2^ incontro Catechisti XXX Prefettura LO STILE DEL

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2^ incontro Catechisti XXX Prefettura LO STILE DEL
2^ incontro Catechisti XXX Prefettura
LO STILE DEL CATECHISTA: TESTIMONE DI GIOIA.
ESSERE “COMPAGNI” E MAESTRI”
IL CATECHISTA TESTIMONE DI GIOIA
Anche il tema che tratteremo oggi è piuttosto vasto, direi quasi un concentrato di più temi insieme.
Svolgeremo questo incontro in due parti. Ci soffermeremo inizialmente su: “Il catechista testimone
di gioia” perché dietro queste due parole, testimone e gioia, c’è un mondo, una galassia…
Nella seconda parte affronteremo “Essere compagni e maestri”, un altro “universo” su cui ci
sarebbe da parlare quasi all’infinito.
Iniziamo ascoltando tre testi del Vangelo:
“Abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande le donne corsero a dare
l’annuncio ai suoi discepoli” (Mt 28, 8).
“Di questo voi siete testimoni. Ed essi si prostrarono davanti a lui, poi tornarono a
Gerusalemme con grande gioia” (Lc 24, 48.52).
“Avrete forza dallo Spirito Santo e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e
Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8).
Il contesto di questi tre brani, il primo di Matteo, il secondo del Vangelo di Luca, il terzo degli Atti
degli Apostoli, è la risurrezione di Gesù appena avvenuta.
Nel primo testo sono protagoniste due donne del gruppo di quelle che seguivano Gesù: Maria di
Magdala e l’altra Maria. Vanno al sepolcro, lo trovano aperto e vuoto. Non c’è un cadavere, ma un
angelo che annuncia loro che Gesù Cristo è risorto e li attende in Galilea. Piene di gioia le donne
corrono a dare l’annuncio ai discepoli.
Nel secondo caso Gesù risorto appare in mezzo agli Undici, mostra loro le ferite della Passione,
mangia con loro, spiega le Scritture che si riferiscono alla sua morte e risurrezione.
Nel terzo brano l’autore degli Atti racconta le apparizioni del Risorto e promette lo Spirito Santo
che darà loro la forza di essere testimoni.
Ci balzano subito agli occhi quattro cose:
- il contesto è quello delle risurrezione di Cristo, che è il cuore della storia della salvezza;
- la testimonianza è la conseguenza immediata dell’incontro col Risorto;
- la testimonianza è un preciso mandato che il Risorto conferisce ai discepoli;
- la gioia è il primo grande frutto che scaturisce dall’incontro con Gesù risorto.
Cominciamo col parlare della testimonianza. È evidente che le donne e i discepoli, protagonisti
delle due pericopi evangeliche che abbiamo ascoltato prima, non possono serbare solo per sé quello
che è avvenuto, non possono custodire gelosamente nel cuore senza condividerlo con gli altri
l’evento della risurrezione, apice della storia della salvezza.
Da una parte ricevono un mandato: le donne dall’angelo al sepolcro: “Presto, andate a dire ai suoi
discepoli…” (Mt 28, 7ss); i discepoli da Cristo risorto stesso: “Non temete, andate ad annunciare ai
miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedrranno” (Mt 28, 10) e ancora: Avrete forza dallo
Spirito Santo e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e Samaria e fino agli estremi
confini della terra (At 1,8); dall’altra parte sentono essi stessi in sé il bisogno, l’urgenza di
testimoniare agli altri quello che hanno visto e udito. “Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo
annunciamo anche a voi” (1Gv 1,3).
All’indomani della risurrezione e ascensione al cielo di Gesù, si apre il tempo della testimonianza.
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Nel suo primo discorso dopo la Pentecoste, riportato negli Atti degli Apostoli, Pietro dice ai
presenti: “Questo Gesù Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni” (At 2, 32).
Gli apostoli sono sicuramente testimoni privilegiati, perché sono testimoni oculari e perché hanno
ricevuto un particolare mandato da parte di Gesù, ma la testimonianza progressivamente si allarga e
coinvolge ogni credente. Testimone è chi ha vissuto l’incontro con Cristo, ha sperimentato che egli
è vivo e porta tale annuncio agli altri. Testimone è chi può dire con Giovanni “ciò che noi abbiamo
udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le
nostre mani hanno toccato… lo annunziamo a voi” (1Gv 1,1).
Si tratta di un annuncio che pervade tutta la vita, che si fa esplicito nelle parole, ma che nel
contempo le precede e le accompagna. La testimonianza riguarda le parole e i fatti, gli
atteggiamenti e i pensieri, i modi di fare e di vivere, resi sempre più somiglianti a Gesù, tanto da
dire “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Il “Rinnovamento della Catechesi”, comunemente chiamato “Documento di Base” ai nn. 185 e 186
enuncia:
«Nell’assolvimento del loro compito, i catechisti fanno molto più che insegnare una dottrina.
Sono testimoni e partecipi di un mistero, che essi stessi vivono e che comunicano agli altri con
amore. Questo mistero li trascende infinitamente; e tuttavia esso si compie anche attraverso la
loro azione, che lo attesta, lo spiega, lo fa rivivere» (RdC 185).
«Il catechista si caratterizza anzitutto per la sua vocazione e il suo impegno di testimone
qualificato di Cristo e di tutto il mistero di salvezza» (RdC 186).
Prima di programmare ogni attività o metodologia il catechista deve testimoniare il suo incontro con
il Signore, la sua fede in lui e il suo vivere in lui nell’amore.
La testimonianza della vita è più che mai una condizione essenziale per l’efficacia profonda
dell’annuncio e dell’evangelizzazione. Il mondo, che nonostante innumerevoli segni di rifiuto di
Dio, paradossalmente lo cerca attraverso vie inaspettate e ne sente quasi spasmodicamente il
bisogno, “reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio che essi conoscano e che sia a loro
familiare, come se vedessero l’Invisibile” (EN 76).
I catechisti non sono ripetitori di un messaggio che loro è estraneo, ma segni viventi di quanto
annunciano. La loro vita dev’essere il primo catechismo per le persone cui si rivolgono.
“Il mondo esige e si aspetta da noi semplicità di vita, spirito di preghiera, carità verso tutti e
specialmente verso i piccoli e i poveri, ubbidienza e umiltà, distacco da noi stessi e rinuncia. Senza
questo contrassegno di santità, la nostra parola difficilmente si aprirà la strada nel cuore
dell’uomo del nostro tempo, ma rischia di essere vana e infeconda” (EN 76).
Essere testimoni non consente di essere catechisti part-time, che nella vita quotidiana vivono
diversamente da quanto annunciano. Specie nei confronti delle giovani generazioni, molto attente
alla testimonianza, le scelte concrete di ogni giorno sono il terreno di verifica che conferma o
smentisce il messaggio cristiano.
Essere testimone comporta, quindi:

una conoscenza esperienziale, vitale del messaggio che annunciamo;

un confronto spirituale con la Parola di Dio, con totale apertura nei suoi confronti e con
assoluta docilità alla guida interiore dello Spirito Santo, colui che apre i nostri occhi per
vedere le cose di Dio;

una traduzione del messaggio nella vita, cioè coerenza tra fede e vita: in modo assai acuto e
convincente il n. 186 del RdC illumina il rapporto strettissimo esistente tra esperienza di vita e
conoscenza di fede. Le verità della fede sono, infatti, una conoscenza nella vita e per la vita.
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Talvolta persone poco istruite, ma fortemente impegnate nella vita cristiana, hanno una fede
profonda e illuminata, mentre altre, molto istruite ma con una vita scarsamente impegnata,
trovano difficoltà a comprendere il significato profondo delle verità della fede e pertanto non
sono in grado di annunciarle.
Il catechista è uno specchio vivente, un’immagine vivente di ciò che insegna ai bambini, giovani,
ragazzi, adulti. È, anzi deve essere, un’icona visibile del messaggio di Cristo.
Parlando della esperienza di Gesù, parlerà anche della propria esperienza perché queste due
esperienze in un certo modo si fondono insieme, diventando un'unica esperienza. L’esperienza del
catechista è infatti un’attualizzazione di quella di Cristo e rivelazione di essa.
«Quanti lo ascoltano, devono poter avvertire che, in certo modo, i suoi occhi hanno visto e le
sue mani hanno toccato; dalla sua stessa esperienza religiosa devono ricevere luce e certezza.
Una concreta coerenza di vita è necessaria al catechista per "vedere" la fede, prima di
proclamarla: poiché solo chi opera la verità, viene alla luce. Le verità di fede interessano
intimamente l’esistenza umana, la toccano nella sua profonda realtà: per comprenderle,
occorre anche impegnarsi a tradurle in atti di vita. La testimonianza della vita è essenziale, nel
momento in cui si vuol proclamare e diffondere la fede. È questa la via, per la quale la verità
cristiana si fa riconoscere nella Chiesa: attraverso i cristiani, in una testimonianza umana,
nella quale risplende la testimonianza di Dio. La vita del catechista è una manifestazione delle
invisibili realtà, alle quali egli richiama i suoi fratelli di fede» (RdC 186).
La vocazione del catechista è di essere testimone di Cristo nella fedeltà a Dio e nell'attenzione
all’uomo: così è vissuto Gesù e Lui è il catechista per eccellenza, il modello al quale dobbiamo
continuamente ispirarci.
L’impegno di ogni catechista è "narrare la gloria di Dio per donare pace agli uomini, e servire gli
uomini per amore di Dio." (RdC, 161).
Per riassumere quello che abbiamo detto finora, lo possiamo riassumere in maniera molto
schematica, in tre punti: il catechista in quanto testimone
- fa esperienza di Cristo
- comunica la fede della Chiesa nel Cristo risorto
- lo annuncia con la sua vita
Il catechista è testimone di Cristo risorto, è colui che con la sua vita annuncia la grandezza della
risurrezione.
Non basta allora che conosca adeguatamente il messaggio che trasmette, che conosca bene il
Vangelo, che abbia capacità didattiche, ecc… Nei suoi occhi deve brillare un po’ di luce del mattino
di Pasqua, che lasci intuire che quanto dice è vero innanzitutto per lui. Solo tale riflesso sul suo
volto può rendere affascinante quanto insegna agli altri: non si tratta di renderli partecipi di un
insieme di verità studiate a tavolino, ma di un incontro che cambia la vita, di una gioia che
trasfigura l’esistenza quotidiana perché scaturisce dalla consapevolezza che Gesù è risorto ed è
sempre con noi.
Nel bellissimo cap. 15 del Vangelo di Giovanni, che inizia col discorso della vite e dei tralci, Gesù
dice ai suoi discepoli: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia si in voi e la vostra gioia sia
piena” (Gv 15, 11). Al cap. 17 Giovanni ritrae Gesù in preghiera nel Getsemani e ad un certo punto
prega per i suoi, “per coloro che Tu mi hai dato” e prega “perché abbiano in se stessi la pienezza
della mia gioia” (Gv 17, 13).
Abbiamo visto nel 1^ incontro che il catechista è evangelizzatore, annuncia il Vangelo. Sappiamo
che “Vangelo” significa “Buona notizia”, ma una buona notizia si annuncia sempre con gioia.
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Nessuno mai dà una buona notizia col volto triste. La buona notizia dà gioia a chi l’annuncia e a chi
la riceve. Dunque il catechista è, per vocazione, la persona della gioia.
Lo è per il fatto che è chiamato ad annunciare la Pasqua di Gesù: via di salvezza, redenzione per tutti gli uomini. È un messaggio di gioia che soltanto colui che vive la Pasqua riesce a trasmettere,
riesce a far entrare nel cuore dell'uomo. Il catechista è, innanzitutto, chiamato a vivere questa
Pasqua, a incontrarsi col Risorto nella Chiesa, considerando luogo privilegiato l'assemblea liturgica,
riunita nel suo nome, che proclama la sua Parola e rende presente, reale, l'azione di salvezza.
Papa Francesco ha scritto quella bellissima Enciclica che ha proprio come titolo: “Evangelii
gaudium”, la gioia del Vangelo e dice al n. 1:
«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù.
Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto
interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia» (EG 1).
E al n. 10 usa delle parole e delle espressioni molto forti e inequivocabili:
«Un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale. Recuperiamo e
accresciamo il fervore, la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre
seminare nelle lacrime. Possa il mondo del nostro tempo – che cerca ora nell’angoscia, ora
nella speranza – ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati,
impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi
ricevuto in loro la gioia del Cristo».
Papa Francesco ci riconduce alla prospettiva fondamentale: la gioia. Prima delle pratiche, delle
persuasioni, delle organizzazioni, il vangelo è annuncio di gioia.
Dice Bernanos nel suo “Diario di un curato di campagna”: «La Chiesa è depositaria della gioia, di
tutto il patrimonio di gioia riservato a questo triste mondo».
Pensiamo come è pervaso di gioia messianica l’Antico Testamento e citiamo alcuni tra i testi a noi
più familiari:
«Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (Is 52, 9).
«Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete
e come si gioisce quando si spartisce la preda» (Is 9, 1-2)
«Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele,
e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!
Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico.
Re d'Israele è il Signore in mezzo a te, tu non vedrai più la sventura» (Sof 3, 14-15).
La gioia del Vangelo è Gesù Cristo, la sua presenza, la sua salvezza. Essa però si diffonde sulla
base di un duplice movimento che consente alla gioia di raggiungere una sorta di pienezza: «Perché
la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11).
Il primo movimento è discendente. La pagina dell’Annunciazione ci racconta che la gioia viene da
Dio, è sua iniziativa d’amore: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1,28). Maria
accoglie il vangelo della gioia nella vita del Figlio che porta in grembo. Ma questa pagina ne apre
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un’altra: «Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch'essa un figlio e
questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,36-37).
Il secondo movimento è quello della gioia che si allarga, che si propaga e diviene dono d’amore e
testimonianza per gli altri. È la pagina della Visitazione che ci consente di capire che la gioia del
Vangelo non può stare chiusa tra le mura domestiche, non può rimanere gelosamente custodita nel
cuore, ma si fa annuncio, si fa dono, è gioia che contagia. «Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai
miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1, 44).
Il catechista, quindi, è l’uomo, la donna della gioia, del sorriso sulle labbra, perché ha da offrire la
Buona Notizia, perché dona Cristo risorto e la sua parola ai fratelli.
In una delle sue prediche alla Casa Pontificia in tempo d’Avvento, padre Raniero Cantalamessa
diceva: «La gioia è l’unico segno che anche i non credenti sono in grado di recepire e che può
metterli seriamente in crisi. Non tanto i ragionamenti e i rimproveri. La testimonianza più bella che
una sposa può dare al suo sposo è un volto che mostra la gioia, perché esso dice, da solo, che egli è
stato capace di riempirle la vita, di renderla felice. Questa è anche la testimonianza più bella che la
Chiesa può rendere al suo Sposo divino»
Stiamo attenti, però, alle false gioie e purifichiamo da esse il nostro cuore.
Quali sono queste false gioie?
Gesù stesso ha dato una bella lezione ai suoi discepoli. Sicuramente ricordiamo bene l’episodio del
Vangelo in cui si racconta che Gesù designa e invia settantadue discepoli perché vadano a preparare
la sua venuta in varie città.
Il Vangelo di Luca ci dice che «i settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: “Signore, anche i
demoni si sottomettono a noi nel tuo nome”», ma Gesù li mette in guardia con una affermazione
chiara e decisa: «Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto
perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10, 20).
Ecco una falsa gioia: sentirmi bravo, capace, un catechista modello che tutti seguono, con i ragazzi
sempre presenti all’incontro e alla messa, ecc… La vera gioia di un catechista non è questa, anche
se è ottima cosa. L’opera di evangelizzazione che noi compiamo è opera di Dio, noi siamo solo il
suo strumento, il suo canale di trasmissione. Dice ancora l’E.G. al n. 12: «Sebbene questa missione
ci richieda un impegno generoso, sarebbe un errore intenderla come un eroico compito personale,
giacché l’opera è prima di tutto sua, al di là di quanto possiamo scoprire e intendere».
Un’altra falsa gioia da cui dobbiamo guardarci è quella dell’autocelebrazione, molto legata alla
precedente, il vantarmi per le tante cose che faccio per cui se non ci fossi io … la parrocchia non
andrebbe avanti, il pavoneggiarmi delle gratificazioni che mi vengono dai genitori, magari anche
dal parroco …
È sempre Gesù che ci mette in guardia e ci rimette sulla retta strada: «quando avrete fatto tutto
quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc
17, 10). La vera gioia di un catechista scaturisce dalla gratuità, dal donare senza aspettarsi
gratificazioni, senza sentirsi importanti «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,
8).
Dice l’E.G. al n. 13: «La gioia evangelizzatrice brilla sempre sullo sfondo della memoria grata: è
una grazia che abbiamo bisogno di chiedere». Anche il documento “Incontriamo Gesù” al n. 74
parla del catechista come “uomo e donna della memoria”, «colui che custodisce e alimenta la
memoria di Dio; la custodisce in se stesso e la sa risvegliare negli altri».
La gioia scaturisce dalla memoria delle “mirabilia Dei”, cioè delle cose grandi che Dio ha fatto per
noi e che noi dobbiamo annunciare e testimoniare agli altri. Pensiamo a come è legata la gioia della
celebrazione della Pasqua ebraica alla memoria delle cose grandi che Dio ha fatto per il suo popolo.
«Lodate il Signore perché è buono:
perché eterna è la sua misericordia.
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Egli solo ha compiuto meraviglie:
perché eterna è la sua misericordia.
Ha creato i cieli con sapienza:
perché eterna è la sua misericordia.
Percosse l'Egitto nei suoi primogeniti:
perché eterna è la sua misericordia.
Da loro liberò Israele:
perché eterna è la sua misericordia;
con mano potente e braccio teso:
perché eterna è la sua misericordia.
Divise il mar Rosso in due parti:
perché eterna è la sua misericordia.
In mezzo fece passare Israele:
perché eterna è la sua misericordia» (Sal 137).
Pensiamo all’esultanza e alla gioia di Maria che esplode in quel meraviglioso cantico che è il
Magnificat, in cui ella fa memoria delle grandi cose che ha fatto l’Onnipotente in lei, della
misericordia che verso il suo popolo, del compimento delle sue promesse e della fedeltà all’alleanza
con Israele.
Concludo questa prima parte del mio intervento con le parole di Papa Francesco nel Messaggio per
la Giornata Missionaria mondiale di quest’anno:
«I discepoli» - e potremmo benissimo dire i catechisti - «sono coloro che si lasciano afferrare
sempre più dall'amore di Gesù e marcare dal fuoco della passione per il Regno di Dio, per essere
portatori della gioia del Vangelo. Tutti i discepoli del Signore sono chiamati ad alimentare la gioia
dell’evangelizzazione».
IL CATECHISTA COMPAGNO E MAESTRO
«Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome
Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto
quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si
avvicinò e camminava con loro» (Lc 24, 13-15).
Vediamo che cosa fa Gesù, il vero grande catechista, con questi due discepoli:
- si affianca a loro e si mette in cammino con loro;
- li stimola a raccontarsi;
- allarga i loro orizzonti, aprendo i loro occhi sulla Parola di Dio;
- realizza con loro un momento forte di comunione;
- suscita in loro l’esigenza di testimoniare ad altri la loro esperienza.
Un catechista è compagno di viaggio quando:
“si accosta al cammino” delle persone che gli vengono affidate, cerca di conoscerle, entra in
contatto con loro, con la loro storia, con la loro esperienza di fede;
stimola gli altri a raccontarsi: sa mettersi pazientemente in ascolto, sa valorizzare l’esperienza di
ciascuno, sa accostarsi con profondo rispetto al mistero di ogni persona;
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allarga gli orizzonti, aiutando i catechizzandi a leggere e interpretare le proprie esperienze di vita
confrontandole con la Parola di Dio;
realizza forti momenti di comunione che facilitino la comunicazione, che aprano alla fiducia e
alla condivisione delle proprie esperienze di vita;
spinge ad assumersi la responsabilità della testimonianza, a farsi annuncio per altri.
Annunciare il Vangelo non è condizionare, non è imporre. Il cristiano che serve i fratelli, come fa il
catechista, non è tanto uno che guida gestendo in proprio la crescita umana e cristiana dei ragazzi; è
piuttosto un accompagnatore. Chi guida veramente è lo Spirito Santo; il catechista, insieme con
ciascun ragazzo, si lascia guidare dallo Spirito all'ascolto dell'unico grande Maestro, che abita il
nostro cuore: Gesù, il Signore. Il catechista, con la sua esperienza umana e di fede, richiama alla
mente le parole di Gesù, incoraggia, sostiene, in una parola: accompagna.
Accompagnare è innanzitutto condividere e ciò comporta fiducia reciproca, amicizia, confidenza.
Il catechista è un confidente. I ragazzi hanno fiducia in lui e possono confidargli anche cose intime:
situazioni delicate, preoccupazioni, problemi.
È un amico adulto che non appartiene né all'ambito della famiglia, né a quello della scuola, e con il
quale essi possono stringere vincoli di confidenza e di amicizia.
Incoraggia e stimola i ragazzi. Si preoccupa di avvicinare ciascuno in quello che è e che vive. Aiuta
ogni ragazzo a progredire nella sua vita umana e cristiana.
Il catechista è il credente che si fa compagno di viaggio di quanti gli sono affidati. Egli sa incontrare
le persone là dove queste si trovano, sa accoglierle e mettersi al loro servizio.
Anche lui è in ascolto della parola di Dio: una Parola che passa attraverso la sua esperienza di fede,
l’esperienza di fede della comunità ecclesiale, ma anche attraverso i suoi interlocutori. Per questo
impara ad ascoltare, ad incoraggiare la libera espressione delle persone, a favorire l’ascolto della
Parola, a sostenere con pazienza e speranza il cammino di scoperta del messaggio cristiano. Questo
compito chiede al catechista quelle doti di umanità che gli permettono di essere affabile con tutti e
attento alle situazioni di ciascuno; gli chiede anche di accompagnare le persone con la preghiera.
Il catechista educa a far emergere le domande di fondo della vita: nell’annunciare il kérygma terrà
presente la finalità educativa che è quella di "costruire" l’uomo cristiano, che è completo nella sua
dimensione umana.
Sarà quindi necessario al catechista mettere in atto quelle iniziative che educhino a porsi
interrogativi, maturino una capacità critica di fronte ai vari progetti che l’ambiente propone, e
aprano alla trascendenza.
Al catechista compagno di viaggio, inoltre, dovrà essere familiare il mondo degli uomini in cui
vive. Attento ai segni dei tempi, capace di saperli leggere e interpretare, sarà aperto e sensibile ai
problemi, alla mentalità, ai modi di esprimersi dei suoi contemporanei.
Sarà un uomo del suo tempo, senza lasciarsi dominare dal suo tempo.
Saprà mettere il messaggio del Vangelo a contatto con la vita e la vita a contatto col messaggio.
Perché il catechista sia un vero compagno di viaggio occorre un equipaggiamento idoneo, cioè delle
doti che lo rendano tale:
occorre un cuore capace di accogliere e di stabilire legami di amicizia profonda;
occorre la capacità di dialogare, ascoltando l’altro e comunicando, allo stesso tempo, la propria
fede;
è necessaria la flessibilità nei confronti di ciascuno e di tutto il gruppo; flessibilità che si
concretizza nella capacità di adattarsi alla maturazione, alla vita, ai tempi e ai ritmi di cammino del
singolo e del gruppo;
è importante che il catechista faccia da tramite fra il suo gruppo e la comunità ecclesiale,
fortificando sempre più questo legame
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dote importantissima del catechista è la capacità di far sentire palpitante la vita di Cristo al centro
della comunità ecclesiale.
Sintetizziamo il ruolo di compagno di viaggio del catechista citando il n. 35 della Nota
sull’Iniziazione cristiana, pubblicata dal Consiglio Episcopale Permanente nel 2003:
Essenziale e insostituibile è il ministero del catechista accompagnatore. Egli è fratello nella
fede, che indica la strada e nello stesso tempo considera le forze e il ritmo di chi accompagna;
è testimone che, con le parole e con la vita, presenta il fascino esigente della sequela di Cristo;
è amico che accoglie, segue e introduce nella comunità. Egli si mette in ascolto delle domande
per comprenderle; valorizza la situazione della persona; aiuta a discernere i segni di
conversione.
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Il catechista è anche maestro:
è maestro nella fede;
comunica i contenuti della fede in modo organico e sistematico;
in quanto maestro è anche un buon narratore.
Il Maestro, nostro modello per eccellenza, è Gesù. L’attività principale di Gesù nei suoi tre anni di
vita pubblica è insegnare, ancor prima da operare guarigioni e fare ogni sorta di miracoli.
«Ogni giorno insegnava nel tempio» (Lc 19,47)
«Venuto nella sua patria insegnava nella loro sinagoga» (Mt 13, 54)
«Insegnava loro molte cose in parabole» (Mc 4,2)
«Quando ormai si era a metà della festa, Gesù salì al tempio e vi insegnava» (Gv 7,14)
«Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli, partì di là
per insegnare e predicare nelle loro città». (Mt 11,1)
«Di nuovo si mise a insegnare lungo il mare. E si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che
egli salì
su una barca
e là restò
seduto,
stando
mare,
lacifolla
era a terra
lungo
Dopo
la resurrezione
e l’ascesa
al cielo
di Gesù,
gli in
Atti
deglimentre
apostoli
testimoniano
come
gli la
riva».
(Mc
4,1
)
apostoli stessi insegnino come Gesù, al punto da suscitare irritazione e sdegno.
«Stavano ancora parlando al popolo, quando sopraggiunsero i sacerdoti, il capitano del
tempio e i sadducei, irritati per il fatto che essi insegnavano al popolo e annunziavano in
Gesù la risurrezione dai morti». (At 4, 1-2)
«E, richiamatili, ordinarono loro di non parlare assolutamente né di insegnare nel nome di
Gesù» (At 4,18).
Nella Chiesa primitiva il catechista era, innanzitutto, un maestro esperto nelle Scritture, che veniva
incaricato di preparare i catecumeni ai sacramenti dell'iniziazione cristiana. Nel Nuovo Testamento
il termine che indica sia l'azione di riferire, comunicare qualcosa, sia di istruire, ammaestrare,
quindi insegnare a qualcuno è espresso con katechéo. In particolare, Paolo usa il termine katechéo
esclusivamente col significato di «dare un insegnamento sul contenuto della fede», poiché la fede
viene dalla predicazione.
Il testo del Rinnovamento della catechesi al n. 187 dice che «la testimonianza specifica che il
catechista rende alla fede è quella dell’insegnamento» e ancora: il catechista è chiamato «a rendere
esplicita la ricchezza del mistero di Cristo, colta in modo globale, fin dall’inizio, nell’atto di fede.
Egli deve insegnare: deve far percepire e capire, per quanto è possibile, la realtà di Dio che si
rivela e si comunica».
Il ruolo di maestro che il catechista ha è un ruolo delicato e insostituibile:
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delicato perché impegna il catechista a creare nei catechizzandi una viva e matura mentalità
di fede, che sta alla base di ogni autentica vita cristiana;
- insostituibile perché il suo servizio non può essere svolto da altri nella Chiesa allo stesso
modo, a questo il catechista è stato chiamato da Dio.
Insegnando il catechista non parla in proprio, ma si fa eco dello Spirito Santo che parla
contemporaneamente in Lui e nelle persone a lui affidate nella catechesi.
È la qualità "spirituale" del suo insegnamento che lo distingue da ogni altro maestro, poiché il
catechista è "l’eco" dello Spirito Santo, suo mediatore e interprete, consapevole e convinto che "uno
solo è il Maestro, il Cristo" (cfr. Mt 23,8).
Ci esorta Giovanni Paolo II nella Catechesi Tradendae al n.6:
«La costante preoccupazione di ogni catechista - quale sia il livello delle sue responsabilità nella
Chiesa- deve essere quella di far passare, attraverso il proprio insegnamento e il proprio
comportamento, la dottrina e la vita di Gesù; Egli non cercherà di fermare su se stesso, sulle sue
opinioni e attitudini personali l’attenzione e l’adesione dell’intelligenza e del cuore di colui che
sta catechizzando; e, soprattutto, non cercherà di inculcare le sue opinioni e opzioni personali,
come se queste esprimessero la dottrina e le lezioni di vita del Cristo. Ogni catechista dovrebbe
applicare a se stesso la misteriosa parola di Gesù: La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi
ha mandato».
Il catechista deve essere un buon insegnante, capace di insegnare in modo corretto, interessante ed
efficace; capace di insegnare per la vita. Per questo deve prepararsi adeguatamente, deve formarsi,
deve conoscere, ad esempio, i documenti del Magistero, in modo speciale quelli che sono rivolti ai
catechisti.
Nel fare catechesi non si può improvvisare. Il catechista deve sapere il fatto suo: come una guida
esperta, conosce bene il suo compito. Ha acquisito i contenuti e li ha assorbiti in maniera personale,
originale, vitale: dunque anche in modo creativo. La creatività è propria di chi ama il servizio che
compie e soprattutto ama i ragazzi. Sa adattarsi ogni volta alla loro situazione, sapendo che ciò che
insegna non è un ripetere formule, ma trasmettere una verità che interpella e provoca.
Come un buon insegnante, oltre che studiare i testi, le guide e i sussidi, il catechista deve sedersi a
guardare i cartoni animati e i telefilm che i ragazzi vedono quotidianamente, interessarsi ai testi che
usano a scuola, ai loro giochi... Avrà tante cose da imparare su come esprimersi, su come creare
feeling tra il messaggio e i suoi ragazzi.
Ce lo conferma l’autorevolezza della Catechesi Tradendae, sempre al n. 187:
«Alla sua catechesi il catechista deve premettere un’accurata preparazione immediata, tutta orientata a
“come dire”, a “come insegnare” le realtà e le verità della fede, a “come far vedere” l’amore e l’opera
di salvezza delle divine Persone. Egli non può improvvisare, né tanto meno recitare una lezione; deve
impartire un insegnamento vivo, che lo renda interprete del colloquio di Dio con gli uomini».
Il catechista è anche un buon narrat ore. I ragazzi sono avidi di storie e il catechista deve
possedere l'arte di narrare, attingendo alla Bibbia, alle vite dei santi, alla storia della Chiesa, alla
realtà quotidiana, alla fantasia (pensiamo, ad esempio, alle stupende raccolte di racconti per uso
catechistico di Bruno Ferrero, ecc…). I ragazzi ricorderanno a lungo quei racconti.
Ancora una volta prendiamo come modello Gesù. Noi sappiamo che la gente lo ascoltava, lo
seguiva sulle sponde del lago di Tiberiade per ascoltare la sua parola:
«Cominciò di nuovo a insegnare lungo il mare. Si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che
egli, salito su una barca, si mise a sedere stando in mare, mentre tutta la folla era a terra lungo la
riva» (Mc 4,1);
non si accorgeva del tempo che passava e del sopraggiungere della sera senza aver mangiato:
«Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come
pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Essendosi ormai fatto tardi,
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gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congedali, in modo
che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare».
(Mc 6, 34-36)
Se riflettiamo sulla nostra vita ci rendiamo conto che la narrazione è alla base di tutta la nostra vita:
le tante storie che noi viviamo ogni giorno si riempiono di significato proprio quando le
raccontiamo ad altri! Ed è, in fondo, il modo per trovare un senso e un significato al nostro vissuto.
Gesù, quando voleva parlare alla folla e soprattutto ai suoi discepoli del regno di Dio, usava parlare
in parabole, con esempi tratti dalla vita di ogni giorno. Parlava di terra, di seme, di campo, di grano
ecc…Ora uso anch’io tre immagini, in relazione al raccontare nella catechesi:
il sale, un elemento che dà sapore. Noi dobbiamo raccontare per dare sapore, senso.
Se ci pensiamo la nostra vita è costruita su tanti episodi: il narrarli ci permette di rivisitarli e al
tempo stesso di trovare in essi un senso che li lega insieme: è il modo per dare sapore alla nostra
vita
la salvia, una pianta che lenisce, che allevia. Raccontare ha la funzione di sanare.
Le esperienze e i momenti difficili della vita, se condivisi, assumono una colorazione diversa e
tante volte il peso che sentiamo per certe situazioni, si allevia. Recuperare la nostra storia dolorosa
alla luce del Vangelo ha un effetto balsamico sulle ferite del nostro animo.
la chiave, che apre le porte. Raccontare per aprire alla speranza.
Raccontare significa anche rivedere il nostro passato sotto una luce diversa, aiuta a intravedere
nuove direzioni, ad aprire nuove porte che ci sembravano chiuse … In quest’ottica il Vangelo è
capace di dare senso al nostro passato, di curare il nostro presente e di aprirci al nostro futuro.
Il catechista, però, non è soltanto maestro, ma deve avere anche mente e cuore da educatore.Egli è
consapevole che per una azione educativa globale deve tenere presente tutte le esigenze della
crescita umana e cristiana dei catechizzandi.
L’essere educatore colora in modo inconfondibile e determinante la sua spiritualità. Egli si
preoccupa della maturazione integrale delle persone a lui affidate e il termine maturazione integrale
richiama sia la dimensione umana che la dimensione cristiana, pienamente integrate tra loro. Per
compiere adeguatamente la sua attività, il catechista deve essere un educatore maturo, dotato di un
buon equilibrio umano e cristiano.
Deve curare:
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l’attenzione agli altri;
la capacità di comprensione delle loro concrete situazioni;
la stima e il rispetto nei loro confronti;
la disponibilità all’aiuto, anche quando richiede sacrificio.
Infine, deve avere costantemente la precisa percezione di non essere il protagonista nella
educazione dei suoi catechizzandi alla fede. Egli è un umile strumento dello Spirito Santo che è il
vero educatore cristiano, ricordando quanto dice San Paolo:
«Ma che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e
ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio
che ha fatto crescere. Ora né chi pianta, né chi irrìga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere»
(1Cor 3, 5-7).
Concludiamo la nostra riflessione con le parole consolanti di papa Francesco che ci fa riflettere
sulla bellezza della nostra vocazione di catechisti:
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«Educare nella fede è bello! È forse la migliore eredità che noi possiamo dare: la fede! Educare
nella fede, perché essa cresca. Aiutare i bambini, i ragazzi, i giovani, gli adulti a conoscere e ad
amare sempre di più il Signore è una delle avventure educative più belle, si costruisce la Chiesa!»
(Incontro con i catechisti 27 settembre 2013).
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