“AVVENIRE DELL`UNIONE EUROPEA: RIFORMA E SOSTENIBILITA` ”
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“AVVENIRE DELL`UNIONE EUROPEA: RIFORMA E SOSTENIBILITA` ”
AESI ASSOCIAZIONE EUROPEA DI STUDI INTERNAZIONALI www.aesieuropa.eu IN COLLABORAZIONE CON : COMMISSIONE EUROPEA Rappresentanza in Italia CASD Circolo Studi Diplomatici SEMINARI DI STUDI EUROPEI PREPARATORI ALLE CARRIERE INTERNAZIONALI E COMUNITARIE “AVVENIRE DELL’UNIONE EUROPEA: RIFORMA E SOSTENIBILITA’ ” ANNO ACCADEMICO 2014/2015 4 ANNO ACCADEMICO 2014/2015 PROGRAMMA 27 Gennaio 2015 - SALA DEL REFETTORIO – PALAZZO SAN MACUTO PARLAMENTO ITALIANO “AVVENIRE DELL’UNIONE EUROPEA: RIFORMA E SOSTENIBILITA’ ” Saluto: Amb. Enrico Pietromarchi - Presidente On. AESI Coordinatore: On. Giuseppe Azzaro – Comitato Scientifico AESI Dott. Lucio Batistotti – Direttore Rappresentanza Commissione Europea in Italia Amb. Luigi Mattiolo - Direttore Generale DGEU – MAE Modera: Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI Introduzione del Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI L’avvenire dell’Europa è la riscoperta della finalità antropologica della politica, la quale acquista autorevolezza solo se e nella misura in cui riscopra che il singolo cittadino non può mai essere trattato come strumento, ma come fine dell’azione politica. L’AESI crede che questo sia il punto dal quale si possa ripartire, soprattutto all’indomani delle recenti elezioni europee, identificando l’obiettivo centrale di ogni agire dei cittadini e soprattutto delle Istituzioni europee: la consapevolezza della tutela della dignità di ogni persona umana e dal perseguire una politica che si occupi del bene comune. Se ogni cittadino europeo potrà dare il proprio contributo personale all’affermazione di questi valori nella propria società, vivendoli e promuovendoli nell’ambito della sua vita di tutti i giorni, anche il futuro dell’intera Europa e delle sue Istituzioni risulterà più chiaro. Si parla di responsabilità globale, di valori globali, ma senza questa personale convinzione e la diretta conseguente promozione di giuste Istituzioni al servizio del bene comune, non si potrà capire l’Europa che potrebbe divenire solo espressione di una vuota macchina burocratica e di logiche di partito, fonte di continua delusione. L’uomo vive un’esistenza autenticamente umana grazie alla cultura, alle sue radici storiche e religiose. Grazie a questa sua memoria ed identità l’uomo diventa più uomo, accede più intensamente all’essere che gli è proprio. Ma se si promuove solo una radicale cultura giuridica positivistica per cui si legifera in contraddizione con i diritti inviolabili della persona umana o si inneggia al benessere economico e allo sviluppo tecnologico fini a se stessi senza alcun riferimento alla verità sui fondamenti morali, giuridici e politici dell’agire degli Stati, come si potrà pretendere l’adesione dell’opinione pubblica europea? Magistralmente presentata e diffusa attraverso gli organi di informazione mediatica per avere poi una vasta risonanza nell’agone politico, la nuova strategia è quella di una esasperata “globalizzazione della competitività” dell’uno contro l’altro. Come ci si può stupire allora quando molti cittadini europei, invece di guardare con interesse alla comune casa europea, corrono dietro a nuove forme di rinascente nazionalismo che esacerbano la vita civile creando rancori e divisione in nome di falsi ideali? Purtroppo alcune divisioni ravvisabili nell’Europa di oggi, nel momento in cui si stanno creando con grande sforzo i presupposti per un nuovo ordinamento comune che faciliti l’integrazione tra gli Stati membri e si è impegnati in un programma da condividere a favore della pace e della sicurezza comune, sono purtroppo fortemente influenzate da schieramenti di “lobbies” politico finanziarie che controllano i mercati e prediligono i profitti solo di alcuni escludendo la maggioranza, emarginando i più deboli e soprattutto creando una profonda sfiducia delle nuove generazioni che rimangono senza sicurezza di un lavoro e di una speranza nel futuro. Esiste una verità sull’uomo che si impone al di là delle barriere di lingue e di culture diverse. Si deve tenere presente in primo luogo che esiste, oggi più che mai, il pericolo di un’alleanza tra democrazia e relativismo etico. Desideriamo ancora sottolinearlo con forza come uno dei problemi centrali concernenti il futuro dell’Europa. La persona umana rappresenta, infatti, il fine ultimo della società la quale è ad essa ordinata e deve rispettarne la dignità e i diritti, diritti che sono anteriori alla società stessa e ad essa si impongono. Essi sono il fondamento della legittimità morale di ogni autorità. Un potere politico che rifiuti di riconoscerli nella propria legislazione positiva mette a repentaglio la propria credibilità. Intervento dell’On. Giuseppe Azzaro – Comitato Scientifico AESI Se per stabilire i temi dei seminari dell’Aesi, il Comitato scientifico, si fosse riunito in questi ultimi giorni anzichè qualche mese fa probabilmente avrebbe aggiunto al tema di questo seminario un punto di domanda: Cioè: Invece di dire:”Avvenire dell’Europa:riforme e sostenibilità” avrebbe detto.”L’Europa ha un avvenire?” Gli avvenimenti di questi ultimi mesi, infatti, dalla crescita dei consensi elettorali ai negatori di destra e di sinistra della validità dell’Unione Europea specialmente in paesi fondamentali per essa come la Francia, (Marina Le Pen) l’Inghilterra e l’Italia( Matteo Salvini), e da ieri la Grecia (Alexis Tsipras), alla difformità troppo marcata delle risposte dei paesi dell’Unione agli avvenimenti internazionali, ed ancora i lunghi dibattiti che alla fine hanno troppo condizionato le decisioni della Banca Centrale Europea di acquistare titoli di Stato per il finanziamento della crescita economica dei paesi dell’eurozona, dimostrano inequivocabilmente che la crisi delle istituzioni europee si è pericolosamente aggravata e che la tendenza verso il tramonto della Unione ha subìto una altrettanto pericolosa accelerazione. E’ sbagliato far dipendere tutto ciò dalla crisi economica mondiale degli ultimi anni. Il paese che l’ha provocata cioè gli Stati Uniti, un paese fra i più indebitati del mondo a giudicare dal rapporto fra debito pubblico e Pil, ne sono usciti alla grande con una crescita del loro Pil del sette per cento e il riassorbimento totale della disoccupazione mentre nei Paesi europei, la disoccupazione specialmente dei giovani, dalla cui iniziativa dipende il futuro dell’Europa, raggiunge picchi da capogiro. Non so se, come e quando il meccanismo investimenti,maggiore occupazione,maggiori consumi, si riavvierà. Probabilmente anche in Italia diventata più affidabile se vengono realizzate le riforme su fisco, sul rapporto di lavoro e sul soffocante e sempre imprevedibile intervento burocratico che provoca ritardi inaccettabili per un’impresa che deve calcolare con esattezza perfino i giorni in cui deve cominciare a produrre, potremo ragionevolmente sperare anche in investimenti ester.. Ma la crisi economica ha anche e soprattutto evidenziato che non basta una economia prospera per rendere irreversibile l’unità europea. L’unione economica c’è stata ed ha funzionato fino a quando le economie di quasi tutti i paesi andavano bene,ma quando è scoppiata la crisi si è visto che era una unione più apparente che reale, si è visto, che l’avere ognuno di quei paesi, non rispettando le regole, assicurato ai propri cittadini un tenore di vita che la ricchezza prodotta non consentiva, si era creata una situazione pressoché fallimentare il cui peso ricadeva in gran parte su quelli più virtuosi, i quali hanno vigorosamente reagito condizionando il loro intervento salvifico al rispetto delle regole. Si è visto,così, che la pretesa della piena sovranità nazionale che ha consentito una politica fiscale sbarazzina,( vedi IMU),una spesa miliardaria per dotare l’esercito nazionale di strumenti bellici sofisticati e costosissimi e di incerta utilità ( vedi aerei F,30). La causa della crisi economica non sta quindi nella attività dell’Europa economica ma nell’assenza dell’Europa politica. Il trattato di Lisbona che doveva introdurla non ha trovato, e non poteva trovarla, concreta applicazione mentre le decisioni della Commissione dell’Unione Europea disattese nella maggior parte dei casi nel sacro nome della sovranità nazionale, hanno reso possibile politiche finanziarie ed economiche nazionalistiche: in altri termini è mancata l’Europa politica il cui fondamento risiede nella presenza di un indirizzo politico comune e vincolante stabilito da organismi democratici eletti dai cittadini europei; insomma, non c’è avvenire democratico in Europa se non si infligge un colpo mortale al concetto di piena sovranità nazionale almeno nei settori fondamentali della convivenza nazionale. Cioè quello economico-finanziario, della difesa e della politica estera. Abbiamo visto che dai paesi più gravati dal debito pubblico i vincoli di bilancio sono stati considerati una sorta di intollerabile imposizione, La drastica ma non rifiutabile imposizione per ottenere gli aiuti finanziari dell’Europa di rientrare dal debito ha causato un regime di austerità che ha ridotto drasticamente i consumi con negative e inevitabili conseguenze sull’intero comparto della produzione e del commercio. Il classico rimedio peggiore del male!! Adesso si naviga a vista con deroghe e compromessi che rallentano i benefici delle misure per la crescita e così si continuerà chissà per quanti anni ancora. Non può e non deve essere questo il solo prevedibile avvenire per un’Europa che è chiamata dai complessi problemi di geopolitica a svolgere un ruolo fondamentale per la pace nel mondo. Ve la immaginate un’Italia o una Germania o una Francia che da sole affrontano i drammatici avvenimenti rivoluzionari che stanno cambiando fisionomia ai paesi del Medio Oriente, e dell’Africa? Ovvero uno di questi paesi che da solo affronta le conseguenze della crisi che affligge la Russia e l’Ucraina? Ovvero le pretese delle nuove potenze mondiali quali la Cina, l’India e il Brasile che si preparano a irrompere sulla scena mondiale per imporre agli altri gli oneri del loro sviluppo? I paesi europei potranno sperare di mantenere la propria libertà solamente se resteranno uniti. Ma questo è semplicemente impossibile quando nessuno di essi è disposto a cedere un briciolo della sua sovranità nazionale che sarebbe in questo caso più giusto chiamare egoismo nazionale. Attualmente le istituzioni finanziarie europee, a cominciare dalla Banca Centrale Europea non ha la forza necessaria per imporre una sua politica senza il consenso delle banche nazionali, come anche gli avvenimenti finanziari di questi giorni stanno dimostrando, mentre la FED. la Banca Centrale degli Stati Uniti d’America, non ha esitato un momento a finanziare, e così a rilanciare le imprese americane colpite dalla crisi finanziaria da essi stessi provocata. Il Presidente degli Stati Uniti d’America è in grado di spostare il peso delle tasse dai ceti medi ai ceti più ricchi ed in Europa manca persino un coordinamento fiscale che uniformi la pressione fiscale elemento fondamentale per i bilanci delle imprese, e che contrasti in modo serio ed efficace l’evasione o l’elusione. I cittadini europei sono chiamati a mantenere 28 eserciti: ma a cosa serve mai un esercito nazionale quando la situazione mondiale è negli ultimi decenni talmente mutata da far ritenere imprevedibile per oggi e per il futuro una guerra tra singole nazioni così come è accaduto nel secolo XIX e nei primi decenni del secolo scorso? In caso di aggressione esterna ad uno di essi, sarebbero tutti i paesi europei a rintuzzare l’attacco. Ed allora non sarebbe ovvio pensare ad un unico esercito europeo? Per quanto tempo ancora dovremo contare per la nostra difesa sulla Nato, un organismo egemonizzato da potenze non europee che condizionano, ovviamente, la scelta delle decisioni più convenienti per l’Europa? Ancora una volta salta agli occhi la necessità di un’Europa politica, di una Europa che abbia organi democratici rappresentativi eletti dai cittadini europei con poteri legislativi pieni e sostitutivi di quelli nazionali e un Governo in grado di assumere decisioni e responsabilità piene almeno nel settore della finanza della difesa e della politica estera. Ma a chi bisogna chiedere questa necessaria riforma, che rispettando la identità e l’autonomia delle singole nazioni, crei un organismo democratico europeo eletto dai cittadini europei che detti regole per esse vincolanti ? Nel primo decennio di questo secolo abbiamo varato una Costituzione per l’Europa che non fa di noi uno soggetto internazionale. Siamo solamente una Confederazione di Stati sovrani che possono,ognuno, assumere decisioni difformi su argomenti decisivi: come dimostra la clausola contenuta nella Costituzione di Lisbona la quale precisa che l’introduzione del voto di maggioranza nella Commissione non riguarda i settori della politica estera,della difesa e della fiscalità, cioè i settori fondamentali della vita di una comunità:per questi settori, quindi,: è stata mantenuto l’obbligo dell’unanimità dei consensi per ogni decisione, cioè il riconoscimento di un diritto di veto sulle decisioni fondamentali. Non si tratta quindi di una federazione di Stati ma di un’addizione di Stati che mantengono neanche scalfita la sovranità nazionale. Quale Stato esterno può a queste condizioni ritenere affidabile l’Europa come tale? Ma allora a chi bisogna chiedere in tre parole la nascita della Federazione degli Stati Uniti d’Europa, sul modello di altri Stati federali, il primo fra tutti quello degli Stati Uniti d’America? Pensare di chiederlo alla classe politica sarebbe fatica sprecata. I politici attualmente nell’agone europeo, stando le cose così come sono state descritte, non possono che difendere gli interessi dei cittadini che li hanno eletti, chiedere loro di rinunciare ad una parte della sovranità nazionale, o meglio all’egoismo nazionale, sarebbe inutile. Essi sanno infatti che se vogliono restare ai loro posti devono proteggere interessi anche contrastanti con una politica europea comune, e se vogliono vincere le elezioni devono fare e mantenere promesse anche per benefici che non possiamo permetterci: c’è bisogno di ricordare che il centro destra nelle ultime elezioni politiche italiane restò partito determinante per la formazione del governo promettendo e poi,imponendo, la abolizione dell’IMU ? E che Alexis Tsipras ha vinto in Grecia le elezioni promettendo la fine dell’austerità e la cancellazione del debito pubblico? Sembrerebbe una situazione senza vie d’uscita. Ma poiché il peso politico dell’Europa unita resta un elemento fondamentale per gli equilibri internazionali, avendo,specialmente per questo, oltrepassato il punto di non ritorno, essa continuerà ad esistere pur nelle attuali difficoltà e insufficienze, e naturalmente è il minor male!, E poiché non è immaginabile che , come accade nei paesi in cui la democrazia ha perduto il suo slancio vitale , che essa venga sostituita da forme di governo autocratiche,occorre che la soluzione venga dal basso,cioè dai singoli cittadini europei che lo sono già in forza dei trattati ma che non riescono ancora a percepire la loro appartenenza all’Europa come percepiscono quella all’Italia. Occorre sentirsi allo stesso modo italiani ed europei, occorre uno spirito europeista che ispiri gli stessi ideali e lo stesso affetto che per la mia patria,Sono italiano ma allo stesso tempo ugualmente europeo: ho il diritto di scegliere la classe dirigente europea sulla base di programmi proposti da raggruppamenti politici europei e di concorrere alla formazione degli organi rappresentativi europei muniti di pieni poteri scegliendone i rappresentanti nell’ambito dell’intero territorio europeo. A chi si può chiedere di battersi per tutto questo se non che alle ultime generazioni, ai giovani che già dimostrano di essere su questa strada? Ma quanto è difficile in questo campo uscire dalla retorica del “siete la nostra speranza” ed essere invece credibili quando il 48 per cento di essi è senza lavoro! e come si può pretendere di chiedere loro di lottare per l’avvenire dell’Europa quando è tanto incerto il loro?. E tuttavia sono loro che più di tutti hanno avvertito il vento possente del cambiamento e che cominciano a pensare ad istituzioni di governo a dimensioni europee. Basta ascoltare gli studenti universitari che avendo vinto un Erasmus studiano in una Università straniera per capire con quanta facilità si capiscono e fraternizzano con studenti loro colleghi di altri paesi. Insomma occorre che si imbocchi la strada di una rivoluzione pacifica che fondi un’Europa non condizionata dagli egoismi nazionali. Senza di ciò il sogno di Un’Europa realmente unita e forte svanirà. Ora immagino cosa qualcuno di voi e di quelli che stanno seduti insieme a me in questo tavolo solenne stae pensando:. “ Ma guarda tu stò vecchietto: a novanta anni non finisce ancora a sognare” Un sogno? Può darsi,ma cosa non darei perché esso diventasse anche il vostro! Intervento del Dott. Lucio Battistotti Direttore della Rappresentanza in Italia della Commissione europea LE SFIDE DI IERI E DI OGGI 1. EUROPA IERI E' pensiero comune credere che i padri fondatori dell'Unione Europea fossero rivoluzionari, che prima del tempo avessero visto i limiti dello Stato nazionale e capito la necessità di superarlo per costruire in Europa un sistema di potere sovranazionale. In realtà, il progetto da loro concepito mirava a far durare lo Stato nazionale su nuove basi più che a eliminarlo. Secondo la visione dei padri fondatori, il trasferimento parziale di alcune competenze tecniche ad un'autorità sovranazionale avrebbe dovuto permettere ai nuovi governi democratici di concentrarsi sul consolidamento della loro autorità, indebolita dalle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Il nuovo ordine europeo non avrebbe dovuto toccare la vera sovranità degli Stati, ma facilitare quella ripresa economica che sola avrebbe ridato alle popolazioni fiducia nelle autorità nazionali. Era soprattutto la questione della sicurezza dei piccoli Stati a inquietare l'establishment politico europeo, in particolar modo dinanzi alla minaccia sovietica. L'unica via in grado di offrire prospettive per un radicale cambiamento nella continuità, era quella dell'integrazione economica. I sei paesi fondatori, pur nella comune devastazione post-conflitto mondiale, partivano da situazioni differenti. L'Italia era un paese fortemente arretrato: più del 30% della popolazione attiva era impiegata nell'agricoltura; la produzione industriale era ridotta a un quarto rispetto al 1938; le importazioni industriali ammontavano al 57% del fabbisogno. In Italia, la maggioranza della popolazione viveva nel centro-sud, i conflitti sociali erano forti ed urgeva una riforma previdenziale e assistenziale. In secondo luogo, serviva una spinta ideale, un orizzonte più lontano cui mirare. Generazioni cresciute nell'esaltazione dell'appartenenza nazionale e addestrate a valori di grandezza e di conquista erano orfane dei loro ideali patriottici. Gli europei dovevano essere rieducati. Rieducati a una nuova appartenenza democratica e a sentirsi parte di un progetto che superasse i vecchi Stati nazionali. Adenauer disse al suo governo: "la gente ha bisogno di un'ideologia e questa può solo essere europea." La modernità del pensiero politico dei padri fondatori risiede nella capacità di saper trovare un piano comune di dialogo, dal quale partire per incontrarsi, discutere, negoziare, con l’obiettivo ultimo della composizione di interessi contrastanti. Del resto su questa idea, che può senz’altro essere definita rivoluzionaria, si basa quello che in gergo a Bruxelles è chiamato “la méthode communautaire”. Il metodo di governo comunitario riflette, infatti, le caratteristiche dell’Unione: pluralismo, dialogo, mediazione e negoziato permanenti. La tutela delle diversità permette di valorizzare il senso di appartenenza alla propria comunità locale e nazionale, e di conciliarlo con il senso di appartenenza a una comunità più ampia e non esclusiva, quella europea. 2. EUROPA OGGI In un mondo percorso da sconvolgimenti geo-economici e geopolitici ed in una Europa che non riesce ad uscire da una crisi economico-sociale che sta minando le basi del consenso del progetto stesso di integrazione europea, diventa fondamentale ri-trovare le radici stesse e le ragioni profonde di tale progetto. Lo Stato nazione, uno Stato in cui i cittadini condividono linguaggio, cultura e valori, è una creazione del XIX secolo. I filosofi greci ritenevano che lo Stato ideale fosse quello in cui tutti i cittadini si conoscevano tra loro ed infatti Aristotele nella “Politica” afferma che “l’esperienza ha dimostrato che è difficile, se non impossibile, che uno Stato popoloso sia amministrato da buone leggi”. L'Europa deve intervenire solo quando può apportare valore aggiunto. L'Unione europea deve essere grande per le grandi cose e piccola per le piccole cose. Come ogni governo, deve avere particolare cura della qualità e della quantità delle norme che emana, secondo la massima di Montesquieu: "les lois inutiles affaiblissent les lois nécessaires". [le leggi inutili indeboliscono le leggi necessarie]. 3. LE DUE GRANDI SFIDE DI OGGI SONO: 3.1 LA CRISI ECONOMICA Sette anni fa, il governo statunitense nazionalizzava Fannie Mae e FreddieMac e salvava l'AIG. Nello stesso momento Lehman Brothers avviava la procedura fallimentare. Da questi eventi scaturì la crisi finanziaria mondiale, trasformatasi poi in una crisi economica senza precedenti e quindi in una crisi sociale dalle drammatiche ricadute soprattutto per molti cittadini europei. Decisioni devono essere prese sia sul piano economico che sul piano politico e ci vogliono realizzazioni comuni concrete, affinché tutti i cittadini vedano che l'Europa ha risolto o cerca di risolvere molti dei loro problemi. Le misure concrete verso il rafforzamento della governance economica si articolano in misure a breve, medio e lungo periodo e devono essere accompagnate da ulteriori provvedimenti verso il consolidamento della legittimità e responsabilità democratiche. Nel breve periodo, la priorità cruciale è il completamento dell'unione bancaria. Si tratta di un punto essenziale per assicurare la stabilità finanziaria, ridurne la frammentazione e ripristinare la normale erogazione di prestiti all'economia. Nel medio termine (cioè entro il 2019), la Commissione si propone di: dotare l’Eurozona di una sostanziale capacità fiscale autonoma; rafforzare l’integrazione economica e di bilancio attraverso misure che richiedono una modifica dei Trattati, soprattutto con l’obiettivo di garantire che in determinate situazioni la politica di bilancio nazionale sia soggetta a un controllo collettivo, muovendosi però al contempo verso una maggiore mutualizzazione dei rischi economici e finanziari; creare un fondo di rimborso cui trasferire progressivamente il debito pubblico eccessivo degli Stati membri, vincolando questa possibilità a un rigoroso rispetto della disciplina fiscale; creare uno strumento obbligazionario sovrano a breve termine (con scadenza 12 anni) dell’intera Eurozona, le cui emissioni sostituiscano gradualmente quelle dei titoli a breve scadenza dei diversi Stati membri. Nel lungo termine, cioè dal 2019 bisognerà attuare le misure per un effettivo completamento dell’UEM attraverso la realizzazione di una piena unione economica, fiscale e bancaria. L'Unione europea è portatrice di valori comuni che si ritrovano nelle norme politiche, sociali ed economiche che fondano la nostra economia sociale di mercato. Essa è promotrice dei diritti dei cittadini: protezione dei consumatori e diritto del lavoro, diritti delle donne e rispetto delle minoranze, normativa ambientale e protezione dei dati e della vita privata. 3.2 L'IMMIGRAZIONE Tutti siamo testimoni delle tragedie che da anni si compiono nel Mediterraneo, al largo delle nostre coste. Colpiscono uomini, donne e bambini, in fuga da guerre, povertà e sfruttamento e in cerca di una vita migliore in Europa. Secondo le stime dell’UNHEUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) nel 2014 risultano sbarcate più del doppio delle persone rispetto all’anno prima (nel 2013 erano stati circa 60.000) e sarebbero 1900 i morti nel Mediterraneo in 8 mesi. Cifre che danno il senso di una situazione drammatica di fronte alla quale si è fatta urgente una azione concertata a livello europeo per rafforzare le operazioni di ricerca e di soccorso nel Mediterraneo e finalmente superare l’operazione Mare Nostrum, di grande aiuto e valore ma pur sempre tutta e solo italiana. Triton di Frontex (originariamente chiamata Frontex Plus) è il programma a guida Ue, tramite Frontex l'agenzia europea di controllo delle frontiere, nato con l’obiettivo di tenere controllate le frontiere nel mar Mediterraneo. A partire dal 1º novembre 2014 Triton ha parzialmente sostituito l'Operazione italiana Mare nostrum nel presidio dei flussi di migranti. La nuova Commissione ha fatto della migrazione una delle sue 10 priorità, cito dal documento “orientamenti politici” del Presidente Juncker : “Fornire assistenza a quanti hanno dovuto abbandonare le loro case per cercare una vita migliore in Europa è un dovere umanitario. Dobbiamo collaborare per fare in modo che situazioni come quella di Lampedusa non si verifichino più. Allo stesso tempo, dobbiamo garantire la sicurezza delle frontiere esterne dell'Europa e incoraggiare la migrazione legale di persone con le competenze necessarie all'Europa e in grado di aiutarci ad affrontare meglio le sfide demografiche. Le misure che l'Unione Europea ha preso e intende prendere sono di ampio raggio e trasversali, poiché le radici del problema della migrazione non nascono all'interno del territorio europeo, ma nei Paesi di origine che sono in preda a guerre e in situazioni economiche disperate 4. UN’ALTRA EUROPA? Se accantonassimo il problema della moneta unica e della sua governance, si potrebbe tentare di delineare anche una altra visione pragmatica e non fideistica dell’Europa! Deleghiamo dunque alle Istituzioni europee i compiti in cui l’Unione ha dimostrato, nel corso del lungo processo di integrazione, un evidente vantaggio comparato rispetto ai singoli Stati membri. Al primo posto metterei sicuramente il ruolo dell’Euopa come faro di democrazia e rispetto dei diritti umani (rule of law). Al secondo posto il completamento del mercato unico: l’Europa ha favorito il libero scambio di beni e servizi e la libera circolazione delle persone. Al terzo posto inserirei una politica di difesa comune, che darebbe evidenti vantaggi sia economici che di efficacia dell’intervento e potrebbe essere la base su cui costruire anche una politica estera comune. La ricerca scientifica e l’Università costituiscono certamente un settore di vantaggio della dimensione europea rispetto a quella nazionale. L’obiettivo di questa “altra Europa” di cui abbiamo l’obbligo di parlare non sarebbe più quindi quello di creare un’Unione europea (che sembra piacere sempre meno ai cittadini europei ed ai loro governanti), ma di farli prosperare nella diversità! (Uniti nella diversità è del resto il motto dell’Unione!). 5. CONCLUSIONI Sono convinto che sia ormai giunto il momento in cui la classe dirigente europea debba trovare il coraggio di chiedere a se stessa ed ai propri cittadini: Che Europa vogliamo? E per fare cosa? E inoltre, quando avremo deciso che Europa vogliamo, dovremmo decidere come ci vogliamo arrivare. I vari percorsi hanno costi e benefici diversi ed è giusto che siano i cittadini a scegliere, con cognizione di causa, quale strada preferiscono percorrere. La mia generazione, guidata dai “grandi vecchi padri fondatori”, aveva fatto dell’Europa un ideale oltre che una strada da percorrere. La strada scelta si sta rivelando assai difficile ed è per tali ragioni che ho voluto tratteggiare anche “una altra Europa”. Per quanto mi riguarda, rimango profondamente convinto che dai grandi uomini fondatori del progetto europeo dobbiamo trarre l’insegnamento per costruire il futuro. Nel corso tenuto al Collège de France nell'anno accademico 1944/1945, il grande storico francese Lucien Febvre dà una splendida definizione dell'Europa: "L'Europa è una civiltà che può consolidarsi ed espandersi solo a patto di non prevaricare le altre civiltà; quelle che la compongono e quelle che ha di fronte. Lievito e fermento, non vincolo di egemonia e fonte di dominio”. Intervento dell’Amb. Luigi Mattiolo Direttore Generale DGEU – Ministero Affari Esteri e Cooperazione Internazionale • Ringrazio l’AESI per l’invito a questo importante seminario, il cui tema, l’avvenire dell’Europa, è sempre di attualità. La costruzione europea, infatti, è un cantiere aperto, che attraversa una fase difficile, in cui cause ed effetti si alimentano reciprocamente: soluzioni istituzionali al di sotto delle esigenze; una crisi economica dagli effetti asimmetrici e quindi divisiva; il montare di populismi e risentimenti anti-europei in molti Paesi membri, che assumono in alcuni di essi forza e dimensioni tali da profilare possibili “uscite” dalla moneta comune o dalla stessa Unione. • In tale contesto è spontaneo chiederci se una revisione, anche solo di alcune disposizioni, dei Trattati istitutivi dell’Unione europea possa rappresentare la soluzione per adattare la legislazione e le politiche europee alle nuove sfide. E’ un dibattito che ha preso rinnovato vigore dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo nel maggio 2014, occasione in cui i cittadini hanno espresso a gran voce forti aspettative di cambiamento, che devono trovare risposte adeguate da parte delle Istituzioni dell’Unione così come dagli Stati membri. • Tuttavia, dopo il fallimento della Costituzione europea e la difficoltosa entrata in vigore al suo posto del Trattato di Lisbona l’opinione dominante in Europa è che la stagione della revisione dei Trattati sia, almeno per i prossimi anni, conclusa, perché nessun accordo – si ipotizza - passerebbe il vaglio dei referendum nazionali o dei Parlamenti nazionali in uno o più Paesi membri. • Eppure sono in molti ad essere convinti che per assicurare un futuro prospero all’Europa le riforme siano indispensabili. E non mi riferisco soltanto alle riforme a livello nazionale che alcuni Paesi hanno fatto qualche anno fa e che altri, tra cui l’Italia, stanno portando avanti in questi giorni. Penso anche a riforme della governance europea. • E’ quindi forse il momento di ripensare al tabù associato alla revisione dei Trattati, tenendo anche conto che il Trattato di Lisbona ci offre strumenti nuovi. Prima della sua entrata in vigore esisteva una sola procedura di revisione che prevedeva la convocazione obbligatoria di una Conferenza intergovernativa (CIG). • Il Trattato di Lisbona ha, per un verso modificato la procedura di revisione ordinaria (quella prevista per le modifiche più importanti come l’aumento o la diminuzione delle competenze dell’Unione), di cui è stato rafforzato il carattere democratico con la previsione di un più ampio coinvolgimento del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali. • Per altro verso, il Trattato di Lisbona ha introdotto una procedura semplificata per la revisione di determinate disposizioni, in materia di politiche e azioni interne dell’Unione, dei Trattati, che permette di agire in maniera rapida e più “sotto traccia”, anche se non va dimenticato, che, quale che sia la procedura seguita per l’adozione dei progetti di revisione, essi entrano in vigore solo se approvati da tutti gli Stati membri. • Possiamo in alternativa operare delle riforme sfruttando tutto il potenziale ancora inespresso del Trattato di Lisbona, che ha ridisegnato l’architettura istituzionale dell’Unione definendo precise attribuzioni alle singole Istituzioni UE, riconoscendo un ruolo importante ai Parlamenti nazionali e attribuendo diritto di iniziativa anche ai singoli cittadini. Esso ha conferito maggiore legittimazione democratica alle sue Istituzioni: pensiamo al nuovo metodo di votazione in Consiglio, o al controllo dell’osservanza dei principi di sussidiarietà da parte dei Parlamenti nazionali nell’esame dei progetti normativi dell’UE. • In questa logica si è mossa l’Italia nel corso del semestre di Presidenza del Consiglio appena concluso. Lungo tutto il 2013, ci siamo posti la domanda di come affrontare il tema dell’avvenire dell’Europa nella preparazione del programma di Presidenza. • Molto presto abbiamo deciso – a livello politico – di mettere la riforma dell’Europa al centro del nostro programma, ma con l’esplicita precisazione che si sarebbe trattato di esplorare gli spazi di riforma esistenti “all’interno dei Trattati vigenti”. • E’ stata una scelta che, a mio modesto avviso, ha iniziato a dare risultati e, soprattutto, ha posto le basi per una ripresa del processo di integrazione, lenta e graduale, ma, io credo, saldamente impostata. • Quali sono gli elementi essenziali di questa scelta pragmatica? Sostanzialmente due: allineare il lavoro delle Istituzioni europee attorno a pochi obiettivi condivisi e il cui impatto sia evidente per i cittadini di tutta Europa; e lavorare per migliorare il funzionamento delle Istituzioni, all’interno delle regole esistenti. • Sotto il primo aspetto - la chiara definizione di priorità e contenuti programmatici di azione – vorrei ricordare che, nella delicata fase del rinnovo dei Vertici istituzionali, questo obiettivo ha preceduto l’indicazione dei nomi, secondo un approccio cui ha contribuito l’Italia, ancor prima dell’inizio del semestre di presidenza italiana del Consiglio. • Il Consiglio europeo di giugno 2014, dietro la spinta di alcuni leader tra i quali il Presidente del Consiglio, ha adottato l’Agenda strategica per l’Unione in una fase di cambiamento, che individua le aree prioritarie di azione per l’Unione per i successivi 5 anni: economie più forti con più posti di lavoro; società in grado di responsabilizzare e proteggere; un futuro energetico e climatico sicuro; uno spazio comune di libertà sicurezza e giustizia; un’azione esterna efficace nel mondo. • A luglio, ben prima che fossero designati i nuovi Commissari europei e che l’intero collegio si insediasse il successivo 1 novembre, il Presidente designato della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha presentato al Parlamento europeo i “Dieci Punti” del programma della nuova Commissione, che riprendevano e approfondivano i temi dell’Agenda Strategica. • Sul secondo aspetto, si è posta con maggiore urgenza l’esigenza di migliorare il funzionamento delle istituzioni UE, soprattutto attraverso una più armoniosa ed efficace collaborazione tra Parlamento, Consiglio e Commissione in materia legislativa. • Vorrei ricordare a questo riguardo il Gruppo di lavoro “Amici della Presidenza”, istituito dal Consiglio Affari Generali su proposta della Presidenza di turno italiana, allo scopo di condurre una disamina accurata degli attuali meccanismi di funzionamento delle Istituzioni dell’Unione e individuare margini di miglioramento. Il Gruppo ha presentato un rapporto conclusivo al CAG di dicembre e le proposte da esso scaturite potranno realizzarsi compiutamente sotto la presidenza di turno lettone. • Un primo incoraggiante risultato del maggiore coordinamento inter-istituzionale è stata la decisione del Presidente Juncker e del Primo Vice presidente della Commissione Frans Timmermans di condividere e discutere, non solo con il Parlamento europeo ma anche con il Consiglio, le intenzioni della Commissione europea riguardo al programma di lavoro per il 2015. Una volta entrata a pieno regime anche sotto forma di un accordo inter-istituzionale che dovrebbe essere proposto dalla Commissione, questa nuova prassi sarà un’ulteriore garanzia di rafforzamento di efficacia e legittimità democratica del processo legislativo europeo. • La composizione della nuova Commissione europea e la sua configurazione rappresentano altrettanti segnali nella direzione di conferire maggiore efficacia al funzionamento delle Istituzioni e maggiore legittimità democratica all’Unione, anche attraverso una maggiore “politicizzazione” della Commissione per quanto attiene la sua composizione, considerato il rilevante profilo pubblico della maggior parte dei membri della Commissione Juncker (ex Capi di Governo, ex Vicepremier, ex Ministri). • Innanzitutto, la procedura “informale” - in quanto non codificata nei Trattati - ma non per questo meno efficace che si è seguita lo scorso anno per la nomina del Presidente della Commissione ha dotato di accresciuta legittimità democratica la nuova Commissione europea. Come sappiamo, la designazione di Juncker è • • • • • scaturita dalla vittoria del PPE nelle elezioni del Parlamento europeo e dalla sua indicazione da parte di quel partito quale candidato Presidente, in competizione con i candidati scelti dagli altri principali Gruppi politici. Successivamente, dal punto di vista operativo interno, l’organizzazione della Commissione in project teams attribuisce ai Vicepresidenti un ruolo propulsore e di coordinamento dei singoli portafogli raggruppati per materie omogenee. Al primo Vicepresidente della Commissione sono state attribuite ampie responsabilità di controllo e coordinamento su tutti i settori di attività della Commissione al fine di garantire, fra l’altro, un efficace raccordo tra la Commissione europea e le altre Istituzioni UE e di promuovere una nuova e più efficace partnership con i Parlamenti nazionali. In questo contesto merita di essere evidenziato il ruolo particolarmente rilevante attribuito all’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza/Vicepresidente della Commissione. Si tratta di responsabilità, in linea con il Trattato di Lisbona, in materia di coordinamento dell’insieme degli strumenti dell’azione esterna dell’Unione e quindi non di sola guida della politica estera dell'UE, che tuttavia avevano trovato un’attuazione solo marginale nella precedente Commissione. In tema di trasparenza, è da sottolineare l’impegno del presidente Juncker ad improntare a una maggiore trasparenza il metodo di lavoro della Commissione europea. In base a due decisioni adottate dalla Commissione, dal 1 dicembre scorso i Commissari e i Direttori Generali dei servizi della Commissione sono tenuti a pubblicare su internet i contatti e le riunioni tenute con organizzazioni professionali o singoli individui in materie relative alla definizione e all’attuazione di decisioni da parte dell’Unione europea. Infine, ma non meno importante, per un Europa più integrata e vicina ai cittadini, è il rispetto dello Stato di diritto (rule of law). Anche su questo punto la riflessione, in corso già da qualche tempo, è significativamente avanzata affermando con chiarezza l’importanza che il rispetto degli standard europei in materia di legalità e diritti fondamentali formi oggetto di attenzione sul piano politico non solo quando si discute di Paesi candidati all’adesione all’UE, ma anche per quanto concerne gli sviluppi all’interno degli Stati che sono già membri dell’Unione. Come risultato dell’iniziativa della Presidenza italiana, il Consiglio Affari Generali di dicembre ha adottato conclusioni in base alle quali il Consiglio avvierà un dialogo politico sul rispetto dello stato di diritto all’interno dell’UE da tenersi una volta all’anno nell’ambito dello stesso Consiglio Affari Generali. Il Consiglio potrà decidere di affrontare anche tematiche specifiche relative al rispetto dei valori fondamentali all’interno dell’Unione, sulla base di un approccio inclusivo e non discriminatorio, nel quadro dei Trattati vigenti e tenendo conto di dati ottenuti dagli organismi europei competenti in questa materia. • Questi, in sintesi, gli importanti sviluppi istituzionali degli scorsi mesi, ai quali credo sia corretto dire che molto ha contribuito il lavoro della nostra Presidenza, il cui obiettivo era ripreso nel titolo del nostro Programma di Presidenza: Europa, un nuovo inizio. • Missione compiuta? Personalmente vedo dei primi segnali promettenti, in primo luogo sul fronte della politica economica: la messa la centro del dibattito europeo di crescita e occupazione; il piano di investimenti presentato dalla Commissione Juncker e approvato dal Consiglio europeo di dicembre; la riconsiderazione del concetto di “rigore” nei conti pubblici, anche sulla base di una più ampia interpretazione del concetto di “flessibilità” (che ha formato oggetto di una comunicazione della Commissione); la decisione della BCE di dare avvio al tanto atteso Quantitative Easing, sono tutti indicatori di una tendenza che l’Italia ha sostenuto da tempo. • In parallelo, mi sembra ci siano le premesse perché riparta il processo di approfondimento dell’integrazione economica, in particolare in seno all’UEM, che fino ad oggi si è concentrato, con importanti risultati, sull’Unione bancaria, che possiamo dire si sia compiuta nel corso della Presidenza italiana: il Meccanismo di vigilanza unico delle banche è operativo da novembre e sono stati rimossi gli ultimi ostacoli all'attuazione del Meccanismo di risoluzione unico. • Il tema della riforma dell’UEM è però più ampio dell’Unione Bancaria, ed è fondamentale anche per la competitività di lungo periodo dell’Unione europea. • Attendiamo quindi fiduciosi che sia dato nuovo impulso a questo processo col prossimo Vertice di febbraio, proseguendo nel solco del Rapporto dei quattro presidenti del 2012, che resta per noi la roadmap per l’integrazione, e che prevede le fasi ulteriori verso l’Unione economica, fiscale e quindi politica. • Vedremo, alla luce degli esiti del Vertice, quali pieghe prenderà questo importante cantiere di riforma, che, verosimilmente, richiederà ad un certo punto di riconsiderare il tema su cui ho esordito, ossia quello della riforma dei Trattati. • In ogni caso, e anche se persistono alcune differenze di strategia tra gli Stati membri, mi sembra che oggi ci siano le premesse per continuare a lavorare insieme verso un’Unione più equa, responsabile, efficiente e quindi sostenibile. 17 Febbraio 2015 – VILLA MADAMA – CASALE ore 16.00 MINISTERO AFFARI ESTERI “LA DIPLOMAZIA EUROPEA” Saluti : Ministro Plen. Stefano Baldi – MAE Prof. Massimo Caneva – Presidnete AESI Coordinatore : Amb. Adriano Benedetti - Vice Presidente On. AESI Amb. Laurence Argimon-Pistre – Capo Delegazione Unione Europea presso Santa Sede, Ordine di Mala e le Organizzazioni delle Nazioni Unite Amb. Sandro De Bernardin – Ambasciatore D’Italia Modera: Dott. Alessandro Iachetta - Vice Direttore AESI Introduzione del Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI Si deve tenere presente in primo luogo che esiste, oggi più che mai, il pericolo di un’alleanza tra democrazia e relativismo etico. Desideriamo ancora sottolinearlo con forza come uno dei problemi centrali concernenti il futuro dell’Europa. La persona umana rappresenta, infatti, il fine ultimo della società, la quale è ad essa ordinata e deve rispettarne la dignità e i diritti, diritti che sono anteriori alla società stessa e ad essa si impongono. Essi sono il fondamento della legittimità morale di ogni autorità. Un potere politico che rifiuti di riconoscerli nella propria legislazione positiva mette a repentaglio la propria credibilità. Non viviamo in un mondo irrazionale privo di senso. Al contrario, vi è una logica morale che illumina l’esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli. La violenza sulla dignità umana ed i suoi inviolabili diritti, primo quello della vita, è frutto sempre di una grave mancanza di prospettiva civile. Le scelte della pace e per la pace non sono, come alcuni desiderano oggi erroneamente far credere alla comunità internazionale, “scelte dei deboli e degli irresponsabili”. Scegliere la via della pace è invece espressione di una politica lungimirante capace di grande comprensione della realtà dell’uomo, della sua cultura, delle sue esigenze e dei suoi problemi. L’uomo vive un’esistenza autenticamente umana grazie alla cultura, alle sue radici storiche e religiose. Grazie a questa sua memoria ed identità l’uomo diventa più uomo, accede più intensamente all’essere che gli è proprio. Ma se si promuove una cultura giuridica positivistica per cui si legifera in contraddizione con i diritti inviolabili della persona umana o si inneggia al benessere economico e allo sviluppo tecnologico fini a se stessi senza alcun riferimento alla verità sui fondamenti morali, giuridici e politici dell’agire degli Stati, come si potrà pretendere l’adesione dell’opinione pubblica europea? L’AESI vede chiaramente che le lacerazioni che si stanno sperimentando in Europa oggi sono piuttosto espressione di una più profonda crisi di identità e di valori condivisi. Una crisi di identità che incrementa il numero degli scettici e favorisce i nemici dell’Europa. Magistralmente presentata e diffusa attraverso gli organi di informazione mediatica per avere poi una vasta risonanza nell’agone politico, la nuova strategia è quella di una esasperata “globalizzazione della competitività” dell’uno contro l’altro. Come ci si può stupire allora quando molti cittadini europei, invece di guardare con interesse alla comune casa europea, corrono dietro a nuove forme di rinascente nazionalismo che esacerbano la vita civile creando rancori e divisione in nome di falsi ideali? Si sta diffondendo in Europa una mentalità ispirata dal laicismo, ideologia che porta gradualmente, in modo più o meno consapevole, alla restrizione della libertà religiosa fino a promuovere il disprezzo o l'ignoranza dell'ambito religioso, relegando la fede alla sfera privata e opponendosi alla sua espressione pubblica. Il laicismo non è un elemento di neutralità che apre spazi di libertà a tutti: è un’ideologia che s’impone attraverso la politica e che non concede spazio pubblico alla visione religiosa che corre il rischio di convertirsi in qualcosa di puramente privato. In contrapposizione col laicismo, tutt’altro discorso è la laicità. Essa, infatti, vuol dire per lo Stato porsi in una posizione d’imparzialità, ma non d’indifferenza, nei confronti delle varie confessioni religiose. In uno stato laico, chiunque può abbracciare o meno un credo religioso, avendo poi la libertà di esplicarlo e testimoniarlo in tutti i settori della società stessa, senza nulla imporre. Ne deriva che la laicità è un concetto pacifico; il laicismo è un concetto controverso; la laicità è un principio ispiratore di dialogo; il laicismo è un principio acceleratore di scontro; la laicità genera pluralismo; il laicismo genera un’imposizione di un’idea; in altri termini, la laicità avalla molteplici convinzioni; il laicismo monopolizza la società senza Dio. L’avvenire dell’Europa è la riscoperta della finalità antropologica della politica, la quale acquista autorevolezza solo se e nella misura in cui riscopra che il singolo cittadino non può mai essere trattato come strumento, ma come fine dell’azione politica. Intervento dell’Amb. Adriano Benedetti – Vice Presidente On AESI I lavori del “forum” della scorsa settimana sono stati molto positivi grazie anche ad una partecipazione numerosa, attenta ed attiva degli studenti. La chiara ed esauriente presentazione dell’Ambasciatore Gianfranco Verderame ha offerto il necessario quadro istituzionale e funzionale entro il quale si svolge la politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea, con i suoi limiti indubbi ma anche con le convergenze possibili che hanno dato vita finora a risultati di non trascurabile importanza e che lasciano intravvedere le potenzialità che certamente si dischiudono all’approfondimento dell’integrazione in questo specifico settore. Da parte mia ho cercato di collocare la vigente strumentazione di politica estera europea nel quadro dell’attuale, calamitosa congiuntura internazionale: caratterizzata da pericoli, dislocazioni, sfide che, nel loro interagire e nel loro impatto sull’Europa e gli Stati Uniti, si configurano come momenti inediti e carichi di inquietanti scenari. In effetti la situazione internazionale si presenta con un tasso di fluida conflittualità, segnatamente dall’angolo visuale degli interessi europei, che non trova corrispettivi negli ultimi settant’anni. L’equilibrio e la stessa pace nel continente europeo sono messi in dubbio. Le vicende dell’Ucraina, se da un lato sottendono lontane e recenti responsabilità e insensibilità da parte dell’Europa e degli Stati Uniti, dall’altro evidenziano una avventuristica aggressività della Russia di Putin nei confronti dell’Occidente i cui obbiettivi ultimi non sono facilmente decifrabili. Il Medio Oriente, per altro verso, è in piena disintegrazione. I vecchi assetti imposti alla fine della prima guerra mondiale sono saltati. Corre in tutto l’Islam arabo il vento della disgregazione che si alimenta di una carenza fondamentale di legittimità non meno che degli impulsi di una religione identitaria stravolta nella sua versione fondamentalista. Gli effetti delle primavere arabe, in cui l’Occidente aveva posto tanta speranza, stanno paradossalmente contribuendo in molti paesi ad accrescere il disordine e l’instabilità. L’Europa (e l’Italia in particolare), destinazione di flussi crescenti e cospicui di richiedenti l’asilo, comincia a sentire una pressione ostile immediatamente sulle sue frontiere meridionali. L’Africa sub-sahariana non è certo immune alle spinte dirompenti che provengono dal nord e le relativamente recenti statualità faticano a reggere l’urto di forze eversive interne ed esterne, mentre una vigorosa demografia e le aree non più sotto controllo sono l’origine di consistenti ondate migratorie che alla fine cercano sbocco sul Mediterraneo. L’Asia centrale, dopo la caduta dell’URSS, è teatro di dislocazioni di segno ambiguo, con sullo sfondo due protagonisti territoriali dall’incerto destino, quali l’Afghanistan e il Pakistan. L’area del Pacifico orientale, infine, dove si concentra uno dei poli più dinamici e produttivi dell’economia mondiale, registra segnali inequivocabili di una rivalità crescente, per il dominio regionale ma in prospettiva mondiale, fra Cina e Stati Uniti. Allo scontro fra motivazioni nazionalistiche e geopolitiche si oppongono, peraltro, cointeressenze economiche e finanziarie stringenti che nutrono la speranza che la razionalità permanga il paradigma di un conflitto che è ormai nei fatti. Insomma, uno scenario mondiale dalle tinte fosche che non deve indurci, comunque, allo scoramento: nella consapevolezza che in ogni epoca le nuove generazioni che si affacciavano all’orizzonte della storia hanno conosciuto l’incertezza e lo sconcerto, una analisi il più possibile disincantata della realtà ci deve essere, al contrario, di sprone per un impegno personale che riesca a portare un contributo, per quanto minuscolo, alla creazione di un mondo migliore e più sicuro. Aldilà della ricorrente tentazione “spengleriana” sul futuro dell’Europa, credo che rimanga il monito che si trae dall’insegnamento del grande storico inglese Arnold Toynbee : le civiltà nascono, crescono e si sviluppano e poi decadono solo quando non riescono a trovare una risposta adeguata alle sfide che la storia, nel suo incessante movimento di idee, uomini, interessi e strutture, pone costantemente ad ogni aggregato umano. Di fronte alle legittime domande che, anche nel nostro dibattito odierno, affiorano sulla congruenza delle procedure e dei dispositivi oggi esistenti nell’Unione Europea in materia di politica estera e di sicurezza e sui modi per irrobustirli, mi permetto di sottolineare che la nostra inquietudine rischia di sfiorare soltanto la superficie delle cose se non punta a focalizzare l’attenzione sul contesto più ampio entro cui si situa l’attuale evoluzione della costruzione europea. Tale contesto è, a mio giudizio, contrassegnato dai seguenti aspetti: siamo giunti probabilmente ad un “tornante” della storia. Il predominio incontrastato che nelle varie fasi storiche, attraverso gli strumenti del pensiero, della tecnologia, dell’economia e della capacità militare, ha goduto l’Occidente negli ultimi quattrocento anni, e soprattutto l’Europa, gloria e principio motore dell’Occidente, è ormai giunto al suo limite estremo, dopo aver “globalizzato” il mondo. Ha ormai perso di “forza propulsiva” e deve far fronte all’emergere di nazioni che esso stesso ha sollecitato a crescere e a rafforzarsi. La realtà mondiale sarà sempre più poliforme e l’Europa –non tanto gli Stati Uniti che tuttora vivono sullo slancio della forza e della potenza – in lenta ma inevitabile introversione, dovrà adattarsi a nuovi equilibri meno favorevoli. Per sopravvivere e trovare le risorse per ritagliarsi un nuovo ruolo, ancorché ridimensionato, l’Europa deve ritrovare una propria anima, una rinnovata vocazione. Ma è proprio qui che si palesa la drammatica congiuntura storica: l’encefalogramma spirituale dell’Europa è praticamente piatto. Essa si è consunta negli ultimi decenni fra consumismo ideologico, individualismo e soggettivismo sfrenati, economicismo totalizzanti. Dove potrà rinvenire le energie per una rinascita compatibile con i nuovi assetti? Qui forse si annida, inquietante, il nocciolo del sopra richiamato paradigma di Arnold Toynbee. Intervento dell’Amb. Sandro De Bernardin Le varie definizioni di diplomazia che troviamo su Wikipidia fanno riferimento soprattutto all’arte di trattare affari di politica internazionale per conto dello Stato, all’insieme dei procedimenti attraverso i quali uno Stato mantiene le normali relazioni con altri soggetti di diritto internazionale, e al complesso di persone e uffici di cui o Stato si serve per svolgere tale attività. Le definizioni tendono cioè a soffermarsi sulle PROCEDURE (ovvero sull’operare secondo le regole del diritto internazionale) e sugli STRUMENTI (ovvero sul ruolo dei funzionari/burocrati) della diplomazia, piuttosto che sull’elemento che a me sembra – invece – il principale, ovvero gli OBIETTIVI da conseguire. Ne consegue che i fallimenti di una diplomazia sono troppo spesso imputati all’inadeguatezza delle procedure o all’insipienza dei burocrati, piuttosto che all’incapacità della politica di definire obiettivi chiari e lungimiranti. Se accettiamo di considerare le cose da quest’angolo visuale, l’azione diplomatica è dunque qualificata e condizionata in primo luogo dalla capacità della politica di fornirle adeguati indirizzi. Ciò vale anche per la diplomazia europea, con l’aggravante che l’azione diplomatica europea è definita dal denominatore comune tra le visioni e gli interessi di ventotto Stati membri. Allo stato, questo denominatore comune è piuttosto basso, e di conseguenza gli obiettivi comuni europei risultano relativamente modesti, se non confusi. A questo riguardo, vale la pena di soffermarsi sul linguaggio con cui l’art. 24.2 del Trattato sull’Unione Europea definisce il livello d’ambizione della PESC: “l’Unione conduce, stabilisce e attua una politica estera e di sicurezza comune fondata sullo sviluppo della reciproca solidarietà politica degli Stati membri, sull’individuazione delle questioni di interesse generale e sulla realizzazione di un livello sempre maggiore di convergenza delle azioni degli Stati membri”. La parte operativa (la realizzazione) è qualificata dall’ultimo membro di frase (convergenza delle azioni degli Stati membri). Da esso si desume che, allo stato, la politica estera europea deve essere intesa come il “fascio” delle azioni di politica estera degli Stati membri: un “fascio” (il più possibile coordinato) di azioni (da rendere il più possibile convergenti) che restano in capo alla responsabilità dei governi nazionali e, dunque, alla dimensione intergovernativa. Una dimensione per il cui superamento le condizioni non esistevano a Lisbona nel 2007. né appaiono sussistere oggi. Nella consapevolezza che il comun denominatore dei punti di vista dei Ventotto membri rischia di risultare non sufficientemente significativo, fu istituita la posizione dell’Alto Rappresentante. L’aspettativa di molti era che quest’ultimo non si limitasse ad interpretare la linea comune e ad assicurarne l’armonizzazione con il lavoro della Commissione, ma anche stimolasse un innalzamento della barra delle ambizioni della politica estera europea. Un compito, quest’ultimo, che esige una particolare abilità dell’Alto Rappresentante non solo nell’individuare gli interessi generali dell’Unione, ma anche nel far convergere sulla sua “linea ambiziosa” il grosso della membership. Nonostante tutte le difficoltà e le inadeguatezze (di cui è epitome la paralisi dell’Europa di fronte alla crisi libica), s’impone la constatazione che la politica estera comune esiste, allarga sempre più il suo ambito e rafforza sempre più i suoi strumenti. E’ evidente e radicata in tutti i membri dell’Unione (anche i più recenti) l’aspirazione a raggiungere un punto di “convergenza europea” anche laddove si parta da sensibilità e posizioni nazionali diversissime. E, quando questa convergenza non si realizza, ciascuno risente il fallimento come un vulnus all’interesse comune (e quindi anche proprio), un vulnus che si cerca di circoscrivere subito e di rimediare quanto prima. Insomma, tutti gli Stati membri hanno seriamente a cuore la PESC, vuoi per la convinzione che l’Unione non possa prescindere da una robusta dimensione di politica esterna, vuoi per l’interesse ad avvalersi dell’Unione quale “moltiplicatore di potenza”, vuoi per la convenienza a giustificare con la posizione europea scelte di politica estera ostiche alla propria opinione pubblica. E’ poi evidente come, anche nell’attuale situazione, la PESC assicuri un valore aggiunto quale piattaforma di costante confronto e coordinamento delle diverse posizioni nazionali, e quale premessa per il coinvolgimento di tutta l’Unione – tramite l’Alto Rappresentante – in dinamiche (basti pensare al negoziato sul nucleare iraniano) che altrimenti sarebbero rimaste appannaggio delle super-potenze. Le sanzioni economiche sono lo strumento cui l’Unione fa, di preferenza, ricorso in reazione alle crisi più gravi, dai Balcani all’Iran, dalla Siria alla Russia. Esse cavano d’impaccio i governi europei, dai quali le opinioni pubbliche attendono reazioni energiche, ma che non possono permettersi di contemplare interventi militari. E ormai si fa ricorso ad esse “in automatico”, con riflesso quasi pavloviano. Gli Stati Maggiori sono stati criticati perché tendono a prepararsi a combattere guerre uguali all’ultima, ma questa critica potrebbe essere rivolta anche alla diplomazia dei fori multilaterali. Con tempi di reazione necessariamente stretti e con l’esigenza di trovare consenso tra un numero crescente d’interlocutori, la cosa meno complicata risulta rifarsi ai precedenti. Così, per fronteggiare la crisi in atto si rispolvera la ricetta usata per la crisi trascorsa, che a sua volta era mutuata dalla precedente. Certo, la gamma delle possibili opzioni non è amplissima e c’è l’assillo politico di “fare presto qualche cosa”. Ma ben più approfondita dovrebbe essere la riflessione preliminare: sulla corrispondenza tra la situazione in esame e i precedenti cui ci vuole rifare, sugli effetti a medio e lungo termine di certe decisioni, e sulla loro incidenza sulla popolazione civile piuttosto che sul regime reprobo. L’aforisma napoleonico secondo cui l’argent fait la guerre può ben essere richiamato per sottolineare che l’argent fait la PESC. Il bilancio della PESC si articola in cinque grandi voci: operazioni di gestione delle crisi (che nel 2013 hanno assorbito quasi l’80%), sostegno a disarmo e non-proliferazione (quasi 5%), interventi d’emergenza (quasi 9%), attività preparatorie e di chiusura (2%), attività dei Rappresentanti Speciali dell’Unione (5%). Ma esso costituisce solo una piccola percentuale – attualmente circa il 4% - della somma globalmente stanziata per le attività esterne dell’Unione, le cui poste più consistenti riguardano la Politica di Vicinato, lo Strumento di Cooperazione allo Sviluppo e l’Aiuto Umanitario (nel 2013 il finanziamento PESC è stato di 396 Meuro su un totale di 9.600, nel 2014 è di 314,5 su 8.500). Le prospettive finanziarie 2014-2020 contemplano un trend di, sia pure modesto, aumento in termini reali delle risorse per la PESC, che alla fine del settennio dovrebbero raggiungere i 354,5 Meuro. Cruciale resta, evidentemente, che la politica estera europea possa contare sull’uso sinergico e tempestivo degli strumenti finanziari gestiti dalla Commissione. La decisione di Federica Mogherini di trasferire l’Ufficio dell’Alto Rappresentante dal Justus Lipsius a Berlaymont lasciano ben sperare circa la determinazione con cui ella intende esercitare il coordinamento a questo riguardo. Accenno appena alla questione, pur rilevante, del “controllo democratico” della diplomazia europea. E’ chiaro che – dato il carattere intergovernativo della politica estera comune – nel contesto europeo non si possono applicare tali e quali i meccanismi che assicurano il controllo parlamentare sulla politica estera dei governi nazionali. Comunque, il controllo finanziario del parlamento Europeo sulla PESC costituisce già un importante leverage. Concludendo: che cosa si può fare per assicurare un’azione diplomatica europea più adeguata a fronteggiare le sfide del presente ? In primo luogo – direi – l’Unione Europea deve recuperare la sua ambizione d’integrazione (la politica estera comune non può essere la premessa, ma soltanto la conseguenza dell’integrazione politica) e un suo “pensiero forte”, anche a costo di finire per articolarsi in centri concentrici caratterizzati da diversi gradi di coesione. Secondo: le élites politiche europee devono procedere rapidamente ad un adeguamento culturale, che consenta loro di “leggere” e comprendere meglio la natura e la portata delle nuove sfide (penso con preoccupazione, ad esempio, alla troppo approssimativa conoscenza che gli europei in genere hanno dell’Islam). Terzo: è necessario che l’Alto Rappresentante “voli alto”. Ciò dipenderà molto dalla buona volontà dei governi dei Ventotto, ma anche dal grado di prestigio che la sua persona riuscirà a conquistarsi sul campo con iniziative avvedute e lungimiranti. Intervento del Dott. Alessandro Iachetta - Vice Direttore AESI Nel trattare la tematica odierna ho intenzione di porre qualche spunto di riflessione in ordine generale dal punto di vista politico ed economico. Dopo una accurata descrizione sui meccanismi europei in tema di diplomazia ed analizzate le modifiche introdotte dal trattato di Lisbona, ci poniamo degli interrogativi sull’efficacia e sull’impatto che queste riforme hanno portato nel contesto internazionale. Obiettivo dell’Unione Europea è sempre stato quello di includere gli stati in un mondo in cui le loro dimensioni e livelli di potenza sono diventati troppo ridotti per consentire loro di essere degli attori effettivi nel palcoscenico internazionale. Nonostante questo si può constatare come nonostante i grandi numeri della diplomazia europea, questa non riesca a prescindere dalle istituzioni statali nell’esercitare la sua azione nel campo della politica estera. Questo fenomeno è evidenziato ancora di più dalle recenti crisi in Ucraina ed in Libia, dove l’Unione Europea ha affidato il compito di essere rappresentata da esponenti di singoli stati in base ai loro rapporti diplomatici. Questa soluzione seppur politicamente utile e diretta, evidenzia come le stesse istituzioni europee non riescano ad intervenire prontamente in uno scenario di crisi, affidandosi all’operato dei paesi leader in Europa. Sembra peculiare constatare come per anni l’Unione Europea sia stata l’obiettivo delle singole politiche estere degli Stati fino alla sua realizzazione, mentre adesso questa necessiti dell’autorevolezza delle diplomazie statali per dar voce e credibilità ai suoi interessi. Altro punto interessante che mi preme sottolineare è lo stato della “diplomazia economica” europea che si pone l’obiettivo di difendere gli interessi economici comuni sul mercato globale. Principalmente quindi si parla delle politiche di vicinato che nonostante gli ingenti fondi devoluti in circa 20 anni, sono riuscite solo parzialmente nel loro intento ovvero “favorire l’esistenza di un cerchio di paesi ben governati ad Est dell’UE e lungo il Mediterraneo con cui intrattenere rapporti stretti e cooperativi” (Cit. Obiettivo Strategico 2003). La programmazione più recente di politica di vicinato, segnata dalla primavera araba, delinea gli orientamenti da tenere nel periodo 2014-2020. In questa vi sono state apportate rilevanti modifiche alla programmazione precedente: oltre ad una semplificazione amministrativa e a uno snellimento del percorso programmatorio, invocate peraltro anche per la Politica di Coesione che regolamenta i Fondi Strutturali, l’aspetto più importante è dato dall’introduzione del principio more for more. Ciò significa che il sostegno comunitario sarà condizionato agli effettivi progressi compiuti dai paesi vicini nell’istituire e consolidare la democrazia nonché nel rispetto dello Stato di Diritto. Fortunatamente, non si definisce un modello democratico di riferimento ma si richiamano alcuni indicatori di contesto: elezioni libere ed eque; libertà di associazione, di espressione, di riunione e di stampa; indipendenza della magistratura e diritto al giusto processo; lotta alla corruzione e riforma del settore della sicurezza e democratizzazione delle forze armate e di polizia. Nonostante gli sforzi sembra tuttavia che i recenti fenomeni di instabilità presenti nelle aree previste dalla politica di vicinato minino de facto il successo dell’operazione politica europea. In conclusione, le istituzioni europee avranno sempre in parte bisogno dell’autorevolezza degli Stati membri, ma questi non devono cadere in tentazione di dettare la linea politica da seguire nella diramazione delle controversie internazionali. L’Unione Europea deve avere il coraggio di fare un passo in avanti e rivestire quel ruolo che sia i padri fondatori, che i trattati istitutivi e soprattutto gli altri stati della Comunità Internazionale vedono in lei, ovvero quello di prima protagonista nel contesto internazionale. FORUM AESI RAPPRESENTANZA DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN ITALIA SALA NATALI 10 Febbraio 2015 Intervento dell’Amb. Giovan Battista Verderame – Comitato Scientifico AESI LA DIPLOMAZIA EUROPEA Parlare di diplomazia europea significa parlare di politica estera europea. La diplomazia è lo strumento attraverso il quale si esplica la politica estera di un Paese, ed è evidente che in tanto esiste la diplomazia in quanto esiste una entità che intrattiene rapporti con altre entità all’interno di un universo di relazioni. Ma parlare di politica estera non è come parlare di una qualunque altra politica interna. Le politiche settoriali hanno ciascuna un campo definito all’interno del quale si esplicano: la politica agricola si occupa dello sviluppo dell’agricoltura, quella industriale dello sviluppo del sistema produttivo, quella della ricerca dello sviluppo dello sviluppo della ricerca e così via. Non è così per la politica estera, che è il risultato della collocazione complessiva di un Paese sulla scena internazionale. E quest’ultima è a sua volta il risultato della somma di tutti i fattori interni, di ordine economico, sociale, culturale, che concorrono a definire la sostanza stessa di un Paese ed a delimitarne il perimetro degli interessi. Ecco perché la politica estera è intimamente ed inestricabilmente legata al concetto di sovranità nazionale, ed è difficile concepirla al di fuori di questo ambito. Se trasportiamo queste categorie sul piano europeo, ci accorgiamo subito che ci sono delle importanti differenze. L’Unione Europea non è uno Stato in senso classico. Dopo il Trattato di Lisbona essa ha una propria personalità giuridica anche sul piano internazionale, ma non ha una propria autonoma sovranità. La sua “sovranità” le deriva dalle quote di sovranità nazionale che gli Stati membri hanno deciso di mettere in comune e di esercitare attraverso un complesso di Istituzioni create allo scopo. Ci sono settori in cui questo trasferimento di sovranità è andato molto avanti, come per esempio quelli “comunitari” in senso classico e da ultimo quello dell’Unione Economica e Monetaria, dove gli Stati hanno rinunciato ad esercitare singolarmente la sovranità monetaria, attribuendola ad un Organismo centrale, la Banca Centrale Europea appunto, del tutto autonoma rispetto agli Stati che l’hanno creata. Ce ne sono altri in cui questo processo è ancora molto embrionale, e sono soprattutto quello della Politica Estera e quello della Difesa. Ripercorrere tutto il processo che ha portato alla attuale configurazione della Politica Estera europea sarebbe troppo lungo. Basti ricordare che l’originario meccanismo esclusivamente intergovernativo della Cooperazione Politica Europea degli anni 70/80 , attraverso le tappe dell’Atto Unico e dei Trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza, si è andata trasformando nell’attuale struttura del Trattato di Lisbona nella quale si riflette quella che può essere definita una sorta di “contaminazione” tra il metodo puramente intergovernativo, e quello sovranazionale che è proprio dell’ambito comunitario propriamente detto. Intendiamoci, la struttura resta sostanzialmente intergovernativa: al suo culmine, il Consiglio Europeo – e cioè i rappresentanti al massimo livello degli Stati membri – individua gli interessi strategici dell’Unione e fissa gli obiettivi e gli orientamenti generali, mentre il processo decisionale continua ad essere retto dall’unanimità. E tuttavia, l’evoluzione strutturale della PESC dimostra che tra metodo sovranazionale e metodo intergovernativo vi è stato un processo di contaminazione, con l’intergovernativo che è andato progressivamente, anche se ancora molto parzialmente, assumendo taluni caratteri propri del metodo sovranazionale. Le tappe principali di questo processo sono consistite sostanzialmente: - nel progressivo irrobustimento degli strumenti comuni: dalle “dichiarazioni” che costituivano la principale attività della CPE si è passati alle ben più impegnative e complesse “azioni comuni” condotte con risorse sia civili che militari: ed è questa una delle caratteristiche che rendono le azioni condotte in ambito PESC particolarmente adatte ad affrontare una ampia serie di situazioni, dal peace keeping al peace enforcing fino all’institutional building. Oggi la azioni in corso dell’Unione sono 16, divise nei principali scacchieri di crisi; - nel rafforzamento dell’Alto Rappresentante come figura dotata di autonoma capacità di influenza sia nella fase preparatoria, con la possibilità di presentare proposte al Consiglio Europeo e con l’esercizio della presidenza dei gruppi tecnici del Consiglio attraverso il SEAE e, personalmente, del Consiglio Affari Esteri, sia nella fase deliberativa, dove sulle sue proposte, quando formulate su richiesta del Consiglio Europeo, il Consiglio decide a maggioranza. Si tratta di una significativa eccezione al principio dell’unanimità nelle deliberazioni del Consiglio che conferisce all’Alto Rappresentante un importante potere di indirizzo e di influenza sul Consiglio stesso - nel temperamento della regola dell’unanimità (il Consiglio decide a maggioranza qualificata quando agisce all’interno delle priorità definite dal Consiglio Europeo e quando adotta decisioni di attuazioni di azioni già definite) e l’introduzione di meccanismi di flessibilità quali le “cooperazioni rafforzate” o la possibilità di affidare ad un solo Stato una determinata azione di politica estera o, infine, le “cooperazioni strutturate permanenti” tra Paesi che desiderano assumersi impegni più stringenti nel settore della difesa; - nella “comunitarizzazione” del bilancio, con i poteri che da ciò sono conseguiti anche in questo settore per il Parlamento Europeo, - nel raccordo più organico con il controllo democratico del Parlamento Europeo attraverso procedure di informazione che il Parlamento stesso ha tutto l’interesse, e l’intenzione, di rendere per quanto possibile stringenti: ed è stato questo uno degli aspetti più qualificanti sui quali l’Alto Rappresentante Federica Mogherini ha dovuto, nel corso delle audizioni, rassicurare il Parlamento; - nell’affermazione del principio della coerenza fra i vari ambiti in cui si manifesta l’azione esterna dell’Unione e nella sua realizzazione attraverso lo stretto collegamento tra l’Alto Rappresentante e la Commissione. Collegamento che, è bene ricordarlo, rende anche l’Alto Rappresentante soggetto responsabile dinanzi al Parlamento Europeo attraverso la fiducia individuale e collettiva che l’Assemblea esprime nei confronti delle Commissione e dei suoi componenti. Da questo punto di vista, sembra potersi dire che si è assistito anche nel settore della politica estera e di sicurezza comune ad un processo di “istituzionalizzazione”, pur se adattato alle specificità del settore al quale si applica, ed ancora molto parziale ed imperfetto. Si mettono spesso in evidenza le difficoltà dell’Unione di esprimere linee condivise di politica estera e di esercitare un ruolo di primo piano di fronte alla ricorrenti crisi internazionali. Senza voler risalire troppo in là nel tempo, episodi recenti come le divisioni europee sulla Libia o le esitazioni su come affrontare la crisi ucraina anche e soprattutto nei cruciali rapporti con la Russia e, da ultimo l’avanzata integralista in Medio Oriente, sono portati a testimonianza del fatto che i Paesi dell’Unione sarebbero sopratutto interessati a difendere e far prevalere i propri (percepiti) interessi nazionali piuttosto che contribuire a far emergere e realizzare l’interesse comune europeo. Ed anche nel settore della difesa si è dovuto attendere sino al Consiglio Europeo dello scorso dicembre per avviare il discorso sugli obbiettivi in fondo meno potenzialmente “controversial” di come superare la frammentazione dei mercati, accrescere la interoperabilità delle forze e rafforzare l’industria europea della difesa. Non che la messa in comune della sovranità degli altri settori sia stata facile: tutta l’esperienza comunitaria dimostra quanto il “demone” degli interessi nazionali si possa nascondere nelle pieghe anche di politiche apparentemente “tecniche”. Ed anche quando il trasferimento di sovranità ha riguardato uno degli elementi costitutivi della sovranità nazionale (la moneta), le politiche economiche e fiscali sono state trattenute nella sfera delle competenze nazionali. E quando i limiti di questa costruzione sono diventati evidenti a partire dalla crisi finanziaria del 2008, ed il coordinamento fra le politiche economiche è stato reso più stringente con l’attribuzione alla Commissione di strumenti più incisivi per vegliare sulla sua effettiva realizzazione da parte degli Stati, è diventato al tempo stesso più “pervasivo” il ruolo del Consiglio Europeo come supremo organo politico di indirizzo, in un rapporto spesso difficile con la Commissione, spesso chiamata a “mettere in musica” quello che il Consiglio Europeo le chiede di fare. L’approccio funzionalista classico al quale si erano ispirati, almeno in una prima fase, i “Padri Fondatori”, che preconizzava una sorta di quasi automatismo nel superamento della sovranità nazionale a partire da piccole e progressive cessioni di sovranità ad istituzioni comuni, non si è realizzato completamente. Si è invece andata consolidando una struttura complessa, nella quale le due componenti del processo di integrazione – quella nazionale che si esprime soprattutto nel Consiglio Europeo, e quella sopranazionale incarnata dal Parlamento Europeo e dalla Commissione – danno vita ad una sorta di “processo decisionale collettivo” nel quale la capacità di produrre risultati più o meno aderenti all’interesse collettivo dipende dall’equilibrio che le due componenti riescono ad esprimere. E ciò che vale per il comunitario in senso stretto vale, a maggior ragione, per la politica estera che, come abbiamo visto precedentemente, è uno dei settori della vita degli Stati maggiormente e più intimamente legato al concetto di sovranità nazionale e nella quale il peso del fattore “emotivo” è molto forte e la considerazione dell’interesse di lungo periodo, che dovrebbe spingere verso l’unione, spesso cede il passo a visioni di orizzonte più limitato. Tuttavia il cammino che è stato fatto dagli esordi della CPE ha prodotto risultati di straordinaria importanza. L’Unione, come abbiamo visto, esprime un numero significativo di operazioni all’estero, sia civili che militari condotte nell’ambito della PESC/PESD; è parte dei principali fori di concertazione internazionale; svolge un ruolo molto profilato nel settore della difesa e della promozione dei diritti umani; ha recuperato un ruolo significativo nei Balcani; è il principale donatore mondiale di aiuti allo sviluppo e continua a rappresentare un punto di riferimento per molti Paesi ( e le vicende ucraine ne sono la testimonianza più recente). Con il Trattato di Lisbona, la coerenza orizzontale tra le varie articolazioni che contribuiscono alla proiezione esterna dell’Unione Europea è certamente migliorata, così come sono aumentati i punti di contatto tra l’intergovernativo ed il sovranazionale anche nella PESC. La coerenza verticale, cioè quella nei rapporti fra l’Unione e gli Stati membri, è tutt’altra cosa: e l’armamentario istituzionale può amplificare la volontà politica, ma non supplire alla sua mancanza. Il continuo adeguamento del quadro istituzionale e procedurale ha offerto ed offre ampi margini di ulteriore crescita: spetta ai responsabili delle nuove strutture ( ed in particolare all’Alto Rappresentante ed al Presidente del Consiglio Europeo) saperli cogliere ed esplicare la visione e l’autorevolezza necessarie per svolgere l’azione di stimolo che nel quadro più propriamente comunitario hanno esercitato la Commissione e il Parlamento Europeo. La possibilità per l’Alto Rappresentante di esercitare pienamente il significativo ruolo che gli attribuiscono i Trattati chiama in causa, da una parte, la sua capacità di instaurare un rapporto di sufficiente autonomia rispetto alle istanze intergovernative della PESC, e soprattutto il Consiglio europeo, e dall’altra la sua collocazione sostanziale (non solo, quindi, istituzionale) all’interno della Commissione per il concreto esercizio della funzione di coordinamento di tutti gli aspetti dell’azione dell’Esecutivo comunitario che hanno rilevanza esterna. Certo, l’Alto Rappresentante non potrà assorbire le competenze esterne attualmente esercitate tra vari Commissari ( non fosse altro perché ciò renderebbe impossibile il compito del Presidente della Commissione di distribuire i portafogli tra i – troppo – numerosi membri del Collegio), né potrà pretendere di farsi assegnare le loro risorse finanziarie. Basti considerare, a questo proposito, che il bilancio della PESC rappresenta solo il 4% circa della somma globalmente stanziata per le attività esterne dell’Unione, tra le quali la Politica di Vicinato, la Cooperazione allo sviluppo e l’Aiuto umanitario. Ma proprio per questo, senza la possibilità di esercitare un vero coordinamento dell’azione degli altri Commissari in materie comunque attinenti alla proiezione esterna dell’Unione ( e spesso, come nel caso della Politica di vicinato, parte integrante di tale proiezione, sì che ci sarebbe da chiedersi se l’attribuzione di questa competenza ad un altro membro della Commissione abbia veramente un senso e se sia saggio accorparla a quella per l’allargamento, quasi a rafforzare la percezione – che tanto negativamente ha giocato nella crisi ucraina - che l’una costituisca l’anticamera dell’altra ), la funzione dell’Alto Rappresentante rischierebbe di ridursi a quella di una figura priva di contenuto concreto, e la sua autorevolezza nei confronti del Consiglio ne risulterebbe compromessa. Il nuovo Presidente della Commissione Junker ha introdotto nei metodi di lavoro del Collegio dei Commissari lo strumento dei gruppi di lavoro presieduti e coordinati da un Vice Presidente. Quello coordinato dall’Alto Rappresentante è composto dai Commissari al commercio, all’energia, all’aiuto umanitario , all’allargamento e alla politica di vicinato, alla cooperazione internazione allo sviluppo, alle migrazioni ed agli affari interni ed ai trasporti. Lo strumento, quindi, c’è: ed è anche sulla sua capacità di avvalersene concretamente che si misureranno le qualità del nuovo Alto Rappresentante. Papers Studenti AESI : Paper del Dott. Michele Costantini COSTRUZIONE DI UNA POLITICA ESTERA COMUNE Il Trattato di Lisbona ha introdotto elementi salienti nell’attuale configurazione istituzionale dell’Unione Europea per quanto concerne la sua azione esterna. Nel 2007 a Lisbona si sono infatti volute attuare alcune delle riforme incardinate nel Trattato per l’adozione di una Costituzione per l’Europa respinto, come si sa, in fase referendaria. La creazione della figura dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune è infatti indice della volontà di dare maggiore coerenza all’azione esterna dell’Unione di quanto fosse possibile con la precedente configurazione istituzionale, che divideva le funzioni di politica estera tra un Alto Rappresentante per la PESC, un Commissario per le relazioni Esterne ed il Presidente del Consiglio affari esteri. Bisogna per completezza notare che la significativa unificazione di tali funzioni nella figura dell’Alto Rappresentante nei ruoli di Guida della PESC/PSDC, Presidente del Consiglio in formazione “affari esteri” e Vicepresidente della Commissione (articoli 17 – 18 Tue), non esaurisce la funzione di rappresentanza della politica estera europea. Il bilanciamento tra gli organi dell’Unione distingue tra la funzione di rappresentanza a livello ministeriale dell’Alto Rappresentante e la funzione del Presidente del Consiglio, che rappresenta la PESC/PSDC a livello di Capi di Stato e di Governo (ex articolo 15 Tue). La seconda “novità” di Lisbona è l’istituzione del Servizio Europeo per l’Azione Esterna quale organo operativo della Politica estera europea, al cui capo vi è lo stesso Alto Rappresentante. Non mi soffermerò sulle problematiche inerenti l’azione del SEAE, la sua composizione e il suo coordinamento con l’azione esterna della Commissione, cui si interesserà la collega nel successivo intervento, ma porrò l’accento su due macro-questioni. In primo luogo il ruolo dell’UE come “potenza civile”. Nel quadro dello sconvolgimento del sistema internazionale cui stiamo assistendo con maggiore chiarezza nell’ultimo decennio vale a mio avviso la pena considerare quale collocazione voglia, o meglio, debba necessariamente ricercare l’Unione per garantire la sua stessa sopravvivenza. L’emergere di nuovi attori sulla scena globale a cui è strettamente connessa la nuova centralità assunta dall’area dell’Asia-Pacifico nelle relazioni internazionali e il conseguente ruolo che gli Stati Uniti vanno assumendo nella politica mondiale, impongono delle riflessioni. Innanzitutto in merito alla natura dell’unità europea: collocandosi la sua nascita nell’immediata fine della guerra fredda, vi è chi sospetta che essa si sia formata traendo vantaggio da quel “bene pubblico della sicurezza” fornito dalla superpotenza statunitense che ha fatto da cornice anche nei decenni precedenti a tutto il percorso di sedimentazione delle istituzioni europee sul cammino verso l’unificazione economico-politica. Tale considerazione apre così al tema del prossimo seminario: i rapporti tra UE e NATO, segnatamente, i rapporti che l’Unione ha con l’alleato d’oltreoceano. L’articolo 42, comma 2, del Tue, così come le dichiarazioni 13 e 14 ai margini del Trattato di Lisbona, evidenzia una realtà non trascurabile: il consolidamento di una politica di Sicurezza e Difesa europea non avrebbe potuto inficiare i precedenti impegni presi dagli Stati membri in ambito NATO. Ciò induce a riflettere circa la forma che l’UE deve dare alla sua collaborazione con gli Stati Uniti (intendendo con ciò anche le responsabilità che essa dovrebbe assumersi nel quadro dell’Alleanza ai fini di una migliore rappresentatività a livello globale). Tale questione non deve mettere in ombra il cuore dell’azione esterna dell’UE, che ispira la European Neighborhood Policy e gli straordinari sforzi che l’UE compie nell’ambito della cooperazione internazionale: la capacità attrattiva basata sul rule-of-law e il rispetto -e l’esistenza stessa- dei diritti umani in ogni ambito del vivere sociale e politico. In secondo luogo, a mio avviso, deve essere affrontato il tema dell’armonizzazione degli interessi nazionali. Essi, lungi da costituire un elemento negativo, sono una realtà alla base dell’esistenza di ogni comunità politica. Nodo imprescindibile è dunque l’esigenza di contemperare tali interessi al fine di dare coesione alla politica estera europea. Le recenti crisi in Nord Africa e nel Medio Oriente, nonché il conflitto ucraino oggi in corso, hanno dimostrato tutte le difficoltà di azione dell’Unione in ambito internazionale. La crisi libica del 2011, ad iniziare dalle modalità di intervento franco-britannico, e la successiva crisi siriana, sono state occasioni perse in cui potere dare vita a una politica coesa, nel primo caso e, nel secondo, fare sentire la voce europea nei negoziati internazionali in corso. In conclusione e riassumendo, pongo l’accento su due scogli nel processo di costruzione di una politica estera comune: il rapporto con l’alleato americano e il rapporto tra gli Stati membri nei loro contrastanti interessi. Paper della Dott.ssa Ludovica Fabbri IL SERVIZIO EUROPEO PER L'AZIONE ESTERNA Il Servizio Europeo per l'Azione Esterna rappresenta senza dubbio una via mai tentata prima nel campo della diplomazia internazionale. È, infatti, il primo servizio diplomatico appartenente a un attore che non sia uno Stato. Sin dalla sua creazione attraverso il Trattato di Lisbona, il Servizio Europeo per l'Azione Esterna ha raggiunto un numero di delegazioni pari a 140 in 163 nazioni e, ancor più importante, in 70 di queste 163, sono presenti meno di 20 rappresentanze diplomatiche dei singoli stati membri dell'UE. Questo è indice del fatto che il Servizio Europeo per l'Azione Esterna stia riuscendo nel suo obiettivo primario di creare una sinergia e di rafforzare il senso di appartenenza a una comune rappresentanza europea da parte delle Ambasciate nazionali, tuttavia non rimpiazzando queste ultime. Ciò nonostante, è evidente che il Servizio Europeo per l'Azione Esterna è costretto entro marcati limiti. Alcuni di questi limiti sono riscontrabili a livello istituzionale nel controllo esercitato dagli stati membri sul Servizio e nella parziale dipendenza di quest'ultimo dalla Commissione. In questo senso, è emblematico il caso dell'Association Agreement con la Moldavia. Infatti, nonostante il Servizio Europeo per l'Azione Esterna sia stato incaricato dal Consiglio di portare avanti le negoziazioni, queste ultime sono comunque soggette ad un controllo ex ante ed ex post da parte del Consiglio stesso. Ex ante poiché il Sevizio deve seguire le direttive adottate dal Consiglio riguardo le negoziazioni, ed ex post in quanto durante le negoziazioni il Servizio deve consultare un Comitato speciale formato dagli stati membri. Inoltre, nel caso dell'Association Agreement con la Moldavia le direttive del Consiglio utilizzavano l'Agreement con l'Ucraina -stipulato senza la partecipazione del Servizio Europeo per l'Azione Esterna- come precedente, e assegnavano alla DG Trade della Commissione le negoziazioni riguardanti la Free Trade Area. In sostanza, il Servizio Europeo per l’Azione Esterna ha agito in maniera tutt’altro che indipendente. I casi di Libia e Ucraina sono invece una chiave per comprendere i limiti più pratici della diplomazia europea. Il caso della Libia ha portato in luce una grave lentezza di reazione da parte dell'UE, nonché un'evidente mancanza di coesione tra gli stati membri. Il caso dell'Ucraina, nonostante la comune decisione riguardante le sanzioni contro la Russia, ha mostrato ancora una volta non solo la divergenza di opinioni tra gli stati membri (specialmente riguardo la fornitura energetica da parte della Russia e i modi e i tempi in cui applicare le sanzioni), ma anche come la diplomazia comune europea non riesca ancora a condurre individualmente la risoluzione delle crisi internazionali, rimanendo piuttosto in secondo piano rispetto agli sforzi diplomatici dei singoli stati membri. Alla luce degli aspetti positivi e negativi della diplomazia europea, vorrei sollevare l’attenzione su una domanda che personalmente trovo molto stimolante e che riguarda la natura della diplomazia europea oggi: il Servizio Europeo per l'Azione Esterna costituisce un nuovo modello di diplomazia, che di conseguenza assolve il suo ruolo in maniera molto diversa da quella degli stati-nazione, o si tratta piuttosto di una diplomazia incompleta? 10 Marzo 2015 – CASD PALAZZO SALVIATI ore 15.00 MINISTERO DELLA DIFESA “UNIONE EUROPEA E NATO PER LA SICUREZZA IN EUROPA, NEL MEDITERRANEO ED IN MEDIO ORIENTE” Saluti: Gen. D. Nicola Gelao - Direttore del CeMiSS - CASD Indirizzo di saluto personale ai giovani laureati AESI da parte del Gen. Claudio Graziano - Capo di Stato Maggiore della Difesa – Ministero della Difesa Prof. Massimo Maria Caneva – Presidnete AESI Video : Sarajevo “Prove di Pace” Regia di Marco Clementi Coordinatore : Gen. Antonio Catena – Comitato Scientifico AESI Amb. Maurizio Melani – Comitato Scientifico AESI Gen. Vincenzo Camporini – Vice Presidente IAI Modera : Dott.ssa Marialuisa Scovotto – Direttore AESI Indirizzo di Saluto del Gen. Claudio Graziano - Capo di Stato Maggiore della Difesa In occasione del Seminario sul tema “Unione Europea e NATO per la sicurezza in Europa, nel Mediterraneo ed in Medio Oriente”, mi fa piacere far giungere il saluto delle Forze Armate e mio personale agli organizzatori, ai relatori, ai partecipanti ed a quanti hanno contribuito alla realizzazione di questo importante evento. Oggi saranno dibattuti argomenti di grande attualità e interesse – come quelli della sicurezza internazionale e della gestione delle crisi – che mettono in discussione la tradizionale compartimentazione tra le dimensioni della difesa avanzata e della sicurezza interna, spostando la trattazione delle questioni nazionali in un’ottica sempre più globale. Gli sviluppi dello scenario confermano come le minacce vadano rapidamente mutando nelle forme, assumendo caratteristiche di estrema imprevedibilità, con indiscriminato uso della violenza e rapidità di espansione, così da aumentare il livello di rischio nelle tradizionali aree di crisi e coinvolgere popolazioni inerti. Con la globalizzazione – generatrice di una spirale che dal collasso di intere entità statuali passa per flussi migratori incontrollati, fino all’affermarsi di multinazionali del malaffare intrecciate con fenomeni estremistici – la stabilità internazionale è sempre più direttamente e intimamente legata anche alla sicurezza interna, come dimostra l’infiltrarsi del pericolo radicalismo e terrorismo entro i nostri stessi confini. Di fronte a questa spinta interconnessione, diversificazione, immanenza e delocalizzazione delle minacce alla stabilità, in un clima di crescente competizione per le risorse, nessuna nazione, neppure la più organizzata, è più in grado di agire in assoluta autonomia ma solo attraverso un approccio omnicomprensivo ed in contesti multidisciplinari e di coalizione. In questo senso, il recente semestre di Presidenza italiana ha dato ulteriore impulso al processo di integrazione del Vecchio continente che tuttavia sembra attraversare una fase di rallentamento mentre la NATO, pur agevolata da una storica coesione tra paesi membri, vive la necessità di un adeguamento alle nuove problematiche e di un ribilanciamento dell’asse Euro-atlantico, come emerso durante lo scorso Summit in Galles. Tale quadro, con un baricentro geopolitico non più stabile, impone scelte condivise e coraggiose, non più derogabili, che puntino sull’innovazione e su una capacità di risposta mirata a ridurre i rischi più che ad eliminarli, capitalizzando sul vantaggio ideativo e tecnologico dell’Occidente nonché riscoprendo il ruolo chiave della deterrenza sul piano politico-militare. Da qui la convergenza che, a mio avviso, Unione Europea e NATO dovrebbero ricercare, sia per conseguire una maggiore efficacia nell’affrontare le sfide comuni sia per rendere più efficiente l’impiego delle risorse disponibili in un momento di ristrettezze finanziarie che impongono revisioni organizzative di tipo strutturale, anche oltre l’ambito militare. Con queste premesse, sono certo che l’odierna giornata di approfondimento, svolta alla presenza di relatori di primissimo livello e di un uditorio altamente qualificato, potrà contribuire ulteriormente ad approfondire le varie tematiche allo studio ed a sviluppare idee e proposte che possano stimolare sviluppi nelle adeguate sedi politiche e istituzionali. Buon lavoro a tutti! Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI All’indomani degli Accordi di Dayton, si doveva costruire la Pace e le ferite del lungo e drammatico conflitto erano ancora molto presenti. Nella sola Sarajevo, oltre 12.000 persone avevano perso la vita, 50.000 mila erano i feriti e centinaia di migliaia i profughi, che in tutta la Bosnia arrivavano ad essere oltre 2 milioni. Questo Video ci riporta a Sarajevo negli anni immediatamente dopo l’assedio della città, quando una Delegazione di giovani laureati AESI prendeva contatto per la prima volta con quella drammatica realtà fatta di strade e palazzi distrutti e di una popolazione sopravvissuta ma ancora smarrita. Intorno alla città, nelle campagne e sulle colline, era tutto minato. Arrivato a Sarajevo qualche tempo prima nel quadro di una missione organizzata dalla Difesa in occasione dei primi avvicendamenti di Contingenti di Forze di Pace italiane, cercai come Sapienza Università di Roma di avviare i primi contatti con le parti universitarie che rappresentavano quelle realtà sociali e culturali che erano state fino a poco prima in conflitto. Percorrendo il lungo Viale - noto come “Viale dei cecchini” - che porta dall’Aeroporto al Centro della Città dove era ubicato il Comando Italiano, si potevano vedere ancora i segni della guerra e tutto sembrava fermo per le divisioni imposte dalla tregua. Con coraggio e lungimiranza, ci sentivamo come dei pionieri del mondo accademico internazionale. Grazie al sostegno delle Forze di Pace Italiane che garantivano sicurezza e appoggio logistico, iniziammo ad organizzare i primi incontri con i Rettori delle Università della Bosnia Erzegovina attraverso una innovativa strategia di cooperazione universitaria che vedeva coinvolte in prima persona, anche nella parte accademica, le Forze di Pace Italiane e le Nazioni Unite. A partire da Sarajevo, ci spostammo poi a Mostar (divisa in due dal conflitto), sino a Banja Luka. Poi a Belgrado. Organizzammo con le Nazioni Unite la prima Conferenza dei Rettori dei Balcani a Sarajevo per coinvolgere tutti. Le Università della Bosnia Erzegovina dopo il conflitto erano isolate con i loro docenti e studenti serbi, musulmani e croati. Anche Mostar con due università completamente separate: una mussulmana e una croata. Arrivammo anche a Pale, sulle colline attorno a Sarajevo, già sede del Comando Serbo dove si erano rifugiati docenti e studenti serbi, molti fuggiti da Sarajevo, che avevano trasformato i vecchi impianti per le Olimpiadi invernali del 1984 in aule con la sede del Rettorato. Ricordo ancora che il Comando delle Forze di Pace Italiano ci chiese, ci supplicò che facessimo visita a questa popolazione isolata sulle montagne con la quale nessuno della comunità occidentale voleva avere contatti. Obiettivo centrale era quello di promuovere un Corso universitario che potesse formare i giovani, delle diverse parti in conflitto, alla gestione della Pubblica Amministrazione del loro nuovo Paese. Uno sforzo di cooperazione universitaria che ci ha portato poi in tutti i Balcani e a dare al programma una valenza Regionale con due poli di coordinamento a Sarajevo e Belgrado. A distanza di molti anni, oggi molti dei 120 giovani laureati del programma di cooperazione universitario sono rimasti nel loro Paese: uno di loro eletto poco tempo fa vice sindaco di Sarajevo, altri sono legal advisor del Presidente della Repubblica, alti funzionari del Ministero delle Migrazioni. Ma una cosa deve essere riaffermata con forza: chi ha dato continuità e forza a questa azione sono stati negli anni i giovani dell’AESI, voi in prima linea come linfa vitale di speranza ! Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. E questa è la missione nel tempo dell’AESI. Questo è quello che chiede a voi giovani che siete qui per i Seminari di Studio del 2015 ! Intervento del Gen. Antonio Catena - Comitato Scientifico AESI Meno di un mese fa, alla Conferenza Annuale sulla Sicurezza alla quale hanno partecipato circa ottanta leader mondiali, diplomatici ed esperti di relazioni internazionali, è risuonata questa condivisa affermazione: “l’ordine mondiale sta crollando e l’Europa è uno dei maggiori punti critici di questo collasso”. L’ex Primo Ministro svedese ha così chiosato: “dopo decenni in cui troppi hanno dato la pace per garantita, ora è il potere delle armi che sta dettando l’uso della forza nell'immediato vicinato europeo”;......e “non solo”, aggiungerei io, pensando, ad esempio all'Africa sub-sahariana ed alla Somalia. Ma prima di proseguire, viene spontaneo chiedersi quali sono le minacce che sostanziano tali affermazioni. Sono quelle ben esposte nei documenti strategici dell'Unione Europea (“To guarantee security in a full changing world” del 2008) e della NATO (The NATO Strategic concept - 2010) che vi invito a leggere. Non ne parlo, quindi. Mi soffermo invece su alcune fra le loro attuali estrinsecazioni sul terreno: la crisi ucraina, la crisi mediorientale e la crisi libica. La vicenda ucraina - direi inizialmente mal compresa dall'UE e dalla NATO – ha fatto esplodere la frustrazione della Russia per la perdita dello status di Grande Potenza, con le conseguenze che stiamo vivendo. Il recupero della Crimea non è che il primo passo della strategia russa – prevedibilmente seguita dall'autonomia se non dalla secessione delle province russofone - tendente alla ricostituzione di una fascia di sicurezza e di influenza ai propri confini. Funzionale per la realizzazione di tale progetto potrebbero anche risultare la presenza di consistenti minoranze russofone nei Paesi Baltici (Estonia 25% circa della popolazione; Lettonia 29% circa; Lituania 6% circa) e la posizione geografica della Lituania “appoggiata” all'enclave russa di Kalinigrad ed al corridoio che ne consente l'accesso. I rapporti di cooperazione che fin dalla sua indipendenza l'Ucraina ha stabilito con la NATO in campo economico, politico e militare e con l’UE, in vista dell'adesione, non hanno prodotto i positivi effetti sperati; anzi, secondo un rapporto della Camera dei Lords di Londra “l'entrata degli europei nella crisi ucraina come sonnambuli ha favorito il catastrofico fraintendimento dell'atmosfera durante lo sviluppo della crisi”. Verrebbe da chiedersi se ed in quale misura la Gran Bretagna, membro autorevole dell'Unione Europea, oltre che della NATO, abbia contribuito alla insufficiente efficacia della Politica Estera e di Sicurezza dell'Unione. Ma oltrepasserei i limiti di questo intervento introduttivo. Difficilmente le sanzioni adottate, non senza titubanze, da Unione Europea e Stati Uniti nei confronti della Russia ed il fragile accordo di Minsk, mediato da Francia e Germania, potranno invertire il corso della vicenda ucraina: La Russia sta dimostrando di sapere ben coniugare misure politiche, diplomatiche e militari in un unicum difficile da contrastare senza un chiaro e leale intendimento tra UE e NATO. La crisi mediorientale, ormai connessa a quella libica da un progetto unificante che l'autoproclamatosi Stato Islamico di Iraq e Siria (ISIS o DAESH) ha dato all'Islamismo, si caratterizza per la sua complessità dovuta anche al coinvolgimento di numerosi attori d' area aspiranti alla leadership del mondo arabo. Ne derivano alleanze trasversali secondo convenienze politico-militari ed economiche che pongono spesso in secondo piano le appartenenze etniche e confessionali. Sono oltre trenta le nazioni aderenti alla Coalizione guidata dagli Stati Uniti; ma con livelli di impegno diversificati che non facilitano la pianificazione e la condotta di operazioni risolutive contro un avversario motivato da una dottrina islamica radicale fino all'orrore, capace di svolgere offensive mediatiche senza precedenti e di operare con procedimenti di guerra tradizionale per la occupazione di territori, con tattiche di guerriglia e con azioni terroristiche. A frenare l'impegno attivo di numerose nazioni – anche dell'UE – sarebbe, almeno ufficialmente, la mancanza di legittimità dell'intera operazione....Alquanto stupefacente se si pensa, ad esempio, all'intervento della NATO per fermare la pulizia etnica posta in atto dai Serbi in Kosovo nella primavera del 1999. La crisi libica mi sembra meno complessa di quella Mediorientale, ma più pericolosa per la sicurezza dell'Area Mediterranea, per l'Europa e per l'Italia in particolare. In Libia l'integralismo islamico avanza distruggendo quel modello di società se non laica, almeno tollerante, che il regime di Gheddafi aveva in qualche misura garantito. La città di Derna è stata la prima a giurare fedeltà allo Stato Islamico del Califfo Abu-Bakr al Bagdadi: dunque, una testa di ponte nel Mediterraneo. Le città di Bengasi e Sirte sono controllate dai “Partigiani della Sharia”, nati dalla rivolta del 2011 ed oggi alleati dell'ISIS. La città di Sirte, dichiarata capitale dello Stato Islamico, è però assediata dalle milizie del “Governo di Salvezza Nazionale” di Tripoli appoggiato da Turchia e Qatar (sunnita) mentre il governo internazionalmente riconosciuto di Tobruk è appoggiato, non senza sospetti reciproci, da Egitto e Arabia Saudita (sunnita). Se questo è il prodotto della Primavera Libica, ancorché nata dal legittimo bisogno di democrazia, sarebbe stato forse conveniente sviluppare nel tempo una credibile, ferma politica europea nei confronti dei regimi autoritari della sponda mediterranea invece che favorirne o addirittura determinarne la rovinosa caduta senza un realistico progetto per il dopo. Oggi, nel pressoché totale disinteresse degli Stati Uniti che hanno altre priorità geostrategiche e nello scontato rifugiarsi dell'UE dietro la poco produttiva mediazione delle Nazioni Unite, lo spregio dei diritti umani continua, il flusso incontrollato dei migranti verso l'Europa cresce a dismisura e l’insicurezza nei Paesi dell'Europa, specie Mediterranea, si fa più concreta. Ed allora, nel quadro sommariamente delineato, quale parte potrebbero o dovrebbero recitare l'UE e la NATO per garantire la sicurezza in Europa, nel Mediterraneo e nel Medio Oriente? Il Presidente americano Theodore Roosevelt sosteneva che bisogna parlare dolcemente, tenendo sempre un grosso bastone in mano. Fuor di metafora, l'affermazione potrebbe valere anche per la Nato e per l' UE: con maggiori possibilità per la Nato - strumento, giova ricordarlo, di collaborazione politica oltre che di cooperazione militare – con capacità di deterrenza, come quella che sta esercitando nell'area baltica, e di interventi determinanti come quelli svolti in anni recenti; con minori possibilità per l' UE caratterizzata da eccessive incertezze nelle scelte di politica estera e di sicurezza e da numerose carenze nel campo della difesa. Su quest'ultimo punto occorrerebbe uno specifico seminario, anche per uscire da diffusi massimalismi che, pur dettati da nobili ideali di pace, rispondono poco alla necessità di garantire la sicurezza della nostra società democratica, l'inviolabilità dei diritti umani, il rispetto delle libertà fondamentali. Da parte mia, pur convinto che l'impiego della forza non deve costituire l'immediata o, peggio, preventiva risposta alle minacce, sento il bisogno di fare mio l'aforisma di un noto fumettista della vostra generazione secondo cui “non si risolvono i problemi con la forza...specialmente quando se ne ha poca”. Aggiungerei “e specialmente quando non si riesce a decidere, nei tempi che le moderne crisi richiedono, se, quando, dove e come impiegare in modo produttivo quella che si ha, in sistema, s' intende, con tutti gli altri mezzi di cui le democrazie mature dispongono; fra questi, la moderna cooperazione civilemilitare. In conclusione, evitiamo che torni d' attualità l'amara constatazione che Tito Livio fa nel libro XXI della sua opera storica “Ab Urbe Condita Libri”: “Dum Romae Consulitur Saguntum Expugnatur”. Si riferiva, lo rammento, alla situazione che vede Annibale radere al suolo Sagunto - città della Spagna alleata di Roma - dopo otto mesi di assedio durante i quali il Senato Romano discute e non decide. E fu il casus belli della 2^ lunga e sanguinosa Guerra Punica. Intervento dell’Amb. Maurzio Melani – Comitato Scientifico AESI 1. L'Europa, e con essa l'Italia, devono affrontare situazioni di instabilità nel loro vicinato orientale e meridionale che producono rilevanti minacce alle loro sicurezza. Non si tratta di una novità. Per secoli questo stato di cose ha accompagnato la storia europea parallelamente alle lotte per gli equilibri di potere tra le potenze nel cuore del continente, ma i processi si sono accelerati negli ultimi decenni e in particolare negli ultimi anni. Nella fase successiva alla seconda guerra mondiale, caratterizzata dalla guerra fredda mentre si dipanavano i processi di decolonizzazione, la sicurezza dell'Europa di fronte alla minaccia sovietica era garantita dalla NATO Nella sostanza questo significava affidare la sicurezza europea alla deterrenza fornita dagli Stati Uniti che malgrado qualche riluttanza iniziale si assumevano questa responsabilità diversamente dal disimpegno attuato dopo la prima guerra mondiale. La partecipazione degli alleati, in termini di capacità militari, era poco più che simbolica con le eccezioni delle forze della Francia e del Regno Unito, comunque limitate nel quadro complessivo degli equilibri militari mondiali. Queste erano essenzialmente collegate a responsabilità, o velleità, post coloniali soprattutto per quanto riguarda la Francia che intendeva anche mantenere una sua autonomia con l'uscita dalla struttura militare dell'alleanza (nella quale è rientrata soltanto nel 2009), e alla volontà di entrambe di mantenere uno status determinato dalla loro qualità di membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e di possessori dell'arma nucleare. Il collasso dell'URSS e il periodo di estrema debolezza della Russia che ne è seguito ha da un lato determinato un riassetto dell'Europa centro orientale riassorbita nella sfera occidentale attraverso l'unificazione tedesca e le adesioni alla NATO e all'Unione Europea, e dall'altro il riemergere ad est e a sud di contrasti etnici e religiosi precedentemente sopiti dalle rigidità della contrapposizione tra i blocchi. L'unificazione tedesca era stata condizionata dalla Francia ad un rafforzamento del processo di integrazione della Germania in una Unione Europea di cui si rafforzava però al tempo stesso la componente intergovernativa. La moneta unica era parte di questo disegno definito dal Trattato di Maastricht. Era destinata a contenere la Germania e a consolidare l'integrazione economica e si è poi rivelata un ulteriore fattore del rafforzamento comparativo dell'economia tedesca. L'altro elemento è stato la creazione di una politica estera e di sicurezza comune, impostata però su base strettamente intergovernativa. Le guerre balcaniche e le crisi africane hanno accelerato questo processo spinto soprattutto dalla Francia che ha dovuto tuttavia fare i conti, per quanto riguarda la creazione di effettive capacità comuni, con le resistenze britanniche e con i rapporti con la NATO, la cui missione era stata riconfigurata con il nuovo concetto strategico del 1999 riaggiornato nel 2010 per effettuare missioni di gestione delle crisi. Sono stati trovati compromessi che l'Italia ha favorito (ed in questo un ruolo importante fu anche svolto proprio dal Generale Camporini alla fine della nostra presidenza nel 2003 quando io presiedevo il Comitato politico e di sicurezza dell’UE) e ciò ha consentito all'Unione Europea di operare con proprie missioni civili e militari, queste ultime a volte sostenute dalle capacità della NATO, nei Balcani, in Africa e altrove. Oggi gli Stati Uniti, inizialmente scettici e prudenti rispetto ad una integrazione europea in campo militare, sono più favorevoli a questa prospettiva in un contesto di ridefinizione delle proprie priorità. Sta di fatto che il processo di integrazione è oggi incompleto e insufficiente, ben al di sotto di quelle che sarebbero le esigenze in un mondo multipolare, nel quale sono emerse nuove potenze che stanno aumentando le proprie capacità militari parallelamente all'enorme aumento del loro peso economico e conseguentemente anche politico. Occorre più Europa anche e soprattutto in questo campo, con una razionalizzazione della spesa e una messa in comune e condivisione di assetti e capacità ("pooling and sharing"). Su tale esigenza si è pronunciato recentemente anche il presidente della Commissione Jean Paul Juncker, ma sappiamo che in questo campo la decisione spetta agli stati membri ed in particolare a quelli che vogliono andare avanti (verosimilmente non tutti in una fase iniziale) utilizzando eventualmente le possibilità offerte dal Trattato di Lisbona. E vediamo anche quanto la crescita di sentimenti e movimenti scettici o ostili nei confronti dell'integrazione contribuisca a rendere questo processo difficile proprio quando ve ne sarebbe più bisogno. Questi movimenti, con orientamenti di chiusura all'integrazione e spesso xenofobi, costituiscono oggi un pericolo per la stabilità e per il futuro dell'Europa che se frammentata vedrà i suoi stati membri condannati all'irrilevanza sulla scena mondiale con gravi conseguenze sulla loro sicurezza e sulla loro prosperità. Per contrastarli è anche necessario un cambiamento delle politiche procicliche di questi anni, che hanno accentuato in molti paesi gli effetti della crisi, avviando invece misure favorevoli alla crescita come fatto negli Stati Uniti. L'avvento del nazismo fu favorito dalla recessione e dalla deflazione degli anni 30 accentuate dalle politiche recessive del Cancelliere Bruning e non dall'inflazione degli anni 20 che pur aveva avuto effetti devastanti sul piano economico e sociale. Per favorire la crescita, a certe condizioni sulle quali non mi soffermo qui, potrà essere utile anche il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, in corso di negoziato, che potrebbe favorire l'agganciamento dell'Europa alla crescita americana e rafforzare i legami euro-americani che restano fondamentali. 2. NATO e UE, quest'ultima con la Politica di Sicurezza e di Difesa Comune (PSDC) e con i suoi strumenti di "capacity building” e sostegno economico, sono comunque oggi complementari, pur con i loro limiti, ai fini della gestione delle crisi che ci circondano. La prima, quella che abbiamo ad est, è anche conseguenza delle politiche occidentali dopo la fine della guerra fredda. Malgrado le intese più o meno esplicite al momento della fine dell'URSS e dell'unificazione tedesca, l'allargamento della NATO ad est e la gestione delle crisi nei Balcani sono stati subiti da una Russia allora estremamente debole, e poi considerati dopo l'avvento di Putin e della sua politica di ristabilimento del ruolo della Russia ai livelli regionali e globali come umiliazioni intollerabili e minacce alla propria sicurezza. Ne sono seguite azioni di forza in Georgia, nel 2008, e in Ucraina, particolarmente evidenti a partire dal 2013, alle quali Stati Uniti ed Europa hanno dovuto rispondere, quest'ultima con maggiore prudenza in considerazione dei rapporti economici con la Russia di alcuni suoi grandi paesi come la Germania l'Italia soprattutto in campo energetico. Si è creata per alcuni versi una situazione che ricorda quella degli anni 30 nella quale la Germania che aveva senz'altro subito umiliazioni e comportamenti eccessivamente punitivi dopo la fine della prima guerra mondiale ha adottato dopo l'avvento di Hitler una politica aggressiva facendo anche leva sulle minoranze tedesche nei paesi aggrediti cui le potenze occidentali hanno risposto in modo tardivo e debole con la conseguenza di stimolare gli appetiti nazisti e di rendere inevitabile la guerra. Pur nella consapevolezza delle ricadute economiche negative che questo comporta, la fermezza nei confronti di violazioni del diritto internazionale è necessaria ma occorre anche scoraggiare comportamenti avventuristi in Ucraina e in altri paesi dell'ex-Unione Sovietica. Il ruolo della NATO si rivela ancora una volta importante: va dato un messaggio chiaro, anche con opportuni dispiegamenti di forze, che l'Alleanza garantisce la sicurezza dei suoi membri (in particolare degli stati baltici che hanno forti minoranze russe), evitando al tempo stesso inutili provocazioni come sarebbe quella di alimentare aspettative di una adesione dell'Ucraina e della Georgia alla stessa NATO e all’UE. 3. Anche le situazioni di crisi nel Medio Oriente e nel Mediterraneo, che ci riguardano molto da vicino in termini di approvvigionamenti energetici, pressioni migratorie, sicurezza e aspetti umanitari, sono in parte dovute ai comportamenti occidentali ed in particolare degli Stati Uniti all'inizio di questo secolo, con radici nei decenni precedenti. La sostanza di quanto accade è un insieme di conflitti per gli equilibri nella regione e per gli assetti di potere all'interno di stati in parte nati dagli accordi anglo-francesi dopo la prima guerra mondiale nel quadro dell'interesse strategico occidentale per le risorse petrolifere della regione. Vi è la contrapposizione tra Iran e suoi alleati sciiti in Iraq, in Siria e in Libano da un lato, e Arabia Saudita e suoi alleati sunniti dall'altro, cui ha dato impeto l'intervento americano in Iraq che ha di fatto aperto spazi a Teheran e mortificato i sunniti iracheni risucchiati nella lotta armata. E vi sono quelle all'interno del mondo sunnita tra Turchia e Qatar da un lato con i loro alleati della fratellanza musulmana favoriti dalle rivolte del 2011, e Arabia Saudita ed altre monarchie del Golfo dall'altro che sostengono al tempo stesso la restaurazione militare in Egitto e movimenti salafiti. In questo quadro di instabilità e di conflitti incrociati ha trovato spazio il jahdismo estremo, rappresentato prima da Al Qaeda e ora dall'ISIS. Si tratta di forze nate da realtà che erano state sostenute dagli Stati Uniti e dall'Arabia Saudita in Afghanistan al tempo dell'occupazione sovietica e ancora prima per contrastare le repubbliche arabe laiche di ispirazione nazionalista e socialista e poi una percepita minaccia sciita dopo la rivoluzione iraniana. Esse hanno successivamente evidenziato tutta la loro carica anti-occidentale con l'attentato alle Torri Gemelle e al Pentagono nel 2001 ma sono state in vario modo strumentalizzate da forze della regione in funzione anti-sciita e per non agevolare la stabilizzazione di un Iraq in buoni rapporti con l’Iran e destinato a ridiventare un grande produttore ed esportatore di idrocarburi. Oggi esse sono una minaccia per gli stessi regimi che le hanno tollerate se non agevolate, e vi sarebbe quindi l'opportunità di costituire un fronte comune contro il terrorismo. E' sulla costruzione di questo fronte che occorre lavorare essendo anche pronti a fare le pressioni necessarie su nostri tradizionali alleati. Se come speriamo il negoziato in corso con l'Iran si concluderà con una intesa che garantisca la non acquisizione di capacità nucleari militari fermi restando i diritti del paese derivanti dal Trattato di non proliferazione si potranno aprire nuove prospettive per la stabilizzazione nell'area con nuovi equilibri mutuamente concordati. 4. Lo scontro in corso tra i paesi sunniti mediorientali si manifesta anche in Libia ove le condizioni di instabilità e fallimento dello stato hanno anche lì lasciato spazi per il jihadismo estremo che si richiama ora al Daesh. E' una situazione di importanza cruciale per noi per tutte le ragioni che sappiamo. Come sembra ormai chiaro a tutti non vi sono attualmente le condizioni per un intervento militare occidentale che non sia preceduto da una intesa tra le forze libiche interessate ad eliminare chi si collega all'ISIS o si definisce tale. Ma affinché questo si realizzi occorre favorire una convergenza tra chi sostiene rispettivamente il governo di Tobruk (Egitto, Arabia Saudita ed Emirati) e quello di Tripoli (Turchia e Qatar), con il coinvolgimento dell'Algeria e di altri paesi africani interessati alla stabilizzazione della Libia dalla quale dipende in larga parte quella di tutta la regione. E' questo un compito rispetto al quale, nel quadro dell'azione condotta dalle Nazioni Unite, un ruolo importante può essere svolto dall'Unione Europea ed in particolare dall'Italia. Ma sarà bene che in questa azione non ci si schieri con alcuna delle due maggiori parti in campo la cui convergenza è necessaria per sconfiggere i criminali che si ricollegano all'ISIS, sapendo che nessuna di loro può prevalere militarmente in modo risolutivo sull'altra e che alla percepita parzialità del mediatore si accompagnerebbero la perdita della sua credibilità e lo stimolo ad ostilità diffuse nei suoi confronti. Successivamente al raggiungimento di una auspicata intesa, una presenza di "peace keeping" e di "capacity building" nel campo della sicurezza da parte dell'Unione Europea con gli strumenti militari e civili di cui essa dispone può essere necessaria, eventualmente con la NATO e con l'Unione Africana, ovviamente nell'ambito di un mandato delle Nazioni Unite. Questo non esclude che interventi specifici e puntuali da parte di forze speciali e attività navali o aeree per fare fronte a particolari situazioni possano essere effettuate, ma senza lasciare truppe a terra. Cosi come può non essere escluso che nel quadro di una intesa tra le parti libiche e tra gli attori della regione, ed in attesa che vi siano le condizioni per una attività di peace keeping, azioni di peace enforcement siano condotte con la partecipazione o il sostegno di forze regionali purché non abbiano un carattere unilaterale, abbiano invece un chiaro mandato dell’ONU e di Organizzazioni regionali (come Lega Araba e Unione Africana) e non siano in favore di una delle due principali parti come è attualmente l’intervento egiziano 5. L'approccio regionale e l'azione per una intesa tra gli attori interessati è necessario ed ha avuto successo in altre situazioni in cui l'Italia ha avuto un ruolo importante. Ricordo i Balcani, ed in questo ambito l'operazione Alba a guida italiana che ha stabilizzato l'Albania; il Libano per il quale si è lavorato con Israele, con la Siria e con l'Iran; il Mozambico, nel quale con l'ausilio nel dialogo tra le parti di soggetti religiosi della società civile come la Comunità di Sant'Egidio e la Chiesa mozambicana abbiamo condotto l'azione diplomatica con i paesi della regione, le Nazioni Unite, l'OUA e gli Stati Uniti ed abbiamo poi guidato la presenza militare di "peace keeping" e di "capacity building"; la fine delle ostilità tra Etiopia ed Eritrea nel 2000 per la quale abbiamo operato, con un mandato dell'UE, con l'OUA, rappresentata dall'Algeria, con gli Stati Uniti e con le Nazioni Unite. In tutti questi casi la presenza militare si inseriva in un preciso progetto politico di pacificazione nell'ambito di una architettura diplomatica realizzata con il concorso dei paesi limitrofi e delle organizzazioni internazionali e regionali, nonché dell'Unione Europea e, laddove ve ne erano le condizioni e le necessita, della NATO. E' quanto occorre cercare di fare anche in Libia e in Mesopotamia, avendo come primo obiettivo l'eliminazione del Daesh e nel medio e lungo termine l'affermazione di condizioni sostenibili di pace e stabilità. Gen. Vincenzo Camporini – Vice Presidente IAI Buonasera a tutti, cercherò di essere abbastanza sintetico anche perché chi è intervenuto prima di me ha fatto un quadro assai completo della situazione in cui ci troviamo e trovo assai appropriato che un ex militare possa parlare dopo un diplomatico. Perché gli eserciti, con la loro forza, sono solo uno strumento nelle mani della politica: quindi ci deve essere un disegno ben strutturato, ben evidente per tutti, all'interno del quale è possibile utilizzare la forza. Ma l'utilizzo della forza senza un quadro politico è pura follia, come dimostrato da tutto quello che è accaduto recentemente - il caso libico fu assolutamente un esempio eclatante. Io sono più pessimista dei relatori che mi hanno preceduto. Sono pessimista perché vedo una sorta, non dico d'involuzione, ma un tragico immobilismo. Qui stiamo infatti ancora discutendo quando Sagunto viene espugnata. L'Unione Europea all'inizio di questo secolo - '99 e 2000 - ha fatto dei progressi straordinari, se pensiamo alla costruzione della Pesc/Pesd che avvenne in pochi mesi. In pochi mesi si fecero progressi che prima non era stato possibile fare in decenni; e poi, ci siamo fermati. Ci siamo fermati perché siamo tornati ad un tipo di concezioni arcaico - io dico - in base al quale domina il concetto di sovranità nazionale. Noi siamo un'organizzazione - l'Unione Europea - mista: c'è una parte comunitaria e una parte intergovernativa, la Difesa fa parte dell'area intergovernativa e i governi sono assolutamente gelosi di questo. Hanno ragione di esserlo? Io dico che questo è un sintomo di grande miopia, perché quando si parla si sovranità di cosa parliamo? Io sono sovrano quando posso prendere una decisione e ho gli strumenti per farlo. Gli strumenti finanziari, gli strumenti fisici. Oggi in Europa, nemmeno la grande Germania di Angela Merkel può permettersi di definire degli obbiettivi e perseguirli perché non ne ha i mezzi. I mezzi militari sono quelli che oggi mancano in modo straordinario. L'intervento di Junker dell'altro giorno, che io trovo fuori dalle righe, è comunque un segnale che indica che oggi in Europa non esiste la capacità per sostenere una politica estera coerente. Non ci sono più i carri armati, non c'è più l'artiglieria. Ci siamo cullati nell'illusione che l'utilizzo delle forze armate sarebbe stato quello di un peacekeeping più o meno pesante - al massimo in Afghanistan dove bisognava combattere contro le mine, e nient'altro che contro le mine - ma senza la necessità di avere altro tipo di strumento. Qualcuno invece gli strumenti li ha ancora o se li sta procurando e qualcuno li sta usando. E non sto parlando di un singolo Paese, ad esempio la Russia. La Cina ad esempio ha annunciato un aumento delle sue spese militari per quest'anno del 10% - una crescita comunque più bassa rispetto a quella dell'anno scorso - ma è tanto per darvi un'idea. I Paesi Europei invece stanno tagliando le spese. Benissimo, legittimo, ci sono altre priorità, c'è il problema della crisi economica, ci sono visioni diverse: ma siamo consapevoli che queste visoni diverse hanno delle conseguenze. Ad esempio oggi Putin può fare quello che gli pare. Che abbia torto o ragione - io passo per un filo russo - con tutta la buona volontà, in modo onesto, in modo occidentale, l'Europa e la Nato hanno fatto di tutto - ripeto in buona fede - per irritare la Russia: l'abbiamo umiliata e le conseguenze della guerra fredda sono state tali che c'è stata una continua erosione dell'area d'influenza russa - e non mi si venga a dire che il concetto di sfera d'influenza è un concetto arcaico, perché è un concetto esistente - ci sentivamo buoni, volevamo esportare, non dico la democrazia, ma sicuramente il nostro livello di benessere verso un Paese come l'Ucraina che era in difficoltà, senza renderci conto che andavamo ad incidere su equilibri veramente precari. Le reazioni ci sono state, e uno dovrebbe oggettivamente fare il bilancio di dove stanno le responsabilità. Sta di fatto che le decisioni oggi le può prendere Putin, è lui che decide cosa vuole, mentre noi, in qualche modo, dobbiamo solo addolcire la pillola. Mi rendo conto che questa è una visione abbastanza cruda, mi rendo conto che non è una visione comune, ma vi invito a prendere atto della situazione anche da questo punto di vista. L'Unione Europea ha rinunciato alla sua capacità d'influenza e si trova in una situazione che era, guardate, simile a quella dell'Italia del 1840: tanti statarelli, ciascuno viveva nel suo benessere, ma con un piccolo problema. I destini di Ferrara, di Venezia, non venivano decisi lì, ma piuttosto a Vienna, Parigi e Londra. Oggi abbiamo una situazione analoga: i destini dei Paesi europei non vengono decisi a Berlino e Londra, ma a Washington, Pechino; e senza fare delle dietrologie è chiaro che le difficoltà della moneta comune europea, magari sono state spinte da qualcuno di fuori. Per questo motivo i Paesi che continuano a trincerarsi dietro il concetto di sovranità nazionale e di rapporti intergovernativi su queste tematiche stanno commettendo un errore storico. Qualche mese fa ho avuto modo di ascoltare uno straordinario ambasciatore americano in pensione - era a Mosca nell'89 - che ha iniziato il suo discorso con una frase che vi regalo e che merita una riflessione: «la Storia non si ripete ma fa rima». Questo per dire che ci sono degli schemi, delle analogie che debbono essere presi in considerazione e che fanno parte della logica; e quindi così come l'Italia del 1840 è simile all'Europa di oggi, così l'instabilità in Medio oriente, a mio avviso, ha delle analogie con quello che accadeva in Europa nel 1500, 1600: le guerre di religione. Anche lì avevamo due diverse visioni della stessa confessione religiosa - protestantesimo e cattolicesimo - un protestantesimo frammentato, in lotta al suo interno e in lotta con il cattolicesimo: ma in realtà si trattava di una ricerca di potenza da parte di alcune potenze regionali per il dominio dell'area. La Spagna dominava nei Paesi bassi; chi ha letto i Promessi sposi sa che anche a Milano c'erano gli spagnoli. Ora questa commistione dell'epoca le possiamo ritrovare oggi nelle lotte tra sunniti e sunniti, e tra sunniti e sciiti; ma non perché ci siano delle lotte di religione all'interno, ma perché ci sono delle lotte di potenza tra Turchia, Iran, Arabia Saudita ed Egitto: quattro potenze che ambiscono ad avere il dominio regionale e che per conseguirlo alimentano - grazie al carburante fornito dalla passione religiosa - questi conflitti. Questa situazione la viviamo noi occidentali trascinati per la giacchetta: perché abbiamo problemi di approvvigionamento energetico, abbiamo bisogno di questi Paesi, o soltanto perché abbiamo dei sensi di colpa, a mio avviso abbastanza ingiustificati, perché dopo tutti questi decenni le colpe si potrebbero cercare altrove. Ma è un dato di fatto che esistono queste situazioni in cui noi siamo trascinati e strumentalizzati. Non ho soluzioni, ma è un dato di fatto che quello che sta accadendo intorno a noi presenta dei pericoli, presenta degli inconvenienti seri che non affrontiamo con la dovuta coesione; e vengo all'ultimo concetto. Non c'è coesione perché nessuno vede le situazioni di crisi alla stessa maniera. Una settimana fa ero a Berlino per un convegno organizzato da Chatham House e da SWP. Si parlava di NATO e della situazione europea: nessuno ha parlato della Libia, tutta l'attenzione era focalizzata sulla situazione ucraina. Al Nord delle Alpi, della Libia, non interessa nulla. Siamo gli unici che percepiscono questa situazione come un rischio - io dico giustamente. Ma è un problema che in qualche modo mina la coesione di tutti i Paesi, perché ognuno la vede in modo diverso. E vedendola in modo diverso all'interno dell'Unione Europea amplifichiamo la differenza con l'alleato di oltre Atlantico: gli Stati Uniti. È possibile allora un ruolo complementare e integrato tra Unione Europea e NATO? In linea teorica sì, nella pratica qualche volta avviene, ma nella forma e nella sostanza siamo ancora lontani anni luce. Perché si tratta di due organizzazioni che hanno un'appartenenza comune ma non gli stessi obbiettivi. Abbiamo un problema grossissimo - non è il solo - che blocca qualsiasi tipo di cooperazione reale tra le due strutture: si chiama Cipro e Turchia, è un problema che non ha soluzioni. Avrebbe potuto averla quando ci fu un referendum voluto dalle Nazioni Unite per la riunificazione. Quel referendum fallì - giusto la settimana prima dell'adesione di Cipro all'Unione Europea - e con una cecità pazzesca l'Unione Europea non fermò l'adesione di Cipro. Fu una decisione politica, certamente ben motivata; sappiamo però che oggi è impossibile a Bruxelles una riunione tecnico formale tra elementi della Nato e elementi dell'Unione; si vedono ai cocktail: il Segretario generale della Nato e Federica Mogherini si vedono lì, ai cocktail. Più di questo non si può fare. E da questo punto di vista abbiamo un ostacolo serio, apparentemente insormontabile. E allora cosa bisogna fare? Quello che bisogna fare è il salto verso una cooperazione europea più forte. Soltanto un'Unione Europea veramente coesa diventerà un interlocutore attendibile, credibile e solido. Bisogna superare gli egoismi che abbiamo di fronte, ma per questo servono dei leader, e io francamente in Europa di leader non ne vedo: Hollande non lo è, Cameron ancora meno, Angela Merkel ha una sua visione stretta, ma forse si sta allargando… forse. C'è Putin, ma non credo sia un fattore unificante per la Comunità Europea, se non come reazione. Il problema è - e chiudo con questo - che leader significa colui che conduce. Vi invito a leggere un libro scritto da John F. Kennedy quando era ancora Senatore, si intitola Profili nel coraggio. È la storia di dieci parlamentari americani che nel corso della storia degli Stati Uniti andarono contro il volere dei propri elettori: andarono poi incontro a delle sconfitte elettorali sicure, perché ritenevano di dover sostenere una tesi non condivisa dai propri elettori: perché erano leader e hanno trascinato il proprio Paese a diventare quello che poi è diventato. Oggi noi non abbiamo dei leader, abbiamo dei lead; abbiamo gente che apre il giornale al mattino, legge l'esito dell'ultimo sondaggio e decide di conseguenza. Voi siete i leader del futuro, non fate come loro. Intervento della Dott.ssa Marialuisa Scovotto – Direttore AESI Negli ultimi decenni il significato geostrategico del bacino del Mediterraneo ha subito una profonda trasformazione. La marginalità del cosiddetto Southern Flank, che aveva caratterizzato il calcolo politico-strategico euro-atlantico sin dagli inizi della Guerra Fredda, è stata progressivamente superata. La distanza che tradizionalmente separava le dinamiche geopolitiche e di sicurezza europee, mediorientali ed eurasiatiche (la crisi ucraina, siriana, israelo-palestinese, siriana, solo per citare le più problematiche nell’attuale scenario) sembra essersi ridotta favorendo l’interconnessione e l’espansione di fenomeni che trascendono le divisioni regionali classiche. D’altra parte la contrazione della distanza politica, economica e strategica ha imposto l’allargamento del concetto di spazio di sicurezza europeo, tanto sotto un profilo geopolitico, che in una prospettiva geo-economica e geostrategica. Di fronte ad un così vasto mutamento dello scenario globale e regionale, l’Alleanza Atlantica ha cercato di reagire attraverso l’adozione di nuove politiche. Così, a partire dalla metà degli anni ’90, la NATO, su iniziativa italiana, ha superato gli approcci geopolitici alla base della politica estera statunitense e di buona parte dei Paesi nordeuropei dei decenni precedenti ed ha riconosciuto il Mediterraneo come un teatro che, pur diversificato, presenta tali caratteri di unità da permettere il riconoscimento di un’unica regione geostrategica e geo-economica. In tale quadro, nel gennaio 1994, nonostante le cautele di una parte dei Paesi membri, la NATO, dietro un intenso lavoro politico-diplomatico italiano e sulla scia del successo dei negoziati a Oslo per la definizione del processo di pace in Medio Oriente e del delinearsi del processo di allargamento ad est dell’Alleanza e dell’Unione Europea, ha varato il Dialogo Mediterraneo quale iniziativa diretta ad avviare rapporti di cooperazione, con alcuni dei paesi mediterranei, per una migliore comprensione reciproca. Per perseguire tali obiettivi è nato il Dialogo Mediterraneo, sviluppatosi come un processo a carattere dinamico, evolutivo ed aperto alla partecipazione di altri paesi non-NATO che intendano e siano in grado di contribuire alla sicurezza e stabilità della regione mediterranea. In base ad un consenso tra i membri della NATO, i primi partner con cui l’Alleanza ha instaurato tale Dialogo sono stati, all’inizio del 1995, Egitto, Israele, Marocco, Mauritania, e Tunisia, ai quali si sono successivamente aggiunte Giordania (alla fine del ’95) ed Algeria (nel 2000). È stata confermata la volontà di rafforzare la cooperazione nelle aree in cui la NATO può apportare il proprio contributo, specialmente nel settore militare (l’osservazione di esercitazioni terrestri e marittime, seminari e visite a installazioni NATO, allo scopo di incentivare la fiducia reciproca in un’ottica di trasparenza). Grazie a tale sviluppo hanno quindi potuto prendere forma attività di cooperazione con l’Egitto, la Giordania ed il Marocco in operazioni in Bosnia – Erzegovina e con la Giordania ed il Marocco in Kossovo, inoltre : • l’Egitto ha richiesto l’assistenza NATO per sminare fasce di territorio attorno ad ElAlamein; • il Marocco e l’Algeria hanno manifestato segnali di maggiore apertura; • la Tunisia si è dimostrata propensa all’allargamento del Dialogo ad altri stati arabi ed a stringere più stretti legami con la NATO e con l’UE; • la Giordania ha dichiarato il proprio interesse nel rafforzamento della cooperazione nel settore del narcotraffico, dell’anti-terrorismo e della prevenzione dai disastri; • Israele, infine, ha manifestato interesse alla cooperazione nel settore della pianificazione delle emergenze civili e militari e nel settore dell’antiterrorismo. Dopo l’11 settembre 2001, la NATO ha compreso la necessità di un’intensa cooperazione nel Mediterraneo quale priorità strettamente legata e funzionale alla sicurezza euroatlantica e delle regioni afro-asiatiche. Il Dialogo Mediterraneo dell’Alleanza è stato pertanto oggetto di un ulteriore e vistoso sviluppo ed in particolare: • dall’ottobre 2001, si svolgono periodici incontri multilaterali, tra il Consiglio Atlantico e gli ambasciatori accreditati a Bruxelles dei sette paesi NMD, sotto la presidenza del Segretario Generale della NATO; • in occasione dell’incontro del maggio 2002 a Reykjavik, i ministri degli esteri NATO hanno introdotto nuovi settori d’interesse, tra cui le consultazioni in materia di sicurezza comune, inclusi gli aspetti connessi con il terrorismo; • nel luglio 2002, il Consiglio Atlantico ha dichiarato che “le relazioni con i paesi NMD è tra le maggiori priorità dell’Alleanza” ed il Segretario generale della NATO, riconoscendo al Mediterraneo una nuova rilevanza per quanto concerne la sicurezza dell'Occidente, ha indicato quali motivo di preoccupazione il suo potenziale di instabilità, il terrorismo, il conflitto israeliano-palestinese e le controversie connesse tra arabi e israeliani, la proliferazione delle armi di distruzione di massa e dei missili, la questione energetica; • in occasione del successivo vertice di Praga dei capi di Stato e di governo dei paesi NATO (novembre 2002), è stato adottato un inventario di possibili settori per incrementare la dimensione politica e pratica di cooperazione con i paesi NMD, specie in materia di informazione e trasparenza su attività ed obiettivi NATO per contribuire alle giuste percezioni da parte delle opinioni pubbliche di quei paesi. Sotto un profilo più generale l’iniziativa mediterranea dell’Alleanza ha visto accentuare la propria valenza ed il proprio ruolo quale fattore teso alla promozione di stabili e pacifici legami anche tra gli stessi paesi della sponda sud del bacino (dimensione sud – sud) introducendo nell’evoluzione del quadro geopolitico del Mediterraneo allargato spinte atte a contenere processi dinamici evidentemente capaci di coinvolgere profondamente regioni adiacenti e lontane. La NATO e i governi occidentali ritengono che gli Stati della sponda meridionale del Mediterraneo siano esposti agli stessi rischi e alle stesse minacce che essi stessi sono chiamati ad affrontare. Pertanto il margine per la cooperazione nel settore politico e della sicurezza si prospetta ancora più ampio che nel passato. Dal canto loro, i partner mediterranei della NATO hanno dimostrato un forte interesse a sviluppare ulteriormente la cooperazione con l'Alleanza in vari settori, avanzando numerose proposte concrete. Il risultato è stato un cospicuo pacchetto di misure volte a migliorare la dimensione politica e pratica del Dialogo Mediterraneo, approvato dai leader dell'Alleanza nel ricordato vertice di Praga. Tali misure includono la possibilità di utilizzare ulteriormente le opportunità offerte dal dialogo multi/bilaterale esistente, per rafforzare gli attuali strumenti istituzionali stabilendo un più regolare ed efficace processo di consultazione nonché intense relazioni politiche ad alto livello e continue consultazioni da parte di esperti. Quest'ultimo aspetto riguarda specialmente i settori nei quali la NATO ha un riconosciuto vantaggio comparativo ed i partner del Dialogo vi hanno manifestato interesse. Questi, in prospettiva, potrebbero includere:. • la formazione, l'addestramento e la dottrina militare quali iniziative atte a conseguire una certa interoperabilità necessaria ai partner mediterranei nelle esercitazioni ed attività congiunte delle forze militari; • la sanità militare, incluse le relative misure preventive nel settore nucleare, biologico e chimico; • la riforma della difesa e i principi economici della difesa, tra cui le migliori procedure nella gestione civile ed economica delle forze di difesa; • la sicurezza dei confini, specie riguardo al contrabbando di armi leggere, alle attività illegali legate al traffico di esseri umani e della droga; • la proliferazione delle armi di distruzione di massa; • la lotta al terrorismo in tutte le sue forme • la pianificazione civile di emergenza, inclusa la gestione delle calamità; • la tutela dell'ambiente. L’Italia, il Mediterraneo e il Medio Oriente. La politica estera dell’Italia nei confronti dei Paesi del Bacino mediterraneo e del Medio Oriente risulta di vitale importanza per il perseguimento dell’interesse nazionale del nostro Paese. Quella che si muove a Sud verso il Nord Africa (Maghreb) e, ad Est, verso il Mediterraneo orientale e i Paesi del Medio Oriente, è infatti, la direttrice forse più rilevante per l’azione estera dell’Italia, almeno se prendiamo in considerazione il punto di vista geografico e geopolitico. Se è vero che Roma ha storicamente, almeno dal Secondo Dopoguerra ai giorni nostri, costruito solidi rapporti transatlantici da un lato e, dall’altro, europei – partecipando in maniera attiva e sin dall’inizio alla costruzione di quella che sarebbe divenuta l’Unione Europea – è altrettanto vero che l’interesse nazionale di un Paese risente della posizione (nel senso non politico del termine) che questo occupa all’interno della mappa globale. Tenendo presente quest’ultima considerazione, sono proprio le sponde Sud ed Est del Mediterraneo a costituire il contesto più prossimo con cui l’Italia deve confrontarsi. E, d’altro canto, non può esimersi dal farlo, in quanto, come vuole la tradizione delle relazioni internazionali, si Possono scegliere gli alleati, ma non i vicini. La Siria è nel mezzo di una rivolta popolare che si è progressivamente trasformata in una guerra civile, rendendo il Paese molto simile alla Libia nel periodo intercorso tra l’intervento della NATO e la caduta definitiva di Gheddafi. L’esito di questo scontro interno è tutt’altro che scontato e non è da escludere un nuovo intervento esterno, da parte di attori europei, arabi e della Turchia. Qualsiasi nuovo scenario potrebbe avere ripercussioni notevoli anche su altri contesti regionali, Libano in primis. Proprio in Libano l’Italia è fortemente impegnata a mantenere la stabilità al confine israeliano, essendo il Paese che, con più di 1.600 uomini sul campo, ha il contingente più numeroso della missione UNIFIL, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Come riuscire a tenere insieme il sistema di solide alleanze europee e transatlantiche costruite nei decenni, far sì che la macchina della politica estera europea possa funzionare in maniera univoca e sortire effetti tangibili sul mondo esterno e, contemporaneamente, poter continuare a perseguire il proprio interesse nazionale, nel caso in cui questo si dimostri divergente rispetto agli altri attori europei? Tali dilemmi dimostrano quanto sia importante per Roma e per tutti gli Stati membri della UE riuscire a trovare posizioni comuni nelle questioni più delicate di politica estera. Ciò non vuol dire semplicemente riuscire a raggiungere degli accordi che possano mettere insieme le varie esigenze degli attori europei ogni volta che si presenti una situazione critica con cui doversi confrontare, perché questa sarebbe una soluzione di breve periodo. Qui torniamo all’annosa questione della necessità di instaurare un meccanismo diplomatico e politico che agisca in nome di tutta l’organizzazione europea in maniera permanente. 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FORUM AESI RAPPRESENTANZA DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN ITALIA SPAZIO EUROPA 3 Marzo 2015 Papers Studenti : L’UE E LA NATO E LA SICUREZZA IN EUROPA, NEL MEDITERRANEO E IN MEDIO ORIENTE Dott. Federico Di Benedetto La sicurezza è un tema fondamentale della relazione tra la NATO e l’Unione Europea, che ci pone di fronte alla capacità di questi organismi di sapere affrontare le sfide poste dal mondo odierno. Diventa perciò importante parlare di quanto sta accadendo nell’Est europeo, specialmente in Ucraina, così come cercare di capire gli avvenimenti della Libia, i flussi migratori che si verificano nel Mediterraneo e che sono direzionati in Italia, gli stravolgimenti che stanno caratterizzando il Medio Oriente, specialmente l’Iraq e la Siria. Ma soprattutto, non si può fare a meno di chiedersi in che modo la NATO e l’Unione Europea affrontino queste situazioni. Ma quale punto di vista adottare? Negli scorsi forum di preparazione e seminari si è parlato della necessità dell’Occidente di ritrovare la sua spiritualità, di fare riferimento ai valori che l’hanno portato ad assumere la leadership nella Storia, sia nella modernità che nell’epoca contemporanea, e che tanto hanno contribuito allo sviluppo della civiltà e del sapere nel mondo. I 28 Paesi che costituiscono la NATO oggi hanno il compito di guardare alla pienezza della vocazione dell’Organizzazione di cui fanno parte, che non consiste nella sola -per quanto importante e necessaria- pianificazione e applicazione di operazioni militari o nel dare voce agli interessi di alcuni partner (vedi Stati Uniti), ma nella necessità di dare spazio alla collaborazione politica, che porti ad un dialogo costruttivo soprattutto con la Russia, quale attore geopolitico di primaria importanza ai fini di una distensione dei punti di (dis)equilibrio che oggi destabilizzano il mondo. Se guardiamo all’Europa oggi, possiamo dire che essa è in crisi: manca una politica europea che sia capace di guidare congiuntamente l’azione delle Istituzioni europee e quella degli Stati membri. Forse l’Europa non sa cosa vuole: lo sanno gli Stati membri. Non a caso la definizione politica estera e di sicurezza comune è guidata da istituzioni a carattere intergovernativo, come il Consiglio europeo e il Consiglio, mentre la sua attuazione spetterebbe all’Altro Rappresentante, che però pare rappresentare una figura di basso peso politico: pensiamo all’accordo raggiunto a Minsk, dove si sono incontrati il presidente russo Vladimir Putin, il presidente ucraino Petro Poroshenko, e come rappresentanti per l’Europa, il presidente francese Francois Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel. In questo senso, fa pensare il criterio dell’unanimità come regola di votazione nelle sedi consiliari e l’esclusione della possibilità di adottare atti legislativi nel settore della PESC. L’Europa ha bisogno di una svolta nell’impostazione delle sue relazioni con il resto del mondo, se vuole tornare ad assumere un ruolo importante nello scenario internazionale. Per poter istituire lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia di cui si parla all’articolo 3 del Trattato sull’Unione Europea, come riformato a Lisbona, è necessario far riferimento a quanto affermato all’articolo 2 del medesimo Trattato, per il quale “L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”. In altre parole, diventa necessario cominciare a cogliere il punto di vista dell’altro, liberarsi dei pregiudizi culturali e non assumere posizioni integraliste. La sfida dell’Islam: Medio Oriente e Libia “Non basteranno armi e denaro contro al Baghdadi: dobbiamo essere in grado di proporre al mondo sunnita una narrazione alternativa e più convincente”1. Riprendo la citazione di Mario Giro, sottosegretario agli Affari Esteri, come base per una riflessione su quanto sta avvenendo in Libia e in Medio Oriente. La partita più difficile si gioca in questa regione. Qui geopolitica, equilibri internazionali, etnie e religioni si intrecciano in un groviglio di nodi difficile da sciogliere. A seguito dell’intervento militare americano in Iraq e Afghanistan dopo l’11 settembre 2001 e a causa delle primavere arabe, che hanno portato alla disgregazione dei regimi di paesi come la Tunisia, l’Egitto, la Siria, si è generato un vuoto politico, la cui conseguenza naturale è stata ed è tutt’ora il caos, di cui sta approfittando il gruppo di jihadisti guidati da al Baghdadi. Costoro stanno cercando di costruire uno Stato islamista nei territori di Iraq e Siria, sfruttando il desiderio degli arabi sunniti di liberarsi da vecchi gioghi geopolitici imposti dall’Occidente e di eguagliare la fazione sciita che già fa riferimento ad uno Stato, l’Iran. Un ruolo decisivo lo gioca il discorso religioso e la spinta che deriva dal mito dell’epoca d’oro del primo Islam. Quest’ultimo concetto, che ha molta presa specialmente nel reclutamento di giovani europei musulmani nella fila dei jihadisti, deriva dalla concezione wahhabita, corrente religiosa fondata da Ibn Abd al Wahhab (1703 – 1792), che guarda all’origine dell’Islam come paradigma a cui ciascun musulmano deve ispirarsi. Pertanto lo Stato Islamico propone una soluzione etnico religiosa, per stimolare sia la componente arabista che quella islamista ai fini di un suo consolidamento. L’organizzazione Jihadista si definisce uno Stato, delinea il su assetto intorno a giacimenti petroliferi, corsi d’acqua, villaggi e città importanti come Mossul e Raqqa e fonda il suo funzionamento sulla legge coranica. Ma il vero punto di forza dell’IS è la comunicazione, sia verso l’Occidente, impaurito e terrorizzato da quanto ci viene mostrato dai video di sua produzione, sia verso gli arabi sunniti, promettendo loro la costruzione di uno Stato e il raggiungimento della libertà, la fine dell’oppressione da forze straniere e interessi di geopolitica. Niente di nuovo, se pensiamo alla nostra storia e ai nazionalismi europei. 1 Mario Giro, La sfida che ci lancia lo Stato Islamico, Limes, 29.12.2014 http://temi.repubblica.it/limes/lasfida-che-ci-lancia-lo-stato-islamico/67586 In Libia la situazione non é molto diversa: il paese si trova nel caos, generato dal vuoto di potere dovuto al rovesciamento del regime di Gheddafi, che ha governato il paese dal 1969 fino al 2011, anno della sua morte. La situazione odierna è delicatissima e disastrosa. Ci sono due governi che si contendono il controllo del paese: quello di Tobruk ad Est, guidato da Abdullah al Thani, riconosciuto a livello internazionale e risultante dalle elezioni dello scorso giugno, anche se dichiarate nulle dalla Corte suprema libica, e quello di Tripoli, capeggiato da Omar al Hassi, che guida una colazione comprendente forze estremiste. La contrapposizione tra questi due governi ha radicalizzato il rifiuto reciproco l’uno dell’altro, tanto che nemmeno l’ultimo tentativo di mediazione da parte delle Nazioni Unite, verificatosi a gennaio, ha portato ad esiti positivi. La mancanza di una leadership politica unica per tutto il Paese, la debolezza delle strutture di governo e dei parlamenti delle due fazioni, ha facilitato l’emergere delle milizie che lottano per il controllo del territorio. Queste milizie sono l’espressione di interessi tribali e locali e includono formazioni jihadiste. Il governo di al-Thani ha appoggiato l’Operazione dignità della Libia, lanciata dalla milizia dell’ex generale Khalifa Haftar, il quale cerca di legittimare la sua posizione e il suo ruolo in Libia, combattendo le milizie jihadiste. Lo stato confusionale della situazione libica non permette di capire quante siano le forze riconducibili allo Stato Islamico presenti nel territorio e quanto stretto sia il rapporto con il nucleo originario di Iraq e Siria. Le forze operanti nel paese nord africano affermano di appartenere all’organizzazione dello Stato Islamico, che ora controlla città importanti come Derna e Sirte. Il rischio di un intervento militare è quello di acuire la frattura già esistente tra i due governi e l’instabilità del paese, anziché risultare punto di forza per la legittimazione interna del governo di Tobruk e per la risoluzione delle minacce jihadiste, che invece risulterebbero rafforzate nel loro fondamentalismo e nel loro obiettivo di continuare a combattere l’Occidente e l’imposizione dei suoi equilibri geopolitici. Come possono intervenire la NATO e l’Unione Europea? Quali sono le azioni strategiche che potrebbero rivelarsi utili ai fini di un miglioramento di queste situazioni? Un primo passo potrebbe essere quello di pianificare un’azione politica congiunta, per non lasciare soli i paesi che nel Medio Oriente o Nord Africa si trovano a combattere per la sussistenza dei propri Stati. Quanto meno in Libia, NATO ed Unione Europea potrebbero adoperarsi per ottenere un cessate il fuoco, in maniera diplomatica e, se necessario, militare. Operazioni di peace keeping potrebbero rivelarsi molto preziose ai fini della sicurezza dei civili, delle strutture governative, per l’installazione di depositi d’acqua, impianti elettrici e pozzi petroliferi. Ma soprattutto si auspica una soluzione politica della crisi libica, con un intervento programmato NATO – UE a sostegno del parlamento di Tobruk. Nel frattempo gli americani sono usciti allo scoperto e hanno dichiarato di essere pronti all’addestramento in Iraq di truppe irachene e curde per uno scontro diretto contro lo Stato Islamico, prima dell’estate, per riconquistare Mossul2. Simili operazioni stanno avendo luogo in Qatar, Giordania, Arabia Saudita, ma soprattutto in Turchia, dove il ministro degli esteri turco Sinirlioglu e l’ambasciatore americano in Turchia, John Bass, hanno firmato un accordo per l’addestramento, che dovrebbe cominciare nel mese di 2 Lolita Baldor, Official: Mission to retake Mosul to begin in April, May, Associated Press 19.2.2015 http://bigstory.ap.org/article/9f9586c2577d49b2b4ca0d1b7ecfe825/official-mission-retake-mosul-beginapril-may marzo, di forze ribelli moderate in Siria, pronte a combattere sia lo Stato Islamico che il regime di Assad. Al di là delle operazioni militari, risulta fondamentale cominciare a percepire il punto di vista di chi ci combatte. Gli estremisti islamici vedono nell’occidente un mondo corrotto, che pensa solamente all’espansione e consolidamento dell’economia capitalistica e finanziaria delle banche. L’Europa, cosi come gli Stati Uniti, hanno bisogno di mostrare quanto sia forte la loro democrazia, senza cadere nella provocazione di mostrarsi nelle virtù militari, tramite una politica di potenza. Per rispondere alle minacce dell’Isis, l’Occidente deve mostrare il lato positivo della globalizzazione economica e può farlo solamente con politiche economiche che non accentuino le differenze di ricchezza tra Stati industrializzati e Stati in via di sviluppo. Globalizzazione deve significare prendere coscienza delle differenze che esistono nel mondo tra popoli e culture diverse e non considerarle un peso o un ostacolo ai fini di un maggior arricchimento economico, ma spazio di sviluppo e consolidamento di una maggiore solidarietà e dialogo tra i popoli. Se l’Occidente vuole vincere questa battaglia, non può mostrare il volto di un integralismo culturale (la supremazia dell’Occidente sull’Oriente), che fa il gioco del nemico che si vuol vincere. Né ci si può limitare a parlare di scontro di civiltà, perché questo significherebbe rinnegare i valori europei sintetizzati all’art. 2 TUE. Il Mediterraneo e l’immigrazione Il tema della stabilità politica si collega inevitabilmente a quello dell’immigrazione, che vede l’Europa, con l’Italia in prima fila, coinvolta dai flussi di persone che, in condizioni disumane sono costrette ad affrontare viaggi, che purtroppo non sempre garantiscono l’arrivo nei luoghi di destinazione. La guerra civile in Libia ha portato ad un aumento dei flussi migratori e questo ha comportato un problema verso il quale l’atteggiamento dell’Europa è stato tutt’altro che coerente con i principi europei di solidarietà, non discriminazione, uguaglianza e ha evidenziato una mancanza di una politica comune sull’immigrazione, frutto del diverso modo di percepire e pensare alla responsabilità dei flussi migratori nel Mediterraneo. Dall’ottobre 2013, l’Italia, con l’operazione Mare Nostrum, guidata dalla Marina militare e durata fino al primo novembre 2014, ha soccorso circa 100.250 persone, arrestato più di 728 scafisti e sequestrato 6 navi. Tuttavia emergono anche i dati negativi che riguardano i 499 morti nelle operazioni di salvataggio, i 1446 presunti dispersi e i 192 cadaveri da identificare. Il costo necessario per affrontare questa operazione è stato di 114 milioni di euro in un anno, 9.5 mensili. L’Europa ha deciso di muoversi attraverso Frontex, l’agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione Europea, venuta alla luce con il regolamento del Consiglio 2007/2004, che ha inaugurato l’operazione Triton, a partire dal primo novembre 2014 e in sostituzione di Mare Nostrum. Ma la spesa che l’agenzia europea delle frontiere affronterà per sostenere questa operazione è di 3,5 milioni di euro mensili ed essa non si spingerà oltre la frontiera Italiana (fino a 30 miglia dal litorale italiano), mentre Mare Nostrum operava quasi fino ai confini della Libia. Il paese ospitante l’operazione è l’Italia, che per questo motivo riceverà le navi intercettate. Triton schiererà ogni mese due navi d’altura, due navi di pattuglia costiera, due motovedette, due aerei ed un elicottero. Tra i paesi partecipanti oltre l’Italia (che mette a disposizione un aereo, un pattugliatore d’altura e due costieri) ci sono l’Islanda (con una nave) e la Finlandia (con un aereo). Il centro di coordinamento internazionale dell’operazione è stabilito presso il Comando aeronavale della Guarda di finanza a Pratica di mare (Roma). I mezzi Frontex partiranno da due basi: Lampedusa e Porto Empedocle e pattuglieranno il Canale di Sicilia ed il mare davanti alle coste calabresi fino a 30 miglia dal litorale italiano. La scarsità dei mezzi messi a disposizione stride con la gravità della situazione. Di fronte alla morte di migliaia di persone e alla criminalità organizzata che sfrutta situazione di guerre civili per imbarcare illegalmente le persone, l’Europa risponde con misure restrittive, dedite alla salvaguardia dei confini, ma non offre soluzioni a chi ne avrebbe bisogno. In questa battaglia è in gioco la credibilità dell’Europa, perché il problema della migrazione non può essere solamente a carico di chi ne percepisce gli effetti in prima battuta, proprio come l’Italia. E’ l’Europa che è chiamata a rispondere usando le sue carte migliori, applicando i suoi valori verso gli emigranti, e non giocando di rimessa, adottando un’ottica di spending review o di eccessiva sicurezza preventiva. All’Europa ora spetta mostrare quanto i suoi principi siano solidi e aperti al resto del mondo. La Russia La sicurezza in Europa vede la Russia come attore principale, accanto (anche se sarebbe più realistico dire in opposizione) alla NATO e all’Unione Europea. Non c’è dubbio che gli eventi che dall’aprile dello scorso anno hanno avuto luogo in Ucraina hanno influito e stanno influendo sull’andamento delle relazioni tra la Russia e l’Occidente. I toni sono molto tesi. Putin3 ha recentemente descritto la NATO come il principale nemico della Russia, mentre il vice segretario generale della NATO, Alexander Vershbow, non ha usato dolci parole per raffigurare il comportamento della Russia: ha parlato di aggressione e ha ribadito che il modus operandi messo in atto da Mosca non riflette la strategia adottata solo per l’Ucraina, ma più in generale quella degli ultimi anni4. L’accordo di Minsk, entrato in vigore dal 15 febbraio e sottoscritto dal presidente russo Putin, da quello ucraino Poroshenko, dalla cancelleria tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Francois Hollande, oltre ad aver sottolineato l’assenza di peso politico delle istituzioni europee, (nessuna delle quali era presente alla sottoscrizione dell’accordo) ha ottenuto un cessate il fuoco nella regione del Donbas, Ucraina dell’Est, tra l’esercito di Kiev e le armate dei separatisti filorussi. Il fantasma che appare all’orizzonte è quello dell’accordo già trovato a settembre sempre a Minks, ma mai rispettato. La posta in gioco è molto alta. Da un punto di vista militare, si sta lavorando per il ritiro delle armi pesanti da entrambi le parti e delle truppe straniere impegnate nel conflitto; ulteriori sforzi sono previsti per il rilascio dei prigionieri e la fornitura di aiuti umanitari. Parte dell’accordo riguarda l’assetto dell’Ucraina: gli obiettivi prefissati sono, entro la fine dell’anno, la stesura di una nuova costituzione, che introduca la decentralizzazione e statuti speciali per le regioni di Donestk e Lugansk, sotto il controllo dei filorussi, e l’impostazione di un dialogo politico, che porti ad una definizione dei confini nazionali da parte del governo ucraino. Il tutto avverrà con il costante monitoraggio del cessate il fuoco da parte dell’OCSE. Molte sono, nel mondo occidentale, le preoccupazioni per lo stato della tregua. L’Europa deve inevitabilmente fare i conti con il rifornimento energetico, di cui la Russia è il suo principale fornitore, mentre gli Stati Uniti stanno cercando di risolvere questo problema attraverso lo Shale Gas (che però è più una scommessa, che una alternativa). L’esacerbarsi dei rapporti tra NATO e Russia ha portato gli Stati Uniti a parlare di un eventuale invio di 3 4 Putin, Consiglio di sicurezza russo del 26 dicembre 2014 Alexander Vershbow ,Oslo, 2 febbraio 2015 http://www.nato.int/cps/en/natohq/news_117068.htm armi all’esercito ucraino, qualora il cessate il fuoco non perduri. Ma ciò potrebbe portare ad una escalation del conflitto e ad un sostanziale irrigidimento (qualora ce ne sia ancora il bisogno) delle relazioni tra la Russia e paesi europei e l’intero sistema NATO. Gli Stati Uniti, in particolare, hanno dichiarato di essere disposti anche all’addestramento dell’esercito di Kiev, che fino ad ora non si è mostrato sufficientemente attrezzato per sconfiggere le forze separatiste russe. Ma a quest’atteggiamento, se ne contrappone uno più cauto di Francia, Germania, Gran Bretagna, le quali non vorrebbero diventare i principali e prossimi protagonisti di un conflitto contro la Russia. La quale sta facendo la voce grossa anche nei paesi baltici per ribadire, nonostante l’appartenenza alla NATO di Lituania, Lettonia ed Estonia dal 2004, che quella zona è ancora d’influenza sovietica. Non c’è bisogno di ulteriori dichiarazioni sulla disponibilità ad utilizzare armi, anche nucleari, per capire che Russia e NATO (o meglio Stati Uniti) siano disposti ad intervenire e mostrare la propria forza per risolvere il conflitto. Ma quello che ci si chiede è se effettivamente questo sia il metodo giusto o più efficace. Non sarebbe più opportuno che l’Occidente (USA) riconoscesse che la politica del contenimento non può avere luogo in questa fase storica nei confronti dei suoi avversari? Che non ci si trova più in una fase di contrapposizione tra fazioni completamente contrapposte? Non sarebbe più saggio riconoscere le sfere d’influenza della Russia e cercare di avviare dialoghi politici volti al mantenimento della pace piuttosto che ricorrere alla politica di potenza? Forse questo atteggiamento faciliterebbe anche il quieto svolgersi del mercato energetico, con Europa e Stati Uniti impegnati proprio in Medio Oriente e in Russia. IL RAPPORTO TRA UNIONE EUROPEA E NATO: PROBLEMATICHE E POSSIBILI SOLUZIONI Dott.ssa Federica Cocivera Vorrei principalmente incentrare l’attenzione su alcuni punti cruciali del rapporto tra Unione Europea e Nato in tema di sicurezza. Oggi più che mai , infatti, assistiamo ad un aumento esponenziale delle minacce alla pace ed alla sicurezza internazionale. Il processo di globalizzazione è entrato a tutti gli effetti nelle nostre vite, ed è purtroppo entrato anche attraverso il terrorismo, di conseguenza, come esaustivamente affermato nel seminario di apertura, “Non si tratta più di un concetto astratto e ci introduce in un mondo dai contorni incerti”. Quindi è evidente come la sicurezza internazionale debba essere perseguita con tutti i mezzi possibili: - in primis con una efficace diplomazia preventiva, (e soprattutto oggi in Libia notiamo quanto questa sia importante e rilevante per cercare il più possibile di prevenire interventi militari, che invece sarebbero un grande rischio per le democrazie occidentali. Difatti un’ azione con finalità di peacekeeping oggi sarebbe impossibile, perché le milizie non accetterebbero di sottomettersi ad una forza militare e ci sarebbero atti ritorsione), - in secondo luogo rileva come sia importante il rafforzamento di organizzazioni, quali appunto Nato e UE. L’Unione europea e la Nato percorrono da anni un cammino di avvicinamento reciproco, a partire dal vertice di Washington del 1999, in cui l’UE rese manifesta l’esigenza di dotarsi di un’autonoma capacità logistica delle situazioni di crisi ed in cui l’Alleanza Atlantica rendeva disponibile le proprie capacità di pianificazione agli alleati europei. La ridefinizione dei rapporti tra Nato ed Unione Europea , oggi ha assunto un aspetto cruciale. Molti però sono ancora i nodi da sciogliere . In primo luogo, la divisione dei compiti e delle responsabilità, ma anche la carenza di un dialogo politico ed istituzionale, ed ancora la mancanza di un chiaro coordinamento e di cooperazione a livello pratico tra le due organizzazioni nella gestione delle situazioni di crisi. Ci troviamo di fronte ad un momento cruciale, lo si è visto nell’attuale vicenda in Ucraina, ma anche in Libia, le quali stanno mettendo in chiara luce le debolezze, le fragilità e soprattutto le modifiche che devono essere apportate a questo sistema di rapporti. Sicuramente gli “Accordi Berlin Plus”, e successivamente l’individuazione delle cosiddette “missioni di Petersberg”, incluse all’articolo 17 del Trattato sull’Unione Europea, hanno costituito un passaggio chiave nel progresso in tal senso, in quanto rappresentano un tentativo di superamento delle problematiche indicate, ma l’esplosione delle rivolte nel Medio Oriente ha stigmatizzato, oltre l’inadeguatezza del tradizionale approccio dell’Unione Europea nei confronti del Mediterraneo, anche la fragilità della sua azione esterna e le difficoltà nello svolgere un ruolo incisivo. La stessa gestione della crisi libica ha messo in luce le debolezze dell’Alleanza Atlantica. Varie infatti sono le strategie, una francese, una statunitense, una italiana e non risulta sempre di facile realizzazione il raggiungimento di un obiettivo comune. Sicuramente la crisi libica, e di conseguenza la gestione europea delle ondate di immigrati che approdano sulle coste italiane, stanno influenzando non poco la credibilità sia della Nato che dell’Unione Europea, che, come sappiamo, vengono sempre giudicate in base a come lavorano e soprattutto a come viene percepita la loro presenza sul territorio. Il partenariato tra UE e Nato nella gestione delle crisi si è sempre basato su valori comuni e sulla indivisibilità della dimensione della sicurezza. Mentre la Nato rimane la base della difesa collettiva dei suoi membri, la Politica di Sicurezza e difesa comune (PSDC) ha ottenuto la capacità di utilizzare strumenti già a sua disposizione per far fronte alle situazioni di crisi. Tuttavia, in materia di cooperazione tra UE e Nato spesso è stato difficile individuare un’agenda comune, dovuto anche a meccanismi di raccordo spesso oggetto di veti incrociati. Il caso più eclatante è il veto della Turchia sulla partecipazione di Cipro agli incontri Nato-UE. Per quanto riguarda, invece, la cooperazione operativa tra le due organizzazioni, sembra questa essere maggiormente efficace, ma, anche in questo caso, varie sono le difficoltà che si sono sollevate, quali ad esempio quella di intervenire tempestivamente, dato che le due istituzioni devono preventivamente accordarsi sulle strategie da adottare. Un ulteriore aspetto da analizzare riguarda la cooperazione tra Unione Europea e Nato in materia di antiterrorismo, che, soprattutto oggi, rimane problematica. Come sottolineato precedentemente, l’UE tende a incentrare la propria attività principalmente nelle politiche di sicurezza, nonché nel campo della lotta al terrorismo internazionale, mentre la Nato vanta un approccio immediato e consolidato ad attacchi di tale natura. Dal momento che la minaccia del terrorismo è sempre più in evoluzione, anche l’impegno europeo per contrastarla deve evolversi, affinché possa anticipare tali tipologie di minacce. Il miglioramento delle capacità di cui ha bisogno l’Europa non deve contrapporsi ai poteri della Nato, ma deve condurre al miglioramento qualitativo dei centri di comando e dei sistemi di difesa, cambiamenti, sia di tipo strategico che di tipo tattico. L’Europa sembra soffrire gli stessi problemi della politica estera comune, ossia troppo limitate deleghe di porzioni della sovranità nazionale da parte degli Stati, che temono una eccessiva discrezionalità. Si è sentita inoltre l’esigenza, da più acclamata, della costruzione di una forza militare europea, per superare i limiti che i singoli Stati incontrano e per realizzare una politica di sicurezza e difesa che sia all’altezza delle sfide attuali. La presenza di un esercito europeo potrebbe, difatti, conferire alla Nato maggiore forza , e consentire , invece, all’Unione Europea di avere maggiore presenza politica in ambito internazionale. Quindi l’Unione Europea dovrebbe sì avere un approccio civilistico integrato e rafforzato per il mantenimento dell’ordine pubblico, ma allo stesso tempo dovrebbe avere anche una componente militare che mantenga la sicurezza e pianifichi le operazioni. Sicuramente, non soltanto l’UE ma anche la Nato presenta dei limiti strutturali che rendono fondamentale un rafforzamento della responsabilità strategica dell’Unione Europea nel medio e lungo termine. I numerosi tagli che alcuni Stati Membri hanno apportato alle spese militari non hanno però portato a passi aventi significativi. Lo stesso Parlamento Europeo ha manifestato la necessità di creare un maggior rafforzamento dei rapporti tra Unione Europea e Nato, che dovrebbero appunto sviluppare una cooperazione più solida nelle operazioni di gestione delle crisi, che si basi su una migliore gestione delle attività, nonché sulla creazione di strutture di cooperazione permanente (che comunque non pregiudichino la natura autonoma ed indipendente di entrambe le organizzazioni). Ciò consentirebbe infatti di apportare un efficace aiuto nelle attuali situazioni di crisi, senza mettere da parte la partecipazione di tutti i membri Nato. Attualmente, quindi, per l’Unione Europea e la Nato, la via migliore risulta essere quella di sincronizzare al meglio i processi di sviluppo delle proprie capacità militari e di cooperazione, in modo da evitare qualsiasi futura ripercussione sulla sicurezza in ambito europeo ed internazionale, e soprattutto rimuovere gli ostacoli politici che vi si frappongono. SVILUPPI RECENTI Dott.ssa Giulia Fossi Io vorrei, invece, soffermarmi sugli sviluppi più recenti della Nato e dell’Ue in materia di sicurezza e difesa, rilevandone le principali criticità e potenzialità. Questo nell’ottica, soprattutto, di animare un dibattito attorno al futuro rapporto tra le due Organizzazioni e agli scenari possibili. Nato Partendo dalla Nato, va subito rilevato come sia cambiato il suo ruolo a partire dalla fine della Guerra Fredda. Venuto meno il nemico sovietico che aveva costituito la principale ragion d’essere dell’Alleanza ha iniziato a delinearsi una sua proiezione esterna con prospettive di una Nato sempre più globale, impegnata in azioni che andavano al di là della tradizionale difesa territoriale. Questa nuova tendenza è evidente a partire dal Concetto Strategico del 1991 e del 1999. La Nato si è inoltre aperta ai Paesi dell’ex blocco sovietico che hanno mostrato una certa propensione ad entrare nell’Alleanza come garanzia di sicurezza da eventuali rivendicazioni territoriali da parte della Russia. Dalla prospettiva dell’Alleanza questo allargamento verso est ha risposto alla doppia esigenza di contribuire al consolidamento delle istituzioni democratiche dei Paesi ex satelliti dell’URSS e alla riduzione del rischio di conflitti in Europa. Questo ha comportato l’entrata di diversi Paesi dell’Europa orientale e delle tre Repubbliche baltiche. Ad oggi il ruolo della Nato è definito dal Nuovo concetto strategico del 2010 che si basa sull’idea che l’attuale scenario geopolitico mondiale è in continuo mutamento e che la sicurezza dell’area europea e nord-atlantica è minacciata da molteplici fattori di criticità; tra quest’ultimi le crisi regionali diffuse, le minacce terroristiche e cibernetiche, la criminalità organizzata, le interruzioni dei flussi di risorse energetiche, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, l’instabilità permanente di alcune realtà statuali e l’emersione di nuove forme di minacce denominate ibride. Nel sottoscrivere questo documento i Capi di Stato e di Governo hanno voluto inviare un messaggio politico rimarcando l’importanza del legame euro-atlantico, riaffermando la missione principale della Nato: “Prevenire le crisi promuovendo la stabilità internazionale prima che le criticità geostrategiche mettano in crisi la sicurezza dei 28 Alleati”. Ed è proprio su questo ruolo “globale” della Nato che si è aperto un intenso dibattito tra il gruppo dei Paesi favorevoli a tale tipo di approccio, quelli più propensi alla difesa collettiva del territorio euro-atlantico ed un terzo gruppo orientato su una posizione intermedia. Il nuovo Concetto strategico ha ridisegnato il futuro dell’Alleanza essenzialmente attorno a 3 pilastri: la difesa collettiva ,e quindi l’art. 5 del Trattato di Washington, che rimane il vero core business dell’Organizzazione, questo soprattutto a causa degli avvenimenti del decennio 1999-2009, in particolare l’11 settembre che ha rimesso in luce la vitalità di questo principio per i Paesi membri; il secondo pilastro è stato individuato nella gestione delle crisi, basata sempre di più su un approccio multidimensionale, il cosiddetto comprehensive approach (integrazione dei compiti civili e militari). Questo perché di fronte alla nuove crisi e minacce che sono spesso di natura ibrida e asimmetrica la capacità militare non può più costituire l’unico strumento per fronteggiare queste situazioni; infine la sicurezza cooperativa, da attuarsi attraverso l’istituzione di partenariati con altre Organizzazioni e Paesi esterni all’Alleanza Atlantica, e che mira alla stabilità del panorama internazionale. A tal fine, ad esempio, la Nato a partire dagli anni ’90 ha sviluppato partenariati internazionali in Europa, Asia centrale, nel Mediterraneo e nel Golfo e ha rafforzato il dialogo e la cooperazione con i tradizionali partner dell’Asia e dell’Oceania come il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e la Nuova Zelanda (i cosiddetti Paesi amici). L’obiettivo è quello di rafforzare la sicurezza in Europa, assistendo i Paesi non membri nella riforma del settore sicurezza e difesa secondo gli standard della Nato e creando meccanismi di cooperazione contro le nuove minacce regionali e globali. Questo tuttavia non ha comportato delle garanzie di sicurezza ma soltanto di collaborazione. Tra questi partenariati ricordiamo il Partenariato per la pace, aperto a tutti i Paesi non membri dell’area euro-asiatica che è uno strumento per l’avvicinamento agli standards della Nato dei Paesi dell’ex blocco sovietico e dei Balcani; esso si traduce essenzialmente in una serie di accordi bilaterali. Il Dialogo Mediterraneo che ha interessato i Paesi della sponda sud del Mediterraneo; l’Iniziativa di cooperazione di Instanbul con i membri del Consiglio di cooperazione del Golfo. Di fronte a queste nuove tendenze emergono tuttavia non poche criticità. Per quanto riguarda i partenariati, per esempio, bisogna rilevare che fin’ora non hanno portato a grandi risultati a causa di una serie di divergenze politiche (per es. diverse posizioni sul conflitto israelo-palestinese) e per la mancanza di una visione condivisa dei problemi di sicurezza regionali; in più i Paesi arabi non vogliono interferenze da parte dei Paesi occidentali nei loro affari internazionali. Inoltre le nuove missioni di mantenimento della pace e di gestione delle crisi hanno posto molti interrogativi: per esempio, se e in quali circostanze l’Alleanza possa agire anche in assenza di un mandato dell’ONU (si veda per es. l’intervento nella ex Jugoslavia o in Libia); come realizzare un’equa e funzionale divisione degli oneri e delle responsabilità fra gli alleati (emblematico il caso dell’Afghanistan) > dislivello di impegno che crea nuovi contrasti all’interno dell’Alleanza; come garantire un coordinamento e delle sinergie adeguate con le altre organizzazioni internazionali impegnate sul terreno e di qui l’esigenza di rafforzare i legami istituzionali/operativi con l’Ue, con l’OSCE e l’ONU; c’è poi un problema di legittimità politica: per esempio in Medio Oriente, gli attori locali potrebbero preferire collaborare con altre organizzazioni, come l’ONU o la stessa Ue, specie se si trovano in contrasto con gli USA su alcune questioni. Anche riguardo alle capacità c’è bisogno dell’aumento delle forze schierabili sia per missioni ex art. 5 sia per le missioni “fuori area” (basti pensare che il personale militare non schierabile si aggira oggi attorno al 70% del totale). A questo scopo si è pensato di dotare la Nato di un corpo di spedizione stabile: la Nato Response Force, forza multinazionale di rapido impiego con personale specializzato in grado di far fronte a diversi compiti (gestione delle crisi, antiterrorismo..). Questa però ha mostrato più le sue debolezze che le potenzialità, in particolare a causa della scarsità di truppe disponibili, della competizione con le forze di reazione rapida dell’Ue (battlegroups) e della presenza fondamentale degli USA (è solamente quando gli USA hanno acconsentito a mettere le proprie truppe a disposizione della Nrf che è stato possibile dichiararne l’operatività), la scarsità di equipaggiamento militare, l’indefinitezza dei compiti ed infine la necessità di una maggiore civil-military cooperation. Un altro problema riguarda il finanziamento di queste missioni: è difficile trovare un metodo alternativo al principio costs lie where they fall (ovvero ogni Paese partecipante si fa carico dei propri costi di partecipazione). Problema del processo decisionale: avviene per consensus e quindi vige la regola dell’unanimità. È stata proposta della clausola opt-out (il Paese che non desidera partecipare si astiene dalla votazione, evitando di esercitare il veto) per rendere più facili gli interventi per i Paesi che vogliono intervenire. C’è poi la questione dell’allargamento che causa non pochi problemi, per esempio l’entrata della Macedonia bloccata dal veto della Grecia; ci sono poi molte divisioni interne sull’entrata di Ucraina e Georgia (USA e Paesi dell’Europa orientale favorevoli, Paesi continentali come Francia, Italia, Spagna, Grecia, Germania contrari perché vorrebbero evitare nuove tensioni con la Russia e poi in gioco c’è anche la sostenibilità del principio di difesa collettiva > il coinvolgimento e l’adesione di Paesi internamente fragili e instabili e con contenziosi aperti con la Russia non sembra rafforzare la sicurezza degli altri Paesi membri ma anzi potrebbe generare nuove tensioni). Ed infine il rapporto con la Russia che, nonostante alcuni progressi come la creazione del Consiglio Nato-Russia nel 2002 e la cooperazione su alcune tematiche come il terrorismo e la missione in Afghanistan , è caratterizzato da continui alti e bassi e probabilmente su alcune questioni continuerà a rimanere problematico, come per es. la competizione tra Russia e Paesi occidentali per l’influenza economica/politica in Europa orientale; il processo di allargamento della Nato; i contrasti sul controllo degli armamenti, in particolare sull’attuazione della versione rivista del Trattato sulle forze armate convenzionali che non è stata ratificata dai membri della Nato a causa del mancato ritiro delle truppe russe dalla Moldavia e dalla Georgia (la disputa sul trattato Cfe si è ulteriormente inasprita nel luglio 2007, quando Putin ha deciso di sospenderne a tempo indefinito l’attuazione da parte russa in risposta al piano americano di difesa antimissile); potrebbero emergere dispute territoriali nella regione artica. UE Per quanto riguarda l’Ue, negli ultimi 2 decenni sono stati compiuti molti sforzi in termini finanziari e politici nell’ambizioso progetto di sviluppare una propria dimensione europea in materia di sicurezza e difesa. Il risultato è stato la creazione all’interno della Pesc della Politica europea di sicurezza e difesa comune (Pesd) i cui obiettivi principali sono la creazione di capacità militari per effettuare operazioni all’estero, questo perché dalla metà degli anni’90, in particolare con le guerre balcaniche, è diventato evidente che lo strumento della difesa collettiva in Europa fosse slittato dalla difesa territoriale all’intervento all’estero in operazioni di ristabilimento della pace o stabilizzazione; l’integrazione dei mercati europei dei prodotti di difesa, un ambito ancora critico poiché questo campo è rimasto per lo più di competenza nazionale. I principali organi a livello politico sono il Consiglio affari generali e relazioni esterne (Cagre), opportunamente affiancato dall’Alto rappresentante/segretario generale (Ar/Sg) e dal Comitato politico e di sicurezza (Cops) che ha il compito di proporre linee guida e opinioni al Cagre in materia di Pesc/Pesd. Per gli aspetti militari ricordiamo il Comitato militare, lo Stato maggiore (all’interno di questo è stata creata la Cellula civile-militare per garantire l’approccio integrato delle missioni) e il Gruppo politico-militare; per la componente civile il Comitato responsabile per gli aspetti civili di gestione delle crisi e la Capacità civile di pianificazione e condotta. Io ne ho citati solo alcuni ma approfondendo le funzioni e le responsabilità dei vari organi si delinea un quadro piuttosto complesso in cui spesso non si capiscono le competenze specifiche di ognuno e questo ha portato a diversi problemi di sovrapposizione di compiti e coordinamento. Le missioni Pesd si dividono in civili, militari e integrate. Hanno in genere una portata modesta, quella più impegnativa è la missione Althea in Bosnia e unica nel suo genere è la missione marittima dell’Ue del 2008 in Somalia per combattere la pirateria. La catena di comando può variare a seconda che la missione venga condotta dall’Ue in cooperazione con la Nato (in questo caso al comando della missione è posto il vice-Comandante supremo della Nato) oppure autonomamente (in questo caso si utilizza il meccanismo della Nazione-quadro oppure, nel caso in cui non si riesca ad individuare un Quartiere generale presso gli Stati membri, l’Operations Centre attivabile all'interno della Cellula civile-militare). Il Trattato di Lisbona ha introdotto alcune novità significative: ampliamento dei compiti di Petersberg, laddove per es. si è aggiunto la lotta al terrorismo che è individuato dalla Strategia europea di sicurezza del 2008 come una delle principali minacce; la clausola di solidarietà, prevista dall’art. 222 del TFU: “L'Unione e gli Stati membri agiscono congiuntamente in uno spirito di solidarietà qualora uno Stato membro sia oggetto di un attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall'uomo”; la clausola di assistenza reciproca, prevista all’art. 42.7 TUE che dice che “Qualora uno Stato membro subisca un'aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite”. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri. Gli impegni e la cooperazione in questo settore rimangono conformi agli impegni assunti nell'ambito dell'Organizzazione del Trattato del Nord-Atlantico che resta, per gli Stati che ne sono membri, il fondamento della loro difesa collettiva e l'istanza di attuazione della stessa”; la cooperazione rafforzata permanente che permette agli Stati che possiedono particolari requisiti in termini di capacità militare di intraprendere iniziative in ambito di difesa. Questa novità è importante perché per costituire questa forma di cooperazione è necessaria la maggioranza qualificata, rispetto alla regola dell’unanimità che vige in ambito Pesd. E’ stata inoltre istituita l’Agenzia europea per la difesa, con lo scopo di sviluppare una politica comune nel campo degli armamenti attraverso la promozione e l’avvio di programmi congiunti, l’armonizzazione dei requisiti militari e l’integrazione delle attività di ricerca e sviluppo. Alcune criticità: sviluppo irregolare della Pesd a causa delle diverse correnti (atlantismo vs europeismo), ancora una volta si tratta prima di tutto di un problema di integrazione politica; la Pesd si è sviluppata essenzialmente come strumento di gestione delle crisi e prevenzione dei conflitti; gli obiettivi e i compiti militari della Pesd sono stati molto ampliati dal Trattato di Lisbona (si è aggiunta per es. la lotta al terrorismo che ha portato alla definizione di una Strategia per la lotta la terrorismo) e dalla Strategia europea di sicurezza (2003) > ampliamento dei compiti della componente civile/militare + globalizzazione del loro raggio di azione. Infine c’è il problema della capacità: gli Stati membri differiscono in termini di personale specializzato, tecnologia, spese per la difesa ecc. > l’Helsinki Headline Goal (progetto nato nel corso di una seduta del Consiglio europeo del dicembre 1999) prevedeva di dotare l’Ue di una Forza di reazione rapida entro il 2003 (60.000 soldati impiegabili entro 60 giorni dalla decisione di lanciare la missione e con una sostenibilità di un anno per svolgere i compiti di Petersberg). L’attenzione si è poi spostata sugli obiettivi qualitativi più che quantitativi: interoperabilità, schierabilità, sostenibilità delle forze > è stato introdotto il concetto di battlegroup (unità di combattimento di circa 1.500-2.200 effettivi, schierabili entro 15 giorni e in grado di rimanere sul campo per un mese sulla base del principio di rotazione semestrale). Lacune più marcate delle capacità militari dell’Ue: trasporto strategico, le attività di comando/controllo/comunicazioni/intelligence, problemi di sostenibilità del personale (natura non-permanente del personale e principio di rotazione dei battlegroups), problemi di coordinamento nella formazione del personale sia civile sia militare, di coordinamento della presenza Ue sul campo (i rappresentanti speciali dell’Ue non sono integrati nelle catene di comando), problemi di coordinamento della componente civile e militare, problema dell’integrazione dell’industria della difesa europea che è ancora sviluppata principalmente a livello nazionale (Francia, Germania e UK vorrebbero + integrazione dei mercati) > nel 2004 è stata istituita l’Agenzia europea per la difesa (ha l’obiettivo di sviluppare una politica comune nel campo degli armamenti attraverso la promozione e l’avvio di programmi congiunti, l’armonizzazione dei requisiti militari e l’integrazione delle attività di ricerca e sviluppo). Sono stati fatti dei passi avanti con il “Pacchetto sicurezza” della Commissione europea. Alla luce delle nuove tendenze della Nato e dell’Ue e delle rispettive criticità, che scenari futuri possiamo immaginare? L’Ue ha ancora bisogno della Nato? È comunque importante che l’Ue sviluppi una propria autonomia in termini di difesa e sicurezza o dovrebbe sfruttare maggiormente le strutture già esistenti della Nato? Ci sarà sempre una certa collaborazione tra le due organizzazioni in alcuni settori e una certa competizione in altri? 14 Aprile 2015 SPAZIO EUROPA ore 16.00 PARLAMENTO EUROPEO / COMMISSIONE EUROPEA “POLITICHE PER LO SVILUPPO: RIGORE O FLESSIBILITA’ ” Saluto : Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI Introduzione al Forum: Prof. Fabrizio Saccomanni – Vice Presidente IAI Docente alla London School of Economics Coordinatore: Amb. Gianfranco Varvesi – Comitato Scientifico AESI Amb. Roberto Nigido – Presidente Circolo Studi Diplomatici e Comitato Scientifico AESI Prof. Giovanni Palmerio – Docente di Economia Politica Cons. Antonia Carparelli – Consigliere Economico della Rappresentanza della Commissione Europea in Italia Modera: Dott. Tomasz Koguc – Vice Direttore AESI Saluto del Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI Vorrei aprire il mio indirizzo di saluto mettendovi in guardia da un’economia dell’esclusione e della inequità. Dobbiamo reagire ad una visione dell’uomo e della donna che dipendono da questa economia che uccide. Oggi sembra che tutto entri nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. AESI FORUM PRESSO OCSE DI PARIGI - 16/17 Aprile 2015 Siamo appena rientrati dall’OCSE di Parigi che ha ospitato un FORUM AESI coordinato con l’Ambasciatore Italiano Gabriele Checchia (vedi foto). Desidero prendere spunto ancora e citare per voi alcune parole di questo Documento (Evangelii Gaudium di Papa Francesco) che sono per noi motivo di riflessione e deciso impegno nel cambiare quanto non và nella nostra comunità internazionale: “In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri, né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea e che non ci compete. La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo. Mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole. Inoltre, il debito e i suoi interessi allontanano i Paesi dalle possibilità praticabili della loro economia e i cittadini dal loro reale potere d’acquisto. A tutto ciò si aggiunge una corruzione ramificata e un’evasione fiscale egoista, che hanno assunto dimensioni mondiali. La brama del potere e dell’avere non conosce limiti. In questo sistema, che tende a fagocitare tutto al fine di accrescere i benefici, qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta. All’etica si guarda di solito con un certo disprezzo beffardo. La si considera controproducente, troppo umana, perché relativizza il denaro e il potere. La si avverte come una minaccia, poiché condanna la manipolazione e la degradazione della persona. Una riforma finanziaria che non ignori l’etica richiederebbe un vigoroso cambio di atteggiamento da parte dei dirigenti politici, che esorto ad affrontare questa sfida con determinazione e con lungimiranza, senza ignorare, naturalmente, la specificità di ogni contesto. Il denaro deve servire e non governare!” Cosa farà l’AESI con i suoi giovani, con le sue attività seminariali ed i Forum Internazionali ? Ci impegneremo per una solidarietà disinteressata e per un ritorno di una economia e di una finanza ad un etica in favore dell’essere umano! Intervento della Dott.ssa Antonia Carparelli – Consigliere Economico della Rappresentanza della Commissione Europea in Italia Intervento del Prof. Giovanni Palmerio – Docente di Economia Politica e Comitato Scientifico AESI Il rigore e la flessibilità non sono in contrasto tra di loro, ma la questione deve essere approfondita. Iniziamo dal rigore: nessun Paese può realisticamente pensare di pagare gli stipendi e le pensioni (in generale la spesa corrente) con l’indebitamento pubblico; certamente non può farlo nel lungo periodo. Prima o poi tale debito incontrerebbe gravi difficoltà di collocamento sui mercati finanziari e i tassi di interesse crescerebbero sempre di più con il rischio concreto di portare la situazione fuori controllo. Né è realistico immaginare l’introduzione di controlli sui movimenti di capitali o di un prestito forzoso o di misure analoghe. Pertanto la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL deve passare attraverso uno stimolo alla crescita, la riduzione e soprattutto la riqualificazione della spesa pubblica e una diminuzione della pressione tributaria e contributiva che opprime il nostro sistema produttivo. Detto questo, però, occorre rilevare che ogni Paese dell’Unione Europea ha le sue specificità, che riguardano non solo la sua identità e le sue tradizioni culturali, ma anche la struttura del sistema economico. E dare ricette di politica economica identiche per i 28 Paesi dell’Unione Europea (o anche solo per i 19 dell’Eurozona) rischia di essere un limite notevole. Prendiamo il caso del nostro Paese. L’Italia ha un risparmio delle famiglie molto elevato e un sistema bancario solido nel complesso. Inoltre è uno dei soli cinque Paesi del G 20 con un surplus commerciale con l’estero nei prodotti manifatturieri (gli altri sono la Cina, il Giappone, la Corea del Sud e la Germania). E’ vero che l’Italia ha un debito pubblico molto elevato rispetto al PIL, ma quando la crisi bancaria – iniziata negli Stati Uniti nel 2008 – si è trasformata in una crisi dei debiti sovrani, molti Paesi dell’Unione Europea, e tra questi anche la Germania, hanno registrato una crescita considerevole del loro debito pubblico. La struttura produttiva italiana è caratterizzata da alcuni settori fortemente competitivi, le cosiddette “4 A”, su cui ha tanto insistito Marco Fortis (Docente dell’Università Cattolica di Milano e Consigliere del Presidente del Consiglio, Renzi): 1) Abbigliamento, moda, cosmetici (calzature, oreficeria, occhiali, etc.); 2) Arredo-casa (mobili, piastrelle, ceramica etc.); 3) Alimentari e vini; 4) Automazione, meccanica e macchinari, gomma, plastica (ma anche chimica, farmaceutica etc.) Il punto 4 si è sviluppato sempre più con l’innovazione, mentre i punti 1) e 2), di fronte alla concorrenza cinese e dei Paesi emergenti, si sono ritagliati nicchie di qualità. Le categorie più adatte ad interpretare lo sviluppo economico italiano sono le piccole e medie imprese, che producono beni non standardizzati, competitivi non solo per il prezzo, ma per la loro qualità e specificità; stesse qualità hanno anche i distretti industriali che hanno generato sistemi di impresa organizzati o integrati attorno ad imprese di dimensione intermedia. Tali contesti distrettuali, come rileva Fulvio Coltorti (Direttore emerito e Consigliere economico dell’area studi Mediobanca), risultano più idonei a realizzare quelle innovazioni continue organizzative e di prodotto che costituiscono il vero “driver” dell’internazionalizzazione. Le imprese che producono beni standardizzati, la cui competitività è determinata esclusivamente dal prezzo, sono costrette a delocalizzare le loro produzioni nei Paesi a basso salario. Tanti rilevano che la produttività italiana cresce lentamente, ma il surplus della nostra bilancia delle partite correnti (e in particolare il surplus manifatturiero) mostrano che l’economia italiana è fortemente competitiva. In questo ambito una considerazione particolare merita il turismo, favorito anch’esso come le nostre esportazione di beni, dalla “asimmetria dei numeri”. La Cina e l’India hanno complessivamente una popolazione di circa 2 miliardi e mezzo di abitanti. Anche se una percentuale minima di queste popolazioni venisse per turismo in Italia, si tratterebbe pur sempre di numeri enormi per il nostro Paese. Mi fermo qui. La politica economica dell’Italia, nel rispetto delle regole dell’Unione Europea, deve puntare a tutti i livelli di Governo (non solo quello centrale, ma anche le Regioni e i Comuni) a sviluppare le nostre vocazioni, di cui ho sinteticamente parlato. Naturalmente, tutte queste attività produrranno occupazione, e occorre che i nostri giovani si orientino a qualificarsi per tali tipi di lavoro, tenendo presente che il settore pubblico non potrà più essere un ampio bacino di assorbimento di manodopera. Intervento dell’Amb. Roberto Nigido – Presidente Circolo Studi Diplomatici e Comitato Scientifico AESI Vorrei fare una riflessione preliminare in una ottica soprattutto, ma non unicamente, italiana. Se la scelta si riferisce alla gestione del bilancio dello Stato, non ho dubbi nel rispondere: rigore. I Paesi che possono usare la flessibilità di bilancio, secondo l’impostazione keynesiana, sono quelli che non ne hanno abusato in passato. L’ Italia ha abusato in passato di questa possibilità fino al limite della bancarotta. Abbiamo aderito nel 1980 al secondo progetto europeo di politica monetaria comune (Il Sistema Monetario Europeo; il primo era stato, circa dieci anni prima, il Serpente Monetario ) con un rapporto Debito /Pil del 60%: perfettamente in linea con il parametro che sarebbe poi stato fissato a Maastricht. Abbiamo firmato il Trattato sulla moneta unica nel 1992 con un rapporto del 105%, assumendo contestualmente l’impegno di ridurlo, in un periodo di tempo allora non specificato, al 60%. Oggi, nel 2015, ventitré anni dopo, siamo al 132%. A mio giudizio, solo l’appartenenza all’ EURO e la conseguente benevola fiducia dei mercati nell’ Italia, ci ha evitato la bancarotta. La bancarotta non è negli interessi della stragrande maggioranza degli italiani; ma certi speculatori ci contano, purtroppo non senza concrete possibilità (l’attuale bolla finanziaria mondiale si nutre di instabilità e finirà col distruggere i Paesi occidentali, se non si adotteranno rapidamente i correttivi indispensabili). Con questo non voglio escludere che alcuni margini di flessibilità di bilancio, nella valutazione degli investimenti pubblici, possano avere effetti positivi, anche in un Paese fortemente indebitato, come l’ Italia; purché però siano ammessi e controllati dalle Istanze europee, e sempre nel limite del 3% del Pil ( non potremmo ovviamente presentare all’ esame europeo investimenti come quelli discutibili e discussi dell’ EXPO di Milano 2015, del MOSE di Venezia o degli interventi a favore dei “ rom “ a Roma, tanto per fare degli esempi concreti ). L’ alternativa alla flessibilità di bilancio, in Italia, sono le riforme, come è ormai finalmente ben noto anche agli italiani. Sono prioritarie, a mio giudizio, innanzitutto quelle della giustizia e dalla revisione della spesa, soprattutto a livello locale, dove i centri di potere politico, burocratico e di spesa, e i relativi sprechi e duplicazioni, si sono moltiplicati in misura insopportabile. Ma le riforme a livello nazionale non bastano più, in una Europa nella quale alcune fondamentali politiche, in particolare quella monetaria, non sono più gestite a livello nazionale. Da sette anni ormai i Paesi dell’Unione Europea sono investiti da una crisi economica e sociale dalla quale non riescono ancora ad uscire. Le responsabilità sono soprattutto nazionali, ma anche europee. La costruzione della moneta unica -quelli che vi hanno partecipato lo sapevano bene- è stata fatta su basi coraggiose ma fragili, fondate su due condizioni: rispetto delle regole da parte dei Paesi Membri e capacità e senso di responsabilità dei dirigenti, nazionali ed europei. Le due condizioni sono venute a mancare negli ultimi anni. Le responsabilità nazionali possono essere riassunte nel mancato rispetto delle fondamentali regole di bilancio sancite nel Trattato e nella incapacità dei loro dirigenti di attuare le riforme interne necessarie per poter competere in un mercato aperto all’ Europa, prima, e al mondo, ora. Quelle europee sono tanto istituzionali (mancanza di strumenti finanziari in funzione anticiclica), quanto personali (incapacità dei dirigenti europei di far fronte alla crisi). Dopo l’adozione di più stringenti e più facilmente sanzionabili regole di bilancio, solo nei mesi scorsi sono state decise ulteriori misure concrete a livello europeo: -un piano di investimenti: se gli Stati devono attenersi al rigore di bilancio, è responsabilità dell’Unione promuovere la crescita con investimenti a livello europeo; -una politica monetaria espansiva, promossa dalla Banca Centrale per contrastare la deflazione e promuovere la crescita, come hanno fatto con successo USA e Gran Bretagna sin dall’ inizio della crisi. La BCE è l’unica Istituzione europea che sia stata finora all’ altezza delle sue responsabilità: ha salvato l’EURO nel 2012, con la famosa dichiarazione di Draghi del luglio di quell’ anno, e sta cercando ora di favorire la crescita nei limiti che le sono assegnati dal trattato. I dirigenti europei, nazionali e sovranazionali (con l’eccezione, come ho appena detto, della Banca Centrale) sono stati lenti nel percepire la gravità della crisi e le sue conseguenze, non solo economiche e sociali, ma anche quelle politiche che hanno contribuito a minare ulteriormente la fiducia dei cittadini nell’ Europa. Sono stati lenti e timidi nel decidere, per evitare che l’EURO affondasse, di sostenere i Paesi in difficoltà con la creazione del Meccanismo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria. Delle riforme istituzionali suggerite dal Rapporto dei Quattro Presidenti nel 2012, solo l’Unione Bancaria ha visto finora la luce. Credo si possa essere ora moderatamente ottimisti (ovviamente con riserva) nel constare che la riflessione sulle riforme istituzionali è stata finalmente rimessa in moto dalla richiesta del Consiglio Europeo ai Quattro Presidenti (del Consiglio Europeo, della Commissione, della Banca Centrale e dell’Eurogruppo) di presentare un nuovo rapporto per il luglio 2015, dopo la “Nota Analitica “ del febbraio scorso. Questo documento si limita per il momento a individuare i problemi cui dare una risposta, ed in particolare quello di fondo: come consolidare l’Unione Monetaria con l’Unione Economica. Ci auguriamo che alla buone intenzioni espresse dal Consiglio Europeo seguano decisioni rapide, concrete e coraggiose. I cittadini Europei non si aspettano dalla attuale classe dirigente europea il grande balzo in avanti verso l’Unione Politica, ma pretendono che almeno completi e faccia funzionare quello che è stato costruito dalla classe dirigente che la ha preceduta. FORUM AESI RAPPRESENTANZA DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN ITALIA Introduzione del Prof. Fabrizio Saccommani FORUM AESI Intervento del Dott. Tomasz Koguc – Vice Direttore AESI L’ALTRO SEMESTRE, IL COORDINAMENTO ECONOMICO NELL’UNIONE Quando si sente parlare di semestre europeo tra i giornalisti ma anche tra molti addetti al lavoro, si ha la sensazione che le idee non siano chiare sull’esistenza di due processi ben separati. L’equivoco nasce sicuramente dalla scelta poco felice di chiamare nel 2014 i sei mesi di Presidenza italiana del Consiglio dell’UE semplicemente con “semestre europeo”, facilmente confondibile con il ciclo di coordinamento delle politiche economiche europee, giunto ormai alla sua quinta edizione. Il semestre di Presidenza dell’UE è un arco di tempo in cui i Paesi membri dell’Unione europea si danno il cambio per coordinare l’Agenda del Consiglio europeo, un appuntamento importante per mettere luce il proprio lavoro e spostare l’attenzione su temi che possono essere secondari vista l’eterogeneità degli interessi. Il secondo semestre è un processo ma anche uno strumento che vede coinvolta la Commissione europea nel coordinare le politiche economiche dell’Unione ma anche la valutazione dei bilanci pubblici e dell’avanzamento delle riforme strutturali. Anche nel caso dell’altro semestre europeo, quindi di coordinamento economico dell’Unione, la scelta di chiamarlo semestre risulta poco felice in quanto il processo intero del ciclo dura più di dieci mesi se si considera anche la fase di interazione con i governi. La crisi economica del 2008, ha evidenziato la chiara necessità di rafforzare la governane economica a livello UE. Prima la programmazione di bilancio e economica nell'UE avveniva mediante processi diversi, non esisteva una visione globale degli sforzi compiuti a livello nazionale e gli Stati membri non avevano la possibilità di discutere una strategia collettiva per l'economia dell'UE. La sorveglianza dell'Unione europea sulle politiche economiche degli Stati membri si è sviluppata nel 2011 attraverso un calendario che scandisce il susseguirsi delle varie azioni che le Istituzioni europee e gli Stati membri devono compiere al fine di garantire finanze pubbliche sane e crescita economica. Per sintetizzare, le politiche economiche nell’Unione possono essere inquadrate in tre obiettivi: garantire finanze pubbliche sane, promuovere la crescita economica e prevenire gli squilibri macroeconomici eccessivi. Il semestre assicura quindi che gli Stati membri discutano dei rispettivi programmi di bilancio secondo un calendario prefissato nel corso dell'anno. La ratio è quella di favorire una guida politica e strategica da parte delle autorità europee nella prima metà di ciascun esercizio, cioè nel periodo in cui le politiche e le decisioni di bilancio sono ancora in una fase di programmazione all'interno di ciascun Stato membro. Gli strumenti a disposizione per coordinare le economie europee sono uno per ogni obiettivo: per garantire le finanze pubbliche sane la Commissione europea si avvale del Patto di stabilità e crescita che contiene i famosi vincoli sul debito (60% o sufficiente diminuzione verso 60%) e sul disavanzo pubblico (= 3%). Per il secondo obiettivo, la Commissione verifica altresì che gli Stati membri stiano lavorando per la realizzazione degli obiettivi in materia di occupazione, istruzione, innovazione, clima e riduzione della povertà fissati da Europa 2020, la strategia di crescita a lungo termine dell'UE. Infine per bilanciare gli squilibri macroeconomici eccessivi, dopo la crisi del 2008 è stato chiesto alla Commissione di sorvegliare gli squilibri macroeconomici e chiedere le riforme strutturali necessarie ai paesi per bilanciare gli squilibri eccessivi. Il ciclo inizia ogni anno a novembre con l'analisi annuale della crescita della Commissione (priorità economiche generali per l'UE), che propone agli Stati membri orientamenti politici per l'anno successivo. Poi ad aprile gli Stati membri presentano i programmi di stabilità o di convergenza (piani di bilancio a medio termine) e i programmi nazionali di riforma (PNR): in Italia, questi due documenti sono riuniti nel DEF – il Documento di Economia e Finanza. La Commissione analizza questi programmi e prepara le raccomandazioni specifiche per paese che sono pubblicate in tarda primavera. Il semestre si conclude quando il pacchetto finale, proposto dalla Commissione e dibattuto dai 28 capi di stato e di governo, è formalmente adottato dai Ministri dell'Economia e delle Finanze riuniti in Consiglio. Questo processo offre quindi agli Stati membri una consulenza specifica sulle riforme strutturali di più vasta portata, il cui completamento richiede spesso più di un anno. Intervento della Dott.ssa Chiara Pittaluga FORUM AESI POLITICHE PER LO SVILUPPO: RIGORE O FLESSIBILITÀ? La crisi che da diversi anni concerne l’eurozona, e in particolar modo alcuni dei suoi paesi, affonda le sue origini nella crisi statunitense esplosa nel 2008, subendone le ripercussioni. La crisi statunitense ha colpito principalmente gli istituti di credito o gli operatori finanziari che avevano investito nei titoli statunitensi. In Europa la crisi non si è limitata unicamente al settore finanziario, ma ha avuto anche un impatto importante sul mercato reale dei beni e del lavoro. Le conseguenze nell’eurozona si sono rivelate particolarmente gravi a causa di problemi strutturali; infatti, a differenza degli USA, l’Eurozona non è un’Area Valutaria Ottimale. Per Area Valutaria Ottimale (AVO) si intende una zona dipendente da un’unica banca centrale che garantisce uniformità per gli Stati nella gestione economica. Elementi caratterizzanti di un’AVO: 1. 2. 3. 4. 5. Mobilità dei fattori produttivi Flessibilità di prezzi e salari Integrazione dei mercati finanziari Alto grado di apertura economica Elevata diversificazione di consumi e produzioni all’interno dei singoli paesi costituenti l’area 6. Tassi di inflazione simili 7. Integrazione fiscale: fattore che permette la compensazione in caso di shock asimmetrico e che in primis non può essere applicato all’eurozona. In Europa i paesi sono profondamente differenti tra loro e non possiedono quelle peculiari caratteristiche che permettono di ammortizzare le diversità (come avviene invece negli Stati Uniti) e di accusare in maniera equa e relativamente meno grave gli shock asimmetrici. L’eurozona, dunque, non è da considerarsi un’Area Valutaria Ottimale (AVO), e non rispetta le caratteristiche tracciate da molti economisti che motivano il ricorso a una moneta unica. In breve, i Paesi devono essere simili tra loro e i prezzi e i salari devono essere flessibili. Un punto fondamentale precedentemente evocato e da tenere in considerazione è che la crisi in Europa si è trasferita notevolmente sul mercato reale dei beni e del lavoro: il calo delle importazioni dagli Stati Uniti ha causato un decremento notevole delle esportazioni in Europa, quindi un’improvvisa e alquanto drastica riduzione della domanda aggregata nel continente europeo. Conseguentemente, le imprese hanno iniziato a diminuire la produzione e quindi l’occupazione. Con un’occupazione più ridotta e redditi più contenuti, anche i consumi sono calati vertiginosamente, innescando un circolo vizioso descritto anche nella “Teoria Generale” di Keynes nel 1936. L’Europa è in recessione: le imprese non investono, gli individui non consumano. A questo si aggiunge la paralisi del sistema bancario. Tutto quanto enunciato fino ad ora ha avuto un impatto molto negativo sulle già delicate situazioni dei paesi dall’elevato indebitamento pubblico, i cosiddetti “PIIGS” (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna). L’eurozona in questo caso si è comportata in maniera opposta rispetto alle teorie della scuola keynesiana che suggeriscono, coerentemente al problema, di mettere in atto delle politiche monetarie e di bilancio espansive. Si è optato infatti per la messa in atto di politiche del rigore di bilancio, basate sulla riduzione della spesa pubblica, sull’aumento delle imposte, sulla riduzione dei salari, sulle privatizzazioni e la liberalizzazione dei mercati, soprattutto il mercato del lavoro. I risvolti positivi delle politiche del rigore stentano ad emergere: certamente, l’austerity potrebbe avere un impatto positivo nel lungo periodo, ma nel breve periodo non risultano essere la soluzione più efficace. La strategia del rigore ha raggiunto poi il suo culmine con il Fiscal Compact, entrato in vigore nel 2013, che interviene a modificare il patto di Stabilità e Crescita (PSC) introducendo dei vincoli più rigidi al deficit di bilancio e al debito pubblico, associati a delle sanzioni più stringenti e quasi automatiche. Confermato il rapporto deficit/PIL non superiore al 3%, il Fiscal Compact sancisce poi la regola sul debito pubblico: per quei paesi che ne presentano uno superiore al 60%, è necessario ridurre ogni anno di 1/20 della differenza tra il suo rapporto debito pubblico/PIL e un rapporto del debito/PIL al 60%. Un’altra rilevante novità attiene all’obbligo di introdurre le nuove regole pattuite negli ordinamenti giuridici nazionali. Infine, per i paesi in seria difficoltà i paesi dell’eurozona hanno predisposto un programma di assistenza finanziaria: l’European Stability Mechanism (ESM). L’ESM, instaurato nel 2012, è un fondo permanente a cui possono accedere solo i Paesi che abbiano sottoscritto il Fiscal Compact, e solo dopo essersi impegnati a mettere in atto una serie di interventi di politica economica quali una riduzione drastica della spesa pubblica e liberalizzazione dei mercati. I fondi salva- Stati sono stati messi in campo per la Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro. Per quanto concerne le strategie intraprese dalla BCE per rispondere alla crisi, queste si sono evolute parallelamente all’evoluzione delle congiuntura economica. La prima reazione dinanzi allo scoppio della crisi è stata l’innalzamento dei tassi di interesse per evitare l’aumento dei prezzi, seguendo il principio strutturale della BCE, ossia l’obiettivo principale del mantenimento della stabilità dei prezzi, puntando a un tasso di inflazione concordato non superiore al 2%. In un secondo momento la BCE, conscia della vera portata della crisi, decide di cambiare rotta attuando una politica monetaria timidamente espansiva: la BCE riduce quindi progressivamente il tasso d’interesse, portandolo a livelli minimi mai raggiunti prima (0,15% alla fine del 2014). Un’altra manovra messa in atto dalla banca centrale verte sul Securities Market Programme (SMP): non avendo accesso, secondo le sue regole, all’acquisto di titoli sul mercato primario, la BCE interviene sul mercato secondario, acquistando dei titoli in modo da far aumentare il prezzo di quei titoli e far decrementare il tasso di interesse. Tuttavia, il vero tornante nelle manovre della BCE si registra solo nel 2015, quando, a gennaio, decide di mettere in atto il quantitative easing. Una politica non convenzionale con cui una banca centrale mira a rilanciare l’economia attraverso l’acquisto sul mercato di attività di vario titolo (generalmente titoli di Stato, ma non solo) e di conseguenza immette nuova moneta nel sistema. Questa politica, da un lato, tiene bassi i tassi di interesse dei titoli acquistati e, dall’altro, inietta sul mercato un’ampia quantità di liquidità a basso costo. L’azione del quantitative easing è prevista da marzo 2015 fino a settembre 2016 per un totale di 60 miliardi di euro al mese. Intervento del Dott. Ettore D’Ascoli FORUM AESI POLITICHE PER LO SVILUPPO: RIGORE O FLESSIBILITÀ? L’Unione Europea e gli Stati Membri sono i principali donatori al mondo di aiuti pubblici per lo sviluppo. Nel report “La lotta alla povertà in un mondo che cambia” si evince che solo nell’anno 2013 sono stati erogati aiuti per 56 milioni di euro che rappresentano circa il 52% degli aiuti totali mondiali. Tali aiuti confluiscono per lo più verso i Paesi a basso sviluppo. Se vogliamo prendere in considerazione il caso italiano, riferendoci all’Italia quando era ancora un Paese che necessitava di ritrovare un percorso economico proprio, per moltissimo tempo le politiche di sviluppo si sono concentrate sulla somministrazione di aiuti a pioggia. Sono ben note le politiche industriali che per anni hanno rappresentato la fonte di incentivazione primaria per il settore secondario. Per rinfrescarci la memoria è necessario far riferimento all’intervento della Cassa del Mezzogiorno, durato per oltre un ventennio e che su ordine perentorio dell’Unione Europea fu sospeso poiché dal carattere straordinario che ebbe in luogo della sua nascita e in accordo con quanto si proponeva aveva assunto nel corso del tempo un ruolo di carattere ordinario, facendo venire meno, così, tutti i principi chiave della concorrenza. Gli aiuti dell’Unione Europea si inseriscono principalmente in programmi pluriennali che prevedono una pianificazione delle risorse e degli aiuti con l’obiettivo di assicurarne uno sviluppo sostenibile. Anche qui è possibile prendere in considerazione degli esempi importanti quali le Politiche di Coesione Regionale che hanno lo scopo di ridurre il divario fra le varie regioni europee e che si prefiggono il raggiungimento di tre mete specifiche: la convergenza, la competitività e la cooperazione fra i territori. È possibile anche esaminare i tre cicli di fondi strutturali: quello del 2000-06, quello 20072013 e infine quello 2014-2020. Gli obiettivi di una organizzazione come l’Unione Europea sono influenzati dalla più radicata necessita che il principale risultato da raggiungere altro non sia che lo sradicamento della povertà. A testimonianza di ciò all’inizio degli Anni Novanta sono state attuate nuove politiche economiche in riferimento alla cosiddetta programmazione negoziata: in sostanza l’Unione Europea finanziava i territori con palesi ritardi di sviluppo attraverso programmi come patti territoriali europei. Questo strumento economico è stato decisamente importante poiché ha visto collaborare e cooperare in maniera frequente e decisiva il livello istituzionale sovranazionale con le varie realtà regionali europee. A seguito della crisi economica che si è manifestata a partire dal 2006, l’Unione Europea è stata costretta a cambiare registro e quindi il programma di assistenza è cambiato a partire dall’anno 2011. Da quell’anno, infatti, gli aiuti sono stati differenziati a seconda dei contesti in cui venivano somministrati e le attività sono state concentrate in al massimo tre settori per ogni singolo Paese. Il coordinamento delle risorse inoltre: - è stato migliorato per aumentare l’impatto degli aiuti stessi sul territorio; - il supporto è stato finalizzato ad una crescita inclusiva e sostenibile; - si è cercato di massimizzare la coerenza della politica di sviluppo. Chiaramente la politica di sviluppo è condizionata dagli eventi socio-politici, dai fenomeni di migrazione ed anche dai livelli di sicurezza e terrorismo che contraddistinguono l’area in analisi. È di utile importanza una politica di spesa efficiente per lo sfruttamento delle risorse disponibili pertanto la flessibilità che per molti anni è stata praticata – anche se più che di flessibilità sarebbe corretto palare di sperpero di risorse – oggi deve essere necessariamente alternata a una politica di rigore che però agisca a stretto contatto con operazioni di spesa orientate ad uno sviluppo che sussista in maniera efficiente pur con lo sfruttamento delle poche risorse disponibili. I programmi di intervento devono promuovere un coinvolgimento delle istituzioni nazionali in primis le quali regolano il gioco e i vari aspetti politico-economici, Non devono essere dimenticati alcuni attori importanti quali: la società civile, le organizzazioni non governative e le autorità locali Un esempio sul coinvolgimento della società civile o delle organizzazioni non governative può essere chiarificato con un richiamo al fenomeno dei flussi migratori, tema più volte trattato in questa sede. L’Unione Europea non può non avvalersi di vari soggetti quali Unhcr, Croce Rossa, Caritas che conoscono a fondo i problemi del tema a cui si è fatto cenno. L’efficacia degli aiuti, dunque, deve basarsi su qualità, rapidità e non solo sulla quantità, elemento che per lungo tempo è stato preso in considerazione. Come è possibile ottenere maggiore qualità e rapidità degli aiuti somministrati? Innanzitutto è bene dire che la qualità dell’aiuto può essere ottenuta dando più conoscenza e più informazioni sugli aiuti, quindi, per intenderci, è necessaria una maggiore pubblicità su come poter accedere agli aiuti. In secondo luogo occorre avviare una programmazione per indicare quali donatori possono occuparsi di un determinato settore per aumentare l’efficienza e i risultati degli aiuti forniti. In ultimo è importante monitorare i processi di finanziamento allo scopo di tenere aggiornati gli stati di avanzamento dei progetti messi in atto. Se poi volessimo essere più precisi sarebbe importante ricordare quanto influisca l’abilità di sapersi adattare alla variazione dei contesti che con il tempo subiscono variazioni fondamentali. Nel caso pratico in Italia è stato necessario addirittura cambiare la Carta Costituzionale a seguito della sottoscrizione del Fiscal Compact (Trattato sulla Stabilità, sul coordinamento dell’Unione economica e monetaria) per adeguare l’art. 81 alla necessità di garantire il raggiungimento del pareggio di bilancio o di un saldo attivo. La capacità di adattarsi qui si registra nel fatto che l’imposizione di vincoli da parte della Unione Europea ha obbligato il legislatore italiano a porre in atto tutte le azioni necessarie per prodigarsi verso un orientamento di politiche di rigore tenendo ben conto del contesto economico del momento, contesto che era caratterizzato da un notevole buco del bilancio pubblico e da una economica nazionale in completo blocco. Nell’ambito della politica di austerità a dell’Unione Europea un aspetto importante è rappresentato da quanto effettuato da Mario Draghi che col quantitative easing (riduzione del valore dell’euro) ha innescato un processo di crescita che ha portato ad un aumento delle esportazioni. È stata importante, però, anche la riduzione dei tassi d’interesse sui mutui e sui prestiti e non solo sui depositi in questo modo la BCE comprando titoli di stato consente alle banche di avere più liquidità per fare prestiti per gli investimenti. Anche la materia fiscale influenza notevolmente le politiche di sviluppo e per questa ragione l’Unione Europea più volte si è resa protagonista di interventi quali: - omogeneizzazione delle aliquote IVA per quanto riguarda l’imposizione indiretta - chiarimenti in merito alla tassazione dei dividendi sugli utili societari introduzione degli istituti del consolidato fiscale nazionale e mondiale. A testimonianza dell’importanza dell’austerità si può prendere in considerazione il caso Italia che, più volte sollecitata al rigore, ha messo in atto politiche di attenzione e di restrizione tali da riuscire, perlomeno nell’immediatezza, ad essere “premiata” con una riduzione notevolissima dello spread che oggi è arrivato addirittura sotto i cento punti. Le politiche dello sviluppo, pertanto, devono riferirsi ad interventi di natura economica finanziaria ma devono coesistere con un insieme di interventi di natura politica, sociale ed umanitaria. 12 Maggio 2015 SALA DEL REFETTORIO – PALAZZO SAN MACUTO ore 16.00 PARLAMENTO ITALIANO “VALORI DEMOCRATICI ED ETICA” Saluto : Amb. Enrico Pietromarchi – Presidente On. AESI Coordinatore: Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI Dott. Lucio Battistotti – Direttore Rappresentanza Commissione Europea in Italia Amb. Daniele Mancini – Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede Ministero Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Prof. Ugo Villani - Comitato Scientifico AESI e Ordinario Diritto Internazionale Università di Bari Prof. Rev. Robert Gahl – Pontificia Università Santa Croce (Santa Sede) Modera: Dott. Diego Rovelli - Direzione -AESI Intervento del Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI Le divisioni ravvisabili oggi in Europa, nel momento in cui si sente l’urgenza di un condiviso ordinamento istituzionale che faciliti sia l’integrazione tra gli Stati membri e sia un nuovo programma comune di politica estera (pensiamo a quanto sta avvenendo nel Mediterraneo ed in Medio Oriente dove intere popolazioni sono lasciate sole davanti al dramma non solo dei conflitti, ma anche delle violente persecuzioni religiose), dipendono dalla mancanza di chiare regole istituzionali di gestione comunitaria delle diverse problematiche, ma soprattutto sono espressioni di forti contrasti ed interessi politici sotterranei tra potenti schieramenti internazionali di lobbies finanziarie che provocano una sorta di incomprensione e smarrimento politico dell’Europa. Inoltre una profonda crisi di identità, incrementa il numero degli scettici e favorisce i nemici dell’Europa. Magistralmente presentata e diffusa attraverso gli organi di informazione mediatica per avere poi una vasta risonanza nell’agone politico, la nuova strategia è quella di una esasperata globalizzazione della ricerca della propria sicurezza e di una competitività dell’uno contro l’altro, che ha dimenticato la dimensione della cultura della solidarietà e del bene comune. Come ci si può stupire allora quando molti cittadini europei, invece di guardare con interesse alla comune casa europea, corrono dietro a nuove formule di rinascente nazionalismo che esacerbano la vita civile creando rancori e divisione? L’avvenire dell’Europa è la riscoperta della finalità antropologica della politica, la quale acquista autorevolezza solo se e nella misura in cui riscopra che il singolo cittadino non può mai essere trattato come strumento, ma come fine dell’azione politica. Se è vero questo, è tanto più doveroso e necessario denunciare cha alla base di tutto ciò c’è una grande crisi della nostra epoca che si esprime soprattutto come profonda crisi della verità sull’uomo e sulla donna e quindi delle loro responsabilità. Il vero pericolo, in altre parole, è un nuovo tipo di pericolosa globalizzazione intesa ed organizzata da alcune grandi potenze politiche e finanziarie mondiali che hanno bisogno di giovani, di politici dal pensiero debole su questi temi. Infatti, lì dove si riscopre una convinzione forte ed eticamente fondata in termini umani e professionali, dove si lotta per un desiderio di coerenza nella ricerca della verità sull’uomo e sul mondo, questo tipo di “globalizzazione del potere” agisce spesso con pressioni politiche, economiche e talvolta militari. Ma spesso riscontriamo anche l’indifferenza cinica di chi lascia fare perché si esauriscono le forze dei contendenti per poi imporre sanzioni e protocolli che mai potranno essere espressione della vera pace. Il pensiero debole è la base quindi di un nuovo concetto di manipolazione delle coscienze laicista molto sottile e particolarmente fecondo nei sistemi democratici occidentali. Esso significa mancanza di responsabilità personale ed oggi si impone attraverso le logiche di mercato del benessere a tutti i costi e della pubblicità selvaggia con uno strano concetto di libertà dell’uomo sull’altro uomo. Per questo l’AESI ripensa l’idea di università in Europa, valorizzare il suo ruolo di servizio alla società ed alla ricerca di soluzioni comuni alle più urgenti necessità della comunità internazionale, ad una corretta comprensione della problematiche internazionali, a favorire l’elaborazione di quelle soluzioni comuni che risultano importanti per fornire risposte adeguate alle drammatiche crisi di oggi, soluzioni nelle quali si sperimenti personalmente il valore della cooperazione e della solidarietà. Non dimentichiamo che l’università può essere il luogo dove le soluzioni per un progresso civile e culturale di integrazione possono essere cercate con serenità e professionalità senza perdere di vista il futuro ed i suoi tempi di attuazione. L’università deve avere una sua coscienza, ma anche una forza intellettuale e morale la cui responsabilità si estende alle necessità di tutta l’umanità. Gli aspetti sociali della cittadinanza sono stati rappresentati e perseguiti come dimensioni economiche e politiche tout court senza cercarne una sufficiente comprensione e giustificazione sul terreno dei diritti della persona. Alla radice di questa crisi internazionale, non ci sarà forse in realtà una nuova pericola dottrina di alcuni riguardante perversi stili di vita e visioni politiche ed etiche della stessa convivenza umana? Fomentando il terrore e lo spettro della recessione, essi portano la comunità internazionale a temere inesorabilmente per il proprio futuro, facendo precipitare le economie di interi paesi e facendo ricadere su interi popoli - e non su i veri responsabili – la colpa di drammatiche crisi, sin anche di atti terroristici. Imponendo strategie politiche di questo tipo, si ritiene allora che l’uso della forza sia l’unica soluzione a tutto. Si umiliano così con la violenza non solo la persona umana, ma anche interi popoli che versano già in situazioni di crisi profonda, specie per l’assenza di sistemi democratici. Si pensa a proposito, che il terrorismo debba essere affrontato con una “azione preventiva della forza” a tutti i costi e senza confini. Ma l’odierna crisi delle Nazioni Unite e dell’Enione Europea dove va ricercata, quali sono le origini profonde? L’Europa si è divisa perché alla base della sua integrazione non c’è stata la forza della condivisione fino in fondo di comuni ideali e di comuni strategie per ottenerli e preservarli. Una Europa unita nella presente crisi del Mediterraneo avrebbe potuto giocare la sua parte nello scenario mondiale con più credibilità. Gli Stati non vogliono essere disturbati nella loro vita sociale ed economica, non si apre ad una cultura della solidarietà perché ci sono politici che urlano contro questo ideale per ottonere consensi e voti, camuffandosi in salvatori della patria. Per avere una sua forza l’Europa, soprattutto nella ricerca della pace e della sicurezza internazionale, deve in primo luogo fondare la sua integrazione sui valori più profondi della persona umana, comprendere che l’allargamento sino ai suoi confini geografici, storici e culturali è un imperativo inderogabile dopo il secondo conflitto mondiale e che le crisi internazionali sono una comune responsabilità. Le scelte della pace e per la pace non sono,come alcuni desiderano oggi erroneamente far credere alla comunità internazionale, “scelte deboli ed irresponsabili”. Scegliere la via della pace e del bene comune è invece espressione di una politica lungimirante capace di grande comprensione della realtà dell’uomo, della sua cultura, delle sue esigenze e dei suoi problemi. Intervento del Dott. Lucio Battistotti Direttore Rappresentanza Commissione Europea in Italia VALORI DEMOCRATICI ED ETICA NELL'AZIONE DELL'UE Permettetemi di iniziare con una citazione del Discorso del Presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz tenuto nella giornata internazionale della democrazia lo scorso 15 settembre, "la democrazia ha bisogno di impegno civico, di meccanismi e di istituzioni inclusive, trasparenti ed efficaci, di fiducia reciproca, di un senso di responsabilità collettiva e del coraggio di lavorare per il bene comune". Il processo di integrazione europea, promuovendo la creazione del primo Parlamento sopranazionale della storia eletto a suffragio universale, ha compiuto un passo importante verso l’affermazione di una forma di democrazia sovranazionale. Questo è il senso dell’unificazione europea: essa si configura come una tappa nella storia dell’evoluzione delle forme di governo, come l’avvio di nuove forme di statualità, basate sulla solidarietà tra le nazioni e sulla democrazia sovranazionale. La cosiddetta multilevel governance, cioè la redistribuzione del potere su diversi piani di governo è infatti un processo costante per rendere maggiore l'efficienza delle istituzioni politiche. È uno strumento per restituire alle democrazie poteri decisionali su questioni determinanti per il futuro dei popoli. Il funzionamento dell'Unione si fonda su tre principi democratici: l'uguaglianza, la rappresentatività e la partecipazione. In una moderna democrazia come l'Unione europea, i cittadini devono avere infatti a disposizione anche modi diretti di determinare l'agenda politica e partecipare al processo decisionale. Mentre la democrazia rappresentativa si esprime attraverso istituzioni elettive come il Parlamento europeo, la democrazia partecipativa si concretizza nei trattati europei attraverso un nuovo strumento: l'iniziativa dei cittadini europei. Il trattato di Lisbona ribadisce infatti il principio dell'uguaglianza democratica, vale a dire il diritto dei cittadini a beneficiare di uguale attenzione da parte delle istituzioni europee, rafforza la democrazia rappresentativa, affidando al Parlamento Europeo un ruolo più importante e coinvolgendo maggiormente i parlamenti nazionali, e sviluppa la democrazia partecipativa attraverso nuovi meccanismi di interazione tra i cittadini e le istituzioni, come il diritto di iniziativa. L'articolo 11 comma 4 del TUE stabilisce che: "Cittadini dell'Unione, in numero di almeno un milione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri (almeno 7 diversi Stati Membri), possono prendere l'iniziativa d'invitare la Commissione europea, nell'ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell'Unione ai fini dell'attuazione dei trattati". Questo nuovo strumento dà, quindi, la possibilità di determinare l'agenda politica dell'Unione europea: i cittadini possono individuare un problema e chiedere che l'UE intervenga per risolverlo. Non è né una petizione (diritto, questo, già esercitabile dai cittadini europei sia individualmente che in forma associata), né uno strumento decisionale diretto come il referendum, ma è da considerarsi invece come l'equivalente del diritto del Parlamento europeo e del Consiglio di chiedere alla Commissione di proporre nuove norme. Ricevuta l'iniziativa, infatti, la Commissione è tenuta a considerare se e quali azioni intraprendere e a motivare la sua decisione di agire o meno in tal senso. In sintesi, avendo un carattere transnazionale e determinando l'agenda europea, l'iniziativa dei cittadini è un modo nuovo di partecipare alla moderna democrazia, che apre la strada sia al dialogo tra cittadini di tutta Europa che alla comunicazione "dal basso" dei cittadini con le istituzioni dell'UE. Si può inoltre rilevare come la democrazia europea abbia dimostrato la capacità di evolvere grazie anche alla sperimentazione di procedure (il "metodo funzionalista") che solo in un secondo momento sono state istituzionalizzate. Si sono quindi sviluppate prassi partecipative che hanno permesso di creare un legame con i cittadini con l’obiettivo di colmare, almeno in parte, il deficit democratico dell’UE. Un esempio è il coinvolgimento della società civile e dei gruppi d'interesse tramite le pratiche di consultazione messe in atto dalla Commissione, il dialogo sociale, le forme di partenariato, i comitati consultivi e il dialogo civile promossi dal Comitato economico e sociale. La Commissione europea, d'altra parte, si è aperta da molto tempo alle rappresentanze dei gruppi d'interesse e delle organizzazioni della società civile ed ha riconosciuto il contributo che tali attori possono offrire sul piano tecnico nell’acquisizione di informazioni e nella verifica ex ante delle potenziali decisioni, fornendo anche una fonte indiretta di legittimazione dell’operato delle istituzioni dell’UE. Vorrei evidenziare che sin dal suo preambolo, il Trattato sull'Unione Europea fa menzione dei valori democratici fondanti della stessa: "Ispirandosi alle eredità culturali, religiose ed umanistiche dell'Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili ed inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e dello stato di diritto; […] Confermando il proprio attaccamento ai principi della libertà, della democrazia e del rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nonché dello Stato di diritto, […] (i capi di stato e di governo) hanno deciso di istituire l'Unione Europea". La democrazia viene poi riaffermata nell'articolo 2 del TUE come principio fondamentale: "L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini." Inoltre il termine figura ancora nell'articolo 10 in relazione alla democrazia rappresentativa("il funzionamento dell'Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa")e nell' articolo 21 in relazione all'azione esterna dell'UE: "L'azione dell'Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l'allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale". Infine, il principio di democrazia è presente anche nel preambolo della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione europea. Quest'ultima precisa e garantisce, tanto per i cittadini dell'Unione quanto per coloro che in essa vi risiedono (indipendentemente dalla nazionalità e dal periodo di soggiorno), principi etici e diritti che ispirano l'Unione, e che sono riconducibili alla dignità, alla libertà, all'uguaglianza, alla solidarietà, alla cittadinanza ed alla giustizia: "Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l'Unione si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell'uguaglianza e della solidarietà; essa si basa sul principio della democrazia e sul principio dello Stato di diritto. Pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell'Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia". Vorrei citare l'amico e Professore Vincenzo Guizzi che nel suo Manuale di diritto e politica dell'Unione europea recentemente pubblicato definisce il principio democratico come "una vera condicio sine qua non dell'essere europeo". Che rilevanza viene data a questo principio nelle priorità politiche della commissione? Il cambiamento democratico è fra le 10 priorità del Presidente Juncker e della sua Commissione che è stata costruita mediante un processo democratico di audizioni parlamentari: "Un'Unione di cambiamento democratico" è proprio la decima priorità della Commissione. I cittadini si aspettano che l'UE dia prova della massima trasparenza possibile sul lavoro della Commissione e che venga rafforzata la rendicontabilità e l'accessibilità (ai cittadini) delle azioni dell'UE. Per questo la Commissione potenzierà gli strumenti di cui dispone per legiferare meglio, in particolare le consultazioni pubbliche. Questi elementi sono richiamati dal Presidente Juncker nel suo programma di lavoro presentato al Parlamento in occasione nella sua elezione il 15 luglio 2014. Si tratta di un vero e proprio manifesto politico proposto da un presidente che ha una maggiore forza democratica rispetto ai precedenti poiché - come sapete - è stato proposto come candidato dalla famiglia politica del PPE prima delle elezioni del Parlamento europeo. Vorrei concludere infine sottolineando come il principio di democrazia trovi una sua immediata concretizzazione attraverso i cosiddetti "Citizens' Dialogues" (dialoghi con i cittadini) che la Commissione sta organizzando in tutta Europa per incontrare cittadini e ragazzi e discutere direttamente con loro su temi e preoccupazioni che li riguardano. La Commissione si sottopone così a un controllo democratico molto forte. Proprio lo scorso sabato 9 maggio per la festa dell'Europa è stato organizzato un "Citizens' Dialogue" a Milano nel quale il Presidente del Parlamento europeo Martin Schulz e l' Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini hanno incontrato i cittadini. Ho cercato di darvi così una panoramica sui riferimenti al principio democratico presenti nei trattati dell'Unione Europea e su come nella pratica esso si realizza nell'attività della Commissione nei confronti dei cittadini. Nella speranza di esservi stato utile vi ringrazio dell'attenzione e vi auguro buon proseguimento. Intervento dell’ Amb. Daniele Mancini – Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede Ministero Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e Comitato Scientifico AESI “VALORI DEMOCRATICI ED ETICA” Ringraziamenti; Complessità del tema assegnato; inevitabilità di una “lettura” parziale; Auspicio di poter suscitare interrogativi, dubbi, aggiornare la bussola più che fornire risposte; importanza dei “punti di riferimento”; - Individuare le “lignes d’horizon” (Attali) I) - Partire dalla definizione etimologica delle parole che compongono il tema assegnato, per evitare il relativismo e le genericità: - Valori, democrazia, etica; 1. Valori: quanto considerato desiderabile da un individuo o una società. I valori variano storicamente e geograficamente perché non appartengono a categorie assolute, bensì sono frutto dello “spirito dei tempi” (es.: schiavitù, democrazia, etc.) 2. Democrazia: dal greco démos: governo del popolo; sistema di governo in cui la sovranità è esercitata dall’insieme dei cittadini; - Evoluzione storica del concetto: differenza tra l’era antica e la democrazia liberale; - Democrazia nel mondo moderno: tutti gli Stati si definiscono democratici (es. “democrazie popolari”); - Democrazia “sostanziale”, “democracy index” dell’Economist (Italia 31° posto su167); - - Contraddizioni della democrazia: paradosso di una maggioranza che vuole divenire antidemocratica: il “suicidio di Weimar”; 3. Etica: dal greco éthos: carattere, comportamento, consuetudine; - Branca della filosofia che studia i fondamenti razionali che permettono ai comportamenti umani di venire distinti tra “ciò che è giusto e ciò che non lo è”, buono, lecito etc; - Non ci addentreremo nell’analisi di etica laica ed etica religiosa; - Segnalo l’importante tema dell’etica applicata alla scienza-biotica (1970) ed ecosofia , ovvero i problemi che travalicano l’ambito del sapere scientifico per investire quello delle responsabilità morali e della regolamentazione giuridica : si pensi, ad esempio, alla pillola di Pincus per la contraccezione ormonale (1953); ai trapianti d’organo (1967); al concepimento in vitro (1978); alla clonazione (1997); - Etica dei media e della comunicazione (web etica); - Neuroetica; - Etica e finanza; - Etica e lavoro 4. Differenza tra etica e morale: - - - - - - - L’etica pone una cornice di riferimento dei canoni e dei confini entro i quali la libertà umana si può esprimere ma essa si occupa anche del “senso dell’esistenza”. Sebbene siano utilizzati come sinonimi, etica e morale non coincidono; per morale si intende assieme dei valori, norme e costumi di un individuo o di un gruppo umano, invece con etica ci si riferisce all’intento razionale (cioè filosofico) di fondare la morale intesa come disciplina non soggettiva, cioè non “personale”; II) Esiste in concetto di etica nelle relazioni internazionali ?; Non ha senso porre la questione dell’obiettività e dell’imparzialità in via teorica; Es: cos’è la realpolitik? Patto Molotov-Ribbentrop. Giri di valzer; il nemico del mio nemico è mio amico; è etico l’atteggiamento delle grandi potenze verso la Siria? E’ etico l’atteggiamento della UE nel Mediterraneo? Esperienza personale: ho rappresentato l’Italia presso Paesi diversi: Primo e Terzo mondo; bilaterale e multilaterale; Nord e Sud; diversi gradi di rappresentatività democratica, composizione etnica, affiliazione religiosa; Non posso dire di avere mai incontrato una universale accettazione di nessuno dei tre termini oggi propostici: valori, democrazia, etica; Soffermiamoci sui concetti di: Occidente (in rapporto a quale Oriente? Vedasi la spietata analisi di Edward SAID), Occidente e rapporto con il “Rest of the world”, Rapporti Nord-Sud del mondo; Oggi assistiamo al declino del “nostro mondo” e dei “nostri valori” più che al declino universale alla fine della centralità dell’Occidente durata 500 anni; nel 1950 USA producevano il 50% del pil mondiale; oggi altri “mondi” emergono e altri “valori” si affermano, anche se li rifiutiamo (nichilismo, indifferenza, fondamentalismi, separazione tra mercato e democrazia); Crisi delle istituzioni nate a Bretton Woods, del WTO; del CSNU; Crisi della governance: che è oggi “in control”? (Immagine di Thierry de Montbrial e del treno); Quante elaborazioni alla fine del XX secolo: II secolo americano; secolo dell’Asia, (India); La realtà è che oggi il mondo è di nessuno (Kupchan: “no one’s world”); Tramonto dell’era della “democrazia liberale”?; - - - - - - - - - - - III) Ultimo libro di Sergio Romano: “Guerra Fredda, la controstoria”; L’Europa passa dalla pace della Guerra Fredda alla guerra vera (Yugoslavia, Kosovo, Ucraina, oggi Mediterraneo); La fine della Guerra Fredda ha avuto come effetto “la rimessa in movimento della storia” (smentendo Fukuyama) il sorgere dell’era dell’instabilità, degli Stati falliti (Bosnia, Somalia, etc) , dei non-Stati (ISIS, Gaza, Kurdistan, Bosnia, Kosovo, Siria, Libia); Le grandi incognite: come si combatte un “non Stato”? Come lo si governa? Come si ricostruisce l’ordine perduto?; Mio punto, collegato alla “questione etica”: attenzione ad esprimere nostalgia per l’ordine della Guerra Fredda, che assicurava stabilità ma non moralità; Siamo sul “ciglio dell’Abisso”? (John Foster Dallas); L’Occidente non è mai stato tanto in guerra come da quando è finita la Guerra Fredda: Balcani, Afghanistan, due volte in Iraq, Libia; oggi la coalizione antiISIS; Mali; Somalia; Venti anni di guerre si lasciano alle spalle “Stati falliti”, proliferazione di soggetti non statali, che danno origine alle “guerre asimmetriche”; Non c’è più l’ordine di Westfalia e del Congresso di Vienna o della pace di Versailles. Sempre meno funziona l’ONU; non c’è più il poliziotto del mondo; non c’è ancora l’Unione Europea; Nuovi protagonisti (BRICS, Next Eleven etc) reclamano una più ampia e democratica governance, partecipazione al governo dell’economia globale, della sicurezza, della giustizia, dell’ambiente. Ciò richiederà più regole e non meno; più democrazia e non meno; più valori condivisi e non meno. Il mondo tendenzialmente diviene un’impresa cooperativa (“e pluribus unum”). IV) Soffermiamoci un momento sul concetto di “guerra giusta”. Ne hanno scritto Agostino d’Ippona; Tommaso d’Aquino; Erasmo da Rotterdam; Grozio; i Giusnaturalisti; Montesquieu; il romanticismo, fino ad arrivare a Michael Walzer; Prendiamo in considerazione il tema dell’”ingerenza umanitaria”, i cui precursori furono alcuni grandi Papi, da Benedetto XV a Pio XII a Paolo VI, fino ad arrivare a Giovanni Paolo II, che definì il magistero dell’”Ingerenza umanitaria” (i quattro fondamenti); Essa sembrava definire l’evoluzione del diritto internazionale, di cui rimetteva in discussione alcune strutture portanti (sovranità statale, il significato di nazione etc.); In quello scenario, l’ingerenza umanitaria, che si fonda sulla dignità della persona, può essere paragonata ad una piccola barca che fa vela verso la riva di un nuovo ordinamento internazionale; In Occidente, di fronte al declino economico e a quello dei valori tradizionali, si risponde con le visioni apocalittiche da catastrofismo ambientale; visioni intimistiche e irrazionali; si rifiuta l’idea del progresso; Oggi Papa Francesco parla di combattere “la globalizzazione dell’indifferenza”; - - - - - - - - - V) Coniato il termine di Antropocene o era dell’uomo; La tendenza, è quella di passare da una visione basata sugli Stati (statocentrica), ad una basata sugli individui (umano-centrica). Sicurezza e sviluppo sono sempre più legati alle esigenze dell’essere umano; Crisi della forma Stato; cresce la rete delle interdipendenze: tra locale, nazionale e internazionale; tra intergovernativo, transnazionale e soprannazionale; tra etica, diritto e politica, tra economia di mercato ed economia di giustizia; tra persona umana e ambiente naturale; tra persone e popoli; tra popoli e famiglia umana universale; Viviamo in un’era di interdipendenza planetaria, in cui cresce il potere degli individui e diminuisce quello degli Stati e delle Nazioni. VI) Sachs, convegno con SSNU all’Accademia delle Scienze Sociali: interconnessioni della società globale: aziende, idee, malattie, moda; si va definendo la necessità di una era dello sviluppo sostenibile: se è chiaro l’obiettivo, globale ed etico, mancano ancora gli strumenti e la visione politica; Cresce la spinta dal basso, l’autorganizzazione della società civile: i mass media, le Chiese, le organizzazioni non governative, i gruppi di pressione: entità che sempre più assurgono al ruolo di forza di polizia planetaria; non gendarmi del mondo, ma di coscienza civica; (società civile globale) Necessario costruire non muri, ma ponti; sviluppare le interconnessioni tra scienza e fede; favorire il dialogo tra le religioni; Tutto ciò richiama la responsabilità etica di ciascuno di noi; non cerchiamo alibi, non ci piangiamo addosso; “Staffetta generazionale”: le due ultime generazioni hanno sconfitto i totalitarismi, e avviato il boom economico e consolidato le basi del mondo globale; la vostra generazione avrà il compito di compiere un grande “aggiornamento”: preservare l’ambiente, estinguere la povertà, battaglia mai vinta una volta su tutte; la storia non finisce. VII) Conclusioni: dobbiamo credere che non esistano valori universali? La giustizia, la verità, la carità, la solidarietà, la fratellanza, l’amore, sono valori universali, validi in ogni tempo; Quando tante persone affogano nel Mediterraneo sappiamo ciò che è etico e ciò che non lo è; così come quando sappiamo che 900 milioni di persone soffrono la fame e 800 milioni sono gli obesi; Questi sono valori universali. Poi ne esistono di relativi, ad esempio, sono etici o meno gli OGM? A questa domanda il Padre della “Rivoluzione verde” e Premio Nobel per la Pace nel 1970, Norman Bourlag, rispose: “ se lo chiedete a che ha fame vi risponderà che non è etica la fame. Se lo chiedete ad un occidentale vi dirà forse di no perché non ricorda più cosa è la fame. Necessità di una “riumanizzazione” dell’umanità, nel momento in cui tutti i valori e parametri tradizionali vacillano e divengono inadeguati: non funziona - - - più il mercato; tramonta il concetto classico di democrazia liberale; proliferano i soggetti internazionali e si indebolisce l’idea di nazione e di stato; divengono evidenti i “limiti dello sviluppo” (ricordo il “rapporto sui limiti dello sviluppo” “The limits of growth” del Club di Roma e del MIT del 1972); è in crisi il concetto tradizionale di famiglia nucleare. Al punto che si parla di “post umanità” o “trans-umanità”; Creare i presupposti per un Nuovo umanesimo: (convegno di Assisi del marzo 2014 presso l’Istituto Teologico). La dignità della persona deve essere posta o riportata al centro del disegno: corpo e anima, cultura e spiritualità; vita personale, sociale e politica. Combattere il relativismo etico, che induce a ritenere inesistente un criterio oggettivo e universale per stabilire il fondamento e la corretta gerarchia dei valori. A questo punto possiamo rispondere alla domanda lasciata in sospeso in precedenza. Esiste un’etica nelle relazioni internazionali? Possiamo rispondere che esiste un crescente bisogno di etica nello sviluppo di una visione globale del mondo, più dal basso che dall’alto. “La storia è in movimento e bussa alla nostra porta: è il momento di far sentire la nostra voce” (Le Monde: Daniel Rauchan). Intervento del Prof. Ugo Villani - Ordinario Diritto Internazionale Università di Bari e Comitato Scientifico AESI L’Unione europea si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, valori che sono comuni agli Stati membri. Riguardo alla democrazia va osservato che, sin dalle loro origini, le Comunità europee hanno sofferto di un deficit democratico derivante, principalmente, dal trasferimento di poteri legislativi dagli Stati membri alle stesse Comunità. Tale trasferimento aveva comportato una sottrazione di poteri ai parlamenti nazionali che, per quanto “fisiologica” nel processo di integrazione europea, non era stata accompagnata da alcuna misura di compensazione a livello europeo. Il Parlamento europeo, infatti, deteneva un potere meramente consultivo rispetto alle proposte formulate dalla Commissione, mentre il potere decisionale era concentrato nel Consiglio, formato dai ministri degli Stati membri. Nel Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 i principi democratici sono enunciati, anzitutto, nella forma della democrazia rappresentativa. A questo riguardo l’art. 10 TUE ribadisce una duplice legittimità: essa consiste, da un lato, nella legittimità “europea”, che si manifesta nella rappresentanza diretta dei cittadini dell’Unione nel Parlamento europeo; dall’altro, nella legittimità “nazionale”, che si esprime nella rappresentanza indiretta dei popoli dei singoli Stati membri nell’ambito del Consiglio europeo e del Consiglio, attraverso i Capi di Stato o di governo e, rispettivamente, attraverso i governi, a loro volta democraticamente responsabili verso i parlamenti nazionali (o verso i loro cittadini). Per quanto riguarda il Parlamento europeo, anzitutto è prevista, quale procedura legislativa ordinaria, la “codecisione”, nella quale l’adozione di un atto avviene solo se esso sia approvato sia dallo stesso Parlamento che dal Consiglio. Esistono, peraltro, procedure legislative speciali, nelle quali solitamente l’atto è adottato dal Consiglio con la partecipazione del Parlamento in funzione meramente consultiva. Inoltre in materia di politica estera e di sicurezza comune (PESC) il Parlamento non partecipa in alcun modo al procedimento decisionale, limitandosi ad essere consultato regolarmente dall’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali e ad essere informato. Anche nella governance europea dell’economia, che pure incide sensibilmente sulla vita quotidiana dei cittadini, il Parlamento europeo è collocato in una posizione sostanzialmente marginale. Va infine sottolineato che il Parlamento e i suoi membri non hanno tuttora poteri di iniziativa legislativa. Il Parlamento europeo può solo chiedere alla Commissione di presentare adeguate proposte sulle questioni per le quali reputa necessaria l’elaborazione di un atto dell’Unione ai fini dell’attuazione dei Trattati. Per la nomina della Commissione, il Consiglio europeo propone al Parlamento europeo un candidato alla Presidenza, destinato ad essere eletto dallo stesso Parlamento a maggioranza dei suoi membri, “tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo e dopo avere effettuato le consultazioni appropriate” (art. 17, par. 7, TUE). Il riferimento ai risultati elettorali del Parlamento induce a prefigurare il candidato Presidente della Commissione come politicamente coerente con la maggioranza parlamentare, subordinando sempre di più l’individuazione del Presidente (e, indirettamente, dell’intera Commissione) all’orientamento politico del Parlamento. È sulla base di questa disposizione che, in occasione delle elezioni del Parlamento europeo del maggio 2014, i principali raggruppamenti politici si sono presentati ciascuno con un proprio candidato Presidente. Com’è noto, il Consiglio europeo ha designato quale Presidente il leader del partito “vincitore” delle elezioni, Jean-Claude Juncker del Partito Popolare europeo, il quale ha poi ottenuto la “fiducia” del Parlamento europeo. Il legame di fiducia politica tra il Parlamento e la Commissione emerge anche dalla possibilità, prevista sin dai Trattati originari, che il Parlamento europeo, con una mozione di censura, determini le dimissioni dell’intera Commissione, nonché dal potere dello stesso Parlamento e dei suoi componenti di rivolgere interrogazioni alla Commissione e dall’esame che il Parlamento compie della relazione generale annuale della Commissione. Nei rapporti con il Consiglio va sottolineato che il Parlamento europeo non condivide solo, di regola, i poteri legislativi, ma anche quelli in materia di approvazione del bilancio. Peraltro il Parlamento resta in una posizione marginale nella definizione del sistema delle risorse proprie, esercitando al riguardo un ruolo meramente consultivo. Ai parlamenti nazionali è dedicato l’intero art. 12 TUE, il quale, dopo avere dichiarato che essi contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell’Unione, dispone che siano informati dalle istituzioni europee e ricevano i progetti di atti legislativi, in conformità del Protocollo n. 1. Questo stabilisce dei termini prima dei quali il progetto non può essere esaminato o approvato dal Consiglio, al fine, evidentemente, di consentire ai parlamenti nazionali un adeguato esame e discussione del progetto e la formulazione di osservazioni e atti di indirizzo nei riguardi dei propri esecutivi. In alcuni casi i parlamenti nazionali possono avere rapporti diretti con le istituzioni europee. L’ipotesi di maggior interesse riguarda il controllo preventivo sul rispetto del principio di sussidiarietà nei progetti di atti legislativi europei, che ciascun parlamento nazionale (o sua camera) può esercitare formulando un parere motivato nel quale dichiara di ritenere che il progetto non sia conforme a tale principio. Il parere va tenuto in conto dalle istituzioni proponenti; se proviene da almeno un terzo dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali il progetto deve essere riesaminato e, al termine del riesame, l’istituzione proponente è tenuta a motivare la sua decisione, di mantenere il progetto, così come di modificarlo o ritirarlo. Infine, se un atto da adottare con la procedura legislativa ordinaria sia contestato dalla maggioranza dei voti dei parlamenti nazionali, la Commissione deve riesaminare la proposta e, ove intenda mantenerla, deve inviare il proprio parere e quelli dei parlamenti nazionali al Parlamento europeo e al Consiglio. Questi ne tengono conto e, anteriormente alla conclusione della prima lettura, esaminano la compatibilità della proposta con il principio di sussidiaretà. Se il Consiglio o il Parlamento europeo ritengono che la proposta sia incompatibile con tale principio essa non forma oggetto di ulteriore esame. L’attribuzione di un siffatto potere ai parlamenti nazionali suona quale espressione di accresciuta sensibilità per i principi democratici, non solo per l’ovvia considerazione che detti parlamenti sono organi squisitamente democratici; ma anche perché tende a garantire che sia rispettata quella esigenza – sottesa al principio di sussidiarietà – che le decisioni siano prese nella maniera il più possibile vicina ai cittadini. L’art. 11 TUE contempla varie forme anche di democrazia partecipativa. Le istituzioni, anzitutto, danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali, la possibilità di fare conoscere e di scambiare pubblicamente le proprie opinioni in tutti i settori di azione dell’Unione; in secondo luogo è prescritto che sia assicurato un dialogo aperto, trasparente e regolare tra le istituzioni europee e le associazioni rappresentative e la società civile; infine la Commissione, allo scopo di assicurare la trasparenza delle azioni dell’Unione, procede ad ampie consultazioni delle parti interessate. Nel contesto della democrazia partecipativa è previsto un potere di iniziativa legislativa popolare. Cittadini dell’Unione, in numero di almeno un milione e aventi la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri, possono invitare la Commissione, nell’ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali essi ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini dell’attuazione dei Trattati. La più precisa regolamentazione di tale iniziativa popolare è contenuta nel regolamento n. 211/2011 del 16 febbraio 2011, il quale ha già trovato alcune applicazioni in materia particolarmente “sensibili”, come il diritto all’acqua, i diritti dell’embrione, l’abolizione della vivisezione. In conclusione, malgrado alcune “zone d’ombra” (si pensi alla PESC) e talune tendenze verticistiche, come quelle risultanti dal rafforzamento del ruolo del Consiglio europeo, ci sembra che il quadro attuale mostri un complessivo avanzamento dei principi democratici nella costruzione europea. Esso deriva non solo dal netto ampliamento dei poteri del Parlamento europeo, ma anche dal nuovo ruolo assegnato ai parlamenti nazionali, il quale intacca il monopolio governativo della rappresentanza degli Stati e può risultare particolarmente congeniale a un’esperienza non meramente internazionale, ma sopranazionale qual è quella europea. In ogni caso le diverse forme ed espressioni nelle quali oggi si atteggiano i principi democratici offrono al cittadino europeo nuove e più efficaci opportunità di partecipare alle determinazioni concernenti la vita e il futuro dell’Unione. FORUM AESI RAPPRESENTANZA DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN ITALIA Intervento della Dott.ssa Giuseppina Visciano - Stager AESI Per Habermas, la democrazia è quella “autodeterminazione che i destinatari creano con leggi di cui sono al tempo stesso gli autori”. In questo contesto l’Unione Europea è un esempio di nuova democrazia transazionale, in quanto da modo ai suoi cittadini di mettere a frutto tramite le varie democrazie nazionali, l’uso civico della libertà di autodeterminazione. La tematica europea della transnazionalizzazione della democrazia è diventata sempre più urgente a partire dal XX secolo, momento in cui è cresciuta in modo esponenziale la necessità di far fronte ad una sempre più complessa società mondiale. Mercati finanziari, nuove tecnologie, deficit democratici, nuove e più complesse mobilità dei popoli, senza contare inoltre, le numerose problematiche legate al welfare state, hanno superato il consueto raggio d’azione degli Stati nazionali. La politica, incapace di organizzarsi di fronte a queste problematiche sembra averne perso il controllo. Quello che distingue la posizione europea da coloro che propongono la creazione di uno stato federale europeo sul modello degli Stati Uniti d’America, è il ruolo che l’Europa riserva allo Stato Nazionale. La particolarità dell’Unione Europea consisterebbe nel fatto che gli Stati membri, pur conservando il monopolio della forza, si vincolano, spontaneamente ad un diritto sovranazionale europeo, condividendo così la propria sovranità. I singoli governi si accordano ad attuare un diritto europeo che deve essere convertito poi in termini nazionali. Inoltre, rispetto al consueto modello federale, l’Europa ha sviluppato e sta procedendo a perfezionare un secondo upgrade proprio del suo processo democratico. Questo avviene con la duplicazione della sovranità, e con la divisione del potere costituente tra i cittadini dell’Unione e i popoli europei in quanto membri dei singoli stati. Il Parlamento Europeo rappresenta i cittadini in quanto membri dell’Unione Europea, viceversa il Consiglio d’Europa rappresenta la totalità dei popoli in quanto appartenenti al proprio Stato: la duplicazione della sovranità fa in modo che lo Stato nazionale continui a svolgere il ruolo di garante del diritto e della libertà democratiche del suo popolo. La nostra contemporaneità ci pone però di fronte a quesiti ancora senza risposta, si veda il conflitto tra culture e religioni diverse, i problemi etici posti dalla tecnica, dal welfare state e dal potere incontrollabile della finanza nella gestione dell’economia. La politica ha cercato in questi anni di rispondervi con giustificazioni di tipo sociologico e funzionalista che però non collimano con i bisogni di una democrazia transnazionale come quella europea che non può certo contentarsi di avere fondamento nella sua stessa legittimazione né nella sua efficacia. Alcuni esempi sono le missioni Mare Nostrum e Triton. Nell’immediato danno risposte legittime e cercano di essere efficaci, tuttavia nella loro attuazione si fatica a scorgere una visione etica di lungo corso. Il gap che passa dall’etica fondante dei singoli dettami costituzionali ai valori condivisi della società europea, in questo frangente appena evocato, sembra incolmabile . D’altra parte però, proprio per la sua efficacia costituiva, lo Stato non può più raccogliere l’adesione dei cittadini attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, se non rinunciando alla propria funzione e ricadendo nello stesso totalitarismo da cui è fuggito nel secondo dopoguerra. L’Europa pertanto auspica ad essere una comunità politica, non solo come l’oggetto destinatario di norme legali, ma innanzitutto come soggetto democratico. Solo così essa diviene dêmos di una democrazia, situata in un orizzonte di significato entro cui sia i cittadini che le istituzioni comprendono e giustificano la loro condotta. Senza il fondamento democratico, sembrerà banale ma non trascurabile, sia la pólis greca che poi la res publica romana che le successive formalizzazioni statali che conosciamo, si sarebbero formalizzate in un ordinamento limitato al proprio vincolo societario su base puramente secolare. In conclusione l’unico orizzonte europeo possibile è tecnicamente di natura democratica, perché consegna ai suoi abitanti un’immagine stabile di quelli che sono gli interessi ultimi della sua comunità, alla luce della sua identità formatasi dal passato, nel presente, per il futuro. Pertanto vorrei sollevare l’attenzione su una domanda che personalmente trovo molto interessante e che riguarda la natura della democrazia oggi: Così come molte altre democrazie quella europea ha commesso troppo spesso lo sbaglio di investire troppo sulle elezioni e troppo poco sugli altri tratti essenziali della democrazia. Soprattutto guardandosi dallo spauracchio della maggioranza, ossia l’idea, o la paura che si innesta strumentalmente negli elettori, che la vittoria elettorale dia ai vincitori il diritto di fare quello che vogliono. Quindi come può l’Europa tenere a bada questa tentazione e costruire sistemi di garanzia e tutele per evitare eccessi di immobilismo o, eccessi di decisionismo? Ma soprattutto l’Europa ha caratteristiche intrinseche per trovare un equilibrio tra questi due estremi? Intervento della Dott.ssa Viviana Malomo - Stager AESI Con il termine «etica», dal greco «costume, norma di vita», si intende quella branca della filosofia morale che studia il comportamento umano, la scienza dei costumi e delle relazioni sociali. Negli ultimi anni il concetto di etica sembra sia diventato protagonista del dibattito europeo, sempre più spesso si usano espressioni come finanza etica, commercio etico, etica degli affari. Una crisi gravissima fa da contraltare a questa apparente “eticizzazione” dell’economia, crisi interpretabile anche come la conseguenza ed il frutto di comportamenti eccessivi e spregiudicati da parte di alcuni operatori economici, in particolare finanziari. Le esigenze avanzate in tutti i tempi ed in tutti gli ambienti sociali per il miglioramento della condizione dell’uomo sono sfociate nella rivendicazione di libertà e di diritti, sinonimo di democrazia, sinteticamente individuati come diritti dell’uomo. Le esperienze negative delle dittature o della violazione della dignità umana, nonché la stessa esperienza storica dell’integrazione europea, sono state il risultato della compressione dei valori etici, ossia il tentativo di disconoscere valori come la libertà dell’individuo, il diritto all’integrità personale, il valore fondante della famiglia e diritti come quelli di proprietà, di istruzione e alla salute. Fino al 10 dicembre del 1948, giorno in cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a larga maggioranza la Dichiarazione universale, i diritti umani non erano internazionalmente riconosciuti. Nessuna regola internazionale prendeva in considerazione i diritti della persona in quanto tale; ciascuno stato, pertanto, attraverso il proprio apparato di governo, esercitava poteri sovrani su una porzione di territorio, e sulle persone presenti su quella porzione di territorio, senza incontrare limiti ‘esterni’. Con la Dichiarazione universale, per la prima volta nella storia, gli stati s’impegnano l’uno nei confronti dell’altro a rispettare - senza fare distinzioni di razza, sesso, lingua o di alcun altro genere - i diritti elencati in una Dichiarazione solenne; ed accettano l’idea che si debba rispondere dell’eventuale mancato rispetto di quell’impegno, alla comunità internazionale; si creano le condizioni per lo sviluppo di un diritto internazionale dei diritti umani quale componente essenziale del diritto internazionale contemporaneo. Ed è questa la vera ragione dell’importanza della Dichiarazione universale dei diritti umani. Nonché, la stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, riconosce una serie di diritti personali, civili, politici, economici e sociali dei cittadini e dei residenti dell’UE, riunendo in un unico documento i diritti che prima erano dispersi in vari strumenti legislativi, è stato certamente un segno di pregresso verso un “Europa dei diritti della persona”. Robert Schuman, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea, afferma che “La democrazia deve la sua origine e il suo sviluppo al cristianesimo. È nata, quando l’uomo è stato chiamato a realizzare la dignità della persona nella libertà individuale, il rispetto dei diritti degli altri e l’amore verso il prossimo. Prima dell’annuncio cristiano tali principî non erano stati formulati, né erano mai divenuti la base spirituale di un sistema di autorità”, ed è proprio la tematica dei diritti dell’uomo forse il canale privilegiato, che permette di dare un proprio apporto peculiare al discorso etico. Lo sviluppo delle tecnologie, della scienza, delle comunicazioni, e la stessa globalizzazione per certi versi hanno contribuito in maniera determinante al miglioramento delle nostre condizioni di vita, ma pongono problemi etici finora inediti, ripropongono, inoltre, temi antichi in una prospettiva nuova, in quanto spesso, purtroppo, la persona umana è ridotta anch’essa a risorsa, allo stesso titolo delle risorse naturali energetiche, tecnologiche e finanziarie. In quanto risorsa, pertanto, la risorsa umana non è che un costo da ridurre, in combinazione e comparazione con i costi delle altre risorse. La combinazione tra progresso tecnologico, minori costi di trasporto e liberalizzazione delle politiche nell’Unione europea ha determinato un incremento dei flussi commerciali e finanziari tra i paesi, con importanti ripercussioni sul funzionamento dell’economia dell’UE. A fronte dei benefici ed opportunità prodotti dalla globalizzazione, l’Europa deve sostenere la forte concorrenza delle economie a bassi costi, come quella cinese e indiana, e di quelle incentrate sull’innovazione, come quella statunitense. Per essere equilibrato, il processo di globalizzazione esige una nuova capacità di intervento politico, attraverso l’introduzione di meccanismi, regole e correttivi che possano migliorare il sistema economico internazionale, solo così si potrà mettere fine alle sperequazioni, nel rispetto delle varie culture, nella difesa dell’ambiente e nel rispetto delle biotecnologie. Solo alla luce dei diritti umani cui di frequente ci si richiama, si può raccogliere la “sfida etica” della globalizzazione per ristabilire il primato delle regole, ritrovando il difficile, ma imprescindibile, equilibrio tra efficienza, equità, libertà e benessere, all’interno dell’Unione Europea. È necessario, quindi, trovare una risposta adeguata alla globalizzazione, tale da trasformare i potenziali benefici della medesima in vantaggi concreti, minimizzando al contempo i costi sociali. Ed è proprio in tal contesto che si pone l’importante ruolo che svolge la Commissione europea nella definizione di una strategia politica coerente volta ad affrontare le sfide della globalizzazione, la quale segue con attenzione l’evoluzione delle principali tendenze nel commercio mondiale e valuta inoltre periodicamente l’impatto della globalizzazione sull’andamento economico dell’UE, formulando suggerimenti alla luce delle sue analisi. Inoltre, nel campo della vita umana, tutti conoscono i mirabili progressi della biologia e della bioingegneria, ma sono noti parimenti i pericoli di azioni, troppo ardite, che comportano forme inaccettabili di manipolazioni ed alterazioni. La vita e la libertà sono beni inseparabili, quando se ne viola uno anche l’altro finisce con l’essere violato, ed ancora oggi viviamo questa divisione, espressa dal conflitto tra libertà di ricerca tecnico scientifica ed esigenze legate alla verità e dignità della persona. Purtroppo, si consentono delle pratiche di tipo eugenetico che negano di fatto il diritto alla vita (in alcune legislazioni, infatti, vi è della possibilità di pratiche abortive, senza alcuna limitazione, in particolare quando determinate da vere e proprie motivazioni eugenetiche). Ed è sotto il profilo etico, che l’eugenetica moderna presuppone un’eliminazione sistematica, programmata di esseri umani, nella maggior parte dei casi motivata da ragioni e pressioni di origine economica , c.d. etica utilitarista. Tra gli obiettivi fondamentali per l'Unione europea, vi è, altresì, la necessità di raggiungere una politica migratoria europea lungimirante e globale, fondata sulla solidarietà, al fine di stabilire un approccio equilibrato per affrontare sia l'immigrazione regolare sia quella clandestina. Tuttavia, oggi si dimostra la particolare difficoltà dell’Europa, con una politica collettiva, nel far fronte al dramma dei “migranti”, (quali le missioni Mare Nostrum e Triton). Pertanto, la pace nel Mediterraneo, un nuovo dialogo con l’Europa, maggiore coesione sociale e libertà nel rispetto delle diverse culture e religioni, sono obiettivi, che una volta raggiunti contribuiranno a determinare un benessere all’interno dell’Europa. Concludendo, con queste parole, si può affermare che l’Europa deve essere vista come una risposta politica alle domande del futuro, in tutti i campi tematici: mercato del lavoro, ecologia, Stato sociale, migrazione internazionale, libertà politiche, diritti fondamentali Pertanto, solo nello spazio transnazionale dell’Europa, le politiche dei singoli Stati possono divenire, da oggetto minacciato, soggetto di una globalizzazione organizzata, a salvaguardia dell’etica e dei diritti umani sopra richiamati, nel rispetto della vita etica stessa. Giugno 2015 – VILLA MADAMA - CASALE ore 16.00 Via di Villa Madama 250 - ROMA MINISTERO AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE “ IDENTITA’ E FUTURO DELL’EUROPA” Saluti : Min. Plen. Stefano Baldi - DGRI Ministero Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI Coordinatore: Amb. Adriano Benedetti – Comitato Scientifico AESI Interventi: Dott. Lucio Battistotti Direttore della Rappresentanza Commissione Europea in Italia e Comitato Scientifico AESI Amb. Giovan Battista Verderame - Comitato Scientifico AESI Prof.Massimo Panebianco - Ordinario di Diritto Internazionale Università di Salerno e Comitato Scientifico AESI Prof. Antonio Macchia – Segretario Generale AESI Presentazione del Prof. Massimo Maria Caneva, Presidente AESI , di “Sr. Thomas More” Diplomatico, Umanista e Politico (Documento Video) Modera: Dott.ssa Federica Parisi – Staff AESI Introduzione del Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI “Ogni popolo è il creatore della propria cultura ed il protagonista della propria storia. La cultura è qualcosa di dinamico, che un popolo ricrea costantemente, ed ogni generazione trasmette alla seguente un complesso di atteggiamenti relativi alle diverse situazioni esistenziali, che questa deve rielaborare di fronte alle proprie sfide. L’essere umano «è insieme figlio e padre della cultura in cui è immerso” Così ci dice Papa Francesco nella Evangelii Gaudium punto 122 Lavorare con i giovani, ed in particolare con gli studenti universitari, è una missione privilegiata soprattutto a favore di quei popoli che sono in conflitto tra loro da tanto tempo e cercano un futuro di pace. Ho detto con i giovani perché solo condividendo i loro ideali ed i loro sentimenti si può cambiare questo mondo che tanto ci preoccupa e nei confronti del quale sembra che la speranza sia divenuta impossibile da vivere. Prima a Sarajevo, città martire del XX Secolo, poi a Gerusalemme, e ancora tra i giovani che sperimentano le divisioni in Libano ed in Siria, ho sempre provato a condividere con loro i problemi di una convivenza civile difficile e trovare soluzioni di convivenza pacifica, di ridare speranza nella costruzione del futuro del loro Paese. Alcuni di loro sono oggi consiglieri della presidenza della repubblica del loro paese, oppure hanno intrapreso la carriera politica diventanto vice sindaco della loro città, come quella di Sarajevo, oppure consiglieri politici nel parlamento come quello israeliano, o libanese, o impegnati in diplomazia o programmi internazionali. Certo loro non fanno notizia, ma questo è l’inizio del vero cambiamento profondo di cui questi paesi beneficeranno nel tempo. E quanto ci fa bene a noi partecipare con loro a questo progetto nel tempo ! Oggi purtoppo siamo testimoni di altro drammatico fenomeno: molti giovani dalle nostre università europee vanno alla guerra rischiando la vita in scenari terrificanti di desolazione e morte, dove nulla conta e tutto è drammma esistenziale, violenza, giovani spesso che sono stati abbandonati nel loro percorso di formazione umana alla verità, emarginati alla perfiferia delle grandi città europee, cittadini di seconda o terza generazione, figli di immigrati trattati come persone di seconda o terza classe in una società opulenta di benessere e sfrenata libertà. Poi ci fanno paura le maree di disperati che arrivano in Europa. Certo ci stanno dicendo e gridando che li abbiamo abbandonati nei loro Paesi poveri già da tempo, preda di aguzzini, quegli stessi mercanti di uomini che abbiamo utilizzano per i nostri traffici, mercanti di persone rese schiave, sfrutando per secoli le loro risorse naturali solo ed esclusivamente per il nostro benessere. Voi mi direte: ma loro non hanno responsabilità con i loro governi spesso corrotti e dittatoriali ? Certo, ma noi abbiamo preferito molte volte utilizzare e sostenere proprio questi governi corrotti per i nostri fini econimici ed il nostro benessere. Ed ora che la crisi è arrivata alle nostre porte, anche da noi ed i nostri giovani non hanno lavoro, che fare ? Con alcuni docenti e amici di università italiane, abbiamo intrapreso da oltre dieci anni un percorso con i giovani universitari israeliani e palestinesi, cristiani, musulmani, giudei, che mai si erano prima incontrati per dirsi che è possibile capire con l’intelligenza dell’uomo libero che si può scegliere la pace perché fa parte della verità sull’uomo, fa parte di quello che c’è più profondo in ognuno di noi, che può essere l’obiettivo di un progetto politico per il quale battersi. Capire che formarsi alla pace è anche uno sforzo intellettuale che muove i sentimenti e porta alla testimonianza della solidarietà e la promozione della cultura della solidarietà. Quanto vorrei che le Nazioni Unite e l’Unione Europea si rinnovassero a favore della cultura della solidarietà e del coraggio della pace ! Tutto ciò parte dalla nostra memoria che ci aiuta a ritrovare la nostra identità che permette di gettere le basi di un vero cambiamento per il futuro attraverso le nuove generazioni ! Coordinatore: Amb. Adriano Benedetti – Comitato Scientifico AESI Il tema dell’identità dell’Europa ricorre da alcuni anni nei nostri seminari. A mio giudizio, quando il tema è evocato così frequentemente, ciò significa che l’Europa si sta dibattendo fra problemi reali. E che sia così, basta leggere i titoli di prima pagina dei giornali. D’altronde il nostro successivo dibattito lo confermerà. Per portare un po’ d’ordine alla discussione su una questione certamente importante ma nel contempo così elusiva, mi permetto di delineare alcuni approcci nella riflessione sulla identità. C’è senz’altro il cammino che ci porta ad individuare la identità storica, esistenziale del nostro continente. Quella identità sempre cangiante a seconda della percezione delle generazioni che si avvicendano nel territorio europeo, ma che si nutre di radici profonde richiamantesi al patrimonio di eredità greco-romana ed ovviamente alla grande forza di irradiazione spirituale, religiosa e morale del Cristianesimo: anche nelle sue estrinsecazioni protestanti, soprattutto nella sottolineatura della libertà di coscienza. Un altro modo di intendere la identità è quello che conduce alle fondamentali acquisizioni normative e valoriali contenute nei vari testi in cui si articola la “carta costituzionale” europea, soprattutto il trattato di Lisbona dopo la mancata approvazione del “trattato costituzionale”: è un approccio che ha un significativo seguito segnatamente in Germania grazie all’importante lavoro di approfondimento di Habermas. Ed infine c’è la via quotidiana, pragmatica che praticano tanti giovani europei che, attraverso contatti di lavoro o schemi di scambi universitari come l’Erasmus, hanno trovato una identità comune tanto più sciolta e convincente in quanto fondata sullo slancio dell’ottimismo e sulla assenza di frontiere fisiche e culturali ingombranti. Devo dire che mi ha molto colpito la testimonianza fresca ed autentica, sul loro sentirsi irrimediabilmente europee, delle studentesse Thea Restorin e Isabelle Choppin che hanno introdotto con incisive relazioni i lavori del “forum” della scorsa settimana: per loro essere europee è una percezione immediata che prescinde da categorizzazioni intellettualistiche. Nel dare più o meno legittimo spazio a tante critiche sugli attuali assetti europei, è doveroso riconoscere anche la suddetta realtà giovanile che costituisce forse il puntello più forte ed efficace della mai doma speranza in una Europa integrata. E’ un imperativo morale e intellettuale, tuttavia, chiedersi quale sia lo stato effettivo dell’Europa oggi. Il bilancio, più che essere fatto di luci ed ombre, è decisamente scoraggiante. L’Europa è assalita da problematiche e da sfide, sia all’interno che all’esterno, che richiederebbero per essere efficacemente affrontate una coerenza di intenti e un rigore di propositi che sono sinceramente latitanti o, perlomeno, carenti. L’approccio economico-funzionalista che puntava a costruire progressivamente l’integrazione coinvolgendo un numero crescente di settori ha consentito avanzamenti importanti ma non sembra ora capace di andare oltre i risultati raggiunti e si fa sempre più forte la voce che reclama un salto in avanti di natura politico-istituzionale. Ma nel contempo non si può non constatare che il panorama spirituale, morale dell’Europa è all’insegna di una piattezza e di una desertificazione collettiva che non hanno probabilmente paragoni nella lunga storia del nostro continente. Contestualmente si è venuto inaridendo quell’afflato religioso che è la fonte prevalente di ogni vera impostazione etica e valoriale: e in ciò l’Europa si distingue dal ritorno alla religione e alle forme del sacro che è proprio, in misura e modalità diverse, di tutti gli altri continenti. E allora diventa legittima la domanda: di fronte a tanta rarefazione spirituale, dove mai l’Europa riuscirà a trovare la forza, il coraggio, la lungimiranza, la perseveranza per avviare e sostenere quella drastica riforma della coscienza, quanto meno politica europea, che valga ad introdurre l’Unione in una nuova configurazione di cui la dimensione politica diventi finalmente il fattore trascinante e risolutivo? E ancora: c’è un nesso tra la grave crisi morale che vive l’Europa e l’ ”impasse” in cui la costruzione europea si trova attualmente? In tutta onestà non ho alcuna risposta ispirata a certezza. Ma constato un crescente scenario di “macerie” e di difficoltà che si sta stringendo sempre più attorno al continente. Il rischio è che l’impulso alla frammentazione che sta in questo momento minando l’ordine internazionale (la stessa globalizzazione – secondo un noto e stimato economista italiano – si è volta per tanti aspetti “unfriendly”) si insinui con la sua carica dirompente all’interno della nostra Europa e ne comprometta non solo le prospettive di ulteriore positiva evoluzione, ma anche gli stessi risultati di civiltà e progresso finora faticosamente realizzati. Dott. Lucio Battistotti Direttore della Rappresentanza Commissione Europea in Italia e Comitato Scientifico AESI Nemmeno in periodo di crisi si può dimenticare o sottovalutare il contributo essenziale che il processo di costruzione europea ha apportato al destino del nostro continente negli ultimi sessant’anni. Sotto diversi aspetti i successi dell’Europa hanno superato le più audaci aspettative dei suoi padri fondatori. Quello che all’epoca sembrava essere soltanto un sogno, rendere “impensabile” la guerra tra gli Stati membri dell’Unione, è diventato una realtà incontestabile. L'Europa ha riconquistato il bene supremo della pace e numerosi altri valori e diritti universali calpestati durante oltre un millennio di guerre fratricide e di cultura dell'odio. Che cos'è oggi l'Europa? Quali sono le sue straordinarie conquiste? Quali sono i diritti di cui gode ogni cittadino europeo? Gli Stati Membri nel percorso di integrazione hanno costruito, tappa dopo tappa, uno spazio privilegiato della speranza umana, attuando e promuovendo i valori e i diritti universali non soltanto in Europa ma nel mondo intero. Vorrei richiamare la vostra attenzione sui traguardi raggiunti sino ad oggi: lo sviluppo economico, la pace, gli scambi culturali, la possibilità di viaggiare con più facilità, il sentirsi un’unica famiglia europea, anche se oggi lo spirito solidaristico, che dovrebbe aiutarci a superare la crisi, latita di fronte agli egoismi. Il punto centrale rimane: cosa deve/può unire i paesi europei? Si vogliono vedere solo gli aspetti economici e non anche quelli culturali e religiosi che costituiscono le radici dell’Europa; per esempio si pensi alla Grecia e al ruolo della cultura classica, o alle radici cristiane e quindi al recupero della dottrina sociale cristiana anche in economia. De Gasperi diceva che: "bisogna far sì che tutte le componenti rientrino nella costruzione dell’Europa, quella liberale, quella sociale, quella cristiana. L’Europa salverà se stessa, la propria moneta e l’economia di mercato se saprà “unire” davvero il suo peso politico, culturale ed economico e lo userà per rimettere il lavoro e l’impresa al centro dell’economia”. Un modello di economia che non deve essere pensato come uneln luogo separato e con proprie leggi diverse da quelle che regolano l’intera vita sociale. Il nostro modello non è quello della speculazione e del business a tutti i costi, ma quello dove l’impresa si fa anche carico di problemi sociali e familiari. Al centro dell’Europa che vogliamo, ci deve essere poi la difesa dei diritti “non negoziabili” e della dignità di ogni persona, che proprio la cultura umanistica e cristiana hanno valorizzato nella storia europea. Politica, Economia, Religione e Cultura sono come le 4 gambe di una sedia; l’Europa, senza una di esse, non sta più in piedi. Purtroppo l’impatto della crisi iniziata a fine 2007 ha segnato profondamente i cittadini, nelle loro condizioni di vita e anche nelle loro visioni e opinioni generali, contribuendo a ingenerare disaffezione e sfiducia verso il progetto europeo. Per superare i rischi che da ciò scaturiscono per l’ulteriore, necessario sviluppo della costruzione europea, si stanno levando voci autorevoli e avviando iniziative importanti in seno alle istituzioni e nel più ampio mondo politico e culturale. Oggi registriamo un forte senso di insicurezza e di smarrimento che pervadono i cittadini europei. Innanzitutto un ovvio e immediato senso di insicurezza economica, accompagnato da una contestuale preoccupazione circa la capacità delle nostre società di tenere fede all’impegno verso un sistema che non garantisca soltanto il benessere individuale, ma anche una vita dignitosa e giustizia sociale per tutti. Un obiettivo fondamentale come quello di assicurare un adeguato approvvigionamento energetico, che ci consenta di riscaldare le nostre case e far funzionare le nostre fabbriche, è diventato motivo di inquietudine. I mutamenti geopolitici, con conflitti armati di diversa natura che imperversano e alle porte dell’Europa, hanno fatto della difesa esterna e della sicurezza interna motivi di vera preoccupazione per molti. A un livello più profondo, l’identità culturale e politica specifica delle nostre società nazionali appare minacciata. Molti l’associano, a torto o a ragione, al fenomeno dell’immigrazione. Infine, crescono i dubbi sulla stessa Unione, in particolare sulla capacità delle nostre istituzioni di rispecchiare le aspirazioni e rispondere alle richieste proprio di quei cittadini che sono democraticamente chiamate a servire. Si fa strada un preoccupante disimpegno di vasti settori della cittadinanza dal processo di integrazione europea. Il fascino del “Sogno europeo” si è affievolito notevolmente ma le straordinarie conquiste realizzate in questi primi sessantacinque anni di vita nella casa comune europea confermano che la completa realizzazione del progetto europeo non è lontana. Saranno le prossime generazioni, non oppresse dal peso di un passato che non appartiene a loro, che lo porteranno a compimento convinte che “per il sogno europeo vaga la pena vivere” come osserva Jeremy Rifkin. La sfida che l’Europa ha davanti a sé consiste nel dare risposte a queste incertezze e tornare a essere fonte di speranza in un futuro migliore all’insegna della sicurezza. Deve saper dimostrare in modo convincente che per gran parte di queste tematiche l’Europa è la risposta migliore, e in alcuni casi l’unica efficace. Come in passato, sarà necessaria una leadership molto coraggiosa, che trascenda le preoccupazioni quotidiane immediate della nostra vita politica e sia guidata dalla visione, e dalla convinzione, di un futuro europeo migliore. Non esiste alcun singolo progetto che ci permetta di affrontare queste sfide dall’oggi al domani. Io, però, credo che un’azione decisa in alcune aree chiave possa rappresentare una piattaforma per trasformare l’Europa e riconquistare i suoi cittadini: • Le politiche attuate e gli strumenti concepiti in risposta all’attuale crisi sembrano cominciare finalmente a produrre i frutti auspicati in termini di crescita. Tuttavia, lo squilibrio tra gli strumenti monetari e di bilancio a disposizione dell’Europa va affrontato con risolutezza e qualsiasi strategia a medio e lungo termine per un futuro economico europeo credibile non può non prevederne la sua risoluzione. È evidente che le risorse dell’Unione sono sproporzionate rispetto alle sue responsabilità, ma vi sono già oggi risorse sufficienti per curare quella che per molti Europei è stata la maggiore ferita inferta dalla prolungata crisi economica e finanziaria: la riduzione dei posti di lavoro e del livello di protezione dei diritti sociali essenziali. • Analogamente, è necessario riesaminare le priorità secondo le quali l’Unione spende le proprie risorse. Storicamente l’Europa ha puntato sull’impegno nel settore agricolo. Nonostante le varie riforme della PAC, che hanno ridotto significativamente le risorse europee destinate all’agricoltura, il settore continua ad assorbire una quota considerevole del bilancio dell’Unione. Non si tratta di abbandonare completamente questo impegno, ma di prendere atto del fatto che la realtà della vita della maggior parte dei cittadini è urbana. Uno spostamento delle risorse verso una “Politica urbana comune”, in cui i sindaci potrebbero svolgere un ruolo importante, con progetti di riqualificazione urbanistica a beneficio della crescita e dell’occupazione, nonché del controllo climatico, dovrebbe divenire una priorità nel rilancio dell’Europa. • Oggi emerge chiaramente che, quella che una volta era considerata l’essenza della sovranità nazionale, è venuta meno: nessuno Stato membro ha le capacità per garantire da solo la difesa e la sicurezza dei propri cittadini di fronte alle potenziali minacce esterne o alla sfida del terrorismo, che non conosce confini nazionali. La sovranità nazionale in questo campo è un’illusione. Non si può continuare a rifiutare un’Unione europea per la difesa che riunisca capacità, spese e fornitura di difesa e sicurezza in nome di tale concetto illusorio di sovranità. Una siffatta Europa rafforzerebbe il proprio apporto e la propria voce all’interno della NATO e sarebbe in grado di affrontare con maggiore efficacia e legittimità le sfide del terrorismo estremista. Inoltre, per far fronte a tali sfide, la condivisione delle risorse nazionali di intelligence e investigazione aumenterebbe l’efficacia delle attività preventive e infonderebbe nei cittadini un senso di maggiore sicurezza. • La nostra interpretazione della cittadinanza europea deve essere rivista radicalmente. La mobilità, pur rimanendo uno dei principi fondamentali dello spazio comune europeo, non può rappresentare da sola l’essenza della cittadinanza europea. La vera cittadinanza non consiste nello spostarsi, bensì nella capacità dei cittadini di “possedere” la politica e di comprendere intimamente che le loro preferenze, espresse attraverso il processo politico, hanno un’influenza significativa e decisiva su chi governa l’Europa e su come essa debba essere governata. Per raggiungere tale obiettivo, servirebbe ad esempio un cambiamento del processo politico, affinché i cittadini chiamati alle urne siano in grado di compiere in modo informato scelte politiche significative in termini di strategie che l’Unione deve perseguire e coloro che governano a livello europeo siano tenuti a renderne conto in maniera sostanziale agli elettori. • L’andamento demografico dell’Europa dimostra che una politica d’immigrazione legale e ben regolamentata è, e continuerà a essere, imprescindibile per il suo futuro. La realtà della libera circolazione all’interno dell’Europa impone all’Unione l’adozione di una regolamentazione efficace dell’immigrazione, attesa a giusto titolo dai cittadini europei. Alla base di qualsiasi politica di tale natura vi è il presupposto che l’Europa diventi la patria dei nuovi arrivati, ma che questi, a loro volta, facciano dell’Europa e dei suoi valori la propria patria. La responsabilità di gestire l’immigrazione clandestina e i richiedenti asilo in linea con il nostro credo nell’inviolabilità della dignità umana non dovrebbe essere scaricata soltanto sugli Stati membri “d’ingresso”. La consapevolezza dello straordinario patrimonio di conquiste realizzate dall’Europa nel progressivo allargarsi delle sue istituzioni comuni fino a riunificarsi interamente; lo stesso cammino che l’Unione ha dovuto intraprendere per fronteggiare, dopo il 2009, la crisi globale e i rischi di una incombente destabilizzazione finanziaria; gli imperativi e le sfide dei nuovi equilibri internazionali e di una stringente competizione tecnologica ed economica mondiale: tutto conduce alla conclusione che l’Europa – per crescere economicamente e progredire socialmente per rendere operanti i suoi valori, per riaffermare la sua identità e il suo ruolo nel mondo – non ha dinanzi a sé altra strada che quella di una sempre più stretta integrazione, di “una sempre più stretta unione” in senso politico tra i suoi stati e i suoi popoli. Nella speranza di esservi stato utile vi ringrazio dell’attenzione e vi auguro buon proseguimento. Intervento del Prof. Massimo Panebianco – Ordinario di Diritto Internazionale Università di Salerno e Comitato Scientifico AESI Se fosse possibile un punto di partenza tratto dalla storia europea degli ultimi secoli, si potrebbe fare l’esempio del rifacimento della volta della Cappella Sistina, ordinata da Giulio II al giovane Michelangelo, che vi si applicò per oltre trent’anni, giungendo a vette ancora ineguagliate nell’era moderna e contemporanea. Anche i costruttori dell’Europa hanno ben operato sulle fondamenta e sulle mura del nuovo edificio, dandole una forma unica nelle giuste proporzioni. Eppure le immagini contenute nella volta, a chi guardi verso l’alto l’euro e l’Unione economica e monetaria, danno l’impressione che serva qualcosa di nuovo, di più e soprattutto di diverso. Nell’ambito dell’attuale processo di ridefinizione dei “confini” europei, l’Unione conferma la sua centralità, così come la sua fragilità. Implosa al suo interno e costretta al suo esterno, l’Unione europea necessita oggi di una ristrutturazione complessiva. Le operazioni di maquillage fino ad oggi condotte hanno portato più volte a ritocchi di facciata e messe a punto dei suoi ingranaggi di funzionamento. Ciononostante, l’Unione non è capita da buona parte della popolazione europea. È giunta forse l’ora di rivedere quella volta che unisce i pilastri formalmente aboliti. Dopo più di cinquant’anni dalla sua costituzione come comunità di diritto e poi di Unione di Stati di diritto e costituzionali, l’Unione europea si trova a dover affrontare un’altra ed importante sfida democratica, ovverosia quella di riequilibrare i suoi rapporti internoesterni. Le vicende degli ultimi anni confermano, infatti, la debolezza dell’impianto “interistituzionale”. Tanto significa necessità di riequilibrare i rapporti tra le istituzioni dell’Unione e le istituzioni nazionali, che operano scelte opposte a quelle di un processo di integrazione. Lo ha fatto per il passato, più volte e a ragione, la Corte costituzionale italiana nella definizione della famosa teoria dei contro-limiti. Lo ha fatto la Corte costituzionale tedesca anche contestando il diritto primario dei Trattati (Maastricht e Lisbona) rispetto ai poteri costituzionali dello Stato. Proseguono oggi altri Stati, come già per il passato, attraverso il ricorso al meccanismo di democrazia diretta del referendum. In tale direzione, non è la prima volta che tale meccanismo frena il processo di integrazione europea. Evidentemente oggi si è modificato il contesto normativo di riferimento. Utilizzato, infatti, nell’ottica della ratifica dei Trattati che seguono le disposizioni costituzionali nazionali, viene adesso impiegato quale strumento di opting out. Come nella storia dei referendum olandesi e francesi di 10 anni or sono, concernenti il progetto della mai entrata in vigore Costituzione europea, anche quelli più recenti o prossimi di Gran Bretagna non sono destinati a produrre catastrofi nel futuro della costruzione europea, a condizione che la connessione tra la democrazia interna e quella unionistica prosegua per la sua strada propria nel rispetto delle identità nazionali ed ugualmente nella assoluta osservanza dei risultati finora conseguiti. Intervento del Prof. Antonio Macchia – Segretario Generale AESI Quando ci poniamo il problema dell’identità europea, inconsapevolmente ripercorriamo un cammino affrontato già da altre civiltà che ci hanno preceduto e di cui siamo eredi. Già nella Grecia antica, soprattutto nel momento dello scontro con i persiani, ci si poneva la domanda sulle differenze che separavano il mondo europeo da quello asiatico. Ma alla definizione delle caratteristiche culturali di quella sfera continentale, allora prettamente mediterranea, non si arrivava però per autodefinizione, ma finiva per sostanziarsi in una serie di confronti con l’altro che ponevano delle distinzioni, secondo il metodo logico del non è. A ben vedere, nel corso di venticinque secoli, le cose non sono molto cambiate, anzi le differenziazioni culturali europee si sono amplificate, sia con l’aggiunta di altre famiglie, soprattutto quella germanica e quella slava un tempo fuori dall’universo greco e romano, sia per la stratificazione, nel tempo, di altre fratture, come quella tra cattolici, ortodossi e protestanti. In breve potremmo pervenire alla conclusione che una identità europea non esiste. Guardando alla storia europea come un film possiamo infatti concludere come essa sia una storia di divisioni e di competizioni tra tante piccole realtà, se comparate con i grandi imperi presenti in altri continenti. Eppure proprio questa storia di competizioni e rivalità ha reso l’Europa, o meglio le nazioni europee le padrone del mondo per lo spazio di almeno cinque secoli. Oggi che la potenza coloniale è ormai dissolta, ma il seme culturale europeo si è sparso per tutto il mondo, in termini di lingua, di religione, di cultura scientifica e tecnologica e persino di abitudini alimentari (quanti popoli consumano e producono, ad esempio, il vino e l’olio, due prodotti tipici del mondo mediterraneo). Insomma ci troviamo di fronte ad un mondo che è rimasto comunque colonizzato culturalmente dalle varie entità europee, ma di converso, cerchiamo un nesso comune, un filo rosso che unisca le varie culture europee. Paradossalmente, celebrando l’anniversario dei 70 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, viene da osservare come questo periodo e soprattutto, quello della guerra fredda, abbia portato con se una sorta di omologazione e quasi di appiattimento all’interno dell’universo intellettuale europeo. Da un lato la consapevole, costante e tattica azione di demolizione dei valori, definiti come borghesi, da parte del mondo sovietico, ha prodotto la nascita di un paesaggio culturale in cui domina il relativismo assoluto, poiché tutto è divenuto criticabile. Dall’altro l’unico modello che ha trionfato con la fine della guerra fredda è quello del liberismo economico, tipico del mondo nord americano, ma che sta finendo per demolire le basi del mondo economico europeo, basate non solo sui paradigmi del pareggio del bilancio, ma anche su quelli della solidarietà e del Welfare State. E’ evidente, ancora una volta, che l’Europa non è tutto questo, cioè né oriente né occidente atlantico, ma un mix di quelle basi economiche di cui si diceva e di una certa dose di tradizione, cioè non di cultura del conservatorismo, fine a se stesso, ma proprio di conservare e preservare il passato, un passato glorioso ed importante per quasi tutta l’umanità, escludendo solamente quelle comunità chiuse (oggi così chimericamente ricercate dai viaggiatori last minute) nelle quali la cultura europea non è penetrata se non marginalmente. Il futuro dell’Europa non può dunque che passare sia dalla sua costante spinta in avanti, sia dalla conservazione del suo passato. Un mix nel quale non vi sia solo l’approccio burocratico illuminista, ma anche un po’ delle bizzarrie dell’Ancien Règime. EUROPEA DI STUDI INTERNAZIONALI www.aesieuropa.eu COMMISSIONE EUROPEA Rappresentanza in Italia CASD SEMINARI DI STUDI EUROPEI PREPARATORI ALLE CARRIERE INTERNAZIONALI E COMUNITARIE “AVVENIRE DELL’UNIONE EUROPEA: RIFORMA E SOSTENIBILITA’” ANNO ACCADEMICO 2014/2015 7 luglio 2015 - VILLA MADAMA - CASALE Via di Villa Madama 250 - ROMA MINISTERO AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE CERIMONIA ATTESTATI SEMINARI DI STUDIO AESI 2015 ORE 16.00 PRESENTAZIONE E DISCUSSIONE DELLE TESI FINALI Coordinatore : Prof. Antonio Macchia - Segretario Generale AESI Relatori del Comitato Scientifico : On. Giuseppe Azzaro - Comitato Scientifico AESI Gen. Antonio Catena –Comitato Scientifico AESI Amb. Gianfranco Varvesi – Comitato Scientifico AESI Prof. Massimo Maria Caneva – Presidente AESI Amb. Adriano Benedetti – Comitato Scientifico AESI Ore 17.30 SESSIONE SPECIALE Saluti : Min. Plen. Stefano Baldi - DGRI Ministero Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI 17.45 Indirizzo di Saluto Gen. C.A. Massimiliano Del Casale, Presidente del CASD Ore 18.15 CERIMONIA ATTESTATI Presiedono: Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI Amb. Adriano Benedetti - Vice Presidente AESI AESI ASSOCIAZIONE EUROPEA DI STUDI INTERNAZIONALI www.aesieuropa.eu SEMINARIO PEACEKEEPING : LA COOPERAZIONE TRA DIPLOMAZIA, FORZE DI PACE ED UNIVERSITA’ In collaborazione con : PROGRAMMA - 22 Maggio 2015 Apertura del Seminario: ore 9.00 Arrivo dei partecipanti ore 9.15 Saluto: Amm. SQ Rinaldo Veri - Presidente CASD Messaggio del Gen. Claudio Graziano - Capo di Stato Maggiore Difesa Introduzione: Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI I Sessione: Geopolitica e crisi internazionali ore 9.30 - 10.15 Prof. Stefano Silvestri – Direttore IAI Magazine Amb. Franco Mistretta - già Ambasciatore d’Italia in Libano e Comitato Scientifico AESI II Sessione: Cooperazione, Diplomazia, Forze di Pace ed Università ore 10.15 - 11.15 Amb. Gabriele Checchia – Ambasciatore Capo Missione - Rappresentanza Permanente Italiana presso le Organizzazioni Internazionali a Parigi e Comitato Scientifico AESI, Gen. C.A. Vincenzo Coppola - Comandante Interregionale Carabinieri "Pastrengo" Milano, già Comandante della Missione EUPM in Bosnia e Erzegovina e Comitato Scientifico AESI Col.c.s.SM Marcello Nardelli Capo Dipartimento Diritto Umanitario e Operazioni Militari(CASD) - Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI - Modera: Gen. D. (ris) Antonio Catena - già Addetto per la Difesa nel Corno d’Africa e Comitato Scientifico AESI III Sessione: I Teatri - BEST PRACTICES ore 11.15 - 12.30 Modera : Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI BALCANI : “Prove di Pace” Sarajevo Video - Regista Marco Clementi – Giornalista SARAJEVO: Amb. Enrico Pietromarchi – già Ambasciatore Italiano a Sarajevo e Presidente On. AESI - Gen. D. (ris) Roberto Martinelli – già Comandante di MFO (Muntinational Force and Observer) in Sinai (Egitto), già Direttore Difeciv presso Ministero della Difesa e Comitato Scientifico AESI Dott.ssa Marialuisa Scovotto Direttore AESI - Col. Thomas Widrich – Cons. Politico Comandante EUFOR Sarajevo (video conferenza 11.45) MEDIO ORIENTE : BEIRUT: Amb. Gabriele Checchia - Ambasciatore Capo Missione - Rappresentanza Permanente Italiana presso le Organizzazioni Internazionali a Parigi, già Ambasciatore in Libano e Comitato Scientifico AESI - Gen. D. Antonio Bettelli – Comandante Aviazione Esercito e già Comandante del Contingente Italiano UNIFIL in Libano GERUSALEMME : Amb. Sandro De Bernardin - già Ambasciatore in Israele e DG MAE Gen. D. Michael Finn - Capo Missione UNTSO Gerusalemme (video conferenza 12.15) IV Sessione: Cooperazione tra Circolo di Studi Diplomatici , CASD e AESI. Seminari di Studi Internazionali: importanza di una formazione inter Istituzionale e multidisciplinare ore 12.30 - 13.00 Amb. Roberto Nigido Presidente del Circolo di Studi Diplomatici e Comitato Scientifico AESI Amb. Adriano Benedetti – Vice Presidente Onorario AESI e Comitato Scietifico AESI Prof. Massimo Maria Caneva - Presidente AESI Modera: Gen. D. (ris.) Antonio Catena - Comitato Scientifico AESI e già Addetto per la Difesa nel Corno d’Africa V Sessione ONU: (video conferenza con Rappresentanza Italiana all’ONU a New York) ore 15.00 – 16.30 “Nuove sfide internazionali e Priorità delle Nazioni Unite” Amb. Inigo Lambertini -Vice Capo Missione - Rappresentanza Permanente d’Italia presso le Nazioni Unite a New York “Peacekeeping e Università” Gen. C.A. Paolo Serra - Consigliere Militare - Rappresentanza Permanente d’Italia presso le Nazioni Unite a New York e già Comandante UNIFIL in Libano Moderano: Prof. Stefano Silvestri - Direttore IAI Magazine e Prof. Massimo Maria Caneva Presidente AESI INTERNATIONAL CRISIS AND PEACE La pace e la stabilità internazionale sono le condizioni essenziali attraverso le quali ogni singolo cittadino del mondo può realmente e liberamente partecipare, nel pieno delle sue capacità, alla costruzione del proprio futuro. Nelle situazioni di crisi, solo gli interventi aperti ad una strategia di cooperazione, di dialogo e di comprensione tra le parti, in condizioni di sicurezza, sono quelli che favoriscono la pace e la stabilità sociale. In questo quadro, appare oggi chiara l’importanza di una nuova strategia di cooperazione tra Diplomazia, Forze di Pace ed Università che possa essere non solo uno strumento di promozione della pace e di una reale ricomposizione della vita civile di un paese sconvolto da un conflitto, gettando anche le basi di un processo democratico dove sia necessario, ma anche quale azione di prevenzione delle stesse crisi, sempre più urgente a causa di una crescente istabilità del quadro geopolitico e culturale internazionale. AESI Rappresentanza Permanente d’Italia presso le Organizzazioni Internazionali - Parigi Associazione Europea di Studi Internazionali PROGRAMME 16/17 APRIL 2015 - PARIS 16 April 2015 7.00 pm Hotel Paris Tour Eiffel – Rue Claude Terrace Arrival Delegation AESI in Paris 7.30 pm Transfer by bus to the Italian Residence to Italian Ambassador 8.00 pm Dinner - Buffet offered by Amb. Gabriele Checchia to AESI 17 April 2015 10.00 am (at the OECD, tbc) Welcome: Amb. Gabriele Checchia - Italian Permanent Representative to OECD in Paris Greetings: Prof. Massimo Caneva – President AESI 10.30 am I Session: “The OECD today” 11.30 am II Session : “The International Energy Agency” (Paolo Frankl, Head of IEA Division Renewable Energies) 12.30 pm III Session :”The OECD role in the field of Development” (Federico Bonaglia,Senior Counsellor to the Director at the OECD Development Centre) 3.00 pm IV Session : “The OECD work in the fiscal field: update on the BEPS project"(Laura Stefanelli, Advisor at OECD Centre for Tax Policies and Administration AESI Rappresentanza Permanente d’Italia presso le Organizzazioni Internazionali - Ginevra Associazione Europea di Studi Internazioni PROGRAMME 15/17 JUNE 2015 - GENEVA 15 June 2015 9.55 am Alitalia Flight from Rome to Geneva 11.30 am Arrival Delegation AESI in Geneva and Transfer to Hotel 6.00 pm Italian Permanent Mission to the International Organizations in Geneva 10, Chemin de l’Impératrice - 1292 Ginevra Welcame and Intervention : Amb. Maurizio Enrico Serra Italy's Permanent Representatives to the International Organizations in Geneva Greetings: Prof. Massimo Caneva – President AESI Discussion with the AESI FORUM Delegation 8.00 pm Conclusion 16 June 2015 OHCHR Palais Wilson - 52 rue des Pâquis - Geneva 9.30 am Meeting with the OHCHR Office Greetings : Prof. Massimo Maria Caneva - President AESI 10.30 am PALAIS DES NATIONS - UNOG 11.30 am Meeting with Mr Michael Moeller Director General UNOG Greetings : Prof. Massimo Maria Caneva - President AESI 4.00 pm HOLY SEE MISSION TO THE UNITED NATIONS IN GENEVA Chemin du Vengeron 16 - 1292 Chambésy Meeting with Nuncio : Archibishop Silvano M. Tomasi Holy See Mission to the United Nations in Geneva 17 June 2015 9.00 am ICRC Building Avenue de la Paix 17, 1202 Genève 8.50 a.m. Museum Welcome by Ms Bea Vanhove, Head of the Visitor's Service Greetings Prof. Massimo Maria Caneva President AESI 9.00 a.m. Film “Panorama 13” 9.15 a.m. “The ICRC and its activities in the field”, presentation by Ms Rudina Turhani, Programme Manager, Donor Relations Unit Questions – Answers 10.15 a.m. Break 10.30 a.m. “International Humanitarian Law”, presentation by Ms Emily Richard, Legal Trainee, Arms Unit Questions – Answers 11.30 a.m. End of the programme. 2.00 pm ILO Building 1.45 pm Reception of the ILO (R2 North) 4, route des Morillons, 1211 Genève 2.00 pm Room IV (R3 South) Meeting with Mr. Remo Becci, Archivist, Internal Services and Administration Department Guided Tour - The History, Mandate and activities of the ILO Greetings : Prof. Massimo Maria Caneva – President AESI 2.30 pm Fundamentals Principal and Rights at Work Ms. Caroline O'Reilly, Fundamentals Principal and Rights at Work Branch 3:30 pm International Labour Standards Mr. Franco Amato, Legal/Labour Law Officer, Freedom of Association Branch 7.00 pm Alitalia Flight to Rome AESI EUROPEAN ASSOCIATION OF INTERNATIONAL STUDIES www.aesieuropa.eu INTERNATIONAL SEMINAR : EU - NATO COOPERATION IN THE MEDITERRANEAN CRISIS 15 July 2015 - NAPLES In collaboration with THE COMMANDER OF US SIXTH FLEET VICE ADMIRAL JAMES G. FOGGO Commander of the U.S. SIXTH Fleet; Naval Striking and Support Forces NATO Deputy Commander of the U.S. Naval Forces Europe/U.S. Naval Forces Africa PROGRAMME 09.55 Arrive at Naples Central Station 09.55 / 10.30 Delegation movement to SIXTH Fleet Headquarters (bus) 10.30 / 11.00 Delegation greeted by Staff af Bella Napoli 11.00 / 11.30 Remarks by President AESI 11.30 / 12.45 Brief by Commander SIXTH Fleet 12.45 / 13.00 Certificate Presentation by President AESI and Commander SIXTH Fleet 13.00 / 14.00 Lunch / Photos 14.15 / 15.00 Delegation movement to MOC 15.00 / 15.45 Transfer by bus to Naples Central Station AESI is a cultural association that has as its main target the promotion of human rights in politics and international cooperation. AESI wants to develop in particular, with its activities, a real culture of cooperation among populations and Nations, respecting human being's dignity and identity. AESI wants to contribute to the formation of those young students who are preparing themselves for a diplomatic career or a career in the European or International Institutions. More than 3000 students and young graduates have already taken part in the Seminars organised together with the Diplomatic Studies Club, Centre for Advanced Defence Studies, Ministry of Foreign Affairs, Permanent Italian Representation of the European Commission and the Information offices for Italy of the European Parliament. AESI also organized many International FORUM in the Balkan Area (at the University of Sarajevo with EUFOR), in the Middle East (at USEK and Lebanese Universities in Lebanon with UNIFIL, with Israel and Palestine Universities at UNTSO, at the Universities in Cyprus with UNFICYP), at the NATO Headquarters in Brussels, at the European Parliament, and at the Italian Permanent Representation to the European Commission. Many of AESI students have already started a diplomatic career, or are working in the relevant offices in International Organizations. Among the speakers of AESI' s events, there are more than 100 Ambassadors, representatives of the United Nations, the European Commission, the European Parliament, Generals and University Professors who have contributed with their experience in the field and with their knowledge and experience. The Association is a non profit organisation and is totally independent from a political point of view. -----------------------------------------------L’AESI è un’associazione culturale che ha come obiettivo centrale la promozione dei diritti dell’uomo nell’ambito della politica e della cooperazione internazionale. L’AESI si propone di sviluppare, nelle sue attività di studio e di formazione e nei programmi internazionali, una vera cultura della cooperazione tra i popoli e le nazioni, nel rispetto della dignità e dell’identità della persona umana, soprattutto tra quei giovani che si preparano ad intraprendere la carriera diplomatica o quella presso Istituti e Organizzazioni Internazionali. L’Associazione è senza fini di lucro, indipendente da partiti e movimenti politici. Sono oltre duemila i giovani laureati e gli studenti universitari che hanno già preso parte, in questi ultimi anni, ai seminari di studio organizzati dall’AESI in collaborazione con il Circolo di Studi Diplomatici e sotto il Patrocinio del Ministero Affari Esteri, della Commissione Europea e delle Nazioni Unite. Molti di loro hanno già intrapreso la carriera diplomatica o sono impegnati in sedi internazionali di rilievo come le Nazioni Unite. Tra i relatori ospiti dell’AESI hanno preso la parola più di cinquanta ambasciatori, nonché rappresentanti delle Nazioni Unite, della Commissione e del Parlamento Europeo, e numerosissimi docenti universitari. Le attività dell’AESI prevedono corsi, seminari e convegni su tematiche quali il futuro del multilateralismo e l’effettività delle istituzioni multilaterali, il problema del sottosviluppo, lo sviluppo del diritto internazionale e i progressi del processo d’integrazione europea. Particolare attenzione è stata riservata alla formazione nel settore delle emergenze umanitarie e della diplomazia preventiva. L’AESI realizza i suoi seminari di studio congiuntamente all’Ufficio per l’Italia del Parlamento Europeo, alla Rappresentanza in Italia della Commissione Europea ed al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Nel 2003 è stata organizzata dalla Rappresentanza della Commissione Europea in Italia e dall’AESI una speciale pubblicazione sui temi del futuro dell’Europa e del Trattato Costituzionale. L’AESI organizza e promuove anche la partecipazione a programmi di cooperazione internazionale e aiuto umanitario con incontri che coinvolgono giovani universitari di diverse nazionalità. Tra tali programmi ricordiamo quelli nella Regione Baltica, realizzati in collaborazione con l’Università di Tallin in Estonia sulla “Cooperazione Universitaria per l’Integrazione Sociale Estone-Russa” (1996 e 1997); il “Programma d’Assistenza Umanitaria alle Popolazioni Rifugiate Provenienti dal Kossovo”, realizzato nel 1999 presso l’Aeroporto Militare di Bari Palese e in collaborazione con il Ministero della Difesa e la Prefettura di Bari; il Workshop Internazionale in Bosnia-Herzegovina su “Il Ruolo dell’Università nell’Assistenza Umanitaria e nei Processi di Pace del Sud-Est Europa” nel maggio 2000 a Sarajevo in collaborazione con le Nazioni Unite, l’Università di Sarajevo e l’Università di Roma “La Sapienza; la “First University Summer School for Cooperation and Humanitarian Affairs in South-Eastern Europe”, a Sarajevo nel luglio 2001 con le Forze di Pace italiane a Sarajevo, le Nazioni Unite, l’Università di Sarajevo; la “European University Summer School” (luglio 2002) presso le Università di Sarajevo, Belgrado e Mostar, in collaborazione con le Forze di Pace italiane e l’ONU con studenti universitari e giovani laureati provenienti dai più importanti atenei italiani e del Regno Unito (come le Università di Oxford e Cambridge); le “European University Summer School in Libano” nel luglio del 2003 in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia e l’Istituto di Cultura Italiano a Beirut, con l’ONU, la Rappresentanza della Commissione Europea in Libano e le Forze di Pace UNIFIL. Nel maggio 2005 l’AESI ha organizzato per la prima volta uno “Spring University Workshop” a Bruxelles in cooperazione con il Regional United Nations Information Centre (RUNIC) di Bruxelles, durante il quale studenti e neolaureati italiani, insieme ai loro colleghi europei e non, si sono incontrati per seguire una serie di seminari in sedi prestigiose, quali gli uffici delle Nazioni Unite, la Missione Permanente d’Italia presso l’UE, gli uffici del Parlamento Europeo e il Collegio d’Europa di Brugge. Nel dicembre del 2005 l’AESI ha organizzato un European Workshop of International Studies a Gerusalemme in collaborazione con le Nazioni Unite. In occasione del Workshop si sono organizzati seminari di studio presso l’Università Palestinese di Betlemme e di Al Quds a Gerusalemme, con l’Università di Haifa e l’Ambasciata d’Italia a Tel Aviv. Nel giugno 2007 l’AESI è stata ricevuta dal Presidente del Parlamento Europeo a Bruxelles per un incontro di approfondimento sul nuovo trattato dell’Unione Europea. Nel giugno 2008 l’AESI ha promosso un FORUM Europeo di giovani universitari con la partecipazione del Presidente del Parlamento Europeo Nel maggio del 2010 l’AESI ha organizzato la seconda European University Summer School in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia e UNFIL e con le Università Libanese e USEK di Kaslik. Nell’ottobre del 2010 l’AESI ha organizzato inoltre il FORUM con l’Università di Sarajevo e le Forze di Pace Italiane a BUTMIR. Nel maggio 2011 l’AESI ha organizzato un FORUM con l’Università di Nicosia e UNFICYP a Cipro. Nel luglio 2011 presso Villa della Fonte (IUE) a Fiesole, l’AESI ha organizzato un Seminario di Studi in collaborazione con l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole (FI) sul tema “University promoting democracy and peace in Middle East”. Nel 2013 e 2014 sono state effettuate missioni per FORUM presso la NATO a Bruxelles in collaborazione con la Rappresentanza Italiana e a Sarajevo in collaborazione con EUFOR. BRUXELLES – INCONTRO CON IL PRESIDENTE DEL PARLAMENTO EUROPEO ROMA - FORUM EUROPEO CON IL PRESIDENTE DEL PARLAMENTO EUROPEO SARAJEVO – AESI FORUM INTERNAZIONALE PER LA PACE NEI BALCANI LIBANO – AESI FORUM INTERNAZIONALE PER LA PACE CIPRO – AESI FORUM INTERNAZIONALE PER LA PACE NATO - BRUXELLES - AESI FORUM PRESSO LA NATO E RAPPRESENTANZA ITALIANA ALLA UE ROBERT SCHUMAN CON JEAN MONNET “L'Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto” (Robert Schuman) “La democrazia deve la sua origine e il suo sviluppo al cristianesimo. È nata, quando l’uomo è stato chiamato a realizzare la dignità della persona nella libertà individuale, il rispetto dei diritti degli altri e l’amore verso il prossimo. Prima dell’annuncio cristiano tali principî non erano stati formulati, né erano mai divenuti la base spirituale di un sistema di autorità.”(Robert Schuman) KONRAD ADENAUER “Noi europei dobbiamo esercitare assieme anche la politica estera, solo questo obiettivo può realmente aiutarci.” (Konrad Adenauer) “A lungo termine il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione politica quanto dal pericolo della massificazione, dell’uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io. Questo pericolo può diventare veramente mortale per il progresso culturale”(Konrad Adenauer) ALCIDE DE GASPERI “All’origine di questa civiltà europea si trova il cristianesimo. Non intendo con ciò introdurre alcun criterio confessionale, esclusivo, nell’apprezzamento della nostra storia. Soltanto voglio parlare di un retaggio comune europeo, di quella morale unitaria che esalta la persona e la responsabilità della persona umana” (Alcide De Gasperi) ALTIERO SPINELLI “Il compito di realizzare l’unità europea non spetta ad un’imprecisabile generazione di un imprecisabile futuro, ma spettava alla nostra generazione.” (Altiero Spinelli)