresso. Mannino rivendica il merito di avere affossato quella proposta, presentando la lista della sinistra democristiana. I cianciminiani rimasero fuori da tutto, se la presero molto. “Eppure si presentavano con nomi puliti. Nella loro lista c’era il professore Umberto Albanese, docente di Diritto del Lavoro, c’era Pennino, c’era Selvaggio, cui avevo consigliato di stare fuori e che poi seguì il mio consiglio…”. Oggi Pennino non è più il Buscetta della politica, lo stesso pg Teresi lo ha scaricato, accusandolo, nella sostanza, di avere tradito gli impegni con lo Stato, per interessi di bottega, interessi politici rinnovati con partiti e partitini fondati o rifondati dallo stesso collaborante… “Su di lui, su Pennino, non voglio dire altro. Io so chi era, so come l’ho trattato”. Eppure quelle accuse costarono il carcere, “un’esperienza umana indimenticabile, da non augurare a nessuno. Vissuta in isolamento, in sostanza al 41 bis. Ricorderò però sempre anche la grande solidarietà che mi circondò”. Guai giudiziari che non cominciarono con l’avviso di garanzia del 1994, “ma molto prima, credo nello stesso 1983, quando un giovane e bravo giornalista, di cui oggi sono amico, Giuseppe Sottile, mi scrisse un bell’articolo su L’Espresso”. Titolo: “Quel ragazzo sveglio di Mannino”. Svolgimento: “Fra l’altro le accuse sulle nozze Parisi-Caruana a Siculiana, diventate il tormentone del mio processo. E poi la famosa storia del pranzo degli ufficiali alla Taverna Mosè, presente don Vito Cascioferro. Fatti del 1977. Ci hanno imbastito tante storie, su questi Calogero Mannino due episodi… Quando, nel 1991, il signor Rosario Spatola parlò di me, i magistrati e i giornalisti andarono a ripescarli subito…”. Il contenuto del pezzo sul “ragazzo sveglio” sarebbe stato ispirato dall’oggi scomparso Salvatore Sciangula, ha detto Sottile in aula, al processo, “ma io non ci credo, non ho mai creduto che Totò potesse farmi una cosa del genere”. E il discorso cade sui Salvo, i potentissimi cugini esattori poi finiti male (uno, Nino, morto di tumore nell’attesa del giudizio per mafia, l’altro, Ignazio, di lupara dopo la condanna), di cui Mannino è stato considerato – dai pm – una sorta di alleato-ombra, di amico, praticamente di favoreggiatore. Il discorso si fa complicato, si parla di aggio, di tolleranza, ma in realtà si parla di mafia e potere in Sicilia e non solo. “Io i Salvo li ho sempre combattuti, l’aggio lo tenni all’8,50% nazionale contro il 10 che volevano loro e che il Parlamento regionale era pron- Giovanni Falcone. In alto a destra Francesco Cossiga to a dargli. Per questo motivo mi detestavano. Nel 1973 ero giovane assessore alle Finanze e mi incontrai con Bruno Visentini, ministro dell’epoca, che mi disse che stavo facendo bene, nel mantenere la legge nazionale. Però prima mi disse: ma come, voi avete potestà legislativa in materia, se non esclusiva perlomeno concorrente… e io risposi che andava bene così, che l’aggio sarebbe rimasto ai livelli nazionali”. Discorso diverso era però contestato dalla Procura, che sosteneva che il favore sarebbe consistito nell’estensione della competenza delle società dei Salvo alle esattorie locali, periferiche: “Ma nessuno voleva i piccoli centri, gli bastavano le grandi città. Io però dissi che se volevano le più importanti, dovevano gestire pure quelle minori. Non fu affatto un regalo, per loro non era un piacere. Ma poi, i Salvo…! I Salvo erano potenti, sapete quanti figli di magistrati c’erano nelle loro aziende? Avevano un sacco di esattori, gestivano un sacco di voti. Poi avevano il potere di sospensione delle cartelle esattoriali e il potere di tolleranza nella riscossione. In una terra come la nostra erano poteri enormi”. I Salvo portano dritti a un altro Salvo, Salvo Lima. Alla lotta alla mafia. A Giovanni Falcone. “Mai sospetti di mafiosità su Lima, se è questo che volete sapere. Io ho trattato con lui in politica e da politico. Sarebbe facile oggi prenderne le distanze. L’unica cosa che posso dire è quanto mi consigliò Falcone, e cioè che i miei rapporti con Salvo dovevano essere alla luce del sole: e io seguii sempre questo consiglio”. Linguaggio cifrato, quello del giudice assassinato a Capaci. Per la serie non si sa mai. E difatti, due mesi prima di Falcone, cadde anche lo stesso Lima, il 12 marzo del 1992. Pure Mannino doveva morire, in quel periodo, hanno ricostruito gli inquirenti grazie ai pentiti: “Ma se la logica era quella dell’omicidio dell’ex amico che aveva tradito, è una logica basata “UN GIORNO MI INCONTRAI CON COSSIGA E GLI DISSI CHE FALCONE NON POTEVA CONTINUARE A STARE A PALERMO. FALCONE ERA STATO A CASA QUALCHE SERA PRIMA, AVEVAMO PARLATO E LUI, MIO FIGLIO, AVEVA SENTITO. APPENA FURONO ACCANTO, SALVATORE DISSE AL PRESIDENTE: NON DOVETE ABBANDONARE IL GIUDICE FALCONE. COSÌ STUDIAMMO LA SOLUZIONE” su un falso storico clamoroso. Io ero amico di quelli che stavano dall’altra parte, degli uomini dell’antimafia”. Lima in politica era leale, dice Mannino, e parlava chiaro, certe volte chiarissimo. “Nel 1985, senza mezzi termini, c’era da spartirsi gli enti di sottogoverno e lui disse in una riunione affollatissima che io volevo prendermi la parte migliore. Ci scontrammo, era pure comprensibile. Alla fine spiegò che potevo prendermi gli enti di cultura, che non gliene fregava niente, a lui interessavano le cose più terra-terra. Finì in una risata collettiva. Quella era la politica, senza ipocrisie”. I rapporti alla luce del sole. Come alla luce del sole erano con Rocco Chinnici, il consigliere istruttore fatto saltare in aria, col primo attentato “alla libanese, alla Carrero Blanco”, anche se il ministro dell’Interno IL MAGAZINE CHE GUARDA DENTRO LA CRONACA - S 23 Totò Cuffaro franchista saltò più come Falcone che come Chinnici. “Terribile. Eravamo a Monaco di Baviera, quando seppi quel che era successo. Chinnici era sempre stato molto disponibile, con me, aveva partecipato ad alcune conferenze da me organizzate e so che, nei limiti delle sue possibilità e delle sue conoscenze, faceva votare per me. Abitavamo vicini; spesso la mattina passava a prendermi e andavamo a prendere il caffè insieme”. E Falcone? La ritrosia è tanta. “È tutto nel libro, non ne voglio parlare. La moglie, Francesca Morvillo, era amica di mia moglie… Lui veniva ogni tanto qui, in questo studio, a parlare. E una volta c’era pure Salvatore, mio figlio”. Non erano bei tempi: era la stagione dei corvi, delle carte nei cassetti, della sconfitta al Csm nella corsa per succedere ad Antonino Caponetto come consigliere istruttore. Falcone era nell’angolo, si sfogava, parlava del suo nuovo ruolo di procuratore aggiunto, in un ufficio diretto da Pietro Giammanco, amico del limiano Mario D’Acquisto, con cui il magistrato antimafia non riusciva a legare. “Qualche tempo dopo mi incontrai con Cossiga, all’epoca presidente della Repubblica, e gli dissi che Falcone non poteva continuare a stare a Palermo. Ho letto che Claudio Martelli rivendica il merito del trasferimento a Roma. Le cose però andarono diversamente. Era ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, che però era stato nominato giudice costituzionale. Con lui discussi della situazione di Falcone e anticipammo il pensionamento del direttore degli 24 S - IL MAGAZINE CHE GUARDA DENTRO LA CRONACA “QUANDO SEPPI CHE ROMANO E CUFFARO AVEVANO CHIESTO VOTI A SIINO CHIAMAI FRANCO BRUNO E GLI DISSI: ‘MA COME, FRANCO, TI AVEVO AFFIDATO SAVERIO E TOTÒ’. TOTÒ SE NE VENNE MOGIO MOGIO, CHIEDENDO SCUSA, E DISSE DI NON SAPERE CHI ERA, QUEL TIPO LÌ. GLI RISPOSI CHE NON DOVEVA MAI PIÙ FARE UNA COSA DEL GENERE”. Affari penali. Falcone voleva andare a Vienna, all’organismo Onu contro la droga, ma serviva in Italia, dicemmo con Cossiga e Vassalli. Martelli, in sostanza, trovò tutto pronto, la nomina bell’e fatta”. E Salvatore, che c’entra? “Di fatto fu mio figlio a determinare la nomina del giudice agli Affari penali. Falcone era stato a casa qualche sera prima, avevamo parlato e lui, mio figlio, aveva sentito. Voleva fare di più, a Palermo si sentiva compresso. Qualche giorno dopo eravamo in Abruzzo con mio figlio e Cossiga: dovevamo andare in elicottero nel Parco nazionale. Io ero ministro dell’Agricoltura e appena furono accanto, Salvatore disse al presidente: non dovete abbandonare il giudice Falcone. Cossiga rimase colpito, mi chiese chiarimenti e io gli spiegai la situazione. E Salvatore insisteva: lo Stato non può abbandonare il giudice Falcone. Così studiammo e trovammo la soluzione che ci parve la più opportuna per lui. Anche se non servì a salvargli la vita”. E oggi la politica cos’è? Sono anche i ragazzi, gli ex ragazzi che hanno seguito Mannino da giovani. Alcuni, Saverio Romano e Totò Cuffaro, sono rimasti vicini all’ex maestro. Altri, come Salvatore Cardinale, hanno preso altre strade e anche le distanze. Sui rapporti tra capocorrente e allievi, però, pesa quell’improvvida iniziativa di Cuffaro e Romano che, durante la campagna elettorale delle regionali 1991, andarono a chiedere voti ad Angelo Siino. “Quando fui informato di questa cosa, io avevo saputo da poco che Siino era destinato ad essere arrestato, cosa che avvenne di lì a poco, nel luglio 1991. Chiamai Franco Bruno, mio amico e collaboratore. Non gli dissi niente dell’imminente arresto di Siino, però mi arrabbiai sul serio e dissi a lui: ‘Ma come, Franco, ti avevo affidato Saverio e Totò, perché non facessero cazzate…’. Totò è un personaggio rotondo, scivola e rimbalza, ma è così di natura, espansivo, aperto con tutti e certe volte non riflette su quel che fa. Chiamato da Bruno, se ne venne mogio mogio, a capo chino, chiedendo scusa, e disse di non sapere chi era, quel tipo lì. Gli risposi che non doveva preoccuparsi, che sarebbe stato comunque il primo degli eletti, ma non doveva mai più fare una cosa del genere”. L’ultimo ricordo è per la guerra fredda. “Le elezioni del 1983 non erano messe nel conto. Ci furono perché Fanfani cadde sui Pershing e sui Cruise, che non voleva installare. Avevamo girato l’Europa, per consultarci, e il cancelliere tedesco Helmut Schmidt ci aveva rimproverati: voi italiani non capite, hanno gli SS 20 puntati contro di noi, Milano e Roma saranno i primi obiettivi”. I missili sovietici non arrivarono mai, le bombe di mafia e i processi sì. Ma alla fine Calogero Mannino è ancora lì, a fare politica. E con un libro di memorie pronto. Saverio Romano IL MAGAZINE CHE GUARDA DENTRO LA CRONACA - S 25