Afghanistan - Aspen Institute Italia

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Sergio Romano
Afghanistan: dalla
parabola sovietica a
quella americana
L’intervento sovietico del 1979 non era privo di una certa razionalità. Ma
si scontrò subito con una rivolta popolare nazionalista. Cui poi subentrò –
con l’appoggio degli Stati Uniti e del Pakistan, e con i finanziamenti dell’Arabia Saudita – una sorta di “legione” musulmana, impegnata a combattere l’ateismo sovietico. Si ponevano così le premesse del regime talebano e dell’ascesa di al Qaeda. Gorbaciov abbandonò l’Afghanistan perché
la guerra costava troppo al suo paese. Era una giusta decisione strategica, che però non produsse gli effetti desiderati. Lo stesso potrebbe accadere alla “exit strategy” americana.
Nel 2008, 19 anni dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, apparve nelle sale cinematografiche
Ambasciatore italiano a Mosca dal 1985 al
degli Stati Uniti un film di Mike Nichols intitolato
1989, lo storico Sergio Romano è oggi ediCharlie Wilson’s War con Tom Hanks, Julia Roberts
torialista del Corriere della Sera.
e Philip Seymour Hoffman. Il film racconta la storia
vera, almeno nelle sue grandi linee, del congressman Charles Nesbitt Wilson, il deputato del Texas che nella prima metà degli anni Ottanta riesce a modificare la politica afgana del congresso e della presidenza Reagan.
Wilson si rende conto che gli aiuti forniti ai mujaheddin sono insufficienti e che la
guerra contro l’Armata rossa potrà essere vinta soltanto se il Pakistan disporrà dei migliori aerei americani e soprattutto se le forze della resistenza afgana verranno dotate di Stinger, micidiali missili terra-aria a ricerca di calore (il terribile “fucile” con
cui un solo guerrigliero può abbattere un elicottero). Ma non basta superare le resistenze degli apparati politico-militari americani. Occorre neutralizzare le possibili resistenze o conquistare la collaborazione di alcuni paesi della regione mediorientale,
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dal Pakistan all’Egitto, da Israele all’Arabia Saudita. È soltanto un film, naturalmente, con tutte le inevitabili licenze poetiche di un’opera dell’ingegno. Ma nella sostanza i fatti narrati sono realmente accaduti. Ciò che maggiormente sorprende, quindi, è
il tono ottimistico e compiaciuto con cui il regista ha raccontato la storia della grande coalizione che si formò nella prima metà degli anni Ottanta per cacciare l’URSS dall’Afghanistan. A 11 anni dal ritiro dell’Armata rossa sarebbe stato lecito attendersi
dal film di Mike Nichols qualche dubbio e qualche interrogativo. Proviamo a chiederci quali e quante cose siano “andate storte” dal 1979 a oggi.
L’URSS: RAGIONI E ILLUSIONI. Quando il Politburo decise l’invio di un con-
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tingente militare in Afghanistan, Leonid Breznev e il suo ministro degli Esteri Anatoli Gromyko avevano due buone ragioni per ritenere che l’operazione sarebbe stata relativamente indolore. In primo luogo, l’Afghanistan era già dal 1977 una “repubblica
democratica”, ma era mal governato da due fazioni – la prima filosovietica, la seconda filocinese – che si disputavano il potere. In secondo luogo, l’Iran era nel mezzo d’una rivoluzione e del tutto incapace quindi, se pur lo avesse desiderato, di recitare la
sua parte tradizionale di sentinella americana nella regione. In quelle condizioni, i sovietici ritennero che una passeggiata militare fino a Kabul avrebbe eliminato la fazione filocinese e consolidato il potere della fazione filomoscovita di Babrak Karmal.
Non sappiamo se l’URSS avesse in quel momento un più ambizioso piano strategico.
Ma non le sarebbe stato impossibile, in una fase successiva, estendere la sua influenza al Belucistan, una regione che appartiene formalmente al Pakistan ma che era stata lungamente teatro di scontri fra l’Afghanistan e l’impero britannico dell’India. Secondo una tesi ricordata da Valeria Fiorani Piacentini nel 20021, le forze sovietiche
avrebbero potuto allora ricongiungersi “con quelle già presenti e operanti nelle basi
yemenite, a Failaka [un’isola del Golfo Persico appartenente al Kuwait] e nel Corno
d’Africa, puntando al Sudan”. È certamente possibile che ai sovietici, come accade
in questi casi, l’appetito sia venuto mangiando. Ma è difficile che l’URSS potesse disinteressarsi di un paese vicino, parente prossimo delle sue repubbliche islamiche, dove una fazione filosovietica rischiava di essere eliminata da una fazione filocinese. Ed
è altrettanto difficile pensare che potesse voltare le spalle a un satellite dove nei due
decenni precedenti aveva investito aiuti economici per 1,26 miliardi di dollari (contro i 533 milioni stanziati dagli USA). Per molte ragioni l’intervento sovietico non era
privo di una certa razionalità. Ma si scontrò sin dagli inizi del 1980 con una rivolta
popolare che ebbe, nella prima fase, una ispirazione prevalentemente nazionalista.
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L’AMERICA: COME COSTRUIRSI IL NEMICO. Gli Stati Uniti, comprensibilmente, preferirono pensare al peggio e agire come se l’occupazione sovietica dell’Afghanistan fosse destinata ad alterare gli equilibri dell’intera regione. Dopo qualche
gesto simbolico (il rifiuto di partecipare alle Olimpiadi di Mosca del 1980), l’America scoprì rapidamente che l’operazione sovietica preoccupava altri paesi: il Pakistan,
la Cina, l’Arabia Saudita, l’Iran. Il Pakistan voleva estendere la sua influenza nella
regione e pensava all’Afghanistan come a una sorta di Stato satellite. La Cina e l’Iran
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non volevano che l’URSS controllasse l’Asia sudoccidentale. L’Arabia ritenne suo dovere difendere un paese musulmano. Le motivazioni strategiche cominciarono a intrecciarsi con le motivazioni religiose e i servizi dell’intelligence pakistano non esitarono a soffiare sul fuoco dell’islamismo radicale.
In questa coalition of the willing, composta da Stati che erano su altre questioni in
completo disaccordo, ciascuno fece la sua parte. Gli Stati Uniti e la Cina fornirono armi. L’Iran e il Pakistan accolsero i profughi e offrirono alla resistenza un prezioso retroterra strategico. Il Pakistan, in particolare, dette ordine alle sue ambasciate di facilitare il reclutamento dei combattenti che cominciavano ad accorrere sul campo di
battaglia. L’Arabia Saudita fu il tesoriere e il “cappellano militare” dell’operazione.
Fornì denaro ai combattenti e finanziò migliaia di scuole coraniche, destinate a formare uno stuolo di talebani (studenti di Dio). Con quei finanziamenti il regno dei
Saud pagò all’Islam il debito morale che aveva contratto commerciando e trescando
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con la grande potenza “satanica” americana. E dette un decisivo contributo alla nascita di una Legione araba che avrebbe combattuto, qualche anno dopo, nella guerra
civile algerina, nella guerra bosniaca, in Cecenia, in Iraq e in Somalia.
In un libro sui talebani, il giornalista pakistano Ahmed Rashid riferì molti anni dopo
una frase che gli era stata detta dal capo dell’intelligence del suo paese, il generale
Hameed Gul: “I comunisti hanno le loro brigate internazionali, l’Occidente ha la NATO, perché i musulmani non dovrebbero unirsi per formare un fronte comune?”.
L’ARABIA SAUDITA: IL PEGNO PAGATO ALL’ISLAM. Il pegno che l’Ara-
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bia Saudita dette alla guerra dell’Islam contro l’“ateismo sovietico” fu un giovane di
origine yemenita, diciassettesimo in una nidiata di 57 ragazzi e ragazze concepiti da
un imprenditore edile che si era arricchito ristrutturando le moschee della Mecca e
di Medina. Osama, figlio di Mohammed bin Laden, s’installò in Pakistan alla frontiera con l’Afghanistan, prese parte a qualche azione militare, diventò il furiere della Legione e quindi, per molti aspetti, il perno dell’operazione montata, secondo Mike Nichols, dalla fervida immaginazione politica di Charlie Wilson.
Si dice che alla fine del conflitto, quando i sovietici decisero di ritirarsi dall’Afghanistan, Osama portò con sé un dischetto in cui erano contenuti i nomi di tutti coloro
che avevano partecipato al jihad contro l’URSS: una “base” d’informazioni (in arabo al
Qaeda) che avrebbe fatto parlare molto di sé negli anni seguenti.
L’URSS abbandonò l’Afghanistan quando Mikhail Gorbaciov decise che la guerra presentava un triplice inconveniente: stava svuotando le casse dello Stato, era mal tollerata dalla società russa e intralciava il nuovo disgelo di cui il segretario generale del
PCUS aveva bisogno per raggiungere gli obiettivi della perestroika. Questa ragionevole decisione strategica non produsse gli effetti desiderati.
Tre anni dopo, nel dicembre del 1991, Gorbaciov perdette il potere e l’URSS cessò di
esistere. L’Afghanistan, nel frattempo, era uscito dal radar degli Stati Uniti e più generalmente dell’Occidente. Per un intero decennio ci occupammo prevalentemente
della Somalia e di altre guerre africane, delle guerre jugoslave, del mercato unico e
della moneta unica, della Russia di Boris Eltsin, della guerra cecena e della questione palestinese.
Dall’Afghanistan, comunque, giungevano di tanto in tanto segnali confusi. I vincitori
dell’Unione Sovietica si stavano combattendo per il controllo del paese: un déjà vu a
cui Washington, durante la presidenza di Bill Clinton, prestò per molto tempo un’attenzione distratta.
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DALLE SCUOLE CORANICHE AL CAMPO DI BATTAGLIA. Poi scoprimmo
che fra i contendenti vi era un gruppo nuovo, alquanto diverso dalle vecchie formazioni tribali della società afgana. Erano i ragazzini degli anni Ottanta, cresciuti nelle
madrasse che il denaro saudita aveva creato in territorio pakistano, e passati senza alcun intervallo dalle scuole coraniche al campo di battaglia. Nel 1996 apprendemmo
che questi “talebani” si erano impadroniti di Kabul, avevano rovesciato il governo di
Nurhanuddin Rabbani e avevano esteso il loro potere al 90% del paese.
In pochi mesi i ragazzi delle madrasse crearono un regime teocratico di fronte al quale l’Iran degli ayatollah faceva figura di Stato laico: una società di uomini barbuti, di
donne incappucciate, di esecuzioni capitali affidate alle mani vendicatrici dei parenti delle vittime e di feroci iconoclasti che non esitarono a distruggere, qualche anno
dopo, i giganteschi Buddha scolpiti nella roccia di Baitan.
Fu questo il momento in cui cominciammo a sentir parlare sempre più frequentemente di Osama bin Laden. Aveva denunciato l’alleanza del suo paese con gli Stati Uniti dopo l’invasione irachena del Kuwait. Aveva definito “blasfema” l’installazione di
due basi americane nel regno dei Saud. Era stato privato della cittadinanza saudita e
costretto a cercare rifugio in Sudan. Nell’agosto 1996 dichiarò guerra agli Stati Uniti
con una lunghissima fatwa, pubblicata da un quotidiano arabo di Londra, in cui i
“fratelli musulmani del mondo” venivano esortati a “cacciare il nemico umiliato e
sconfitto dai luoghi santi dell’Islam”.
Vi erano già stati prima d’allora due clamorosi attentati islamisti: quello del febbraio
1993 contro le torri gemelle di New York, e quello del giugno 1996 contro una installazione militare USA ad al Khobar, in Arabia Saudita, che il governo di Riad, imbarazzato dalla presenza di una quinta colonna islamista nel proprio territorio, cercò di attribuire ai servizi iraniani. E due anni dopo, nell’agosto 1998, vi furono altri due sanguinosi attentati contro le ambasciate americane in Kenya e Tanzania.
Fu più facile, da quel momento, collegare i puntini neri sulla carta geografica e attribuire al disegno il nome del suo autore. Alla dichiarazione di guerra di Osama gli
americani reagirono con un atto di guerra: alcuni missili contro una fabbrica di prodotti farmaceutici in Sudan e 66 Cruise contro alcuni campi di al Qaeda a sudest di
Kabul. Dieci anni dopo il ritiro delle truppe sovietiche, gli Stati Uniti erano costretti
a occuparsi nuovamente dell’Afghanistan.
GUERRA E VIA DI USCITA. Vi tornarono fisicamente con un corpo di spedizione poche settimane dopo gli attentati dell’11 settembre. Quando il regime talebano di
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Kabul rifiutò di espellere Osama bin Laden e le sue milizie, la nuova presidenza americana (George W. Bush era stato eletto nel novembre dell’anno precedente) decise
l’invasione del paese. Ebbe il sostegno NATO e un esplicito riferimento all’articolo 5
del Patto atlantico (un attacco armato contro uno dei membri è un attacco contro tutti), ma preferì servirsi di alcuni “cugini” di lingua inglese e soprattutto dei signori
feudali che i talebani non erano riusciti a piegare. Terminate le operazioni militari,
gli Stati Uniti lasciarono nel paese circa 20.000 uomini per la ricerca di Osama e le
operazioni di rastrellamento, ma fu subito chiaro che la guerra afgana era stata per
Washington soltanto la prova generale di quella che la nuova amministrazione voleva
combattere in Iraq e, forse, in Iran.
Quando George Soros, nel corso di un dibattito con Donald Rumsfeld, osservò che gli
Stati Uniti non stavano facendo nulla per la stabilità politica e lo sviluppo economico del paese, il segretario della Difesa rispose sprezzantemente che si sarebbero limitati ad addestrare un esercito afgano. Si era ancora nella fase della presidenza Bush
in cui le parole nation building erano bersaglio di commenti sarcastici. Il compito
della ricostruzione passò così agli europei, che cercarono di accordarsi sulla spartizione del lavoro (all’Italia toccò ironicamente la formazione del sistema giudiziario).
Ma come ricostruire un paese di cui non si controlla il territorio? Dopo una fase durante la quale i talebani riconquistarono una buona parte del territorio perduto, gli
Stati Uniti giunsero alla conclusione che occorreva completare la guerra interrotta del
2001 e ricorsero questa volta all’assistenza della NATO.
Il problema, nel frattempo, si era complicato. Dopo avere nutrito e allevato il movimento talebano negli anni Ottanta, il Pakistan correva il rischio di esserne travolto.
Fra l’Afghanistan e il Pakistan esiste oggi uno Stato ombra, dalle frontiere indefinite.
Lì sono le retrovie delle formazioni talebane che agiscono nei due paesi, lì sono i campi d’addestramento, le basi logistiche e i santuari montani delle formazioni che combattono da un lato nel territorio afgano, dall’altro nella valle pakistana dello Swat. Barack Obama ha deciso che occorre lasciare l’Afghanistan agli afgani, una formula a
cui tutte le potenze imperiali ricorrono quando non riescono a governare un paese
conquistato. Ed è probabilmente disposto a negoziare una via d’uscita con la fazione
meno radicale del movimento talebano. Ma ha bisogno, per sedersi al tavole delle trattative, di qualche successo militare. È grosso modo la strategia di Nixon e Kissinger
in Vietnam all’inizio degli anni Settanta. Sappiamo come andò a finire.
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Valeria Fiorani Piacentini, Il Golfo nel XXI secolo: le nuove logiche della conflittualità, Il Mulino, 2002.