Parte Prima I (Moon of Vermont) Perché proprio adesso... È

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Parte Prima I (Moon of Vermont) Perché proprio adesso... È
Parte Prima
I
(Moon of Vermont)
Perché proprio adesso... È cominciato al funerale mi ricordo appena calata la bara e le palate di terra sorde Dio che orrore sul povero Bob i ragazzi che mi stringevano le mani. La
voce di padre Presley a parte il fatto che il nome mi ricorda
sempre... La voce no naturalmente la sua vocina un po’ da
finocchio che diceva le solite cose fratelli sorelle la volontà di
Dio l’incenso mai sopportato e proprio in quel momento
riuscivo neanche a piangere ho sentito arrivare lui vicino la sua
presenza il suo odore. Come fosse lí. Allora è vivo ho pensato.
Mai sbagliata in queste cose. Non che fosse la prima volta
figurarsi venticinque anni sai le volte che specialmente di notte
con l’insonnia. Ma erano solo ricordi prima. Un male cane sí
ma solo ricordi. Questa volta no proprio sentito qualcosa come
una corrente un’altra vita che rientrava nella mia il passato
come se il tempo chiuso ad anello ricominciare il Karma. Sta’
a vedere che mi torna la fissa del Buddismo ho pensato. No
forse no forse è che quando non c’è più niente davanti ti volti
indietro semplicemente. Ma non è voltarsi è proprio come se
da dietro un’onda di cose sepolte morte ritorna ti prende alle
spalle ti porta via. Tutto vero senti tutto come prima in quei
momenti quando arrivano e la cosa assurda è che la ritrovi
come allora per un attimo la felicità... Poi lí come una scema a
chiederti perché felicità per cosa proprio nel momento che
invece. Più smesso da quel giorno questi ritorni a tradimento
lui sempre fra i piedi anche adesso svegliata da un sogno mi sa
che era lui anche nel sogno non ricordo bene però il senso di
felicità era quello e la voglia di piangere mescolata insieme
ecco cosa m’ha svegliata. Avrà un senso tutto questo un signi-
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ficato tutto si collega a Tutto. Mica torto il Buddismo almeno
in questo anche se poi non è che. Nessuna risposta neanche lí
in fondo le cose ti si piantano davanti e non c’è modo di girarci attorno hai voglia cercare di capire alla fine rimane la realtà
quello che sei: una vecchia scema ecco cosa una vecchia
scema sola che non ha sonno e guarda la Luna... Il letto vuoto
Bob andato fosse ancora qui allungare un piede almeno sentirlo ma invece solo il vuoto freddo si sente accanto come qualcosa che dovrebbe esserci che c’è solo perché non c’è più.
Dicono che quando ti tagliano un braccio una gamba la stessa
cosa continui a sentirli come se infatti dicono “la tua Metà”
non a caso. Anche i ragazzi andati via nemmeno loro di là a
dormire ormai stanze vuote per mesi ma è giusto loro tutta la
vita davanti che ci starebbero a fare qui il Vermont bello per le
vacanze ma viverci una palla. Vuoi mettere Boston una grande
città costa un braccio mantenerli al MIT la retta del college.
Hai voglia produrne di sciroppo d’acero metterlo in fiaschette
di terracotta stile old country ecologico-naturale anche il sito
internet adesso hai visto mai. Chissà se il prossimo anno ce la
farò ancora... Con l’aiuto di Dio speriamo. Fortuna che i ragazzi si danno da fare lavoretti camerieri nei pub. Bravi ragazzi
proprio come Bob ma voglia di andarsene altra vita altri orizzonti. Certo dopo il Nove Undici anche loro mica tanta voglia
di ripartire rimandato fino all’ultimo. La casa paterna la sicurezza e là fuori quell’orrore riscoprire i “valori” chiudersi dentro difendere. Poi però dovuto andare lo stesso alla fine primo
e secondo anno di college il semestre. La vita continua... A
pensarci forse è proprio dal Nove Undici che è cominciato
davvero. Cioè non ancora i ritorni di lui ma quella sensazione
che tutto intorno si stava rompendo. In piccolo e in grande.
Erano i giorni che Bob aveva saputo detto ancora niente a me
e ai ragazzi ma io figuriamoci se io capito tutto come al solito.
Del resto bastava guardarlo Bob in giro per la casa con quella
faccia. Un segno anche quello una tragedia grande sulla tua più
piccola ma proprio per questo ancora più grande per te come a
dire niente più vie di fuga neanche un mondo migliore da poter
sognare guardare avanti. Sí è stato da allora che ho comincia-
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to a chiedermi come era stato possibile. Prima una logica c’era
mi sembrava a ripercorrere ricordare la vita giorno per giorno
sembra tutto conseguente naturale una cosa tira l’altra scorre
una sua logica c’è. Solo quando capita qualcosa di enorme
misuri la distanza rimani senza fiato... Da là a qui come è potuto succedere ti chiedi quale forza chi è stato e noi tutti dentro
senza accorgerci. Allora naturalmente Dio ecco poi perché si
finisce per crederci tornare a credere in Dio Nostro Padre in
questo Lui è più attrezzato di Budda: il Tempo voglio dire. A
Budda frega niente del Tempo risolto tutto con il Karma tanto
si va si torna che uno sia qui o là cosa cambia. Cambia eccome invece. È che la Cosa non è solo la somma delle cose. Non
è che gli anni sommi i mesi i mesi i giorni i giorni le ore e cosí
via. C’è qualcosa che non lo stacchi via coi foglietti del calendario. Cioè col calendario lo misuri il Tempo ma come scorre
davvero per te diverso dagli altri il tuo tempo più veloce più
lento a seconda di come non c’entra niente con i calendari.
Solo le cose enormi segnano un tempo uguale per tutti. Ecco
poi perché la Storia... È vero sí la faccia di Bush in TV più
ancora delle Torri quei discorsi che volevano essere mentre gli
angoli degli occhi e della bocca andavano sempre più giù.
Allora davvero il Sogno è finito cioè finito anche il sogno del
Sogno. Svegliàti due volte e la realtà solo un caos. Odio paura
tutte le tragedie tutte in una volta e la tua piccola tragedia sperduta lontana nel piccolo Vermont ancora più piccola più disperata. È stato lí che le cose hanno cominciato a tornare. Non lo
sapevo ancora ma è stato lí. Cominciato a pensare che avevamo ragione cazzo quanta ragione avevamo allora combattere
l’establishment il Potere la Guerra. Capito tutto allora eppure
poi passati gli anni inavvertitamente ti staccano ti portano lontano. Una come me che a Washington e prima ancora a
Woodstock... Dio che bello Woodstock. Ecco una cosa cosí
forse valeva la pena anche solo per quello. Durata tre giorni ma
quei tre giorni chi c’era mai più stato lo stesso e anche chi non
c’era in fondo. Sí credevamo che fosse un inizio l’inizio di
tutto un altro invece era una fine. Accorti dopo troppo tardi
qualcuno mai. Studentessa di college. Andata più che altro per
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curiosità nessuno sapeva che sarebbe successo. Papà poco convinto se la sentiva forse ma alla fine lasciato fare. Sempre
avuto un debole per la sua bambina. Povero papà. Poi visto lui
là su quel palco con quella band come si chiamavano... Ah sí
“Freeway”. Io sotto a mangiarmelo con gli occhi. Se n’è accorto alla fine in mezzo alla marea di gente come una scarica fra
noi due mi ha guardato proprio me in prima fila e ha sbagliato
una nota. Venuto giù a cercarmi dopo. Le sue prime parole
ricordo come fosse ieri Con due occhi come i tuoi, dovrebbero
impedirti di venire cosí vicino al palco. Quel sorriso strappaschiaffi. Sentita sciogliere dentro come una pera cotta. Anche
per via di quel suo accento strano... Piantare casa famiglia
Chiesa e via con lui. Dio che cosa eravamo... Eccola lí adesso
una cosí lacrime agli occhi a guardare Bush sperando che lui
che Noi che l’America e intanto un’altra guerra. Uno come
Bush che ai nostri tempi sai le pernacchie i fischi. Nel momento che le cose ti danno ragione scopri che sei già troppo vecchia hai paura ti va bene il mondo com’è. È che il mondo l’assuefazione come una droga. Dio come si cambia come ci si
riduce un’enorme presa in giro in fondo la vita. Troppo giovani troppo felici per troppo tempo forse. Impossibile invecchiare per noi saldare i conti avere finalmente diritto come i Nostri
a un po’ di nostalgia. Ci vuole la pace dentro per la nostalgia
avere rivisto tutto senza paura di non capire solo accettare.
Altrimenti il passato non si stacca più lo porti con te non riesci
a distinguerlo da te e se torna sembra neanche il passato ma
una cosa che non se ne è mai andata rimasta lí riemerge come
fosse ieri anzi no oggi tutte le spine ancora lí a piantarsi nella
carne... Sí tutto è cominciato prima del funerale in realtà molto
prima. Però lui ha aspettato il funerale per farsi vivo lo stronzo proprio da lui approfittare insinuarsi quando Bob ha lasciato il posto. Sempre chiesta se avrebbe capito Bob a raccontargli tutto o se invece. Stata lí lí qualche volta. Oh avessi seguito l’istinto parlare al momento giusto dire tutto. Invece la scusa
sempre pronta l’alibi: non fargli del male a Bob un’anima semplice. Avrebbe sofferto si capisce ma ora lui non sarebbe di
nuovo qui a tormentarmi. La Chiesa ha ragione quando dice
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confessarsi. Confessarsi serve. Del resto qualcosa doveva aver
capito Bob mica stupido in fondo solo lento metodico montanaro del Vermont quel sorriso strano quando insisteva
Facciamo un viaggio in Italia trovare i tuoi parenti. Italia...
Aveva capito che là c’era qualcosa non solo parenti mai conosciuti occhi-neri baffi-neri Sicilia o giù di lí. Qualcosa che
c’entrava con me la depressione la Clinica quello che sapeva
di me. Poco sapeva povero Bob ma qualcosa sapeva mica
potevo dirgli Eccomi qui! e basta. Un buco di cinque anni nella
vita di una moglie qualcosa bisognava pur dirgli. Povero Bob...
Mai saputo che in fondo era solo una parentesi in una vita non
sua. Con dentro due figli. Vent’anni insieme. Silenzi segreti
poi la gente muore e non fai più in tempo a raccontare e tutto
rimane lí in sospeso non si chiarisce mai niente tra quelli che
vivono. Solo fra i morti forse. Anche lui morto in un certo
senso fatto anche il suo funerale tutto in regola. Del resto è il
mio karma si vede. Forse anche per questo proprio al funerale
di Bob si è rifatto vivo. Niente sepoltura però lui solo cenere...
Bella fatica trovarla la cenere fra l’altro. Sembra facile ma
all’ultimo momento un’ora di tempo non di più se non mi veniva in mente il Macello le bestie malate a Denver qualcosa
dovevano pur farne cenere di vacca o chissà cos’altro maiale
magari meglio ancora visto il tipo. Identica del resto da spargere al vento perfetta fra i mormorii i gong i campanelli di quegli altri scemi vestiti di giallo rasati: OHM. Mica si poteva con
l’urna vuota che poi già quel giornalista aveva dei sospetti. La
cenere sí... Ultima cosa pensata dopo tutte le altre più importanti la Polizia la Stampa il coroner mormone vecchio maiale
che non voleva firmare l’autopsia Dio che schifo in mezzo ai
cadaveri la morgue e lui il suo sorrisino bavoso Certo per una
bella figliola come te. Neanche venuto del tutto alla fine niente da spremere da quel. Dio che schifo... Ma io fatta cosí allora fredda determinata niente che mi fermasse se avevo deciso.
I prezzi da pagare dopo quando ti presentano il conto. Poi te
l’hanno presentato il conto vecchia scema e l’hai pagato il
prezzo... Alzarsi. Tanto il sonno hai voglia che torni e i sonniferi con quelli chiuso basta. Guarda: le lame di luna attraverso
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le imposte come “Georgia on my mind”. Oh che belle canzoni
ai nostri tempi. Dev’essere luna piena vediamo se. Sí senti che
freddo. Quanta neve quest’anno tutto bianco rimarrà fino a
Maggio chiazze sotto gli alberi con l’erba già verde intorno.
Un bel posto però il Vermont. “Luna del...” altra canzone con
la Luna. Tornano in mente stanotte tutte le canzoni ma questa
non è mia di mio padre. La suonava col clarinetto erano i suoi
tempi quelli. Ogni tempo chiuso dentro una canzone per la
nostalgia di qualcuno... Nessuno le lascia in eredità a nessuno
le nostalgie o forse le canzoni invece nostalgie di qualcun altro
che diventano anche tue poco alla volta. Sí però mai andati
d’accordo su questo con lui anche quando tutto il resto eravamo una cosa sola bastava che mi sfiorasse partivo per la tangente pomeriggi torridi nel camper a cavalcarci come forsennati. Ma sulla musica ognuno le sue idee certo io più romantica è naturale lui invece forse anche il suo mestiere di merda. Si
fingeva di litigare mi chiamava Romantic Piggie prima di fare
metteva su i dischi che piacevano a lui Rock duro poi cominciava a carezzarmi poi scendeva ci dava dentro poi ma dopo
metteva su quello che piaceva a me e si stava lí nudi-nati sul
letto o giù sul pavimento dipendeva da come... Stesi a riprendere fiato e ci si perdeva cosí come sciogliersi nel tempo che
passava sentirselo scorrere dentro. Certo anche le canne aiutavano. Finché sono state canne cazzate Dio quante ne abbiamo
fatte sí ma dire il momento preciso che tutto ha cominciato a
finire e perché doveva finire cosí non si riesce. Forse la politica. Finché c’è stata quella la speranza di cambiare qualcosa
anche le cazzate un senso c’era. Ma dopo neanche più quello...
Perché hanno sempre ragione quelli come lui. Mi prendeva in
giro lo stronzo: Vietnam Pace tutte illusioni diceva l’uomo non
cambia. Ma non di destra: fregava niente in effetti non ci credeva. Anche peggio di quelli cattivi quelli magari cambiano
idea e si buttano dall’altra parte ma quelli come lui non li convinci neanche litigare ci si può. Solo sorrisini ironici. Forse
piaciuto subito anche per questo stufa di tutti gli entusiasti
parolai di allora. Lui taceva ridacchiava non si faceva coinvolgere. Le rare volte che apriva bocca però capivi che non vive-
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va mica fuori dal mondo. Del resto a parte suonare sempre con
un libro in mano. Anche quando andava a si era attrezzato la
sedia senza fondo per via dei serpenti a sonagli là fuori nel
Deserto. Ti mettevi giù per e capitava che ti mordessero il culo
o peggio se eri maschio. Già successo dicevano i vecchi indiani Pueblos. Lui aveva risolto con la sedia. Mi faceva morire dal
ridere vederlo uscire dal camper a culo nudo la sedia da una
parte il libro e la carta igienica dall’altra in testa quel caschetto da motociclista anni Trenta con gli occhialoni chissà perché... Perché eravamo giovani e pazzi ecco perché. Tornare a
letto adesso troppo freddo qui in vestaglia magari col freddo
mi riprende il sonno un po’ di torpore in effetti... Pensare il
caldo che faceva là il Deserto secco però niente sudore si stava
bene bastava bere. La birra gelata la bottiglia appannata era
stupendo il caldo fuori il freddo dentro. La birra dicono fa
ingrassare sarà ma io niente e lui che mi passava la bottiglia
sulla pelle a volte faceva scorrere la birra fra i seni fino all’ombelico poi leccava il porco ci sapeva fare lui Bob no poveretto
negato completamente. Però si eccitò anche lui quella volta
che al cinema “Nove settimane e 1/2” allungate le mani io
lasciato fare dentro di me ridevo credevano di averlo inventato loro il giochino. Lascia perdere vecchia porca che poi lo sai
come va a finire cominci a pensare a quello finisci per e dopo
quel senso di squallore e il peccato confessare a padre Presley
mi pento e mi dolgo e lui che sospira e si agita nel bugigattolo... Guarda c’è una luce laggiù dai Rawlings. Chissà se anche
da prima o solo adesso. Che ore... Le tre. Sarà mica Louise con
le doglie. No non dovrebbe ancora tre mesi almeno. Speriamo
che non sia. Ma no una ragazzona robusta terzo figlio perché
dovrebbe. Alzata a mangiucchiare qualcosa le voglie si sa. Io
mai avute a proposito già saltato un mese sempre stata regolare io se non mi vengono ancora bisognerà che vada. Fare degli
esami incinta no di sicuro figuriamoci mesi e mesi che non.
Dice che la libido con la menopausa però almeno fine di tutti
quegli impicci assorbenti tampax... Sí facile che anche lí sta
cominciando un’altra fine.
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II
(Gli esami non finiscono mai)
– OK, grazie. Per ora può andare. Le faremo sapere noi. –
Il suono della voce si espande, opaco, attraverso l’interfono. Al
di là dei doppi vetri, nella sala di registrazione, il vecchio si
sfila la chitarra, stacca il cavo e depone lo strumento nella
custodia sulla sedia alle sue spalle. Si direbbe più vicino ai sessanta che ai cinquanta (fa tutto con movimenti precisi e metodici). Arrotola il cavo, chiude anche quello nella custodia, e
solo dopo alza la testa verso la cabina di regía. Da dentro, si
vedono le sue labbra articolare un saluto senza suono, come un
pesce in un acquario. Un cenno della mano, e via... Nella cabina rimane quel silenzio ovattato, senza spessore, che hanno gli
ambienti totalmente insonorizzati. Una nuvola di fumo, probabilmente pakistano, volteggia a mezz’aria, incurante dei cartelli di divieto rossi e stupidamente bilingui. Makro sospira:
– Niente da dire, è il migliore.
– E allora? – grugnisce Giano. – ...Non è che cominciate a
pensare di prenderlo, vero?! Vabbe’, è bravo. Tutto quello che
volete, ma sul palco con uno cosí io non ci salgo.
Si alza, e come fa sempre quando ha paura di essere contraddetto, se ne esce dalla stanza, per evitare qualunque replica.
Il tintinnio delle sue catene si spegne dietro di lui, senza eco.
– Batteristi... – brontola Makro, e soffia via una boccata di
fumo.
– Batteristi, sí. Però una volta tanto ha ragione, – interviene Oscar, scostando con la mano (lui che non fuma) la nuvola aromatica. – Lasciamo stare che di musica non ne capisce
mezza, a parte i suoi tamburi, ma stavolta ha ragione lui. Il
vecchietto può andare bene per la sala di registrazione, ma
come si fa a immaginarlo su un palco, dal vivo, assieme a noi?
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Makro lo interrompe, con la voce di chi ripete una cosa
per l’ennesima volta, ma fa forza su se stesso per non perdere
la pazienza:
– Si dà il caso, però, che tra quindici giorni comincia il
tour. Quello che deve sostituire Pepe...
– La Gran Testa di Cazzo, – corregge Oscar, fra mormorii
di approvazione.
– D’accordo: quello che deve sostituire la Gran Testa di
Cazzo, – riprende Makro, – si deve imparare in due settimane
qualcosa come trenta pezzi. Di questi, dodici sono del nuovo
CD, non ancora uscito, quindi mai sentiti da orecchie umane,
salvo le vostre, che umane non sono. – Qualcuno ridacchia. –
Ieri la Marinella ha dato a tutti quelli che si sono presentati tre
pezzi da studiare per oggi: un vecchio successo, e questo si
può anche pensare che lo conoscesse già, ma gli altri due
erano roba comparsa di straforo anni fa, roba di seconda serie,
che voi stessi li dovreste ristudiare, se doveste rifarli. E lui, il
vecchietto, come li ha fatti...?
Makro si gira intorno, cercando gli occhi degli altri, che
invece sfuggono, guardando altrove. Zù, il più giovane del
gruppo, si intromette timidamente:
– Sembrava di sentire Pe.., la Gran Testa, voglio dire,
quando era in forma.
– E gli altri, prima di lui, come li hanno suonati? – insiste
Makro. Non c’è risposta articolata. Solo mugugni di disgusto.
Makro si alza in piedi e incomincia a camminare per la cabina di regía, avanti e indietro, incurante delle gambe che urta e
dei piedi che pesta. Fa sempre cosí, quando si carbura per la
concione finale:
– Cari i miei “Damnati ad Metalla”, se faceste dei pezzi
facili, con tre accordi, due svisi 1 e basta, non ci sarebbero pro1 Sviso: Sequenza rapida di note che non corrisponde a una melodia
orecchiabile, eseguita di solito dalla chitarra, che si conclude con una
nota (o bicordo) tenuta. Tipico del Rock e del Blues. Voce gergale musicale moderna (forse anni ’50 o ’60), probabilmente di origine e diffusione padano-lombarda. Per traslato, ma meno propriamente: riff.
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blemi a trovare un sostituto. Il problema nasce perché componete dei pezzi che non li sapete fare neanche voi.
Voci di protesta:
– Alt, al tempo. Noi li sappiamo suonare benissimo!
– “Benissimo” un paio di palle! “Benissimo” dopo due
mesi che li provate. Quello ve li fa benissimo dopo un’ora che
li ha sentiti, rendo l’idea?! Quindi lui è l’unico di quelli che
abbiamo ascoltato che può sostituire la Gran Testa in tempo
per il tour. Quindi, – alza un dito, quasi a segnare una pausa
d’effetto, – ...o si prende il vecchietto, oppure salta il tour.
Chiaro?
Altri mugugni, rumore di sedie smosse, qualche “fan
culo” a mezza voce, poi Oscar interviene di nuovo:
– Dài, Makro, non dire stronzate. Non è possibile che non
si trovi qualcun altro. Il mondo è pieno di chitarristi giovani,
bravi, che potrebbero suonare con noi.
– Naturale che ce n’è, ma quelli a un certo livello bisogna
pagarli bene, e magari pagare anche le penali al loro gruppo,
perché quelli bravi davvero sono tutti già sistemati da un
pezzo. Sentite, diciamoci le cose come stanno: questa storia
della Gran Testa di Cazzo che vi pianta due settimane prima
del tour, allo Sponsor non è andata giù. C’è già in ballo tutta
la faccenda dei danni, gli avvocati. Penali e scartoffie anche
lí, insomma. Lo Sponsor è stato chiaro: vi trovate un sostituto, da mettere a contratto come un orchestrale qualsiasi, oppure andate a remengo, voi e il vostro tour. Io avevo già fatto una
bella fatica a trovarvelo, lo Sponsor. Nell’ultimo anno le
vostre quotazioni sono andate parecchio giù, carini.
Altre voci di protesta:
– Non è colpa nostra...
– Era la Gran Testa che creava casini...
– Mai in orario alle prove...
– È colpa sua se il CD è uscito cosí in ritardo...
Makro fa un gesto di fastidio, con aria nauseata. – Tutto
questo è irrilevante, – dice, sovrastando le voci. – Per lo
Sponsor l’uscita della Gran Testa è soltanto una perdita economica. Che se ne sia andato uno stronzo insopportabile,
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allo Sponsor non interessa. Gli interessa, invece, e molto,
che se ne sia andato uno che portava soldi, perché suonava
da dio, aveva la cartola 2, e le sbarbe 3, quelle che comprano
i CD e le fanzine 4, andavano in orgasmo appena prendeva un
assolo.
– Appunto! E tu vorresti sostituirlo con quella specie di
fossile? – insiste Oscar. Zambo, il cantante solista, che fino ad
allora non ha aperto bocca, dice la sua:
– Dipende solo da lui, in fondo.
Gli altri tacciono, cercando di capire, e Makro, a nome di
tutti, gli chiede spiegazioni.
– Voglio dire che stare sul palco con noi non è il vero problema, se è disposto a tirarsi 5 nel modo giusto, – risponde
Zambo.
– Bravo! – dice Makro, illuminandosi. – È quello che pensavo anch’io. Basta mettergli una parrucca adatta, coi capelli
lunghi che gli coprono la faccia...
Zambo lo interrompe e gli fa segno di tacere. Sembra inseguire un’idea che ancora gli sfugge, ma sta per essere raggiunta:
– No, qui ci vuole una cosa più d’effetto. Qualcosa tipo...
non so... Una Maschera di Ferro, The Iron Mask. No, troppo
complicato. Sí, ci sono! Gli mettiamo in faccia una cosa di cuoio
nero, sul genere sadomaso. Poi lo vestiamo di conseguenza.
2 Cartola: Se riferito a maschi: faccia interessante, che intriga le
donne, non necessariamente per la bellezza, ma per “quel certo non so
che”. Se riferito a femmine, o senza attribuzione di genere: faccia buffa,
che mette di buon umore. Sagoma. Voce gergale giovanile (anni ’80?),
di origine certamente bolognese e diffusione Emiliano-Romagnola.
Probabile abbreviazione di cartolina.
3 Sbarba: Abbreviazione di sbarbina.
4 Fanzine: Crasi della forma anglosassone Fan’s Magazine: Rivista
destinata ai fan di una band o di un cantante, con informazioni sull’attività delle star predilette (concerti, apparizioni, ecc.). Può contenere
anche gossip erotico-sentimentali.
5 Tirarsi: Abbigliarsi, acconciarsi. Es.: tirarsi da Palco: mettersi il
costume di scena. Voce gergale Emiliano-Romagnola. Notevole il sinonimo pitonarsi (ma con valenza più specifica, riferita al solo vestiario).
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Damnati ad metalla
Si levano risate di scherno, a cui Zambo non dà peso.
Anzi, riprende con più convinzione:
– Potrebbe addirittura farci comodo. Diciamo a Ferretti di
fare degli articoli per le fanzine: “Il Mistero della Maschera”...
“The Mask, la nuova diabolica chitarra dei ‘Damnati ad
Metalla’... “Chi si nasconde dietro la Maschera?”.
Questa volta le risate tacciono.
– Cazzo, non hai tutti i torti, – dice Zù. – La Gran Testa ci
lascia, e arriva la misteriosa Maschera! Sai che non è male,
come idea?!
Ma subito Zambo stempera l’entusiasmo per avanzare un
altro problema: Maschera o non Maschera, alla sua età bisogna vedere se il vecchio ha ancora il fisico per reggere i ritmi
di un tour. Si rivolge a Makro:
– Mettiamo il caso che quello ci sta, poi, a metà del tour,
gli ciocca 6 la pompa e crepa. Come la mettiamo...? – Silenzio.
– Stupendo! Gran figata! – Zù, come al solito, ci mette un
po’ a capire le cose, ma poi se ne entusiasma e non c’è più
modo di trattenerlo:
– Pensate se crepa sul palco: la Morte in Diretta! Il tour
sospeso per forza, giornali e televisioni che ne parlano, il
nuovo CD che va a ruba, l’Assicurazione che paga una barca
di quattrini.
Il pronostico di Zù accende l’entusiasmo anche di Oscar.
Tocca a Makro gettare acqua sul fuoco:
– Piano, piano... Quelli dell’Assicurazione non sono mica
scemi. Bisogna vedere se accettano di coprirlo, un rischio cosí.
Ma ormai nessuno gli dà ascolto. Giano si ripresenta
sulla porta della cabina di regía. Ha un’aria interrogativa
che nasconde disappunto e voglia di questionare. Ha capito, da fuori, che il gruppo lo sta mettendo in minoranza,
come al solito. Gli altri si alzano dalle sedie, si stiracchia6 Cioccare: Esplodere, scoppiare. Sost. Ciocco: esplosione, scoppio.
Cioccato: anche morto improvvisamente. Antica voce dialettale
(Emilia-Romagna), forse derivata dai crepitii della legna che brucia
(ciocchi).
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no, discutono, ruttano. Makro deve alzare la voce per farsi
sentire:
– Le scorregge, fuori, per favore... Capito, Oscar? Qui
deve venire altra gente, dopo, e non si può dare aria.
Fa un cenno a Zambo, e si apparta con lui in un angolo:
– Allora, tu che ne dici? Proviamo col vecchietto?
– Non c’è altra scelta, dobbiamo rischiare. Primo, bisogna
vedere se lui ci sta, e poi bisogna davvero cercare di capire
come sta in salute.
Makro si gratta la testa perplesso e dice, più che altro a
se stesso, che quelli dell’Assicurazione vorranno comunque una visita medica preventiva, per quel che serve.
Zambo, dal canto suo, pone la questione dello Sponsor: gli
andrà bene, la soluzione del vecchietto rimediato all’ultimo momento? Makro risponde che quello è un problema
suo: a mettergliela giù bene, la storia del Mistero della
Maschera può funzionare anche con lo Sponsor, al che
Zambo annuisce:
– Sí, hai ragione. Del resto, è proprio lui che vuole tirare sulle spese. Però c’è un’altra cosa che mi dà da pensare,
– aggiunge. – Appena Pepe se ne è andato, noi abbiamo
fatto circolare la voce fra gli addetti ai lavori. Tutti quelli
che si sono presentati, a parte il vecchio, erano del nostro
giro, turnisti 7, facce note. C’era anche Rodolfo, quello dei
“Moonblasters”... Fra parentesi, sai che casino scoppia, se
i suoi vengono a sapere che ha fatto un’audizione con
noi...? Insomma, per farla breve, io mi domando come l’avrà saputo, il vecchio, che noi cercavamo un sostituto per
Pepe.
Damnati ad metalla
– Vattelapesca. Me lo sono chiesto anch’io. Di sicuro non
è uno che fa turni, sennò lo conosceremmo. Suonare in un
gruppo, lo escluderei, a parte un complesso di Liscio.
– Ma quale Liscio? Non hai sentito come suona?
– Già, è un mistero. Il Mistero della Maschera, appunto.
Comunque, cercherò di appurare anche questo. Adesso però
usciamo, qui non si respira più... Oscar, accidenti a te! Ti
avevo detto di farle fuori, le scorregge.
7 Turnista: In questo caso, musicista che fa turni in sala di registrazione, cioè si presta a eseguire a cottimo parti strumentali (o vocali, nel
caso di un corista), nel corso di registrazioni meccanografiche. Fra gli
addetti ai lavori, il termine ha valenza vagamente negativa, testimoniando di un periodo di bassa fortuna. Notevole la forma collegata fare della
nave, cioè imbarcarsi come musicista tuttofare in crociere turistiche. Un
tempo sinonimo di aver toccato il fondo, in campo musicale. Oggi non
più.
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III
(Delle scorregge nella tradizione del Rock)
Il fatto è che si comincia tutti in vecchi scantinati, officine
in disuso, capannoni di periferia, e si beve birra. Birra, birra,
birra... Lattine e bottiglie che si accumulano a piramide negli
angoli e rotolano per terra quando superano il limite di guardia. Allora, e solo allora, ci si decide a fare il repulisti generale: Già che ci siamo, mettiamo un po’ a posto. Hai voglia,
mettere a posto... L’archeologia della sala prove: vecchi cavi
inservibili; rotoletti di corde da chitarra rotte, conglomerati
indissolubilmente con polvere e filamenti; preservativi usati;
cicche di tutti i generi e dimensioni (ma non quelle delle
canne e degli spini, che vengono fumati fino all’estremo limite della consunzione e dell’ustione labiale); siringhe, stracci,
manuali di funzionamento di strumentazioni elettroniche,
sempre introvabili quando servono; spartiti di pezzi provati
per mesi e poi abbandonati per disperazione; fotografie, ormai
irriconoscibili, di quando: Dobbiamo deciderci a farci una
foto decente. Dobbiamo avere la foto, sui manifesti, adesso
che si comincia a andare in giro... E dentro le foto, a guardare bene, le facce di quelli che c’erano allora, e adesso chissà
dove sono; tutte le Gran Teste di Cazzo, che vennero, videro,
suonarono, e se ne andarono dietro i loro deliri, piantando lí
tutto, ma sempre alla vigilia della Data Importante, del Salto
di Qualità. E poi cassette: E qui cosa ci sarà? Dài, prova a
metterla su... Registrazioni opache, inascoltabili, che appena
le senti ti prende una scossa (Senti che schifo!), ma poi ci si
trova tutti lí, a guardarsi negli occhi, come a dire che, certo,
ne abbiamo fatta di strada, da allora! Provini di concorsi andati male o benino, o magari: Cazzo, quella volta ce l’avevamo
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Loris Ferrari
quasi fatta... E i manifesti, in ciclostile o fotocopia – pochi e
venerabili i manifesti veri, stampati seriamente, a colori – tutti
appesi alle pareti, ingialliti, muffiti dall’umidità, incartapecoriti dal fumo e dalle scorregge.
Già, che piaccia o no, la tradizione di ogni gruppo rock,
più che di concerti o festival, si nutre di scorregge: epiche,
ironiche, liriche, a scandire la propria storia. Scorregge tramandate per via orale, ma a volte – rarissime e preziose –
rimaste incise nel labile granito delle cassette, per l’orgoglio e
la gloria dell’autore: Avremmo dovuto registrare anche la
puzza, stronzo... Perché suonare è suonare: suonano le bocche, nel canto ispirato; suonano le mani, sulle tastiere vertiginose; suonano i piedi, su pedaliere, charleston 8 e casse di batteria abissali... Dunque, perché non i culi? Suonino anch’essi,
allora; aggiungano note anche loro, dall’ultimo orifizio disponibile, cantino e parlino, o solo sospirino – pericolosamente,
ché il sospiro, il confidential del culo, la loffia micidiale, è
strumento di comunicazione estremo, ineludibile, sopraffacente ogni altro, nel suo insinuarsi a tradimento, ignoto o
incerto il suo autore, sicché il messaggio che ne promana è
assoluto, impersonale, forse divino.
Poi ci si mette l’Etologia, a spiegare, a scarnificare, a
ridurre la leggenda in nudi termini scientifici. Perché il
Gruppo che cos’è, alla fin fine...? Un “gruppo”, per l’appunto; cioè un territorio fatto di spazi individuali da marcare, una
gerarchia, un codice di riconoscimento reciproco. E infatti il
Nuovo Venuto deve subire l’odore degli altri; anzi, deve assumere l’odore collettivo, accettando di contribuire con il suo
(ma senza strafare!). Se, per esempio, il Nuovo si presenta
dicendo: Ragazzi, mettiamo subito in chiaro una cosa: io le
scorregge non le sopporto, la faccenda comincia male. Poco
importa come suona e/o canta. Il suo rifiuto di sottomettersi
8 Charleston: Elemento della batteria formato da due piatti contrapposti e sovrapposti, inseriti su apposita asta di sostegno, la cui chiusuraapertura è comandata da un sistema di molle, attraverso un pedale.
Evidente l’origine toponomastica dalla nota città della Virginia (USA).
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Damnati ad metalla
all’Odore e di mescolarvi socialmente il proprio, può essere
solo un residuo di infantili pudicizie, destinato all’oblio nel
giro di poche ore, appena rotto il ghiaccio. Ma se il rifiuto è
pertinace, se il legame alla civiltà del Non-Odore si mantiene
nel tempo, allora vuol dire che il Nuovo non ha capito nulla,
della profonda, liberatoria barbarie del Rock. Allora si comincia a capire che i suoi bei suoni, tecnicamente perfetti, vengono dalla testa, e non dal basso ventre, come dovrebbero. Uno
che davvero non sopporta le scorregge, non dura a lungo, in
un gruppo rock.
A ben guardare, il Rock stesso è una scorreggia, ma per
capirlo, e in quale senso, ci vuole tempo e la saggezza delle
rinunce. Sí, perché poi viene il momento di scegliere: o si
pianta lí, o si continua a suonare sul serio. In ogni caso, le
cantine e i capannoni industriali in disuso bisogna abbandonarli, inseguiti dalle maledizioni dei vicini insonni, dagli
esposti ai vigili urbani, dal rimpianto di una stagione che, per
quelli che lasciano perdere, non tornerà più, ma lascerà
comunque il segno: E pensare che ci ho suonato, da giovane,
con lui! È il pensiero dolce-amaro di chi non ha saputo
opporsi alla maledizione di diventare adulto, e vede, dal
fondo delle sue ciabatte domestiche, il vecchio compagno di
suonate (chissà se si ricorda ancora), assurto alla gloria della
Scatola dei Cretini (la TV), lí che imperversa sulla immarcescibile chitarra. Tuffo al cuore, sospiro, occhiata senza speranza alla moglie e ai figli che si fanno gli affari loro, e che,
a raccontargli, non capirebbero... Una fitta di benevola invidia, disincantata, per chi ha saputo diventare Grande, senza
diventare adulto. Perché il Rock è soprattutto un’infanzia che
si protrae, usando della Musica come di un filtro di eterna
giovinezza, per proiettarsi al di là dei confini segnati dalla
Natura matrigna. Oh, Natura, Natura! Perché non rendi poi
quel che prometti allora? Perché di tanto inganni i figli
tuoi?... Se rinascesse oggi, a Leopardi converrebbe entrare in
un gruppo rock, invece di lamentarsi della grande beffa – la
Vita – quel gioco perverso che, se sei fortunato, vinci una
vecchiaia.
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Loris Ferrari
È a questo punto che si comincia a capire qualcosa, partendo dalle banalità che sono sempre state lí, sotto gli occhi,
senza che gli si desse importanza, quando sarebbe stato il
caso. Prima fra tutte, che la Musica la senti, non la leggi.
Certo, ci sono quei pochissimi che la leggono e – si dice – nel
leggerla riescono anche a sentirla, ma costoro non fanno statistica. Li si può solo invidiare, come ciechi dalla nascita che
invidiano i vedenti, non sapendo nemmeno loro per “cosa”. Ai
comuni mortali, invece, la Musica è concessa solo con l’allegata maledizione di un tempo deciso da altri. Non in tutte le
forme d’arte è cosí. Nel guardare un quadro, nel leggere un
libro, il Tempo è tuo, l’opera d’arte la ricrei in forma diversa
– lentamente, in fretta, a spizzichi, con continuità – secondo i
tuoi ritmi, e questo cambia tutto, permette di scavare anche
dentro ciò che sarebbe volgare e disgustoso, nel proprio svolgersi reale. Per questo, in Letteratura la Scorreggia esiste
dagli albori; proprio perché le parole scritte non vivono in un
intervallo predeterminato e circoscritto, ma sono lí, a disposizione del tempo di ciascuno: la trombetta di culo del diavolo
di Dante e le flatulenze pigmeògene di Pantagruele continuano nei secoli, caricandosi delle suggestioni e dei significati
che ognuno dei lettori è libero di dargli. Se un personaggio
letterario è... un macistaccio le cui scorregge facevano appassire i fiori 9... uno, a un primo sguardo, può esserne divertito,
o urtato, ma poi percepisce la morte del Fiore, del suo profumo, aggredito dal Miasma; si accorge che la cruda descrizione di una flatulenza intestinale serve a introdurre pensieri più
profondi, a guardare nell’inconscio, e tutto questo avviene
fuori dal tempo materiale della lettura. Allora è facile, per la
Scorreggia, diventare metafora, poesia.
Non cosí con la Musica, dove il senso delle cose è epidermico e immediato, schiavo com’è del tempo che scorre mentre si ascolta. Per fare entrare la Scorreggia nella musica, si è
dovuto attendere la tecnologia. I primi a provarci sono stati i
9 Un macistaccio le cui scorregge...: Uno degli Aureliani Buendía,
in “Cent’anni di solitudine” di G.G. Marquez.
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Damnati ad metalla
jazzisti, con l’uso del Sax. Prima del Sax, è pur vero, gli strumenti a fiato “nobilitavano” la pernacchia, trasformandola in
suono cristallino e celestiale. Ma solo il Sax riesce a compiere il miracolo di modulare la pernacchia, lasciandola però
sostanzialmente tale. Poi sono arrivati gli amplificatori, i
distorsori, gli altoparlanti: tutti elementi di un tubo digerente
elettronico che fagocita il suono originario (non più udibile),
lo metabolizza, e lo riemette, lontano dal punto di ingresso,
attraverso le pernacchie tecnologiche dei coni di amplificazione, i cui nomi, del resto, bastano da soli a far capire tutto:
twitter, woofer, sub-woofer... Sono rumori intestinali perfino i
nomi. Soltanto a questo punto la Musica ha potuto esprimere
il Caos, la rabbia, la foia, quello che la Musica “seria”, tra
fauni pomeridiani, uccelli in fiamme e quadri da esposizione,
non riesce a comunicare.
L’eterna infanzia del rockettaro, dunque, è quella di uno
che ha cancellato le forme di comunicazione più evolute o,
meglio ancora, ne è rimasto immune. Uno che è regredito ai
(o non è mai progredito dai) tre fonemi-base, gli immancabili accordi di tonica, sotto-dominante, dominante, su cui il
Blues ha dimostrato (ma per ragioni diversissime) che si può
ugualmente costruire un linguaggio inesauribile. Ah, già, il
Blues... C’era chi sosteneva, con le labbra a culo di gallina,
che il Rock fosse nato da lí: Ma non vi accorgete che, si tratti di Elvis Presley o di B.B. King, è sempre DO-FA-SOL...?
Discussioni senza fine, fra un pezzo e l’altro, quando, ragazzini ignoranti come capre, si tentava tuttavia di “razionalizzare”, ancora inconsapevoli di quanto ciò sia pernicioso. Sarà
stato un caso, ma quelli che gallinculeggiavano del rapporto
causa-effetto tra Blues e Rock, duravano poco, nel Gruppo (di
solito, non sopportavano le scorregge). A smentirli, del resto,
sarebbe bastata l’evidenza sperimentale che i due generi sono
praticamente impermeabili: chi ha il Blues dentro, il Rock lo
guarda storto e non lo pratica. E se anche i rockettari ammiccano spesso al Blues, e lo mimano, lo rimasticano a modo
loro, magari genialmente (un esempio per tutti: i Rolling
Stones), provate a fargli suonare un vero blues, e sentirete
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Loris Ferrari
subito la differenza. Dov’è quel substrato di dolore maturo
che rallenta la mano, che cerca il senso musicale nella singola nota, nella pausa dilatata? Il Blues non è il padre del Rock,
ma ne è, piuttosto, lo zio pecora-nera, quello che insegna ai
nipoti a fumare e andare a donne; un modo diverso di diventare adulti, ma comunque adulti, il che è esattamente all’opposto delle pulsioni profonde dei rockettari. Quello che è vero
è che i bluesmen neri hanno insegnato ai rockettari (ma non
solo a loro) a usare genialmente delle proprie limitazioni tecniche, per inventare nuovi linguaggi. Provate a fare una scala
di note sulla chitarra, cosí come viene viene. Cromatica?
Diatonica...? Macché. Una “scala blues” ne verrà fuori, in
modo assolutamente naturale. Perché le scale blues sono (a
parte le evoluzioni virtuosistiche di chi ne è capace) le
sequenze più semplici con cui ditoni callosi e intorpiditi da
ore di lavoro possono scorrere sulla tastiera di una chitarra,
senza aggrovigliarsi in posizioni troppo complesse, o irriproducibili in tonalità diverse (i bluesmen dovevano cantarci e
farci cantare sopra).
A ulteriore dimostrazione di quanto i due generi siano lontani, appena si tentava di mettere su un blues (bisognava pure
averne qualcuno, in repertorio), scoppiava la rissa: No, cosí
non va. Stiamo facendo un twist, cazzo, non un blues! Questo,
se il pezzo era veloce e ritmato. Nei blues lenti, poi, le diatribe diventavano guerre di religione, il sesso degli angeli. Avevi
un bel da spiegare, al batterista rock, che i dodici ottavi del
Blues debbono avere una scansione agonica; che la botta sul
rullante deve cadere al termine di una sospensione interminabile, come la scarica di un fulmine nel silenzio sospeso che
precede il temporale (e intanto le terzine, sul ride 10, picchiettino dolci e distaccate, come le prime gocce di una pioggia
estiva). Niente da fare; lui (il batterista rock) ne tirava fuori un
10 Ride: Lett. l’atto del guidare, dominandolo, un animale o un
mezzo, cavallo o bicicletta o motocicletta (Ingl.). Nel gergo musicale
internazionale, uno dei piatti della batteria, usato di solito per marcare il
tempo-base.
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Damnati ad metalla
“terzinato”, un ritmo di ninna nanna alla “Love me tender”, o
la brutta copia di un pizzicato di violoncelli mozartiano, tipo
“Unchained Melody”. Il mito del batterista rock, del resto, è
la “pacca”, la scarica di forza vitale che pompa fiotti di adrenalina. Lui vuole essere l’organo sessuale del Gruppo che –
appunto perché tale – meno pensa a quello che fa, meglio è,
intanto che penetra e violenta la Musica, fino a farla urlare di
dolore e piacere (gli svisi laceranti della chitarra elettrica).
Nella testa del batterista rock, la regressione è completa, e la
Musica serve a tornare alla fase distruttiva dell’infanzia, quella in cui il Pupo spacca tutto, e la Mamma urla (capito, adesso, il senso profondo, edipico degli strilli delle fan, ai concerti rock?). Vengono in mente gli “Who”, e la loro abitudine di
distruggere gli strumenti sul palco, alla fine dei concerti.
Anche lí, si è molto gallinculeggiato: la simbologia del
Sacrificio Supremo, la Musica che recupera il senso originario di aggregazione tribale, il che esige, appunto, l’annientamento finale... Tutte balle: bambini pestiferi, ecco la semplice
verità, ma capaci di fare dei propri capricci una forma d’arte.
Cialtrona, inconsulta, ma arte.
Insomma, lo capisci dopo, quando non suoni più da anni e
vedi, dentro la Scatola dei Cretini, lui – quello che ha continuato e ce l’ha fatta – e senti il sangue che pizzica, e le mani
istintivamente cercano un manico di chitarra su cui scorrere,
e tua moglie ti parla di bollette e assemblee condominiali, e tu
sei lí, sospeso tra mandarla a fa’n culo e fare quello che fatalmente farai (spegnere la TV e ascoltarla); lo capisci allora che
il Rock nasce da un bisogno di semplificazione, da un’insofferenza ai codici, da un’esigenza di libertà non politica, né
ideologica (almeno non per te), ma fisica. La Libertà delle
Grandi Pianure dei pellerossa. La libertà di usare i propri
mezzi espressivi rudimentali, ma immediati e non equivoci; la
libertà che oggi è concessa solo ai bambini, per un tempo
sempre più breve, prima di scolarizzarli e omologarli, prima
che perdano la loro magica capacità di non stancarsi mai della
favola ripetuta e ripetuta all’infinito: Antòla, antòla...!
Divertirsi “antòla” a suonare, ecco cosa rimpiangi.
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Loris Ferrari
Il Rock muore quando smette di essere scorreggiato, per
essere invece “eseguito”. Muore di vecchiaia, insomma. I
Giovani sono, per definizione, dei barbari. Ma poi, se gli Dei
non li amano abbastanza, maturano, e si accorgono che per
vivere il Caos occorre avere il fisico giusto, e anche le giuste
illusioni. Occorre essere immortali, ancora non toccati
dall’Ombra. Per questo è praticamente impossibile che un
vecchio continui a fare del rock. Anche i vecchi scorreggiano,
si capisce, ma le loro scorregge non irridono il Futuro, non
chiosano l’Avventura. Non c’è strumento al mondo capace di
trasformarle in Musica.
IV
(Come ti erudisco il Nonno)
Se la ride di gusto, il vecchio, dopo che Makro ha finito di
parlare. Gli va anche di traverso il caffè che sta bevendo,
seduto a un tavolino del bar dove si sono dati appuntamento.
Makro si sente a disagio, e in effetti tutti gli altri avventori –
pensionati, giocatori di biliardo, piccoli artigiani del quartiere
– guardano di sottecchi e con aria preoccupata il suo abbigliamento: vestito di pelle nera, stivali neri dal tacco alto e
punta quadrata, occhiali neri sottilissimi (quasi due sopracciglia aggiuntive). Per non parlare dei capelli lunghi, ondulati,
a cascata sulle spalle, dei bracciali di cuoio, delle borchie, e
degli altri accessori. Perché non ho fatto venire lui da me?, si
chiede insulsamente. Il vecchio smette di tossire e si asciuga
gli occhi con un moccichino:
– Me l’aspettavo, a dire la verità, perché capisco anch’io
che alla mia età, suonare con gente che fa quel genere 11...
Però la faccenda della Maschera è troppo bella. L’hai inventata tu?
– No, è un’idea di Zambo, la voce solista.
– Comunque, io non ho problemi. Visto che sono in ballo,
ballerò. L’unica cosa che vorrei è che mi lasciasse respirare
liberamente.
11 Genere: Sottinteso musicale. Es. Voi, che genere fate?: tipica
domanda dell’impresario o gestore di locale al gruppo di ragazzini che
si propongono per qualche serata. Per alcuni, quasi un simbolo di appartenenza tribale. Taluni generi hanno forti connotazioni politiche. In particolare l’Heavy-metal ha connotazioni di destra anarchica, con venature razziste.
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– Per questo, non ti preoccupare. Le maschere sadomaso
sono comodissime: hanno buchi larghi per la bocca e le narici. Anzi, possiamo usarne una integrale, che tiene dentro
anche i capelli, tanto i tuoi...
Si interrompe, lasciando nel vago l’allusione alla calvizie
del vecchio, che sembra non farci caso.
– L’unico fastidio è il sudore. Per quello, non c’è rimedio,
– conclude Makro. Il vecchio sorride con aria di benevola
presa in giro:
– Parli da esperto, – dice. Makro alza gli occhi di scatto e
lo guarda in faccia. Ma che fa, ’sto stronzo, prende per il
culo?, pensa, e sente l’impulso di rispondere a tono. Però
incazzarsi vorrebbe dire andarci pesante, sennò, non vale
neanche la pena. No, meglio andarci piano, per questa volta,
ma che capisca subito con chi ha a che fare:
– Senta un po’, signor Cotti. Se vuol venire con noi, deve
sapere che noi abbiamo l’abitudine di farci i cazzi nostri, in
tutti i sensi. Chiaro...?
– Hai ragione, scusa... È che questa faccenda mi fa uno
strano effetto.
Il vecchio, con aria improvvisamente vergognosa (ma non
è detto che non reciti), incrocia i due indici e li bacia, come
per suggellare una promessa:
– Giuro che non lo faccio più.
Ma quanti anni ha, veramente? si chiede Makro, trattenendo la voglia di ridere e accorgendosi di non avergli ancora
chiesto l’età precisa. L’altro sembra avergli letto nel pensiero:
– Sai, a cinquantaquattro anni suonati, ci si trova un po’
spiazzati, in certe situazioni. Debbo farci l’abitudine.
Makro sta per dirgli che ne dimostra di più, di anni, e che
non è il caso di cominciare raccontandosi delle balle. Ma poi
si trattiene e tace. Magari sta dicendo la verità: a che serve
infierire? Intanto il vecchio si alza e si avvia verso il banco per
pagare il suo caffè e il Fernet di Makro:
– Ti va di fare due passi?
Fuori trovano un viale di tigli micragnosi che hanno
messo le foglie da poco. C’è aria di primavera, ma una pri-
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Damnati ad metalla
mavera di periferia, ancora intrisa di pioggia e di case popolari. Passando, Makro controlla con un’occhiata che il suo
cabrio nero sia ancora al suo posto e senza sfregi. Poi si
rende conto che c’è ancora un’infinità di dettagli da discutere, oltre, beninteso, alla faccenda più importante, cioè come
ha fatto, il vecchio, ad arrivare fino a loro. Facile, fare il
duro: noi abbiamo l’abitudine di farci i cazzi nostri... Bravo!
E adesso valli un po’ a chiedere a lui, i cazzi suoi: i come e i
perché. Bisognerà indagare con discrezione, farlo parlare.
Ma il vecchio sembra aver trovato la lunghezza d’onda giusta per giocargli d’anticipo:
– Certo che ci sarete rimasti male, ieri pomeriggio, a vedere uno della mia età in mezzo a tutti quei ragazzini.
Makro non risponde, e aspetta.
– È stato Pepe a dirmi della cosa, – continua il vecchio. –
Mi ha telefonato, la settimana scorsa. Io, a essere sincero, non
volevo saperne, ma lui ha insistito. Poi ci siamo anche visti.
Insomma, alla fine mi ha convinto a provarci.
Makro capisce che, a questo punto, tanto vale giocare a
carte scoperte:
– E com’è che vi conoscete, con Pepe?
– Gli ho insegnato io, a suonare.
Ah, ecco, pensa Makro: Zù aveva ragione ieri, quando ha
riconosciuto la “mano” della Gran Testa. Adesso è tutto chiaro. Un attimo, poi si accorge che la spiegazione del vecchio
non semplifica affatto le cose. Tanto per cominciare, agli altri
non si potrà dire la verità, vista l’aria che tira nei confronti di
Pepe. Giano, per esempio: ce n’è voluto, per convincerlo a
fare almeno qualche seduta di prove, col vecchio. Figurarsi
che casino scoppierebbe, se venisse a sapere che è stato mandato dalla Gran Testa di Cazzo. E per giunta, è stato il suo
“maestro”! Quindi bisognerà inventarsi una storia plausibile,
che non abbia niente a che vedere con Pepe. Ma allora bisogna anche mettersi d’accordo, e questo significa dare spiegazioni, rivelare certi retroscena. Hai voglia, farsi i cazzi propri!
E se poi al vecchio, per sbaglio, gli scappa detta la verità...?
Decisamente, Makro non è contento della piega che stanno
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Loris Ferrari
prendendo le cose. Lui si era immaginato una realtà dove tutto
era facile e indolore. Si aspettava di avere a che fare con un
mezzo matto, uno di quegli strani personaggi che hanno
l’hobby di ricopiare fedelmente gli assolo più complicati e
deliranti, per il solo gusto di esercitare una memoria musicale e una capacità tecnica mostruose, che tengono solo per sé,
ma che ogni tanto sentono il bisogno di mostrare agli altri,
solo per il gusto di farsi dire “bravo!”. Con un tipo cosí, tutto
sarebbe filato via senza intoppi: complimenti, lisciatine; poi
sarebbe venuta fuori la faccenda della Maschera, la visita
medica, l’Assicurazione, e il tipo si sarebbe cacato sotto e
avrebbe dato forfait. Certo, a questo punto il tour sarebbe saltato, ma questa prospettiva, a Makro non sarebbe dispiaciuta
poi molto. I “Damnati ad Metalla” stavano cominciando a
diventare una fonte di problemi, più che di redditi. Fra l’altro
quegli stronzi consumavano a credito più roba di prima, e la
pagavano sempre più in ritardo. C’erano ancora i mercati
inglesi e tedeschi, che tiravano discretamente, e forse lí il
nuovo CD si poteva vendere bene anche senza il tour. Se non
che il gruppo cominciava a non tenere più, e il tour era l’unico
collante efficace, quella cosa misteriosa che permette a cinque
imbecilli che in fondo non si sopportano, di continuare a stare
insieme, a produrre suoni, musica e ogni tanto qualche idea
geniale. Pepe, in fondo, non era uno stupido. Aveva capito la
situazione, aveva annusato che la barca cominciava a fare
acqua e se n’era andato. Gli altri non lo sapevano, naturalmente, ma Pepe, il giorno dopo lo scazzo definitivo, gli aveva telefonato per dirgli che aveva intenzione di formare un gruppo
suo, e che presto avrebbe avuto bisogno di un manager...
– Posso chiederti a cosa pensi?
La voce del vecchio riscuote Makro dalle sue elucubrazioni.
– Penso al perché Pepe ti ha chiamato per sostituirlo.
Quando se n’è andato, non sembrava che il destino del gruppo gli importasse molto. – Poi, dopo una breve pausa: – A proposito, adesso gli altri lo chiamano “la Gran Testa di Cazzo”,
tanto per darti un’idea dell’aria che tira nei suoi confronti.
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Damnati ad metalla
– Sí, me l’ha detto che se n’è andato sbattendo la porta.
Però anche lui non è più un ragazzino. Erano cinque anni, mi
pare, che stava coi... Com’è che si chiamano?
– “Damnati ad Metalla”.
– Appunto. Cinque anni, alla vostra età, sono tanti. Con la
vita che fate, in cinque anni se ne mettono insieme di ricordi
e di esperienze... Da quello che ho capito io, Pepe gli voleva
bene, al gruppo, a modo suo.
– Già, molto a modo suo, – dice Makro, sarcastico.
Continuano a camminare nel quartiere di periferia. Casermoni
anonimi, sui due lati della strada; supermercati di terza categoria,
illuminati da neon al risparmio; barettini per magnaccia e spacciatori marocchini. A nessuno piacerebbe, un posto cosí, ma a
Makro meno che a chiunque altro: gli ricorda troppo bene il quartiere dove lui stesso è nato e cresciuto. In un’altra città, è vero,
ma lo schifo è identico dappertutto. Lui è riuscito a venirne fuori,
e quando ci pensa, cosí, alla lontana, gli sembra che siano passati secoli. Invece, capitando in un posto dove le cose sono rimaste
uguali, in mezzo ai colori e agli odori autentici, come adesso, si
accorge che si tratta soltanto di pochi anni. Gli viene in mente il
suo cabrio nuovo fiammante, parcheggiato in mezzo ai catorci
del quartiere. C’è il rischio che al ritorno non se ne trovi più neanche la marmitta. Una ragione in più per tagliare corto:
– Ripensandoci bene, tutta la faccenda mi convince poco,
– dice, e si chiede perché sia stato proprio lui a insistere per
mandarla avanti. Il vecchio annuisce:
– Hai ragione. Anche a me sembra che siamo partiti col
piede sbagliato. Fra l’altro, se decido di starci, i miei rapporti
con Pepe dovranno rimanere tra noi due, visto come la pensano gli altri. Quindi bisognerà inventarsi qualche balla, e reggere il gioco, il che è faticoso, alla lunga, – riflette. – Sai, all’inizio, pensavo di non dir niente nemmeno a te. Poi ho pensato che il manager è come il dottore, o ti fidi, o non ti fidi, ma
se ti fidi, bisogna dirgli tutto.
Makro guarda la faccia del vecchio, di sguincio, continuando a camminare. E a te chi te lo dice, che io sono uno da
fidarsi?, pensa, ma, naturalmente, se lo tiene per sé.
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Loris Ferrari
Sono arrivati a una piazza, con un giardinetto in mezzo,
dove siedono dei pensionati, coi loro cagnolini che si annusano, raspano, e spisciazzano intorno. Il vecchio si ferma e guarda Makro dritto in faccia:
– Parliamoci chiaro... Io a Pepe gli voglio bene, e anche i
soldi non mi fanno schifo, ma se mi imbarco in questa pazzia,
è solo per rimandare il giorno che dovrò prendermi un cane
anch’io, e unirmi a quelli là.
Fa cenno con la testa verso i pensionati. Questo è uno che
ha fatto il mestiere sul serio, da giovane, pensa Makro, e capisce che le altre questioni ancora in sospeso, il contratto,
l’Assicurazione, la visita medica, sono solo dei dettagli senza
importanza. No, il vecchio non si tirerà indietro per le formalità o le questioni di soldi. Aver fatto il mestiere è come essere stati preti: puoi anche buttare la tonaca alle ortiche, ma
Prete lo rimani per sempre. Chissà con chi ha suonato, da giovane... In fondo a questo punto basterebbe tacere e lasciare
che la faccenda si risolvesse fra lui e gli altri, e tutto andasse
come deve andare. Ma qualcosa, di cui poi avrà a pentirsi,
spinge Makro a parlare:
– Be’, Maschera, visto che ti fidi di me, voglio dirti
anch’io come stanno le cose: anche gli altri non sono felici di
questo ripiego. Nessuno discute che tu sappia suonare, ma
questo è solo una parte del problema. Tu capisci, vero? – Il
vecchio annuisce. – Loro hanno accettato di fare un paio di
sedute di prova, prima di decidere, ma anche se dovessero
prenderti, sarà solo perché sono costretti. C’è di mezzo il tour,
la promozione del nuovo CD. E sanno che è la loro ultima
occasione. Il più incazzato di tutti è Giano, il batterista. Di
solito, è quello che viene messo in minoranza nelle decisioni
importanti, e quindi è vendicativo, e non te ne lascerà passare
una. Tu, per Giano, sei la prova vivente che una volta tanto ha
ragione lui.
Il vecchio sorride, divertito, e nei suoi occhi passa ancora
una volta quella luce da ragazzino mai cresciuto:
– Eh, i batteristi!... – sospira. Makro sorride a sua volta:
– Questa volta sei tu, che parli da esperto.
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Damnati ad metalla
Per un istante il vecchio rimane interdetto, poi coglie l’allusione e risponde, malizioso:
– Io, però, i cazzi miei te li racconterò, un giorno o l’altro,
se mi prendete.
– E allora io ti racconterò i miei... Forse.
Il vecchio si fa un’altra risatina silenziosa:
– Quand’è la prossima prova?
– Domattina alle nove. Solito posto.
– Ci sarò, Maco... No, scusa: Mar... co
– Marco, in origine, ma adesso sono Makro... con la
“kappa”. Un’ultima cosa: non credo che succederà, domani,
ma se qualcuno ti chiedesse com’è che sapevi dell’audizione,
tu dí che eri lí per caso. Inventati qualcosa, che avevi bisogno
di soldi, che ti hanno diminuito la pensione. Sei entrato per
chiedere se avevano bisogno di un turnista, e la Marinella ti
ha scambiato per uno di quelli venuti a provare.
– D’accordo... Ah, senti, Makro: si potrebbe avere la
maschera pronta fin da domattina? – ammicca, con aria d’intesa. – Vorrei vedere subito che effetto mi fa... E che effetto fa
agli altri.
– Non c’è problema. Domattina ci sarà anche la maschera.
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