“AVVENIRE DELL`UNIONE EUROPEA: RIFORMA E SOSTENIBILITA` ”

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“AVVENIRE DELL`UNIONE EUROPEA: RIFORMA E SOSTENIBILITA` ”
AESI
ASSOCIAZIONE EUROPEA DI STUDI INTERNAZIONALI
www.aesieuropa.eu
IN COLLABORAZIONE CON :
COMMISSIONE EUROPEA
Rappresentanza in Italia
CASD
Circolo Studi Diplomatici
SEMINARI DI STUDI EUROPEI PREPARATORI ALLE
CARRIERE INTERNAZIONALI E COMUNITARIE
“AVVENIRE DELL’UNIONE EUROPEA:
RIFORMA E SOSTENIBILITA’ ”
ANNO ACCADEMICO 2014/2015
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ANNO ACCADEMICO 2014/2015
PROGRAMMA
27 Gennaio 2015 - SALA DEL REFETTORIO – PALAZZO SAN MACUTO
PARLAMENTO ITALIANO
“AVVENIRE DELL’UNIONE EUROPEA: RIFORMA E SOSTENIBILITA’ ”
Saluto: Amb. Enrico Pietromarchi - Presidente On. AESI
Coordinatore: On. Giuseppe Azzaro – Comitato Scientifico AESI
Dott. Lucio Batistotti – Direttore Rappresentanza Commissione Europea in Italia
Amb. Luigi Mattiolo - Direttore Generale DGEU – MAE
Modera: Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI
Introduzione del Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI
L’avvenire dell’Europa è la riscoperta della finalità antropologica della politica, la quale
acquista autorevolezza solo se e nella misura in cui riscopra che il singolo cittadino non
può mai essere trattato come strumento, ma come fine dell’azione politica. L’AESI crede
che questo sia il punto dal quale si possa ripartire, soprattutto all’indomani delle recenti
elezioni europee, identificando l’obiettivo centrale di ogni agire dei cittadini e
soprattutto delle Istituzioni europee: la consapevolezza della tutela della dignità di ogni
persona umana e dal perseguire una politica che si occupi del bene comune.
Se ogni cittadino europeo potrà dare il proprio contributo personale all’affermazione di
questi valori nella propria società, vivendoli e promuovendoli nell’ambito della sua vita
di tutti i giorni, anche il futuro dell’intera Europa e delle sue Istituzioni risulterà più
chiaro. Si parla di responsabilità globale, di valori globali, ma senza questa personale
convinzione e la diretta conseguente promozione di giuste Istituzioni al servizio del bene
comune, non si potrà capire l’Europa che potrebbe divenire solo espressione di una vuota
macchina burocratica e di logiche di partito, fonte di continua delusione.
L’uomo vive un’esistenza autenticamente umana grazie alla cultura, alle sue radici
storiche e religiose. Grazie a questa sua memoria ed identità l’uomo diventa più uomo,
accede più intensamente all’essere che gli è proprio. Ma se si promuove solo una
radicale cultura giuridica positivistica per cui si legifera in contraddizione con i diritti
inviolabili della persona umana o si inneggia al benessere economico e allo sviluppo
tecnologico fini a se stessi senza alcun riferimento alla verità sui fondamenti morali,
giuridici e politici dell’agire degli Stati, come si potrà pretendere l’adesione dell’opinione
pubblica europea?
Magistralmente presentata e diffusa attraverso gli organi di informazione mediatica per
avere poi una vasta risonanza nell’agone politico, la nuova strategia è quella di una
esasperata “globalizzazione della competitività” dell’uno contro l’altro. Come ci si può
stupire allora quando molti cittadini europei, invece di guardare con interesse alla comune
casa europea, corrono dietro a nuove forme di rinascente nazionalismo che esacerbano la
vita civile creando rancori e divisione in nome di falsi ideali?
Purtroppo alcune divisioni ravvisabili nell’Europa di oggi, nel momento in cui si stanno
creando con grande sforzo i presupposti per un nuovo ordinamento comune che faciliti
l’integrazione tra gli Stati membri e si è impegnati in un programma da condividere a
favore della pace e della sicurezza comune, sono purtroppo fortemente influenzate da
schieramenti di “lobbies” politico finanziarie che controllano i mercati e prediligono i
profitti solo di alcuni escludendo la maggioranza, emarginando i più deboli e soprattutto
creando una profonda sfiducia delle nuove generazioni che rimangono senza sicurezza di
un lavoro e di una speranza nel futuro.
Esiste una verità sull’uomo che si impone al di là delle barriere di lingue e di culture
diverse. Si deve tenere presente in primo luogo che esiste, oggi più che mai, il pericolo di
un’alleanza tra democrazia e relativismo etico. Desideriamo ancora sottolinearlo con forza
come uno dei problemi centrali concernenti il futuro dell’Europa. La persona umana
rappresenta, infatti, il fine ultimo della società la quale è ad essa ordinata e deve rispettarne
la dignità e i diritti, diritti che sono anteriori alla società stessa e ad essa si impongono.
Essi sono il fondamento della legittimità morale di ogni autorità. Un potere politico che
rifiuti di riconoscerli nella propria legislazione positiva mette a repentaglio la propria
credibilità.
Intervento dell’On. Giuseppe Azzaro – Comitato Scientifico AESI
Se per stabilire i temi dei seminari dell’Aesi, il Comitato scientifico, si fosse riunito in
questi ultimi giorni anzichè qualche mese fa probabilmente avrebbe aggiunto al tema di
questo seminario un punto di domanda: Cioè: Invece di dire:”Avvenire
dell’Europa:riforme e sostenibilità” avrebbe detto.”L’Europa ha un avvenire?”
Gli avvenimenti di questi ultimi mesi, infatti, dalla crescita dei consensi elettorali ai
negatori di destra e di sinistra della validità dell’Unione Europea specialmente in paesi
fondamentali per essa come la Francia, (Marina Le Pen) l’Inghilterra e l’Italia( Matteo
Salvini), e da ieri la Grecia (Alexis Tsipras), alla difformità troppo marcata delle risposte
dei paesi dell’Unione agli avvenimenti internazionali, ed ancora i lunghi dibattiti che alla
fine hanno troppo condizionato le decisioni della Banca Centrale Europea di acquistare
titoli di Stato per il finanziamento della crescita economica dei paesi dell’eurozona,
dimostrano inequivocabilmente che la crisi delle istituzioni europee si è pericolosamente
aggravata e che la tendenza verso il tramonto della Unione ha subìto una altrettanto
pericolosa accelerazione.
E’ sbagliato far dipendere tutto ciò dalla crisi economica mondiale degli ultimi anni. Il
paese che l’ha provocata cioè gli Stati Uniti, un paese fra i più indebitati del mondo a
giudicare dal rapporto fra debito pubblico e Pil, ne sono usciti alla grande con una crescita
del loro Pil del sette per cento e il riassorbimento totale della disoccupazione mentre nei
Paesi europei, la disoccupazione specialmente dei giovani, dalla cui iniziativa dipende il
futuro dell’Europa, raggiunge picchi da capogiro.
Non so se, come e quando il meccanismo investimenti,maggiore occupazione,maggiori
consumi, si riavvierà. Probabilmente anche in Italia diventata più affidabile se vengono
realizzate le riforme su fisco, sul rapporto di lavoro e sul soffocante e sempre
imprevedibile intervento burocratico che provoca ritardi inaccettabili per un’impresa che
deve calcolare con esattezza perfino i giorni in cui deve cominciare a produrre, potremo
ragionevolmente sperare anche in investimenti ester..
Ma la crisi economica ha anche e soprattutto evidenziato che non basta una economia
prospera per rendere irreversibile l’unità europea. L’unione economica c’è stata ed ha
funzionato fino a quando le economie di quasi tutti i paesi andavano bene,ma quando è
scoppiata la crisi si è visto che era una unione più apparente che reale, si è visto, che
l’avere ognuno di quei paesi, non rispettando le regole, assicurato ai propri cittadini un
tenore di vita che la ricchezza prodotta non consentiva, si era creata una situazione
pressoché fallimentare il cui peso ricadeva in gran parte su quelli più virtuosi, i quali
hanno vigorosamente reagito condizionando il loro intervento salvifico al rispetto delle
regole. Si è visto,così, che la pretesa della piena sovranità nazionale che ha consentito una
politica fiscale sbarazzina,( vedi IMU),una spesa miliardaria per dotare l’esercito nazionale
di strumenti bellici sofisticati e costosissimi e di incerta utilità ( vedi aerei F,30). La causa
della crisi economica non sta quindi nella attività dell’Europa economica ma nell’assenza
dell’Europa politica. Il trattato di Lisbona che doveva introdurla non ha trovato, e non
poteva trovarla, concreta applicazione mentre le decisioni della Commissione dell’Unione
Europea disattese nella maggior parte dei casi nel sacro nome della sovranità nazionale,
hanno reso possibile politiche finanziarie ed economiche nazionalistiche: in altri termini è
mancata l’Europa politica il cui fondamento risiede nella presenza di un indirizzo politico
comune e vincolante stabilito da organismi democratici eletti dai cittadini europei;
insomma, non c’è avvenire democratico in Europa se non si infligge un colpo mortale al
concetto di piena sovranità nazionale almeno nei settori fondamentali della convivenza
nazionale. Cioè quello economico-finanziario, della difesa e della politica estera.
Abbiamo visto che dai paesi più gravati dal debito pubblico i vincoli di bilancio sono stati
considerati una sorta di intollerabile imposizione, La drastica ma non rifiutabile
imposizione per ottenere gli aiuti finanziari dell’Europa di rientrare dal debito ha causato
un regime di austerità che ha ridotto drasticamente i consumi con negative e inevitabili
conseguenze sull’intero comparto della produzione e del commercio. Il classico rimedio
peggiore del male!!
Adesso si naviga a vista con deroghe e compromessi che rallentano i benefici delle misure
per la crescita e così si continuerà chissà per quanti anni ancora. Non può e non deve
essere questo il solo prevedibile avvenire per un’Europa che è chiamata dai complessi
problemi di geopolitica a svolgere un ruolo fondamentale per la pace nel mondo.
Ve la immaginate un’Italia o una Germania o una Francia che da sole affrontano i
drammatici avvenimenti rivoluzionari che stanno cambiando fisionomia ai paesi del
Medio Oriente, e dell’Africa? Ovvero uno di questi paesi che da solo affronta le
conseguenze della crisi che affligge la Russia e l’Ucraina? Ovvero le pretese delle nuove
potenze mondiali quali la Cina, l’India e il Brasile che si preparano a irrompere sulla scena
mondiale per imporre agli altri gli oneri del loro sviluppo?
I paesi europei potranno sperare di mantenere la propria libertà solamente se resteranno
uniti. Ma questo è semplicemente impossibile quando nessuno di essi è disposto a cedere
un briciolo della sua sovranità nazionale che sarebbe in questo caso più giusto chiamare
egoismo nazionale.
Attualmente le istituzioni finanziarie europee, a cominciare dalla Banca Centrale Europea
non ha la forza necessaria per imporre una sua politica senza il consenso delle banche
nazionali, come anche gli avvenimenti finanziari di questi giorni stanno dimostrando,
mentre la FED. la Banca Centrale degli Stati Uniti d’America, non ha esitato un momento a
finanziare, e così a rilanciare le imprese americane colpite dalla crisi finanziaria da essi
stessi provocata.
Il Presidente degli Stati Uniti d’America è in grado di spostare il peso delle tasse dai ceti
medi ai ceti più ricchi ed in Europa manca persino un coordinamento fiscale che uniformi
la pressione fiscale elemento fondamentale per i bilanci delle imprese, e che contrasti in
modo serio ed efficace l’evasione o l’elusione.
I cittadini europei sono chiamati a mantenere 28 eserciti: ma a cosa serve mai un esercito
nazionale quando la situazione mondiale è negli ultimi decenni talmente mutata da far
ritenere imprevedibile per oggi e per il futuro una guerra tra singole nazioni così come è
accaduto nel secolo XIX e nei primi decenni del secolo scorso? In caso di aggressione
esterna ad uno di essi, sarebbero tutti i paesi europei a rintuzzare l’attacco. Ed allora non
sarebbe ovvio pensare ad un unico esercito europeo? Per quanto tempo ancora dovremo
contare per la nostra difesa sulla Nato, un organismo egemonizzato da potenze non
europee che condizionano, ovviamente, la scelta delle decisioni più convenienti per
l’Europa?
Ancora una volta salta agli occhi la necessità di un’Europa politica, di una Europa che
abbia organi democratici rappresentativi eletti dai cittadini europei con poteri legislativi
pieni e sostitutivi di quelli nazionali e un Governo in grado di assumere decisioni e
responsabilità piene almeno nel settore della finanza della difesa e della politica estera.
Ma a chi bisogna chiedere questa necessaria riforma, che rispettando la identità e
l’autonomia delle singole nazioni, crei un organismo democratico europeo eletto dai
cittadini europei che detti regole per esse vincolanti ?
Nel primo decennio di questo secolo abbiamo varato una Costituzione per l’Europa che
non fa di noi uno soggetto internazionale. Siamo solamente una Confederazione di Stati
sovrani che possono,ognuno, assumere decisioni difformi su argomenti decisivi: come
dimostra la clausola contenuta nella Costituzione di Lisbona la quale precisa che
l’introduzione del voto di maggioranza nella Commissione non riguarda i settori della
politica estera,della difesa e della fiscalità, cioè i settori fondamentali della vita di una
comunità:per questi settori, quindi,: è stata mantenuto l’obbligo dell’unanimità dei
consensi per ogni decisione, cioè il riconoscimento di un diritto di veto sulle decisioni
fondamentali. Non si tratta quindi di una federazione di Stati ma di un’addizione di Stati
che mantengono neanche scalfita la sovranità nazionale. Quale Stato esterno può a queste
condizioni ritenere affidabile l’Europa come tale? Ma allora a chi bisogna chiedere in tre
parole la nascita della Federazione degli Stati Uniti d’Europa, sul modello di altri Stati
federali, il primo fra tutti quello degli Stati Uniti d’America?
Pensare di chiederlo alla classe politica sarebbe fatica sprecata. I politici attualmente
nell’agone europeo, stando le cose così come sono state descritte, non possono che
difendere gli interessi dei cittadini che li hanno eletti, chiedere loro di rinunciare ad una
parte della sovranità nazionale, o meglio all’egoismo nazionale, sarebbe inutile. Essi sanno
infatti che se vogliono restare ai loro posti devono proteggere interessi anche contrastanti
con una politica europea comune, e se vogliono vincere le elezioni devono fare e
mantenere promesse anche per benefici che non possiamo permetterci: c’è bisogno di
ricordare che il centro destra nelle ultime elezioni politiche italiane restò partito
determinante per la formazione del governo promettendo e poi,imponendo, la abolizione
dell’IMU ? E che Alexis Tsipras ha vinto in Grecia le elezioni promettendo la fine
dell’austerità e la cancellazione del debito pubblico?
Sembrerebbe una situazione senza vie d’uscita. Ma poiché il peso politico dell’Europa
unita resta un elemento fondamentale per gli equilibri internazionali, avendo,specialmente
per questo, oltrepassato il punto di non ritorno, essa continuerà ad esistere pur nelle
attuali difficoltà e insufficienze, e naturalmente è il minor male!, E poiché non è
immaginabile che , come accade nei paesi in cui la democrazia ha perduto il suo slancio
vitale , che essa venga sostituita da forme di governo autocratiche,occorre che la soluzione
venga dal basso,cioè dai singoli cittadini europei che lo sono già in forza dei trattati ma
che non riescono ancora a percepire la loro appartenenza all’Europa come percepiscono
quella all’Italia. Occorre sentirsi allo stesso modo italiani ed europei, occorre uno spirito
europeista che ispiri gli stessi ideali e lo stesso affetto che per la mia patria,Sono italiano
ma allo stesso tempo ugualmente europeo: ho il diritto di scegliere la classe dirigente
europea sulla base di programmi proposti da raggruppamenti politici europei e di
concorrere alla formazione degli organi rappresentativi europei muniti di pieni poteri
scegliendone i rappresentanti nell’ambito dell’intero territorio europeo. A chi si può
chiedere di battersi per tutto questo se non che alle ultime generazioni, ai giovani che già
dimostrano di essere su questa strada? Ma quanto è difficile in questo campo uscire dalla
retorica del “siete la nostra speranza” ed essere invece credibili quando il 48 per cento di
essi è senza lavoro! e come si può pretendere di chiedere loro di lottare per l’avvenire
dell’Europa quando è tanto incerto il loro?. E tuttavia sono loro che più di tutti hanno
avvertito il vento possente del cambiamento e che cominciano a pensare ad istituzioni di
governo a dimensioni europee. Basta ascoltare gli studenti universitari che avendo vinto
un Erasmus studiano in una Università straniera per capire con quanta facilità si capiscono
e fraternizzano con studenti loro colleghi di altri paesi. Insomma occorre che si imbocchi
la strada di una rivoluzione pacifica che fondi un’Europa non condizionata dagli egoismi
nazionali. Senza di ciò il sogno di Un’Europa realmente unita e forte svanirà.
Ora immagino cosa qualcuno di voi e di quelli che stanno seduti insieme a me in questo
tavolo solenne stae pensando:. “ Ma guarda tu stò vecchietto: a novanta anni non finisce
ancora a sognare” Un sogno? Può darsi,ma cosa non darei perché esso diventasse anche il
vostro!
Intervento del Dott. Lucio Battistotti
Direttore della Rappresentanza in Italia della Commissione europea
LE SFIDE DI IERI E DI OGGI
1. EUROPA IERI
E' pensiero comune credere che i padri fondatori dell'Unione Europea fossero
rivoluzionari, che prima del tempo avessero visto i limiti dello Stato nazionale e capito la
necessità di superarlo per costruire in Europa un sistema di potere sovranazionale. In
realtà, il progetto da loro concepito mirava a far durare lo Stato nazionale su nuove basi
più che a eliminarlo.
Secondo la visione dei padri fondatori, il trasferimento parziale di alcune competenze
tecniche ad un'autorità sovranazionale avrebbe dovuto permettere ai nuovi governi
democratici di concentrarsi sul consolidamento della loro autorità, indebolita dalle
devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Il nuovo ordine europeo non avrebbe
dovuto toccare la vera sovranità degli Stati, ma facilitare quella ripresa economica che
sola avrebbe ridato alle popolazioni fiducia nelle autorità nazionali.
Era soprattutto la questione della sicurezza dei piccoli Stati a inquietare l'establishment
politico europeo, in particolar modo dinanzi alla minaccia sovietica. L'unica via in grado
di offrire prospettive per un radicale cambiamento nella continuità, era quella
dell'integrazione economica.
I sei paesi fondatori, pur nella comune devastazione post-conflitto mondiale, partivano da
situazioni differenti. L'Italia era un paese fortemente arretrato: più del 30% della
popolazione attiva era impiegata nell'agricoltura; la produzione industriale era ridotta a
un quarto rispetto al 1938; le importazioni industriali ammontavano al 57% del
fabbisogno. In Italia, la maggioranza della popolazione viveva nel centro-sud, i conflitti
sociali erano forti ed urgeva una riforma previdenziale e assistenziale.
In secondo luogo, serviva una spinta ideale, un orizzonte più lontano cui mirare.
Generazioni cresciute nell'esaltazione dell'appartenenza nazionale e addestrate a valori di
grandezza e di conquista erano orfane dei loro ideali patriottici. Gli europei dovevano
essere rieducati. Rieducati a una nuova appartenenza democratica e a sentirsi parte di un
progetto che superasse i vecchi Stati nazionali. Adenauer disse al suo governo: "la gente
ha bisogno di un'ideologia e questa può solo essere europea."
La modernità del pensiero politico dei padri fondatori risiede nella capacità di saper
trovare un piano comune di dialogo, dal quale partire per incontrarsi, discutere,
negoziare, con l’obiettivo ultimo della composizione di interessi contrastanti. Del resto su
questa idea, che può senz’altro essere definita rivoluzionaria, si basa quello che in gergo a
Bruxelles è chiamato “la méthode communautaire”.
Il metodo di governo comunitario riflette, infatti, le caratteristiche dell’Unione:
pluralismo, dialogo, mediazione e negoziato permanenti. La tutela delle diversità
permette di valorizzare il senso di appartenenza alla propria comunità locale e nazionale,
e di conciliarlo con il senso di appartenenza a una comunità più ampia e non esclusiva,
quella europea.
2. EUROPA OGGI
In un mondo percorso da sconvolgimenti geo-economici e geopolitici ed in una Europa
che non riesce ad uscire da una crisi economico-sociale che sta minando le basi del
consenso del progetto stesso di integrazione europea, diventa fondamentale ri-trovare le
radici stesse e le ragioni profonde di tale progetto.
Lo Stato nazione, uno Stato in cui i cittadini condividono linguaggio, cultura e valori, è
una creazione del XIX secolo. I filosofi greci ritenevano che lo Stato ideale fosse quello in
cui tutti i cittadini si conoscevano tra loro ed infatti Aristotele nella “Politica” afferma che
“l’esperienza ha dimostrato che è difficile, se non impossibile, che uno Stato popoloso sia
amministrato da buone leggi”.
L'Europa deve intervenire solo quando può apportare valore aggiunto. L'Unione europea
deve essere grande per le grandi cose e piccola per le piccole cose. Come ogni governo,
deve avere particolare cura della qualità e della quantità delle norme che emana, secondo
la massima di Montesquieu: "les lois inutiles affaiblissent les lois nécessaires". [le leggi inutili
indeboliscono le leggi necessarie].
3. LE DUE GRANDI SFIDE DI OGGI SONO:
3.1 LA CRISI ECONOMICA
Sette anni fa, il governo statunitense nazionalizzava Fannie Mae e FreddieMac e salvava
l'AIG. Nello stesso momento Lehman Brothers avviava la procedura fallimentare. Da
questi eventi scaturì la crisi finanziaria mondiale, trasformatasi poi in una crisi
economica senza precedenti e quindi in una crisi sociale dalle drammatiche ricadute
soprattutto per molti cittadini europei.
Decisioni devono essere prese sia sul piano economico che sul piano politico e ci
vogliono realizzazioni comuni concrete, affinché tutti i cittadini vedano che l'Europa ha
risolto o cerca di risolvere molti dei loro problemi.
Le misure concrete verso il rafforzamento della governance economica si articolano in
misure a breve, medio e lungo periodo e devono essere accompagnate da ulteriori
provvedimenti verso il consolidamento della legittimità e responsabilità democratiche.
Nel breve periodo, la priorità cruciale è il completamento dell'unione bancaria. Si tratta
di un punto essenziale per assicurare la stabilità finanziaria, ridurne la frammentazione e
ripristinare la normale erogazione di prestiti all'economia.
Nel medio termine (cioè entro il 2019), la Commissione si propone di:
 dotare l’Eurozona di una sostanziale capacità fiscale autonoma;
 rafforzare l’integrazione economica e di bilancio attraverso misure che
richiedono
una modifica dei Trattati, soprattutto con l’obiettivo di garantire che in
determinate
situazioni la politica di bilancio nazionale sia soggetta a un controllo collettivo,
muovendosi però al contempo verso una maggiore mutualizzazione dei rischi
economici e finanziari;
 creare un fondo di rimborso cui trasferire progressivamente il debito pubblico
eccessivo degli Stati membri, vincolando questa possibilità a un rigoroso rispetto
della disciplina fiscale;
 creare uno strumento obbligazionario sovrano a breve termine (con scadenza 12
anni) dell’intera Eurozona, le cui emissioni sostituiscano gradualmente quelle dei
titoli a breve scadenza dei diversi Stati membri.
Nel lungo termine, cioè dal 2019 bisognerà attuare le misure per un effettivo
completamento dell’UEM attraverso la realizzazione di una piena unione economica,
fiscale e bancaria.
L'Unione europea è portatrice di valori comuni che si ritrovano nelle norme politiche,
sociali ed economiche che fondano la nostra economia sociale di mercato. Essa è
promotrice dei diritti dei cittadini: protezione dei consumatori e diritto del lavoro, diritti
delle donne e rispetto delle minoranze, normativa ambientale e protezione dei dati e della
vita privata.
3.2 L'IMMIGRAZIONE
Tutti siamo testimoni delle tragedie che da anni si compiono nel Mediterraneo, al largo
delle nostre coste. Colpiscono uomini, donne e bambini, in fuga da guerre, povertà e
sfruttamento e in cerca di una vita migliore in Europa.
Secondo le stime dell’UNHEUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati)
nel 2014 risultano sbarcate più del doppio delle persone rispetto all’anno prima (nel 2013
erano stati circa 60.000) e sarebbero 1900 i morti nel Mediterraneo in 8 mesi.
Cifre che danno il senso di una situazione drammatica di fronte alla quale si è fatta
urgente una azione concertata a livello europeo per rafforzare le operazioni di ricerca e
di soccorso nel Mediterraneo e finalmente superare l’operazione Mare Nostrum, di
grande aiuto e valore ma pur sempre tutta e solo italiana.
Triton di Frontex (originariamente chiamata Frontex Plus) è il programma a guida Ue,
tramite Frontex l'agenzia europea di controllo delle frontiere, nato con l’obiettivo di tenere
controllate le frontiere nel mar Mediterraneo. A partire dal 1º novembre 2014 Triton ha
parzialmente sostituito l'Operazione italiana Mare nostrum nel presidio dei flussi di
migranti.
La nuova Commissione ha fatto della migrazione una delle sue 10 priorità, cito dal
documento “orientamenti politici” del Presidente Juncker : “Fornire assistenza a quanti
hanno dovuto abbandonare le loro case per cercare una vita migliore in Europa è un
dovere umanitario. Dobbiamo collaborare per fare in modo che situazioni come quella di
Lampedusa non si verifichino più. Allo stesso tempo, dobbiamo garantire la sicurezza
delle frontiere esterne dell'Europa e incoraggiare la migrazione legale di persone con le
competenze necessarie all'Europa e in grado di aiutarci ad affrontare meglio le sfide
demografiche.
Le misure che l'Unione Europea ha preso e intende prendere sono di ampio raggio e
trasversali, poiché le radici del problema della migrazione non nascono all'interno del
territorio europeo, ma nei Paesi di origine che sono in preda a guerre e in situazioni
economiche disperate
4. UN’ALTRA EUROPA?
Se accantonassimo il problema della moneta unica e della sua governance, si potrebbe
tentare di delineare anche una altra visione pragmatica e non fideistica dell’Europa!
Deleghiamo dunque alle Istituzioni europee i compiti in cui l’Unione ha dimostrato, nel
corso del lungo processo di integrazione, un evidente vantaggio comparato rispetto ai
singoli Stati membri.
 Al primo posto metterei sicuramente il ruolo dell’Euopa come faro di democrazia
e
rispetto dei diritti umani (rule of law).
 Al secondo posto il completamento del mercato unico: l’Europa ha favorito il
libero
scambio di beni e servizi e la libera circolazione delle persone.
 Al terzo posto inserirei una politica di difesa comune, che darebbe evidenti
vantaggi sia economici che di efficacia dell’intervento e potrebbe essere la base su
cui costruire anche una politica estera comune.
 La ricerca scientifica e l’Università costituiscono certamente un settore di
vantaggio
della dimensione europea rispetto a quella nazionale.
L’obiettivo di questa “altra Europa” di cui abbiamo l’obbligo di parlare non sarebbe più
quindi quello di creare un’Unione europea (che sembra piacere sempre meno ai cittadini
europei ed ai loro governanti), ma di farli prosperare nella diversità! (Uniti nella diversità
è del resto il motto dell’Unione!).
5. CONCLUSIONI
Sono convinto che sia ormai giunto il momento in cui la classe dirigente europea debba
trovare il coraggio di chiedere a se stessa ed ai propri cittadini: Che Europa vogliamo? E
per fare cosa?
E inoltre, quando avremo deciso che Europa vogliamo, dovremmo decidere come ci
vogliamo arrivare.
I vari percorsi hanno costi e benefici diversi ed è giusto che siano i cittadini a scegliere,
con cognizione di causa, quale strada preferiscono percorrere.
La mia generazione, guidata dai “grandi vecchi padri fondatori”, aveva fatto dell’Europa
un ideale oltre che una strada da percorrere. La strada scelta si sta rivelando assai difficile
ed è per tali ragioni che ho voluto tratteggiare anche “una altra Europa”.
Per quanto mi riguarda, rimango profondamente convinto che dai grandi uomini
fondatori del progetto europeo dobbiamo trarre l’insegnamento per costruire il futuro.
Nel corso tenuto al Collège de France nell'anno accademico 1944/1945, il grande storico
francese Lucien Febvre dà una splendida definizione dell'Europa: "L'Europa è una civiltà
che può consolidarsi ed espandersi solo a patto di non prevaricare le altre civiltà; quelle che la
compongono e quelle che ha di fronte. Lievito e fermento, non vincolo di egemonia e fonte di
dominio”.
Intervento dell’Amb. Luigi Mattiolo
Direttore Generale DGEU – Ministero Affari Esteri e Cooperazione Internazionale
• Ringrazio l’AESI per l’invito a questo importante seminario, il cui tema, l’avvenire
dell’Europa, è sempre di attualità. La costruzione europea, infatti, è un cantiere
aperto, che attraversa una fase difficile, in cui cause ed effetti si alimentano
reciprocamente: soluzioni istituzionali al di sotto delle esigenze; una crisi
economica dagli effetti asimmetrici e quindi divisiva; il montare di populismi e
risentimenti anti-europei in molti Paesi membri, che assumono in alcuni di essi
forza e dimensioni tali da profilare possibili “uscite” dalla moneta comune o dalla
stessa Unione.
• In tale contesto è spontaneo chiederci se una revisione, anche solo di alcune
disposizioni, dei Trattati istitutivi dell’Unione europea possa rappresentare la
soluzione per adattare la legislazione e le politiche europee alle nuove sfide. E’ un
dibattito che ha preso rinnovato vigore dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento
europeo nel maggio 2014, occasione in cui i cittadini hanno espresso a gran voce
forti aspettative di cambiamento, che devono trovare risposte adeguate da parte
delle Istituzioni dell’Unione così come dagli Stati membri.
• Tuttavia, dopo il fallimento della Costituzione europea e la difficoltosa entrata in
vigore al suo posto del Trattato di Lisbona l’opinione dominante in Europa è che la
stagione della revisione dei Trattati sia, almeno per i prossimi anni, conclusa,
perché nessun accordo – si ipotizza - passerebbe il vaglio dei referendum nazionali
o dei Parlamenti nazionali in uno o più Paesi membri.
• Eppure sono in molti ad essere convinti che per assicurare un futuro prospero
all’Europa le riforme siano indispensabili. E non mi riferisco soltanto alle riforme a
livello nazionale che alcuni Paesi hanno fatto qualche anno fa e che altri, tra cui
l’Italia, stanno portando avanti in questi giorni. Penso anche a riforme della
governance europea.
• E’ quindi forse il momento di ripensare al tabù associato alla revisione dei Trattati,
tenendo anche conto che il Trattato di Lisbona ci offre strumenti nuovi. Prima della
sua entrata in vigore esisteva una sola procedura di revisione che prevedeva la
convocazione obbligatoria di una Conferenza intergovernativa (CIG).
• Il Trattato di Lisbona ha, per un verso modificato la procedura di revisione
ordinaria (quella prevista per le modifiche più importanti come l’aumento o la
diminuzione delle competenze dell’Unione), di cui è stato rafforzato il carattere
democratico con la previsione di un più ampio coinvolgimento del Parlamento
europeo e dei Parlamenti nazionali.
• Per altro verso, il Trattato di Lisbona ha introdotto una procedura semplificata per
la revisione di determinate disposizioni, in materia di politiche e azioni interne
dell’Unione, dei Trattati, che permette di agire in maniera rapida e più “sotto
traccia”, anche se non va dimenticato, che, quale che sia la procedura seguita per
l’adozione dei progetti di revisione, essi entrano in vigore solo se approvati da tutti
gli Stati membri.
• Possiamo in alternativa operare delle riforme sfruttando tutto il potenziale ancora
inespresso del Trattato di Lisbona, che ha ridisegnato l’architettura istituzionale
dell’Unione definendo precise attribuzioni alle singole Istituzioni UE, riconoscendo
un ruolo importante ai Parlamenti nazionali e attribuendo diritto di iniziativa anche
ai singoli cittadini. Esso ha conferito maggiore legittimazione democratica alle sue
Istituzioni: pensiamo al nuovo metodo di votazione in Consiglio, o al controllo
dell’osservanza dei principi di sussidiarietà da parte dei Parlamenti nazionali
nell’esame dei progetti normativi dell’UE.
• In questa logica si è mossa l’Italia nel corso del semestre di Presidenza del Consiglio
appena concluso. Lungo tutto il 2013, ci siamo posti la domanda di come affrontare
il tema dell’avvenire dell’Europa nella preparazione del programma di Presidenza.
• Molto presto abbiamo deciso – a livello politico – di mettere la riforma dell’Europa
al centro del nostro programma, ma con l’esplicita precisazione che si sarebbe
trattato di esplorare gli spazi di riforma esistenti “all’interno dei Trattati vigenti”.
• E’ stata una scelta che, a mio modesto avviso, ha iniziato a dare risultati e,
soprattutto, ha posto le basi per una ripresa del processo di integrazione, lenta e
graduale, ma, io credo, saldamente impostata.
• Quali sono gli elementi essenziali di questa scelta pragmatica? Sostanzialmente due:
allineare il lavoro delle Istituzioni europee attorno a pochi obiettivi condivisi e il cui
impatto sia evidente per i cittadini di tutta Europa; e lavorare per migliorare il
funzionamento delle Istituzioni, all’interno delle regole esistenti.
• Sotto il primo aspetto - la chiara definizione di priorità e contenuti programmatici
di azione – vorrei ricordare che, nella delicata fase del rinnovo dei Vertici
istituzionali, questo obiettivo ha preceduto l’indicazione dei nomi, secondo un
approccio cui ha contribuito l’Italia, ancor prima dell’inizio del semestre di
presidenza italiana del Consiglio.
• Il Consiglio europeo di giugno 2014, dietro la spinta di alcuni leader tra i quali il
Presidente del Consiglio, ha adottato l’Agenda strategica per l’Unione in una fase di
cambiamento, che individua le aree prioritarie di azione per l’Unione per i
successivi 5 anni: economie più forti con più posti di lavoro; società in grado di
responsabilizzare e proteggere; un futuro energetico e climatico sicuro; uno spazio
comune di libertà sicurezza e giustizia; un’azione esterna efficace nel mondo.
• A luglio, ben prima che fossero designati i nuovi Commissari europei e che l’intero
collegio si insediasse il successivo 1 novembre, il Presidente designato della
Commissione europea Jean-Claude Juncker ha presentato al Parlamento europeo i
“Dieci Punti” del programma della nuova Commissione, che riprendevano e
approfondivano i temi dell’Agenda Strategica.
• Sul secondo aspetto, si è posta con maggiore urgenza l’esigenza di migliorare il
funzionamento delle istituzioni UE, soprattutto attraverso una più armoniosa ed
efficace collaborazione tra Parlamento, Consiglio e Commissione in materia
legislativa.
• Vorrei ricordare a questo riguardo il Gruppo di lavoro “Amici della Presidenza”,
istituito dal Consiglio Affari Generali su proposta della Presidenza di turno italiana,
allo scopo di condurre una disamina accurata degli attuali meccanismi di
funzionamento delle Istituzioni dell’Unione e individuare margini di
miglioramento. Il Gruppo ha presentato un rapporto conclusivo al CAG di
dicembre e le proposte da esso scaturite potranno realizzarsi compiutamente sotto
la presidenza di turno lettone.
• Un primo incoraggiante risultato del maggiore coordinamento inter-istituzionale è
stata la decisione del Presidente Juncker e del Primo Vice presidente della
Commissione Frans Timmermans di condividere e discutere, non solo con il
Parlamento europeo ma anche con il Consiglio, le intenzioni della Commissione
europea riguardo al programma di lavoro per il 2015. Una volta entrata a pieno
regime anche sotto forma di un accordo inter-istituzionale che dovrebbe essere
proposto dalla Commissione, questa nuova prassi sarà un’ulteriore garanzia di
rafforzamento di efficacia e legittimità democratica del processo legislativo
europeo.
• La composizione della nuova Commissione europea e la sua configurazione
rappresentano altrettanti segnali nella direzione di conferire maggiore efficacia al
funzionamento delle Istituzioni e maggiore legittimità democratica all’Unione,
anche attraverso una maggiore “politicizzazione” della Commissione per quanto
attiene la sua composizione, considerato il rilevante profilo pubblico della maggior
parte dei membri della Commissione Juncker (ex Capi di Governo, ex Vicepremier,
ex Ministri).
• Innanzitutto, la procedura “informale” - in quanto non codificata nei Trattati - ma
non per questo meno efficace che si è seguita lo scorso anno per la nomina del
Presidente della Commissione ha dotato di accresciuta legittimità democratica la
nuova Commissione europea. Come sappiamo, la designazione di Juncker è
•
•
•
•
•
scaturita dalla vittoria del PPE nelle elezioni del Parlamento europeo e dalla sua
indicazione da parte di quel partito quale candidato Presidente, in competizione
con i candidati scelti dagli altri principali Gruppi politici.
Successivamente, dal punto di vista operativo interno, l’organizzazione della
Commissione in project teams attribuisce ai Vicepresidenti un ruolo propulsore e di
coordinamento dei singoli portafogli raggruppati per materie omogenee. Al primo
Vicepresidente della Commissione sono state attribuite ampie responsabilità di
controllo e coordinamento su tutti i settori di attività della Commissione al fine di
garantire, fra l’altro, un efficace raccordo tra la Commissione europea e le altre
Istituzioni UE e di promuovere una nuova e più efficace partnership con i
Parlamenti nazionali.
In questo contesto merita di essere evidenziato il ruolo particolarmente rilevante
attribuito all’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di
sicurezza/Vicepresidente della Commissione. Si tratta di responsabilità, in linea con
il Trattato di Lisbona, in materia di coordinamento dell’insieme degli strumenti
dell’azione esterna dell’Unione e quindi non di sola guida della politica estera
dell'UE, che tuttavia avevano trovato un’attuazione solo marginale nella precedente
Commissione.
In tema di trasparenza, è da sottolineare l’impegno del presidente Juncker ad
improntare a una maggiore trasparenza il metodo di lavoro della Commissione
europea. In base a due decisioni adottate dalla Commissione, dal 1 dicembre scorso
i Commissari e i Direttori Generali dei servizi della Commissione sono tenuti a
pubblicare su internet i contatti e le riunioni tenute con organizzazioni professionali
o singoli individui in materie relative alla definizione e all’attuazione di decisioni
da parte dell’Unione europea.
Infine, ma non meno importante, per un Europa più integrata e vicina ai cittadini, è
il rispetto dello Stato di diritto (rule of law). Anche su questo punto la riflessione, in
corso già da qualche tempo, è significativamente avanzata affermando con
chiarezza l’importanza che il rispetto degli standard europei in materia di legalità e
diritti fondamentali formi oggetto di attenzione sul piano politico non solo quando
si discute di Paesi candidati all’adesione all’UE, ma anche per quanto concerne gli
sviluppi all’interno degli Stati che sono già membri dell’Unione.
Come risultato dell’iniziativa della Presidenza italiana, il Consiglio Affari Generali
di dicembre ha adottato conclusioni in base alle quali il Consiglio avvierà un
dialogo politico sul rispetto dello stato di diritto all’interno dell’UE da tenersi una
volta all’anno nell’ambito dello stesso Consiglio Affari Generali. Il Consiglio potrà
decidere di affrontare anche tematiche specifiche relative al rispetto dei valori
fondamentali all’interno dell’Unione, sulla base di un approccio inclusivo e non
discriminatorio, nel quadro dei Trattati vigenti e tenendo conto di dati ottenuti
dagli organismi europei competenti in questa materia.
• Questi, in sintesi, gli importanti sviluppi istituzionali degli scorsi mesi, ai quali
credo sia corretto dire che molto ha contribuito il lavoro della nostra Presidenza, il
cui obiettivo era ripreso nel titolo del nostro Programma di Presidenza: Europa, un
nuovo inizio.
• Missione compiuta? Personalmente vedo dei primi segnali promettenti, in primo
luogo sul fronte della politica economica: la messa la centro del dibattito europeo di
crescita e occupazione; il piano di investimenti presentato dalla Commissione
Juncker e approvato dal Consiglio europeo di dicembre; la riconsiderazione del
concetto di “rigore” nei conti pubblici, anche sulla base di una più ampia
interpretazione del concetto di “flessibilità” (che ha formato oggetto di una
comunicazione della Commissione); la decisione della BCE di dare avvio al tanto
atteso Quantitative Easing, sono tutti indicatori di una tendenza che l’Italia ha
sostenuto da tempo.
• In parallelo, mi sembra ci siano le premesse perché riparta il processo di
approfondimento dell’integrazione economica, in particolare in seno all’UEM, che
fino ad oggi si è concentrato, con importanti risultati, sull’Unione bancaria, che
possiamo dire si sia compiuta nel corso della Presidenza italiana: il Meccanismo di
vigilanza unico delle banche è operativo da novembre e sono stati rimossi gli ultimi
ostacoli all'attuazione del Meccanismo di risoluzione unico.
• Il tema della riforma dell’UEM è però più ampio dell’Unione Bancaria, ed è
fondamentale anche per la competitività di lungo periodo dell’Unione europea.
• Attendiamo quindi fiduciosi che sia dato nuovo impulso a questo processo col
prossimo Vertice di febbraio, proseguendo nel solco del Rapporto dei quattro
presidenti del 2012, che resta per noi la roadmap per l’integrazione, e che prevede le
fasi ulteriori verso l’Unione economica, fiscale e quindi politica.
• Vedremo, alla luce degli esiti del Vertice, quali pieghe prenderà questo importante
cantiere di riforma, che, verosimilmente, richiederà ad un certo punto di
riconsiderare il tema su cui ho esordito, ossia quello della riforma dei Trattati.
• In ogni caso, e anche se persistono alcune differenze di strategia tra gli Stati
membri, mi sembra che oggi ci siano le premesse per continuare a lavorare insieme
verso un’Unione più equa, responsabile, efficiente e quindi sostenibile.
17 Febbraio 2015 – VILLA MADAMA – CASALE ore 16.00
MINISTERO AFFARI ESTERI
“LA DIPLOMAZIA EUROPEA”
Saluti : Ministro Plen. Stefano Baldi – MAE
Prof. Massimo Caneva – Presidnete AESI
Coordinatore : Amb. Adriano Benedetti - Vice Presidente On. AESI
Amb. Laurence Argimon-Pistre – Capo Delegazione Unione Europea presso Santa Sede,
Ordine di Mala e le Organizzazioni delle Nazioni Unite
Amb. Sandro De Bernardin – Ambasciatore D’Italia
Modera: Dott. Alessandro Iachetta - Vice Direttore AESI
Introduzione del Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI
Si deve tenere presente in primo luogo che esiste, oggi più che mai, il pericolo di
un’alleanza tra democrazia e relativismo etico. Desideriamo ancora sottolinearlo con forza
come uno dei problemi centrali concernenti il futuro dell’Europa. La persona umana
rappresenta, infatti, il fine ultimo della società, la quale è ad essa ordinata e deve
rispettarne la dignità e i diritti, diritti che sono anteriori alla società stessa e ad essa si
impongono. Essi sono il fondamento della legittimità morale di ogni autorità. Un potere
politico che rifiuti di riconoscerli nella propria legislazione positiva mette a repentaglio la
propria credibilità.
Non viviamo in un mondo irrazionale privo di senso. Al contrario, vi è una logica morale
che illumina l’esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli.
La violenza sulla dignità umana ed i suoi inviolabili diritti, primo quello della vita, è
frutto sempre di una grave mancanza di prospettiva civile. Le scelte della pace e per la
pace non sono, come alcuni desiderano oggi erroneamente far credere alla comunità
internazionale, “scelte dei deboli e degli irresponsabili”. Scegliere la via della pace è
invece espressione di una politica lungimirante capace di grande comprensione della
realtà dell’uomo, della sua cultura, delle sue esigenze e dei suoi problemi.
L’uomo vive un’esistenza autenticamente umana grazie alla cultura, alle sue radici
storiche e religiose. Grazie a questa sua memoria ed identità l’uomo diventa più uomo,
accede più intensamente all’essere che gli è proprio. Ma se si promuove una cultura
giuridica positivistica per cui si legifera in contraddizione con i diritti inviolabili della
persona umana o si inneggia al benessere economico e allo sviluppo tecnologico fini a se
stessi senza alcun riferimento alla verità sui fondamenti morali, giuridici e politici
dell’agire degli Stati, come si potrà pretendere l’adesione dell’opinione pubblica europea?
L’AESI vede chiaramente che le lacerazioni che si stanno sperimentando in Europa oggi
sono piuttosto espressione di una più profonda crisi di identità e di valori condivisi. Una
crisi di identità che incrementa il numero degli scettici e favorisce i nemici
dell’Europa. Magistralmente presentata e diffusa attraverso gli organi di informazione
mediatica per avere poi una vasta risonanza nell’agone politico, la nuova strategia è
quella di una esasperata “globalizzazione della competitività” dell’uno contro l’altro.
Come ci si può stupire allora quando molti cittadini europei, invece di guardare con
interesse alla comune casa europea, corrono dietro a nuove forme di rinascente
nazionalismo che esacerbano la vita civile creando rancori e divisione in nome di falsi
ideali?
Si sta diffondendo in Europa una mentalità ispirata dal laicismo, ideologia che porta
gradualmente, in modo più o meno consapevole, alla restrizione della libertà religiosa fino
a promuovere il disprezzo o l'ignoranza dell'ambito religioso, relegando la fede alla sfera
privata e opponendosi alla sua espressione pubblica. Il laicismo non è un elemento di
neutralità che apre spazi di libertà a tutti: è un’ideologia che s’impone attraverso la politica
e che non concede spazio pubblico alla visione religiosa che corre il rischio di convertirsi
in qualcosa di puramente privato.
In contrapposizione col laicismo, tutt’altro discorso è la laicità. Essa, infatti, vuol dire per lo
Stato porsi in una posizione d’imparzialità, ma non d’indifferenza, nei confronti delle
varie confessioni religiose. In uno stato laico, chiunque può abbracciare o meno un credo
religioso, avendo poi la libertà di esplicarlo e testimoniarlo in tutti i settori della società
stessa, senza nulla imporre. Ne deriva che la laicità è un concetto pacifico; il laicismo è un
concetto controverso; la laicità è un principio ispiratore di dialogo; il laicismo è un
principio acceleratore di scontro; la laicità genera pluralismo; il laicismo genera
un’imposizione di un’idea; in altri termini, la laicità avalla molteplici convinzioni; il
laicismo monopolizza la società senza Dio.
L’avvenire dell’Europa è la riscoperta della finalità antropologica della politica, la quale
acquista autorevolezza solo se e nella misura in cui riscopra che il singolo cittadino non
può mai essere trattato come strumento, ma come fine dell’azione politica.
Intervento dell’Amb. Adriano Benedetti – Vice Presidente On AESI
I lavori del “forum” della scorsa settimana sono stati molto positivi grazie anche ad una
partecipazione numerosa, attenta ed attiva degli studenti. La chiara ed esauriente
presentazione dell’Ambasciatore Gianfranco Verderame ha offerto il necessario quadro
istituzionale e funzionale entro il quale si svolge la politica estera e di sicurezza
dell’Unione Europea, con i suoi limiti indubbi ma anche con le convergenze possibili che
hanno dato vita finora a risultati di non trascurabile importanza e che lasciano
intravvedere le potenzialità che certamente si dischiudono all’approfondimento
dell’integrazione in questo specifico settore. Da parte mia ho cercato di collocare la
vigente strumentazione di politica estera europea nel quadro dell’attuale, calamitosa
congiuntura internazionale: caratterizzata da pericoli, dislocazioni, sfide che, nel loro
interagire e nel loro impatto sull’Europa e gli Stati Uniti, si configurano come momenti
inediti e carichi di inquietanti scenari. In effetti la situazione internazionale si presenta con
un tasso di fluida conflittualità, segnatamente dall’angolo visuale degli interessi europei,
che non trova corrispettivi negli ultimi settant’anni.
L’equilibrio e la stessa pace nel continente europeo sono messi in dubbio. Le vicende
dell’Ucraina, se da un lato sottendono lontane e recenti responsabilità e insensibilità da
parte dell’Europa e degli Stati Uniti, dall’altro evidenziano una avventuristica aggressività
della Russia di Putin nei confronti dell’Occidente i cui obbiettivi ultimi non sono
facilmente decifrabili.
Il Medio Oriente, per altro verso, è in piena disintegrazione. I vecchi assetti imposti alla
fine della prima guerra mondiale sono saltati. Corre in tutto l’Islam arabo il vento della
disgregazione che si alimenta di una carenza fondamentale di legittimità non meno che
degli impulsi di una religione identitaria stravolta nella sua versione fondamentalista. Gli
effetti delle primavere arabe, in cui l’Occidente aveva posto tanta speranza, stanno
paradossalmente contribuendo in molti paesi ad accrescere il disordine e l’instabilità.
L’Europa (e l’Italia in particolare), destinazione di flussi crescenti e cospicui di richiedenti
l’asilo, comincia a sentire una pressione ostile immediatamente sulle sue frontiere
meridionali.
L’Africa sub-sahariana non è certo immune alle spinte dirompenti che provengono dal
nord e le relativamente recenti statualità faticano a reggere l’urto di forze eversive interne
ed esterne, mentre una vigorosa demografia e le aree non più sotto controllo sono l’origine
di consistenti ondate migratorie che alla fine cercano sbocco sul Mediterraneo.
L’Asia centrale, dopo la caduta dell’URSS, è teatro di dislocazioni di segno ambiguo, con
sullo sfondo due protagonisti territoriali dall’incerto destino, quali l’Afghanistan e il
Pakistan.
L’area del Pacifico orientale, infine, dove si concentra uno dei poli più dinamici e
produttivi dell’economia mondiale, registra segnali inequivocabili di una rivalità
crescente, per il dominio regionale ma in prospettiva mondiale, fra Cina e Stati Uniti. Allo
scontro fra motivazioni nazionalistiche e geopolitiche si oppongono, peraltro,
cointeressenze economiche e finanziarie stringenti che nutrono la speranza che la
razionalità permanga il paradigma di un conflitto che è ormai nei fatti.
Insomma, uno scenario mondiale dalle tinte fosche che non deve indurci, comunque, allo
scoramento: nella consapevolezza che in ogni epoca le nuove generazioni che si
affacciavano all’orizzonte della storia hanno conosciuto l’incertezza e lo sconcerto, una
analisi il più possibile disincantata della realtà ci deve essere, al contrario, di sprone per
un impegno personale che riesca a portare un contributo, per quanto minuscolo, alla
creazione di un mondo migliore e più sicuro.
Aldilà della ricorrente tentazione “spengleriana” sul futuro dell’Europa, credo che
rimanga il monito che si trae dall’insegnamento del grande storico inglese Arnold
Toynbee : le civiltà nascono, crescono e si sviluppano e poi decadono solo quando non
riescono a trovare una risposta adeguata alle sfide che la storia, nel suo incessante
movimento di idee, uomini, interessi e strutture, pone costantemente ad ogni aggregato
umano.
Di fronte alle legittime domande che, anche nel nostro dibattito odierno, affiorano sulla
congruenza delle procedure e dei dispositivi oggi esistenti nell’Unione Europea in materia
di politica estera e di sicurezza e sui modi per irrobustirli, mi permetto di sottolineare che
la nostra inquietudine rischia di sfiorare soltanto la superficie delle cose se non punta a
focalizzare l’attenzione sul contesto più ampio entro cui si situa l’attuale evoluzione della
costruzione europea.
Tale contesto è, a mio giudizio, contrassegnato dai seguenti aspetti: siamo giunti
probabilmente ad un “tornante” della storia. Il predominio incontrastato che nelle varie
fasi storiche, attraverso gli strumenti del pensiero, della tecnologia, dell’economia e della
capacità militare, ha goduto l’Occidente negli ultimi quattrocento anni, e soprattutto
l’Europa, gloria e principio motore dell’Occidente, è ormai giunto al suo limite estremo,
dopo aver “globalizzato” il mondo. Ha ormai perso di “forza propulsiva” e deve far
fronte all’emergere di nazioni che esso stesso ha sollecitato a crescere e a rafforzarsi. La
realtà mondiale sarà sempre più poliforme e l’Europa –non tanto gli Stati Uniti che tuttora
vivono sullo slancio della forza e della potenza – in lenta ma inevitabile introversione,
dovrà adattarsi a nuovi equilibri meno favorevoli. Per sopravvivere e trovare le risorse
per ritagliarsi un nuovo ruolo, ancorché ridimensionato, l’Europa deve ritrovare una
propria anima, una rinnovata vocazione. Ma è proprio qui che si palesa la drammatica
congiuntura storica: l’encefalogramma spirituale dell’Europa è praticamente piatto. Essa
si è consunta negli ultimi decenni fra consumismo ideologico, individualismo e
soggettivismo sfrenati, economicismo totalizzanti. Dove potrà rinvenire le energie per una
rinascita compatibile con i nuovi assetti? Qui forse si annida, inquietante, il nocciolo del
sopra richiamato paradigma di Arnold Toynbee.
Intervento dell’Amb. Sandro De Bernardin
Le varie definizioni di diplomazia che troviamo su Wikipidia fanno riferimento
soprattutto all’arte di trattare affari di politica internazionale per conto dello Stato,
all’insieme dei procedimenti attraverso i quali uno Stato mantiene le normali relazioni con
altri soggetti di diritto internazionale, e al complesso di persone e uffici di cui o Stato si
serve per svolgere tale attività.
Le definizioni tendono cioè a soffermarsi sulle PROCEDURE (ovvero sull’operare secondo
le regole del diritto internazionale) e sugli STRUMENTI (ovvero sul ruolo dei
funzionari/burocrati) della diplomazia, piuttosto che sull’elemento che a me sembra –
invece – il principale, ovvero gli OBIETTIVI da conseguire. Ne consegue che i fallimenti di
una diplomazia sono troppo spesso imputati all’inadeguatezza delle procedure o
all’insipienza dei burocrati, piuttosto che all’incapacità della politica di definire obiettivi
chiari e lungimiranti.
Se accettiamo di considerare le cose da quest’angolo visuale, l’azione diplomatica è
dunque qualificata e condizionata in primo luogo dalla capacità della politica di fornirle
adeguati indirizzi. Ciò vale anche per la diplomazia europea, con l’aggravante che l’azione
diplomatica europea è definita dal denominatore comune tra le visioni e gli interessi di
ventotto Stati membri. Allo stato, questo denominatore comune è piuttosto basso, e di
conseguenza gli obiettivi comuni europei risultano relativamente modesti, se non confusi.
A questo riguardo, vale la pena di soffermarsi sul linguaggio con cui l’art. 24.2 del Trattato
sull’Unione Europea definisce il livello d’ambizione della PESC: “l’Unione conduce,
stabilisce e attua una politica estera e di sicurezza comune fondata sullo sviluppo della reciproca
solidarietà politica degli Stati membri, sull’individuazione delle questioni di interesse generale e
sulla realizzazione di un livello sempre maggiore di convergenza delle azioni degli Stati membri”.
La parte operativa (la realizzazione) è qualificata dall’ultimo membro di frase (convergenza
delle azioni degli Stati membri). Da esso si desume che, allo stato, la politica estera europea
deve essere intesa come il “fascio” delle azioni di politica estera degli Stati membri: un
“fascio” (il più possibile coordinato) di azioni (da rendere il più possibile convergenti) che
restano in capo alla responsabilità dei governi nazionali e, dunque, alla dimensione
intergovernativa. Una dimensione per il cui superamento le condizioni non esistevano a
Lisbona nel 2007. né appaiono sussistere oggi.
Nella consapevolezza che il comun denominatore dei punti di vista dei Ventotto membri
rischia di risultare non sufficientemente significativo, fu istituita la posizione dell’Alto
Rappresentante. L’aspettativa di molti era che quest’ultimo non si limitasse ad interpretare
la linea comune e ad assicurarne l’armonizzazione con il lavoro della Commissione, ma
anche stimolasse un innalzamento della barra delle ambizioni della politica estera
europea. Un compito, quest’ultimo, che esige una particolare abilità dell’Alto
Rappresentante non solo nell’individuare gli interessi generali dell’Unione, ma anche nel
far convergere sulla sua “linea ambiziosa” il grosso della membership.
Nonostante tutte le difficoltà e le inadeguatezze (di cui è epitome la paralisi dell’Europa di
fronte alla crisi libica), s’impone la constatazione che la politica estera comune esiste,
allarga sempre più il suo ambito e rafforza sempre più i suoi strumenti. E’ evidente e
radicata in tutti i membri dell’Unione (anche i più recenti) l’aspirazione a raggiungere un
punto di “convergenza europea” anche laddove si parta da sensibilità e posizioni
nazionali diversissime. E, quando questa convergenza non si realizza, ciascuno risente il
fallimento come un vulnus all’interesse comune (e quindi anche proprio), un vulnus che si
cerca di circoscrivere subito e di rimediare quanto prima.
Insomma, tutti gli Stati membri hanno seriamente a cuore la PESC, vuoi per la convinzione
che l’Unione non possa prescindere da una robusta dimensione di politica esterna, vuoi
per l’interesse ad avvalersi dell’Unione quale “moltiplicatore di potenza”, vuoi per la
convenienza a giustificare con la posizione europea scelte di politica estera ostiche alla
propria opinione pubblica. E’ poi evidente come, anche nell’attuale situazione, la PESC
assicuri un valore aggiunto quale piattaforma di costante confronto e coordinamento delle
diverse posizioni nazionali, e quale premessa per il coinvolgimento di tutta l’Unione –
tramite l’Alto Rappresentante – in dinamiche (basti pensare al negoziato sul nucleare
iraniano) che altrimenti sarebbero rimaste appannaggio delle super-potenze.
Le sanzioni economiche sono lo strumento cui l’Unione fa, di preferenza, ricorso in
reazione alle crisi più gravi, dai Balcani all’Iran, dalla Siria alla Russia. Esse cavano
d’impaccio i governi europei, dai quali le opinioni pubbliche attendono reazioni energiche,
ma che non possono permettersi di contemplare interventi militari. E ormai si fa ricorso ad
esse “in automatico”, con riflesso quasi pavloviano. Gli Stati Maggiori sono stati criticati
perché tendono a prepararsi a combattere guerre uguali all’ultima, ma questa critica
potrebbe essere rivolta anche alla diplomazia dei fori multilaterali. Con tempi di reazione
necessariamente stretti e con l’esigenza di trovare consenso tra un numero crescente
d’interlocutori, la cosa meno complicata risulta rifarsi ai precedenti. Così, per fronteggiare
la crisi in atto si rispolvera la ricetta usata per la crisi trascorsa, che a sua volta era mutuata
dalla precedente. Certo, la gamma delle possibili opzioni non è amplissima e c’è l’assillo
politico di “fare presto qualche cosa”. Ma ben più approfondita dovrebbe essere la
riflessione preliminare: sulla corrispondenza tra la situazione in esame e i precedenti cui ci
vuole rifare, sugli effetti a medio e lungo termine di certe decisioni, e sulla loro incidenza
sulla popolazione civile piuttosto che sul regime reprobo.
L’aforisma napoleonico secondo cui l’argent fait la guerre può ben essere richiamato per
sottolineare che l’argent fait la PESC. Il bilancio della PESC si articola in cinque grandi voci:
operazioni di gestione delle crisi (che nel 2013 hanno assorbito quasi l’80%), sostegno a
disarmo e non-proliferazione (quasi 5%), interventi d’emergenza (quasi 9%), attività
preparatorie e di chiusura (2%), attività dei Rappresentanti Speciali dell’Unione (5%). Ma
esso costituisce solo una piccola percentuale – attualmente circa il 4% - della somma
globalmente stanziata per le attività esterne dell’Unione, le cui poste più consistenti
riguardano la Politica di Vicinato, lo Strumento di Cooperazione allo Sviluppo e l’Aiuto
Umanitario (nel 2013 il finanziamento PESC è stato di 396 Meuro su un totale di 9.600, nel
2014 è di 314,5 su 8.500). Le prospettive finanziarie 2014-2020 contemplano un trend di, sia
pure modesto, aumento in termini reali delle risorse per la PESC, che alla fine del settennio
dovrebbero raggiungere i 354,5 Meuro.
Cruciale resta, evidentemente, che la politica estera europea possa contare sull’uso
sinergico e tempestivo degli strumenti finanziari gestiti dalla Commissione. La decisione
di Federica Mogherini di trasferire l’Ufficio dell’Alto Rappresentante dal Justus Lipsius a
Berlaymont lasciano ben sperare circa la determinazione con cui ella intende esercitare il
coordinamento a questo riguardo.
Accenno appena alla questione, pur rilevante, del “controllo democratico” della
diplomazia europea. E’ chiaro che – dato il carattere intergovernativo della politica estera
comune – nel contesto europeo non si possono applicare tali e quali i meccanismi che
assicurano il controllo parlamentare sulla politica estera dei governi nazionali. Comunque,
il controllo finanziario del parlamento Europeo sulla PESC costituisce già un importante
leverage.
Concludendo: che cosa si può fare per assicurare un’azione diplomatica europea più
adeguata a fronteggiare le sfide del presente ?
In primo luogo – direi – l’Unione Europea deve recuperare la sua ambizione
d’integrazione (la politica estera comune non può essere la premessa, ma soltanto la
conseguenza dell’integrazione politica) e un suo “pensiero forte”, anche a costo di finire
per articolarsi in centri concentrici caratterizzati da diversi gradi di coesione.
Secondo: le élites politiche europee devono procedere rapidamente ad un adeguamento
culturale, che consenta loro di “leggere” e comprendere meglio la natura e la portata delle
nuove sfide (penso con preoccupazione, ad esempio, alla troppo approssimativa
conoscenza che gli europei in genere hanno dell’Islam).
Terzo: è necessario che l’Alto Rappresentante “voli alto”. Ciò dipenderà molto dalla buona
volontà dei governi dei Ventotto, ma anche dal grado di prestigio che la sua persona
riuscirà a conquistarsi sul campo con iniziative avvedute e lungimiranti.
Intervento del Dott. Alessandro Iachetta - Vice Direttore AESI
Nel trattare la tematica odierna ho intenzione di porre qualche spunto di riflessione in
ordine generale dal punto di vista politico ed economico.
Dopo una accurata descrizione sui meccanismi europei in tema di diplomazia ed
analizzate le modifiche introdotte dal trattato di Lisbona, ci poniamo degli interrogativi
sull’efficacia e sull’impatto che queste riforme hanno portato nel contesto internazionale.
Obiettivo dell’Unione Europea è sempre stato quello di includere gli stati in un mondo in
cui le loro dimensioni e livelli di potenza sono diventati troppo ridotti per consentire loro
di essere degli attori effettivi nel palcoscenico internazionale. Nonostante questo si può
constatare come nonostante i grandi numeri della diplomazia europea, questa non riesca a
prescindere dalle istituzioni statali nell’esercitare la sua azione nel campo della politica
estera. Questo fenomeno è evidenziato ancora di più dalle recenti crisi in Ucraina ed in
Libia, dove l’Unione Europea ha affidato il compito di essere rappresentata da esponenti
di singoli stati in base ai loro rapporti diplomatici. Questa soluzione seppur politicamente
utile e diretta, evidenzia come le stesse istituzioni europee non riescano ad intervenire
prontamente in uno scenario di crisi, affidandosi all’operato dei paesi leader in Europa.
Sembra peculiare constatare come per anni l’Unione Europea sia stata l’obiettivo delle
singole politiche estere degli Stati fino alla sua realizzazione, mentre adesso questa
necessiti dell’autorevolezza delle diplomazie statali per dar voce e credibilità ai suoi
interessi.
Altro punto interessante che mi preme sottolineare è lo stato della “diplomazia
economica” europea che si pone l’obiettivo di difendere gli interessi economici comuni sul
mercato globale.
Principalmente quindi si parla delle politiche di vicinato che nonostante gli ingenti fondi
devoluti in circa 20 anni, sono riuscite solo parzialmente nel loro intento ovvero “favorire
l’esistenza di un cerchio di paesi ben governati ad Est dell’UE e lungo il Mediterraneo con cui
intrattenere rapporti stretti e cooperativi” (Cit. Obiettivo Strategico 2003).
La programmazione più recente di politica di vicinato, segnata dalla primavera araba,
delinea gli orientamenti da tenere nel periodo 2014-2020.
In questa vi sono state apportate rilevanti modifiche alla programmazione precedente:
oltre ad una semplificazione amministrativa e a uno snellimento del percorso
programmatorio, invocate peraltro anche per la Politica di Coesione che regolamenta i
Fondi Strutturali, l’aspetto più importante è dato dall’introduzione del principio more for
more. Ciò significa che il sostegno comunitario sarà condizionato agli effettivi progressi
compiuti dai paesi vicini nell’istituire e consolidare la democrazia nonché nel rispetto
dello Stato di Diritto.
Fortunatamente, non si definisce un modello democratico di riferimento ma si richiamano
alcuni indicatori di contesto: elezioni libere ed eque; libertà di associazione, di espressione,
di riunione e di stampa; indipendenza della magistratura e diritto al giusto processo; lotta
alla corruzione e riforma del settore della sicurezza e democratizzazione delle forze
armate e di polizia.
Nonostante gli sforzi sembra tuttavia che i recenti fenomeni di instabilità presenti nelle
aree previste dalla politica di vicinato minino de facto il successo dell’operazione politica
europea.
In conclusione, le istituzioni europee avranno sempre in parte bisogno dell’autorevolezza
degli Stati membri, ma questi non devono cadere in tentazione di dettare la linea politica
da seguire nella diramazione delle controversie internazionali. L’Unione Europea deve
avere il coraggio di fare un passo in avanti e rivestire quel ruolo che sia i padri fondatori,
che i trattati istitutivi e soprattutto gli altri stati della Comunità Internazionale vedono in
lei, ovvero quello di prima protagonista nel contesto internazionale.
FORUM AESI
RAPPRESENTANZA DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN ITALIA
SALA NATALI 10 Febbraio 2015
Intervento dell’Amb. Giovan Battista Verderame – Comitato Scientifico AESI
LA DIPLOMAZIA EUROPEA
Parlare di diplomazia europea significa parlare di politica estera europea. La diplomazia è
lo strumento attraverso il quale si esplica la politica estera di un Paese, ed è evidente che in
tanto esiste la diplomazia in quanto esiste una entità che intrattiene rapporti con altre
entità all’interno di un universo di relazioni.
Ma parlare di politica estera non è come parlare di una qualunque altra politica interna. Le
politiche settoriali hanno ciascuna un campo definito all’interno del quale si esplicano: la
politica agricola si occupa dello sviluppo dell’agricoltura, quella industriale dello sviluppo
del sistema produttivo, quella della ricerca dello sviluppo dello sviluppo della ricerca e
così via.
Non è così per la politica estera, che è il risultato della collocazione complessiva di un
Paese sulla scena internazionale. E quest’ultima è a sua volta il risultato della somma di
tutti i fattori interni, di ordine economico, sociale, culturale, che concorrono a definire la
sostanza stessa di un Paese ed a delimitarne il perimetro degli interessi. Ecco perché la
politica estera è intimamente ed inestricabilmente legata al concetto di sovranità nazionale,
ed è difficile concepirla al di fuori di questo ambito.
Se trasportiamo queste categorie sul piano europeo, ci accorgiamo subito che ci sono delle
importanti differenze. L’Unione Europea non è uno Stato in senso classico. Dopo il
Trattato di Lisbona essa ha una propria personalità giuridica anche sul piano
internazionale, ma non ha una propria autonoma sovranità. La sua “sovranità” le deriva
dalle quote di sovranità nazionale che gli Stati membri hanno deciso di mettere in comune
e di esercitare attraverso un complesso di Istituzioni create allo scopo. Ci sono settori in
cui questo trasferimento di sovranità è andato molto avanti, come per esempio quelli
“comunitari” in senso classico e da ultimo quello dell’Unione Economica e Monetaria,
dove gli Stati hanno rinunciato ad esercitare singolarmente la sovranità monetaria,
attribuendola ad un Organismo centrale, la Banca Centrale Europea appunto, del tutto
autonoma rispetto agli Stati che l’hanno creata. Ce ne sono altri in cui questo processo è
ancora molto embrionale, e sono soprattutto quello della Politica Estera e quello della
Difesa.
Ripercorrere tutto il processo che ha portato alla attuale configurazione della Politica
Estera europea sarebbe troppo lungo. Basti ricordare che l’originario meccanismo
esclusivamente intergovernativo della Cooperazione Politica Europea degli anni 70/80 ,
attraverso le tappe dell’Atto Unico e dei Trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza, si è
andata trasformando nell’attuale struttura del Trattato di Lisbona nella quale si riflette
quella che può essere definita una sorta di “contaminazione” tra il metodo puramente
intergovernativo, e quello sovranazionale che è proprio dell’ambito comunitario
propriamente detto.
Intendiamoci, la struttura resta sostanzialmente intergovernativa: al suo culmine, il
Consiglio Europeo – e cioè i rappresentanti al massimo livello degli Stati membri –
individua gli interessi strategici dell’Unione e fissa gli obiettivi e gli orientamenti generali,
mentre il processo decisionale continua ad essere retto dall’unanimità. E tuttavia,
l’evoluzione strutturale della PESC dimostra che tra metodo sovranazionale e metodo
intergovernativo vi è stato un processo di contaminazione, con l’intergovernativo che è
andato progressivamente, anche se ancora molto parzialmente, assumendo taluni caratteri
propri del metodo sovranazionale. Le tappe principali di questo processo sono consistite
sostanzialmente:
-
nel progressivo irrobustimento degli strumenti comuni: dalle “dichiarazioni” che
costituivano la principale attività della CPE si è passati alle ben più impegnative e
complesse “azioni comuni” condotte con risorse sia civili che militari: ed è questa
una delle caratteristiche che rendono le azioni condotte in ambito PESC
particolarmente adatte ad affrontare una ampia serie di situazioni, dal peace
keeping al peace enforcing fino all’institutional building. Oggi la azioni in corso
dell’Unione sono 16, divise nei principali scacchieri di crisi;
-
nel rafforzamento dell’Alto Rappresentante come figura dotata di autonoma
capacità di influenza sia nella fase preparatoria, con la possibilità di presentare
proposte al Consiglio Europeo e con l’esercizio della presidenza dei gruppi tecnici
del Consiglio attraverso il SEAE e, personalmente, del Consiglio Affari Esteri, sia
nella fase deliberativa, dove sulle sue proposte, quando formulate su richiesta del
Consiglio Europeo, il Consiglio decide a maggioranza. Si tratta di una significativa
eccezione al principio dell’unanimità nelle deliberazioni del Consiglio che
conferisce all’Alto Rappresentante un importante potere di indirizzo e di influenza
sul Consiglio stesso
-
nel temperamento della regola dell’unanimità (il Consiglio decide a maggioranza
qualificata quando agisce all’interno delle priorità definite dal Consiglio Europeo e
quando adotta decisioni di attuazioni di azioni già definite) e l’introduzione di
meccanismi di flessibilità quali le “cooperazioni rafforzate” o la possibilità di
affidare ad un solo Stato una determinata azione di politica estera o, infine, le
“cooperazioni strutturate permanenti” tra Paesi che desiderano assumersi impegni
più stringenti nel settore della difesa;
-
nella “comunitarizzazione” del bilancio, con i poteri che da ciò sono conseguiti
anche in questo settore per il Parlamento Europeo,
-
nel raccordo più organico con il controllo democratico del Parlamento Europeo
attraverso procedure di informazione che il Parlamento stesso ha tutto l’interesse, e
l’intenzione, di rendere per quanto possibile stringenti: ed è stato questo uno degli
aspetti più qualificanti sui quali l’Alto Rappresentante Federica Mogherini ha
dovuto, nel corso delle audizioni, rassicurare il Parlamento;
-
nell’affermazione del principio della coerenza fra i vari ambiti in cui si manifesta
l’azione esterna dell’Unione e nella sua realizzazione attraverso lo stretto
collegamento tra l’Alto Rappresentante e la Commissione. Collegamento che, è
bene ricordarlo, rende anche l’Alto Rappresentante soggetto responsabile dinanzi al
Parlamento Europeo attraverso la fiducia individuale e collettiva che l’Assemblea
esprime nei confronti delle Commissione e dei suoi componenti.
Da questo punto di vista, sembra potersi dire che si è assistito anche nel settore della
politica estera e di sicurezza comune ad un processo di “istituzionalizzazione”, pur se
adattato alle specificità del settore al quale si applica, ed ancora molto parziale ed
imperfetto.
Si mettono spesso in evidenza le difficoltà dell’Unione di esprimere linee condivise di
politica estera e di esercitare un ruolo di primo piano di fronte alla ricorrenti crisi
internazionali. Senza voler risalire troppo in là nel tempo, episodi recenti come le
divisioni europee sulla Libia o le esitazioni su come affrontare la crisi ucraina anche e
soprattutto nei cruciali rapporti con la Russia e, da ultimo l’avanzata integralista in Medio
Oriente, sono portati a testimonianza del fatto che i Paesi dell’Unione sarebbero
sopratutto interessati a difendere e far prevalere i propri (percepiti) interessi nazionali
piuttosto che contribuire a far emergere e realizzare l’interesse comune europeo. Ed anche
nel settore della difesa si è dovuto attendere sino al Consiglio Europeo dello scorso
dicembre per avviare il discorso sugli obbiettivi in fondo meno potenzialmente
“controversial” di come superare la frammentazione dei mercati, accrescere la
interoperabilità delle forze e rafforzare l’industria europea della difesa.
Non che la messa in comune della sovranità degli altri settori sia stata facile: tutta
l’esperienza comunitaria dimostra quanto il “demone” degli interessi nazionali si possa
nascondere nelle pieghe anche di politiche apparentemente “tecniche”. Ed anche quando il
trasferimento di sovranità ha riguardato uno degli elementi costitutivi della sovranità
nazionale (la moneta), le politiche economiche e fiscali sono state trattenute nella sfera
delle competenze nazionali. E quando i limiti di questa costruzione sono diventati
evidenti a partire dalla crisi finanziaria del 2008, ed il coordinamento fra le politiche
economiche è stato reso più stringente con l’attribuzione alla Commissione di strumenti
più incisivi per vegliare sulla sua effettiva realizzazione da parte degli Stati, è diventato al
tempo stesso più “pervasivo” il ruolo del Consiglio Europeo come supremo organo
politico di indirizzo, in un rapporto spesso difficile con la Commissione, spesso chiamata
a “mettere in musica” quello che il Consiglio Europeo le chiede di fare.
L’approccio funzionalista classico al quale si erano ispirati, almeno in una prima fase, i
“Padri Fondatori”, che preconizzava una sorta di quasi automatismo nel superamento
della sovranità nazionale a partire da piccole e progressive cessioni di sovranità ad
istituzioni comuni, non si è realizzato completamente. Si è invece andata consolidando
una struttura complessa, nella quale le due componenti del processo di integrazione –
quella nazionale che si esprime soprattutto nel Consiglio Europeo, e quella sopranazionale
incarnata dal Parlamento Europeo e dalla Commissione – danno vita ad una sorta di
“processo decisionale collettivo” nel quale la capacità di produrre risultati più o meno
aderenti all’interesse collettivo dipende dall’equilibrio che le due componenti riescono
ad esprimere.
E ciò che vale per il comunitario in senso stretto vale, a maggior ragione, per la politica
estera che, come abbiamo visto precedentemente, è uno dei settori della vita degli Stati
maggiormente e più intimamente legato al concetto di sovranità nazionale e nella quale il
peso del fattore “emotivo” è molto forte e la considerazione dell’interesse di lungo
periodo, che dovrebbe spingere verso l’unione, spesso cede il passo a visioni di orizzonte
più limitato.
Tuttavia il cammino che è stato fatto dagli esordi della CPE ha prodotto risultati di
straordinaria importanza.
L’Unione, come abbiamo visto, esprime un numero significativo di operazioni all’estero,
sia civili che militari condotte nell’ambito della PESC/PESD; è parte dei principali fori di
concertazione internazionale; svolge un ruolo molto profilato nel settore della difesa e
della promozione dei diritti umani; ha recuperato un ruolo significativo nei Balcani; è il
principale donatore mondiale di aiuti allo sviluppo e continua a rappresentare un punto di
riferimento per molti Paesi ( e le vicende ucraine ne sono la testimonianza più recente).
Con il Trattato di Lisbona, la coerenza orizzontale tra le varie articolazioni che
contribuiscono alla proiezione esterna dell’Unione Europea è certamente migliorata, così
come sono aumentati i punti di contatto tra l’intergovernativo ed il sovranazionale anche
nella PESC. La coerenza verticale, cioè quella nei rapporti fra l’Unione e gli Stati membri, è
tutt’altra cosa: e l’armamentario istituzionale può amplificare la volontà politica, ma non
supplire alla sua mancanza.
Il continuo adeguamento del quadro istituzionale e procedurale ha offerto ed offre ampi
margini di ulteriore crescita: spetta ai responsabili delle nuove strutture ( ed in particolare
all’Alto Rappresentante ed al Presidente del Consiglio Europeo) saperli cogliere ed
esplicare la visione e l’autorevolezza necessarie per svolgere l’azione di stimolo che nel
quadro più propriamente comunitario hanno esercitato la Commissione e il Parlamento
Europeo.
La possibilità per l’Alto Rappresentante di esercitare pienamente il significativo ruolo che
gli attribuiscono i Trattati chiama in causa, da una parte, la sua capacità di instaurare un
rapporto di sufficiente autonomia rispetto alle istanze intergovernative della PESC, e
soprattutto il Consiglio europeo, e dall’altra la sua collocazione sostanziale (non solo,
quindi, istituzionale) all’interno della Commissione per il concreto esercizio della funzione
di coordinamento di tutti gli aspetti dell’azione dell’Esecutivo comunitario che hanno
rilevanza esterna. Certo, l’Alto Rappresentante non potrà assorbire le competenze esterne
attualmente esercitate tra vari Commissari ( non fosse altro perché ciò renderebbe
impossibile il compito del Presidente della Commissione di distribuire i portafogli tra i –
troppo – numerosi membri del Collegio), né potrà pretendere di farsi assegnare le loro
risorse finanziarie. Basti considerare, a questo proposito, che il bilancio della PESC
rappresenta solo il 4% circa della somma globalmente stanziata per le attività esterne
dell’Unione, tra le quali la Politica di Vicinato, la Cooperazione allo sviluppo e l’Aiuto
umanitario.
Ma proprio per questo, senza la possibilità di esercitare un vero coordinamento
dell’azione degli altri Commissari in materie comunque attinenti alla proiezione esterna
dell’Unione ( e spesso, come nel caso della Politica di vicinato, parte integrante di tale
proiezione, sì che ci sarebbe da chiedersi se l’attribuzione di questa competenza ad un
altro membro della Commissione abbia veramente un senso e se sia saggio accorparla a
quella per l’allargamento, quasi a rafforzare la percezione – che tanto negativamente ha
giocato nella crisi ucraina - che l’una costituisca l’anticamera dell’altra ), la funzione
dell’Alto Rappresentante rischierebbe di ridursi a quella di una figura priva di contenuto
concreto, e la sua autorevolezza nei confronti del Consiglio ne risulterebbe compromessa.
Il nuovo Presidente della Commissione Junker ha introdotto nei metodi di lavoro del
Collegio dei Commissari lo strumento dei gruppi di lavoro presieduti e coordinati da un
Vice Presidente. Quello coordinato dall’Alto Rappresentante è composto dai Commissari
al commercio, all’energia, all’aiuto umanitario , all’allargamento e alla politica di vicinato,
alla cooperazione internazione allo sviluppo, alle migrazioni ed agli affari interni ed ai
trasporti. Lo strumento, quindi, c’è: ed è anche sulla sua capacità di avvalersene
concretamente che si misureranno le qualità del nuovo Alto Rappresentante.
Papers Studenti AESI :
Paper del Dott. Michele Costantini
COSTRUZIONE DI UNA POLITICA ESTERA COMUNE
Il Trattato di Lisbona ha introdotto elementi salienti nell’attuale configurazione
istituzionale dell’Unione Europea per quanto concerne la sua azione esterna. Nel 2007 a
Lisbona si sono infatti volute attuare alcune delle riforme incardinate nel Trattato per
l’adozione di una Costituzione per l’Europa respinto, come si sa, in fase referendaria.
La creazione della figura dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza
Comune è infatti indice della volontà di dare maggiore coerenza all’azione esterna
dell’Unione di quanto fosse possibile con la precedente configurazione istituzionale, che
divideva le funzioni di politica estera tra un Alto Rappresentante per la PESC, un
Commissario per le relazioni Esterne ed il Presidente del Consiglio affari esteri.
Bisogna per completezza notare che la significativa unificazione di tali funzioni nella
figura dell’Alto Rappresentante nei ruoli di Guida della PESC/PSDC, Presidente del
Consiglio in formazione “affari esteri” e Vicepresidente della Commissione (articoli 17 – 18
Tue), non esaurisce la funzione di rappresentanza della politica estera europea. Il
bilanciamento tra gli organi dell’Unione distingue tra la funzione di rappresentanza a
livello ministeriale dell’Alto Rappresentante e la funzione del Presidente del Consiglio,
che rappresenta la PESC/PSDC a livello di Capi di Stato e di Governo (ex articolo 15 Tue).
La seconda “novità” di Lisbona è l’istituzione del Servizio Europeo per l’Azione Esterna
quale organo operativo della Politica estera europea, al cui capo vi è lo stesso Alto
Rappresentante.
Non mi soffermerò sulle problematiche inerenti l’azione del SEAE, la sua composizione e
il suo coordinamento con l’azione esterna della Commissione, cui si interesserà la collega
nel successivo intervento, ma porrò l’accento su due macro-questioni.
In primo luogo il ruolo dell’UE come “potenza civile”. Nel quadro dello sconvolgimento
del sistema internazionale cui stiamo assistendo con maggiore chiarezza nell’ultimo
decennio vale a mio avviso la pena considerare quale collocazione voglia, o meglio, debba
necessariamente ricercare l’Unione per garantire la sua stessa sopravvivenza. L’emergere
di nuovi attori sulla scena globale a cui è strettamente connessa la nuova centralità assunta
dall’area dell’Asia-Pacifico nelle relazioni internazionali e il conseguente ruolo che gli Stati
Uniti vanno assumendo nella politica mondiale, impongono delle riflessioni.
Innanzitutto in merito alla natura dell’unità europea: collocandosi la sua nascita
nell’immediata fine della guerra fredda, vi è chi sospetta che essa si sia formata traendo
vantaggio da quel “bene pubblico della sicurezza” fornito dalla superpotenza statunitense
che ha fatto da cornice anche nei decenni precedenti a tutto il percorso di sedimentazione
delle istituzioni europee sul cammino verso l’unificazione economico-politica.
Tale considerazione apre così al tema del prossimo seminario: i rapporti tra UE e NATO,
segnatamente, i rapporti che l’Unione ha con l’alleato d’oltreoceano.
L’articolo 42, comma 2, del Tue, così come le dichiarazioni 13 e 14 ai margini del Trattato
di Lisbona, evidenzia una realtà non trascurabile: il consolidamento di una politica di
Sicurezza e Difesa europea non avrebbe potuto inficiare i precedenti impegni presi dagli
Stati membri in ambito NATO. Ciò induce a riflettere circa la forma che l’UE deve dare
alla sua collaborazione con gli Stati Uniti (intendendo con ciò anche le responsabilità che
essa dovrebbe assumersi nel quadro dell’Alleanza ai fini di una migliore rappresentatività
a livello globale).
Tale questione non deve mettere in ombra il cuore dell’azione esterna dell’UE, che ispira la
European Neighborhood Policy e gli straordinari sforzi che l’UE compie nell’ambito della
cooperazione internazionale: la capacità attrattiva basata sul rule-of-law e il rispetto -e
l’esistenza stessa- dei diritti umani in ogni ambito del vivere sociale e politico.
In secondo luogo, a mio avviso, deve essere affrontato il tema dell’armonizzazione degli
interessi nazionali. Essi, lungi da costituire un elemento negativo, sono una realtà alla base
dell’esistenza di ogni comunità politica. Nodo imprescindibile è dunque l’esigenza di
contemperare tali interessi al fine di dare coesione alla politica estera europea.
Le recenti crisi in Nord Africa e nel Medio Oriente, nonché il conflitto ucraino oggi in
corso, hanno dimostrato tutte le difficoltà di azione dell’Unione in ambito internazionale.
La crisi libica del 2011, ad iniziare dalle modalità di intervento franco-britannico, e la
successiva crisi siriana, sono state occasioni perse in cui potere dare vita a una politica
coesa, nel primo caso e, nel secondo, fare sentire la voce europea nei negoziati
internazionali in corso.
In conclusione e riassumendo, pongo l’accento su due scogli nel processo di costruzione di
una politica estera comune: il rapporto con l’alleato americano e il rapporto tra gli Stati
membri nei loro contrastanti interessi.
Paper della Dott.ssa Ludovica Fabbri
IL SERVIZIO EUROPEO PER L'AZIONE ESTERNA
Il Servizio Europeo per l'Azione Esterna rappresenta senza dubbio una via mai tentata
prima nel campo della diplomazia internazionale. È, infatti, il primo servizio diplomatico
appartenente a un attore che non sia uno Stato. Sin dalla sua creazione attraverso il
Trattato di Lisbona, il Servizio Europeo per l'Azione Esterna ha raggiunto un numero di
delegazioni pari a 140 in 163 nazioni e, ancor più importante, in 70 di queste 163, sono
presenti meno di 20 rappresentanze diplomatiche dei singoli stati membri dell'UE. Questo
è indice del fatto che il Servizio Europeo per l'Azione Esterna stia riuscendo nel suo
obiettivo primario di creare una sinergia e di rafforzare il senso di appartenenza a una
comune rappresentanza europea da parte delle Ambasciate nazionali, tuttavia non
rimpiazzando queste ultime.
Ciò nonostante, è evidente che il Servizio Europeo per l'Azione Esterna è costretto entro
marcati limiti. Alcuni di questi limiti sono riscontrabili a livello istituzionale nel controllo
esercitato dagli stati membri sul Servizio e nella parziale dipendenza di quest'ultimo dalla
Commissione. In questo senso, è emblematico il caso dell'Association Agreement con la
Moldavia. Infatti, nonostante il Servizio Europeo per l'Azione Esterna sia stato incaricato
dal Consiglio di portare avanti le negoziazioni, queste ultime sono comunque soggette ad
un controllo ex ante ed ex post da parte del Consiglio stesso. Ex ante poiché il Sevizio deve
seguire le direttive adottate dal Consiglio riguardo le negoziazioni, ed ex post in quanto
durante le negoziazioni il Servizio deve consultare un Comitato speciale formato dagli
stati membri. Inoltre, nel caso dell'Association Agreement con la Moldavia le direttive del
Consiglio utilizzavano l'Agreement con l'Ucraina -stipulato senza la partecipazione del
Servizio Europeo per l'Azione Esterna- come precedente, e assegnavano alla DG Trade
della Commissione le negoziazioni riguardanti la Free Trade Area. In sostanza, il Servizio
Europeo per l’Azione Esterna ha agito in maniera tutt’altro che indipendente.
I casi di Libia e Ucraina sono invece una chiave per comprendere i limiti più pratici della
diplomazia europea. Il caso della Libia ha portato in luce una grave lentezza di reazione
da parte dell'UE, nonché un'evidente mancanza di coesione tra gli stati membri. Il caso
dell'Ucraina, nonostante la comune decisione riguardante le sanzioni contro la Russia, ha
mostrato ancora una volta non solo la divergenza di opinioni tra gli stati membri
(specialmente riguardo la fornitura energetica da parte della Russia e i modi e i tempi in
cui applicare le sanzioni), ma anche come la diplomazia comune europea non riesca
ancora a condurre individualmente la risoluzione delle crisi internazionali, rimanendo
piuttosto in secondo piano rispetto agli sforzi diplomatici dei singoli stati membri.
Alla luce degli aspetti positivi e negativi della diplomazia europea, vorrei sollevare
l’attenzione su una domanda che personalmente trovo molto stimolante e che riguarda la
natura della diplomazia europea oggi: il Servizio Europeo per l'Azione Esterna costituisce
un nuovo modello di diplomazia, che di conseguenza assolve il suo ruolo in maniera
molto diversa da quella degli stati-nazione, o si tratta piuttosto di una diplomazia
incompleta?
10 Marzo 2015 – CASD PALAZZO SALVIATI ore 15.00
MINISTERO DELLA DIFESA
“UNIONE EUROPEA E NATO PER LA SICUREZZA IN EUROPA,
NEL MEDITERRANEO ED IN MEDIO ORIENTE”
Saluti: Gen. D. Nicola Gelao - Direttore del CeMiSS - CASD
Indirizzo di saluto personale ai giovani laureati AESI da parte del
Gen. Claudio Graziano - Capo di Stato Maggiore della Difesa – Ministero della Difesa
Prof. Massimo Maria Caneva – Presidnete AESI
Video : Sarajevo “Prove di Pace” Regia di Marco Clementi
Coordinatore : Gen. Antonio Catena – Comitato Scientifico AESI
Amb. Maurizio Melani – Comitato Scientifico AESI
Gen. Vincenzo Camporini – Vice Presidente IAI
Modera : Dott.ssa Marialuisa Scovotto – Direttore AESI
Indirizzo di Saluto del Gen. Claudio Graziano - Capo di Stato Maggiore della Difesa
In occasione del Seminario sul tema “Unione Europea e NATO per la sicurezza in Europa,
nel Mediterraneo ed in Medio Oriente”, mi fa piacere far giungere il saluto delle Forze
Armate e mio personale agli organizzatori, ai relatori, ai partecipanti ed a quanti hanno
contribuito alla realizzazione di questo importante evento.
Oggi saranno dibattuti argomenti di grande attualità e interesse – come quelli della
sicurezza internazionale e della gestione delle crisi – che mettono in discussione la
tradizionale compartimentazione tra le dimensioni della difesa avanzata e della sicurezza
interna, spostando la trattazione delle questioni nazionali in un’ottica sempre più globale.
Gli sviluppi dello scenario confermano come le minacce vadano rapidamente mutando
nelle forme, assumendo caratteristiche di estrema imprevedibilità, con indiscriminato uso
della violenza e rapidità di espansione, così da aumentare il livello di rischio nelle
tradizionali aree di crisi e coinvolgere popolazioni inerti.
Con la globalizzazione – generatrice di una spirale che dal collasso di intere entità statuali
passa per flussi migratori incontrollati, fino all’affermarsi di multinazionali del malaffare
intrecciate con fenomeni estremistici – la stabilità internazionale è sempre più direttamente
e intimamente legata anche alla sicurezza interna, come dimostra l’infiltrarsi del pericolo
radicalismo e terrorismo entro i nostri stessi confini.
Di fronte a questa spinta interconnessione, diversificazione, immanenza e delocalizzazione
delle minacce alla stabilità, in un clima di crescente competizione per le risorse, nessuna
nazione, neppure la più organizzata, è più in grado di agire in assoluta autonomia ma solo
attraverso un approccio omnicomprensivo ed in contesti multidisciplinari e di coalizione.
In questo senso, il recente semestre di Presidenza italiana ha dato ulteriore impulso al
processo di integrazione del Vecchio continente che tuttavia sembra attraversare una fase
di rallentamento mentre la NATO, pur agevolata da una storica coesione tra paesi membri,
vive la necessità di un adeguamento alle nuove problematiche e di un ribilanciamento
dell’asse Euro-atlantico, come emerso durante lo scorso Summit in Galles.
Tale quadro, con un baricentro geopolitico non più stabile, impone scelte condivise e
coraggiose, non più derogabili, che puntino sull’innovazione e su una capacità di risposta
mirata a ridurre i rischi più che ad eliminarli, capitalizzando sul vantaggio ideativo e
tecnologico dell’Occidente nonché riscoprendo il ruolo chiave della deterrenza sul piano
politico-militare.
Da qui la convergenza che, a mio avviso, Unione Europea e NATO dovrebbero ricercare,
sia per conseguire una maggiore efficacia nell’affrontare le sfide comuni sia per rendere
più efficiente l’impiego delle risorse disponibili in un momento di ristrettezze finanziarie
che impongono revisioni organizzative di tipo strutturale, anche oltre l’ambito militare.
Con queste premesse, sono certo che l’odierna giornata di approfondimento, svolta alla
presenza di relatori di primissimo livello e di un uditorio altamente qualificato, potrà
contribuire ulteriormente ad approfondire le varie tematiche allo studio ed a sviluppare
idee e proposte che possano stimolare sviluppi nelle adeguate sedi politiche e istituzionali.
Buon lavoro a tutti!
Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI
All’indomani degli Accordi di Dayton, si doveva costruire la Pace e le ferite del lungo e
drammatico conflitto erano ancora molto presenti. Nella sola Sarajevo, oltre 12.000 persone
avevano perso la vita, 50.000 mila erano i feriti e centinaia di migliaia i profughi, che in
tutta la Bosnia arrivavano ad essere oltre 2 milioni. Questo Video ci riporta a Sarajevo
negli anni immediatamente dopo l’assedio della città, quando una Delegazione di giovani
laureati AESI prendeva contatto per la prima volta con quella drammatica realtà fatta di
strade e palazzi distrutti e di una popolazione sopravvissuta ma ancora smarrita. Intorno
alla città, nelle campagne e sulle colline, era tutto minato.
Arrivato a Sarajevo qualche tempo prima nel quadro di una missione organizzata dalla
Difesa in occasione dei primi avvicendamenti di Contingenti di Forze di Pace italiane,
cercai come Sapienza Università di Roma di avviare i primi contatti con le parti
universitarie che rappresentavano quelle realtà sociali e culturali che erano state fino a
poco prima in conflitto. Percorrendo il lungo Viale - noto come “Viale dei cecchini” - che
porta dall’Aeroporto al Centro della Città dove era ubicato il Comando Italiano, si
potevano vedere ancora i segni della guerra e tutto sembrava fermo per le divisioni
imposte dalla tregua. Con coraggio e lungimiranza, ci sentivamo come dei pionieri del
mondo accademico internazionale.
Grazie al sostegno delle Forze di Pace Italiane che garantivano sicurezza e appoggio
logistico, iniziammo ad organizzare i primi incontri con i Rettori delle Università della
Bosnia Erzegovina attraverso una innovativa strategia di cooperazione universitaria che
vedeva coinvolte in prima persona, anche nella parte accademica, le Forze di Pace Italiane
e le Nazioni Unite. A partire da Sarajevo, ci spostammo poi a Mostar (divisa in due dal
conflitto), sino a Banja Luka. Poi a Belgrado. Organizzammo con le Nazioni Unite la prima
Conferenza dei Rettori dei Balcani a Sarajevo per coinvolgere tutti.
Le Università della Bosnia Erzegovina dopo il conflitto erano isolate con i loro docenti e
studenti serbi, musulmani e croati. Anche Mostar con due università completamente
separate: una mussulmana e una croata. Arrivammo anche a Pale, sulle colline attorno a
Sarajevo, già sede del Comando Serbo dove si erano rifugiati docenti e studenti serbi,
molti fuggiti da Sarajevo, che avevano trasformato i vecchi impianti per le Olimpiadi
invernali del 1984 in aule con la sede del Rettorato. Ricordo ancora che il Comando delle
Forze di Pace Italiano ci chiese, ci supplicò che facessimo visita a questa popolazione
isolata sulle montagne con la quale nessuno della comunità occidentale voleva avere
contatti.
Obiettivo centrale era quello di promuovere un Corso universitario che potesse formare i
giovani, delle diverse parti in conflitto, alla gestione della Pubblica Amministrazione del
loro nuovo Paese. Uno sforzo di cooperazione universitaria che ci ha portato poi in tutti i
Balcani e a dare al programma una valenza Regionale con due poli di coordinamento a
Sarajevo e Belgrado.
A distanza di molti anni, oggi molti dei 120 giovani laureati del programma di
cooperazione universitario sono rimasti nel loro Paese: uno di loro eletto poco tempo fa
vice sindaco di Sarajevo, altri sono legal advisor del Presidente della Repubblica, alti
funzionari del Ministero delle Migrazioni. Ma una cosa deve essere riaffermata con forza:
chi ha dato continuità e forza a questa azione sono stati negli anni i giovani dell’AESI, voi
in prima linea come linfa vitale di speranza ! Si tratta di privilegiare le azioni che generano
nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno
avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. E questa è la missione nel
tempo dell’AESI. Questo è quello che chiede a voi giovani che siete qui per i Seminari di
Studio del 2015 !
Intervento del Gen. Antonio Catena - Comitato Scientifico AESI
Meno di un mese fa, alla Conferenza Annuale sulla Sicurezza alla quale hanno partecipato
circa ottanta leader mondiali, diplomatici ed esperti di relazioni internazionali, è risuonata
questa condivisa affermazione: “l’ordine mondiale sta crollando e l’Europa è uno dei
maggiori punti critici di questo collasso”. L’ex Primo Ministro svedese ha così chiosato:
“dopo decenni in cui troppi hanno dato la pace per garantita, ora è il potere delle armi che
sta dettando l’uso della forza nell'immediato vicinato europeo”;......e “non solo”,
aggiungerei io, pensando, ad esempio all'Africa sub-sahariana ed alla Somalia.
Ma prima di proseguire, viene spontaneo chiedersi quali sono le minacce che sostanziano
tali affermazioni. Sono quelle ben esposte nei documenti strategici dell'Unione Europea
(“To guarantee security in a full changing world” del 2008) e della NATO (The NATO
Strategic concept - 2010) che vi invito a leggere. Non ne parlo, quindi. Mi soffermo invece
su alcune fra le loro attuali estrinsecazioni sul terreno: la crisi ucraina, la crisi
mediorientale e la crisi libica.
La vicenda ucraina - direi inizialmente mal compresa dall'UE e dalla NATO – ha fatto
esplodere la frustrazione della Russia per la perdita dello status di Grande Potenza, con le
conseguenze che stiamo vivendo.
Il recupero della Crimea non è che il primo passo della strategia russa – prevedibilmente
seguita dall'autonomia se non dalla secessione delle province russofone - tendente alla
ricostituzione di una fascia di sicurezza e di influenza ai propri confini. Funzionale per la
realizzazione di tale progetto potrebbero anche risultare la presenza di consistenti
minoranze russofone nei Paesi Baltici (Estonia 25% circa della popolazione; Lettonia 29%
circa; Lituania 6% circa) e la posizione geografica della Lituania “appoggiata” all'enclave
russa di Kalinigrad ed al corridoio che ne consente l'accesso. I rapporti di cooperazione
che fin dalla sua indipendenza l'Ucraina ha stabilito con la NATO in campo economico,
politico e militare e con l’UE, in vista dell'adesione, non hanno prodotto i positivi effetti
sperati; anzi, secondo un rapporto della Camera dei Lords di Londra “l'entrata degli
europei nella crisi ucraina come sonnambuli ha favorito il catastrofico fraintendimento
dell'atmosfera durante lo sviluppo della crisi”. Verrebbe da chiedersi se ed in quale misura
la Gran Bretagna, membro autorevole dell'Unione Europea, oltre che della NATO, abbia
contribuito alla insufficiente efficacia della Politica Estera e di Sicurezza dell'Unione. Ma
oltrepasserei i limiti di questo intervento introduttivo.
Difficilmente le sanzioni adottate, non senza titubanze, da Unione Europea e Stati Uniti
nei confronti della Russia ed il fragile accordo di Minsk, mediato da Francia e Germania,
potranno invertire il corso della vicenda ucraina: La Russia sta dimostrando di sapere ben
coniugare misure politiche, diplomatiche e militari in un unicum difficile da contrastare
senza un chiaro e leale intendimento tra UE e NATO.
La crisi mediorientale, ormai connessa a quella libica da un progetto unificante che
l'autoproclamatosi Stato Islamico di Iraq e Siria (ISIS o DAESH) ha dato all'Islamismo, si
caratterizza per la sua complessità dovuta anche al coinvolgimento di numerosi attori d'
area aspiranti alla leadership del mondo arabo. Ne derivano alleanze trasversali secondo
convenienze politico-militari ed economiche che pongono spesso in secondo piano le
appartenenze etniche e confessionali. Sono oltre trenta le nazioni aderenti alla Coalizione
guidata dagli Stati Uniti; ma con livelli di impegno diversificati che non facilitano la
pianificazione e la condotta di operazioni risolutive contro un avversario motivato da una
dottrina islamica radicale fino all'orrore, capace di svolgere offensive mediatiche senza
precedenti e di operare con procedimenti di guerra tradizionale per la occupazione di
territori, con tattiche di guerriglia e con azioni terroristiche. A frenare l'impegno attivo di
numerose nazioni – anche dell'UE – sarebbe, almeno ufficialmente, la mancanza di
legittimità dell'intera operazione....Alquanto stupefacente se si pensa, ad esempio,
all'intervento della NATO per fermare la pulizia etnica posta in atto dai Serbi in Kosovo
nella primavera del 1999.
La crisi libica mi sembra meno complessa di quella Mediorientale, ma più pericolosa per la
sicurezza dell'Area Mediterranea, per l'Europa e per l'Italia in particolare. In Libia
l'integralismo islamico avanza distruggendo quel modello di società se non laica, almeno
tollerante, che il regime di Gheddafi aveva in qualche misura garantito. La città di Derna è
stata la prima a giurare fedeltà allo Stato Islamico del Califfo Abu-Bakr al Bagdadi:
dunque, una testa di ponte nel Mediterraneo. Le città di Bengasi e Sirte sono controllate
dai “Partigiani della Sharia”, nati dalla rivolta del 2011 ed oggi alleati dell'ISIS. La città di
Sirte, dichiarata capitale dello Stato Islamico, è però assediata dalle milizie del “Governo
di Salvezza Nazionale” di Tripoli appoggiato da Turchia e Qatar (sunnita) mentre il
governo internazionalmente riconosciuto di Tobruk è appoggiato, non senza sospetti
reciproci, da Egitto e Arabia Saudita (sunnita).
Se questo è il prodotto della Primavera Libica, ancorché nata dal legittimo bisogno di
democrazia, sarebbe stato forse conveniente sviluppare nel tempo una credibile, ferma
politica europea nei confronti dei regimi autoritari della sponda mediterranea invece che
favorirne o addirittura determinarne la rovinosa caduta senza un realistico progetto per il
dopo.
Oggi, nel pressoché totale disinteresse degli Stati Uniti che hanno altre priorità
geostrategiche e nello scontato rifugiarsi dell'UE dietro la poco produttiva mediazione
delle Nazioni Unite, lo spregio dei diritti umani continua, il flusso incontrollato dei
migranti verso l'Europa cresce a dismisura e l’insicurezza nei Paesi dell'Europa, specie
Mediterranea, si fa più concreta.
Ed allora, nel quadro sommariamente delineato, quale parte potrebbero o dovrebbero
recitare l'UE e la NATO per garantire la sicurezza in Europa, nel Mediterraneo e nel Medio
Oriente?
Il Presidente americano Theodore Roosevelt sosteneva che bisogna parlare dolcemente,
tenendo sempre un grosso bastone in mano. Fuor di metafora, l'affermazione potrebbe
valere anche per la Nato e per l' UE: con maggiori possibilità per la Nato - strumento,
giova ricordarlo, di collaborazione politica oltre che di cooperazione militare – con
capacità di deterrenza, come quella che sta esercitando nell'area baltica, e di interventi
determinanti come quelli svolti in anni recenti; con minori possibilità per l' UE
caratterizzata da eccessive incertezze nelle scelte di politica estera e di sicurezza e da
numerose carenze nel campo della difesa. Su quest'ultimo punto occorrerebbe uno
specifico seminario, anche per uscire da diffusi massimalismi che, pur dettati da nobili
ideali di pace, rispondono poco alla necessità di garantire la sicurezza della nostra società
democratica, l'inviolabilità dei diritti umani, il rispetto delle libertà fondamentali.
Da parte mia, pur convinto che l'impiego della forza non deve costituire l'immediata o,
peggio, preventiva risposta alle minacce, sento il bisogno di fare mio l'aforisma di un noto
fumettista della vostra generazione secondo cui “non si risolvono i problemi con la
forza...specialmente quando se ne ha poca”. Aggiungerei “e specialmente quando non si
riesce a decidere, nei tempi che le moderne crisi richiedono, se, quando, dove e come
impiegare in modo produttivo quella che si ha, in sistema, s' intende, con tutti gli altri
mezzi di cui le democrazie mature dispongono; fra questi, la moderna cooperazione civilemilitare.
In conclusione, evitiamo che torni d' attualità l'amara constatazione che Tito Livio fa nel
libro XXI della sua opera storica “Ab Urbe Condita Libri”: “Dum Romae Consulitur
Saguntum Expugnatur”. Si riferiva, lo rammento, alla situazione che vede Annibale radere
al suolo Sagunto - città della Spagna alleata di Roma - dopo otto mesi di assedio durante i
quali il Senato Romano discute e non decide. E fu il casus belli della 2^ lunga e sanguinosa
Guerra Punica.
Intervento dell’Amb. Maurzio Melani – Comitato Scientifico AESI
1. L'Europa, e con essa l'Italia, devono affrontare situazioni di instabilità nel loro vicinato
orientale e meridionale che producono rilevanti minacce alle loro sicurezza.
Non si tratta di una novità. Per secoli questo stato di cose ha accompagnato la storia
europea parallelamente alle lotte per gli equilibri di potere tra le potenze nel cuore del
continente, ma i processi si sono accelerati negli ultimi decenni e in particolare negli ultimi
anni.
Nella fase successiva alla seconda guerra mondiale, caratterizzata dalla guerra fredda
mentre si dipanavano i processi di decolonizzazione, la sicurezza dell'Europa di fronte alla
minaccia sovietica era garantita dalla NATO
Nella sostanza questo significava affidare la sicurezza europea alla deterrenza fornita
dagli Stati Uniti che malgrado qualche riluttanza iniziale si assumevano questa
responsabilità diversamente dal disimpegno attuato dopo la prima guerra mondiale.
La partecipazione degli alleati, in termini di capacità militari, era poco più che simbolica
con le eccezioni delle forze della Francia e del Regno Unito, comunque limitate nel quadro
complessivo degli equilibri militari mondiali.
Queste erano essenzialmente collegate a responsabilità, o velleità, post coloniali
soprattutto per quanto riguarda la Francia che intendeva anche mantenere una sua
autonomia con l'uscita dalla struttura militare dell'alleanza (nella quale è rientrata soltanto
nel 2009), e alla volontà di entrambe di mantenere uno status determinato dalla loro
qualità di membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e di
possessori dell'arma nucleare.
Il collasso dell'URSS e il periodo di estrema debolezza della Russia che ne è seguito ha da
un lato determinato un riassetto dell'Europa centro orientale riassorbita nella sfera
occidentale attraverso l'unificazione tedesca e le adesioni alla NATO e all'Unione Europea,
e dall'altro il riemergere ad est e a sud di contrasti etnici e religiosi precedentemente sopiti
dalle rigidità della contrapposizione tra i blocchi.
L'unificazione tedesca era stata condizionata dalla Francia ad un rafforzamento del
processo di integrazione della Germania in una Unione Europea di cui si rafforzava però
al tempo stesso la componente intergovernativa.
La moneta unica era parte di questo disegno definito dal Trattato di Maastricht.
Era destinata a contenere la Germania e a consolidare l'integrazione economica e si è poi
rivelata un ulteriore fattore del rafforzamento comparativo dell'economia tedesca.
L'altro elemento è stato la creazione di una politica estera e di sicurezza comune,
impostata però su base strettamente intergovernativa.
Le guerre balcaniche e le crisi africane hanno accelerato questo processo spinto soprattutto
dalla Francia che ha dovuto tuttavia fare i conti, per quanto riguarda la creazione di
effettive capacità comuni, con le resistenze britanniche e con i rapporti con la NATO, la cui
missione era stata riconfigurata con il nuovo concetto strategico del 1999 riaggiornato nel
2010 per effettuare missioni di gestione delle crisi.
Sono stati trovati compromessi che l'Italia ha favorito (ed in questo un ruolo importante fu
anche svolto proprio dal Generale Camporini alla fine della nostra presidenza nel 2003
quando io presiedevo il Comitato politico e di sicurezza dell’UE) e ciò ha consentito
all'Unione Europea di operare con proprie missioni civili e militari, queste ultime a volte
sostenute dalle capacità della NATO, nei Balcani, in Africa e altrove.
Oggi gli Stati Uniti, inizialmente scettici e prudenti rispetto ad una integrazione europea in
campo militare, sono più favorevoli a questa prospettiva in un contesto di ridefinizione
delle proprie priorità.
Sta di fatto che il processo di integrazione è oggi incompleto e insufficiente, ben al di sotto
di quelle che sarebbero le esigenze in un mondo multipolare, nel quale sono emerse nuove
potenze che stanno aumentando le proprie capacità militari parallelamente all'enorme
aumento del loro peso economico e conseguentemente anche politico.
Occorre più Europa anche e soprattutto in questo campo, con una razionalizzazione della
spesa e una messa in comune e condivisione di assetti e capacità ("pooling and sharing").
Su tale esigenza si è pronunciato recentemente anche il presidente della Commissione Jean
Paul Juncker, ma sappiamo che in questo campo la decisione spetta agli stati membri ed in
particolare a quelli che vogliono andare avanti (verosimilmente non tutti in una fase
iniziale) utilizzando eventualmente le possibilità offerte dal Trattato di Lisbona.
E vediamo anche quanto la crescita di sentimenti e movimenti scettici o ostili nei confronti
dell'integrazione contribuisca a rendere questo processo difficile proprio quando ve ne
sarebbe più bisogno.
Questi movimenti, con orientamenti di chiusura all'integrazione e spesso xenofobi,
costituiscono oggi un pericolo per la stabilità e per il futuro dell'Europa che se
frammentata vedrà i suoi stati membri condannati all'irrilevanza sulla scena mondiale con
gravi conseguenze sulla loro sicurezza e sulla loro prosperità.
Per contrastarli è anche necessario un cambiamento delle politiche procicliche di questi
anni, che hanno accentuato in molti paesi gli effetti della crisi, avviando invece misure
favorevoli alla crescita come fatto negli Stati Uniti.
L'avvento del nazismo fu favorito dalla recessione e dalla deflazione degli anni 30
accentuate dalle politiche recessive del Cancelliere Bruning e non dall'inflazione degli anni
20 che pur aveva avuto effetti devastanti sul piano economico e sociale.
Per favorire la crescita, a certe condizioni sulle quali non mi soffermo qui, potrà essere
utile anche il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, in corso di
negoziato, che potrebbe favorire l'agganciamento dell'Europa alla crescita americana e
rafforzare i legami euro-americani che restano fondamentali.
2. NATO e UE, quest'ultima con la Politica di Sicurezza e di Difesa Comune (PSDC) e con i
suoi strumenti di "capacity building” e sostegno economico, sono comunque oggi
complementari, pur con i loro limiti, ai fini della gestione delle crisi che ci circondano.
La prima, quella che abbiamo ad est, è anche conseguenza delle politiche occidentali dopo
la fine della guerra fredda.
Malgrado le intese più o meno esplicite al momento della fine dell'URSS e
dell'unificazione tedesca, l'allargamento della NATO ad est e la gestione delle crisi nei
Balcani sono stati subiti da una Russia allora estremamente debole, e poi considerati dopo
l'avvento di Putin e della sua politica di ristabilimento del ruolo della Russia ai livelli
regionali e globali come umiliazioni intollerabili e minacce alla propria sicurezza.
Ne sono seguite azioni di forza in Georgia, nel 2008, e in Ucraina, particolarmente evidenti
a partire dal 2013, alle quali Stati Uniti ed Europa hanno dovuto rispondere, quest'ultima
con maggiore prudenza in considerazione dei rapporti economici con la Russia di alcuni
suoi grandi paesi come la Germania l'Italia soprattutto in campo energetico.
Si è creata per alcuni versi una situazione che ricorda quella degli anni 30 nella quale la
Germania che aveva senz'altro subito umiliazioni e comportamenti eccessivamente
punitivi dopo la fine della prima guerra mondiale ha adottato dopo l'avvento di Hitler una
politica aggressiva facendo anche leva sulle minoranze tedesche nei paesi aggrediti cui le
potenze occidentali hanno risposto in modo tardivo e debole con la conseguenza di
stimolare gli appetiti nazisti e di rendere inevitabile la guerra.
Pur nella consapevolezza delle ricadute economiche negative che questo comporta, la
fermezza nei confronti di violazioni del diritto internazionale è necessaria ma occorre
anche scoraggiare comportamenti avventuristi in Ucraina e in altri paesi dell'ex-Unione
Sovietica.
Il ruolo della NATO si rivela ancora una volta importante: va dato un messaggio chiaro,
anche con opportuni dispiegamenti di forze, che l'Alleanza garantisce la sicurezza dei suoi
membri (in particolare degli stati baltici che hanno forti minoranze russe), evitando al
tempo stesso inutili provocazioni come sarebbe quella di alimentare aspettative di una
adesione dell'Ucraina e della Georgia alla stessa NATO e all’UE.
3. Anche le situazioni di crisi nel Medio Oriente e nel Mediterraneo, che ci riguardano
molto da vicino in termini di approvvigionamenti energetici, pressioni migratorie,
sicurezza e aspetti umanitari, sono in parte dovute ai comportamenti occidentali ed in
particolare degli Stati Uniti all'inizio di questo secolo, con radici nei decenni precedenti.
La sostanza di quanto accade è un insieme di conflitti per gli equilibri nella regione e per
gli assetti di potere all'interno di stati in parte nati dagli accordi anglo-francesi dopo la
prima guerra mondiale nel quadro dell'interesse strategico occidentale per le risorse
petrolifere della regione.
Vi è la contrapposizione tra Iran e suoi alleati sciiti in Iraq, in Siria e in Libano da un lato, e
Arabia Saudita e suoi alleati sunniti dall'altro, cui ha dato impeto l'intervento americano in
Iraq che ha di fatto aperto spazi a Teheran e mortificato i sunniti iracheni risucchiati nella
lotta armata.
E vi sono quelle all'interno del mondo sunnita tra Turchia e Qatar da un lato con i loro
alleati della fratellanza musulmana favoriti dalle rivolte del 2011, e Arabia Saudita ed altre
monarchie del Golfo dall'altro che sostengono al tempo stesso la restaurazione militare in
Egitto e movimenti salafiti.
In questo quadro di instabilità e di conflitti incrociati ha trovato spazio il jahdismo
estremo, rappresentato prima da Al Qaeda e ora dall'ISIS.
Si tratta di forze nate da realtà che erano state sostenute dagli Stati Uniti e dall'Arabia
Saudita in Afghanistan al tempo dell'occupazione sovietica e ancora prima per contrastare
le repubbliche arabe laiche di ispirazione nazionalista e socialista e poi una percepita
minaccia sciita dopo la rivoluzione iraniana.
Esse hanno successivamente evidenziato tutta la loro carica anti-occidentale con l'attentato
alle Torri Gemelle e al Pentagono nel 2001 ma sono state in vario modo strumentalizzate
da forze della regione in funzione anti-sciita e per non agevolare la stabilizzazione di un
Iraq in buoni rapporti con l’Iran e destinato a ridiventare un grande produttore ed
esportatore di idrocarburi.
Oggi esse sono una minaccia per gli stessi regimi che le hanno tollerate se non agevolate, e
vi sarebbe quindi l'opportunità di costituire un fronte comune contro il terrorismo.
E' sulla costruzione di questo fronte che occorre lavorare essendo anche pronti a fare le
pressioni necessarie su nostri tradizionali alleati.
Se come speriamo il negoziato in corso con l'Iran si concluderà con una intesa che
garantisca la non acquisizione di capacità nucleari militari fermi restando i diritti del paese
derivanti dal Trattato di non proliferazione si potranno aprire nuove prospettive per la
stabilizzazione nell'area con nuovi equilibri mutuamente concordati.
4. Lo scontro in corso tra i paesi sunniti mediorientali si manifesta anche in Libia ove le
condizioni di instabilità e fallimento dello stato hanno anche lì lasciato spazi per il
jihadismo estremo che si richiama ora al Daesh.
E' una situazione di importanza cruciale per noi per tutte le ragioni che sappiamo.
Come sembra ormai chiaro a tutti non vi sono attualmente le condizioni per un intervento
militare occidentale che non sia preceduto da una intesa tra le forze libiche interessate ad
eliminare chi si collega all'ISIS o si definisce tale.
Ma affinché questo si realizzi occorre favorire una convergenza tra chi sostiene
rispettivamente il governo di Tobruk (Egitto, Arabia Saudita ed Emirati) e quello di Tripoli
(Turchia e Qatar), con il coinvolgimento dell'Algeria e di altri paesi africani interessati alla
stabilizzazione della Libia dalla quale dipende in larga parte quella di tutta la regione.
E' questo un compito rispetto al quale, nel quadro dell'azione condotta dalle Nazioni
Unite, un ruolo importante può essere svolto dall'Unione Europea ed in particolare
dall'Italia.
Ma sarà bene che in questa azione non ci si schieri con alcuna delle due maggiori parti in
campo la cui convergenza è necessaria per sconfiggere i criminali che si ricollegano
all'ISIS, sapendo che nessuna di loro può prevalere militarmente in modo risolutivo
sull'altra e che alla percepita parzialità del mediatore si accompagnerebbero la perdita
della sua credibilità e lo stimolo ad ostilità diffuse nei suoi confronti.
Successivamente al raggiungimento di una auspicata intesa, una presenza di "peace
keeping" e di "capacity building" nel campo della sicurezza da parte dell'Unione Europea
con gli strumenti militari e civili di cui essa dispone può essere necessaria, eventualmente
con la NATO e con l'Unione Africana, ovviamente nell'ambito di un mandato delle
Nazioni Unite.
Questo non esclude che interventi specifici e puntuali da parte di forze speciali e attività
navali o aeree per fare fronte a particolari situazioni possano essere effettuate, ma senza
lasciare truppe a terra.
Cosi come può non essere escluso che nel quadro di una intesa tra le parti libiche e tra gli
attori della regione, ed in attesa che vi siano le condizioni per una attività di peace
keeping, azioni di peace enforcement siano condotte con la partecipazione o il sostegno di
forze regionali purché non abbiano un carattere unilaterale, abbiano invece un chiaro
mandato dell’ONU e di Organizzazioni regionali (come Lega Araba e Unione Africana) e
non siano in favore di una delle due principali parti come è attualmente l’intervento
egiziano
5. L'approccio regionale e l'azione per una intesa tra gli attori interessati è necessario ed ha
avuto successo in altre situazioni in cui l'Italia ha avuto un ruolo importante.
Ricordo i Balcani, ed in questo ambito l'operazione Alba a guida italiana che ha
stabilizzato l'Albania; il Libano per il quale si è lavorato con Israele, con la Siria e con
l'Iran; il Mozambico, nel quale con l'ausilio nel dialogo tra le parti di soggetti religiosi della
società civile come la Comunità di Sant'Egidio e la Chiesa mozambicana abbiamo condotto
l'azione diplomatica con i paesi della regione, le Nazioni Unite, l'OUA e gli Stati Uniti ed
abbiamo poi guidato la presenza militare di "peace keeping" e di "capacity building"; la
fine delle ostilità tra Etiopia ed Eritrea nel 2000 per la quale abbiamo operato, con un
mandato dell'UE, con l'OUA, rappresentata dall'Algeria, con gli Stati Uniti e con le
Nazioni Unite.
In tutti questi casi la presenza militare si inseriva in un preciso progetto politico di
pacificazione nell'ambito di una architettura diplomatica realizzata con il concorso dei
paesi limitrofi e delle organizzazioni internazionali e regionali, nonché dell'Unione
Europea e, laddove ve ne erano le condizioni e le necessita, della NATO.
E' quanto occorre cercare di fare anche in Libia e in Mesopotamia, avendo come primo
obiettivo l'eliminazione del Daesh e nel medio e lungo termine l'affermazione di
condizioni sostenibili di pace e stabilità.
Gen. Vincenzo Camporini – Vice Presidente IAI
Buonasera a tutti, cercherò di essere abbastanza sintetico anche perché chi è intervenuto
prima di me ha fatto un quadro assai completo della situazione in cui ci troviamo e trovo
assai appropriato che un ex militare possa parlare dopo un diplomatico. Perché gli eserciti,
con la loro forza, sono solo uno strumento nelle mani della politica: quindi ci deve essere
un disegno ben strutturato, ben evidente per tutti, all'interno del quale è possibile
utilizzare la forza. Ma l'utilizzo della forza senza un quadro politico è pura follia, come
dimostrato da tutto quello che è accaduto recentemente - il caso libico fu assolutamente un
esempio eclatante.
Io sono più pessimista dei relatori che mi hanno preceduto. Sono pessimista perché vedo
una sorta, non dico d'involuzione, ma un tragico immobilismo. Qui stiamo infatti ancora
discutendo quando Sagunto viene espugnata. L'Unione Europea all'inizio di questo secolo
- '99 e 2000 - ha fatto dei progressi straordinari, se pensiamo alla costruzione della
Pesc/Pesd che avvenne in pochi mesi. In pochi mesi si fecero progressi che prima non era
stato possibile fare in decenni; e poi, ci siamo fermati.
Ci siamo fermati perché siamo tornati ad un tipo di concezioni arcaico - io dico - in base al
quale domina il concetto di sovranità nazionale. Noi siamo un'organizzazione - l'Unione
Europea - mista: c'è una parte comunitaria e una parte intergovernativa, la Difesa fa parte
dell'area intergovernativa e i governi sono assolutamente gelosi di questo. Hanno ragione
di esserlo? Io dico che questo è un sintomo di grande miopia, perché quando si parla si
sovranità di cosa parliamo? Io sono sovrano quando posso prendere una decisione e ho gli
strumenti per farlo. Gli strumenti finanziari, gli strumenti fisici. Oggi in Europa, nemmeno
la grande Germania di Angela Merkel può permettersi di definire degli obbiettivi e
perseguirli perché non ne ha i mezzi. I mezzi militari sono quelli che oggi mancano in
modo straordinario. L'intervento di Junker dell'altro giorno, che io trovo fuori dalle righe,
è comunque un segnale che indica che oggi in Europa non esiste la capacità per sostenere
una politica estera coerente. Non ci sono più i carri armati, non c'è più l'artiglieria. Ci
siamo cullati nell'illusione che l'utilizzo delle forze armate sarebbe stato quello di un
peacekeeping più o meno pesante - al massimo in Afghanistan dove bisognava combattere
contro le mine, e nient'altro che contro le mine - ma senza la necessità di avere altro tipo di
strumento.
Qualcuno invece gli strumenti li ha ancora o se li sta procurando e qualcuno li sta usando.
E non sto parlando di un singolo Paese, ad esempio la Russia. La Cina ad esempio ha
annunciato un aumento delle sue spese militari per quest'anno del 10% - una crescita
comunque più bassa rispetto a quella dell'anno scorso - ma è tanto per darvi un'idea. I
Paesi Europei invece stanno tagliando le spese. Benissimo, legittimo, ci sono altre priorità,
c'è il problema della crisi economica, ci sono visioni diverse: ma siamo consapevoli che
queste visoni diverse hanno delle conseguenze. Ad esempio oggi Putin può fare quello che
gli pare. Che abbia torto o ragione - io passo per un filo russo - con tutta la buona volontà,
in modo onesto, in modo occidentale, l'Europa e la Nato hanno fatto di tutto - ripeto in
buona fede - per irritare la Russia: l'abbiamo umiliata e le conseguenze della guerra fredda
sono state tali che c'è stata una continua erosione dell'area d'influenza russa - e non mi si
venga a dire che il concetto di sfera d'influenza è un concetto arcaico, perché è un concetto
esistente - ci sentivamo buoni, volevamo esportare, non dico la democrazia, ma
sicuramente il nostro livello di benessere verso un Paese come l'Ucraina che era in
difficoltà, senza renderci conto che andavamo ad incidere su equilibri veramente precari.
Le reazioni ci sono state, e uno dovrebbe oggettivamente fare il bilancio di dove stanno le
responsabilità.
Sta di fatto che le decisioni oggi le può prendere Putin, è lui che decide cosa vuole, mentre
noi, in qualche modo, dobbiamo solo addolcire la pillola. Mi rendo conto che questa è una
visione abbastanza cruda, mi rendo conto che non è una visione comune, ma vi invito a
prendere atto della situazione anche da questo punto di vista. L'Unione Europea ha
rinunciato alla sua capacità d'influenza e si trova in una situazione che era, guardate,
simile a quella dell'Italia del 1840: tanti statarelli, ciascuno viveva nel suo benessere, ma
con un piccolo problema. I destini di Ferrara, di Venezia, non venivano decisi lì, ma
piuttosto a Vienna, Parigi e Londra. Oggi abbiamo una situazione analoga: i destini dei
Paesi europei non vengono decisi a Berlino e Londra, ma a Washington, Pechino; e senza
fare delle dietrologie è chiaro che le difficoltà della moneta comune europea, magari sono
state spinte da qualcuno di fuori.
Per questo motivo i Paesi che continuano a trincerarsi dietro il concetto di sovranità
nazionale e di rapporti intergovernativi su queste tematiche stanno commettendo un
errore storico.
Qualche mese fa ho avuto modo di ascoltare uno straordinario ambasciatore americano in
pensione - era a Mosca nell'89 - che ha iniziato il suo discorso con una frase che vi regalo e
che merita una riflessione: «la Storia non si ripete ma fa rima». Questo per dire che ci sono
degli schemi, delle analogie che debbono essere presi in considerazione e che fanno parte
della logica; e quindi così come l'Italia del 1840 è simile all'Europa di oggi, così l'instabilità
in Medio oriente, a mio avviso, ha delle analogie con quello che accadeva in Europa nel
1500, 1600: le guerre di religione. Anche lì avevamo due diverse visioni della stessa
confessione religiosa - protestantesimo e cattolicesimo - un protestantesimo frammentato,
in lotta al suo interno e in lotta con il cattolicesimo: ma in realtà si trattava di una ricerca di
potenza da parte di alcune potenze regionali per il dominio dell'area. La Spagna dominava
nei Paesi bassi; chi ha letto i Promessi sposi sa che anche a Milano c'erano gli spagnoli. Ora
questa commistione dell'epoca le possiamo ritrovare oggi nelle lotte tra sunniti e sunniti, e
tra sunniti e sciiti; ma non perché ci siano delle lotte di religione all'interno, ma perché ci
sono delle lotte di potenza tra Turchia, Iran, Arabia Saudita ed Egitto: quattro potenze che
ambiscono ad avere il dominio regionale e che per conseguirlo alimentano - grazie al
carburante fornito dalla passione religiosa - questi conflitti. Questa situazione la viviamo
noi occidentali trascinati per la giacchetta: perché abbiamo problemi di
approvvigionamento energetico, abbiamo bisogno di questi Paesi, o soltanto perché
abbiamo dei sensi di colpa, a mio avviso abbastanza ingiustificati, perché dopo tutti questi
decenni le colpe si potrebbero cercare altrove.
Ma è un dato di fatto che esistono queste situazioni in cui noi siamo trascinati e
strumentalizzati. Non ho soluzioni, ma è un dato di fatto che quello che sta accadendo
intorno a noi presenta dei pericoli, presenta degli inconvenienti seri che non affrontiamo
con la dovuta coesione; e vengo all'ultimo concetto.
Non c'è coesione perché nessuno vede le situazioni di crisi alla stessa maniera. Una
settimana fa ero a Berlino per un convegno organizzato da Chatham House e da SWP. Si
parlava di NATO e della situazione europea: nessuno ha parlato della Libia, tutta
l'attenzione era focalizzata sulla situazione ucraina. Al Nord delle Alpi, della Libia, non
interessa nulla. Siamo gli unici che percepiscono questa situazione come un rischio - io
dico giustamente. Ma è un problema che in qualche modo mina la coesione di tutti i Paesi,
perché ognuno la vede in modo diverso. E vedendola in modo diverso all'interno
dell'Unione Europea amplifichiamo la differenza con l'alleato di oltre Atlantico: gli Stati
Uniti.
È possibile allora un ruolo complementare e integrato tra Unione Europea e NATO? In
linea teorica sì, nella pratica qualche volta avviene, ma nella forma e nella sostanza siamo
ancora lontani anni luce. Perché si tratta di due organizzazioni che hanno un'appartenenza
comune ma non gli stessi obbiettivi. Abbiamo un problema grossissimo - non è il solo - che
blocca qualsiasi tipo di cooperazione reale tra le due strutture: si chiama Cipro e Turchia, è
un problema che non ha soluzioni. Avrebbe potuto averla quando ci fu un referendum
voluto dalle Nazioni Unite per la riunificazione. Quel referendum fallì - giusto la
settimana prima dell'adesione di Cipro all'Unione Europea - e con una cecità pazzesca
l'Unione Europea non fermò l'adesione di Cipro. Fu una decisione politica, certamente ben
motivata; sappiamo però che oggi è impossibile a Bruxelles una riunione tecnico formale
tra elementi della Nato e elementi dell'Unione; si vedono ai cocktail: il Segretario generale
della Nato e Federica Mogherini si vedono lì, ai cocktail.
Più di questo non si può fare. E da questo punto di vista abbiamo un ostacolo serio,
apparentemente insormontabile. E allora cosa bisogna fare? Quello che bisogna fare è il
salto verso una cooperazione europea più forte. Soltanto un'Unione Europea veramente
coesa diventerà un interlocutore attendibile, credibile e solido. Bisogna superare gli
egoismi che abbiamo di fronte, ma per questo servono dei leader, e io francamente in
Europa di leader non ne vedo: Hollande non lo è, Cameron ancora meno, Angela Merkel
ha una sua visione stretta, ma forse si sta allargando… forse. C'è Putin, ma non credo sia
un fattore unificante per la Comunità Europea, se non come reazione. Il problema è - e
chiudo con questo - che leader significa colui che conduce. Vi invito a leggere un libro
scritto da John F. Kennedy quando era ancora Senatore, si intitola Profili nel coraggio. È la
storia di dieci parlamentari americani che nel corso della storia degli Stati Uniti andarono
contro il volere dei propri elettori: andarono poi incontro a delle sconfitte elettorali sicure,
perché ritenevano di dover sostenere una tesi non condivisa dai propri elettori: perché
erano leader e hanno trascinato il proprio Paese a diventare quello che poi è diventato.
Oggi noi non abbiamo dei leader, abbiamo dei lead; abbiamo gente che apre il giornale al
mattino, legge l'esito dell'ultimo sondaggio e decide di conseguenza. Voi siete i leader del
futuro, non fate come loro.
Intervento della Dott.ssa Marialuisa Scovotto – Direttore AESI
Negli ultimi decenni il significato geostrategico del bacino del Mediterraneo ha subito una
profonda trasformazione. La marginalità del cosiddetto Southern Flank, che aveva
caratterizzato il calcolo politico-strategico euro-atlantico sin dagli inizi della Guerra
Fredda, è stata progressivamente superata.
La distanza che tradizionalmente separava le dinamiche geopolitiche e di sicurezza
europee, mediorientali ed eurasiatiche (la crisi ucraina, siriana, israelo-palestinese, siriana,
solo per citare le più problematiche nell’attuale scenario) sembra essersi ridotta favorendo
l’interconnessione e l’espansione di fenomeni che trascendono le divisioni regionali
classiche. D’altra parte la contrazione della distanza politica, economica e strategica ha
imposto l’allargamento del concetto di spazio di sicurezza europeo, tanto sotto un profilo
geopolitico, che in una prospettiva geo-economica e geostrategica.
Di fronte ad un così vasto mutamento dello scenario globale e regionale, l’Alleanza
Atlantica ha cercato di reagire attraverso l’adozione di nuove politiche. Così, a partire
dalla metà degli anni ’90, la NATO, su iniziativa italiana, ha superato gli approcci
geopolitici alla base della politica estera statunitense e di buona parte dei Paesi
nordeuropei dei decenni precedenti ed ha riconosciuto il Mediterraneo come un teatro
che, pur diversificato, presenta tali caratteri di unità da permettere il riconoscimento di
un’unica regione geostrategica e geo-economica.
In tale quadro, nel gennaio 1994, nonostante le cautele di una parte dei Paesi membri, la
NATO, dietro un intenso lavoro politico-diplomatico italiano e sulla scia del successo dei
negoziati a Oslo per la definizione del processo di pace in Medio Oriente e del delinearsi
del processo di allargamento ad est dell’Alleanza e dell’Unione Europea, ha varato il
Dialogo Mediterraneo quale iniziativa diretta ad avviare rapporti di cooperazione, con
alcuni dei paesi mediterranei, per una migliore comprensione reciproca. Per perseguire
tali obiettivi è nato il Dialogo Mediterraneo, sviluppatosi come un processo a carattere
dinamico, evolutivo ed aperto alla partecipazione di altri paesi non-NATO che intendano
e siano in grado di contribuire alla sicurezza e stabilità della regione mediterranea. In base
ad un consenso tra i membri della NATO, i primi partner con cui l’Alleanza ha instaurato
tale Dialogo sono stati, all’inizio del 1995, Egitto, Israele, Marocco, Mauritania, e Tunisia,
ai quali si sono successivamente aggiunte Giordania (alla fine del ’95) ed Algeria (nel
2000).
È stata confermata la volontà di rafforzare la cooperazione nelle aree in cui la NATO può
apportare il proprio contributo, specialmente nel settore militare (l’osservazione di
esercitazioni terrestri e marittime, seminari e visite a installazioni NATO, allo scopo di
incentivare la fiducia reciproca in un’ottica di trasparenza). Grazie a tale sviluppo hanno
quindi potuto prendere forma attività di cooperazione con l’Egitto, la Giordania ed il
Marocco in operazioni in Bosnia – Erzegovina e con la Giordania ed il Marocco in
Kossovo, inoltre :
•
l’Egitto ha richiesto l’assistenza NATO per sminare fasce di territorio attorno ad ElAlamein;
•
il Marocco e l’Algeria hanno manifestato segnali di maggiore apertura;
•
la Tunisia si è dimostrata propensa all’allargamento del Dialogo ad altri stati arabi
ed a stringere più stretti legami con la NATO e con l’UE;
•
la Giordania ha dichiarato il proprio interesse nel rafforzamento della cooperazione
nel settore del narcotraffico, dell’anti-terrorismo e della prevenzione dai disastri;
•
Israele, infine, ha manifestato interesse alla cooperazione nel settore della
pianificazione delle emergenze civili e militari e nel settore dell’antiterrorismo.
Dopo l’11 settembre 2001, la NATO ha compreso la necessità di un’intensa cooperazione
nel Mediterraneo quale priorità strettamente legata e funzionale alla sicurezza euroatlantica e delle regioni afro-asiatiche. Il Dialogo Mediterraneo dell’Alleanza è stato
pertanto oggetto di un ulteriore e vistoso sviluppo ed in particolare:
•
dall’ottobre 2001, si svolgono periodici incontri multilaterali, tra il Consiglio
Atlantico e gli ambasciatori accreditati a Bruxelles dei sette paesi NMD, sotto la presidenza
del Segretario Generale della NATO;
•
in occasione dell’incontro del maggio 2002 a Reykjavik, i ministri degli esteri NATO
hanno introdotto nuovi settori d’interesse, tra cui le consultazioni in materia di sicurezza
comune, inclusi gli aspetti connessi con il terrorismo;
•
nel luglio 2002, il Consiglio Atlantico ha dichiarato che “le relazioni con i paesi
NMD è tra le maggiori priorità dell’Alleanza” ed il Segretario generale della NATO,
riconoscendo al Mediterraneo una nuova rilevanza per quanto concerne la sicurezza
dell'Occidente, ha indicato quali motivo di preoccupazione il suo potenziale di instabilità,
il terrorismo, il conflitto israeliano-palestinese e le controversie connesse tra arabi e
israeliani, la proliferazione delle armi di distruzione di massa e dei missili, la questione
energetica;
•
in occasione del successivo vertice di Praga dei capi di Stato e di governo dei paesi
NATO (novembre 2002), è stato adottato un inventario di possibili settori per incrementare
la dimensione politica e pratica di cooperazione con i paesi NMD, specie in materia di
informazione e trasparenza su attività ed obiettivi NATO per contribuire alle giuste
percezioni da parte delle opinioni pubbliche di quei paesi.
Sotto un profilo più generale l’iniziativa mediterranea dell’Alleanza ha visto accentuare la
propria valenza ed il proprio ruolo quale fattore teso alla promozione di stabili e pacifici
legami anche tra gli stessi paesi della sponda sud del bacino (dimensione sud – sud)
introducendo nell’evoluzione del quadro geopolitico del Mediterraneo allargato spinte
atte a contenere processi dinamici evidentemente capaci di coinvolgere profondamente
regioni adiacenti e lontane.
La NATO e i governi occidentali ritengono che gli Stati della sponda meridionale del
Mediterraneo siano esposti agli stessi rischi e alle stesse minacce che essi stessi sono
chiamati ad affrontare. Pertanto il margine per la cooperazione nel settore politico e della
sicurezza si prospetta ancora più ampio che nel passato.
Dal canto loro, i partner mediterranei della NATO hanno dimostrato un forte interesse a
sviluppare ulteriormente la cooperazione con l'Alleanza in vari settori, avanzando
numerose proposte concrete. Il risultato è stato un cospicuo pacchetto di misure volte a
migliorare la dimensione politica e pratica del Dialogo Mediterraneo, approvato dai leader
dell'Alleanza nel ricordato vertice di Praga. Tali misure includono la possibilità di
utilizzare ulteriormente le opportunità offerte dal dialogo multi/bilaterale esistente, per
rafforzare gli attuali strumenti istituzionali stabilendo un più regolare ed efficace processo
di consultazione nonché intense relazioni politiche ad alto livello e continue consultazioni
da parte di esperti. Quest'ultimo aspetto riguarda specialmente i settori nei quali la NATO
ha un riconosciuto vantaggio comparativo ed i partner del Dialogo vi hanno manifestato
interesse. Questi, in prospettiva, potrebbero includere:.
•
la formazione, l'addestramento e la dottrina militare quali iniziative atte a
conseguire una certa interoperabilità necessaria ai partner mediterranei nelle esercitazioni
ed attività congiunte delle forze militari;
•
la sanità militare, incluse le relative misure preventive nel settore nucleare,
biologico e chimico;
•
la riforma della difesa e i principi economici della difesa, tra cui le migliori
procedure nella gestione civile ed economica delle forze di difesa;
•
la sicurezza dei confini, specie riguardo al contrabbando di armi leggere, alle
attività illegali legate al traffico di esseri umani e della droga;
•
la proliferazione delle armi di distruzione di massa;
•
la lotta al terrorismo in tutte le sue forme
•
la pianificazione civile di emergenza, inclusa la gestione delle calamità;
•
la tutela dell'ambiente.
L’Italia, il Mediterraneo e il Medio Oriente.
La politica estera dell’Italia nei confronti dei Paesi del Bacino mediterraneo e del Medio
Oriente risulta di vitale importanza per il perseguimento dell’interesse nazionale del
nostro Paese. Quella che si muove a Sud verso il Nord Africa (Maghreb) e, ad Est, verso il
Mediterraneo orientale e i Paesi del Medio Oriente, è infatti, la direttrice forse più rilevante
per l’azione estera dell’Italia, almeno se prendiamo in considerazione il punto di vista
geografico e geopolitico. Se è vero che Roma ha storicamente, almeno dal Secondo
Dopoguerra ai giorni nostri, costruito solidi rapporti transatlantici da un lato e, dall’altro,
europei – partecipando in maniera attiva e sin dall’inizio alla costruzione di quella che
sarebbe divenuta l’Unione Europea – è altrettanto vero che l’interesse nazionale di un
Paese risente della posizione (nel senso non politico del termine) che questo occupa
all’interno della mappa globale. Tenendo presente quest’ultima considerazione, sono
proprio le sponde Sud ed Est del Mediterraneo a costituire il contesto più prossimo con cui
l’Italia deve confrontarsi. E, d’altro canto, non può esimersi dal farlo, in quanto, come
vuole la tradizione delle relazioni internazionali, si Possono scegliere gli alleati, ma non i
vicini.
La Siria è nel mezzo di una rivolta popolare che si è progressivamente trasformata in una
guerra civile, rendendo il Paese molto simile alla Libia nel periodo intercorso tra
l’intervento della NATO e la caduta definitiva di Gheddafi. L’esito di questo scontro
interno è tutt’altro che scontato e non è da escludere un nuovo intervento esterno, da parte
di attori europei, arabi e della Turchia. Qualsiasi nuovo scenario potrebbe avere
ripercussioni notevoli anche su altri contesti regionali, Libano in primis. Proprio in Libano
l’Italia è fortemente impegnata a mantenere la stabilità al confine israeliano, essendo il
Paese che, con più di 1.600 uomini sul campo, ha il contingente più numeroso della
missione UNIFIL, sotto l’egida delle Nazioni Unite.
Come riuscire a tenere insieme il sistema di solide alleanze europee e transatlantiche
costruite nei decenni, far sì che la macchina della politica estera europea possa funzionare
in maniera univoca e sortire effetti tangibili sul mondo esterno e, contemporaneamente,
poter continuare a perseguire il proprio interesse nazionale, nel caso in cui questo si
dimostri divergente rispetto agli altri attori europei?
Tali dilemmi dimostrano quanto sia importante per Roma e per tutti gli Stati membri della
UE riuscire a trovare posizioni comuni nelle questioni più delicate di politica estera. Ciò
non vuol dire semplicemente riuscire a raggiungere degli accordi che possano mettere
insieme le varie esigenze degli attori europei ogni volta che si presenti una situazione
critica con cui doversi confrontare, perché questa sarebbe una soluzione di breve periodo.
Qui torniamo all’annosa questione della necessità di instaurare un meccanismo
diplomatico e politico che agisca in nome di tutta l’organizzazione europea in maniera
permanente.
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FORUM AESI
RAPPRESENTANZA DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN ITALIA
SPAZIO EUROPA 3 Marzo 2015
Papers Studenti :
L’UE E LA NATO E LA SICUREZZA IN EUROPA,
NEL MEDITERRANEO E IN MEDIO ORIENTE
Dott. Federico Di Benedetto
La sicurezza è un tema fondamentale della relazione tra la NATO e l’Unione Europea, che
ci pone di fronte alla capacità di questi organismi di sapere affrontare le sfide poste dal
mondo odierno.
Diventa perciò importante parlare di quanto sta accadendo nell’Est europeo, specialmente
in Ucraina, così come cercare di capire gli avvenimenti della Libia, i flussi migratori che si
verificano nel Mediterraneo e che sono direzionati in Italia, gli stravolgimenti che stanno
caratterizzando il Medio Oriente, specialmente l’Iraq e la Siria. Ma soprattutto, non si può
fare a meno di chiedersi in che modo la NATO e l’Unione Europea affrontino queste
situazioni. Ma quale punto di vista adottare?
Negli scorsi forum di preparazione e seminari si è parlato della necessità dell’Occidente di
ritrovare la sua spiritualità, di fare riferimento ai valori che l’hanno portato ad assumere la
leadership nella Storia, sia nella modernità che nell’epoca contemporanea, e che tanto
hanno contribuito allo sviluppo della civiltà e del sapere nel mondo.
I 28 Paesi che costituiscono la NATO oggi hanno il compito di guardare alla pienezza della
vocazione dell’Organizzazione di cui fanno parte, che non consiste nella sola -per quanto
importante e necessaria- pianificazione e applicazione di operazioni militari o nel dare
voce agli interessi di alcuni partner (vedi Stati Uniti), ma nella necessità di dare spazio alla
collaborazione politica, che porti ad un dialogo costruttivo soprattutto con la Russia, quale
attore geopolitico di primaria importanza ai fini di una distensione dei punti di
(dis)equilibrio che oggi destabilizzano il mondo.
Se guardiamo all’Europa oggi, possiamo dire che essa è in crisi: manca una politica
europea che sia capace di guidare congiuntamente l’azione delle Istituzioni europee e
quella degli Stati membri. Forse l’Europa non sa cosa vuole: lo sanno gli Stati membri.
Non a caso la definizione politica estera e di sicurezza comune è guidata da istituzioni a
carattere intergovernativo, come il Consiglio europeo e il Consiglio, mentre la sua
attuazione spetterebbe all’Altro Rappresentante, che però pare rappresentare una figura di
basso peso politico: pensiamo all’accordo raggiunto a Minsk, dove si sono incontrati il
presidente russo Vladimir Putin, il presidente ucraino Petro Poroshenko, e come
rappresentanti per l’Europa, il presidente francese Francois Hollande e la cancelliera
tedesca Angela Merkel.
In questo senso, fa pensare il criterio dell’unanimità come regola di votazione nelle sedi
consiliari e l’esclusione della possibilità di adottare atti legislativi nel settore della PESC.
L’Europa ha bisogno di una svolta nell’impostazione delle sue relazioni con il resto del
mondo, se vuole tornare ad assumere un ruolo importante nello scenario internazionale.
Per poter istituire lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia di cui si parla all’articolo 3 del
Trattato sull’Unione Europea, come riformato a Lisbona, è necessario far riferimento a
quanto affermato all’articolo 2 del medesimo Trattato, per il quale “L'Unione si fonda sui
valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato
di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze.
Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non
discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e
uomini”. In altre parole, diventa necessario cominciare a cogliere il punto di vista
dell’altro, liberarsi dei pregiudizi culturali e non assumere posizioni integraliste.
La sfida dell’Islam: Medio Oriente e Libia
“Non basteranno armi e denaro contro al Baghdadi: dobbiamo essere in grado di proporre al mondo
sunnita una narrazione alternativa e più convincente”1. Riprendo la citazione di Mario Giro,
sottosegretario agli Affari Esteri, come base per una riflessione su quanto sta avvenendo in
Libia e in Medio Oriente. La partita più difficile si gioca in questa regione. Qui geopolitica,
equilibri internazionali, etnie e religioni si intrecciano in un groviglio di nodi difficile da
sciogliere. A seguito dell’intervento militare americano in Iraq e Afghanistan dopo l’11
settembre 2001 e a causa delle primavere arabe, che hanno portato alla disgregazione dei
regimi di paesi come la Tunisia, l’Egitto, la Siria, si è generato un vuoto politico, la cui
conseguenza naturale è stata ed è tutt’ora il caos, di cui sta approfittando il gruppo di
jihadisti guidati da al Baghdadi. Costoro stanno cercando di costruire uno Stato islamista
nei territori di Iraq e Siria, sfruttando il desiderio degli arabi sunniti di liberarsi da vecchi
gioghi geopolitici imposti dall’Occidente e di eguagliare la fazione sciita che già fa
riferimento ad uno Stato, l’Iran. Un ruolo decisivo lo gioca il discorso religioso e la spinta
che deriva dal mito dell’epoca d’oro del primo Islam. Quest’ultimo concetto, che ha molta
presa specialmente nel reclutamento di giovani europei musulmani nella fila dei jihadisti,
deriva dalla concezione wahhabita, corrente religiosa fondata da Ibn Abd al Wahhab (1703
– 1792), che guarda all’origine dell’Islam come paradigma a cui ciascun musulmano deve
ispirarsi. Pertanto lo Stato Islamico propone una soluzione etnico religiosa, per stimolare
sia la componente arabista che quella islamista ai fini di un suo consolidamento.
L’organizzazione Jihadista si definisce uno Stato, delinea il su assetto intorno a giacimenti
petroliferi, corsi d’acqua, villaggi e città importanti come Mossul e Raqqa e fonda il suo
funzionamento sulla legge coranica. Ma il vero punto di forza dell’IS è la comunicazione,
sia verso l’Occidente, impaurito e terrorizzato da quanto ci viene mostrato dai video di sua
produzione, sia verso gli arabi sunniti, promettendo loro la costruzione di uno Stato e il
raggiungimento della libertà, la fine dell’oppressione da forze straniere e interessi di
geopolitica. Niente di nuovo, se pensiamo alla nostra storia e ai nazionalismi europei.
1
Mario Giro, La sfida che ci lancia lo Stato Islamico, Limes, 29.12.2014 http://temi.repubblica.it/limes/lasfida-che-ci-lancia-lo-stato-islamico/67586
In Libia la situazione non é molto diversa: il paese si trova nel caos, generato dal vuoto di
potere dovuto al rovesciamento del regime di Gheddafi, che ha governato il paese dal 1969
fino al 2011, anno della sua morte. La situazione odierna è delicatissima e disastrosa. Ci
sono due governi che si contendono il controllo del paese: quello di Tobruk ad Est,
guidato da Abdullah al Thani, riconosciuto a livello internazionale e risultante dalle
elezioni dello scorso giugno, anche se dichiarate nulle dalla Corte suprema libica, e quello
di Tripoli, capeggiato da Omar al Hassi, che guida una colazione comprendente forze
estremiste. La contrapposizione tra questi due governi ha radicalizzato il rifiuto reciproco
l’uno dell’altro, tanto che nemmeno l’ultimo tentativo di mediazione da parte delle
Nazioni Unite, verificatosi a gennaio, ha portato ad esiti positivi.
La mancanza di una leadership politica unica per tutto il Paese, la debolezza delle
strutture di governo e dei parlamenti delle due fazioni, ha facilitato l’emergere delle
milizie che lottano per il controllo del territorio. Queste milizie sono l’espressione di
interessi tribali e locali e includono formazioni jihadiste. Il governo di al-Thani ha
appoggiato l’Operazione dignità della Libia, lanciata dalla milizia dell’ex generale Khalifa
Haftar, il quale cerca di legittimare la sua posizione e il suo ruolo in Libia, combattendo le
milizie jihadiste.
Lo stato confusionale della situazione libica non permette di capire quante siano le forze
riconducibili allo Stato Islamico presenti nel territorio e quanto stretto sia il rapporto con il
nucleo originario di Iraq e Siria. Le forze operanti nel paese nord africano affermano di
appartenere all’organizzazione dello Stato Islamico, che ora controlla città importanti
come Derna e Sirte. Il rischio di un intervento militare è quello di acuire la frattura già
esistente tra i due governi e l’instabilità del paese, anziché risultare punto di forza per la
legittimazione interna del governo di Tobruk e per la risoluzione delle minacce jihadiste,
che invece risulterebbero rafforzate nel loro fondamentalismo e nel loro obiettivo di
continuare a combattere l’Occidente e l’imposizione dei suoi equilibri geopolitici.
Come possono intervenire la NATO e l’Unione Europea? Quali sono le azioni strategiche
che potrebbero rivelarsi utili ai fini di un miglioramento di queste situazioni?
Un primo passo potrebbe essere quello di pianificare un’azione politica congiunta, per non
lasciare soli i paesi che nel Medio Oriente o Nord Africa si trovano a combattere per la
sussistenza dei propri Stati. Quanto meno in Libia, NATO ed Unione Europea potrebbero
adoperarsi per ottenere un cessate il fuoco, in maniera diplomatica e, se necessario,
militare. Operazioni di peace keeping potrebbero rivelarsi molto preziose ai fini della
sicurezza dei civili, delle strutture governative, per l’installazione di depositi d’acqua,
impianti elettrici e pozzi petroliferi. Ma soprattutto si auspica una soluzione politica della
crisi libica, con un intervento programmato NATO – UE a sostegno del parlamento di
Tobruk.
Nel frattempo gli americani sono usciti allo scoperto e hanno dichiarato di essere pronti
all’addestramento in Iraq di truppe irachene e curde per uno scontro diretto contro lo
Stato Islamico, prima dell’estate, per riconquistare Mossul2. Simili operazioni stanno
avendo luogo in Qatar, Giordania, Arabia Saudita, ma soprattutto in Turchia, dove il
ministro degli esteri turco Sinirlioglu e l’ambasciatore americano in Turchia, John Bass,
hanno firmato un accordo per l’addestramento, che dovrebbe cominciare nel mese di
2
Lolita Baldor, Official: Mission to retake Mosul to begin in April, May, Associated Press 19.2.2015
http://bigstory.ap.org/article/9f9586c2577d49b2b4ca0d1b7ecfe825/official-mission-retake-mosul-beginapril-may
marzo, di forze ribelli moderate in Siria, pronte a combattere sia lo Stato Islamico che il
regime di Assad.
Al di là delle operazioni militari, risulta fondamentale cominciare a percepire il punto di
vista di chi ci combatte. Gli estremisti islamici vedono nell’occidente un mondo corrotto,
che pensa solamente all’espansione e consolidamento dell’economia capitalistica e
finanziaria delle banche.
L’Europa, cosi come gli Stati Uniti, hanno bisogno di mostrare quanto sia forte la loro
democrazia, senza cadere nella provocazione di mostrarsi nelle virtù militari, tramite una
politica di potenza. Per rispondere alle minacce dell’Isis, l’Occidente deve mostrare il lato
positivo della globalizzazione economica e può farlo solamente con politiche economiche
che non accentuino le differenze di ricchezza tra Stati industrializzati e Stati in via di
sviluppo. Globalizzazione deve significare prendere coscienza delle differenze che
esistono nel mondo tra popoli e culture diverse e non considerarle un peso o un ostacolo ai
fini di un maggior arricchimento economico, ma spazio di sviluppo e consolidamento di
una maggiore solidarietà e dialogo tra i popoli. Se l’Occidente vuole vincere questa
battaglia, non può mostrare il volto di un integralismo culturale (la supremazia
dell’Occidente sull’Oriente), che fa il gioco del nemico che si vuol vincere. Né ci si può
limitare a parlare di scontro di civiltà, perché questo significherebbe rinnegare i valori
europei sintetizzati all’art. 2 TUE.
Il Mediterraneo e l’immigrazione
Il tema della stabilità politica si collega inevitabilmente a quello dell’immigrazione, che
vede l’Europa, con l’Italia in prima fila, coinvolta dai flussi di persone che, in condizioni
disumane sono costrette ad affrontare viaggi, che purtroppo non sempre garantiscono
l’arrivo nei luoghi di destinazione. La guerra civile in Libia ha portato ad un aumento dei
flussi migratori e questo ha comportato un problema verso il quale l’atteggiamento
dell’Europa è stato tutt’altro che coerente con i principi europei di solidarietà, non
discriminazione, uguaglianza e ha evidenziato una mancanza di una politica comune
sull’immigrazione, frutto del diverso modo di percepire e pensare alla responsabilità dei
flussi migratori nel Mediterraneo.
Dall’ottobre 2013, l’Italia, con l’operazione Mare Nostrum, guidata dalla Marina militare e
durata fino al primo novembre 2014, ha soccorso circa 100.250 persone, arrestato più di 728
scafisti e sequestrato 6 navi. Tuttavia emergono anche i dati negativi che riguardano i 499
morti nelle operazioni di salvataggio, i 1446 presunti dispersi e i 192 cadaveri da
identificare. Il costo necessario per affrontare questa operazione è stato di 114 milioni di
euro in un anno, 9.5 mensili. L’Europa ha deciso di muoversi attraverso Frontex, l’agenzia
europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati
membri dell’Unione Europea, venuta alla luce con il regolamento del Consiglio 2007/2004,
che ha inaugurato l’operazione Triton, a partire dal primo novembre 2014 e in sostituzione
di Mare Nostrum. Ma la spesa che l’agenzia europea delle frontiere affronterà per
sostenere questa operazione è di 3,5 milioni di euro mensili ed essa non si spingerà oltre la
frontiera Italiana (fino a 30 miglia dal litorale italiano), mentre Mare Nostrum operava
quasi fino ai confini della Libia. Il paese ospitante l’operazione è l’Italia, che per questo
motivo riceverà le navi intercettate. Triton schiererà ogni mese due navi d’altura, due navi
di pattuglia costiera, due motovedette, due aerei ed un elicottero. Tra i paesi partecipanti
oltre l’Italia (che mette a disposizione un aereo, un pattugliatore d’altura e due costieri) ci
sono l’Islanda (con una nave) e la Finlandia (con un aereo). Il centro di coordinamento
internazionale dell’operazione è stabilito presso il Comando aeronavale della Guarda di
finanza a Pratica di mare (Roma). I mezzi Frontex partiranno da due basi: Lampedusa e
Porto Empedocle e pattuglieranno il Canale di Sicilia ed il mare davanti alle coste calabresi
fino a 30 miglia dal litorale italiano.
La scarsità dei mezzi messi a disposizione stride con la gravità della situazione. Di fronte
alla morte di migliaia di persone e alla criminalità organizzata che sfrutta situazione di
guerre civili per imbarcare illegalmente le persone, l’Europa risponde con misure
restrittive, dedite alla salvaguardia dei confini, ma non offre soluzioni a chi ne avrebbe
bisogno. In questa battaglia è in gioco la credibilità dell’Europa, perché il problema della
migrazione non può essere solamente a carico di chi ne percepisce gli effetti in prima
battuta, proprio come l’Italia. E’ l’Europa che è chiamata a rispondere usando le sue carte
migliori, applicando i suoi valori verso gli emigranti, e non giocando di rimessa,
adottando un’ottica di spending review o di eccessiva sicurezza preventiva. All’Europa ora
spetta mostrare quanto i suoi principi siano solidi e aperti al resto del mondo.
La Russia
La sicurezza in Europa vede la Russia come attore principale, accanto (anche se sarebbe
più realistico dire in opposizione) alla NATO e all’Unione Europea. Non c’è dubbio che gli
eventi che dall’aprile dello scorso anno hanno avuto luogo in Ucraina hanno influito e
stanno influendo sull’andamento delle relazioni tra la Russia e l’Occidente. I toni sono
molto tesi. Putin3 ha recentemente descritto la NATO come il principale nemico della
Russia, mentre il vice segretario generale della NATO, Alexander Vershbow, non ha usato
dolci parole per raffigurare il comportamento della Russia: ha parlato di aggressione e ha
ribadito che il modus operandi messo in atto da Mosca non riflette la strategia adottata
solo per l’Ucraina, ma più in generale quella degli ultimi anni4. L’accordo di Minsk,
entrato in vigore dal 15 febbraio e sottoscritto dal presidente russo Putin, da quello
ucraino Poroshenko, dalla cancelleria tedesca Angela Merkel e dal presidente francese
Francois Hollande, oltre ad aver sottolineato l’assenza di peso politico delle istituzioni
europee, (nessuna delle quali era presente alla sottoscrizione dell’accordo) ha ottenuto un
cessate il fuoco nella regione del Donbas, Ucraina dell’Est, tra l’esercito di Kiev e le armate
dei separatisti filorussi. Il fantasma che appare all’orizzonte è quello dell’accordo già
trovato a settembre sempre a Minks, ma mai rispettato. La posta in gioco è molto alta. Da
un punto di vista militare, si sta lavorando per il ritiro delle armi pesanti da entrambi le
parti e delle truppe straniere impegnate nel conflitto; ulteriori sforzi sono previsti per il
rilascio dei prigionieri e la fornitura di aiuti umanitari. Parte dell’accordo riguarda
l’assetto dell’Ucraina: gli obiettivi prefissati sono, entro la fine dell’anno, la stesura di una
nuova costituzione, che introduca la decentralizzazione e statuti speciali per le regioni di
Donestk e Lugansk, sotto il controllo dei filorussi, e l’impostazione di un dialogo politico,
che porti ad una definizione dei confini nazionali da parte del governo ucraino. Il tutto
avverrà con il costante monitoraggio del cessate il fuoco da parte dell’OCSE.
Molte sono, nel mondo occidentale, le preoccupazioni per lo stato della tregua. L’Europa
deve inevitabilmente fare i conti con il rifornimento energetico, di cui la Russia è il suo
principale fornitore, mentre gli Stati Uniti stanno cercando di risolvere questo problema
attraverso lo Shale Gas (che però è più una scommessa, che una alternativa). L’esacerbarsi
dei rapporti tra NATO e Russia ha portato gli Stati Uniti a parlare di un eventuale invio di
3
4
Putin, Consiglio di sicurezza russo del 26 dicembre 2014
Alexander Vershbow ,Oslo, 2 febbraio 2015 http://www.nato.int/cps/en/natohq/news_117068.htm
armi all’esercito ucraino, qualora il cessate il fuoco non perduri. Ma ciò potrebbe portare
ad una escalation del conflitto e ad un sostanziale irrigidimento (qualora ce ne sia ancora il
bisogno) delle relazioni tra la Russia e paesi europei e l’intero sistema NATO. Gli Stati
Uniti, in particolare, hanno dichiarato di essere disposti anche all’addestramento
dell’esercito di Kiev, che fino ad ora non si è mostrato sufficientemente attrezzato per
sconfiggere le forze separatiste russe. Ma a quest’atteggiamento, se ne contrappone uno
più cauto di Francia, Germania, Gran Bretagna, le quali non vorrebbero diventare i
principali e prossimi protagonisti di un conflitto contro la Russia. La quale sta facendo la
voce grossa anche nei paesi baltici per ribadire, nonostante l’appartenenza alla NATO di
Lituania, Lettonia ed Estonia dal 2004, che quella zona è ancora d’influenza sovietica. Non
c’è bisogno di ulteriori dichiarazioni sulla disponibilità ad utilizzare armi, anche nucleari,
per capire che Russia e NATO (o meglio Stati Uniti) siano disposti ad intervenire e
mostrare la propria forza per risolvere il conflitto. Ma quello che ci si chiede è se
effettivamente questo sia il metodo giusto o più efficace. Non sarebbe più opportuno che
l’Occidente (USA) riconoscesse che la politica del contenimento non può avere luogo in
questa fase storica nei confronti dei suoi avversari? Che non ci si trova più in una fase di
contrapposizione tra fazioni completamente contrapposte? Non sarebbe più saggio
riconoscere le sfere d’influenza della Russia e cercare di avviare dialoghi politici volti al
mantenimento della pace piuttosto che ricorrere alla politica di potenza? Forse questo
atteggiamento faciliterebbe anche il quieto svolgersi del mercato energetico, con Europa e
Stati Uniti impegnati proprio in Medio Oriente e in Russia.
IL RAPPORTO TRA UNIONE EUROPEA E NATO:
PROBLEMATICHE E POSSIBILI SOLUZIONI
Dott.ssa Federica Cocivera
Vorrei principalmente incentrare l’attenzione su alcuni punti cruciali del rapporto tra
Unione Europea e Nato in tema di sicurezza. Oggi più che mai , infatti, assistiamo ad un
aumento esponenziale delle minacce alla pace ed alla sicurezza internazionale. Il processo
di globalizzazione è entrato a tutti gli effetti nelle nostre vite, ed è purtroppo entrato anche
attraverso il terrorismo, di conseguenza, come esaustivamente affermato nel seminario di
apertura, “Non si tratta più di un concetto astratto e ci introduce in un mondo dai contorni
incerti”. Quindi è evidente come la sicurezza internazionale debba essere perseguita con
tutti i mezzi possibili: - in primis con una efficace diplomazia preventiva, (e soprattutto
oggi in Libia notiamo quanto questa sia importante e rilevante per cercare il più possibile
di prevenire interventi militari, che invece sarebbero un grande rischio per le democrazie
occidentali. Difatti un’ azione con finalità di peacekeeping oggi sarebbe impossibile, perché
le milizie non accetterebbero di sottomettersi ad una forza militare e ci sarebbero atti
ritorsione), - in secondo luogo rileva come sia importante il rafforzamento di
organizzazioni, quali appunto Nato e UE. L’Unione europea e la Nato percorrono da anni
un cammino di avvicinamento reciproco, a partire dal vertice di Washington del 1999, in
cui l’UE rese manifesta l’esigenza di dotarsi di un’autonoma capacità logistica delle
situazioni di crisi ed in cui l’Alleanza Atlantica rendeva disponibile le proprie capacità di
pianificazione agli alleati europei. La ridefinizione dei rapporti tra Nato ed Unione
Europea , oggi ha assunto un aspetto cruciale. Molti però sono ancora i nodi da sciogliere .
In primo luogo, la divisione dei compiti e delle responsabilità, ma anche la carenza di un
dialogo politico ed istituzionale, ed ancora la mancanza di un chiaro coordinamento e di
cooperazione a livello pratico tra le due organizzazioni nella gestione delle situazioni di
crisi. Ci troviamo di fronte ad un momento cruciale, lo si è visto nell’attuale vicenda in
Ucraina, ma anche in Libia, le quali stanno mettendo in chiara luce le debolezze, le fragilità
e soprattutto le modifiche che devono essere apportate a questo sistema di rapporti.
Sicuramente gli “Accordi Berlin Plus”, e successivamente l’individuazione delle cosiddette
“missioni di Petersberg”, incluse all’articolo 17 del Trattato sull’Unione Europea, hanno
costituito un passaggio chiave nel progresso in tal senso, in quanto rappresentano un
tentativo di superamento delle problematiche indicate, ma l’esplosione delle rivolte nel
Medio Oriente ha stigmatizzato, oltre l’inadeguatezza del tradizionale approccio
dell’Unione Europea nei confronti del Mediterraneo, anche la fragilità della sua azione
esterna e le difficoltà nello svolgere un ruolo incisivo. La stessa gestione della crisi libica
ha messo in luce le debolezze dell’Alleanza Atlantica. Varie infatti sono le strategie, una
francese, una statunitense, una italiana e non risulta sempre di facile realizzazione il
raggiungimento di un obiettivo comune. Sicuramente la crisi libica, e di conseguenza la
gestione europea delle ondate di immigrati che approdano sulle coste italiane, stanno
influenzando non poco la credibilità sia della Nato che dell’Unione Europea, che, come
sappiamo, vengono sempre giudicate in base a come lavorano e soprattutto a come viene
percepita la loro presenza sul territorio. Il partenariato tra UE e Nato nella gestione delle
crisi si è sempre basato su valori comuni e sulla indivisibilità della dimensione della
sicurezza. Mentre la Nato rimane la base della difesa collettiva dei suoi membri, la Politica
di Sicurezza e difesa comune (PSDC) ha ottenuto la capacità di utilizzare strumenti già a
sua disposizione per far fronte alle situazioni di crisi. Tuttavia, in materia di cooperazione
tra UE e Nato spesso è stato difficile individuare un’agenda comune, dovuto anche a
meccanismi di raccordo spesso oggetto di veti incrociati. Il caso più eclatante è il veto della
Turchia sulla partecipazione di Cipro agli incontri Nato-UE. Per quanto riguarda, invece,
la cooperazione operativa tra le due organizzazioni, sembra questa essere maggiormente
efficace, ma, anche in questo caso, varie sono le difficoltà che si sono sollevate, quali ad
esempio quella di intervenire tempestivamente, dato che le due istituzioni devono
preventivamente accordarsi sulle strategie da adottare. Un ulteriore aspetto da analizzare
riguarda la cooperazione tra Unione Europea e Nato in materia di antiterrorismo, che,
soprattutto oggi, rimane problematica. Come sottolineato precedentemente, l’UE tende a
incentrare la propria attività principalmente nelle politiche di sicurezza, nonché nel campo
della lotta al terrorismo internazionale, mentre la Nato vanta un approccio immediato e
consolidato ad attacchi di tale natura. Dal momento che la minaccia del terrorismo è
sempre più in evoluzione, anche l’impegno europeo per contrastarla deve evolversi,
affinché possa anticipare tali tipologie di minacce. Il miglioramento delle capacità di cui ha
bisogno l’Europa non deve contrapporsi ai poteri della Nato, ma deve condurre al
miglioramento qualitativo dei centri di comando e dei sistemi di difesa, cambiamenti, sia
di tipo strategico che di tipo tattico. L’Europa sembra soffrire gli stessi problemi della
politica estera comune, ossia troppo limitate deleghe di porzioni della sovranità nazionale
da parte degli Stati, che temono una eccessiva discrezionalità. Si è sentita inoltre
l’esigenza, da più acclamata, della costruzione di una forza militare europea, per superare
i limiti che i singoli Stati incontrano e per realizzare una politica di sicurezza e difesa che
sia all’altezza delle sfide attuali. La presenza di un esercito europeo potrebbe, difatti,
conferire alla Nato maggiore forza , e consentire , invece, all’Unione Europea di avere
maggiore presenza politica in ambito internazionale. Quindi l’Unione Europea dovrebbe sì
avere un approccio civilistico integrato e rafforzato per il mantenimento dell’ordine
pubblico, ma allo stesso tempo dovrebbe avere anche una componente militare che
mantenga la sicurezza e pianifichi le operazioni. Sicuramente, non soltanto l’UE ma anche
la Nato presenta dei limiti strutturali che rendono fondamentale un rafforzamento della
responsabilità strategica dell’Unione Europea nel medio e lungo termine. I numerosi tagli
che alcuni Stati Membri hanno apportato alle spese militari non hanno però portato a passi
aventi significativi. Lo stesso Parlamento Europeo ha manifestato la necessità di creare un
maggior rafforzamento dei rapporti tra Unione Europea e Nato, che dovrebbero appunto
sviluppare una cooperazione più solida nelle operazioni di gestione delle crisi, che si basi
su una migliore gestione delle attività, nonché sulla creazione di strutture di cooperazione
permanente (che comunque non pregiudichino la natura autonoma ed indipendente di
entrambe le organizzazioni). Ciò consentirebbe infatti di apportare un efficace aiuto nelle
attuali situazioni di crisi, senza mettere da parte la partecipazione di tutti i membri Nato.
Attualmente, quindi, per l’Unione Europea e la Nato, la via migliore risulta essere quella
di sincronizzare al meglio i processi di sviluppo delle proprie capacità militari e di
cooperazione, in modo da evitare qualsiasi futura ripercussione sulla sicurezza in ambito
europeo ed internazionale, e soprattutto rimuovere gli ostacoli politici che vi si
frappongono.
SVILUPPI RECENTI
Dott.ssa Giulia Fossi
Io vorrei, invece, soffermarmi sugli sviluppi più recenti della Nato e dell’Ue in materia di
sicurezza e difesa, rilevandone le principali criticità e potenzialità. Questo nell’ottica,
soprattutto, di animare un dibattito attorno al futuro rapporto tra le due Organizzazioni e
agli scenari possibili.
Nato
Partendo dalla Nato, va subito rilevato come sia cambiato il suo ruolo a partire dalla fine
della Guerra Fredda. Venuto meno il nemico sovietico che aveva costituito la principale
ragion d’essere dell’Alleanza ha iniziato a delinearsi una sua proiezione esterna con
prospettive di una Nato sempre più globale, impegnata in azioni che andavano al di là
della tradizionale difesa territoriale. Questa nuova tendenza è evidente a partire dal
Concetto Strategico del 1991 e del 1999. La Nato si è inoltre aperta ai Paesi dell’ex blocco
sovietico che hanno mostrato una certa propensione ad entrare nell’Alleanza come
garanzia di sicurezza da eventuali rivendicazioni territoriali da parte della Russia. Dalla
prospettiva dell’Alleanza questo allargamento verso est ha risposto alla doppia esigenza
di contribuire al consolidamento delle istituzioni democratiche dei Paesi ex satelliti
dell’URSS e alla riduzione del rischio di conflitti in Europa. Questo ha comportato l’entrata
di diversi Paesi dell’Europa orientale e delle tre Repubbliche baltiche.
Ad oggi il ruolo della Nato è definito dal Nuovo concetto strategico del 2010 che si basa
sull’idea che l’attuale scenario geopolitico mondiale è in continuo mutamento e che la
sicurezza dell’area europea e nord-atlantica è minacciata da molteplici fattori di criticità;
tra quest’ultimi le crisi regionali diffuse, le minacce terroristiche e cibernetiche, la
criminalità organizzata, le interruzioni dei flussi di risorse energetiche, la proliferazione
delle armi di distruzione di massa, l’instabilità permanente di alcune realtà statuali e
l’emersione di nuove forme di minacce denominate ibride. Nel sottoscrivere questo
documento i Capi di Stato e di Governo hanno voluto inviare un messaggio politico
rimarcando l’importanza del legame euro-atlantico, riaffermando la missione principale
della Nato: “Prevenire le crisi promuovendo la stabilità internazionale prima che le criticità geostrategiche mettano in crisi la sicurezza dei 28 Alleati”. Ed è proprio su questo ruolo “globale”
della Nato che si è aperto un intenso dibattito tra il gruppo dei Paesi favorevoli a tale tipo
di approccio, quelli più propensi alla difesa collettiva del territorio euro-atlantico ed un
terzo gruppo orientato su una posizione intermedia. Il nuovo Concetto strategico ha
ridisegnato il futuro dell’Alleanza essenzialmente attorno a 3 pilastri: la difesa collettiva ,e
quindi l’art. 5 del Trattato di Washington, che rimane il vero core business
dell’Organizzazione, questo soprattutto a causa degli avvenimenti del decennio 1999-2009,
in particolare l’11 settembre che ha rimesso in luce la vitalità di questo principio per i Paesi
membri; il secondo pilastro è stato individuato nella gestione delle crisi, basata sempre di
più su un approccio multidimensionale, il cosiddetto comprehensive approach (integrazione
dei compiti civili e militari). Questo perché di fronte alla nuove crisi e minacce che sono
spesso di natura ibrida e asimmetrica la capacità militare non può più costituire l’unico
strumento per fronteggiare queste situazioni; infine la sicurezza cooperativa, da attuarsi
attraverso l’istituzione di partenariati con altre Organizzazioni e Paesi esterni all’Alleanza
Atlantica, e che mira alla stabilità del panorama internazionale. A tal fine, ad esempio, la
Nato a partire dagli anni ’90 ha sviluppato partenariati internazionali in Europa, Asia
centrale, nel Mediterraneo e nel Golfo e ha rafforzato il dialogo e la cooperazione con i
tradizionali partner dell’Asia e dell’Oceania come il Giappone, la Corea del Sud,
l’Australia e la Nuova Zelanda (i cosiddetti Paesi amici). L’obiettivo è quello di rafforzare
la sicurezza in Europa, assistendo i Paesi non membri nella riforma del settore sicurezza e
difesa secondo gli standard della Nato e creando meccanismi di cooperazione contro le
nuove minacce regionali e globali. Questo tuttavia non ha comportato delle garanzie di
sicurezza ma soltanto di collaborazione. Tra questi partenariati ricordiamo il Partenariato
per la pace, aperto a tutti i Paesi non membri dell’area euro-asiatica che è uno strumento
per l’avvicinamento agli standards della Nato dei Paesi dell’ex blocco sovietico e dei
Balcani; esso si traduce essenzialmente in una serie di accordi bilaterali. Il Dialogo
Mediterraneo che ha interessato i Paesi della sponda sud del Mediterraneo; l’Iniziativa di
cooperazione di Instanbul con i membri del Consiglio di cooperazione del Golfo.
Di fronte a queste nuove tendenze emergono tuttavia non poche criticità. Per quanto
riguarda i partenariati, per esempio, bisogna rilevare che fin’ora non hanno portato a
grandi risultati a causa di una serie di divergenze politiche (per es. diverse posizioni sul
conflitto israelo-palestinese) e per la mancanza di una visione condivisa dei problemi di
sicurezza regionali; in più i Paesi arabi non vogliono interferenze da parte dei Paesi
occidentali nei loro affari internazionali.
Inoltre le nuove missioni di mantenimento della pace e di gestione delle crisi hanno posto
molti interrogativi: per esempio, se e in quali circostanze l’Alleanza possa agire anche in
assenza di un mandato dell’ONU (si veda per es. l’intervento nella ex Jugoslavia o in
Libia); come realizzare un’equa e funzionale divisione degli oneri e delle responsabilità fra
gli alleati (emblematico il caso dell’Afghanistan) > dislivello di impegno che crea nuovi
contrasti all’interno dell’Alleanza; come garantire un coordinamento e delle sinergie
adeguate con le altre organizzazioni internazionali impegnate sul terreno e di qui
l’esigenza di rafforzare i legami istituzionali/operativi con l’Ue, con l’OSCE e l’ONU; c’è
poi un problema di legittimità politica: per esempio in Medio Oriente, gli attori locali
potrebbero preferire collaborare con altre organizzazioni, come l’ONU o la stessa Ue,
specie se si trovano in contrasto con gli USA su alcune questioni.
Anche riguardo alle capacità c’è bisogno dell’aumento delle forze schierabili sia per
missioni ex art. 5 sia per le missioni “fuori area” (basti pensare che il personale militare
non schierabile si aggira oggi attorno al 70% del totale). A questo scopo si è pensato di
dotare la Nato di un corpo di spedizione stabile: la Nato Response Force, forza
multinazionale di rapido impiego con personale specializzato in grado di far fronte a
diversi compiti (gestione delle crisi, antiterrorismo..). Questa però ha mostrato più le sue
debolezze che le potenzialità, in particolare a causa della scarsità di truppe disponibili,
della competizione con le forze di reazione rapida dell’Ue (battlegroups) e della presenza
fondamentale degli USA (è solamente quando gli USA hanno acconsentito a mettere le
proprie truppe a disposizione della Nrf che è stato possibile dichiararne l’operatività), la
scarsità di equipaggiamento militare, l’indefinitezza dei compiti ed infine la necessità di
una maggiore civil-military cooperation. Un altro problema riguarda il finanziamento di
queste missioni: è difficile trovare un metodo alternativo al principio costs lie where they fall
(ovvero ogni Paese partecipante si fa carico dei propri costi di partecipazione).
Problema del processo decisionale: avviene per consensus e quindi vige la regola
dell’unanimità. È stata proposta della clausola opt-out (il Paese che non desidera
partecipare si astiene dalla votazione, evitando di esercitare il veto) per rendere più facili
gli interventi per i Paesi che vogliono intervenire.
C’è poi la questione dell’allargamento che causa non pochi problemi, per esempio l’entrata
della Macedonia bloccata dal veto della Grecia; ci sono poi molte divisioni interne
sull’entrata di Ucraina e Georgia (USA e Paesi dell’Europa orientale favorevoli, Paesi
continentali come Francia, Italia, Spagna, Grecia, Germania contrari perché vorrebbero
evitare nuove tensioni con la Russia e poi in gioco c’è anche la sostenibilità del principio di
difesa collettiva > il coinvolgimento e l’adesione di Paesi internamente fragili e instabili e
con contenziosi aperti con la Russia non sembra rafforzare la sicurezza degli altri Paesi
membri ma anzi potrebbe generare nuove tensioni).
Ed infine il rapporto con la Russia che, nonostante alcuni progressi come la creazione del
Consiglio Nato-Russia nel 2002 e la cooperazione su alcune tematiche come il terrorismo e
la missione in Afghanistan , è caratterizzato da continui alti e bassi e probabilmente su
alcune questioni continuerà a rimanere problematico, come per es. la competizione tra
Russia e Paesi occidentali per l’influenza economica/politica in Europa orientale; il
processo di allargamento della Nato; i contrasti sul controllo degli armamenti, in
particolare sull’attuazione della versione rivista del Trattato sulle forze armate
convenzionali che non è stata ratificata dai membri della Nato a causa del mancato ritiro
delle truppe russe dalla Moldavia e dalla Georgia (la disputa sul trattato Cfe si è
ulteriormente inasprita nel luglio 2007, quando Putin ha deciso di sospenderne a tempo
indefinito l’attuazione da parte russa in risposta al piano americano di difesa antimissile);
potrebbero emergere dispute territoriali nella regione artica.
UE
Per quanto riguarda l’Ue, negli ultimi 2 decenni sono stati compiuti molti sforzi in termini
finanziari e politici nell’ambizioso progetto di sviluppare una propria dimensione europea
in materia di sicurezza e difesa. Il risultato è stato la creazione all’interno della Pesc della
Politica europea di sicurezza e difesa comune (Pesd) i cui obiettivi principali sono la
creazione di capacità militari per effettuare operazioni all’estero, questo perché dalla metà
degli anni’90, in particolare con le guerre balcaniche, è diventato evidente che lo
strumento della difesa collettiva in Europa fosse slittato dalla difesa territoriale
all’intervento all’estero in operazioni di ristabilimento della pace o stabilizzazione;
l’integrazione dei mercati europei dei prodotti di difesa, un ambito ancora critico poiché
questo campo è rimasto per lo più di competenza nazionale.
I principali organi a livello politico sono il Consiglio affari generali e relazioni esterne
(Cagre), opportunamente affiancato dall’Alto rappresentante/segretario generale (Ar/Sg) e
dal Comitato politico e di sicurezza (Cops) che ha il compito di proporre linee guida e
opinioni al Cagre in materia di Pesc/Pesd. Per gli aspetti militari ricordiamo il Comitato
militare, lo Stato maggiore (all’interno di questo è stata creata la Cellula civile-militare per
garantire l’approccio integrato delle missioni) e il Gruppo politico-militare; per la
componente civile il Comitato responsabile per gli aspetti civili di gestione delle crisi e la
Capacità civile di pianificazione e condotta. Io ne ho citati solo alcuni ma approfondendo
le funzioni e le responsabilità dei vari organi si delinea un quadro piuttosto complesso in
cui spesso non si capiscono le competenze specifiche di ognuno e questo ha portato a
diversi problemi di sovrapposizione di compiti e coordinamento. Le missioni Pesd si
dividono in civili, militari e integrate. Hanno in genere una portata modesta, quella più
impegnativa è la missione Althea in Bosnia e unica nel suo genere è la missione marittima
dell’Ue del 2008 in Somalia per combattere la pirateria. La catena di comando può variare
a seconda che la missione venga condotta dall’Ue in cooperazione con la Nato (in questo
caso al comando della missione è posto il vice-Comandante supremo della Nato) oppure
autonomamente (in questo caso si utilizza il meccanismo della Nazione-quadro oppure,
nel caso in cui non si riesca ad individuare un Quartiere generale presso gli Stati membri,
l’Operations Centre attivabile all'interno della Cellula civile-militare). Il Trattato di
Lisbona ha introdotto alcune novità significative: ampliamento dei compiti di Petersberg,
laddove per es. si è aggiunto la lotta al terrorismo che è individuato dalla Strategia
europea di sicurezza del 2008 come una delle principali minacce; la clausola di solidarietà,
prevista dall’art. 222 del TFU: “L'Unione e gli Stati membri agiscono congiuntamente in
uno spirito di solidarietà qualora uno Stato membro sia oggetto di un attacco terroristico o
sia vittima di una calamità naturale o provocata dall'uomo”; la clausola di assistenza
reciproca, prevista all’art. 42.7 TUE che dice che “Qualora uno Stato membro subisca
un'aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e
assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni
Unite”. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di
taluni Stati membri. Gli impegni e la cooperazione in questo settore rimangono conformi
agli impegni assunti nell'ambito dell'Organizzazione del Trattato del Nord-Atlantico che
resta, per gli Stati che ne sono membri, il fondamento della loro difesa collettiva e l'istanza
di attuazione della stessa”; la cooperazione rafforzata permanente che permette agli Stati
che possiedono particolari requisiti in termini di capacità militare di intraprendere
iniziative in ambito di difesa. Questa novità è importante perché per costituire questa
forma di cooperazione è necessaria la maggioranza qualificata, rispetto alla regola
dell’unanimità che vige in ambito Pesd. E’ stata inoltre istituita l’Agenzia europea per la
difesa, con lo scopo di sviluppare una politica comune nel campo degli armamenti
attraverso la promozione e l’avvio di programmi congiunti, l’armonizzazione dei requisiti
militari e l’integrazione delle attività di ricerca e sviluppo. Alcune criticità: sviluppo
irregolare della Pesd a causa delle diverse correnti (atlantismo vs europeismo), ancora una
volta si tratta prima di tutto di un problema di integrazione politica; la Pesd si è sviluppata
essenzialmente come strumento di gestione delle crisi e prevenzione dei conflitti; gli
obiettivi e i compiti militari della Pesd sono stati molto ampliati dal Trattato di Lisbona (si
è aggiunta per es. la lotta al terrorismo che ha portato alla definizione di una Strategia per
la lotta la terrorismo) e dalla Strategia europea di sicurezza (2003) > ampliamento dei
compiti della componente civile/militare + globalizzazione del loro raggio di azione. Infine
c’è il problema della capacità: gli Stati membri differiscono in termini di personale
specializzato, tecnologia, spese per la difesa ecc. > l’Helsinki Headline Goal (progetto nato
nel corso di una seduta del Consiglio europeo del dicembre 1999) prevedeva di dotare l’Ue
di una Forza di reazione rapida entro il 2003 (60.000 soldati impiegabili entro 60 giorni
dalla decisione di lanciare la missione e con una sostenibilità di un anno per svolgere i
compiti di Petersberg). L’attenzione si è poi spostata sugli obiettivi qualitativi più che
quantitativi: interoperabilità, schierabilità, sostenibilità delle forze > è stato introdotto il
concetto di battlegroup (unità di combattimento di circa 1.500-2.200 effettivi, schierabili
entro 15 giorni e in grado di rimanere sul campo per un mese sulla base del principio di
rotazione semestrale). Lacune più marcate delle capacità militari dell’Ue: trasporto
strategico, le attività di comando/controllo/comunicazioni/intelligence, problemi di
sostenibilità del personale (natura non-permanente del personale e principio di rotazione
dei battlegroups), problemi di coordinamento nella formazione del personale sia civile sia
militare, di coordinamento della presenza Ue sul campo (i rappresentanti speciali dell’Ue
non sono integrati nelle catene di comando), problemi di coordinamento della componente
civile e militare, problema dell’integrazione dell’industria della difesa europea che è
ancora sviluppata principalmente a livello nazionale (Francia, Germania e UK vorrebbero
+ integrazione dei mercati) > nel 2004 è stata istituita l’Agenzia europea per la difesa (ha
l’obiettivo di sviluppare una politica comune nel campo degli armamenti attraverso la
promozione e l’avvio di programmi congiunti, l’armonizzazione dei requisiti militari e
l’integrazione delle attività di ricerca e sviluppo). Sono stati fatti dei passi avanti con il
“Pacchetto sicurezza” della Commissione europea. Alla luce delle nuove tendenze della
Nato e dell’Ue e delle rispettive criticità, che scenari futuri possiamo immaginare? L’Ue ha
ancora bisogno della Nato? È comunque importante che l’Ue sviluppi una propria
autonomia in termini di difesa e sicurezza o dovrebbe sfruttare maggiormente le strutture
già esistenti della Nato? Ci sarà sempre una certa collaborazione tra le due organizzazioni
in alcuni settori e una certa competizione in altri?
14 Aprile 2015 SPAZIO EUROPA ore 16.00
PARLAMENTO EUROPEO / COMMISSIONE EUROPEA
“POLITICHE PER LO SVILUPPO: RIGORE O FLESSIBILITA’ ”
Saluto : Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI
Introduzione al Forum: Prof. Fabrizio Saccomanni – Vice Presidente IAI
Docente alla London School of Economics
Coordinatore: Amb. Gianfranco Varvesi – Comitato Scientifico AESI
Amb. Roberto Nigido – Presidente Circolo Studi Diplomatici e Comitato Scientifico AESI
Prof. Giovanni Palmerio – Docente di Economia Politica
Cons. Antonia Carparelli – Consigliere Economico della
Rappresentanza della Commissione Europea in Italia
Modera: Dott. Tomasz Koguc – Vice Direttore AESI
Saluto del Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI
Vorrei aprire il mio indirizzo di saluto mettendovi in guardia da un’economia
dell’esclusione e della inequità. Dobbiamo reagire ad una visione dell’uomo e della donna
che dipendono da questa economia che uccide. Oggi sembra che tutto entri nel gioco della
competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come
conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed
emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere
umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo
dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa.
AESI FORUM PRESSO OCSE DI PARIGI - 16/17 Aprile 2015
Siamo appena rientrati dall’OCSE di Parigi che ha ospitato un FORUM AESI coordinato
con l’Ambasciatore Italiano Gabriele Checchia (vedi foto). Desidero prendere spunto
ancora e citare per voi alcune parole di questo Documento (Evangelii Gaudium di Papa
Francesco) che sono per noi motivo di riflessione e deciso impegno nel cambiare quanto
non và nella nostra comunità internazionale: “In questo contesto, alcuni ancora difendono le
teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal
libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo.
Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua
nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema
economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno
stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è
sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di
provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma
degli altri, né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea e che
non ci compete. La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre
qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di
possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo. Mentre i guadagni di
pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal
benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia
assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria.
Perciò negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune.
Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e
implacabile, le sue leggi e le sue regole. Inoltre, il debito e i suoi interessi allontanano i Paesi dalle
possibilità praticabili della loro economia e i cittadini dal loro reale potere d’acquisto. A tutto ciò si
aggiunge una corruzione ramificata e un’evasione fiscale egoista, che hanno assunto dimensioni
mondiali. La brama del potere e dell’avere non conosce limiti. In questo sistema, che tende a
fagocitare tutto al fine di accrescere i benefici, qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente,
rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta.
All’etica si guarda di solito con un certo disprezzo beffardo. La si considera controproducente,
troppo umana, perché relativizza il denaro e il potere. La si avverte come una minaccia, poiché
condanna la manipolazione e la degradazione della persona. Una riforma finanziaria che non ignori
l’etica richiederebbe un vigoroso cambio di atteggiamento da parte dei dirigenti politici, che esorto
ad affrontare questa sfida con determinazione e con lungimiranza, senza ignorare, naturalmente, la
specificità di ogni contesto. Il denaro deve servire e non governare!”
Cosa farà l’AESI con i suoi giovani, con le sue attività seminariali ed i Forum
Internazionali ? Ci impegneremo per una solidarietà disinteressata e per un ritorno di una
economia e di una finanza ad un etica in favore dell’essere umano!
Intervento della Dott.ssa Antonia Carparelli – Consigliere Economico della
Rappresentanza della Commissione Europea in Italia
Intervento del Prof. Giovanni Palmerio – Docente di Economia Politica e Comitato
Scientifico AESI
Il rigore e la flessibilità non sono in contrasto tra di loro, ma la questione deve essere
approfondita.
Iniziamo dal rigore: nessun Paese può realisticamente pensare di pagare gli stipendi e le
pensioni (in generale la spesa corrente) con l’indebitamento pubblico; certamente non può
farlo nel lungo periodo. Prima o poi tale debito incontrerebbe gravi difficoltà di
collocamento sui mercati finanziari e i tassi di interesse crescerebbero sempre di più con il
rischio concreto di portare la situazione fuori controllo. Né è realistico immaginare
l’introduzione di controlli sui movimenti di capitali o di un prestito forzoso o di misure
analoghe. Pertanto la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL deve passare attraverso
uno stimolo alla crescita, la riduzione e soprattutto la riqualificazione della spesa pubblica
e una diminuzione della pressione tributaria e contributiva che opprime il nostro sistema
produttivo.
Detto questo, però, occorre rilevare che ogni Paese dell’Unione Europea ha le sue
specificità, che riguardano non solo la sua identità e le sue tradizioni culturali, ma anche la
struttura del sistema economico. E dare ricette di politica economica identiche per i 28
Paesi dell’Unione Europea (o anche solo per i 19 dell’Eurozona) rischia di essere un limite
notevole.
Prendiamo il caso del nostro Paese. L’Italia ha un risparmio delle famiglie molto elevato e
un sistema bancario solido nel complesso. Inoltre è uno dei soli cinque Paesi del G 20 con
un surplus commerciale con l’estero nei prodotti manifatturieri (gli altri sono la Cina, il
Giappone, la Corea del Sud e la Germania). E’ vero che l’Italia ha un debito pubblico molto
elevato rispetto al PIL, ma quando la crisi bancaria – iniziata negli Stati Uniti nel 2008 – si è
trasformata in una crisi dei debiti sovrani, molti Paesi dell’Unione Europea, e tra questi
anche la Germania, hanno registrato una crescita considerevole del loro debito pubblico.
La struttura produttiva italiana è caratterizzata da alcuni settori fortemente competitivi, le
cosiddette “4 A”, su cui ha tanto insistito Marco Fortis (Docente dell’Università Cattolica
di Milano e Consigliere del Presidente del Consiglio, Renzi):
1) Abbigliamento, moda, cosmetici (calzature, oreficeria, occhiali, etc.);
2) Arredo-casa (mobili, piastrelle, ceramica etc.);
3) Alimentari e vini;
4) Automazione, meccanica e macchinari, gomma, plastica (ma anche chimica,
farmaceutica etc.)
Il punto 4 si è sviluppato sempre più con l’innovazione, mentre i punti 1) e 2), di fronte
alla concorrenza cinese e dei Paesi emergenti, si sono ritagliati nicchie di qualità.
Le categorie più adatte ad interpretare lo sviluppo economico italiano sono le piccole e
medie imprese, che producono beni non standardizzati, competitivi non solo per il prezzo,
ma per la loro qualità e specificità; stesse qualità hanno anche i distretti industriali che
hanno generato sistemi di impresa organizzati o integrati attorno ad imprese di
dimensione intermedia. Tali contesti distrettuali, come rileva Fulvio Coltorti (Direttore
emerito e Consigliere economico dell’area studi Mediobanca), risultano più idonei a
realizzare quelle innovazioni continue organizzative e di prodotto che costituiscono il vero
“driver” dell’internazionalizzazione.
Le imprese che producono beni standardizzati, la cui competitività è determinata
esclusivamente dal prezzo, sono costrette a delocalizzare le loro produzioni nei Paesi a
basso salario.
Tanti rilevano che la produttività italiana cresce lentamente, ma il surplus della nostra
bilancia delle partite correnti (e in particolare il surplus manifatturiero) mostrano che
l’economia italiana è fortemente competitiva.
In questo ambito una considerazione particolare merita il turismo, favorito anch’esso come
le nostre esportazione di beni, dalla “asimmetria dei numeri”. La Cina e l’India hanno
complessivamente una popolazione di circa 2 miliardi e mezzo di abitanti. Anche se una
percentuale minima di queste popolazioni venisse per turismo in Italia, si tratterebbe pur
sempre di numeri enormi per il nostro Paese.
Mi fermo qui. La politica economica dell’Italia, nel rispetto delle regole dell’Unione
Europea, deve puntare a tutti i livelli di Governo (non solo quello centrale, ma anche le
Regioni e i Comuni) a sviluppare le nostre vocazioni, di cui ho sinteticamente parlato.
Naturalmente, tutte queste attività produrranno occupazione, e occorre che i nostri
giovani si orientino a qualificarsi per tali tipi di lavoro, tenendo presente che il settore
pubblico non potrà più essere un ampio bacino di assorbimento di manodopera.
Intervento dell’Amb. Roberto Nigido – Presidente Circolo Studi Diplomatici e Comitato
Scientifico AESI
Vorrei fare una riflessione preliminare in una ottica soprattutto, ma non unicamente,
italiana. Se la scelta si riferisce alla gestione del bilancio dello Stato, non ho dubbi nel
rispondere: rigore. I Paesi che possono usare la flessibilità di bilancio, secondo
l’impostazione keynesiana, sono quelli che non ne hanno abusato in passato. L’ Italia ha
abusato in passato di questa possibilità fino al limite della bancarotta.
Abbiamo aderito nel 1980 al secondo progetto europeo di politica monetaria comune (Il
Sistema Monetario Europeo; il primo era stato, circa dieci anni prima, il Serpente
Monetario ) con un rapporto Debito /Pil del 60%: perfettamente in linea con il parametro
che sarebbe poi stato fissato a Maastricht. Abbiamo firmato il Trattato sulla moneta unica
nel 1992 con un rapporto del 105%, assumendo contestualmente l’impegno di ridurlo, in
un periodo di tempo allora non specificato, al 60%. Oggi, nel 2015, ventitré anni dopo,
siamo al 132%.
A mio giudizio, solo l’appartenenza all’ EURO e la conseguente benevola fiducia dei
mercati nell’ Italia, ci ha evitato la bancarotta. La bancarotta non è negli interessi della
stragrande maggioranza degli italiani; ma certi speculatori ci contano, purtroppo non
senza concrete possibilità (l’attuale bolla finanziaria mondiale si nutre di instabilità e finirà
col distruggere i Paesi occidentali, se non si adotteranno rapidamente i correttivi
indispensabili).
Con questo non voglio escludere che alcuni margini di flessibilità di bilancio, nella
valutazione degli investimenti pubblici, possano avere effetti positivi, anche in un Paese
fortemente indebitato, come l’ Italia; purché però siano ammessi e controllati dalle Istanze
europee, e sempre nel limite del 3% del Pil ( non potremmo ovviamente presentare all’
esame europeo investimenti come quelli discutibili e discussi dell’ EXPO di Milano 2015,
del MOSE di Venezia o degli interventi a favore dei “ rom “ a Roma, tanto per fare degli
esempi concreti ).
L’ alternativa alla flessibilità di bilancio, in Italia, sono le riforme, come è ormai finalmente
ben noto anche agli italiani. Sono prioritarie, a mio giudizio, innanzitutto quelle della
giustizia e dalla revisione della spesa, soprattutto a livello locale, dove i centri di potere
politico, burocratico e di spesa, e i relativi sprechi e duplicazioni, si sono moltiplicati in
misura insopportabile.
Ma le riforme a livello nazionale non bastano più, in una Europa nella quale alcune
fondamentali politiche, in particolare quella monetaria, non sono più gestite a livello
nazionale. Da sette anni ormai i Paesi dell’Unione Europea sono investiti da una crisi
economica e sociale dalla quale non riescono ancora ad uscire. Le responsabilità sono
soprattutto nazionali, ma anche europee. La costruzione della moneta unica -quelli che vi
hanno partecipato lo sapevano bene- è stata fatta su basi coraggiose ma fragili, fondate su
due condizioni: rispetto delle regole da parte dei Paesi Membri e capacità e senso di
responsabilità dei dirigenti, nazionali ed europei. Le due condizioni sono venute a
mancare negli ultimi anni.
Le responsabilità nazionali possono essere riassunte nel mancato rispetto delle
fondamentali regole di bilancio sancite nel Trattato e nella incapacità dei loro dirigenti di
attuare le riforme interne necessarie per poter competere in un mercato aperto all’ Europa,
prima, e al mondo, ora.
Quelle europee sono tanto istituzionali (mancanza di strumenti finanziari in funzione anticiclica), quanto personali (incapacità dei dirigenti europei di far fronte alla crisi). Dopo
l’adozione di più stringenti e più facilmente sanzionabili regole di bilancio, solo nei mesi
scorsi sono state decise ulteriori misure concrete a livello europeo:
-un piano di investimenti: se gli Stati devono attenersi al rigore di bilancio, è responsabilità
dell’Unione promuovere la crescita con investimenti a livello europeo;
-una politica monetaria espansiva, promossa dalla Banca Centrale per contrastare la
deflazione e promuovere la crescita, come hanno fatto con successo USA e Gran Bretagna
sin dall’ inizio della crisi. La BCE è l’unica Istituzione europea che sia stata finora all’
altezza delle sue responsabilità: ha salvato l’EURO nel 2012, con la famosa dichiarazione
di Draghi del luglio di quell’ anno, e sta cercando ora di favorire la crescita nei limiti che le
sono assegnati dal trattato.
I dirigenti europei, nazionali e sovranazionali (con l’eccezione, come ho appena detto,
della Banca Centrale) sono stati lenti nel percepire la gravità della crisi e le sue
conseguenze, non solo economiche e sociali, ma anche quelle politiche che hanno
contribuito a minare ulteriormente la fiducia dei cittadini nell’ Europa. Sono stati lenti e
timidi nel decidere, per evitare che l’EURO affondasse, di sostenere i Paesi in difficoltà con
la creazione del Meccanismo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria. Delle riforme
istituzionali suggerite dal Rapporto dei Quattro Presidenti nel 2012, solo l’Unione Bancaria
ha visto finora la luce.
Credo si possa essere ora moderatamente ottimisti (ovviamente con riserva) nel constare
che la riflessione sulle riforme istituzionali è stata finalmente rimessa in moto dalla
richiesta del Consiglio Europeo ai Quattro Presidenti (del Consiglio Europeo, della
Commissione, della Banca Centrale e dell’Eurogruppo) di presentare un nuovo rapporto
per il luglio 2015, dopo la “Nota Analitica “ del febbraio scorso. Questo documento si
limita per il momento a individuare i problemi cui dare una risposta, ed in particolare
quello di fondo: come consolidare l’Unione Monetaria con l’Unione Economica.
Ci auguriamo che alla buone intenzioni espresse dal Consiglio Europeo seguano decisioni
rapide, concrete e coraggiose. I cittadini Europei non si aspettano dalla attuale classe
dirigente europea il grande balzo in avanti verso l’Unione Politica, ma pretendono che
almeno completi e faccia funzionare quello che è stato costruito dalla classe dirigente che
la ha preceduta.
FORUM AESI
RAPPRESENTANZA DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN ITALIA
Introduzione del Prof. Fabrizio Saccommani FORUM AESI
Intervento del Dott. Tomasz Koguc – Vice Direttore AESI
L’ALTRO SEMESTRE, IL COORDINAMENTO ECONOMICO NELL’UNIONE
Quando si sente parlare di semestre europeo tra i giornalisti ma anche tra molti addetti al
lavoro, si ha la sensazione che le idee non siano chiare sull’esistenza di due processi ben
separati. L’equivoco nasce sicuramente dalla scelta poco felice di chiamare nel 2014 i sei
mesi di Presidenza italiana del Consiglio dell’UE semplicemente con “semestre europeo”,
facilmente confondibile con il ciclo di coordinamento delle politiche economiche europee,
giunto ormai alla sua quinta edizione.
Il semestre di Presidenza dell’UE è un arco di tempo in cui i Paesi membri dell’Unione
europea si danno il cambio per coordinare l’Agenda del Consiglio europeo, un
appuntamento importante per mettere luce il proprio lavoro e spostare l’attenzione su
temi che possono essere secondari vista l’eterogeneità degli interessi. Il secondo semestre è
un processo ma anche uno strumento che vede coinvolta la Commissione europea nel
coordinare le politiche economiche dell’Unione ma anche la valutazione dei bilanci
pubblici e dell’avanzamento delle riforme strutturali. Anche nel caso dell’altro semestre
europeo, quindi di coordinamento economico dell’Unione, la scelta di chiamarlo semestre
risulta poco felice in quanto il processo intero del ciclo dura più di dieci mesi se si
considera anche la fase di interazione con i governi.
La crisi economica del 2008, ha evidenziato la chiara necessità di rafforzare la governane
economica a livello UE. Prima la programmazione di bilancio e economica nell'UE
avveniva mediante processi diversi, non esisteva una visione globale degli sforzi compiuti
a livello nazionale e gli Stati membri non avevano la possibilità di discutere una strategia
collettiva per l'economia dell'UE. La sorveglianza dell'Unione europea sulle politiche
economiche degli Stati membri si è sviluppata nel 2011 attraverso un calendario che
scandisce il susseguirsi delle varie azioni che le Istituzioni europee e gli Stati membri
devono compiere al fine di garantire finanze pubbliche sane e crescita economica. Per
sintetizzare, le politiche economiche nell’Unione possono essere inquadrate in tre obiettivi:
garantire finanze pubbliche sane, promuovere la crescita economica e prevenire gli squilibri
macroeconomici eccessivi.
Il semestre assicura quindi che gli Stati membri discutano dei rispettivi programmi di
bilancio secondo un calendario prefissato nel corso dell'anno. La ratio è quella di favorire
una guida politica e strategica da parte delle autorità europee nella prima metà di ciascun
esercizio, cioè nel periodo in cui le politiche e le decisioni di bilancio sono ancora in una
fase di programmazione all'interno di ciascun Stato membro. Gli strumenti a disposizione
per coordinare le economie europee sono uno per ogni obiettivo: per garantire le finanze
pubbliche sane la Commissione europea si avvale del Patto di stabilità e crescita che
contiene i famosi vincoli sul debito (60% o sufficiente diminuzione verso 60%) e sul
disavanzo pubblico (= 3%). Per il secondo obiettivo, la Commissione verifica altresì che gli
Stati membri stiano lavorando per la realizzazione degli obiettivi in materia di
occupazione, istruzione, innovazione, clima e riduzione della povertà fissati da Europa
2020, la strategia di crescita a lungo termine dell'UE. Infine per bilanciare gli squilibri
macroeconomici eccessivi, dopo la crisi del 2008 è stato chiesto alla Commissione di
sorvegliare gli squilibri macroeconomici e chiedere le riforme strutturali necessarie ai paesi per
bilanciare gli squilibri eccessivi.
Il ciclo inizia ogni anno a novembre con l'analisi annuale della crescita della Commissione
(priorità economiche generali per l'UE), che propone agli Stati membri orientamenti
politici per l'anno successivo. Poi ad aprile gli Stati membri presentano i programmi di
stabilità o di convergenza (piani di bilancio a medio termine) e i programmi nazionali di
riforma (PNR): in Italia, questi due documenti sono riuniti nel DEF – il Documento di
Economia e Finanza. La Commissione analizza questi programmi e prepara le
raccomandazioni specifiche per paese che sono pubblicate in tarda primavera. Il semestre
si conclude quando il pacchetto finale, proposto dalla Commissione e dibattuto dai 28 capi
di stato e di governo, è formalmente adottato dai Ministri dell'Economia e delle Finanze
riuniti in Consiglio. Questo processo offre quindi agli Stati membri una consulenza
specifica sulle riforme strutturali di più vasta portata, il cui completamento richiede spesso
più di un anno.
Intervento della Dott.ssa Chiara Pittaluga FORUM AESI
POLITICHE PER LO SVILUPPO: RIGORE O FLESSIBILITÀ?
La crisi che da diversi anni concerne l’eurozona, e in particolar modo alcuni dei suoi paesi,
affonda le sue origini nella crisi statunitense esplosa nel 2008, subendone le ripercussioni.
La crisi statunitense ha colpito principalmente gli istituti di credito o gli operatori
finanziari che avevano investito nei titoli statunitensi.
In Europa la crisi non si è limitata unicamente al settore finanziario, ma ha avuto anche un
impatto importante sul mercato reale dei beni e del lavoro.
Le conseguenze nell’eurozona si sono rivelate particolarmente gravi a causa di problemi
strutturali; infatti, a differenza degli USA, l’Eurozona non è un’Area Valutaria Ottimale.
Per Area Valutaria Ottimale (AVO) si intende una zona dipendente da un’unica banca
centrale che garantisce uniformità per gli Stati nella gestione economica. Elementi
caratterizzanti di un’AVO:
1.
2.
3.
4.
5.
Mobilità dei fattori produttivi
Flessibilità di prezzi e salari
Integrazione dei mercati finanziari
Alto grado di apertura economica
Elevata diversificazione di consumi e produzioni all’interno dei singoli paesi
costituenti l’area
6. Tassi di inflazione simili
7. Integrazione fiscale: fattore che permette la compensazione in caso di shock
asimmetrico e che in primis non può essere applicato all’eurozona.
In Europa i paesi sono profondamente differenti tra loro e non possiedono quelle peculiari
caratteristiche che permettono di ammortizzare le diversità (come avviene invece negli
Stati Uniti) e di accusare in maniera equa e relativamente meno grave gli shock
asimmetrici.
L’eurozona, dunque, non è da considerarsi un’Area Valutaria Ottimale (AVO), e non
rispetta le caratteristiche tracciate da molti economisti che motivano il ricorso a una
moneta unica.
In breve, i Paesi devono essere simili tra loro e i prezzi e i salari devono essere flessibili.
Un punto fondamentale precedentemente evocato e da tenere in considerazione è che la
crisi in Europa si è trasferita notevolmente sul mercato reale dei beni e del lavoro: il calo
delle importazioni dagli Stati Uniti ha causato un decremento notevole delle esportazioni
in Europa, quindi un’improvvisa e alquanto drastica riduzione della domanda aggregata
nel continente europeo. Conseguentemente, le imprese hanno iniziato a diminuire la
produzione e quindi l’occupazione. Con un’occupazione più ridotta e redditi più
contenuti, anche i consumi sono calati vertiginosamente, innescando un circolo vizioso
descritto anche nella “Teoria Generale” di Keynes nel 1936. L’Europa è in recessione: le
imprese non investono, gli individui non consumano. A questo si aggiunge la paralisi del
sistema bancario.
Tutto quanto enunciato fino ad ora ha avuto un impatto molto negativo sulle già delicate
situazioni dei paesi dall’elevato indebitamento pubblico, i cosiddetti “PIIGS” (Portogallo,
Irlanda, Italia, Grecia, Spagna).
L’eurozona in questo caso si è comportata in maniera opposta rispetto alle teorie della
scuola keynesiana che suggeriscono, coerentemente al problema, di mettere in atto delle
politiche monetarie e di bilancio espansive.
Si è optato infatti per la messa in atto di politiche del rigore di bilancio, basate sulla
riduzione della spesa pubblica, sull’aumento delle imposte, sulla riduzione dei salari, sulle
privatizzazioni e la liberalizzazione dei mercati, soprattutto il mercato del lavoro.
I risvolti positivi delle politiche del rigore stentano ad emergere: certamente, l’austerity
potrebbe avere un impatto positivo nel lungo periodo, ma nel breve periodo non risultano
essere la soluzione più efficace.
La strategia del rigore ha raggiunto poi il suo culmine con il Fiscal Compact, entrato in
vigore nel 2013, che interviene a modificare il patto di Stabilità e Crescita (PSC)
introducendo dei vincoli più rigidi al deficit di bilancio e al debito pubblico, associati a
delle sanzioni più stringenti e quasi automatiche. Confermato il rapporto deficit/PIL non
superiore al 3%, il Fiscal Compact sancisce poi la regola sul debito pubblico: per quei paesi
che ne presentano uno superiore al 60%, è necessario ridurre ogni anno di 1/20 della
differenza tra il suo rapporto debito pubblico/PIL e un rapporto del debito/PIL al 60%.
Un’altra rilevante novità attiene all’obbligo di introdurre le nuove regole pattuite negli
ordinamenti giuridici nazionali.
Infine, per i paesi in seria difficoltà i paesi dell’eurozona hanno predisposto un
programma di assistenza finanziaria: l’European Stability Mechanism (ESM). L’ESM,
instaurato nel 2012, è un fondo permanente a cui possono accedere solo i Paesi che
abbiano sottoscritto il Fiscal Compact, e solo dopo essersi impegnati a mettere in atto una
serie di interventi di politica economica quali una riduzione drastica della spesa pubblica e
liberalizzazione dei mercati. I fondi salva- Stati sono stati messi in campo per la Grecia,
Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro.
Per quanto concerne le strategie intraprese dalla BCE per rispondere alla crisi, queste si
sono evolute parallelamente all’evoluzione delle congiuntura economica. La prima
reazione dinanzi allo scoppio della crisi è stata l’innalzamento dei tassi di interesse per
evitare l’aumento dei prezzi, seguendo il principio strutturale della BCE, ossia l’obiettivo
principale del mantenimento della stabilità dei prezzi, puntando a un tasso di inflazione
concordato non superiore al 2%.
In un secondo momento la BCE, conscia della vera portata della crisi, decide di cambiare
rotta attuando una politica monetaria timidamente espansiva: la BCE riduce quindi
progressivamente il tasso d’interesse, portandolo a livelli minimi mai raggiunti prima
(0,15% alla fine del 2014). Un’altra manovra messa in atto dalla banca centrale verte sul
Securities Market Programme (SMP): non avendo accesso, secondo le sue regole,
all’acquisto di titoli sul mercato primario, la BCE interviene sul mercato secondario,
acquistando dei titoli in modo da far aumentare il prezzo di quei titoli e far decrementare
il tasso di interesse.
Tuttavia, il vero tornante nelle manovre della BCE si registra solo nel 2015, quando, a
gennaio, decide di mettere in atto il quantitative easing. Una politica non convenzionale
con cui una banca centrale mira a rilanciare l’economia attraverso l’acquisto sul mercato di
attività di vario titolo (generalmente titoli di Stato, ma non solo) e di conseguenza immette
nuova moneta nel sistema. Questa politica, da un lato, tiene bassi i tassi di interesse dei
titoli acquistati e, dall’altro, inietta sul mercato un’ampia quantità di liquidità a basso
costo. L’azione del quantitative easing è prevista da marzo 2015 fino a settembre 2016 per
un totale di 60 miliardi di euro al mese.
Intervento del Dott. Ettore D’Ascoli FORUM AESI
POLITICHE PER LO SVILUPPO: RIGORE O FLESSIBILITÀ?
L’Unione Europea e gli Stati Membri sono i principali donatori al mondo di aiuti
pubblici per lo sviluppo. Nel report “La lotta alla povertà in un mondo che cambia” si
evince che solo nell’anno 2013 sono stati erogati aiuti per 56 milioni di euro che
rappresentano circa il 52% degli aiuti totali mondiali. Tali aiuti confluiscono per lo più
verso i Paesi a basso sviluppo.
Se vogliamo prendere in considerazione il caso italiano, riferendoci all’Italia quando
era ancora un Paese che necessitava di ritrovare un percorso economico proprio, per
moltissimo tempo le politiche di sviluppo si sono concentrate sulla somministrazione di
aiuti a pioggia. Sono ben note le politiche industriali che per anni hanno rappresentato la
fonte di incentivazione primaria per il settore secondario. Per rinfrescarci la memoria è
necessario far riferimento all’intervento della Cassa del Mezzogiorno, durato per oltre un
ventennio e che su ordine perentorio dell’Unione Europea fu sospeso poiché dal carattere
straordinario che ebbe in luogo della sua nascita e in accordo con quanto si proponeva
aveva assunto nel corso del tempo un ruolo di carattere ordinario, facendo venire meno,
così, tutti i principi chiave della concorrenza.
Gli aiuti dell’Unione Europea si inseriscono principalmente in programmi
pluriennali che prevedono una pianificazione delle risorse e degli aiuti con l’obiettivo di
assicurarne uno sviluppo sostenibile. Anche qui è possibile prendere in considerazione
degli esempi importanti quali le Politiche di Coesione Regionale che hanno lo scopo di
ridurre il divario fra le varie regioni europee e che si prefiggono il raggiungimento di tre
mete specifiche: la convergenza, la competitività e la cooperazione fra i territori. È
possibile anche esaminare i tre cicli di fondi strutturali: quello del 2000-06, quello 20072013 e infine quello 2014-2020.
Gli obiettivi di una organizzazione come l’Unione Europea sono influenzati dalla più
radicata necessita che il principale risultato da raggiungere altro non sia che lo
sradicamento della povertà. A testimonianza di ciò all’inizio degli Anni Novanta sono
state attuate nuove politiche economiche in riferimento alla cosiddetta programmazione
negoziata: in sostanza l’Unione Europea finanziava i territori con palesi ritardi di sviluppo
attraverso programmi come patti territoriali europei. Questo strumento economico è stato
decisamente importante poiché ha visto collaborare e cooperare in maniera frequente e
decisiva il livello istituzionale sovranazionale con le varie realtà regionali europee. A
seguito della crisi economica che si è manifestata a partire dal 2006, l’Unione Europea è
stata costretta a cambiare registro e quindi il programma di assistenza è cambiato a partire
dall’anno 2011. Da quell’anno, infatti, gli aiuti sono stati differenziati a seconda dei
contesti in cui venivano somministrati e le attività sono state concentrate in al massimo tre
settori per ogni singolo Paese. Il coordinamento delle risorse inoltre:
- è stato migliorato per aumentare l’impatto degli aiuti stessi sul territorio;
- il supporto è stato finalizzato ad una crescita inclusiva e sostenibile;
- si è cercato di massimizzare la coerenza della politica di sviluppo.
Chiaramente la politica di sviluppo è condizionata dagli eventi socio-politici, dai
fenomeni di migrazione ed anche dai livelli di sicurezza e terrorismo che
contraddistinguono l’area in analisi.
È di utile importanza una politica di spesa efficiente per lo sfruttamento delle risorse
disponibili pertanto la flessibilità che per molti anni è stata praticata – anche se più che di
flessibilità sarebbe corretto palare di sperpero di risorse – oggi deve essere
necessariamente alternata a una politica di rigore che però agisca a stretto contatto con
operazioni di spesa orientate ad uno sviluppo che sussista in maniera efficiente pur con lo
sfruttamento delle poche risorse disponibili.
I programmi di intervento devono promuovere un coinvolgimento delle istituzioni
nazionali in primis le quali regolano il gioco e i vari aspetti politico-economici, Non
devono essere dimenticati alcuni attori importanti quali: la società civile, le organizzazioni
non governative e le autorità locali
Un esempio sul coinvolgimento della società civile o delle organizzazioni non
governative può essere chiarificato con un richiamo al fenomeno dei flussi migratori, tema
più volte trattato in questa sede. L’Unione Europea non può non avvalersi di vari soggetti
quali Unhcr, Croce Rossa, Caritas che conoscono a fondo i problemi del tema a cui si è
fatto cenno.
L’efficacia degli aiuti, dunque, deve basarsi su qualità, rapidità e non solo sulla
quantità, elemento che per lungo tempo è stato preso in considerazione.
Come è possibile ottenere maggiore qualità e rapidità degli aiuti somministrati?
Innanzitutto è bene dire che la qualità dell’aiuto può essere ottenuta dando più
conoscenza e più informazioni sugli aiuti, quindi, per intenderci, è necessaria una
maggiore pubblicità su come poter accedere agli aiuti. In secondo luogo occorre avviare
una programmazione per indicare quali donatori possono occuparsi di un determinato
settore per aumentare l’efficienza e i risultati degli aiuti forniti. In ultimo è importante
monitorare i processi di finanziamento allo scopo di tenere aggiornati gli stati di
avanzamento dei progetti messi in atto.
Se poi volessimo essere più precisi sarebbe importante ricordare quanto influisca
l’abilità di sapersi adattare alla variazione dei contesti che con il tempo subiscono
variazioni fondamentali. Nel caso pratico in Italia è stato necessario addirittura cambiare
la Carta Costituzionale a seguito della sottoscrizione del Fiscal Compact (Trattato sulla
Stabilità, sul coordinamento dell’Unione economica e monetaria) per adeguare l’art. 81 alla
necessità di garantire il raggiungimento del pareggio di bilancio o di un saldo attivo. La
capacità di adattarsi qui si registra nel fatto che l’imposizione di vincoli da parte della
Unione Europea ha obbligato il legislatore italiano a porre in atto tutte le azioni necessarie
per prodigarsi verso un orientamento di politiche di rigore tenendo ben conto del contesto
economico del momento, contesto che era caratterizzato da un notevole buco del bilancio
pubblico e da una economica nazionale in completo blocco.
Nell’ambito della politica di austerità a dell’Unione Europea un aspetto importante
è rappresentato da quanto effettuato da Mario Draghi che col quantitative easing
(riduzione del valore dell’euro) ha innescato un processo di crescita che ha portato ad un
aumento delle esportazioni. È stata importante, però, anche la riduzione dei tassi
d’interesse sui mutui e sui prestiti e non solo sui depositi in questo modo la BCE
comprando titoli di stato consente alle banche di avere più liquidità per fare prestiti per gli
investimenti.
Anche la materia fiscale influenza notevolmente le politiche di sviluppo e per
questa ragione l’Unione Europea più volte si è resa protagonista di interventi quali:
- omogeneizzazione delle aliquote IVA per quanto riguarda l’imposizione indiretta
-
chiarimenti in merito alla tassazione dei dividendi sugli utili societari
introduzione degli istituti del consolidato fiscale nazionale e mondiale.
A testimonianza dell’importanza dell’austerità si può prendere in considerazione il
caso Italia che, più volte sollecitata al rigore, ha messo in atto politiche di attenzione e di
restrizione tali da riuscire, perlomeno nell’immediatezza, ad essere “premiata” con una
riduzione notevolissima dello spread che oggi è arrivato addirittura sotto i cento punti.
Le politiche dello sviluppo, pertanto, devono riferirsi ad interventi di natura
economica finanziaria ma devono coesistere con un insieme di interventi di natura
politica, sociale ed umanitaria.
12 Maggio 2015 SALA DEL REFETTORIO – PALAZZO SAN MACUTO ore 16.00
PARLAMENTO ITALIANO
“VALORI DEMOCRATICI ED ETICA”
Saluto : Amb. Enrico Pietromarchi – Presidente On. AESI
Coordinatore: Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI
Dott. Lucio Battistotti – Direttore Rappresentanza Commissione Europea in Italia
Amb. Daniele Mancini – Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede
Ministero Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale
Prof. Ugo Villani - Comitato Scientifico AESI e Ordinario Diritto
Internazionale Università di Bari
Prof. Rev. Robert Gahl – Pontificia Università Santa Croce (Santa Sede)
Modera: Dott. Diego Rovelli - Direzione -AESI
Intervento del Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI
Le divisioni ravvisabili oggi in Europa, nel momento in cui si sente l’urgenza di un
condiviso ordinamento istituzionale che faciliti sia l’integrazione tra gli Stati membri e sia
un nuovo programma comune di politica estera (pensiamo a quanto sta avvenendo nel
Mediterraneo ed in Medio Oriente dove intere popolazioni sono lasciate sole davanti al
dramma non solo dei conflitti, ma anche delle violente persecuzioni religiose), dipendono
dalla mancanza di chiare regole istituzionali di gestione comunitaria delle diverse
problematiche, ma soprattutto sono espressioni di forti contrasti ed interessi politici
sotterranei tra potenti schieramenti internazionali di lobbies finanziarie che provocano una
sorta di incomprensione e smarrimento politico dell’Europa. Inoltre una profonda crisi di
identità, incrementa il numero degli scettici e favorisce i nemici dell’Europa.
Magistralmente presentata e diffusa attraverso gli organi di informazione mediatica per
avere poi una vasta risonanza nell’agone politico, la nuova strategia è quella di una
esasperata globalizzazione della ricerca della propria sicurezza e di una competitività
dell’uno contro l’altro, che ha dimenticato la dimensione della cultura della solidarietà e
del bene comune. Come ci si può stupire allora quando molti cittadini europei, invece di
guardare con interesse alla comune casa europea, corrono dietro a nuove formule di
rinascente nazionalismo che esacerbano la vita civile creando rancori e divisione?
L’avvenire dell’Europa è la riscoperta della finalità antropologica della politica, la quale acquista
autorevolezza solo se e nella misura in cui riscopra che il singolo cittadino non può mai
essere trattato come strumento, ma come fine dell’azione politica.
Se è vero questo, è tanto più doveroso e necessario denunciare cha alla base di tutto ciò c’è
una grande crisi della nostra epoca che si esprime soprattutto come profonda crisi della
verità sull’uomo e sulla donna e quindi delle loro responsabilità. Il vero pericolo, in altre
parole, è un nuovo tipo di pericolosa globalizzazione intesa ed organizzata da alcune grandi
potenze politiche e finanziarie mondiali che hanno bisogno di giovani, di politici dal pensiero
debole su questi temi. Infatti, lì dove si riscopre una convinzione forte ed eticamente
fondata in termini umani e professionali, dove si lotta per un desiderio di coerenza nella
ricerca della verità sull’uomo e sul mondo, questo tipo di “globalizzazione del potere” agisce
spesso con pressioni politiche, economiche e talvolta militari. Ma spesso riscontriamo
anche l’indifferenza cinica di chi lascia fare perché si esauriscono le forze dei contendenti
per poi imporre sanzioni e protocolli che mai potranno essere espressione della vera pace.
Il pensiero debole è la base quindi di un nuovo concetto di manipolazione delle coscienze
laicista molto sottile e particolarmente fecondo nei sistemi democratici occidentali. Esso
significa mancanza di responsabilità personale ed oggi si impone attraverso le logiche di
mercato del benessere a tutti i costi e della pubblicità selvaggia con uno strano concetto di
libertà dell’uomo sull’altro uomo.
Per questo l’AESI ripensa l’idea di università in Europa, valorizzare il suo ruolo di servizio
alla società ed alla ricerca di soluzioni comuni alle più urgenti necessità della comunità
internazionale, ad una corretta comprensione della problematiche internazionali, a
favorire l’elaborazione di quelle soluzioni comuni che risultano importanti per fornire
risposte adeguate alle drammatiche crisi di oggi, soluzioni nelle quali si sperimenti
personalmente il valore della cooperazione e della solidarietà.
Non dimentichiamo che l’università può essere il luogo dove le soluzioni per un progresso
civile e culturale di integrazione possono essere cercate con serenità e professionalità senza
perdere di vista il futuro ed i suoi tempi di attuazione. L’università deve avere una sua
coscienza, ma anche una forza intellettuale e morale la cui responsabilità si estende alle
necessità di tutta l’umanità.
Gli aspetti sociali della cittadinanza sono stati rappresentati e perseguiti come dimensioni
economiche e politiche tout court senza cercarne una sufficiente comprensione e
giustificazione sul terreno dei diritti della persona. Alla radice di questa crisi
internazionale, non ci sarà forse in realtà una nuova pericola dottrina di alcuni riguardante
perversi stili di vita e visioni politiche ed etiche della stessa convivenza umana?
Fomentando il terrore e lo spettro della recessione, essi portano la comunità internazionale
a temere inesorabilmente per il proprio futuro, facendo precipitare le economie di interi
paesi e facendo ricadere su interi popoli - e non su i veri responsabili – la colpa di
drammatiche crisi, sin anche di atti terroristici.
Imponendo strategie politiche di questo tipo, si ritiene allora che l’uso della forza sia
l’unica soluzione a tutto. Si umiliano così con la violenza non solo la persona umana, ma
anche interi popoli che versano già in situazioni di crisi profonda, specie per l’assenza di
sistemi democratici. Si pensa a proposito, che il terrorismo debba essere affrontato con una
“azione preventiva della forza” a tutti i costi e senza confini. Ma l’odierna crisi delle
Nazioni Unite e dell’Enione Europea dove va ricercata, quali sono le origini profonde?
L’Europa si è divisa perché alla base della sua integrazione non c’è stata la forza della
condivisione fino in fondo di comuni ideali e di comuni strategie per ottenerli e
preservarli. Una Europa unita nella presente crisi del Mediterraneo avrebbe potuto giocare
la sua parte nello scenario mondiale con più credibilità. Gli Stati non vogliono essere
disturbati nella loro vita sociale ed economica, non si apre ad una cultura della solidarietà
perché ci sono politici che urlano contro questo ideale per ottonere consensi e voti,
camuffandosi in salvatori della patria.
Per avere una sua forza l’Europa, soprattutto nella ricerca della pace e della sicurezza
internazionale, deve in primo luogo fondare la sua integrazione sui valori più profondi
della persona umana, comprendere che l’allargamento sino ai suoi confini geografici,
storici e culturali è un imperativo inderogabile dopo il secondo conflitto mondiale e che le
crisi internazionali sono una comune responsabilità.
Le scelte della pace e per la pace non sono,come alcuni desiderano oggi erroneamente far
credere alla comunità internazionale, “scelte deboli ed irresponsabili”. Scegliere la via
della pace e del bene comune è invece espressione di una politica lungimirante capace di
grande comprensione della realtà dell’uomo, della sua cultura, delle sue esigenze e dei
suoi problemi.
Intervento del Dott. Lucio Battistotti
Direttore Rappresentanza Commissione Europea in Italia
VALORI DEMOCRATICI ED ETICA NELL'AZIONE DELL'UE
Permettetemi di iniziare con una citazione del Discorso del Presidente del Parlamento
Europeo Martin Schulz tenuto nella giornata internazionale della democrazia lo scorso 15
settembre, "la democrazia ha bisogno di impegno civico, di meccanismi e di istituzioni inclusive,
trasparenti ed efficaci, di fiducia reciproca, di un senso di responsabilità collettiva e del coraggio di
lavorare per il bene comune".
Il processo di integrazione europea, promuovendo la creazione del primo Parlamento
sopranazionale della storia eletto a suffragio universale, ha compiuto un passo importante
verso l’affermazione di una forma di democrazia sovranazionale. Questo è il senso
dell’unificazione europea: essa si configura come una tappa nella storia dell’evoluzione
delle forme di governo, come l’avvio di nuove forme di statualità, basate sulla solidarietà
tra le nazioni e sulla democrazia sovranazionale. La cosiddetta multilevel governance, cioè
la redistribuzione del potere su diversi piani di governo è infatti un processo costante per
rendere maggiore l'efficienza delle istituzioni politiche. È uno strumento per restituire alle
democrazie poteri decisionali su questioni determinanti per il futuro dei popoli.
Il funzionamento dell'Unione si fonda su tre principi democratici: l'uguaglianza, la
rappresentatività e la partecipazione. In una moderna democrazia come l'Unione
europea, i cittadini devono avere infatti a disposizione anche modi diretti di determinare
l'agenda politica e partecipare al processo decisionale. Mentre la democrazia
rappresentativa si esprime attraverso istituzioni elettive come il Parlamento europeo, la
democrazia partecipativa si concretizza nei trattati europei attraverso un nuovo
strumento: l'iniziativa dei cittadini europei.
Il trattato di Lisbona ribadisce infatti il principio dell'uguaglianza democratica, vale a
dire il diritto dei cittadini a beneficiare di uguale attenzione da parte delle istituzioni
europee, rafforza la democrazia rappresentativa, affidando al Parlamento Europeo un
ruolo più importante e coinvolgendo maggiormente i parlamenti nazionali, e sviluppa la
democrazia partecipativa attraverso nuovi meccanismi di interazione tra i cittadini e le
istituzioni, come il diritto di iniziativa.
L'articolo 11 comma 4 del TUE stabilisce che: "Cittadini dell'Unione, in numero di
almeno un milione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri
(almeno 7 diversi Stati Membri), possono prendere l'iniziativa d'invitare la Commissione
europea, nell'ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su
materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell'Unione
ai fini dell'attuazione dei trattati".
Questo nuovo strumento dà, quindi, la possibilità di determinare l'agenda politica
dell'Unione europea: i cittadini possono individuare un problema e chiedere che l'UE
intervenga per risolverlo. Non è né una petizione (diritto, questo, già esercitabile dai
cittadini europei sia individualmente che in forma associata), né uno strumento
decisionale diretto come il referendum, ma è da considerarsi invece come l'equivalente del
diritto del Parlamento europeo e del Consiglio di chiedere alla Commissione di proporre
nuove norme.
Ricevuta l'iniziativa, infatti, la Commissione è tenuta a considerare se e quali azioni
intraprendere e a motivare la sua decisione di agire o meno in tal senso. In sintesi, avendo
un carattere transnazionale e determinando l'agenda europea, l'iniziativa dei cittadini è un
modo nuovo di partecipare alla moderna democrazia, che apre la strada sia al dialogo tra
cittadini di tutta Europa che alla comunicazione "dal basso" dei cittadini con le istituzioni
dell'UE. Si può inoltre rilevare come la democrazia europea abbia dimostrato la capacità di
evolvere grazie anche alla sperimentazione di procedure (il "metodo funzionalista") che
solo in un secondo momento sono state istituzionalizzate.
Si sono quindi sviluppate prassi partecipative che hanno permesso di creare un legame
con i cittadini con l’obiettivo di colmare, almeno in parte, il deficit democratico dell’UE.
Un esempio è il coinvolgimento della società civile e dei gruppi d'interesse tramite le
pratiche di consultazione messe in atto dalla Commissione, il dialogo sociale, le forme di
partenariato, i comitati consultivi e il dialogo civile promossi dal Comitato economico e
sociale.
La Commissione europea, d'altra parte, si è aperta da molto tempo alle rappresentanze
dei gruppi d'interesse e delle organizzazioni della società civile ed ha riconosciuto il
contributo che tali attori possono offrire sul piano tecnico nell’acquisizione di informazioni
e nella verifica ex ante delle potenziali decisioni, fornendo anche una fonte indiretta di
legittimazione dell’operato delle istituzioni dell’UE.
Vorrei evidenziare che sin dal suo preambolo, il Trattato sull'Unione Europea fa
menzione dei valori democratici fondanti della stessa: "Ispirandosi alle eredità culturali,
religiose ed umanistiche dell'Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti
inviolabili ed inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e dello
stato di diritto; […] Confermando il proprio attaccamento ai principi della libertà, della
democrazia e del rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nonché dello Stato di
diritto, […] (i capi di stato e di governo) hanno deciso di istituire l'Unione Europea".
La democrazia viene poi riaffermata nell'articolo 2 del TUE come principio
fondamentale: "L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della
democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i
diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una
società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia,
dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini."
Inoltre il termine figura ancora nell'articolo 10 in relazione alla democrazia
rappresentativa("il funzionamento dell'Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa")e
nell' articolo 21 in relazione all'azione esterna dell'UE: "L'azione dell'Unione sulla scena
internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e
l'allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di
diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della
dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle
Nazioni Unite e del diritto internazionale".
Infine, il principio di democrazia è presente anche nel preambolo della Carta dei
Diritti Fondamentali dell'Unione europea. Quest'ultima precisa e garantisce, tanto per i
cittadini dell'Unione quanto per coloro che in essa vi risiedono (indipendentemente dalla
nazionalità e dal periodo di soggiorno), principi etici e diritti che ispirano l'Unione, e che
sono riconducibili alla dignità, alla libertà, all'uguaglianza, alla solidarietà, alla
cittadinanza ed alla giustizia: "Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l'Unione si
fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell'uguaglianza e della
solidarietà; essa si basa sul principio della democrazia e sul principio dello Stato di diritto.
Pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell'Unione e creando uno
spazio di libertà, sicurezza e giustizia".
Vorrei citare l'amico e Professore Vincenzo Guizzi che nel suo Manuale di diritto e
politica dell'Unione europea recentemente pubblicato definisce il principio democratico
come "una vera condicio sine qua non dell'essere europeo".
Che rilevanza viene data a questo principio nelle priorità politiche della commissione?
Il cambiamento democratico è fra le 10 priorità del Presidente Juncker e della sua
Commissione che è stata costruita mediante un processo democratico di audizioni
parlamentari: "Un'Unione di cambiamento democratico" è proprio la decima priorità della
Commissione.
I cittadini si aspettano che l'UE dia prova della massima trasparenza possibile sul lavoro
della Commissione e che venga rafforzata la rendicontabilità e l'accessibilità (ai
cittadini) delle azioni dell'UE. Per questo la Commissione potenzierà gli strumenti di cui
dispone per legiferare meglio, in particolare le consultazioni pubbliche. Questi elementi
sono richiamati dal Presidente Juncker nel suo programma di lavoro presentato al
Parlamento in occasione nella sua elezione il 15 luglio 2014. Si tratta di un vero e proprio
manifesto politico proposto da un presidente che ha una maggiore forza democratica
rispetto ai precedenti poiché - come sapete - è stato proposto come candidato dalla
famiglia politica del PPE prima delle elezioni del Parlamento europeo.
Vorrei concludere infine sottolineando come il principio di democrazia trovi una sua
immediata concretizzazione attraverso i cosiddetti "Citizens' Dialogues" (dialoghi con i
cittadini) che la Commissione sta organizzando in tutta Europa per incontrare cittadini e
ragazzi e discutere direttamente con loro su temi e preoccupazioni che li riguardano. La
Commissione si sottopone così a un controllo democratico molto forte. Proprio lo scorso
sabato 9 maggio per la festa dell'Europa è stato organizzato un "Citizens' Dialogue" a
Milano nel quale il Presidente del Parlamento europeo Martin Schulz e l' Alto
rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica
Mogherini hanno incontrato i cittadini.
Ho cercato di darvi così una panoramica sui riferimenti al principio democratico
presenti nei trattati dell'Unione Europea e su come nella pratica esso si realizza nell'attività
della Commissione nei confronti dei cittadini.
Nella speranza di esservi stato utile vi ringrazio dell'attenzione e vi auguro
buon proseguimento.
Intervento dell’ Amb. Daniele Mancini – Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede
Ministero Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e Comitato Scientifico AESI
“VALORI DEMOCRATICI ED ETICA”
Ringraziamenti;
Complessità del tema assegnato; inevitabilità di una “lettura” parziale;
Auspicio di poter suscitare interrogativi, dubbi, aggiornare la bussola più che
fornire risposte; importanza dei “punti di riferimento”;
- Individuare le “lignes d’horizon” (Attali)
I)
- Partire dalla definizione etimologica delle parole che compongono il tema
assegnato, per evitare il relativismo e le genericità:
- Valori, democrazia, etica;
1. Valori: quanto considerato desiderabile da un individuo o una società. I valori
variano storicamente e geograficamente perché non appartengono a categorie
assolute, bensì sono frutto dello “spirito dei tempi” (es.: schiavitù, democrazia, etc.)
2. Democrazia: dal greco démos: governo del popolo; sistema di governo in cui la
sovranità è esercitata dall’insieme dei cittadini;
- Evoluzione storica del concetto: differenza tra l’era antica e la democrazia
liberale;
- Democrazia nel mondo moderno: tutti gli Stati si definiscono democratici (es.
“democrazie popolari”);
- Democrazia “sostanziale”, “democracy index” dell’Economist (Italia 31° posto
su167);
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Contraddizioni della democrazia: paradosso di una maggioranza che vuole
divenire antidemocratica: il “suicidio di Weimar”;
3. Etica: dal greco éthos: carattere, comportamento, consuetudine;
- Branca della filosofia che studia i fondamenti razionali che permettono ai
comportamenti umani di venire distinti tra “ciò che è giusto e ciò che non lo è”,
buono, lecito etc;
- Non ci addentreremo nell’analisi di etica laica ed etica religiosa;
- Segnalo l’importante tema dell’etica applicata alla scienza-biotica (1970) ed
ecosofia , ovvero i problemi che travalicano l’ambito del sapere scientifico per
investire quello delle responsabilità morali e della regolamentazione giuridica : si
pensi, ad esempio, alla pillola di Pincus per la contraccezione ormonale (1953); ai
trapianti d’organo (1967); al concepimento in vitro (1978); alla clonazione (1997);
- Etica dei media e della comunicazione (web etica);
- Neuroetica;
- Etica e finanza;
- Etica e lavoro
4. Differenza tra etica e morale:
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L’etica pone una cornice di riferimento dei canoni e dei confini entro i quali la
libertà umana si può esprimere ma essa si occupa anche del “senso
dell’esistenza”.
Sebbene siano utilizzati come sinonimi, etica e morale non coincidono; per
morale si intende assieme dei valori, norme e costumi di un individuo o di un
gruppo umano, invece con etica ci si riferisce all’intento razionale (cioè
filosofico) di fondare la morale intesa come disciplina non soggettiva, cioè non
“personale”;
II)
Esiste in concetto di etica nelle relazioni internazionali ?;
Non ha senso porre la questione dell’obiettività e dell’imparzialità in via
teorica; Es: cos’è la realpolitik? Patto Molotov-Ribbentrop. Giri di valzer; il
nemico del mio nemico è mio amico; è etico l’atteggiamento delle grandi
potenze verso la Siria? E’ etico l’atteggiamento della UE nel Mediterraneo?
Esperienza personale: ho rappresentato l’Italia presso Paesi diversi: Primo e
Terzo mondo; bilaterale e multilaterale; Nord e Sud; diversi gradi di
rappresentatività democratica, composizione etnica, affiliazione religiosa;
Non posso dire di avere mai incontrato una universale accettazione di nessuno
dei tre termini oggi propostici: valori, democrazia, etica;
Soffermiamoci sui concetti di: Occidente (in rapporto a quale Oriente? Vedasi la
spietata analisi di Edward SAID), Occidente e rapporto con il “Rest of the
world”, Rapporti Nord-Sud del mondo;
Oggi assistiamo al declino del “nostro mondo” e dei “nostri valori” più che al
declino universale alla fine della centralità dell’Occidente durata 500 anni; nel
1950 USA producevano il 50% del pil mondiale; oggi altri “mondi” emergono e
altri “valori” si affermano, anche se li rifiutiamo (nichilismo, indifferenza,
fondamentalismi, separazione tra mercato e democrazia);
Crisi delle istituzioni nate a Bretton Woods, del WTO; del CSNU;
Crisi della governance: che è oggi “in control”? (Immagine di Thierry de
Montbrial e del treno);
Quante elaborazioni alla fine del XX secolo: II secolo americano; secolo
dell’Asia, (India);
La realtà è che oggi il mondo è di nessuno (Kupchan: “no one’s world”);
Tramonto dell’era della “democrazia liberale”?;
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III)
Ultimo libro di Sergio Romano: “Guerra Fredda, la controstoria”;
L’Europa passa dalla pace della Guerra Fredda alla guerra vera (Yugoslavia,
Kosovo, Ucraina, oggi Mediterraneo);
La fine della Guerra Fredda ha avuto come effetto “la rimessa in movimento
della storia” (smentendo Fukuyama) il sorgere dell’era dell’instabilità, degli
Stati falliti (Bosnia, Somalia, etc) , dei non-Stati (ISIS, Gaza, Kurdistan, Bosnia,
Kosovo, Siria, Libia);
Le grandi incognite: come si combatte un “non Stato”? Come lo si governa?
Come si ricostruisce l’ordine perduto?;
Mio punto, collegato alla “questione etica”: attenzione ad esprimere nostalgia
per l’ordine della Guerra Fredda, che assicurava stabilità ma non moralità;
Siamo sul “ciglio dell’Abisso”? (John Foster Dallas);
L’Occidente non è mai stato tanto in guerra come da quando è finita la Guerra
Fredda: Balcani, Afghanistan, due volte in Iraq, Libia; oggi la coalizione antiISIS; Mali; Somalia;
Venti anni di guerre si lasciano alle spalle “Stati falliti”, proliferazione di
soggetti non statali, che danno origine alle “guerre asimmetriche”;
Non c’è più l’ordine di Westfalia e del Congresso di Vienna o della pace di
Versailles. Sempre meno funziona l’ONU; non c’è più il poliziotto del mondo;
non c’è ancora l’Unione Europea;
Nuovi protagonisti (BRICS, Next Eleven etc) reclamano una più ampia e
democratica governance, partecipazione al governo dell’economia globale, della
sicurezza, della giustizia, dell’ambiente.
Ciò richiederà più regole e non meno; più democrazia e non meno; più valori
condivisi e non meno. Il mondo tendenzialmente diviene un’impresa
cooperativa (“e pluribus unum”).
IV)
Soffermiamoci un momento sul concetto di “guerra giusta”.
Ne hanno scritto Agostino d’Ippona; Tommaso d’Aquino; Erasmo da
Rotterdam; Grozio; i Giusnaturalisti; Montesquieu; il romanticismo, fino ad
arrivare a Michael Walzer;
Prendiamo in considerazione il tema dell’”ingerenza umanitaria”, i cui
precursori furono alcuni grandi Papi, da Benedetto XV a Pio XII a Paolo VI, fino
ad arrivare a Giovanni Paolo II, che definì il magistero dell’”Ingerenza
umanitaria” (i quattro fondamenti);
Essa sembrava definire l’evoluzione del diritto internazionale, di cui rimetteva
in discussione alcune strutture portanti (sovranità statale, il significato di
nazione etc.);
In quello scenario, l’ingerenza umanitaria, che si fonda sulla dignità della
persona, può essere paragonata ad una piccola barca che fa vela verso la riva di
un nuovo ordinamento internazionale;
In Occidente, di fronte al declino economico e a quello dei valori tradizionali, si
risponde con le visioni apocalittiche da catastrofismo ambientale; visioni
intimistiche e irrazionali; si rifiuta l’idea del progresso;
Oggi Papa Francesco parla di combattere “la globalizzazione
dell’indifferenza”;
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V)
Coniato il termine di Antropocene o era dell’uomo;
La tendenza, è quella di passare da una visione basata sugli Stati (statocentrica), ad una basata sugli individui (umano-centrica).
Sicurezza e sviluppo sono sempre più legati alle esigenze dell’essere umano;
Crisi della forma Stato; cresce la rete delle interdipendenze: tra locale,
nazionale e internazionale; tra intergovernativo, transnazionale e
soprannazionale; tra etica, diritto e politica, tra economia di mercato ed
economia di giustizia; tra persona umana e ambiente naturale; tra persone e
popoli; tra popoli e famiglia umana universale;
Viviamo in un’era di interdipendenza planetaria, in cui cresce il potere degli
individui e diminuisce quello degli Stati e delle Nazioni.
VI)
Sachs, convegno con SSNU all’Accademia delle Scienze Sociali:
interconnessioni della società globale: aziende, idee, malattie, moda; si va
definendo la necessità di una era dello sviluppo sostenibile: se è chiaro
l’obiettivo, globale ed etico, mancano ancora gli strumenti e la visione politica;
Cresce la spinta dal basso, l’autorganizzazione della società civile: i mass
media, le Chiese, le organizzazioni non governative, i gruppi di pressione: entità
che sempre più assurgono al ruolo di forza di polizia planetaria; non gendarmi
del mondo, ma di coscienza civica; (società civile globale)
Necessario costruire non muri, ma ponti; sviluppare le interconnessioni tra
scienza e fede; favorire il dialogo tra le religioni;
Tutto ciò richiama la responsabilità etica di ciascuno di noi; non cerchiamo
alibi, non ci piangiamo addosso;
“Staffetta generazionale”: le due ultime generazioni hanno sconfitto i
totalitarismi, e avviato il boom economico e consolidato le basi del mondo
globale; la vostra generazione avrà il compito di compiere un grande
“aggiornamento”: preservare l’ambiente, estinguere la povertà, battaglia mai
vinta una volta su tutte; la storia non finisce.
VII)
Conclusioni:
dobbiamo credere che non esistano valori universali? La giustizia, la verità, la
carità, la solidarietà, la fratellanza, l’amore, sono valori universali, validi in ogni
tempo;
Quando tante persone affogano nel Mediterraneo sappiamo ciò che è etico e ciò
che non lo è; così come quando sappiamo che 900 milioni di persone soffrono la
fame e 800 milioni sono gli obesi;
Questi sono valori universali. Poi ne esistono di relativi, ad esempio, sono etici
o meno gli OGM? A questa domanda il Padre della “Rivoluzione verde” e
Premio Nobel per la Pace nel 1970, Norman Bourlag, rispose: “ se lo chiedete a
che ha fame vi risponderà che non è etica la fame. Se lo chiedete ad un
occidentale vi dirà forse di no perché non ricorda più cosa è la fame.
Necessità di una “riumanizzazione” dell’umanità, nel momento in cui tutti i
valori e parametri tradizionali vacillano e divengono inadeguati: non funziona
-
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più il mercato; tramonta il concetto classico di democrazia liberale; proliferano
i soggetti internazionali e si indebolisce l’idea di nazione e di stato; divengono
evidenti i “limiti dello sviluppo” (ricordo il “rapporto sui limiti dello sviluppo”
“The limits of growth” del Club di Roma e del MIT del 1972); è in crisi il
concetto tradizionale di famiglia nucleare.
Al punto che si parla di “post umanità” o “trans-umanità”;
Creare i presupposti per un Nuovo umanesimo: (convegno di Assisi del marzo
2014 presso l’Istituto Teologico).
La dignità della persona deve essere posta o riportata al centro del disegno:
corpo e anima, cultura e spiritualità; vita personale, sociale e politica.
Combattere il relativismo etico, che induce a ritenere inesistente un criterio
oggettivo e universale per stabilire il fondamento e la corretta gerarchia dei
valori.
A questo punto possiamo rispondere alla domanda lasciata in sospeso in
precedenza. Esiste un’etica nelle relazioni internazionali? Possiamo rispondere
che esiste un crescente bisogno di etica nello sviluppo di una visione globale
del mondo, più dal basso che dall’alto.
“La storia è in movimento e bussa alla nostra porta: è il momento di far
sentire la nostra voce” (Le Monde: Daniel Rauchan).
Intervento del Prof. Ugo Villani - Ordinario Diritto
Internazionale Università di Bari e Comitato Scientifico AESI
L’Unione europea si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà,
della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani,
valori che sono comuni agli Stati membri. Riguardo alla democrazia va osservato che, sin
dalle loro origini, le Comunità europee hanno sofferto di un deficit democratico derivante,
principalmente, dal trasferimento di poteri legislativi dagli Stati membri alle stesse
Comunità. Tale trasferimento aveva comportato una sottrazione di poteri ai parlamenti
nazionali che, per quanto “fisiologica” nel processo di integrazione europea, non era stata
accompagnata da alcuna misura di compensazione a livello europeo. Il Parlamento
europeo, infatti, deteneva un potere meramente consultivo rispetto alle proposte
formulate dalla Commissione, mentre il potere decisionale era concentrato nel Consiglio,
formato dai ministri degli Stati membri.
Nel Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 i principi democratici sono enunciati,
anzitutto, nella forma della democrazia rappresentativa. A questo riguardo l’art. 10 TUE
ribadisce una duplice legittimità: essa consiste, da un lato, nella legittimità “europea”, che
si manifesta nella rappresentanza diretta dei cittadini dell’Unione nel Parlamento
europeo; dall’altro, nella legittimità “nazionale”, che si esprime nella rappresentanza
indiretta dei popoli dei singoli Stati membri nell’ambito del Consiglio europeo e del
Consiglio, attraverso i Capi di Stato o di governo e, rispettivamente, attraverso i governi, a
loro volta democraticamente responsabili verso i parlamenti nazionali (o verso i loro
cittadini).
Per quanto riguarda il Parlamento europeo, anzitutto è prevista, quale procedura
legislativa ordinaria, la “codecisione”, nella quale l’adozione di un atto avviene solo se
esso sia approvato sia dallo stesso Parlamento che dal Consiglio. Esistono, peraltro,
procedure legislative speciali, nelle quali solitamente l’atto è adottato dal Consiglio con la
partecipazione del Parlamento in funzione meramente consultiva. Inoltre in materia di
politica estera e di sicurezza comune (PESC) il Parlamento non partecipa in alcun modo al
procedimento decisionale, limitandosi ad essere consultato regolarmente dall’Alto
rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza sui principali aspetti e sulle
scelte fondamentali e ad essere informato. Anche nella governance europea dell’economia,
che pure incide sensibilmente sulla vita quotidiana dei cittadini, il Parlamento europeo è
collocato in una posizione sostanzialmente marginale. Va infine sottolineato che il
Parlamento e i suoi membri non hanno tuttora poteri di iniziativa legislativa. Il
Parlamento europeo può solo chiedere alla Commissione di presentare adeguate proposte
sulle questioni per le quali reputa necessaria l’elaborazione di un atto dell’Unione ai fini
dell’attuazione dei Trattati.
Per la nomina della Commissione, il Consiglio europeo propone al Parlamento
europeo un candidato alla Presidenza, destinato ad essere eletto dallo stesso Parlamento a
maggioranza dei suoi membri, “tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo e dopo
avere effettuato le consultazioni appropriate” (art. 17, par. 7, TUE). Il riferimento ai
risultati elettorali del Parlamento induce a prefigurare il candidato Presidente della
Commissione come politicamente coerente con la maggioranza parlamentare,
subordinando sempre di più l’individuazione del Presidente (e, indirettamente, dell’intera
Commissione) all’orientamento politico del Parlamento. È sulla base di questa
disposizione che, in occasione delle elezioni del Parlamento europeo del maggio 2014, i
principali raggruppamenti politici si sono presentati ciascuno con un proprio candidato
Presidente. Com’è noto, il Consiglio europeo ha designato quale Presidente il leader del
partito “vincitore” delle elezioni, Jean-Claude Juncker del Partito Popolare europeo, il
quale ha poi ottenuto la “fiducia” del Parlamento europeo. Il legame di fiducia politica tra
il Parlamento e la Commissione emerge anche dalla possibilità, prevista sin dai Trattati
originari, che il Parlamento europeo, con una mozione di censura, determini le dimissioni
dell’intera Commissione, nonché dal potere dello stesso Parlamento e dei suoi componenti
di rivolgere interrogazioni alla Commissione e dall’esame che il Parlamento compie della
relazione generale annuale della Commissione. Nei rapporti con il Consiglio va
sottolineato che il Parlamento europeo non condivide solo, di regola, i poteri legislativi,
ma anche quelli in materia di approvazione del bilancio. Peraltro il Parlamento resta in
una posizione marginale nella definizione del sistema delle risorse proprie, esercitando al
riguardo un ruolo meramente consultivo.
Ai parlamenti nazionali è dedicato l’intero art. 12 TUE, il quale, dopo avere
dichiarato che essi contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell’Unione,
dispone che siano informati dalle istituzioni europee e ricevano i progetti di atti legislativi,
in conformità del Protocollo n. 1. Questo stabilisce dei termini prima dei quali il progetto
non può essere esaminato o approvato dal Consiglio, al fine, evidentemente, di consentire
ai parlamenti nazionali un adeguato esame e discussione del progetto e la formulazione di
osservazioni e atti di indirizzo nei riguardi dei propri esecutivi. In alcuni casi i parlamenti
nazionali possono avere rapporti diretti con le istituzioni europee. L’ipotesi di maggior
interesse riguarda il controllo preventivo sul rispetto del principio di sussidiarietà nei
progetti di atti legislativi europei, che ciascun parlamento nazionale (o sua camera) può
esercitare formulando un parere motivato nel quale dichiara di ritenere che il progetto non
sia conforme a tale principio. Il parere va tenuto in conto dalle istituzioni proponenti; se
proviene da almeno un terzo dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali il progetto deve
essere riesaminato e, al termine del riesame, l’istituzione proponente è tenuta a motivare la
sua decisione, di mantenere il progetto, così come di modificarlo o ritirarlo. Infine, se un
atto da adottare con la procedura legislativa ordinaria sia contestato dalla maggioranza dei
voti dei parlamenti nazionali, la Commissione deve riesaminare la proposta e, ove intenda
mantenerla, deve inviare il proprio parere e quelli dei parlamenti nazionali al Parlamento
europeo e al Consiglio. Questi ne tengono conto e, anteriormente alla conclusione della
prima lettura, esaminano la compatibilità della proposta con il principio di sussidiaretà. Se
il Consiglio o il Parlamento europeo ritengono che la proposta sia incompatibile con tale
principio essa non forma oggetto di ulteriore esame. L’attribuzione di un siffatto potere ai
parlamenti nazionali suona quale espressione di accresciuta sensibilità per i principi
democratici, non solo per l’ovvia considerazione che detti parlamenti sono organi
squisitamente democratici; ma anche perché tende a garantire che sia rispettata quella
esigenza – sottesa al principio di sussidiarietà – che le decisioni siano prese nella maniera
il più possibile vicina ai cittadini.
L’art. 11 TUE contempla varie forme anche di democrazia partecipativa. Le
istituzioni, anzitutto, danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative, attraverso gli
opportuni canali, la possibilità di fare conoscere e di scambiare pubblicamente le proprie
opinioni in tutti i settori di azione dell’Unione; in secondo luogo è prescritto che sia
assicurato un dialogo aperto, trasparente e regolare tra le istituzioni europee e le
associazioni rappresentative e la società civile; infine la Commissione, allo scopo di
assicurare la trasparenza delle azioni dell’Unione, procede ad ampie consultazioni delle
parti interessate. Nel contesto della democrazia partecipativa è previsto un potere di
iniziativa legislativa popolare. Cittadini dell’Unione, in numero di almeno un milione e
aventi la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri, possono invitare la
Commissione, nell’ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su
materie in merito alle quali essi ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini
dell’attuazione dei Trattati. La più precisa regolamentazione di tale iniziativa popolare è
contenuta nel regolamento n. 211/2011 del 16 febbraio 2011, il quale ha già trovato alcune
applicazioni in materia particolarmente “sensibili”, come il diritto all’acqua, i diritti
dell’embrione, l’abolizione della vivisezione.
In conclusione, malgrado alcune “zone d’ombra” (si pensi alla PESC) e talune tendenze
verticistiche, come quelle risultanti dal rafforzamento del ruolo del Consiglio europeo, ci
sembra che il quadro attuale mostri un complessivo avanzamento dei principi democratici
nella costruzione europea. Esso deriva non solo dal netto ampliamento dei poteri del
Parlamento europeo, ma anche dal nuovo ruolo assegnato ai parlamenti nazionali, il quale
intacca il monopolio governativo della rappresentanza degli Stati e può risultare
particolarmente congeniale a un’esperienza non meramente internazionale, ma
sopranazionale qual è quella europea. In ogni caso le diverse forme ed espressioni nelle
quali oggi si atteggiano i principi democratici offrono al cittadino europeo nuove e più
efficaci opportunità di partecipare alle determinazioni concernenti la vita e il futuro
dell’Unione.
FORUM AESI
RAPPRESENTANZA DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN ITALIA
Intervento della Dott.ssa Giuseppina Visciano - Stager AESI
Per Habermas, la democrazia è quella “autodeterminazione che i destinatari creano con
leggi di cui sono al tempo stesso gli autori”. In questo contesto l’Unione Europea è un
esempio di nuova democrazia transazionale, in quanto da modo ai suoi cittadini di
mettere a frutto tramite le varie democrazie nazionali, l’uso civico della libertà di
autodeterminazione.
La tematica europea della transnazionalizzazione della democrazia è diventata sempre più
urgente a partire dal XX secolo, momento in cui è cresciuta in modo esponenziale la
necessità di far fronte ad una sempre più complessa società mondiale. Mercati finanziari,
nuove tecnologie, deficit democratici, nuove e più complesse mobilità dei popoli, senza
contare inoltre, le numerose problematiche legate al welfare state, hanno superato il
consueto raggio d’azione degli Stati nazionali. La politica, incapace di organizzarsi di
fronte a queste problematiche sembra averne perso il controllo.
Quello che distingue la posizione europea da coloro che propongono la creazione di uno
stato federale europeo sul modello degli Stati Uniti d’America, è il ruolo che l’Europa
riserva allo Stato Nazionale. La particolarità dell’Unione Europea consisterebbe nel fatto
che gli Stati membri, pur conservando il monopolio della forza, si vincolano,
spontaneamente ad un diritto sovranazionale europeo, condividendo così la propria
sovranità. I singoli governi si accordano ad attuare un diritto europeo che deve essere
convertito poi in termini nazionali.
Inoltre, rispetto al consueto modello federale, l’Europa ha sviluppato e sta procedendo a
perfezionare un secondo upgrade proprio del suo processo democratico. Questo avviene
con la duplicazione della sovranità, e con la divisione del potere costituente tra i cittadini
dell’Unione e i popoli europei in quanto membri dei singoli stati.
Il Parlamento Europeo rappresenta i cittadini in quanto membri dell’Unione Europea,
viceversa il Consiglio d’Europa rappresenta la totalità dei popoli in quanto appartenenti al
proprio Stato: la duplicazione della sovranità fa in modo che lo Stato nazionale continui a
svolgere il ruolo di garante del diritto e della libertà democratiche del suo popolo.
La nostra contemporaneità ci pone però di fronte a quesiti ancora senza risposta, si veda il
conflitto tra culture e religioni diverse, i problemi etici posti dalla tecnica, dal welfare state
e dal potere incontrollabile della finanza nella gestione dell’economia.
La politica ha cercato in questi anni di rispondervi con giustificazioni di tipo sociologico e
funzionalista che però non collimano con i bisogni di una democrazia transnazionale come
quella europea che non può certo contentarsi di avere fondamento nella sua stessa
legittimazione né nella sua efficacia. Alcuni esempi sono le missioni Mare Nostrum e
Triton. Nell’immediato danno risposte legittime e cercano di essere efficaci, tuttavia nella
loro attuazione si fatica a scorgere una visione etica di lungo corso.
Il gap che passa dall’etica fondante dei singoli dettami costituzionali ai valori condivisi
della società europea, in questo frangente appena evocato, sembra incolmabile . D’altra
parte però, proprio per la sua efficacia costituiva, lo Stato non può più raccogliere
l’adesione dei cittadini attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando
autoritativo, se non rinunciando alla propria funzione e ricadendo nello stesso
totalitarismo da cui è fuggito nel secondo dopoguerra.
L’Europa pertanto auspica ad essere una comunità politica, non solo come l’oggetto
destinatario di norme legali, ma innanzitutto come soggetto democratico. Solo così essa
diviene dêmos di una democrazia, situata in un orizzonte di significato entro cui sia i
cittadini che le istituzioni comprendono e giustificano la loro condotta. Senza il
fondamento democratico, sembrerà banale ma non trascurabile, sia la pólis greca che poi la
res publica romana che le successive formalizzazioni statali che conosciamo, si sarebbero
formalizzate in un ordinamento limitato al proprio vincolo societario su base puramente
secolare.
In conclusione l’unico orizzonte europeo possibile è tecnicamente di natura democratica,
perché consegna ai suoi abitanti un’immagine stabile di quelli che sono gli interessi ultimi
della sua comunità, alla luce della sua identità formatasi dal passato, nel presente, per il
futuro.
Pertanto vorrei sollevare l’attenzione su una domanda che personalmente trovo molto
interessante e che riguarda la natura della democrazia oggi: Così come molte altre
democrazie quella europea ha commesso troppo spesso lo sbaglio di investire troppo sulle
elezioni e troppo poco sugli altri tratti essenziali della democrazia. Soprattutto
guardandosi dallo spauracchio della maggioranza, ossia l’idea, o la paura che si innesta
strumentalmente negli elettori, che la vittoria elettorale dia ai vincitori il diritto di fare
quello che vogliono. Quindi come può l’Europa tenere a bada questa tentazione e costruire
sistemi di garanzia e tutele per evitare eccessi di immobilismo o, eccessi di decisionismo?
Ma soprattutto l’Europa ha caratteristiche intrinseche per trovare un equilibrio tra questi
due estremi?
Intervento della Dott.ssa Viviana Malomo - Stager AESI
Con il termine «etica», dal greco «costume, norma di vita», si intende quella branca della
filosofia morale che studia il comportamento umano, la scienza dei costumi e delle
relazioni sociali. Negli ultimi anni il concetto di etica sembra sia diventato protagonista del
dibattito europeo, sempre più spesso si usano espressioni come finanza etica, commercio
etico, etica degli affari. Una crisi gravissima fa da contraltare a questa apparente
“eticizzazione” dell’economia, crisi interpretabile anche come la conseguenza ed il frutto
di comportamenti eccessivi e spregiudicati da parte di alcuni operatori economici, in
particolare finanziari.
Le esigenze avanzate in tutti i tempi ed in tutti gli ambienti sociali per il miglioramento
della condizione dell’uomo sono sfociate nella rivendicazione di libertà e di diritti,
sinonimo di democrazia, sinteticamente individuati come diritti dell’uomo. Le esperienze
negative delle dittature o della violazione della dignità umana, nonché la stessa esperienza
storica dell’integrazione europea, sono state il risultato della compressione dei valori etici,
ossia il tentativo di disconoscere valori come la libertà dell’individuo, il diritto all’integrità
personale, il valore fondante della famiglia e diritti come quelli di proprietà, di istruzione
e alla salute.
Fino al 10 dicembre del 1948, giorno in cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha
votato a larga maggioranza la Dichiarazione universale, i diritti umani non erano
internazionalmente riconosciuti. Nessuna regola internazionale prendeva in
considerazione i diritti della persona in quanto tale; ciascuno stato, pertanto, attraverso il
proprio apparato di governo, esercitava poteri sovrani su una porzione di territorio, e sulle
persone presenti su quella porzione di territorio, senza incontrare limiti ‘esterni’. Con la
Dichiarazione universale, per la prima volta nella storia, gli stati s’impegnano l’uno nei
confronti dell’altro a rispettare - senza fare distinzioni di razza, sesso, lingua o di alcun
altro genere - i diritti elencati in una Dichiarazione solenne; ed accettano l’idea che si
debba rispondere dell’eventuale mancato rispetto di quell’impegno, alla comunità
internazionale; si creano le condizioni per lo sviluppo di un diritto internazionale dei
diritti umani quale componente essenziale del diritto internazionale contemporaneo. Ed è
questa la vera ragione dell’importanza della Dichiarazione universale dei diritti umani.
Nonché, la stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, riconosce una
serie di diritti personali, civili, politici, economici e sociali dei cittadini e dei residenti
dell’UE, riunendo in un unico documento i diritti che prima erano dispersi in vari
strumenti legislativi, è stato certamente un segno di pregresso verso un “Europa dei diritti
della persona”.
Robert Schuman, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea, afferma che “La democrazia
deve la sua origine e il suo sviluppo al cristianesimo. È nata, quando l’uomo è stato chiamato a
realizzare la dignità della persona nella libertà individuale, il rispetto dei diritti degli altri e l’amore
verso il prossimo. Prima dell’annuncio cristiano tali principî non erano stati formulati, né erano
mai divenuti la base spirituale di un sistema di autorità”, ed è proprio la tematica dei diritti
dell’uomo forse il canale privilegiato, che permette di dare un proprio apporto peculiare al
discorso etico.
Lo sviluppo delle tecnologie, della scienza, delle comunicazioni, e la stessa globalizzazione
per certi versi hanno contribuito in maniera determinante al miglioramento delle nostre
condizioni di vita, ma pongono problemi etici finora inediti, ripropongono, inoltre, temi
antichi in una prospettiva nuova, in quanto spesso, purtroppo, la persona umana è ridotta
anch’essa a risorsa, allo stesso titolo delle risorse naturali energetiche, tecnologiche e
finanziarie. In quanto risorsa, pertanto, la risorsa umana non è che un costo da ridurre, in
combinazione e comparazione con i costi delle altre risorse. La combinazione tra progresso
tecnologico, minori costi di trasporto e liberalizzazione delle politiche nell’Unione europea
ha determinato un incremento dei flussi commerciali e finanziari tra i paesi, con
importanti ripercussioni sul funzionamento dell’economia dell’UE. A fronte dei benefici
ed opportunità prodotti dalla globalizzazione, l’Europa deve sostenere la forte
concorrenza delle economie a bassi costi, come quella cinese e indiana, e di quelle
incentrate sull’innovazione, come quella statunitense.
Per essere equilibrato, il processo di globalizzazione esige una nuova capacità di
intervento politico, attraverso l’introduzione di meccanismi, regole e correttivi che
possano migliorare il sistema economico internazionale, solo così si potrà mettere fine alle
sperequazioni, nel rispetto delle varie culture, nella difesa dell’ambiente e nel rispetto
delle biotecnologie. Solo alla luce dei diritti umani cui di frequente ci si richiama, si può
raccogliere la “sfida etica” della globalizzazione per ristabilire il primato delle regole,
ritrovando il difficile, ma imprescindibile, equilibrio tra efficienza, equità, libertà e
benessere, all’interno dell’Unione Europea.
È necessario, quindi, trovare una risposta adeguata alla globalizzazione, tale da
trasformare i potenziali benefici della medesima in vantaggi concreti, minimizzando al
contempo i costi sociali. Ed è proprio in tal contesto che si pone l’importante ruolo che
svolge la Commissione europea nella definizione di una strategia politica coerente volta
ad affrontare le sfide della globalizzazione, la quale segue con attenzione l’evoluzione
delle principali tendenze nel commercio mondiale e valuta inoltre periodicamente
l’impatto della globalizzazione sull’andamento economico dell’UE, formulando
suggerimenti alla luce delle sue analisi.
Inoltre, nel campo della vita umana, tutti conoscono i mirabili progressi della biologia e
della bioingegneria, ma sono noti parimenti i pericoli di azioni, troppo ardite, che
comportano forme inaccettabili di manipolazioni ed alterazioni. La vita e la libertà sono
beni inseparabili, quando se ne viola uno anche l’altro finisce con l’essere violato, ed
ancora oggi viviamo questa divisione, espressa dal conflitto tra libertà di ricerca tecnico
scientifica ed esigenze legate alla verità e dignità della persona. Purtroppo, si consentono
delle pratiche di tipo eugenetico che negano di fatto il diritto alla vita (in alcune
legislazioni, infatti, vi è della possibilità di pratiche abortive, senza alcuna limitazione, in
particolare quando determinate da vere e proprie motivazioni eugenetiche). Ed è sotto il
profilo etico, che l’eugenetica moderna presuppone un’eliminazione sistematica,
programmata di esseri umani, nella maggior parte dei casi motivata da ragioni e pressioni
di origine economica , c.d. etica utilitarista.
Tra gli obiettivi fondamentali per l'Unione europea, vi è, altresì, la necessità di raggiungere
una politica migratoria europea lungimirante e globale, fondata sulla solidarietà, al fine di
stabilire un approccio equilibrato per affrontare sia l'immigrazione regolare sia quella
clandestina. Tuttavia, oggi si dimostra la particolare difficoltà dell’Europa, con una
politica collettiva, nel far fronte al dramma dei “migranti”, (quali le missioni Mare
Nostrum e Triton). Pertanto, la pace nel Mediterraneo, un nuovo dialogo con l’Europa,
maggiore coesione sociale e libertà nel rispetto delle diverse culture e religioni, sono
obiettivi, che una volta raggiunti contribuiranno a determinare un benessere all’interno
dell’Europa.
Concludendo, con queste parole, si può affermare che l’Europa deve essere vista come
una risposta politica alle domande del futuro, in tutti i campi tematici: mercato del lavoro,
ecologia, Stato sociale, migrazione internazionale, libertà politiche, diritti fondamentali
Pertanto, solo nello spazio transnazionale dell’Europa, le politiche dei singoli Stati
possono divenire, da oggetto minacciato, soggetto di una globalizzazione organizzata, a
salvaguardia dell’etica e dei diritti umani sopra richiamati, nel rispetto della vita etica
stessa.
Giugno 2015 – VILLA MADAMA - CASALE ore 16.00
Via di Villa Madama 250 - ROMA
MINISTERO AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE
“ IDENTITA’ E FUTURO DELL’EUROPA”
Saluti : Min. Plen. Stefano Baldi - DGRI Ministero Affari Esteri e della Cooperazione
Internazionale
Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI
Coordinatore: Amb. Adriano Benedetti – Comitato Scientifico AESI
Interventi: Dott. Lucio Battistotti Direttore della Rappresentanza
Commissione Europea in Italia e Comitato Scientifico AESI
Amb. Giovan Battista Verderame - Comitato Scientifico AESI
Prof.Massimo Panebianco - Ordinario di Diritto Internazionale
Università di Salerno e Comitato Scientifico AESI
Prof. Antonio Macchia – Segretario Generale AESI
Presentazione del Prof. Massimo Maria Caneva, Presidente AESI , di
“Sr. Thomas More” Diplomatico, Umanista e Politico (Documento Video)
Modera: Dott.ssa Federica Parisi – Staff AESI
Introduzione del Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI
“Ogni popolo è il creatore della propria cultura ed il protagonista della propria storia. La
cultura è qualcosa di dinamico, che un popolo ricrea costantemente, ed ogni generazione
trasmette alla seguente un complesso di atteggiamenti relativi alle diverse situazioni
esistenziali, che questa deve rielaborare di fronte alle proprie sfide. L’essere umano «è
insieme figlio e padre della cultura in cui è immerso” Così ci dice Papa Francesco nella
Evangelii Gaudium punto 122
Lavorare con i giovani, ed in particolare con gli studenti universitari, è una missione
privilegiata soprattutto a favore di quei popoli che sono in conflitto tra loro da tanto
tempo e cercano un futuro di pace. Ho detto con i giovani perché solo condividendo i loro
ideali ed i loro sentimenti si può cambiare questo mondo che tanto ci preoccupa e nei
confronti del quale sembra che la speranza sia divenuta impossibile da vivere.
Prima a Sarajevo, città martire del XX Secolo, poi a Gerusalemme, e ancora tra i giovani
che sperimentano le divisioni in Libano ed in Siria, ho sempre provato a condividere con
loro i problemi di una convivenza civile difficile e trovare soluzioni di convivenza pacifica,
di ridare speranza nella costruzione del futuro del loro Paese. Alcuni di loro sono oggi
consiglieri della presidenza della repubblica del loro paese, oppure hanno intrapreso la
carriera politica diventanto vice sindaco della loro città, come quella di Sarajevo, oppure
consiglieri politici nel parlamento come quello israeliano, o libanese, o impegnati in
diplomazia o programmi internazionali. Certo loro non fanno notizia, ma questo è l’inizio
del vero cambiamento profondo di cui questi paesi beneficeranno nel tempo. E quanto ci
fa bene a noi partecipare con loro a questo progetto nel tempo !
Oggi purtoppo siamo testimoni di altro drammatico fenomeno: molti giovani dalle nostre
università europee vanno alla guerra rischiando la vita in scenari terrificanti di
desolazione e morte, dove nulla conta e tutto è drammma esistenziale, violenza, giovani
spesso che sono stati abbandonati nel loro percorso di formazione umana alla verità,
emarginati alla perfiferia delle grandi città europee, cittadini di seconda o terza
generazione, figli di immigrati trattati come persone di seconda o terza classe in una
società opulenta di benessere e sfrenata libertà. Poi ci fanno paura le maree di disperati che
arrivano in Europa.
Certo ci stanno dicendo e gridando che li abbiamo abbandonati nei loro Paesi poveri già
da tempo, preda di aguzzini, quegli stessi mercanti di uomini che abbiamo utilizzano per i
nostri traffici, mercanti di persone rese schiave, sfrutando per secoli le loro risorse naturali
solo ed esclusivamente per il nostro benessere. Voi mi direte: ma loro non hanno
responsabilità con i loro governi spesso corrotti e dittatoriali ? Certo, ma noi abbiamo
preferito molte volte utilizzare e sostenere proprio questi governi corrotti per i nostri fini
econimici ed il nostro benessere. Ed ora che la crisi è arrivata alle nostre porte, anche da
noi ed i nostri giovani non hanno lavoro, che fare ?
Con alcuni docenti e amici di università italiane, abbiamo intrapreso da oltre dieci anni un
percorso con i giovani universitari israeliani e palestinesi, cristiani, musulmani, giudei, che
mai si erano prima incontrati per dirsi che è possibile capire con l’intelligenza dell’uomo
libero che si può scegliere la pace perché fa parte della verità sull’uomo, fa parte di quello
che c’è più profondo in ognuno di noi, che può essere l’obiettivo di un progetto politico
per il quale battersi. Capire che formarsi alla pace è anche uno sforzo intellettuale che
muove i sentimenti e porta alla testimonianza della solidarietà e la promozione della
cultura della solidarietà.
Quanto vorrei che le Nazioni Unite e l’Unione Europea si rinnovassero a favore della
cultura della solidarietà e del coraggio della pace !
Tutto ciò parte dalla nostra memoria che ci aiuta a ritrovare la nostra identità che permette
di gettere le basi di un vero cambiamento per il futuro attraverso le nuove generazioni !
Coordinatore: Amb. Adriano Benedetti – Comitato Scientifico AESI
Il tema dell’identità dell’Europa ricorre da alcuni anni nei nostri seminari. A mio giudizio,
quando il tema è evocato così frequentemente, ciò significa che l’Europa si sta dibattendo
fra problemi reali. E che sia così, basta leggere i titoli di prima pagina dei giornali.
D’altronde il nostro successivo dibattito lo confermerà.
Per portare un po’ d’ordine alla discussione su una questione certamente importante ma
nel contempo così elusiva, mi permetto di delineare alcuni approcci nella riflessione sulla
identità. C’è senz’altro il cammino che ci porta ad individuare la identità storica,
esistenziale del nostro continente. Quella identità sempre cangiante a seconda della
percezione delle generazioni che si avvicendano nel territorio europeo, ma che si nutre di
radici profonde richiamantesi al patrimonio di eredità greco-romana ed ovviamente alla
grande forza di irradiazione spirituale, religiosa e morale del Cristianesimo: anche nelle
sue estrinsecazioni protestanti, soprattutto nella sottolineatura della libertà di coscienza.
Un altro modo di intendere la identità è quello che conduce alle fondamentali acquisizioni
normative e valoriali contenute nei vari testi in cui si articola la “carta costituzionale”
europea, soprattutto il trattato di Lisbona dopo la mancata approvazione del “trattato
costituzionale”: è un approccio che ha un significativo seguito segnatamente in Germania
grazie all’importante lavoro di approfondimento di Habermas.
Ed infine c’è la via quotidiana, pragmatica che praticano tanti giovani europei che,
attraverso contatti di lavoro o schemi di scambi universitari come l’Erasmus, hanno
trovato una identità comune tanto più sciolta e convincente in quanto fondata sullo slancio
dell’ottimismo e sulla assenza di frontiere fisiche e culturali ingombranti. Devo dire che
mi ha molto colpito la testimonianza fresca ed autentica, sul loro sentirsi
irrimediabilmente europee, delle studentesse Thea Restorin e Isabelle Choppin che hanno
introdotto con incisive relazioni i lavori del “forum” della scorsa settimana: per loro
essere europee è una percezione immediata che prescinde da categorizzazioni
intellettualistiche.
Nel dare più o meno legittimo spazio a tante critiche sugli attuali assetti europei, è
doveroso riconoscere anche la suddetta realtà giovanile che costituisce forse il puntello più
forte ed efficace della mai doma speranza in una Europa integrata.
E’ un imperativo morale e intellettuale, tuttavia, chiedersi quale sia lo stato effettivo
dell’Europa oggi. Il bilancio, più che essere fatto di luci ed ombre, è decisamente
scoraggiante. L’Europa è assalita da problematiche e da sfide, sia all’interno che
all’esterno, che richiederebbero per essere efficacemente affrontate una coerenza di intenti
e un rigore di propositi che sono sinceramente latitanti o, perlomeno, carenti. L’approccio
economico-funzionalista che puntava a costruire progressivamente l’integrazione
coinvolgendo un numero crescente di settori ha consentito avanzamenti importanti ma
non sembra ora capace di andare oltre i risultati raggiunti e si fa sempre più forte la voce
che reclama un salto in avanti di natura politico-istituzionale.
Ma nel contempo non si può non constatare che il panorama spirituale, morale
dell’Europa è all’insegna di una piattezza e di una desertificazione collettiva che non
hanno probabilmente paragoni nella lunga storia del nostro continente. Contestualmente
si è venuto inaridendo quell’afflato religioso che è la fonte prevalente di ogni vera
impostazione etica e valoriale: e in ciò l’Europa si distingue dal ritorno alla religione e alle
forme del sacro che è proprio, in misura e modalità diverse, di tutti gli altri continenti. E
allora diventa legittima la domanda: di fronte a tanta rarefazione spirituale, dove mai
l’Europa riuscirà a trovare la forza, il coraggio, la lungimiranza, la perseveranza per
avviare e sostenere quella drastica riforma della coscienza, quanto meno politica europea,
che valga ad introdurre l’Unione in una nuova configurazione di cui la dimensione
politica diventi finalmente il fattore trascinante e risolutivo? E ancora: c’è un nesso tra la
grave crisi morale che vive l’Europa e l’ ”impasse” in cui la costruzione europea si trova
attualmente?
In tutta onestà non ho alcuna risposta ispirata a certezza. Ma constato un crescente
scenario di “macerie” e di difficoltà che si sta stringendo sempre più attorno al continente.
Il rischio è che l’impulso alla frammentazione che sta in questo momento minando
l’ordine internazionale (la stessa globalizzazione – secondo un noto e stimato economista
italiano – si è volta per tanti aspetti “unfriendly”) si insinui con la sua carica dirompente
all’interno della nostra Europa e ne comprometta non solo le prospettive di ulteriore
positiva evoluzione, ma anche gli stessi risultati di civiltà e progresso finora faticosamente
realizzati.
Dott. Lucio Battistotti Direttore della Rappresentanza
Commissione Europea in Italia e Comitato Scientifico AESI
Nemmeno in periodo di crisi si può dimenticare o sottovalutare il contributo essenziale
che il processo di costruzione europea ha apportato al destino del nostro continente
negli ultimi sessant’anni. Sotto diversi aspetti i successi dell’Europa hanno superato le
più audaci aspettative dei suoi padri fondatori.
Quello che all’epoca sembrava essere soltanto un sogno, rendere “impensabile” la guerra
tra gli Stati membri dell’Unione, è diventato una realtà incontestabile.
L'Europa ha riconquistato il bene supremo della pace e numerosi altri valori e diritti
universali calpestati durante oltre un millennio di guerre fratricide e di cultura dell'odio.
Che cos'è oggi l'Europa? Quali sono le sue straordinarie conquiste? Quali sono i diritti di
cui gode ogni cittadino europeo?
Gli Stati Membri nel percorso di integrazione hanno costruito, tappa dopo tappa, uno
spazio privilegiato della speranza umana, attuando e promuovendo i valori e i diritti
universali non soltanto in Europa ma nel mondo intero.
Vorrei richiamare la vostra attenzione sui traguardi raggiunti sino ad oggi: lo sviluppo
economico, la pace, gli scambi culturali, la possibilità di viaggiare con più facilità, il
sentirsi un’unica famiglia europea, anche se oggi lo spirito solidaristico, che dovrebbe
aiutarci a superare la crisi, latita di fronte agli egoismi. Il punto centrale rimane: cosa
deve/può unire i paesi europei? Si vogliono vedere solo gli aspetti economici e non anche
quelli culturali e religiosi che costituiscono le radici dell’Europa; per esempio si pensi alla
Grecia e al ruolo della cultura classica, o alle radici cristiane e quindi al recupero della
dottrina sociale cristiana anche in economia.
De Gasperi diceva che: "bisogna far sì che tutte le componenti rientrino nella costruzione
dell’Europa, quella liberale, quella sociale, quella cristiana. L’Europa salverà se stessa, la propria
moneta e l’economia di mercato se saprà “unire” davvero il suo peso politico, culturale ed
economico e lo userà per rimettere il lavoro e l’impresa al centro dell’economia”. Un modello di
economia che non deve essere pensato come uneln luogo separato e con proprie leggi
diverse da quelle che regolano l’intera vita sociale. Il nostro modello non è quello della
speculazione e del business a tutti i costi, ma quello dove l’impresa si fa anche carico di
problemi sociali e familiari. Al centro dell’Europa che vogliamo, ci deve essere poi la
difesa dei diritti “non negoziabili” e della dignità di ogni persona, che proprio la
cultura umanistica e cristiana hanno valorizzato nella storia europea. Politica, Economia,
Religione e Cultura sono come le 4 gambe di una sedia; l’Europa, senza una di esse, non
sta più in piedi.
Purtroppo l’impatto della crisi iniziata a fine 2007 ha segnato profondamente i cittadini,
nelle loro condizioni di vita e anche nelle loro visioni e opinioni generali, contribuendo a
ingenerare disaffezione e sfiducia verso il progetto europeo. Per superare i rischi che da
ciò scaturiscono per l’ulteriore, necessario sviluppo della costruzione europea, si stanno
levando voci autorevoli e avviando iniziative importanti in seno alle istituzioni e nel più
ampio mondo politico e culturale.
Oggi registriamo un forte senso di insicurezza e di smarrimento che pervadono i cittadini
europei. Innanzitutto un ovvio e immediato senso di insicurezza economica,
accompagnato da una contestuale preoccupazione circa la capacità delle nostre società di
tenere fede all’impegno verso un sistema che non garantisca soltanto il benessere
individuale, ma anche una vita dignitosa e giustizia sociale per tutti. Un obiettivo
fondamentale come quello di assicurare un adeguato approvvigionamento energetico,
che ci consenta di riscaldare le nostre case e far funzionare le nostre fabbriche, è
diventato motivo di inquietudine. I mutamenti geopolitici, con conflitti armati di diversa
natura che imperversano e alle porte dell’Europa, hanno fatto della difesa esterna e della
sicurezza interna motivi di vera preoccupazione per molti.
A un livello più profondo, l’identità culturale e politica specifica delle nostre società
nazionali appare minacciata. Molti l’associano, a torto o a ragione, al fenomeno
dell’immigrazione.
Infine, crescono i dubbi sulla stessa Unione, in particolare sulla capacità delle nostre
istituzioni di rispecchiare le aspirazioni e rispondere alle richieste proprio di quei cittadini
che sono democraticamente chiamate a servire. Si fa strada un preoccupante disimpegno
di vasti settori della cittadinanza dal processo di integrazione europea.
Il fascino del “Sogno europeo” si è affievolito notevolmente ma le straordinarie
conquiste realizzate in questi primi sessantacinque anni di vita nella casa comune
europea confermano che la completa realizzazione del progetto europeo non è lontana.
Saranno le prossime generazioni, non oppresse dal peso di un passato che non appartiene
a loro, che lo porteranno a compimento convinte che “per il sogno europeo vaga la pena
vivere” come osserva Jeremy Rifkin.
La sfida che l’Europa ha davanti a sé consiste nel dare risposte a queste incertezze e
tornare a essere fonte di speranza in un futuro migliore all’insegna della sicurezza.
Deve saper dimostrare in modo convincente che per gran parte di queste tematiche
l’Europa è la risposta migliore, e in alcuni casi l’unica efficace. Come in passato, sarà
necessaria una leadership molto coraggiosa, che trascenda le preoccupazioni quotidiane
immediate della nostra vita politica e sia guidata dalla visione, e dalla convinzione, di un
futuro europeo migliore.
Non esiste alcun singolo progetto che ci permetta di affrontare queste sfide dall’oggi al
domani. Io, però, credo che un’azione decisa in alcune aree chiave possa rappresentare
una piattaforma per trasformare l’Europa e riconquistare i suoi cittadini:
• Le politiche attuate e gli strumenti concepiti in risposta all’attuale crisi sembrano
cominciare finalmente a produrre i frutti auspicati in termini di crescita. Tuttavia, lo
squilibrio tra gli strumenti monetari e di bilancio a disposizione dell’Europa va
affrontato con risolutezza e qualsiasi strategia a medio e lungo termine per un
futuro economico europeo credibile non può non prevederne la sua risoluzione. È
evidente che le risorse dell’Unione sono sproporzionate rispetto alle sue
responsabilità, ma vi sono già oggi risorse sufficienti per curare quella che per
molti Europei è stata la maggiore ferita inferta dalla prolungata crisi economica e
finanziaria: la riduzione dei posti di lavoro e del livello di protezione dei diritti
sociali essenziali.
• Analogamente, è necessario riesaminare le priorità secondo le quali l’Unione spende
le proprie risorse. Storicamente l’Europa ha puntato sull’impegno nel settore
agricolo. Nonostante le varie riforme della PAC, che hanno ridotto
significativamente le risorse europee destinate all’agricoltura, il settore continua
ad assorbire una quota considerevole del bilancio dell’Unione. Non si tratta di
abbandonare completamente questo impegno, ma di prendere atto del fatto che la
realtà della vita della maggior parte dei cittadini è urbana. Uno spostamento delle
risorse verso una “Politica urbana comune”, in cui i sindaci potrebbero svolgere un
ruolo importante, con progetti di riqualificazione urbanistica a beneficio della
crescita e dell’occupazione, nonché del controllo climatico, dovrebbe divenire una
priorità nel rilancio dell’Europa.
• Oggi emerge chiaramente che, quella che una volta era considerata l’essenza della
sovranità nazionale, è venuta meno: nessuno Stato membro ha le capacità per
garantire da solo la difesa e la sicurezza dei propri cittadini di fronte alle potenziali
minacce esterne o alla sfida del terrorismo, che non conosce confini nazionali. La
sovranità nazionale in questo campo è un’illusione. Non si può continuare a
rifiutare un’Unione europea per la difesa che riunisca capacità, spese e fornitura di
difesa e sicurezza in nome di tale concetto illusorio di sovranità. Una siffatta Europa
rafforzerebbe il proprio apporto e la propria voce all’interno della NATO e sarebbe
in grado di affrontare con maggiore efficacia e legittimità le sfide del terrorismo
estremista. Inoltre, per far fronte a tali sfide, la condivisione delle risorse nazionali
di intelligence e investigazione aumenterebbe l’efficacia delle attività preventive
e infonderebbe nei cittadini un senso di maggiore sicurezza.
• La nostra interpretazione della cittadinanza europea deve essere rivista
radicalmente. La mobilità, pur rimanendo uno dei principi fondamentali dello
spazio comune europeo, non può rappresentare da sola l’essenza della cittadinanza
europea. La vera cittadinanza non consiste nello spostarsi, bensì nella capacità dei
cittadini di “possedere” la politica e di comprendere intimamente che le loro
preferenze, espresse attraverso il processo politico, hanno un’influenza
significativa e decisiva su chi governa l’Europa e su come essa debba essere
governata. Per raggiungere tale obiettivo, servirebbe ad esempio un cambiamento
del processo politico, affinché i cittadini chiamati alle urne siano in grado di
compiere in modo informato scelte politiche significative in termini di strategie che
l’Unione deve perseguire e coloro che governano a livello europeo siano tenuti a
renderne conto in maniera sostanziale agli elettori.
• L’andamento demografico dell’Europa dimostra che una politica d’immigrazione
legale e ben regolamentata è, e continuerà a essere, imprescindibile per il suo
futuro. La realtà della libera circolazione all’interno dell’Europa impone all’Unione
l’adozione di una regolamentazione efficace dell’immigrazione, attesa a giusto titolo
dai cittadini europei. Alla base di qualsiasi politica di tale natura vi è il presupposto
che l’Europa diventi la patria dei nuovi arrivati, ma che questi, a loro volta, facciano
dell’Europa e dei suoi valori la propria patria. La responsabilità di gestire
l’immigrazione clandestina e i richiedenti asilo in linea con il nostro credo
nell’inviolabilità della dignità umana non dovrebbe essere scaricata soltanto sugli
Stati membri “d’ingresso”.
La consapevolezza dello straordinario patrimonio di conquiste realizzate dall’Europa nel
progressivo allargarsi delle sue istituzioni comuni fino a riunificarsi interamente; lo stesso
cammino che l’Unione ha dovuto intraprendere per fronteggiare, dopo il 2009, la crisi
globale e i rischi di una incombente destabilizzazione finanziaria; gli imperativi e le sfide
dei nuovi equilibri internazionali e di una stringente competizione tecnologica ed
economica mondiale: tutto conduce alla conclusione che l’Europa – per crescere
economicamente e progredire socialmente per rendere operanti i suoi valori, per
riaffermare la sua identità e il suo ruolo nel mondo – non ha dinanzi a sé altra strada che
quella di una sempre più stretta integrazione, di “una sempre più stretta unione” in
senso politico tra i suoi stati e i suoi popoli.
Nella speranza di esservi stato utile vi ringrazio dell’attenzione e vi auguro buon
proseguimento.
Intervento del Prof. Massimo Panebianco – Ordinario di Diritto Internazionale
Università di Salerno e Comitato Scientifico AESI
Se fosse possibile un punto di partenza tratto dalla storia europea degli ultimi secoli, si
potrebbe fare l’esempio del rifacimento della volta della Cappella Sistina, ordinata da
Giulio II al giovane Michelangelo, che vi si applicò per oltre trent’anni, giungendo a vette
ancora ineguagliate nell’era moderna e contemporanea. Anche i costruttori dell’Europa
hanno ben operato sulle fondamenta e sulle mura del nuovo edificio, dandole una forma
unica nelle giuste proporzioni. Eppure le immagini contenute nella volta, a chi guardi
verso l’alto l’euro e l’Unione economica e monetaria, danno l’impressione che serva
qualcosa di nuovo, di più e soprattutto di diverso. Nell’ambito dell’attuale processo di
ridefinizione dei “confini” europei, l’Unione conferma la sua centralità, così come la sua
fragilità. Implosa al suo interno e costretta al suo esterno, l’Unione europea necessita oggi
di una ristrutturazione complessiva. Le operazioni di maquillage fino ad oggi condotte
hanno portato più volte a ritocchi di facciata e messe a punto dei suoi ingranaggi di
funzionamento. Ciononostante, l’Unione non è capita da buona parte della popolazione
europea. È giunta forse l’ora di rivedere quella volta che unisce i pilastri formalmente
aboliti.
Dopo più di cinquant’anni dalla sua costituzione come comunità di diritto e poi di Unione
di Stati di diritto e costituzionali, l’Unione europea si trova a dover affrontare un’altra ed
importante sfida democratica, ovverosia quella di riequilibrare i suoi rapporti internoesterni. Le vicende degli ultimi anni confermano, infatti, la debolezza dell’impianto “interistituzionale”. Tanto significa necessità di riequilibrare i rapporti tra le istituzioni
dell’Unione e le istituzioni nazionali, che operano scelte opposte a quelle di un processo di
integrazione. Lo ha fatto per il passato, più volte e a ragione, la Corte costituzionale
italiana nella definizione della famosa teoria dei contro-limiti. Lo ha fatto la Corte
costituzionale tedesca anche contestando il diritto primario dei Trattati (Maastricht e
Lisbona) rispetto ai poteri costituzionali dello Stato. Proseguono oggi altri Stati, come già
per il passato, attraverso il ricorso al meccanismo di democrazia diretta del referendum.
In tale direzione, non è la prima volta che tale meccanismo frena il processo di
integrazione europea. Evidentemente oggi si è modificato il contesto normativo di
riferimento. Utilizzato, infatti, nell’ottica della ratifica dei Trattati che seguono le
disposizioni costituzionali nazionali, viene adesso impiegato quale strumento di opting out.
Come nella storia dei referendum olandesi e francesi di 10 anni or sono, concernenti il
progetto della mai entrata in vigore Costituzione europea, anche quelli più recenti o
prossimi di Gran Bretagna non sono destinati a produrre catastrofi nel futuro della
costruzione europea, a condizione che la connessione tra la democrazia interna e quella
unionistica prosegua per la sua strada propria nel rispetto delle identità nazionali ed
ugualmente nella assoluta osservanza dei risultati finora conseguiti.
Intervento del Prof. Antonio Macchia – Segretario Generale AESI
Quando ci poniamo il problema dell’identità europea, inconsapevolmente ripercorriamo
un cammino affrontato già da altre civiltà che ci hanno preceduto e di cui siamo eredi. Già
nella Grecia antica, soprattutto nel momento dello scontro con i persiani, ci si poneva la
domanda sulle differenze che separavano il mondo europeo da quello asiatico. Ma alla
definizione delle caratteristiche culturali di quella sfera continentale, allora prettamente
mediterranea, non si arrivava però per autodefinizione, ma finiva per sostanziarsi in una
serie di confronti con l’altro che ponevano delle distinzioni, secondo il metodo logico del
non è.
A ben vedere, nel corso di venticinque secoli, le cose non sono molto cambiate, anzi le
differenziazioni culturali europee si sono amplificate, sia con l’aggiunta di altre famiglie,
soprattutto quella germanica e quella slava un tempo fuori dall’universo greco e romano,
sia per la stratificazione, nel tempo, di altre fratture, come quella tra cattolici, ortodossi e
protestanti. In breve potremmo pervenire alla conclusione che una identità europea non
esiste.
Guardando alla storia europea come un film possiamo infatti concludere come essa sia
una storia di divisioni e di competizioni tra tante piccole realtà, se comparate con i grandi
imperi presenti in altri continenti. Eppure proprio questa storia di competizioni e rivalità
ha reso l’Europa, o meglio le nazioni europee le padrone del mondo per lo spazio di
almeno cinque secoli. Oggi che la potenza coloniale è ormai dissolta, ma il seme culturale
europeo si è sparso per tutto il mondo, in termini di lingua, di religione, di cultura
scientifica e tecnologica e persino di abitudini alimentari (quanti popoli consumano e
producono, ad esempio, il vino e l’olio, due prodotti tipici del mondo mediterraneo).
Insomma ci troviamo di fronte ad un mondo che è rimasto comunque colonizzato
culturalmente dalle varie entità europee, ma di converso, cerchiamo un nesso comune, un
filo rosso che unisca le varie culture europee. Paradossalmente, celebrando l’anniversario
dei 70 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, viene da osservare come questo
periodo e soprattutto, quello della guerra fredda, abbia portato con se una sorta di
omologazione e quasi di appiattimento all’interno dell’universo intellettuale europeo.
Da un lato la consapevole, costante e tattica azione di demolizione dei valori, definiti come
borghesi, da parte del mondo sovietico, ha prodotto la nascita di un paesaggio culturale in
cui domina il relativismo assoluto, poiché tutto è divenuto criticabile. Dall’altro l’unico
modello che ha trionfato con la fine della guerra fredda è quello del liberismo economico,
tipico del mondo nord americano, ma che sta finendo per demolire le basi del mondo
economico europeo, basate non solo sui paradigmi del pareggio del bilancio, ma anche su
quelli della solidarietà e del Welfare State.
E’ evidente, ancora una volta, che l’Europa non è tutto questo, cioè né oriente né occidente
atlantico, ma un mix di quelle basi economiche di cui si diceva e di una certa dose di
tradizione, cioè non di cultura del conservatorismo, fine a se stesso, ma proprio di
conservare e preservare il passato, un passato glorioso ed importante per quasi tutta
l’umanità, escludendo solamente quelle comunità chiuse (oggi così chimericamente
ricercate dai viaggiatori last minute) nelle quali la cultura europea non è penetrata se non
marginalmente.
Il futuro dell’Europa non può dunque che passare sia dalla sua costante spinta in avanti,
sia dalla conservazione del suo passato. Un mix nel quale non vi sia solo l’approccio
burocratico illuminista, ma anche un po’ delle bizzarrie dell’Ancien Règime.
EUROPEA DI STUDI INTERNAZIONALI
www.aesieuropa.eu
COMMISSIONE EUROPEA
Rappresentanza in Italia
CASD
SEMINARI DI STUDI EUROPEI PREPARATORI ALLE
CARRIERE INTERNAZIONALI E COMUNITARIE
“AVVENIRE DELL’UNIONE EUROPEA:
RIFORMA E SOSTENIBILITA’”
ANNO ACCADEMICO 2014/2015
7 luglio 2015 - VILLA MADAMA - CASALE
Via di Villa Madama 250 - ROMA
MINISTERO AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE
CERIMONIA ATTESTATI
SEMINARI DI STUDIO AESI 2015
ORE 16.00 PRESENTAZIONE E DISCUSSIONE DELLE TESI FINALI
Coordinatore : Prof. Antonio Macchia - Segretario Generale AESI
Relatori del Comitato Scientifico :
On. Giuseppe Azzaro - Comitato Scientifico AESI
Gen. Antonio Catena –Comitato Scientifico AESI
Amb. Gianfranco Varvesi – Comitato Scientifico AESI
Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI
Amb. Adriano Benedetti – Comitato Scientifico AESI
Ore 17.30 SESSIONE SPECIALE
Saluti : Min. Plen. Stefano Baldi - DGRI Ministero Affari Esteri
e della Cooperazione Internazionale
Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI
17.45 Indirizzo di Saluto
Gen. C.A. Massimiliano Del Casale, Presidente del CASD
Ore 18.15 CERIMONIA ATTESTATI
Presiedono: Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI
Amb. Adriano Benedetti - Vice Presidente AESI
AESI
ASSOCIAZIONE EUROPEA DI STUDI INTERNAZIONALI
www.aesieuropa.eu
SEMINARIO
PEACEKEEPING : LA COOPERAZIONE TRA
DIPLOMAZIA, FORZE DI PACE ED UNIVERSITA’
In collaborazione con :
PROGRAMMA - 22 Maggio 2015
Apertura del Seminario:
ore 9.00 Arrivo dei partecipanti
ore 9.15 Saluto: Amm. SQ Rinaldo Veri - Presidente CASD
Messaggio del Gen. Claudio Graziano - Capo di Stato Maggiore Difesa
Introduzione: Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI
I Sessione: Geopolitica e crisi internazionali
ore 9.30 - 10.15
Prof. Stefano Silvestri – Direttore IAI Magazine
Amb. Franco Mistretta - già Ambasciatore d’Italia in Libano e Comitato Scientifico AESI
II Sessione: Cooperazione, Diplomazia, Forze di Pace ed Università
ore 10.15 - 11.15
Amb. Gabriele Checchia – Ambasciatore Capo Missione - Rappresentanza Permanente
Italiana presso le Organizzazioni Internazionali a Parigi e Comitato Scientifico AESI, Gen.
C.A. Vincenzo Coppola - Comandante Interregionale Carabinieri "Pastrengo" Milano, già
Comandante della Missione EUPM in Bosnia e Erzegovina e Comitato Scientifico AESI Col.c.s.SM Marcello Nardelli Capo Dipartimento Diritto Umanitario e Operazioni
Militari(CASD) - Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI - Modera: Gen. D. (ris)
Antonio Catena - già Addetto per la Difesa nel Corno d’Africa e Comitato Scientifico AESI
III Sessione: I Teatri - BEST PRACTICES
ore 11.15 - 12.30 Modera : Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI
BALCANI : “Prove di Pace” Sarajevo Video - Regista Marco Clementi – Giornalista
SARAJEVO: Amb. Enrico Pietromarchi – già Ambasciatore Italiano a Sarajevo e
Presidente On. AESI - Gen. D. (ris) Roberto Martinelli – già Comandante di MFO
(Muntinational Force and Observer) in Sinai (Egitto), già Direttore Difeciv presso
Ministero della Difesa e Comitato Scientifico AESI Dott.ssa Marialuisa Scovotto
Direttore AESI - Col. Thomas Widrich – Cons. Politico Comandante EUFOR Sarajevo
(video conferenza 11.45)
MEDIO ORIENTE :
BEIRUT: Amb. Gabriele Checchia - Ambasciatore Capo Missione - Rappresentanza
Permanente Italiana presso le Organizzazioni Internazionali a Parigi, già Ambasciatore
in Libano e Comitato Scientifico AESI - Gen. D. Antonio Bettelli – Comandante
Aviazione Esercito e già Comandante del Contingente Italiano UNIFIL in Libano
GERUSALEMME : Amb. Sandro De Bernardin - già Ambasciatore in Israele e DG
MAE
Gen. D. Michael Finn - Capo Missione UNTSO Gerusalemme (video conferenza 12.15)
IV Sessione: Cooperazione tra Circolo di Studi Diplomatici , CASD e AESI. Seminari di
Studi Internazionali: importanza di una formazione inter Istituzionale e
multidisciplinare
ore 12.30 - 13.00
Amb. Roberto Nigido Presidente del Circolo di Studi Diplomatici e Comitato
Scientifico AESI
Amb. Adriano Benedetti – Vice Presidente Onorario AESI e Comitato Scietifico AESI
Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI
Modera: Gen. D. (ris.) Antonio Catena - Comitato Scientifico AESI e già Addetto per
la Difesa nel Corno d’Africa
V Sessione ONU: (video conferenza con Rappresentanza Italiana all’ONU a New York)
ore 15.00 – 16.30
“Nuove sfide internazionali e Priorità delle Nazioni Unite”
Amb. Inigo Lambertini -Vice Capo Missione - Rappresentanza Permanente d’Italia
presso le Nazioni Unite a New York
“Peacekeeping e Università”
Gen. C.A. Paolo Serra - Consigliere Militare - Rappresentanza Permanente d’Italia
presso le Nazioni Unite a New York e già Comandante UNIFIL in Libano
Moderano: Prof. Stefano Silvestri - Direttore IAI Magazine e Prof. Massimo Maria
Caneva Presidente AESI
INTERNATIONAL CRISIS
AND PEACE
La pace e la stabilità internazionale sono le condizioni essenziali attraverso le quali ogni
singolo cittadino del mondo può realmente e liberamente partecipare, nel pieno delle sue
capacità, alla costruzione del proprio futuro. Nelle situazioni di crisi, solo gli interventi
aperti ad una strategia di cooperazione, di dialogo e di comprensione tra le parti, in
condizioni di sicurezza, sono quelli che favoriscono la pace e la stabilità sociale. In questo
quadro, appare oggi chiara l’importanza di una nuova strategia di cooperazione tra
Diplomazia, Forze di Pace ed Università che possa essere non solo uno strumento di
promozione della pace e di una reale ricomposizione della vita civile di un paese sconvolto
da un conflitto, gettando anche le basi di un processo democratico dove sia necessario, ma
anche quale azione di prevenzione delle stesse crisi, sempre più urgente a causa di una
crescente istabilità del quadro geopolitico e culturale internazionale.
AESI
Rappresentanza Permanente d’Italia
presso le Organizzazioni Internazionali - Parigi
Associazione Europea di Studi Internazionali
PROGRAMME
16/17 APRIL 2015 - PARIS
16 April 2015
7.00 pm Hotel Paris Tour Eiffel – Rue Claude Terrace
Arrival Delegation AESI in Paris
7.30 pm Transfer by bus to the Italian Residence to Italian Ambassador
8.00 pm Dinner - Buffet offered by Amb. Gabriele Checchia to AESI
17 April 2015
10.00 am (at the OECD, tbc)
Welcome: Amb. Gabriele Checchia - Italian Permanent
Representative to OECD in Paris
Greetings: Prof. Massimo Caneva – President AESI
10.30 am I Session: “The OECD today”
11.30 am II Session : “The International Energy Agency”
(Paolo Frankl, Head of IEA Division Renewable Energies)
12.30 pm III Session :”The OECD role in the field of Development”
(Federico Bonaglia,Senior Counsellor to the Director at
the OECD Development Centre)
3.00 pm IV Session : “The OECD work in the fiscal field: update on
the BEPS project"(Laura Stefanelli, Advisor at OECD Centre for Tax Policies and Administration
AESI
Rappresentanza Permanente d’Italia
presso le Organizzazioni Internazionali - Ginevra
Associazione Europea di Studi Internazioni
PROGRAMME
15/17 JUNE 2015 - GENEVA
15 June 2015
9.55 am Alitalia Flight from Rome to Geneva
11.30 am Arrival Delegation AESI in Geneva and Transfer to Hotel
6.00 pm Italian Permanent Mission to the International
Organizations in Geneva
10, Chemin de l’Impératrice - 1292 Ginevra
Welcame and Intervention : Amb. Maurizio Enrico Serra
Italy's Permanent Representatives to the International
Organizations in Geneva
Greetings: Prof. Massimo Caneva – President AESI
Discussion with the AESI FORUM Delegation
8.00 pm Conclusion
16 June 2015
OHCHR
Palais Wilson - 52 rue des Pâquis - Geneva
9.30 am Meeting with the OHCHR Office
Greetings : Prof. Massimo Maria Caneva - President AESI
10.30 am PALAIS DES NATIONS - UNOG
11.30 am Meeting with Mr Michael Moeller Director General UNOG
Greetings : Prof. Massimo Maria Caneva - President AESI
4.00 pm HOLY SEE MISSION TO THE UNITED NATIONS IN
GENEVA
Chemin du Vengeron 16 - 1292 Chambésy
Meeting with Nuncio : Archibishop Silvano M. Tomasi
Holy See Mission to the United Nations in Geneva
17 June 2015
9.00 am ICRC Building
Avenue de la Paix 17, 1202 Genève
8.50 a.m. Museum Welcome by Ms Bea Vanhove, Head of the Visitor's Service
Greetings Prof. Massimo Maria Caneva President AESI
9.00 a.m. Film “Panorama 13”
9.15 a.m. “The ICRC and its activities in the field”, presentation by
Ms Rudina Turhani, Programme Manager, Donor Relations
Unit
Questions – Answers
10.15 a.m. Break
10.30 a.m. “International Humanitarian Law”, presentation by
Ms Emily Richard, Legal Trainee, Arms Unit
Questions – Answers
11.30 a.m. End of the programme.
2.00 pm ILO Building 1.45 pm Reception of the ILO (R2 North)
4, route des Morillons, 1211 Genève
2.00 pm Room IV (R3 South) Meeting with Mr. Remo Becci,
Archivist, Internal Services and Administration Department
Guided Tour - The History, Mandate and activities of the ILO
Greetings : Prof. Massimo Maria Caneva – President AESI
2.30 pm Fundamentals Principal and Rights at Work
Ms. Caroline O'Reilly, Fundamentals Principal and Rights
at Work Branch
3:30 pm International Labour Standards
Mr. Franco Amato, Legal/Labour Law Officer, Freedom of
Association Branch
7.00 pm Alitalia Flight to Rome
AESI
EUROPEAN ASSOCIATION OF INTERNATIONAL STUDIES
www.aesieuropa.eu
INTERNATIONAL SEMINAR : EU - NATO
COOPERATION IN THE MEDITERRANEAN CRISIS
15 July 2015 - NAPLES
In collaboration with
THE COMMANDER OF US SIXTH FLEET
VICE ADMIRAL JAMES G. FOGGO
Commander of the U.S. SIXTH Fleet; Naval Striking and Support Forces NATO
Deputy Commander of the U.S. Naval Forces Europe/U.S. Naval Forces Africa
PROGRAMME
09.55 Arrive at Naples Central Station
09.55 / 10.30 Delegation movement to SIXTH Fleet Headquarters (bus)
10.30 / 11.00 Delegation greeted by Staff af Bella Napoli
11.00 / 11.30 Remarks by President AESI
11.30 / 12.45 Brief by Commander SIXTH Fleet
12.45 / 13.00 Certificate Presentation by President AESI
and Commander SIXTH Fleet
13.00 / 14.00 Lunch / Photos
14.15 / 15.00 Delegation movement to MOC
15.00 / 15.45 Transfer by bus to Naples Central Station
AESI is a cultural association that has as its main target the promotion of human rights in politics and
international cooperation. AESI wants to develop in particular, with its activities, a real culture of
cooperation among populations and Nations, respecting human being's dignity and identity. AESI wants to
contribute to the formation of those young students who are preparing themselves for a diplomatic career or a
career in the European or International Institutions. More than 3000 students and young graduates have
already taken part in the Seminars organised together with the Diplomatic Studies Club, Centre for
Advanced Defence Studies, Ministry of Foreign Affairs, Permanent Italian Representation of the European
Commission and the Information offices for Italy of the European Parliament. AESI also organized many
International FORUM in the Balkan Area (at the University of Sarajevo with EUFOR), in the Middle East
(at USEK and Lebanese Universities in Lebanon with UNIFIL, with Israel and Palestine Universities at
UNTSO, at the Universities in Cyprus with UNFICYP), at the NATO Headquarters in Brussels, at the
European Parliament, and at the Italian Permanent Representation to the European Commission. Many of
AESI students have already started a diplomatic career, or are working in the relevant offices in
International Organizations. Among the speakers of AESI' s events, there are more than 100 Ambassadors,
representatives of the United Nations, the European Commission, the European Parliament, Generals and
University Professors who have contributed with their experience in the field and with their knowledge and
experience. The Association is a non profit organisation and is totally independent from a political point of
view.
-----------------------------------------------L’AESI è un’associazione culturale che ha come obiettivo centrale la promozione dei diritti dell’uomo
nell’ambito della politica e della cooperazione internazionale. L’AESI si propone di sviluppare, nelle sue
attività di studio e di formazione e nei programmi internazionali, una vera cultura della cooperazione tra i
popoli e le nazioni, nel rispetto della dignità e dell’identità della persona umana, soprattutto tra quei giovani
che si preparano ad intraprendere la carriera diplomatica o quella presso Istituti e Organizzazioni
Internazionali. L’Associazione è senza fini di lucro, indipendente da partiti e movimenti politici.
Sono oltre duemila i giovani laureati e gli studenti universitari che hanno già preso parte, in questi ultimi
anni, ai seminari di studio organizzati dall’AESI in collaborazione con il Circolo di Studi Diplomatici e sotto
il Patrocinio del Ministero Affari Esteri, della Commissione Europea e delle Nazioni Unite. Molti di loro
hanno già intrapreso la carriera diplomatica o sono impegnati in sedi internazionali di rilievo come le
Nazioni Unite. Tra i relatori ospiti dell’AESI hanno preso la parola più di cinquanta ambasciatori, nonché
rappresentanti delle Nazioni Unite, della Commissione e del Parlamento Europeo, e numerosissimi docenti
universitari.
Le attività dell’AESI prevedono corsi, seminari e convegni su tematiche quali il futuro del multilateralismo e
l’effettività delle istituzioni multilaterali, il problema del sottosviluppo, lo sviluppo del diritto internazionale
e i progressi del processo d’integrazione europea. Particolare attenzione è stata riservata alla formazione nel
settore delle emergenze umanitarie e della diplomazia preventiva. L’AESI realizza i suoi seminari di studio
congiuntamente all’Ufficio per l’Italia del Parlamento Europeo, alla Rappresentanza in Italia della
Commissione Europea ed al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Nel 2003 è
stata organizzata dalla Rappresentanza della Commissione Europea in Italia e dall’AESI una speciale
pubblicazione sui temi del futuro dell’Europa e del Trattato Costituzionale. L’AESI organizza e promuove
anche la partecipazione a programmi di cooperazione internazionale e aiuto umanitario con incontri che
coinvolgono giovani universitari di diverse nazionalità.
Tra tali programmi ricordiamo quelli nella Regione Baltica, realizzati in collaborazione con l’Università di
Tallin in Estonia sulla “Cooperazione Universitaria per l’Integrazione Sociale Estone-Russa” (1996 e 1997);
il “Programma d’Assistenza Umanitaria alle Popolazioni Rifugiate Provenienti dal Kossovo”, realizzato nel
1999 presso l’Aeroporto Militare di Bari Palese e in collaborazione con il Ministero della Difesa e la
Prefettura di Bari; il Workshop Internazionale in Bosnia-Herzegovina su “Il Ruolo dell’Università
nell’Assistenza Umanitaria e nei Processi di Pace del Sud-Est Europa” nel maggio 2000 a Sarajevo in
collaborazione con le Nazioni Unite, l’Università di Sarajevo e l’Università di Roma “La Sapienza; la “First
University Summer School for Cooperation and Humanitarian Affairs in South-Eastern Europe”, a Sarajevo
nel luglio 2001 con le Forze di Pace italiane a Sarajevo, le Nazioni Unite, l’Università di Sarajevo; la
“European University Summer School” (luglio 2002) presso le Università di Sarajevo, Belgrado e Mostar, in
collaborazione con le Forze di Pace italiane e l’ONU con studenti universitari e giovani laureati provenienti
dai più importanti atenei italiani e del Regno Unito (come le Università di Oxford e Cambridge); le
“European University Summer School in Libano” nel luglio del 2003 in collaborazione con l’Ambasciata
d’Italia e l’Istituto di Cultura Italiano a Beirut, con l’ONU, la Rappresentanza della Commissione Europea
in Libano e le Forze di Pace UNIFIL. Nel maggio 2005 l’AESI ha organizzato per la prima volta uno
“Spring University Workshop” a Bruxelles in cooperazione con il Regional United Nations Information
Centre (RUNIC) di Bruxelles, durante il quale studenti e neolaureati italiani, insieme ai loro colleghi europei
e non, si sono incontrati per seguire una serie di seminari in sedi prestigiose, quali gli uffici delle Nazioni
Unite, la Missione Permanente d’Italia presso l’UE, gli uffici del Parlamento Europeo e il Collegio d’Europa
di Brugge. Nel dicembre del 2005 l’AESI ha organizzato un European Workshop of International Studies a
Gerusalemme in collaborazione con le Nazioni Unite. In occasione del Workshop si sono organizzati
seminari di studio presso l’Università Palestinese di Betlemme e di Al Quds a Gerusalemme, con
l’Università di Haifa e l’Ambasciata d’Italia a Tel Aviv. Nel giugno 2007 l’AESI è stata ricevuta dal
Presidente del Parlamento Europeo a Bruxelles per un incontro di approfondimento sul nuovo trattato
dell’Unione Europea. Nel giugno 2008 l’AESI ha promosso un FORUM Europeo di giovani universitari con
la partecipazione del Presidente del Parlamento Europeo Nel maggio del 2010 l’AESI ha organizzato la
seconda European University Summer School in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia e UNFIL e con le
Università Libanese e USEK di Kaslik. Nell’ottobre del 2010 l’AESI ha organizzato inoltre il FORUM con
l’Università di Sarajevo e le Forze di Pace Italiane a BUTMIR. Nel maggio 2011 l’AESI ha organizzato un
FORUM con l’Università di Nicosia e UNFICYP a Cipro. Nel luglio 2011 presso Villa della Fonte (IUE) a
Fiesole, l’AESI ha organizzato un Seminario di Studi in collaborazione con l’Istituto Universitario Europeo
di Fiesole (FI) sul tema “University promoting democracy and peace in Middle East”. Nel 2013 e 2014 sono
state effettuate missioni per FORUM presso la NATO a Bruxelles in collaborazione con la Rappresentanza
Italiana e a Sarajevo in collaborazione con EUFOR.
BRUXELLES – INCONTRO CON IL PRESIDENTE DEL PARLAMENTO EUROPEO
ROMA - FORUM EUROPEO CON IL PRESIDENTE DEL PARLAMENTO EUROPEO
SARAJEVO – AESI FORUM INTERNAZIONALE PER LA PACE NEI BALCANI
LIBANO – AESI FORUM INTERNAZIONALE PER LA PACE
CIPRO – AESI FORUM INTERNAZIONALE PER LA PACE
NATO - BRUXELLES - AESI FORUM PRESSO LA NATO E RAPPRESENTANZA ITALIANA ALLA UE
ROBERT SCHUMAN
CON JEAN MONNET
“L'Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete
che creino anzitutto una solidarietà di fatto” (Robert Schuman)
“La democrazia deve la sua origine e il suo sviluppo al cristianesimo. È nata, quando l’uomo è stato chiamato a
realizzare la dignità della persona nella libertà individuale, il rispetto dei diritti degli altri e l’amore verso il
prossimo. Prima dell’annuncio cristiano tali principî non erano stati formulati, né erano mai divenuti la base
spirituale di un sistema di autorità.”(Robert Schuman)
KONRAD ADENAUER
“Noi europei dobbiamo esercitare assieme anche la politica estera, solo questo obiettivo può realmente aiutarci.”
(Konrad Adenauer)
“A lungo termine il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione politica quanto dal pericolo della
massificazione, dell’uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla
responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io. Questo pericolo può diventare veramente mortale per
il progresso culturale”(Konrad Adenauer)
ALCIDE DE GASPERI
“All’origine di questa civiltà europea si trova il cristianesimo. Non intendo con ciò introdurre alcun criterio
confessionale, esclusivo, nell’apprezzamento della nostra storia. Soltanto voglio parlare di un retaggio
comune europeo, di quella morale unitaria che esalta la persona e la responsabilità della persona umana”
(Alcide De Gasperi)
ALTIERO SPINELLI
“Il compito di realizzare l’unità europea non spetta ad un’imprecisabile generazione di un imprecisabile
futuro, ma spettava alla nostra generazione.” (Altiero Spinelli)