Incontro preti giovani con don Franco Brovelli

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Incontro preti giovani con don Franco Brovelli
Incontro con don Franco Brovelli
Concenedo di Barzio, 11 marzo ’13
Da “mettere le ali” a “togliere i calzari”
Introduzione
Riferimento a Esodo.
“Per questo il Signore ci ha costituito chiesa e per questo ci ha costituito pastori: per aiutarci a
uscire dal deserto e camminare sui sentieri della vita” (Benedetto XVI, Porta fidei n. 2).
È questa la parola della chiamata che Benedetto XVI ha fatto per tutte le nostre comunità.
È illuminante un orizzonte di riferimento oltre noi, al di là dei nostri vissuti, soprattutto se è il
riferimento autorevolissimo della Parola del Signore.
Siamo in un momento ecclesialmente significativo, unico, quello di queste settimane e di questi
mesi. E siamo dentro il cammino verso la Pasqua. La questione decisiva che è in gioco, anche nella
preghiera, nei ritmi di queste settimane, è quella della scelta di sequela del Signore. L’anima di un
cammino autentico di fede, di un itinerario verso la Pasqua, è legata al desiderio del divenire
discepoli. Questa è l’attitudine più vera alla fede, è un’invocazione che affidiamo a te, Signore,
perché vorremmo apprendere l’arte del divenire discepoli come pienezza di senso della nostra vita e
come pienezza di senso del cammino stesso della Chiesa.
In un’ottica così anche le poche parole che abbiamo la fortuna e la gioia di condividere diventano
sufficienti. A che punto sono in quest’avventura del divenire discepolo? Come mi piacerebbe
plasmare quel mandato di cui ci ha fatto dono il Signore, del divenire pastori nella Chiesa, in un
orizzonte così? Uomini che aiutano e fanno crescere il gusto in ragazzi, giovani, famiglie, poveri,
malati… di diventare discepoli di Gesù.
Nel riferimento a Esodo l’attenzione è alla figura e al volto di Mosè. Optando per dare priorità
all’ascolto della parola.
1. Il momento di inizio dell’avventura dell’Esodo: Dio prende a cuore la sofferenza della sua
gente.
Questo momento fa da habitat della chiamata di Mosè, è il momento fondativo della nascita del
popolo di Dio. Questo inizio prende l’avvio dalla scelta di Dio di ascoltare le grida di dolore del suo
popolo, schiavo in Egitto: Dio prende a cuore la sofferenza della sua gente.
È Dio a dircelo (Es 2) quando dice “Ho udito il grido di dolore del mio popolo”, ma anche situa a
questo livello la chiamata di Mosè: io ti chiamo per questo.
Vorrei augurare che questa cosa non venga mai dimenticata: questa è la genesi anche della nostra
chiamata, ad essere servitore dell’evangelo e farsi carico della fede dei nostri fratelli. Questa
chiamata si inscrive nella passione che Dio ha per il suo popolo in cammino.
Questo ci dice già molto: per vivere bene una chiamata come quella di cui ci ha fatto dono bisogna
essere e diventare persone dal cuore grande, gente magnanima che s’appassiona, che si mette in
ascolto del gemito del mondo, che sta dentro questa compassione di Dio per il suo popolo. Questo è
il momento sorgivo, che dice l’identikit più profondo di una chiamata e del suo perché.
Se dovessi dire – grazie a Dio il Signore mi rende una persona serena, non angosciata – c’è
qualcosa che mi fa paura? La risposta non è semplice, ma una cosa sentirei di dirla, una convinzione
radicata dentro: mi farebbe paura entrare o vedere entrare in un ministero come il nostro con il
cuore piccino, attenti ai dettagli e ai particolari, ma non appassionati per l’insieme, non appassionati
per la storia, per la terra, per il mondo, per il travaglio di libertà di uomini e donne che sono lungo il
cammino. Questo mi farebbe paura: temo che non ci sia il voltaggio giusto e che i recuperi
sarebbero molto difficili. Ma se uno, da povero e giovane, da sprovveduto, incomincia in un clima
spirituale così il suo ministero di pastore, ci siamo! Poi il Signore aiuterà lui, ci aiuterà a cogliere
quali sono i guadagni più veri da realizzare, ma ci aiuterà, perché tu hai scelto di appassionarti, hai
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colto una cosa che in Dio ti ha commosso: un Dio che raccoglie il grido di dolore di chi è in
difficoltà e per questo ti stai giocando.
Questo può avere molteplici ricadute nel vissuto: magari ci educa ad avere a cuore i problemi veri e
a dedicare meno tempo a quelli marginali; di raccogliere la densità delle domande più forti e di non
riconcorrere vorticosamente l’insieme di informazioni e domande. Ci educa a un’essenzialità che
non fa diventare selettivi per gli altri ma ospitali, disponibili… ma con il gusto delle cose che
contano, con un criterio di discernimento affinato ai poli di attenzione che effettivamente meritano.
Questo è importante anche per interrogarci sulla nostra fede: stiamo guadagnando questa quota nel
nostro cammino? Mettiamo in conto che non sarà un sentiero semplice, ma davvero ci sentiamo
consegnati al Signore.
Se la passione originaria è questa e ci accompagna, e anzi cresce, è un sentiero imboccato bene:
realmente possiamo crescere nella fede, e tanto. E divenire uomini di fede.
2. Va’ e guida il tuo popolo: il deserto.
“Va’ e guida il tuo popolo”: vuol dire attraversare il deserto.
L’Esodo è il paradigma dei nostri cammini di fede: non è pensabile un cammino di fede che non
contempli l’attraversamento del deserto. Questa parola la diciamo frequentemente. Nella Quaresima
la liturgia la ripete più di una volta. Ma è bello entrarci, perché il deserto ne ha tante di dimensioni.
1. È anche il luogo delle sorprese dei doni di Dio: l’acqua che scaturisce dalla roccia, il cibo che ti è
dato perché per ogni giorno basti senza che tu lo debba accumulare per il domani, per l’ansia del
dopo… Il deserto è quindi il luogo in cui si vive affidati al Signore: ci si consegna, non pretendi di
avere tutto sotto controllo con garanzia del domani e del futuro: ti affidi e ti lasci condurre. È vero
per ciascuno di noi. Ciascuno è entrato dove è, nella propria esperienza pastorale, con i propri
progetti, desideri, ecc… questo è bello: ma è saggio che man mano che si va avanti il futuro che
abbiamo immaginato ce lo facciamo prevalentemente dire da Dio, perché sempre di meno diventa
progetto tuo e sempre di più ascolto della sua attesa, proprio perché adesso conosciamo meglio la
comunità dove si opera, i volti e i nomi, ecc… Cambia anche la nostra predicazione, man mano che
le persone che condividono con noi l’Eucaristia domenicale (ragazzi, giovani, famiglie, ecc.) siano
più di un nome o di un volto: conosciamo di più, ascoltiamo di più, abbiamo vissuto momenti di
lutto, gioia, festa, prova… sempre più si ritrascrivono i passi del cammino a partire dalla
restituzione a Dio dell’iniziativa. Sempre meno vedremo la gente come luogo in cui applicare il
nostro progetto e sempre di più come luogo dove fare spazio al modo per educarli all’Evangelo. C’è
indeterminatezza del domani ma ti affidi a risorse buone, a una parola che ti guida, all’acqua dalla
roccia e al pane che sostenta.
2. Ma il deserto è anche il tempo della possibile tentazione, e magari anche grave. Ieri nella liturgia
ambrosiana avevamo come prima lettura Es 17, la sosta a Refidìm, il momento della mormorazione
dilagante: la contestazione del popolo ufficialmente contro Mosè, in realtà contro il Signore.
Proviamo a metterlo a fuoco.
Da che cosa è generato? Il popolo si trova nel bisogno e il bisogno a un certo punto azzera tutto: si
dimenticano che erano stati schiavi e che Lui li ha liberati, che li ha condotti fuori. In un momento
di prova il rischio è vedere solo il disagio e la fatica, e censuri tutto il resto. E dopo anneghi: perché
il disagio ti schiaccia. Nel bisogno e nella fatica e nel momento della prova bisogna rimanere con lo
sguardo rialzato sul volto di Dio: non vedi solo la fatica che fai ma anche come Dio ti ha
accompagnato. Il travaglio rimane, ma tu lo reggi, lo attraversi, non te ne fai travolgere. Magari con
la gioia di vedere che quando la prova diminuisce o si conclude, ne sei uscito arricchito. La capacità
di affidarsi è diventata più grande.
Tante volte senso preti molto giovani benedire il Signore per i momenti di prova che hanno
attraversato. È più saggio non invocarle le prove, ma a dire “prendimi per mano, accompagnami
nella prova”. Dopo è reale la possibilità che giungi al termine e dici: “Meno male… questo
momento di prova mi ha plasmato, mi ha fatto crescere”.
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3. Il deserto ha poi l’insidia per antonomasia: quella dell’idolatria, del vitello d’oro. La questione
vera è che in una scelta di cammino di fede investi sul Signore: è per lui che intraprendi il cammino
di fede. L’idolatria è quando entra una passione più forte di quella che tu hai per Dio: c’è qualcosa o
qualcuno che conta più di Dio. Questo è il subentrare dell’idolo: avrà nomi colori e forme le più
diverse, ma idolo è se strappa il primato di Dio dal cuore.
È bello interrogarsi se sentiamo che questo primato è limpido, radicato e profondo. Il primato ce
l’hai tu nella vita, Signore: mi sento fragile, contraddittorio, ma su questo punto nessuno ho
consentito che prendesse il primo posto. Rimane tuo, di diritto tuo. Questo vuol dire che il cammino
e l’attraversamento del deserto diventano momenti di maturità spirituale. Sentire raccontare i
momenti di bufera e prova quando la domanda è “vado avanti o smetto a fare il prete?”, la cosa
importante è lo sguardo sul rilievo che continui a dare al Signore e a interrogarti se il primato è
rimasto a lui. Questa cosa la potrei dire con il linguaggio di tantissimi momenti vita duri, sofferti ma
assolutamente belli… Il deserto è anche questo, la possibile drammatica sostituzione di Dio con
altro o con altri. Ma è anche l’incredibile gioia di tornare al primato di Dio nella vita e nel
ministero.
4. C’è poi una dimensione che valorizza i tempi del deserto: il silenzio e l’essenzialità di vita. Nel
deserto non ci vai con un tir, ma con l’equipaggiamento più sciolto possibile, più leggero. È già
duro l’attraversamento. Non si può soccombere con uno zaino che pesa troppo.
Il silenzio è lo spazio che permette di sentire le voci. In città si sente il rumore, nel deserto si
sentono le voci.
Lo stile sobrio, agile, perché il passo non si appesantisca. E soprattutto perché non si appesantisca il
cuore. Sono molto aiutato da scelte di vita semplici, che vedo però messe in atto. Di persone, di
preti che davvero vanno nella direzione di una sobrietà buona di vita che li rende più disponibili,
più gioiosi, più attenti, più consegnati. Tutto questo è anche faticoso, ma è una risorsa di
straordinaria bellezza e importanza: dopo cammini snello, sciolto. E tanto.
Questo è un aspetto che ci aiuta a misurare la fede, a misurarla non per avere la quantità o il peso,
ma perché vorremmo essere un po’ più sicuri che sia fede vera, un consegnarsi bello al Signore.
Bisogna aprire lo sguardo a tutta la dimensione che deserto ha dentro: si può uscire distruitti o rinati
dal deserto. Defigurati da una marcia immane o trasfigurati da persone che hanno imparato
l’essenziale e che si sono trovate commosse dalla vicinanza solidale con Dio.
3. Le icone di Esodo: Togliersi i calzari, una tenda in mezzo alle altre, la “fine” di Mosè
Se vogliamo delle icone che fanno da polo aggregante del cammino, che cosa potremmo usare, per
essere capaci di custodire e crescere la chiamata alla fede?
1. Mi toglierei i calzari per avvicinarmi al mistero di Dio: è il roveto ardente. Significa, fuor di
metafora, avere sete di Dio: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o
Dio”. Io voglio più da vicino possibile vederti, udire il tuo nome, sapere come ti chiami. Proprio per
questo mi tolgo i calzari dai piedi, perché è suolo santo. Vuol dire percorrere percorsi di
purificazione del cuore. Perché cerchi l’intimità con il Signore.
2. C’è una tenda. È un accampamento, tante tende. E c’è una tenda che è la tenda della dimora. È
uguale alle nostre ed è la dimora di Dio. Non c’è un tempio o un luogo solenne, ma una tenda in più
che è sua. Anche Lui è solidale con la precarietà del nostro cammino lungo il deserto, Lui è accanto
a noi. Secoli dopo sarebbe stata questa la cosa che ha fatto saltare Davide: “Io sono in una casa
solenne e tu in una tenda”… ma il Signore risponde, tramite Natan: “Non preoccuparti di costruirmi
una casa, io costruirò una casa a te” perché ti cammino accanto, sono solidale con la tua vita.
3. C’è un’ultima icona, quella dell’uscita di scena. Andare a rileggere, o da Esodo o da
Deuteronomio, qualche cenno sul concludersi della vita di Mosè, c’è da rimanere profondamente
toccati dentro. Non irritazione quando dal monte Nebo vede la Terra Promessa e sa che non ci
arriverà. È un uomo appagato: gli è bastato aver creduto alla promessa, non pretende il
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compimento: gli basta che ci sia stata e di poter dire a se stesso di aver creduto alla promessa.
Questa è una cosa straordinaria con ricadute sul vissuto importantissime.
Pensiamo ai nostri cammini, agli anni che stiamo vivendo nelle comunità dentro le quali il vescovo
ci ha inviato. Man mano che si entra si configura un tragitto, un traguardo. E non puoi mai
stringere, concludere, dire: “Adesso siamo arrivati”, anzi: man mano si ha sempre una maggiore
voglia di proseguire il cammino. Dopo c’è il rischio dell’affanno che fa pretendere un risultato. Io
credo che questa icona di Mosè che esce di scena da povero ci dica che la chiamata non era perché
Mosè realizzasse il compimento, ma per consumarsi per esso. Il compimento lascialo a Lui: sarà
Lui a concluderlo. Così anche nella vita del nostro ministero: queste cose non le leggi nei libri ma le
senti nei vissuti, anche dei preti giovani. Se si vive affidato al Signore ci si dedica tutto, senza dire
“tanto deve farlo Lui”, ma con la libertà di chi sa che non tocca a lui concludere, ma con la libertà
di chi si deve dedicare totalmente.
Conclusione
Questo cammino non è lineare. Noi di solito lo pensiamo in un crescendo: parti da giovane, poi
cresci, ecc… è una visione ingenua.
Il cammino di fede ha momenti di discontinuità, che sono più battute d’arresto che passi che
crescono. Ma riprendi, rilanci, vai avanti. Non utilizzi i momenti bui o di crisi per dire “Ho
sbagliato tutto”, ma riguadagni l’umiltà semplice di chi dice “Ricomincio, mi rimetto in cammino”.
Magari con un’ultima domanda, semplice: “Adesso che sono davvero dentro, quali condizioni di
vita, di relazioni, ecc… mi aiutano di più a viverlo come un cammino di fede, il mio ministero?”. È
una domanda saggia.
Il “Mettere le ali” di mons. Corti aveva una dimensione così: per mettere le ali devi sapere di quali
risorse disponi: allora parti. Quali condizioni mi aiutano di più? La domanda non è “quali
condizioni mi aiuteranno…”… la domanda è più semplice, più umile: che cosa mi ha già aiutato?
Una preghiera, una fraternità sincera, un amore vero ai poveri, una solidarietà gratuita… queste
sono le cose che mi hanno aiutato di più. E lo capisco.
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