FALCE E PISELLO
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FALCE E PISELLO
FALCE E PISELLO CARMINA PRIAPEA Interpretazioni. I. O tu che di questi rozzissimi versacci gli scherzi scurrili per leggere stai, sù risparmiati le ciglia aggrottate che al gretto decoro latino si addicono. Non abita in questo tempietto non Diana*, non Vesta* né Pallade* che nacque dal capo del padre, ma c'è, con un cazzo lunghissimo, Priapo, il custode rubizzo il quale non tiene mai gli inguini coperti da veli, bendaggi o vestiti. E dunque o distendi una tunica su ciò che nasconder conviene oppure ai versi rivolgiti con gli occhi con cui guardi un pene. *celebri divinità dell'Olimpo greco. Carminis incompti lusus lecture procaces, conveniens Latio pone supercilium. Non soror hoc habitat Phoebi, non Vesta, sacello nec quae de patrio vertice nata dea est, sed ruber hortorum custos, membrosior aequo, qui tectum nullis vestibus inguen habet. Aut igitur tunicam parti praetende tegendae aut quibus hanc oculis adspicis ista lege. II. Questi miei versi per il tuo giardino li ho scritti, Priapo, solo per giocare e non certo alle stampe li destino perché li feci senza cesellare. E non, come i poeti laureati, le Sante Muse in questo luogo io tolsi non proprio verginale, ché mancati le vene mi sarebbero ed i polsi a condurre le vergini sorelle e il coro delle Pieridi* al cospetto del cazzo di Priapo. Perciò quelle cose che, stando in ozio nel tempietto, sui muri scrissi, anche se non belle, accettale, ti prego, con diletto. *altro nome delle Muse. Ludens haec ego, teste te, Priape, horto carmina digna, non libello scripsi non nimium laboriose. Nec Musas tamen, ut solent poetae, ad non virgineum locum vocavi: nam sensus mihi corque defuisset castas, Pierium chorum, sorores auso ducere mentulam ad Priapi. Ergo quicquid id est, quod otiosus templi parietibus tui notavi, in partem accipias bonam, rogamus. III. Potrei chiederti poco chiaramente: dàmmi ciò che puoi dar, senza paura di perdere alcunché, continuamente; dàmmi quello che quando una matura barba deturperà il bell'aspetto forse tu vorrai dare inutilmente; quello che diede a Giove il giovinetto*, il qual, rapito in cielo anticamente dall'aquila del dio, versa all'amante in auree coppe il nettare gradito; quel che la prima notte dà tremante la verginella al cùpido marito, inesperta e paurosa che le faccia altra ferita; ma a parole chiare: Damm'il culo, mi'amor! Che vuoi che faccia se la mia musa** è trucida e volgare? *Ganimede di cui Giove si innamorò e che rapì trasformandosi in aquila per portarlo sull'Olimpo e fargli fare il coppiere degli dei. **Minerva, che l'ignoto poeta ha scambiato per una Musa. Obscure poteram tibi dicere 'da mihi quod tu des licet adsidue, nil tamen inde perit. Da mihi quod cupies frustra dare forsitan olim, cum teget obsessas invida barba genas, quodque Iovi dederat qui raptus ab alite sacra miscet amatori pocula grata suo, quod virgo prima cupido dat nocte marito, dum timet alterius vulnus inepta loci.' Simplicius multo est 'da pedicare' latine dicere. Quid faciam? Crassa Minerva mea est. IV. Priapo, a te votati offre dipinti Làlage* osceni, ed ispirati ai versi di Elefàntide ** e vuol che tu prometti che svolga la sua opera conforme a quei quadretti. *Prostituta del tempo, non altrimenti nota. ** Poetessa greca realmente esistita e autrice di versi osceni. Obscenas rigido deo tabellas dicans Elephantidos libellis dat donum Lalage rogatque temptes si pictas opus edat ad figuras. V. Un giorno dura legge fu dettata da Priapo a chi ruba e par che sia quella che ti sarà fra un po' spiegata da questa semplicissima poesia: “Impunemente tu mi ruberai tutto ciò che il mio orto possiede se prometti che poi mi darai tutto ciò che il tuo orto possiede.” Quam puero legem fertur dixisse Priapus versibus haec infra scripta duobus erit: quod meus hortus habet sumas impune licebit si dederis nobis quod tuus hortus habet. VI. Io, Priapo, benché di legno sia e siano come me la falce e il pene, come ben puoi vedere, tuttavia ti prenderò un giorno e se ciò avviene ti terrò stretta a me e con quest'affare tanto lungo quant'è e più tirato d'un fil di cetra, senza lesinare t'entrerò fino al settimo costato. Qui sum ligneus, ut vides, Priapus et falx lignea ligneusque penis, prendam te tamen et tenebo prensum totamque hanc sine fraude quantacumque est tormento cithraque tensiorem ad costam tibi septimam recondam. VII. Quando parlo sbaglio una lettera: “mi” “ti” faccio: è la lingua: mi scivola. Cum loquor una mihi peccatur littera: nam te pe* dico semper blesaque lingua mihi est. *giochino “enigmistico”; ce n'è un altro in questi componimenti. VIII Priapo: Andate via di qui, caste matrone, non è ben che leggiate porcherie! Ma loro se ne fregan, le babbione, e imboccano dritte questa via. Non vi meravigliate! A quanto pare le pudiche signore san godere e reggere anche loro con piacere la vista di un cosi grazioso affare. Matronae procul hinc abite castae: turpe est vos legere impudica verba. Non assis faciunt euntque recta. Nimirum sapiunt videntque magnam matronae quoque mentulam libenter. IX Ti domandi perché tenga scoperte le parti basse. Ma prima di farmi questa domanda, dimmi se coperte son soliti gli dei portare le armi. Del fulmine fa Giove mostra a tutti né cerca di nascondere il tridente colui ch'è venerato dio dei flutti* né la spada, per cui Egli è potente, Marte nasconde e Pallade non cela la lancia nel tepore del suo petto. Febo arrossisce quando si rivela con le sue frecce d'oro? Ed il suo aspetto forse nasconde Artemide se porta la faretra? O ha paura di mostrare Ercole la sua clava che è contorta da molti nodi? O tenta di celare sotto il mantello la sua verga il dio dai piedi alati?** Né fu mai veduto coprir con veste l'esil tirso Lio.*** E te, o Amore, chi t'ha mai veduto celar la fiamma? Io sol commetterei reato nel seguir cotesto andazzo? Se un'arma non avessi, resterei certo indifeso e dunque mostro il cazzo. *Poseidone (Nettuno); ** Ermes (Mercurio); *** Dioniso (Bacco). Cur obscena mihi pars sit sine veste requiris: quaero tegat nullus cur sua tela deus. Fulmen habet mundi dominus; tenet illud aperte nec datur aequoreo fuscina tecta deo. Nec Mavors illum, per quem valet, occulit ensem nec latet in tepido Palladis hasta sinu. Nam pudet auratas Phoebum portare sagittas? Clamne solet pharetram ferre Diana suam? Num tegit Alcides nodosae robora clavae? Sub tunica virgam num deus ales habet? Quis Bacchum gracili vestem praetendere thyrso? Quis te celata cum face vidit, Amor? Nec mihi sit crimen, quod mentula semper aperta est: hoc mihi si telum desit inermis ero. X. Stolta fanciulla, che cos'hai da ridere? Non Prassitele* o Scopa* m'han scolpito né la mano di Fidia*. Mi fe' nascere un pastore da un tronco rinsecchito. Sgrossatolo, mi disse: “Sii Priapo!” Ma non ti basta! Tu mi guardi ancora e ricominci a ridere da capo. Tu fai così? Che vuoi che dica? Allora non mi dovrebbe far meravigliare che ti sembri una cosa tanto comica questo coso che qui vedi spuntare fortemente aggettante dai miei inguini. *celebre scultore dell'antica Grecia. Insulsissima quid puella rides? Non me Praxiteles Scopasve fecit nec sum phidiaca manu politus, sed lignum rude vilicus dolavit et dixit mihi 'tu Priapus esto!' Spectas me tamen et subinde rides: nimirum tibi salsa res videtur adstans inguinibus columna nostris. XI. Bada ch'io non ti prenda, giovanotto, che se ti prendo mal non ti farò con un bastone né con il sarchiello crudelmente ferire ti vorrò; ma te lo metterò tutto nel culo e ti aprirò talmente lo sfintere che crederai di non avere più le pieguzze nel buco del sedere. Ne prendare cave! Prenso nec fuste nocebo saeva nec incurva volnera falce dabo, Traiectus conto sic extendere pedali ut culum rugas non habuisse putes. XII. Una tale, d'eta non inferiore alla madre di Ettore* e germana della Sibilla**, credo, e certo anziana quanto colei*** che Teseo vincitore sul rogo ritrovò (tempi lontani!), levando al cielo le rugose mani viene con passo stanco qui a pregare il cazzo mio di farla ancor campare. Proprio ieri pregando sputò un dente dei tre che le restavano. Le ho detto: “Portati via di qui quell'indecente maschera e bada ben che dal cospetto mio s'allontani presto e che si celi sotto la sporca tunica o il mantello, com'è solita far, né si riveli alla luce del sole, poiché in quello orribile crepaccio si spalanca, tanto che, così aperta, rassomiglia al nasone peloso, poco manca, di Epicuro**** annoiato che sbadiglia. *Ecuba, regina di Troia, nell'Iliade; **celebre profetessa campana che distribuiva i suoi responsi da una grotta vicino Napoli; *** Ecale [vecchina che diede ospitalità a Teseo lì di passaggio e che l'eroe al ritorno trovò morta (mito raccontato da Callimaco, poeta greco, in un suo poemetto che porta appunto il titolo “Ecale”)];****celebre filosofo greco. Quaedam haud iunior Hectoris parente, cumaeae soror, ut puto, Sibyllae, aequalis tibi, quam domum revertens Theseus repperit in rogo iacentem, infirmo solet huc gradu venire rugosasque manus ad astra tollens ne desit sibi mentula rogare. Hesterna quoque luce dum praecatur dentibus de tribus excreavit unum. 'Tolle' inquam 'procul ac iube latere scissa sub tunica stolaque russa, ut semper solet, et timere lucem, qui tanto patet indecens hiatu, barbato macer eminente naso, ut credas Epicuron oscitari.' XIII. Avverto che ogni giovane il culo rotto avrà e perderà ogni vergine la sua verginità: la terza pena all'ispido ladrone toccherà. Percidere, puer, – moneo – futuere, puella. Barbatum furem tertia poena manet. XIV. Entra pure, chiunque tu sia, non pensar di far bene ad evitare il tempietto d'un dio buontempone. E se è di notte e ti fa compagnia una fanciulla, non è una ragione per temere di entrare. Tale rispetto, ai numi d'alte sfere! Noi siamo birboni, modesti iddii di periferia, e teniamo i coglioni all'aperto, sia sotto il sole che sotto la pioggia. Chi vuole, entri senza paura: che importa se è stato da poco al casino e di nera fuliggine s'è impiastricciato? Huc huc, quisquis es, in dei salacis Deverti grave ne puta sacellum. Et si nocte fuit puella tecum, hac re quod metuas adire, non est. Iste caelitibus datur severis, nos vappae sumus et pusilla culti ruris numina, nos pudore pulso stamus sub Iove coleis apertis. Ergo quilibet huc licebit intret nigra fornicis oblitus favilla. XV. Chiunque oserà alzar mani rapaci sul campicello che mi fu affidato potrà provare quanto sian fallaci le voci che mi dicono castrato. Penserà: “Tra i cespugli, in isolato posto, nessuno mai verrà a sapere che da Priapo io fui cavalcato.” Sbaglia. La cosa si potrà vedere che presenti saran due testi... moni. Conmisso mihi non satis modestas quicumque attulerit manus agello, is me sentiet esse non spadonem. Dicat forsitan haec sibi ipse: 'Nemo hic inter frutices loco remoto perscissum sciet esse me.' sed errat: magnis testibus ista res agetur. XVI. Le mele con cui Ippomene* a suo padre Scheneo* rapì la rapida Atalanta*, quelle di cui il magnifico giardino delle Esperidi** un tempo s'adornava, quelle di cui Nausica*** caricava molto probabilmente il grembiulino spaziando per i campi di suo padre, quella che Aconzio**** incise col messaggio onde, letto che l'ebbe, destinata fu la fanciulla al giovinetto ardente, per il suo campicello assai fiorente, di tutte queste mele il pio padrone alla mensa del dio vuol fare omaggio che alla luce del sol nudo si espone. * mito: Atalanta chiede al padre Scheneo di non darle marito e il padre per accontentarla proclama che la potrà sposare solo colui che la vincerà nella corsa e che, se non vincerà, dovrà morire per mano di lei: Ippomene la sfida e prima di essere raggiunto da lei ed essere quindi trafitto la distrae gettandole fra i piedi delle mele d'oro, per cui la fanciulla si attarda a raccoglierle e viene sconfitta; **mito: erano ninfe che abitavano nell'estremo occidente del mondo allora conosciuto dove avevano giardini meravigliosi con alberi che producevano mele d'oro. ***mito: celebre personaggio dell'Odissea: Ulisse, deposto dalle acque del mare sulla costa dei Feaci, viene raccolto dalla giovane principessa, Nausica, che si innamora ma invano di lui. **** mito: Aconzio per sposare Cidippe, che non voleva neanche lei prendere marito, la sfida nella corsa e la vince perché le getta davanti, mentre corre, una mela d'oro su cui e incisa la scritta “Giuro che sposerò Aconzio.”: la ragazza la legge e resta legata dal giuramento in essa contenuto. Qualibus Hippomenes rapuit schoeneida pomis, qualibus Hesperidum nobilis hortus erat, qualia credibile est spatiantem rure paterno Nausicaam pleno saepe tulisse sinu, quale fuit malum quod litera pinxit Aconti qua lecta est cupido pacta puella viro, talia cumque puer dominus florentis agelli inposuit mensae, nude Priape, tuae. XVII. Che ti prende? Perché, guardian molesto, non vuoi che venga il malintenzionato? Lascia che venga: se ne andrà assai mesto e col culo parecchio dilatato. Quid mecum tibi, circitor moleste? Ad me quid prohibes venire furem? Accedat sine: laxior redibit. XVIII. Il mio cazzo ha una dote rinomata: non c'è fica per lui troppo allargata. Commoditas haec est in nostro maxima pene: laxa quod esse mihi femina nulla potest. XIX. Ma quando Teletusa*, il puttanone che viene qui ad agitare tutta spoglia natiche e ventre in ogni direzione, smuoverà sculettando in te la voglia, non te soltanto, io penso, ecciterebbe, o Priapo, ché forse un'eccezione perfino il casto Ippolito** farebbe. *prostituta non altrimenti nota. ** celebre personaggio mitologico, figlio di Teseo, noto perché preferiva la caccia all'amore e dunque “casto”. In una tragedia che ha per titolo il suo nome Euripide racconta che di questo bellissimo giovane si innamorò senza successo la matrigna Fedra. La donna, respinta, si uccise lasciando una lettera a Teseo in cui denunciava calunniosamente Ippolito di aver attentato alle di lei castità. Teseo invoca sul figlio la maledizione di Poseidone e Ippolito muore per intervento del dio. Hic quando Telethusa circulatrix quae clunem tunica tegente nulla extis latius altiusque movit crissabit tibi fluctuamte lumbo, haec sic non modo te, Priape, p[ossit, privignum quoque sed movere Phaedrae. XX. Dei fulmini, si sa, Giove è il signore e Nettuno ha per arma il suo tridente, Minerva l'asta e dicono potente Marte per la sua spada, Bacco ognora con i tirsi sottili dà battaglia, e che per man d'Apollo sia scagliata dicon la freccia ed è di clava armata la mano destra d'Ercole invincibile. E io infine, Priapo, fo paura per la mia nerchia tesa tesa e dura. Fulmina sub Iove sunt, Neptuni fuscina telum; ense potens Mars est; hasta, Minerva tua est; sutilibus Liber committit proelia thyrsis; fertur apollinea missa sagitta manu; Herculis armata est invicti dextera clava; at me terribilem mentula tenta facit. XXI. Son troppe, son fregato: orsù, Priapo, tu non mi tradire. Via, non farmi la spia: le dolcissime mele che ti ho dato non andare a ridire che le ho rubate sulla Sacra Via. Copia me perdit: tu suffragare rogatus, indicio nec me prode, Priape, tuo; haec quaecumque tibi posui vernacula poma de sacra nulli dixeris esse via. XXII. Se una donna presto presto mi farà una marachella così un uomo o un giovanotto, mi darà la bocca quello, mi darà la fregna quella, e avrà il terzo il culo rotto. Femina si furtum faciet mihi virve puerve haec cunnum, caput hic, praebeat ille nates. XXIII. Chi senza comperarle porta via rose o viole o mele oppur verdura prego che resti senza compagnia senza femmine o maschi e la tortura ch'io soffro soffra: il cazzo eternamente batta sul suo ombelico inutilmente. Quicumque hic violam rosamque carpet furtivumque olus aut inempta poma, defectus pueroque feminaque hac tentigine quam videtis in me, rumpatur precor usque, mentulaque nequiquam sibi pulset umbilicum. XXIV. Dell'orto fertilissimo il padrone a guardia qui mi pose e m'ha ordinato di sorvegliarlo. E dunque tu, ladrone, sarai punito e se dirai indignato: “Sopporterò io questo per un cavolo?” io ti dirò: “E certo, per un ca...volo!” Hic me custodem fecundi vilicus horti mandti curam iussit habere loci. Fur, habeas poenam, licet indignere 'feramque propter olus' dicas 'hoc ego? - Propter olus. XXV. Questo mio scettro, se verrà tagliato più mai non produrrà nessuna foglia; non lo fate, di esso hanno gran voglia le fanciulle più allegre e più briccone. Spesso da molti re è desiderato e anche le “regine” nobilissime gli danno baci ardenti a profusione. Ma solo nel budello del ladro dritto andrà fino al pisello e fino alla radice dei coglioni. Hoc sceptrum, quod ubi arbore est recisum, nulla iam poterit virere fronde, sceptrum quod pathicae petunt puellae, quod quidam cupiunt tenere reges, cui dant oscula nobiles cinaedi, intraque viscera furis ibit usque ad pubem capulumque coleorum. XXVI. Dunque, Romani, poi che per salvarmi non riesco a vedere altra maniera, o voi vi decidete ad amputarmi il membro che, ogni notte, le indiscrete vicine mi tormentano, infojate più che uccelli in amore a primavera oppure io scoppierò e voi resterete senza Priapo. Avanti, giudicate personalmente quanto sia spompato e macilento e pallido e spossato. Io che un tempo ero solito scucire forte e rubizzo i più duri ladroni sento i reni mancarmi e dai polmoni sputo sangue e non faccio che tossire. Porro (nam quis erit modus?), Quirites, aut praecidite seminale membrum, quod totis mihi noctibus fatigant vicinae sine fine prurientes, vernis passeribus solaciores, aut rumpar nec habebitis Priapum. Ipsi cernitis, ecfututus ut sim confectusque macerque pallidusque qui quondam ruber et valens solebam fures caedere quamlibet valentes. Defecit latus et periculosam cum tussi miser expuo salivam. XXVII. Conosciuta da tutti a Caracalla, passatempo dolcissimo ai cafoni, Quinzia, che sa agitare quando balla le natiche vibranti, questi doni, o Priapo, ti porta: due strumenti, il cembalo ed il crotalo, eccitanti d'ogni osceno prurito, ed un tamburo da suonar con i pugni. Prega in cambio d'esser sempre gradita ai propri amanti e che l'abbian, costoro, tutti quanti, come te sempre dritto e sempre duro. Deliciae populi, magno notissima circo Quintia, vibratas docta movere nates, cymbala cum crotalis, pruriginis arma, Priapo ponit et adducta tympana pulsa manu. Pro quibus ut semper placeat spectantibus orat tentaque ad exemplum sit sua turba dei. XXVIII. Tu che stai meditando di rubare nell'orto e a malincuor ti tiri indietro, sappi che un cazzo lungo mezzo metro t'aspetta qui prontissimo a inculare. E se non basterà la punizione pur cosi grave e dura, andrò a toccare più alte cime con il mio bastone. Tu, qui non bene cogitas, et aegre carpendo tibi temperas ab horto pedicabere fascino pedali. Quod si tam gravis et molesta poena non profecerit, altiora tangam. XXIX. Ch'io muoia or or, Priapo, se il rossore non m'assale nel dir degli sfondoni; ma quando tu, un dio, senza pudore metti in mostra un bel paio di coglioni se un'idea debbo rendere lubrica debbo dir pene a pene e fica a fica. Obscenis, peream, Priape, si non uti me pudet improbisuqe probris: sed cum tu posito deus pudore ostendis mihi coleos patentes, cum cunno mihi mentula est vocanda. XXX. “Tu che minacci con la falce e il pene, o Priapo, sai dirmi quale via mi conduce alla fonte?” “Certo. Vai per le vigne, ma bada, se ti viene l'idea di coglier l'uva, l'acqua avrai... da ben diversa fonte tuttavia.” 'Falce minax et parte tui maiore, Priape, ad fontem, quaeso, dic mihi qua sit iter.' Vade per has vites, quarum si carpseris uvam cur aliter sumas, hospes, habebis aquam. XXXI. Finché niente di me toccherai con mano audace, ti conserverai più pudica e più casta della stessa dea Vesta*; se così non farai la mia asta ti allargherà a tal punto lo sfintere che uscir potrai dal tuo stesso sedere. *dea solo romana, protettrice della famiglia e del focolare domestico. Donec proterva nil mei manu carpes, licebit ipsa sis pudicior Vesta; sin, haec mei te ventris arma laxabunt, exire ut ipsa de tuo queas culo. XXXII. Arida e secca più dell'uva passa, pallida più della novella cera e del legno di bosso, una fanciulla, che a suo confronto fa sembrare grassa persino una formica e che mostrare potrebbe a un mago etrusco gli intestini attraverso la pelle trasparente, arsa come la pomice e carente d'ogni sorta di linfa, sì che rare son le volte che sputa, e le cui vene hanno per sangue, a detta del dottore, polvere e segatura, se ne viene a me la notte con il suo pallore e la sua fantomatica figura. Per cui assomiglio tutto a un lazzarone deportato, ormai fabbro, che si cura di pulir la lanterna col bastone. Uvis aridior puella passis buxo pallidior novella cera, collatas sibi quae suisque membris formicas facit altiles videri, cuius viscera non aperta Tuscus per pellem poterit videre haruspex, quae suco caret usque et usque pumex, nemo viderit hanc ut expuentem, quam pro sanguine pulverem scobemque in venis medici putant habere ad me nocte solet venire et adfert pallorem maciemque larualem. Ductor ferreus insulariusque lanternae videor fricare cornu. XXXIII. Gran quantità di ninfe i miei maggiori ebbero sia dei monti che del mare e c'era posto per poter placare la tensione del cazzo; or dai dolori è assalito il mio pene, poiché niente c'è più e la mia foja è tanto forte ch'io credo afflitto e sconsolatamente che le Ninfe oramai sian tutte morte. E' turpe a farsi, ma per non scoppiare deporrò per un poco la mia falce e con la mano mi darò da fare. Naiadas antiqui Dryadasque habuere Priapi, et quo tenta dei vena subiret, erat: nunc adeo nihil est, adeo mea plena libido est, ut Nymphas omnes interiisse putem. Turpe quidem factu, sed, ne tentigine rumpar, falce manu posita fiet amica manus. XXXIV. Poiché si celebrava un rito sacro al nume di Priapo, una puttana del raccordo anulare fu chiamata che da sola si desse a tutti quanti... e dunque io, Priapo, adesso tanti cazzi fatti di salcio a te consacro quanti ne smidollai quella nottata. Cum sacrum fieret deo salaci, conductast pretio puella parvo, communis satis omnibus futura, quae quot nocte viros peregit una tot verpas tibi dedicat salignas. XXXV. Dovrai il mio cazzo duro e lungo prendere la prima volta in culo, furbacchione, ma attento, ché se ancor ti fai sorprendere sarai costretto a farmi un rigatone. Poi se prepari ancora un terzo furto per infliggerti entrambe queste pene contemporaneamente in un sol urto in culo e in bocca prenderai il mio pene. Pedicabere, fur, semel, sed idem, si deprensus eris bis, inrumabo. Quod si tertia furta molieris, ut poenam patiare et hanc et illam, pedicaberis inrumaberisque. XXXVI. D'ognun di noi é ben noto l'aspetto: lunghi riccioli ha Febo e muscoloso Ercole appare e Bacco giovinetto mostra un corpo virgineo assai grazioso, languido sguardo ha Venere e Minerva ha gli occhi azzurri, i Fauni puoi vedere con i capelli sparsi sulla fronte e ali ai piedi ha il fido messaggere degli immortali*, invece è claudicante il dio di Lemno**. E se Esculapio*** è detto di lunga barba, più dell'arrogante Marte non v'è che abbia un fiero petto. Non mi resta che dir fra tutte quante qual è la nota illustre del mio aspetto. Subito. E' presto detto: io vi assicuro che nessun iddio possiede un cazzo lungo più del mio. *Mercurio, Ermes in greco; ** Vulcano, Efesto in greco; Esculapio, figlio di Apollo, e celebre medico nell'antichità. Notas habemus quisque corporis formas. Phoebus comosus, Hercules lacertosus, trahit figuram virginis tener Bacchus, Minerva ravo lumine est, Venus paeto, frontes crinitos arcadas vides Faunos, habet decentes nuntius deum plantas, tutela Lemni dispares movet gressus. Intonsa semper Aesculapio barba est, nemo est feroci pectorosior Marte. Quod siquis inter hos locus mihi restat, deus Priapo mentulatior non est. XXXVII. Perché, chiedete, sulla tavoletta c'è disegnato un membro genitale? Avendo avuto al cazzo molto male ed avendo paura d'affidarlo ad un chirurgo o ad un di quegli dei già medici famosi, come Apollo o il di lui figlio, qua come potei venni e a Priapo dissi: “Tu che sembri essere parte stessa della parte che mi fa stare tanto in apprensione aiutami ti prego e la tua arte mi curi il membro senza operazione, perché se riuscirai un buon dottore io te ne porterò una campita uguale uguale, pure nel colore, a quella parte che m'avrai guarita.” Il dio promise che l'avrebbe fatto accennando di sì con il suo dito e dopo quel contratto così come chiedevo fui guarito. Cur pictum memori sit in tabella membrum, quaeritis, unde procreamur? Cum penis mihi forte laesus esset chirurgamque manum miser timerem, dis me legitimis nimisque magnis, ut Phoebo puta filioque Phoebi, curandam dare mentulam verebar. Huic, dixi, fer opem, Priapi, parti, cuius tu, pater, ipse pars videris, qua salva sine sectione facta ponetur tibi picta, quam levaris, par vel consimilisque concolorque. Promisit fore mentulamque movit pro nutu deus et rogata fecit. XXXVIII. Qui bisogna parlare chiaramente: desideri sapere perché la mia natura agli occhi tuoi si manifesti tanto apertamente. Io desidero romperti il sedere, tu invece le mie mele vuoi rubare: ebbene, per avere le mele che tu vuoi alle mie voglie devi sottostare. Simpliciter tibi me, quodcumque est, dicere oportet natura est quoniam semper aperta mihi. Pedicare volo, tu vis decerpere poma: quod peto si dederis, quod petis accipies. XXXIX. Per venustà Mercurio può piacere, Apollo, lo san tutti, è un bel pischello, Bacco poi lo dipingon sempre bello. Bellissimo fra tutti spicca Amore. Quanto a me, lo confesso, non son bello, però, lo devo dire, ci ho un pisello meraviglioso e questo fa piacere più che bellezza, più che ogni altra cosa, ad una bella fica saporosa. Forma Mercurius potest placere forma conspiciendus est Apollo, formosus quoque pingitur Lyaeus, formosissimus omnium est Cupido, me pulcra fateor carere forma, verum mentula luculenta nostra est. Hanc mavolt sibi quam deos priores si qua est non fatui puella cunni. XL. Alla Suburra* la conoscon tutte le puttanelle quella Teletusa** che libera s'è resa con i guadagni a forza di marchette. E poiché le mignotte ti stimano un gran santo ella vuole, o Priapo, con un guanto tutto dorato ornare la tua prerogativa peculiare. Nota suburanas inter Telethusa puellas, quae, puto, de quaestu libera facta suo est, cingit inaurata penem tibi, sancte, corona: hunc pathicae summi numinis instar habent. * quartiere dell'antica Roma, oggi corrispondente al rione Monti. **prostituta non meglio nota: la stessa del carme XIX? XLI. Chi viene qui sia poeta d'osceni versi a me dedicati e chi non ci vuol stare può portare le sue ragadi anali a passeggiare fra i poeti laureati. Quisquis venerit huc poeta fiat et versus mihi dedicet iocosos. Qui non fecerit inter eruditos ficosissimus ambulet poeta. XLII. Aristagora sono, agricoltore, e son contento che l'uva mi sia cresciuta bene e ben matura; onore ti voglio fare, o dio, con questa mia offerta in mele fatte con la cera. Perciò, Priapo, se tu sei contento di queste mele finte, a primavera fa che il raccolto ne abbia un incremento. Laetus Aristagoras natis bene vilicus uvis de cera facta dat tibi poma, deus. At tu sacrati contenuts imagine pomi fac veros fructus ille, Priape, ferat. XLIII. Che vuole la fanciulla che qui viene a riempirmi di baci il pisello benché sia di legno? Non ci vuole l'ingegno d'un augure, lettore, per saperlo. Perché mi ha detto: “Ogni sollazzo amoroso prenda in me ben eretto il tuo cazzone nodoso.” Velle quid hanc dicas, quamvis sim ligneus, hastam. Oscula dat medio siqua puella mihi. Augure non opus est: “In me”, mihi credite, dixit: “utetur Veneris lusibus hasta rudis.” XLIV. Non crediate ch'io parli per parlare: dopo tre o quattro volte che i furfanti si son fatti pescare l'han da prendere in bocca tutti quanti. Nolite omnia, quae loquor, putare per lusum mihi per iocumque dici. Deprensos ego ter quaterque fures omnes, ne dubitetis, inrumabo. XLV. Il dio dal cazzo dritto vide un tale arricciarsi i capelli dal barbiere con un aggeggio arroventato al fuoco. Voleva assomigliare almeno un poco ad una mauritana nell'aspetto. Il dio gli disse: “Dimmi un po', moretto, son meglio i ricci finti d'un femminiello che sembra una ragazza d'oltremare dei ricci che tu vedi incoronare il mio pisello?” Cum quendam rigidus deus videret ferventi caput ustulare ferro, ut maurae similis foret puellae, “Heus” inquit, “tibi dicimus, cinaede: uras te licet usque torqueasque: num tandem prior est puella, quaeso, quam sunt, mentula quos habet capilli?” XLVI. Meno bianca tu sei d'un marocchino, ma più appestata di tremila froci, del pigmeo più corta, cui perfino fan paura le gru dai pie' veloci, degli orsi più scabrosa e più pelosa, fanciulla, sai che c'è? Se vuoi rimani, ma per me te ne puoi andare via, ché se si tende già la nerchia mia mi ci vorrebbero almeno tuttavia ben dieci mazzolini di rughetta per strofinarli su codesta sporca schiera di vermicelli che ti getta fra gli inguini il crepaccio della sorca. O non candidior puella mauro, sed morbosior omnibus cinaedis, pygmaeo brevior gruem timenti, ursis asperior pilosiorque, Medis laxior Indicisve bracis, mallem hinc scilicet ut libenter ires. Nam quamvis videar satis paratus, erucarum opus est decem maniplis fossas inguinis ut teram dolemque cunni vermiculos scaturrientis. XLVII. Se fra coloro che stan qui a cenare qualcuno non si sente di poetare in onor mio, io prego che la moglie sfoghi tutte le voglie del suo rivale a forza di toccare. Ed egli invece dorma sol soletto tutta una lunga notte in compagnia d'un mazzo di rughetta. Quicumque vestrum qui venitis ad cenam, libare nullos sustinet mihi versus illius uxor aut amica rivalem lasciviendo languidum, precor, reddat et ipse longa nocte dormiat solus libidinosis incitatus erucis. XLVIII. Ciò che vedi bagnare la parte per la quale Priapo mi chiamo non è rugiada, credimi, né brina, ma ciò che viene fuori prontamente se corre la mia mente al culo d'una bella malandrina. Quod partem madidam mei videtis per quam significor Priapus esse, non ros est, mihi crede, nec pruina, sed quod sponte sua solet remitti cum mens est pathicae memor puellae. IL. Se su queste pareti leggi versi di contenuto osceno ed indecente, chiunque tu sia, non t'offendere perché al mio cazzo non fa schifo niente. Tu quicumque vides circa tectoria nostra non nimium casti carmina plena ioci versibus obscenis offendi desine: non est mentula subducti nostra supercilii. L. Priapo, senti, sia come ti piace, ma c'è una che fa la schizzinosa, si fa gioco di me, non mi dà pace, non dice te la dò, ma sul non darla tace: tutto si inventa a rimandar la cosa ed a fare aumentare le mie voglie. Perciò, Priapo, se tu, benedetto, mi aiuti ad assaggiare quel boccone verrò qui, lo prometto, con mia moglie, a cingere di fiori il tuo bastone. Quaedam, si placet hoc tibi, Priape, fucosissima me puella ludit et nec dat mihi nec negat daturam: causas invenit usque differendi. Quae si contigerit fruenda nobis tota sutilibus, Priape noster, cingemus tibi mentulam coronis. LI. Che mistero è mai questo? Che affare? Quali sono le oscure ragioni per cui scelgono molti ladroni di venir nel mio orto a rubare se quello che io qui sorprendo paga tutta completa la pena inculato fin sotto alla schiena? I miei fichi non sono più buoni dei fichi vicini né spero sia quella che tu vai cogliendo, la mia uva, o Arete*, in Omero, né le mele, diresti, le prendo dai frutteti dell'agro piceno, né le pere son tali da correre un sì grave periglio o le prugne della cera novella più chiare né il sorbo che il culo ti cura se gli prende a scacarellare né i miei rami producono more di acre e squisito sapore né la noce di forma allungata, avellano, mi pare, chiamata, né le mandorle dolci ed amare risplendenti nei fiori di porpora. Non mi vanto di fare dei cavoli o pur bietola miracolata né dei porri che sempre ricrescono da se stessi, dal lor proprio capo. Né i ladri son poi tanto scemi da cercar zucche piene di semi o il basilico oppure il cocomero che sta lì quasi seminterrato o che vengano qui per l'erbetta su cui è bello stare sdraiato né per prendere l'acre ruchetta o il cespo di menta odoroso o le salubri rute o l'amara cipolla o pur l'aglio fibroso. Che se prosperano nel mio giardino queste piante, non meno assortite vengono anche nell'orto vicino. E voi invece, ladroni viziosi, trascurate gli altri orti e venite a rubare nel mio poderetto. Se è così tutto allora è spiegato: voi venite per quel ch'io prometto: vi minaccio un castigo assai chiaro ed è questo, non altro, il richiamo. *regina dei Feaci, cantata da Omero nell'Odissea. Quid hoc negoti est quave suspicer causa venire in hortum plutimos meum fures, cum, quisquis in nos incidit, luat poenas et usque curvos excavetur ad lumbos? Non ficus hoc est praeferenda vicinae uvaeque quale flava legit Arete, non mala, truncis adserenda picenis pirumve tanto quod periculo captes magisque cera luteum nova prunum sorbumve ventres lubricos moraturum. Praesigne rami nec mei ferunt morum nucemve longam quae vocatur a lana amygdalumve flore purpurae fulgens. Non brassicarum ferre glorior caules betasve quantas hortus educat nullus crescensve semper in suum caput porrum. Nec seminosas ad cucurbitas quemquam ad ocymumve cucumeresve humi fusos venire credo sessilesve lactucas nec ut salaces nocte tollat erucas mentamve olentem cum salubribus rutis acresve caepas aliumque fibratum. Quae cuncta, quamvis nostro habemus in saepto, non pauciora proximi ferunt horti. Nimirum apertam convolatis ad poenam, hoc vos et ipsum quod minamur invitat. LII Priapo al ladro: “Ehi tu, evidentemente dall'orto a me affidato trattieni a stento la rapace mano: bada che il dio infojato e libertino entrando e uscendo alternativamente dal tuo bel deretano te lo farà più largo d'un tombino. Poi c'entreranno gli altri due che a lato gli stanno per difese, l'uno e l'altro dotato di belle palle appese. E quando, ormai prostrato, finalmente t'avranno fino in fondo ben sondato s'appresserà al tombino un asinello infojato e più grosso di pisello.” Priapo fra sé e sé: “Per cui se non è matto, sapendo che qui trova tanti cazzi si guarderà da un male cosiffatto.” Heus tu, non bene qui manum rapacem mandato mihi contines ab horto, iam primum stator hic libidimosus alternis et eundo et exeundo porta te faciet patentiorem. Accedent duo qui latus tuentur, pulcre pensilibus peculiati. Qui cum te male foderint iacentem, ad portam veniet salax asellus et nil deterius mutuniatus. Quare si sapiet malus cavebit cum tantum sciet esse mentularum. LIII. Bacco non dice niente se al tempo del raccolto quando nei tini capienti entra a stento il molto vino io gli offro solo un grappoletto d'uva. E Cerere* non vuole sui capelli che una sola corona allorché per la buona raccolta l'aia pur grande non è sufficiente. Anche tu, dunque, mio Priapo, ascolta da dio minore la preghiera mia: seguendo l'esempio dei grandi, gradisci e accetta i miei doni sebbene non sian proprio tanti. *in greco Demetra, dea delle méssi e delle stagioni calde. Contentus modico Bacchus solet esse racemo cum capiant alti vix cita musta lacus; magnaque fecundis cum messibus area desit in Cereris crines una corona datur. Tu quoque, dive minor, maiorum exempla secutus, quamvis pauca damus, consule poma boni. LIV. Se tu scrivi su un foglio CD disegnandovi sopra un bastone scoprirai che hai ritratto il briccone che desidera romperti il cul. C D si scribis temonemque insuper addas, qui medium vult te scindere pictus erit. LV. Chi mai potrebbe credere a un tal fatto? E' una cosa inaudita! I ladri hanno sottratto proprio dalle mie dita la falce, addirittura. E non mi duole tanto la sventura per quello che ho perduto né il rossore quanto il giusto timore di dovere perdere il resto della mia armatura. Che se accade dovrò cambiar quartiere e a dirla proprio franca chissà che forse un giorno, Lampsaco*, non ritorno fra le tue mura, ma da voce bianca. *città greca, oggi turca, posta sulla riva sud dello stretto dei Dardanelli; lì, secondo il mito, Priapo sarebbe nato. Credere quis possit? Falcem quoque (turpe fateri!) de digitis fures subrupuere meis. Nec movet amissi tam me iactura pudorque quam praebent iustos altera tela metus. Quae si perdidero, patria mutabor et olim ille tuus civis, Lampsace, gallus ero. LVI. E mi deridi pure, mascalzone, squadrandomi le fiche nel mentre ti minaccio. Ahimè che son tapino poiché questo che mi ti fa apparire spaventoso è puro legno. Ma sai cosa faccio? Siccome il mio padrone ci ha un bel coso gli passerò l'incarico molesto di farsi far dai ladri un rigatone. Drides quoque fur et impudicum ostendis digitum mihi minanti? Eheu me miserum, quod ista lignum est quae me terribilem facit videri. Mandabo domino tamen salaci ut pro me velit inrumare fures. LVII. Una cornacchia, un rudere, una vera farmacia semovente una caterva d'anni tabescente, forse balia efficiente di Priamo* o di Titone** o di Nestore***, forse, se non fosse già stata vecchia quando quelli erano ancora fanciulletti tenerelli, vien qui da me ogni sera a farmi la sua solita preghiera di non lasciarla a corto di piselli. E' come se chiedesse di tornare al tempo della prima giovinezza. Per me, se può pagare non è che non la possa accontentare. * re di Troia, marito di Ecuba e padre di una numerosa prole. **mito: di lui si innamorò l'Aurora (in greco Eos) che chiese a Giove di donargli l'immortalità, ma si dimenticò di chiedere anche l'eterna giovinezza, per cui Titone è rappresentato sempre come vecchissimo e perciò l'Aurora lascia il letto nuziale la mattina presto. Alla fine Titone ottenne di essere tramutato in cicala. *** re di Pilo, situata sulla costa occidentale della Grecia, il quale si recò alla guerra di Troia già molto vecchio. Cornix et caries vetusque bustum, turba putida facta saeculorum quae forsan potuisset esse nutrix Tithoni Priamique Nestorisque illis ni pueris anus fuisset, ne desit sibi, me rogat, fututor. Quid si nunc roget ut puella fiat? Si nummos tamen haec habet, puella est. LVIII. Io prego che dal culo sgangherato gli escano fuori i vermi al ladro ingannatore. E per colei che allungherà il suo braccio disgraziato sui meli miei io prego che non trovi il fottitore. Quicumque nostram fur fefellerit curam effeminato verminet precor culo; quaeque haec proterva carpserit manu poma puella nullum reperiat fututorem. LIX. Affinché tu non possa negare che ne eri già stato avvisato: se ti provi a incularmi e ad entrare di sicuro ne esci inculato. Praedictum tibi dictum ne negare possis: si fur veneris impudicus exis. LX. Io ti dico, Priapo, con certezza che vinceresti Alcìnoo* per ricchezza se le tue mele fossero abbondanti come i tuoi canti. *re dei Feaci che, secondo Omero nell'Odissea, ospitò Ulisse e gli permise di raggiungere Itaca. Si quot habes versus tot haberes poma, Priape, Esses antiquo ditior Alcinoo. LXI. Perché ti lagni invano, contadino, contro di me che, un tempo fruttuoso, or da due anni non produco niente? Non gli anni, come te probabilmente vai almanaccando, gravan sul tapino e non son travagliato dalla crudele grandine e neppure bruciò lo spiro d'un inverno tardo le gemme appena nate né i venti né le piogge né l'arsura mi arrecarono danni, per lamenti fatti da me contro di loro. E infine non lo storno né il corvo predatore né la vecchia cornacchia o la fangosa anatra degli stagni o l'assetato corvo mi nocque. Invece è che sopporto sui miei poveri rami tormentati i versi di un poetastro beccamorto. Quid frustra quereris, colone, mecum, quod quondam bene fructuosa malus autumnis sterilis duobus adstem? Non me praegravat, ut putas, senectus, nec sum grandine verberata dura nec gemmas modo germine exeuntes seri frigoris ustulavit aura. Nec venti pluviaeque siccitasve, quod de se quererer, malum dederunt. Non sturnus mihi graculusve raptor aut cornix anus aut aquosus anser aut corvus nocuit siticulosus, sed quod carmina pessimi poetae ramis sustineo laboriosis. LXII. E voi, miei cani, andate a riposare la quiete che vi spetta, ché in compagnia d'Erìgone* diletta Sirio* sull'orto resterà a vegliare. Securi dormite, canes: custodiet hortum cum sibi dilecta Sirius Erigone. *mito: Erigone, figlia di Icario, che Bacco (Dioniso) ha fatto ubriacare insieme ai suoi concittadini e che perciò, credendo che il vino fosse un veleno, è stato da essi ucciso, a sua volta si uccide impiccandosi e così il suo cane, che l'aveva condotta vicino al copro del padre morto, anche lui si uccide. Tutti e tre furono trasformati in costellazioni: in particolare Erigone fu trasformata nella costellazione della Vergine, anche se alcune varianti del mito dicono che Bacco l'avrebbe sedotta. In ogni caso Sirio con questo mito c'entra poco, però il poeta associa le due costellazioni in questo distico che sembra il frutto di un momento particolarmente ispirato dalla solitudine notturna, prima che arrivi il sonno. LXIII. E' poco se sopporto l'arsura dell'estate qui dove un giorno scelsi la dimora mentre la terra s'apre in crepe paurose sotto il sole crudele e la calura? E se le piogge penetrano in ogni mia fessura e la grandine assalta i miei capelli e la barba rimane congelata in rigidi cristalli? Se mi ritrovo sempre l'ossa rotte per aver fatto il mazzo tutto il giorno e sgobbato così anche la notte? A questo aggiungi che da un fusto rozzo mi sgrossarono mani contadine sommariamente e che tra tutti i numi son l'ultimo, chiamato il legnoso custode di cocuzze. E mettici anche il segno della virilità, piramide gonfiata dal nervo lussurioso. Per essa viene spesso una fanciulla, della quale non voglio fare il nome, insieme a uno che forse se la fotte e si esercita in tutte le figure descritte da Filenide* e anche nuove e dopo avermi sconquassato i reni provando e riprovando posizioni se ne va con la fregna che le brucia come un cratere pieno di carboni. *poetessa greca forse ispiratrice del poeta latino Properzio; stando alla tradizione non si può escludere che fosse autrice anche di un libro a contenuto erotico. Parum est mihi, quod hic, fixi ut semel sedem, agente terra per caniculam rimas siticulosam sustinemus aestatem? Parum, quod imos perfluunt sinus imbres, et in capillos grandines cadunt nostros rigetque dura barba victa crystallo? Parum, quod acta sub laboribus luce parem diebus pervigil traho noctem? Huc adde quod me fuste de rudi vilem manus sine arte rusticae dolaverunt interque cunctos ultimum deos numen cucurbitarum lignues vocor custos. Accedit istis impudentiae signum. Libidinoso tenta pyramis nervo: ad hanc puella, paene nomen adieci, solet venire cum suo fututore, quae tot figuris quot Philaenis enarrat novisque fictis pruriosa discedit. LXIV. Un tizio strano, assai più delicato del midollo d'un'oca, attirato dalla pena è venuto a rubare. Per me può fare, che tanto fingerò di non guardare. Quidam mollior anseris medulla furatum venit huc amore poenae. Furetur licet usque: non videbo. LXV. Dal sordido recinto or vittima ti viene consacrato il porco che col muso i non sbocciati gigli ha rosicchiato: ma se non vuoi ridurmi, ahimè tapino, senza bestiame, Priapo, prego, fa che il cancelletto del tuo giardino resti sempre chiuso. Hic tibi qui rostro crescentia lilia morsit caeditur e tepida victima porcus hara. Ne tamen exanimum facias pecus omne, Priape, horti sit, facias, ianua clausa tui. LXVI. Tu che per non vedere il chiaro segno dell'uomo, cambi via, come conviensi a femmina pudica, non meravigli affatto, che l'ordegno di cui schifi la vista, tuttavia lo desideri aver dentro la fica. Tu quae ne videas notam virilem hinc averteris ut decet pudicam, nil mirum nisi quod times videre intra viscera habere concupiscis. LXVII. Fa che la prima di CUrione venga dopo la prima sillaba di INcerto e la prima di REmo dopo la prima di LAtona. Avremo così la pena che mi pagherai per risarcirmi l'eventuale torto che tu mi arrecherai entrando di nascosto nel mio orto. Penelopes* primam Didonis* prima sequatur et primam Caci* syllaba prima Remi* quodque fit ex illis tu mi deprensus in horto fur dabis: haec poena culpa luenda tua est. *per necessità di trascrizione ho dovuto cambiare i nomi utilizzati dal poeta latino: Penelope e Didone e Remo sono noti; Caco è un gigante che ruba le mucche di Ercole e che perciò viene ucciso dall'eroe. LXVIII. Perdonami se forse un po' ti sembra ch'io parli veramente da coglione: non leggo libri, lego solo fieno e faccio delle mele la raccolta. Ma per quanto sia rozzo, qualche volta son costretto a sentire il mio padrone leggere Omero ed ho imparato quelli dei vocaboli suoi che suonan meno. E ti dirò che Omero definisce “cheraunion psoloenta” il cazzo quando è dritto, infuocato e smanioso e il culo “kouleon” e “merdaleon” dice di cosa assai poco pulita giacché dei froci il coso si sa che è merdoloso. Ma perché? Perché, dico, se il cazzo del Troiano (1) non fosse mai piaciuto allo spartano speco (2) infedele non avrebbe avuto materia per il canto il venerando Cieco (3) e se non si fosse conosciuto di Agaménnone (4) il magico pisello il vecchio Crise (4) non avrebbe avuto motivo di lagnarsi. Proprio quello privò infatti l'amico della bella (4). E intanto lui, Achille (4), piè veloce la commovente tèssala canzone intonò sulla cetra, ma di quella più teso era il suo ordegno. Tuttavia nata da questo l'ira, prese il via l'Iliade celebrata. E quello sdegno fu causa prima del poema sacro. Ma altra fu materia dell'errore del moltéplice Ulisse? Non direi: in verità anche lui cede all'amore. Qui trovi una radice da cui, lui dice, sboccia l'aureo fiore: se così lui lo chiama, affari suoi! Fatto sta che da noi si chiama “cazzo”, tu dì quel che vuoi. I grandi vasi di Dulichio (5) poi si legge che richiesero a quel prode le dee Circe e Calipso (6). Ed è certo: anche la figlia di Alcìnoo (7), si dice, che si meravigliasse di quel coso che a stento poteva essere coperto da un gran ramo frondoso. Però l'eroe ormai si preparava a ritornare dalla sua vecchietta (8) e tutta la sua mente concentrava nel buco di Penelope diletta. Ma tu te ne restavi intemerata nonostante partecipe dei pranzi nella casa occupata da quei ganzi che volevano fartisi dei quali per scovare chi fosse il più valente quei proci infregoliti volesti esaminare: “Tendere il nervo tanto arditamente quanto il mio Ulisse nessun uom sapeva, sarà per la gran forza che lui aveva nei reni o sarà stata la destrezza. Ora, poiché lui sta nell'eterno riposo, tendételo anche voi, sicché mio sposo sia uno del cui senno io abbia certezza.” Per questo tuo tranello sì ingegnoso, o mia cara Penelope, è assodato che avrei potuto esserti gradito ma pur troppo in quel tempo trapassato non ero ancora stato concepito. (1) Paride, il principe troiano che, avendo sedotto Elena, scateno la guerra di Troia. (2) Elena. (3) Omero. (4) Crise, sacerdote di Apollo, chiede ai Greci di liberare la figlia Criseide, da loro catturata e toccata in sorte ad Agamennone, re e capo supremo della spedizione contro Troia; Agamennone cede Criseide ma ordina di avere in sostituzione Briseide, la schiava toccata in sorte ad Achille, il campione dell'esercito greco che ovviamente, sentendosi oltraggiato, si ritira dalla guerra all'inizio del decimo anno provocando una serie di sconfitte ai Greci. La guerra si risolverà solo quando lui tornerà a combattere. Tutto questo è in sintesi il contenuto del poema che il poeta spiega in modo priapeo. (5) Sarebbe una piccola isola che, secondo Omero, si troverebbe vicino ad Itaca e sarebbe dotata di due porti (ai quali alluderebbe in modo osceno il poeta); ma ad oggi non e stato possibile rintracciare nei dintorni di Itaca un'isola identificabile con questa. (6) Ninfe note amate da Ulisse nell'Odissea. (7) Re dei Feaci. (8) Penelope. Rusticus indocte si quis dixisse videbor, da veniam: libros non lego, poma lego. Sed rudis hic dominum totiens audire legentem cogor, homericas edidicique notas. Ille vocat, quod nos psolen, ψολοεντα κεραυνον, et quod nos culum, κουλεον ille vocat; Μερδαλεον certe si res non munda vocatur et pediconum mentula merdalea est. Quid? Nisi taenario placuisset troica cunno mentula quod caneret non habuisset opus. Mentula tantalidae bene si non nota fuisset, nil senior Chryses quod quereretur erat. Haec eadem socium tenera spoliavit amica quaeque erat aeacidae maluit esse suam. Ille pelethronium cecinit miserabile carmen ad citharam cithara tensior ipse sua. Nobilis hinc nata nempe incipit Ilias ira: principium sacri carminis illa fuit. Altera materia est error fallentis Ulixi: si verum quaeras hanc quoque movit amor. Hic legitur radix de qua flos aureus exit, quem cum μωλυ vocat mentula μωλυ fuit. Hic legimus Circen atlantiademque Calypson grandia Dulichii vasa petisse viri, huius et Alcinoi mirata est filia membrum frondenti ramo vix potuisse tegi. Ad vetulam tamen ille suam properabat et omnis mens erat in cunno, Penelopea, tuo, quae sic casta manes, ut iam convivia visas, utque fututorum sia tua plena domus. E quibus ut scires qui quoque valentior esset haec es ad arrectos verba locuta procos: 'Nemo meo melius nervum tendebat Ulixe, sive ille laterum sive erat artis opus. Qui quoniam periit vos nunc intendite qualem esse virum sciero, vir sit ut ille meus.' Hac ego, Penelope, potui tibi lege placere: illo sed nondum tempore factus eram. LXIX. Quando del fico penserai la dolcezza e la mano starai per allungare, guarda, ladro, e misura con certezza quanto sia grosso il cazzo da cacare. Cum fici tibi suavitas subibit et iam porrigere huc manum libebit ad me respice, fur, et aestimato quot pondo est tibi mentulam cacare. LXX. Mi giocò il contadino sempliciotto senza volerlo un bel tiro mancino portando qui focacce e farro cotto. Compiuto il rito, in parte quelle cose fra gli inguini ed il dito mi nascose. Accorse qui la cagna del vicino, seguendo, credo, l'orma dell'odore e dopo aver mangiato il biscottino nella notte elargì più d'un favore al dito mio che sta sempre in calore. Voi dunque non portatemi più niente, affinché non mi venga qui un fottio di caste cagne attratte dal mangiare. Se no, per venerare il nume mio, voi ridurreste quelle a bocchinare. Inlusit mihi pauper inquilinus qui cum libo aderat molaque fusa, quorum partibus abditis in inguen sacro protinus hinc abit peracto. Vicini canis huc subinde venit, nidorem puto prosecuta fumi, quae libamine mentula comeso tota nocte mihi litat rigendo. At vos amplius hoc loco cavete quicquam ponere ne famelicarum ad me turba velit canum venire ne, dum me colitis meumque numen, custodes habeatis inrumatos. LXXI. Se i frutti ruberai che furono affidati alla custodia mia quanto amaro mi sia personalmente, amico, proverai. Si conmissa meae carpes pomaria curae dulcia quid doleam perdere doctus eris. LXXII. Un mariuolo a Priapo: “Guarda con diligenza i tuoi pomari e allontanane i furbi col tuo arnese infojato!” Priapo al mariuolo: “Non fare il furbo! I tuoi raccomandari sono inutili, o male intenzionato; che se mele mature tu mi rubi un rude ramo in sovrappeso avrai.” Tutelam pomari diligens, Priape, facito; rubricato furibus minare mutinio. Quod monear non est, quia si furaberis ipse grandia mala tibi bracchia macra dabo. LXXIII. O rotte in culo, mi guardate storto? Sappiate che, se in foja, il passinmano negli inguini non sta, porche fottute. E se esso ora è morto ed inutile legno pende invano sarà ben di mestiere quando gli fornirete voi il braciere. Obliquis pathicae quid me spectatis ocellis? Non stat in inguinibus mentula tenta meis. Quae tamen exanimis nunc est et inutile lignum, utilis haec, aram si dederitis, erit. LXXIV. Maschi in calore e baldi giovanotti avranno i culi rotti da cotesto mio bischero; ma la bocca, non l'ano, mi darà chi è più anziano. Per medios ibit pueros mediasque puellas mentula, barbatis non nisi summa petet. LXXV. Giove, Dodona (1) è sacra a te e va bene; a Era sono sacre Samo e Micene (2) e le onde del Tènaro (3) son care al grande Posidone, dio del mare. Alle rocche Cecropie (4) è affezionata la vergine Minerva e Apollo a Delfi (5), ombelico del mondo, l'incantata. Diana, quella, preferisce Creta e i Cinzii (6) colli. Il Mènalo (7) ama il fauno e d'Arcadia (7) selvosa le convalli; Ercole ama il suo Tivoli e l'Aniene con Gades (8) ed il dio dal pie' furtivo (9) la nevosa Cillene (10), ama Vulcano Lemno (11) infocata e Cerere (12), gran madre, curan le nuore siciliane ad Enna; mentre Cizico (13), piena di conchiglie, ama la di lei figlia, Proserpina (13). Ma di Venere bella il bel sorriso s'adora soprattuto a Pafo (14) e a Cnido (15). (1) Località a nord-ovest della Grecia dove c'era un bosco sacro a Giove. (2) Isola e città famose. (3) Grotte situate sulla costa est del Peloponneso da dove, secondo il mito, era possibile la discesa negli Inferi. (4) Rocce sacre a Cecrope, mitico re di Atene, sulle quali sorse la città. (6) Sull'isola di Delo, dove la dea era nata, c'è il monte Cinto, da cui l'epiteto “cinzio” spesso riferito anche alla dea stessa. (7) Monte dell'Arcadia, regione posta a nord-ovest del Peloponneso. (8) Cadice: si riferisce alle colonne d'Ercole. (9) Ermes (Mercurio). (10) Montagna fra l'Arcadia e l'Acaia nel Peloponneso, dove nacque il dio. (11) Isola a nord del mar Egeo, sacra a Vulcano (Efesto) perché vi era nato. (12) Cerere (in greco Demetra) godeva di un particolare culto nella città di Enna in Sicilia. (13) Cizico, antica città greca, oggi turca, sulla sponda sud del mare dei Dardanelli: secondo il mito, fu donata a Proserpina (Persefone in greco) da Zeus come dote. (14) Località di Cipro sacra Venere che, secondo il mito, era nata lì. (15) Antica città greca dell'Anatolia, sacra a Venere. Dodone tibi, Iupiter, sacrata est, Iunoni Samos et Mycena ditis, undae Taenaros aequorumque regis. Pallas caecropias tuetur arces, Delphos Pythius, orbis umbilisum, Creten delia cynthiosque colles, Faunus Maenalon Arcadumque silvas. Tutela Rhodos est beata Solis, Gades herculis umidumque Tibur. Cyllene celeri deo nivosa, tardo gratior aestuosa Lemnos. Hennaeae Cererem nurus frequentant, raptam Cyzicos ostreosa divam, formosam Venerem Cnidos Paphosque. LXXVI. Son vecchio? E che vuol dire? E' vero che incomincio a incanutire, ma quando si facessero pescare (fossero repellenti come Nestore o come il vecchio Priamo o come il mesto Titone* antico) in men che non ti dico me li potrei inculare. *vedi note al carme LVII. Quod sim iam senior meumque canis cum barba caput albicet capillis, deprensos ego perforare possum Tithonum Priamumque nestoremque. LXXVII. In ira insana e matta mi indurrete voi che di volta in volta la fratta un dì sì folta a posto rimettete ed impedite ai ladri di passare. Questo è far danno per voler ben fare, un non mandare i tordi ai cacciatori. Se la fratta è rifatta i predatori venir più non potranno né pagare la pena potrà più fra chiappa e chiappa il mariuolo che incappa in inciampo imprevisto mentre scappa. Ergo io che prima tanti e tanti e tanti culi di ladri lacerar solevo ora da alcune notti e dì altrettanti pago pene a mia volta e senza speme (che questo è il colmo!) mi consumo in seme: un dì gagliardo fottitore, or devo (l'avresti mai pensato?) vivere la mia vita in astinenza come un citaristello infibulato. E dunque di codesta diligenza che consumare in muffa mi farà fatene a meno; se ben far volete, non mettete a Priapo la cintura di castità. Inmanem stomachum mihi movetis qui densam facitis subinde saepem et fures prohibetis huc adire. Hoc est laedere dum iuvatis, hoc est non admittere ad aucupem volucres. Obstructa est via nec licet iacenti iactura natis expiare culpam. Ergo qui prius usque et usque et usque furum scindere podices solebam per noctes aliquot diesque cesso. Poenas do quoque quot satis superque est in semenque abeo salaxque quondam nunc vitam perago, quis hoc putaret? ut clusus citharoedus abstinentem. At vos, ne peream situ senili, quaeso, desinite esse diligentes neve inponite fibulam Priapo. LXXVIII. Che gli dei e le dee neghino il cibo ai tuoi denti di lesbica che lecca la fica dell'amica, mia vicina, per cui la mia fanciulla che a suo tempo velocemente, rapida, sicura e a passo svelto qui da me veniva ora giura che a stento lei cammina sopra la fossa della sua vagina. At di deaeque dentibus tuis escam negent, amicae cunnilinge vicinae, per quem puella fortis ante nec mendax et quae solebat inpigro celer passu ad nos venire, nunc misella landicae vix posse iurat ambulare prae fossis. LXXIX. Priapo, che tu sia molto gravato da un cazzo sempre duro e teso teso (te lo rimproverò nei suoi bei versi il celebre Poeta!) tu non devi di certo vergognartene: non c'è un poeta del Nostro più dotato. Priape, quod sis fascino gravis tento, quod exprobravit hic tibi suo versu poeta noster, erubescere hoc noli. Non est poeta fascinosior nostri. LXXX. Fedele: Tu pensi che non sia abbastanza lungo il cazzo mio? E pensi forse pure che non sia troppo grosso e che non cresca se lo maneggi? Ahimè, le mie misure ingannano le ingorde ragazzine, ma uno più grosso al mondo non ce n'é. Priapo: Guarda Tideo che, se credi a Omero, era d'indole valida allo scontro ma di corpo minuto. Fedele: Mi fu inciampo l'esser la prima volta, il primo incontro, e poi la timidezza e il mio pudore: li devo da me sempre allontanare! Priapo: Finché vivi, ti è lecito sperare. Fedele: Ma tu, Priapo, rustico custode, sta qui, i miei nervi assisti zitto zitto, tu che te ne stai sempre a cazzo dritto. At non longa bene, at non stat bene mentula crassa et quam si tractes crescere posse putes? Me miserum! Cupidas fallit mensura puellas, non habet haec aliud mentula maius eo. Utilior Tydeus, qui, siquid credis Homero, ingenio pugnax, corpore parvus erat. Sed potuit damno nobis novitasque pudorque esse; repellendus saepius iste mihi. Dum vivis sperare decet; tu, rustice custos, huc ades, et nervis, tente Priape, fave. LXXXI. (*) Una volta facevo l'impiegato dell'erario, ma adesso, pensionato, coltivo un orticello per diletto. Son Perspecto** e ti dedico il tempietto che vedi ed è per esso che ti chiedo se è lecito, santissimo: sii quello che custodirà sempre il campicello. E se verrà qualcuno per rubare... non ti dico di più: sai cosa fare! (*) attribuito a Tibullo; ** personaggio non meglio conosciuto. Vilicus aerari quondam, nunc cultor agelli haec tibi Perspectus, templa, Priape, dico. Pro quibus officiis, si fas est, cancte, paciscor, assiduus custos ruris ut esse velis. Improbus ut si quis nostrum violarit agellum hunc tu... sed taceo: scis, puto, quod sequitur. LXXXII Che è questa novità? Quale mai ira di dei mi annuncia? Nella silenziosa notte passata un giovane assai bello e candido giaceva in braccio a me ma Venere ahimè non si scompose né virilmente il cazzo mi si tese: vecchio e inerte com'è non alzò il capo. Ti piace, o dio Priapo, tu che all'ombra di un albero sdraiato sempre stai, col sacro capo inghirlandato d'uva, rubicondo a riposo e a cazzo dritto? Pure, o Trifallo*, spesso i fiori nuovi intrecciammo inesperti alle tue chiome e spesso con le grida vecchi corvi e gracchianti civette allontanammo affinché il sacro capo non ferissero. . Allora io ti abbandono, ingrato iddio, che non aiuti a drizzarsi il cazzo mio; addio, Priapo, nulla più ti debbo. Te ne starai tra i campi abbandonato e un bianco muschio ti ricoprirà e la cagna affamata o il lutulento porco strofineranno contro il legno della tua statua il loro sporco fianco. E tu, mio cazzo scellerato, tu che ora sei per me maledizione, tu pagherai una pena, come devi, giusta e severa. Hai voglia a lamentarti! Non più mai un garzone ardito e bello ti si darà e ti offrirà il culetto reggendosi alla sponda del tuo letto per far tremare le vibranti natiche con arte femminile né una bella fanciulla con la mano sua graziosa e le sue belle cosce depilate standoti sopra ti accarezzerà. Si prepara per te una vecchia amica di Romolo, che lei ricorda bene, con due denti soltanto, entro i cui inguini, sotto la pelle flaccida del ventre, nascosto se ne sta un antro oscuro che un secolare gelo fuori assedia con ragnatele e muschio inargentati. Per te costei si appresta a divorare tre o quattro volte con la sua profonda fossa il tuo capo moscio e raggrinzito. E tu te ne starai solo e malato più floscio di una serpe ma strizzato povero poveretto per riempire tre o quattro volte la profonda fossa. A nulla servirà codesta tua incurabile inerzia quando il capo immergerai nel fango gorgogliante. Che dici, lavativo? Ti rincresce dunque la tua arroganza? Questa volta t'è andata bene, impunito. Ma se torna da me quel giovanotto fascinoso, appena senti per strada risuonare il suo passo felpato, il nervo tuo ridesterai con rigida libidine e l'inquieto turgore eleverai dagli inguini né cesserai di farlo fin quando non ti avrà l'allegra Venere sfinito il molle capo ormai stremato. *dio invocato nelle processioni propiziatorie della fertilità (falloforie); qui riferito a Priapo forse per ignoranza o semplicemente per iperbole (fallo lungo tre volte) sempre dettata da ignoranza. Quid hoc novi est? Quid ira nuntiat deum? Silente nocte candidus mihi puer tepente cum iaceret abditus sinu Venus fuit quieta nec viriliter iners senile penis extulit caput. Placet, Priape, qui sub arboris coma soles sacrum revincte pampino caput ruber sedere cum rubente fascino? At, o Triphalle, saepe floribus novis tuas sine arte deligavimus comas abegimusque voce saepe, cum tibi senexve corvus impigerve graculus sacrum feriret ore corneo caput. Vale, nefande destitutor inguinum, vale, Priape: debeo tibi nihil. Iacebis inter arva pallidus situ, canisque saeva susque ligneo tibi lutosus adfricabit oblitum latus. At o sceleste penis, o meum malum, gravi piaque lege noxiam lues. Licet querare: nec tibi tener puer patebit ullus, imminente qui toro iuvante verset arte mobilem natem puella nec iocosa te levi manu fovebit adprimetve lucidum femur. Bidens amica Romuli senis memor paratur, inter atra cuius inguina latet iacente pantice abditus specus vagaque pelle tectus, annuo gelu araneosus obsidet forem situs. Tibi haec paratur ut tuum ter aut quater voret profunda fossa lubricum caput. Quid est, iners? Pigetne lentitudinis? Licebit hoc inultus auferas semel: sed ille cum redibit aureus puer, simul sonante sneseris iter pede rigente nervus excubet libidine et inquietus inguina arrigat tumor neque incitare cesset usque dum mihi Venus iocosa molle reperit latus. LXXXIII.* Primavera le rose e la matura frutta m'offre l'autunno e le dorate spighe del grano a me offre l'estate. Mi prende solo una grande paura, quando col suo rigore vien l' inverno, che non finisca al fuoco questo legno. *attribuito a Virgilio. Vere rosa, autumno pomis, aestate frequentor spicis: una mihi est horrida pestis hiems. Nam frigus metuo et vereor ne ligneus ignem hic deus ignaris praebeat agricolis. LXXXIV. Io fui, viandante, un pioppo che, sgrossato dalla mano inesperta di un villano, come Priapo fui qui fui delegato a guardare il podere che tu hai a mano sinistra avanti a te e il casolare. Io l'orticello al povero padrone proteggo dalla mano malandrina del ladro che venisse qui a rubare. A primavera vengo festeggiato con fiorite corone ed in estate con bionde spighe al sole maturate e coi pampini verdi e poi d'inverno con le olive dal freddo inargentate. Dai miei pascoli poi le mie caprette latte abbondante nelle gonfie tette recano all'insaziabile città e un grasso agnello preso alle mie stalle colma la mano mi riporta a casa di abbondante denaro e poi una pingue giovenca la cui madre ancora piange sopra l'ara di un dio versa il suo sangue. Perciò, viandante, il dio sia rispettato, tira indietro la mano, per te è un bene, perché è già pronta la pena; no, anzi, il pene. “Magari!” dici? Sbagli, sventurato. Ecco che arriva il rustico padrone dal cui braccio possente a me strappato nella sua destra il cazzo mio è un bastone. Ego haec, ego arte fabricata rustica, ego arida, o viator, ecce populus agellulum hunc, sinistra et ante quem vides, herique villulam hortulumque pauperis, tueor: malaque furis arceo manu. Mihi corolla picta vere ponitur: mihi rubens arista sole fervido: mihi virente dulcis uva pampino: mihi glauca duro oliva cocta frigore, mais capella delicata pascuis in urbem adulta lacte portat ubera. Meisque pinguis agnus ex ovilibus gravem domum remittit aere dexteram. Teneraque matre mugiente vaccula deum profundit ante templa sanguinem: proin, viator, hunc deum vereberis, manumque sursum habebis: hoc tibi expedit. Parata namque crux stat ante mentula. 'Velim pol' inquis: at pol ecce villicus venit, valente cui revulsa brachio fit ista mentula apta clava dexterae. LXXXV. Questo luogo palustre e il casolare circondato di giunchi e di cespugli, sbozzato da una quercia disseccata e da mano inesperta e improvvisata, giovani, io lo proteggo e lo coltivo perché sia d'anno in anno più fecondo. Mi rispettano infatti come un dio i padroni del povero tugurio, un padre accorto e il figlio rispettoso, che mi curano entrambi assiduamente l'uno con cura assidua acché le erbacce e i cespugli invadenti dal mio tempio stiano lontani e l'altro con la giovane mano i suoi doni offrendomi abbondanti. Poi con l'amena primavera in fiore mi adornano di floride corolle e di tenera spiga per primizia e di viole gialline ed di papaveri color del latte e di zucchine pallide e dolci mele mature e profumate ed uva rosseggiante maturata sotto l'ombra dei pampini e dei tralci. Questa mia arma (voi non lo direte!) versa il sangue del tenero capretto e della sua capretta in sacrificio. Dunque Priapo deve dimostrarsi grato per questi onori e l'orticello e la vigna proteggere ai padroni. Perciò, ragazzi, andatevene via, mettete via malvagi desideri e ruberie connesse: qui vicino c'è un Priapo assai ricco ed indolente. Da lui prendete: per di là è la via. Hunc ego, o iuvenes, locum villulamque p[alustrem, tectam vimine iunceo cariasque maniplis, quercus arida rustica formidata securi nutrior: magis et magis sit beata quotannis. Huius nam domini colunt me deumque salutant, pauperis tuguri pater filiusque adulescens, alter assidua colens diligentia, ut herbae aspera aut rubus a meo sit remota sacello, alter parva manu ferens semper munera larga. Florido mihi ponitur picta vere corolla, primitus tenera virens spica mollis arista, luteae violae mihi lacteumque papaver pallentesque cucurbitae et suave olentia mala, uva pampinea rubens educata sub umbra. Sanguine haec etiam mihi, sed tacebitis, arma barbatus linit hirculus cornipesque capella. Pro quis omnia honoribus hoc necesse Priapo est praestare et domini hortulum vineamque tueri. Quare hinc, o pueri, malas abstinete rapinas: vicinus prope dives est neglegensque Priapus; inde sumite, semita haec deinde vos feret ipsa. LXXXVI. Ti dedico, Priapo, e ti consacro questo boschetto attraversando il quale si giunge alla tua casa e alla tua selva, a Lampsaco*, laggiù, dove la riva dell'Ellesponto, d'ostriche piu ricca d'ogni altra spiaggia, soprattutto venera la tua divinità fin dalla nascita. *Vedi il carme LV. Hunc lucum tibi dedico consecrorque, Priape, qua domus tua Lampsaci est quaque silva, Priape. Nam te praecipue in suis urbibus colit ora hellespontia, caeteris ostreosior oris. LXXXVII. Salve, o Priapo, o sacro padre, salve. Concedimi l'eterna giovinezza, concedimi che a giovani e fanciulle io piaccia sempre per il mio pisello sempre vigile e attento e per i miei giochi e scherzi infiniti ma innocenti. Fa che dalla mia anima io possa tener lontane le angosciose cure e ch'io non tema la vecchiezza estrema né mi assilli il timore della morte che alle case d'Averno mi trarrà dove il crudele re trattiene i morti e donde mai nessuno tornerà. Salve, o Priapo, o sacro padre, salve. Venite dunque voi quanti ne siete e voi fanciulle che pur frequentate il sacro bosco e le acque limpidissime quante ne siete qui venite e dite al dio con voce melodiosa e chiara: “Salve, o Priapo, o sacro padre, salve.” Date agl'inguini suoi mille bacetti e il cazzo con corone profumate di fiori variopinti incoronate e a lui di nuovo in coro dite tutte: “Salve, o Priapo, o sacro padre, salve.” Egli infatti tenendone lontani gli uomini sanguinari vi permette di andare per i boschi e per gli ombrosi silenzi dove il colpevole non c'è. Egli dalle sue fonti scaccia pure i briganti che con furtivi passi attraversano le sue limpide acque intorbidandole e spesso si lavano le mani senza chiedervi il consenso con una prece, o Naiadi* divine. Dite tutte cantando: “Priapo, aiutaci! Salve, o Priapo, o sacro padre, salve.” Salve o Priapo, amico mio potente, o se vuoi padre esser chiamato o autore del mondo intero, oppur Natura proprio o Pan** l'eterno che sull'erme alture i pascoli rallegra col suo flauto, comunque tu voglia chiamarti, salve. Per la tua forza infatti è concepito ciò che concima il suolo, il cielo e il mare. Perciò, salve, Priapo, salve, o santo. Lo stesso Giove per tua volontà i fulmini crudeli scaglia e lascia infojato le sue reggie splendenti. Te venerano Venere beata e il focoso Cupido e le sorelle, le Grazie dico, e Lieo*** che di gioia è dispensiere. Senza te né Venere né le Grazie né Bacco né Cupido piacciono più. O Priapo, amico mio potente, con preghiere le fanciulle ti invocano pudiche perché sciolga loro la vesticciola troppo a lungo mantenuta allacciata e te la sposa prega affinché al marito per la vita dritto e potente il membro sempre sia. Salve, o Priapo, o sacro padre, salve. * Ninfe delle acque. ** Divinita minore che tutelava i pascoli e le greggi. *** Altro nome di Bacco. Salve, sancte pater, Priape, rerum, salve. Da mihi floridam iuventam, da mihi ut pueris et ut puellis fascino placeam bonis procaci lusibusque frequentibus iocisque dissipem curas animo nocentes nec gravem timeam nimis senectam, angar haud miser hoc pavore mortis quae ad domus trahet invidas Averni, fabulas manes ubi rex coercet, unde fata negant redire quemquam. Salve, sancte pater, Priape, salve. Convenite simul quot est in omnes, quae sacrum colitis nemus puellae, quae sacras colitis aquas puellae, convenite quot estis atque bello voci dicite blandula Priapo: “Salve, sancte pater, Priape, rerum.” Inguini oscula figite inde mille, fascinum bene olentibus coronis cingite illi iterumque dicite omnes: “Salve, sancte pater, Priape, rerum”. Nam malos arcens homines cruentos ire per silvas dat ille vobis perque opaca silentia incruenta, ille fontibus arcet et scelestos improbo pede qui sacros liquores transeunt faciuntque turbolentos qui lavantque manus nec ante multa invocant prece vos, deae puellae. “O Priape, fave, alme” dicite omnes, “Salve, sancte pater, Priape, salve”. O Priape, potens amice, salve, seu cupis genitor vocari et auctor orbis aut physis ipsa Panque, salve. Namque concipitur tuo vigore quod solum replet aethera atque pontum. Ergo salve, Priape, salve, sancte. Saeva Iuppiter ipse te volente ultro fulmina ponit atque sedes te Venus bona, fervidus Cupido, Gratiae geminae colunt sorores atque letitiae dator Lyaeus. Namque te sine nec Venus probatur, Gratiae illepidae, Cupido, Bacchus. O Priape, potens amice, salve. Te vocant prece virgines pudicae, zonulam ut soleas diu ligatam teque nupta vocat, sit ut marito nervus saepe rigens potensque semper. Salve, sancte pater, Priape, salve. Giustificazioni. I componimenti in latino di questa raccolta, contenuti tutti in un unico codice, sono poesie su temi osceni scritte presumibilmente quasi tutte nel primo secolo avanti Cristo quando il latino, adeguatosi al greco, aveva già conosciuto la splendida versificazione di Ovidio, Tibullo, Orazio e Virgilio. Gli autori di queste poesie furono, salvo forse pochi casi, poetastri improvvisati, imitatori di quei grandi, che utilizzavano questo o quel tipo di verso senza comprenderne lo stretto legame col contenuto che esso aveva nelle composizioni dei loro modelli. I temi trattati erano scherzose e oscene minacce del dio ai ladri o alle ladre, da esporre più o meno fintamente negli orti per tenerneli lontani. In alcuni di essi poi si va oltre, tematizzando altre situazioni oscene comunque legate alla concezione diffusa di questo dio greco, Priapo, di nascita recente rispetto alle divinità cosiddette olimpiche e alle divinità minori ad esse collegate, rappresentato come una figura maschile minacciosa che brandiva due armi “temibili”: una falce e un genitale di spropositate proporzioni, generalmente in statue o statuette scolpite nel legno. Le composizioni che seguono dunque sono tutte scherzose minacce di punizioni corporali a sfondo sessuale e ci hanno trasmesso documenti di una mentalità rozza, tra contadina e infantile, che si sfogava nello spazio ridotto e isolato di un muro, interno o esterno, di un tempietto o di una casa, su cui si scriveva con la carbonella, quasi mai su supporti dedicati, troppo costosi per verseggiatori di questo tipo. Poi qualche intellettuale raffinato deve averli trascritti prendendoli da qua e là o semplicemente copiandoli da una fonte precedente, messa insieme con gli stessi intenti, fino a costituire il corpus che io ho qui “tradotto”. Tradotto, poi! Li ho “riscritti” in italiano. Anche se uso il termine tradizionale di tradurre, l'idea di tradurre mi è sostanzialmente estranea. Faccio parte a mia insaputa di quella schiera di volonterosi che insegnano a “capire (il latino) per tradurlo” e non a “tradurlo per capirlo”. Perché li ho tradotti, esattamente non lo so. Furono esercizi maliziosi di uno studente di filologia greca e latina, immaturo e sperduto, che liquidava in tal modo la rimeria classica italiana per cercare di capire meglio quella elaborata dai poeti italiani del novecento, ma fu anche la prova che chi traduceva non aveva alcuna speranza di divenire un poeta; poteva diventare tutt'al più un abile versificatore il quale, non avendo nulla da dire, si poteva solo divertire a riproporre in italiano contenuti, non sempre sconci come in questo caso, ma in questo caso con la malizia di chi si avvicinava con curiosità alle faccende del sesso. Come dire? Tradurre per trovare nella propria lingua le definizioni del proprio kamasutra ancora tutto da scrivere e, con un po' di fortuna, anche da sperimentare. Gli ultimi componimenti, segnatamente i componimenti 81 e il gruppetto 83-85, per evidenti riscontri testuali sembrano essere attribuibili rispettivamente a Tibullo e a Virgilio o, più probabilmente, a loro imitatori che però rispettano in quei versi l'atteggiamento casto dei due grandi poeti. L'ultimo invece è una vera e propria preghiera a Priapo il cui tenore tuttavia è talmente ingenuo che non si potrebbe dire se è il frutto di una sciocca ironia o di un semplice sciocco tentativo di ricondurre Priapo tra gli dei per bene. Si tratta per concludere di un esercizio di mezzo secolo fa che però non voglio perdere in ricordo di tutte le sciocchezze che si fanno da giovani. Con l'avvertenza che la loro lettura è comunque sconsigliata a chiunque per il loro contenuto osceno e troppo diretto nel parlare delle cose del sesso. P.S.: Oggi però ho forse trovato un possibile sviluppo di questo lavoro. Rileggendo Petronio mi sono reso conto che Priapo è quasi il nume tutelare dell'intera vicenda narrata in quel romanzo e tutta impregnata di sesso, specialmente omoerotico. Vale forse la pena di riscrivere il Satyricon con qualche accorgimento per metterlo come tutte le cose inserite in questo sito a disposizione di chi vuole conoscerlo senza essere necessariamente un filologo o un latinista.