Adolescenti in crisi genitori in difficoltà

Transcript

Adolescenti in crisi genitori in difficoltà
1
G. PIETROPOLLI CHARMET – E. RIVA
Adolescenti in crisi genitori in difficoltà
Come capire e aiutare tuo figlio negli anni difficili
Milano, Franco Angeli, 1995
Si propone una scelta antologica di brani, attorno a tre aree tematiche ritenute particolarmente rilevanti
1. LA NUOVA FAMIGLIA “LUNGA” E “AFFETTIVA” (dalla famiglia delle regole alla famiglia degli affetti)
2. ALLA RICERCA DI UN “NUOVO” PADRE (la crisi del “padre padrone”- il padre “assente”- il padre “materno”)
3. LA TRASFORMAZIONE DELLA FIGURA MATERNA (la madre che lavora – la socializzazione precoce)
Scheda di sintesi
1. LA NUOVA FAMIGLIA “LUNGA” E “AFFETTIVA”
[estratti dal cap. 1 – Dalla famiglia delle regole alla famiglia degli affetti ]
Famiglia breve e famiglia lunga
L’adolescenza dei figli non ne trasforma solo il corpo, la mente, i rapporti con gli altri; essa trasforma anche
l’identità dei loro genitori, avviando una lunga fase di ricontrattazione dei ruoli e delle relazioni familiari, spesso né
facile né indolore.
Questa fase di cambiamento, che non riguarda solo la relazione genitore figlio ma anche il rapporto di coppia e talvolta l’identità stessa dei genitori, la loro immagine e definizione di sé, appare oggi più difficile e conflittuale che
non in passato.
Domandarsi perché ciò accada significa risalire alle origini della storia familiare, indagare sulle motivazioni che hanno indotto gli attuali genitori di adolescenti a «metter su famiglia»; significa interrogarsi a proposito della funzione affettiva che la famiglia assume per loro, dei bisogni emotivi e sociali che hanno inteso soddisfare fondandola; significa infine individuare quale particolare interpretazione dei ruoli affettivi di padre e di madre abbiano inteso dare con il proprio essere genitori. *…+
Come psicologi clinici che si occupano di adolescenti abbiamo avuto nel corso degli ultimi anni numerose occasioni di incontro con ragazzi
in difficoltà e con i loro genitori e ci è stato facile notare un radicale cambiamento della contrattualità affettiva della famiglia contemporanea rispetto a quelle che l’hanno preceduta anche solo di qualche decennio.
Si tratta di un cambiamento profondo, che riguarda gli scopi stessi della famiglia, le funzioni che le vengono attribuite.
Quando i genitori rievocano con noi le vicende affettive e relazionali della propria famiglia, nella speranza di ritrovare un significato, di attribuire un senso ai comportamenti altrimenti indecifrabili di un adolescente in crisi, è possibile cogliere fra le righe dei loro racconti
un’opinione piuttosto precisa degli scopi e delle funzioni dell’istituzione famiglia; si tratta di una rappresentazione magari non del tutto
consapevole ma capace di organizzare la vita familiare e le relazioni affettive che al suo interno si definiscono.
2
Molto spesso dal racconto di questi genitori emerge il quadro di una famiglia che considera proprio scopo fondamentale quello di fornire
amore e sicurezza ai figli, soddisfacendone ogni bisogno affettivo, economico e sociale; una famiglia insomma che rappresenta se stessa
come luogo privilegiato di accudimento e protezione, fonte per i figli di serenità e benessere: «Lo scopo della nostra vita è vederlo felice»,
ripetono affranti allo psicologo padri e madri di ragazzi che con ogni evidenza non sono affatto tali.
E lo psicologo non ha affatto ragione di dubitare che questi genitori fondando la propria famiglia si siano davvero impegnati con se stessi
e con il ruolo parentale che decidevano di assumere, ad adoperare ogni propria risorsa affettiva, economica e sociale, per garantire ai figli
un bagaglio ricco e differenziato di affetti e gratificazioni, di informazioni e competenze, utili ad affrontare in futuro un mondo estraneo e
difficile. Tanto difficile agli occhi di alcuni di loro da non considerare mai i figli sufficientemente pronti ed attrezzati, da voler prolungare
all’infinito la fase di preparazione ed equipaggiamento per una partenza dilazionabile a tempo indeterminato.
Tale interpretazione delle funzioni primarie della famiglia da parte degli attuali genitori, appare singolarmente in contrasto e addirittura
contrapposta al loro ricordo della propria famiglia d’origine, rievocata come habitat relazionale connotato da un regime educativo autoritario e normativo governato da rigide distinzioni di ruolo.
Spesso gli attuali genitori descrivono la propria famiglia d’origine come caratterizzata da relazioni genitori-figli distanzianti e formali, orientata alla responsabilizzazione precoce e ad un’altrettanto precoce emancipazione della prole.
La società post bellica che faceva da sfondo alla loro adolescenza richiedeva ai giovani una precoce indipendenza economica, ed il modello educativo della famiglia appariva sintonico alle richieste del contesto sociale.
La rigida gerarchia che caratterizzava la famiglia governata da un autorità paterna ancora indiscussa, forniva ai ragazzi e alle ragazze di allora la motivazione a volgere precocemente altrove lo sguardo, alla ricerca di un’indipendenza economica e di opinione, nonché di una libertà sessuale che la famiglia del passato non consentiva agli adolescenti: «Finché sei in casa mia fai quello che dico io!», tuonava il padre
padrone, e i figli non vedevano l’ora di avere una casa propria...
L’attuale società post industriale consente invece alla famiglia un benessere economico sufficiente a mantenere i figli al proprio interno
più a lungo, senza doverli spingere troppo in fretta ad una attività lavorativa che peraltro non è in grado di garantire.
3
La complessità dell’attuale contesto socio-economico richiede ai giovani un bagaglio assai più ricco e differenziato di informazioni e competenze per consentir loro l’accesso al mondo del lavoro.
Tali condizioni tendono a prolungare la permanenza dei figli all’interno della famiglia d’origine oltre i tempi biologici dell’adolescenza,
rendendo necessaria la formulazione di nuove regole di convivenza, che tengano conto della presenza in casa di giovani adulti spesso non
più soggetti all’autorità parentale.
Il rischio è che tale contesto tenda ad organizzare le condizioni di vita di questi giovani adulti in un’adolescenza interminabile, resa disarmonica dallo squilibrio fra uno sviluppo fisico ed intellettivo più precoce che in passato, cui non corrisponde una pari autonomia economica e psicoaffettiva.
Si tratta di giovani poco sollecitati ad abbandonare la casa dei genitori dalle carenze di opportunità lavorative ed abitative, ma anche poco
motivati a farlo per la possibilità di godere all’interno delle pareti domestiche di un’accudimento «gestionale» e insieme di una libertà di
movimento ben diversa da quella concessa ai loro predecessori.
Nei racconti dei genitori appare stridente il contrasto fra l’ansia di rendersi autonomi dal giogo dell’autoritarismo parentale che occupava
le loro fantasie e i loro propositi di adolescenti e ciò che osservano nei figli e negli amici dei figli, ragazzi per i quali la famiglia lunga costituisce un habitat psicoaffettivo così comodo ed accogliente da rendere particolarmente difficile e doloroso separarsene.
La nuova famiglia affettiva
Alla rigida suddivisione di ruoli fra i genitori che caratterizzava la famiglia del passato è venuto sostituendosi negli ultimi decenni un nuovo
equilibrio, ancora fragile e spesso conflittuale, definito da una certa sovrapposizione di ruoli fra le figure parentali; un equilibrio che si esprime in una maggior flessibilità e libertà nel rapporto fra i componenti della famiglia, così da favorire, nella relazione di coppia come nel
rapporto con i figli, maggior pariteticità e reciprocità, maggior disponibilità all’apertura e al dialogo.
La crisi del padre come depositario unico dell’autorità e del potere familiare ha portato una maggior democrazia affettiva nelle relazioni
familiari.
4
Ciò che sociologi e pedagogisti, psicoanalisti e psicologi sociali hanno definito «latitanza del ruolo paterno» si riferisce soprattutto alla crisi
dei valori di marca paterna nelle dinamiche relazionali e nelle strategie educative della nuova famiglia; si tratta di valori disinvestiti e temuti da entrambi i genitori in quanto da un lato rimandano ad un padre autoritario e lontano che gli attuali genitori sono decisi a non replicare, dall’altro rappresentano un mondo extrafamiliare insoddisfacente e talvolta persecutorio, rispetto al quale la famiglia vorrebbe
essere un rifugio, una nicchia da privilegiare e proteggere.
Ciò che sembra si stia elaborando nei pensieri e nelle emozioni dei genitori e nelle strategie affettive che vanno organizzando alfine di adempiere al compito affidato loro dalla specie, quello di far nascere e crescere le nuove generazioni, è una nuova figura paterna, capace
di accoppiarsi pariteticamente con quella femminile materna quale responsabile e garante del progetto generativo parentale.
Il nuovo padre, il cui prototipo è possibile individuare in alcune delle caratteristiche diffuse fra i genitori con cui ci capita di discutere, è un
individuo diverso da quelli che lo hanno preceduto, una figura che non disdegna di svolgere una funzione affettiva in passato di esclusivo
appannaggio materno: un padre che desidera stabilire una relazione affettiva precoce con il figlio e che per entrare in rapporto con il neonato accetta di sviluppare nuove competenze comunicative, apprende ad usare il linguaggio degli affetti.
Le sue funzioni non appaiono dunque nettamente distinguibili da quelle di una madre che ha ceduto a sua volta il dominio esclusivo della
comunicazione affettiva familiare, ottenendo in cambio competenze in aree in passato di esclusivo presidio paterno.
La moglie del nuovo padre è infatti una donna che ha spostato parte dei propri interessi e delle proprie competenze all’esterno della famiglia, pur condividendo con il partner un importante investimento affettivo sulla vita familiare e, in particolar modo, sul ruolo parentale.
Grazie al proprio ruolo extrafamiliare e ai mutamenti della condizione femminile avvenuti negli ultimi decenni, questa nuova figura materna ha assunto in parte quella funzione di ponte fra famiglia e società, di collettore di informazioni e norme della vita sociale, che era in
passato di esclusiva competenza maschile, così da essere nel rapporto con i figli sostanzialmente intercambiabile con il partner.
Certo questa recente ridefinizione dei ruoli parentali rende talvolta ambivalenti e contraddittori i nuovi genitori, che non possono utilizzare come guida e supporto nell’assunzione del proprio ruolo e nella proposta di modelli educativi una buona identificazione con i propri
genitori. Qualche volta la preoccupazione di distinguersi da loro, l’ansia di prendere le distanze dalle relazioni genitori figli interiorizzate
nell’infanzia, è tale da indurli a fare delle scelte educative «contro», finalizzate a sentirsi e mostrarsi diversi piuttosto che a individuare
modalità relazionali più consone ai valori della nuova famiglia.
5
E, tuttavia, proprio grazie alle incertezze di un ruolo non interiorizzato ma scoperto e via via sperimentato, i nuovi genitori tendono ad
adempiere al loro compito in termini nient’affatto definitori e trionfalistici, attraverso una presenza disponibile e poco intrusiva, qualche
volta più simili a figure fraterne attente e collaboranti che non alle figure paterne prescrittive ed autoritarie o alle madri iperprotettive ed
avvolgenti che temono di replicare; una posizione che rischia in qualche caso di sconfinare nell’astensionismo educativo, ma che nelle sue
versioni meglio riuscite esprime con efficacia la contrattualità relazionale della nuova famiglia affettiva.
Essa è caratterizzata dunque, all’interno, da una certa sovrapposizione fra ruoli parentali e da relazioni tendenzialmente paritetiche, fondate sull’ascolto e la condivisione reciproca, sul rispetto dei singoli individui, grandi o piccoli, maschi o femmine, che siano; il suo rapporto
con l’esterno risulta invece marcato da preoccupazioni e timori, dalla tensione a proteggere l’appartenenza e il legame all’interno del nucleo contro ogni tendenza centrifuga.
La sfiducia che caratterizza il rapporto con il sociale di questa famiglia, il sentimento di non appartenenza a contesti sociali allargati, la sostanziale estraneità di concetti quali «vicinato» o «quartiere», testimoniano una cultura affettiva in cui i ponti fra famiglia e società sembrano essersi da tempo bloccati o interrotti.
Il quadro è dunque quello di una cultura affettiva della famiglia contemporanea tendenzialmente democratica al suo interno e invece barricata e difesa nei confronti di esterno rappresentato come infido e pericoloso, inquinato da veleni che minacciano la salute e il benessere
dei figli non appena varchino le soglie del protettivo universo familiare.
Inutile elencare quali fantasmi le menti dei genitori evochino come minacce incombenti sul futuro felice che si sforzano di costruire per i
propri figli; sono fantasmi che riempiono le pagine dei giornali, affollano le immagini del video.
Le angosce dei genitori vi sono rappresentate con tale evidente concretezza di immagini, con tale realismo descrittivo da rendere incerto
il confine fra una sana prudenza ed un’inesplicabile panico nei confronti del futuro.
E evidente come quest’aspetto della cultura affettiva della nuova famiglia possa favorire una rappresentazione dell’adolescenza dei figli,
sinonimo di inevitabile apertura della nicchia all’esterno, quale situazione a rischio, capace di incrinare per sempre tranquillità benessere
familiare.
6
2. ALLA RICERCA DI UN “NUOVO” PADRE
[estratti dal cap. 3 – I padri dei ragazzi tristi ]
La crisi del padre padrone
Quali soluzioni affettive ha individuato la nuova famiglia, espressione di una mutata realtà economico sociale ma anche di una diversa
rappresentazione di sé e del proprio ruolo da parte della coppia che l’ha fondata, per far fronte alle sue mutate condizioni?
Quali nuove interpretazioni di un immutabile copione affettivo i nuovi padri e le nuove madri hanno saputo trovare nel repertorio
dell’intelligenza della specie a servizio della sopravvivenza, per far fronte a tali cambiamenti?
E forse dal confronto fra famiglie di ieri e famiglie di oggi, quel confronto che spontaneamente affiora alla mente degli stessi genitori
quando esplorano con noi le vicende di crescita dei propri figli e riscontrano le molteplici differenze fra la propria e la loro adolescenza,
che possiamo ricavare risposte a questi interrogativi.
La famiglia di ieri si fondava su una rigida suddivisione di ruolo fra i genitori, consolidata di generazione in generazione, che affidava al
padre il compito di presidiare e bonificare le relazioni all’esterno della famiglia, alla madre quelle al suo interno.
Al padre era tradizionalmente affidato un ruolo etico normativo, a lui spettava trasmettere alle generazioni future norme e costumi sociali, mentre la madre svolgeva una funzione essenzialmente affettiva, quella di modulare gli scambi comunicativi e relazionali nell’ambito
della famiglia.
La figura paterna è stata la prima a denunciare la crisi di una declinazione del proprio ruolo non più adeguata alle esigenze della cultura
contemporanea.
Famiglia e società sono state entrambi investite dalla crisi del ruolo paterno tradizionale, quello che Freud aveva descritto come «padre
edipico», autoritario e normativo nel rigido adempimento del compito che la cultura del suo tempo gli affidava, quello di garantire
l’adeguamento delle nuove generazioni alle esigenze della società e della cultura, a prezzo della castrazione dei bisogni e dei desideri infantili, naturali e sostanzialmente «selvaggi».
7
A partire dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla rivoluzione culturale degli anni sessanta, si è andata allargando la crisi di
quest’interpretazione del ruolo paterno, che aveva avuto la sua più completa espressione nella famiglia borghese dell’ottocento e del
primo novecento.
Se diversi fenomeni di ordine culturale e sociale ne hanno determinato la decadenza, dalla situazione atomica alla massificazione del lavoro, è stata però proprio la generazione degli attuali genitori a decretarne la morte, ripudiando nell’assunzione del proprio ruolo parentale
l’identificazione con i padri autoritari e anaffettivi della propria infanzia.
A questa stessa generazione spettava dunque il non facile compito di scoprire e sperimentare modi nuovi e diversi di essere padri.
La famiglia contemporanea ha individuato una prima soluzione al deterioramento dei valori di marca paterna che andava manifestandosi
nell’intera società e con particolare virulenza e conflittualità nell’universo scolastico e nei nuovi orientamenti didattici ed educativi che vi
si sperimentavano, nell’affidare provvisoriamente la tutela della famiglia e la gestione del processo educativo e di socializzazione dei figli
ad una prevalente ispirazione materna.
Ne è nata una nuova famiglia, il cui compito primario non era più quello di fornire alle nuove generazioni un orientamento etico che ne
prescrivesse l’adeguamento alle esigenze della cultura e della società, bensì quello di fornir loro protezione e sicurezza soddisfacendone i
bisogni affettivi, economici e sociali, e costituendosi come luogo privilegiato di gratificazione affettiva nei loro confronti.
Tendeva a sfumare sullo sfondo di questa nuova cultura affettiva la necessità di finalizzare la funzione educativa alla promozione della
crescita, di favorire la progressiva emancipazione dei figli dalla matrice familiare.
Da questo punto di vista il confronto fra la famiglia attuale e quella del recente passato sembra configurare due diverse tipologie, la prima
caratterizzata da un orientamento relazionale ed educativo ispirato a un modello etico normativo, orientato alla responsabilizzazione e alla separazione, ad un atteggiamento di «svezzamento precoce» nei confronti della prole; la seconda, quella della famiglia contemporanea, tendente invece a mantenere una situazione di protezione, di appartenenza, e quindi di controllo sui propri figli, il più a lungo possibile.
[…+ I ragazzi e le ragazze con i quali abbiamo discusso del rapporto col padre ci hanno parlato prevalentemente di due rappresentazioni
possibili della figura paterna.
8
Il padre assente
La prima è molto diffusa, anche se, negli ultimi anni, ne abbiamo sentito parlare un po’ meno; si tratta del padre «assente», esattamente
come è descritto dalle ricerche effettuate dai sociologi della famiglia. In questi casi l’adolescente non parla del padre, e, se è invitato a farlo, non ha molto da dire; non c’è mai, compare saltuariamente, non è interessato; lavora moltissimo, ma non sulla scena della famiglia; è
altrove, col corpo e con la mente; ciononostante la sua presenza simbolica si fa sentire; il figlio non lo odia, anzi lo ama per statuto, lo incontra volentieri, è una sorta di zio col quale si viaggia, si fa a volte dello sport, che chiede informazioni superficiali sugli studi e sul rapporto con la mamma.
I figli non odiano e, quindi non temono questa interpretazione della paternità; non le imputano assenze e diserzioni; trovano naturale che
sia la madre il loro referente educativo e normativo; il padre fa parte della scena, ma non è un protagonista; è una comparsa simpatica, a
volte trasgressiva, a volte semplicemente noiosa e poco attendibile; non è un avversario da battere, almeno durante l’adolescenza, semmai più tardi, all’inizio del lavoro, o in occasione delle grandi scelte universitarie. Eppure questo tipo di padre «pallido», esangue, disertore, sempre in viaggio, che esce al mattino e torna quando i figli sono a letto o con gli amici, gioca lo stesso una parte essenziale, ma solo
nel corso delle grandi crisi, allorché l’«assenza» del padre assurge a concausa dei gravi disturbi della crescita; ed allora bisogna darsi da fare per farlo ritornare sulla scena della famiglia e della crescita dei figli perché la sua assenza è nociva e la sua eventuale, ma difficile presenza, potrebbe essere davvero molto utile per salvare il salvabile, o, quantomeno, per tentarci, prima di essere licenziato per assenza ingiustificata dal proprio posto di lavoro.
Il padre assente comunque, almeno nelle nostre osservazioni cliniche, non suscita timore, odio, risentimento; se questo succede dipende
dalla condivisione della delusione della madre da parte del figlio o figlia; allora la sua protesta può anche essere molto dura ed i rimproveri al padre per aver disertato il campo sono più riferiti al ruolo di marito che a quello di padre; molti adolescenti mi sono sembrati arrabbiati col padre perché aveva tradito la moglie, non loro che non erano abituati ad aspettarsi granché. Semmai l’assenza del padre gioca un
ruolo importante indirettamente, come è logico; più per quello che non fa, che per quello che ha fatto o mal fatto; e, su questo punto ci
sembra esista accordo pieno da parte degli psicologi; l’assenza del padre non è priva di conseguenze; anzi; può essere la causa principale
dei molti guai che affliggono gli adolescenti attuali.
Qual è allora il sentimento prevalente da parte dei figli adolescenti nei confronti di questa recente interpretazione del ruolo paterno? Si
tratta di un sentimento insolito; poter dire che il padre non conta nulla sulla scena della famiglia significa che l’adolescente non avverte il
9
padre come proprio referente; significa che le piccole e grandi decisioni le prende con la madre, contro la madre, o che le prende la madre al suo posto; in altri termini significa che l’adolescente sente che la madre ha preso anche il posto del padre, che al padre è impedito
o non interessa esercitare il proprio ruolo; oppure non ne è capace. A fronte di questa constatazione l’adolescente può scegliere le soluzioni più disparate, in rapporto ad una miriade di fattori che è ovviamente impossibile elencare. Quella nella quale mi sono imbattuto più
frequentemente nel mio lavoro di consultazione psicologica con adolescenti in crisi consiste nel tentativo di richiamare sulla scena il padre latitante e verificare se è possibile indurlo a fare il proprio mestiere di padre.
E inutile dire che si tratta di un’operazione estremamente complessa, quasi disperata; questo è il motivo per cui l’adolescente è a costretto ad usare le maniere forti; se desidera il ritorno del padre è necessario convocarlo con un richiamo che possa servire allo scopo; generalmente si tratta di comportamenti discretamente trasgressivi; quel tanto che basta per costringere la madre a gettare la spugna ed invocare ella stessa il ritorno del padre sulla scena educativa.
Convocato dal figlio attraverso messaggi perentori (insuccesso scolastico, odore di droga, frequentazioni a rischio, incidenti sociali di vario
tipo, forti tensioni domestiche eccetera), ricattato dalla moglie che minaccia di mettersi in cassa integrazione materna se non viene immediatamente sostenuta, generalmente il padre rientra nel ruolo di padre in modo disastroso. Non avendo debuttato nel proprio ruolo a
tempo debito, non riesce ovviamente a recitare la propria parte, quella che figlio e madre si aspettano, o simulano di attendersi, e si rifugia nell’imitazione grossolana e non convincente del ruolo del padre autoritario; ci vuoi altro, con i tempi che corrono; non è più tempo di
padri autoritari; o, quantomeno, non ci si può improvvisare in una parte tanto ardita, che richiede tempre fortissime ed una non comune
tolleranza della solitudine e dell’odio dei figli e della moglie.
Il padre materno
Nel corso delle consultazioni effettuate negli ultimi anni con adolescenti e genitori in crisi, con sempre maggiore frequenza ci siamo imbattuti in figure di padre completamente diverse da quella del padre «assente». Invece del padre lontanissimo dall’esercizio di un ruolo
educativo e normativo, che abdica e delega alla madre ogni decisione e la regia complessiva della funzione genitoriale, abbiamo dovuto
imparare a capire il linguaggio di un padre altamente presente nella vita affettiva dei figli adolescenti; per i motivi che ci apprestiamo ad
illustrare ci è sembrato pertinente definire questo tipo di interpretazione del ruolo paterno come caratteristica del «padre maternalizza-
10
to». Abbiamo poi scoperto, leggendo i contributi scientifici di psicologi di altri paesi, che questa definizione è ampiamente utilizzata e si
riferisce grosso modo alla stessa area di fenomeni per i quali ci era sembrata la più pertinente.
Vediamo innanzitutto come questo tipo di presenza paterna viene registrata nella memoria affettiva profonda dei figli adolescenti; cioè
come la descrivono, quali sentimenti e conflitti suscita in loro. Essi ne parlano come di un personaggio vicinissimo, spesso addirittura usano il «noi» per esprimere l’intensità del rapporto e la sostanziale indistinguibilità delle idee e dei progetti. Dicono, ad esempio, «noi pensiamo che la cosa migliore da fare il prossimo anno sia cambiare scuola»; alla domanda tesa a capire cosa intendano usando il pronome
«noi», rispondono sorpresi «io e mio padre»; quindi una presenza molto interna, entrata a far parte della mente dell’adolescente, una figura dalla quale egli sembra non pensare affatto di doversi distinguere, che non avverte come intrusiva e minacciosa, intenzionata ad ottenere ciò che vuole; al contrario, come si trattasse di un alter ego, un amplificatore delle proprie idee, un interprete autorizzato. A volte
è successo che fossero gli stessi adolescenti a chiederci di incontrarci col padre perché ritenevano che egli avrebbe potuto meglio di loro
illustrarci ciò di cui stavamo discutendo, quasi il padre fosse più competente di loro stessi sul significato dei loro pensieri ed emozioni; in
tutti i casi quasi il padre fosse il depositario autorizzato e legittimo del significato complessivo di ciò che stava succedendo nella loro vita.
Non si tratta di devozione filiale, di rispetto dell’autorità paterna, di paura di non essere in grado di riferire compiutamente quali siano le
ingiunzioni del padre nei propri confronti; nulla di tutto questo; quasi il contrario; come se il padre fosse lo specchio fedele delle proprie
intenzioni, l’esperto dei problemi e dei conflitti, il protettore nei confronti della madre, dei professori, della scuola, a volte anche del
gruppo degli amici; una specie di donatore di senso al quale è stata, da sempre, delegata la funzione di dare un nome alle cose complicate, quindi ai sentimenti ed ai conflitti.
Ciò che sorprende, soprattutto lo psicologo, nell’affrontare questo nuovo tipo di relazione padre figlio, così come è registrata nella mente
dell’adolescente, è l’assoluta mancanza di conflitto; si potrebbe quasi sostenere l’indifferenziazione fra sé e il padre. Semmai, ciò che si
riesce ad intuire è la presenza della percezione di una sorta di fragilità, di debolezza, di aspettativa devota da parte del padre, che non
può essere deluso; quasi si trattasse di un padre che ama troppo, che ha sempre amato troppo e bene, al servizio dei bisogni e desideri
del figlio, e che ora, inconsapevolmente, si sente che non può essere abbandonato, o deluso, e meno che meno, licenziato.
Approfondendo l’analisi del rapporto col padre, al di là delle convinte dichiarazioni di affetto e di gratitudine, emerge come problema da
affrontare e risolvere da parte del figlio adolescente, il presentimento che l’amore del padre ponga il problema di quale possa essere la
nuova gestione dei propri rapporti, ora che il processo adolescenziale spinge a cercare al di fuori della famiglia nuovi legami e funzioni già
11
in parte assolte proprio dal padre. In sostanza l’aspetto problematico di questo tipo di relazione padre-figlio, ma anche figlia, anzi soprattutto, sembra essere l’intuizione da parte dell’adolescente che l’amore del padre è fragile, permaloso, bisognoso di conferme; che il rischio di cambiare il contratto affettivo sia connesso alla prospettiva, data come certa dalla mente profonda del figlio, che la prospettiva di
una possibile separazione possa comportare una grave reazione depressiva da parte del padre; non quindi ritorsioni o sanzioni, ma tristezza ed invecchiamento repentino. Si tratta di una prospettiva inaccettabile da parte di alcuni adolescenti che non riescono a risolvere il
rebus di come si possa fare soffrire la persona che più si ama, ma il cui amore è troppo fragile per riuscire a godere dell’autonomia e libertà affettiva dell’altro; e i cambiamenti non possono che avvenire nella direzione di una sorta di divorzio affettivo, che, in fantasia, relega il padre nella vecchiaia e solitudine e spedisce il figlio nella zona della potenza e del godimento.
Non possiamo sostenere che la crisi del figlio adolescente possa essere causata da questo tipo di relazione padre-figlio; certamente però,
il più delle volte, è stato necessario favorire una approfondita riflessione da parte di ambedue, sia il padre che il figlio, sulla natura del loro
rapporto e soprattutto sul suo incertissimo futuro. In alcuni casi non è stato difficile assistere alla stipula di un nuovo contratto affettivo
che prevedesse quantomeno che il figlio smettesse di considerare il padre come il proprio amico del cuore e che il padre abbandonasse il
proprio travestimento adolescenziale e consentisse una maggiore differenziazione fra sé e il figlio; tutto ciò senza grandi rivolte ed eccessive depressioni. In altri casi però abbiamo dovuto verificare la fondatezza dell’intuizione del figlio che il padre fosse troppo fragile per poter accettare qualsiasi tipo di cambiamento che comportasse la perdita delle proprie funzioni di maggiore e più qualificato interprete dei
bisogni profondi del figlio.
12
3. LA TRASFORMAZIONE DELLA FIGURA MATERNA
[estratti dal cap. 2 – Le madri dei ragazzi tristi ]
La madre che lavora
Si è molto discusso negli ultimi anni di come l’ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro abbia determinato importanti cambiamenti nel loro modo di gestire sia la femminilità che la maternità, cioè la relazione col marito e quella con i figli. Si tratta di una questione molto complessa, anche perché i cambiamenti dei costumi e dei valori sono incessanti e ciò rende arduo fare il punto della situazione o pretendere di formulare delle regole di valore generale. Nel nostro lavoro di consulenza psicologica a genitori che devono fronteggiare le crisi adolescenziali dei loro figli incontriamo prevalentemente madri che lavorano ed hanno sempre lavorato, anche quando i
figli erano molto piccoli; a Milano è scontato che la maggior parte delle giovani madri lavori.
Abbiamo ascoltato tante storie di vita di madri che cercavano di ricordare come si erano svolti i fatti fin dall’inizio della loro maternità nel
tentativo di capire quando e perché la relazione col figlio aveva preso una brutta piega; le storie sono tutte diverse fra loro, alcune sono
uniche ed irripetibili; esiste però la possibilità di individuare dei valori di riferimento che sono sovraindividuali e che fanno da cornice generale all’interno della quale poi ogni donna interpreta la propria maternità in modo assolutamente soggettivo. E di uno di questi valori di
riferimento che riteniamo utile parlare perché ci è sembrato importante per le ricadute che può avere nel momento in cui i figli entrano
nell’adolescenza.
Si tratta di questo: nella ricostruzione commovente di come le madri avevano cercato di conciliare le esigenze del ruolo materno con
quelle del loro ruolo sociale lavorativo, ci è parso che spesso le madri si fossero spontaneamente orientate a guardare al bambino in modo diverso dal ruolo materno tradizionale, quello della madre casalinga. In alcuni casi in modo molto evidente le madri raccontano che
era loro sembrato che il loro bambino avesse voglia, e quindi diritto, di novità, di cambiamento, di gioco, di vita sociale; che indicasse con
passione la porta di casa, fornendo alla madre indicazioni sicure del suo desiderio di uscire, conoscere, vedere; di non restare
sempre in casa ad annoiarsi. È come se le madri che lavorano fossero orientate a vedere nel figlio, anche molto piccolo, il desiderio e le
capacità di socializzare con gli altri bambini, di giocare, di stare insieme e non da soli, o con i nonni. Orientate quindi a riconoscere il desi-
13
derio di crescita, di conoscenza, di cose nuove, più che a valorizzare ed enfatizzare il desiderio di restare piccoli, sempre in braccio alla
mamma, sempre in casa, prigionieri di abitudini e sicurezze limitate.
Questa capacità o attitudine a valorizzare la crescita e l’autonomia del bambino ci è sembrato un dato molto interessante e, in parte,
nuovo; il ruolo materno tradizionale ha infatti come valore di riferimento principale quello del bisogno del bambino di restare sempre vicino alla mamma, alla casa, alla sicurezza delle abitudini di tutti i giorni. Invece le madri che lavorano appaiono altamente capaci di individuare nel bambino oltre al desiderio di dipendenza e di sicurezza materna anche il desiderio di crescita, di autonomia, in una parola, di
socializzazione precoce.
La madre che lavora perciò tende a farsi garante del diritto del bambino ad essere stimolato, soddisfatto nel suo desiderio di novità, di
conoscenza e, soprattutto di amicizia con i coetanei, perché ritiene che così facendo il bambino sia più contento e quindi cresca più capace ed intelligente. In ciò, la nuova madre, ben diversa come sistema di valori di riferimento dalla madre a tempo pieno e casalinga, è allineata con le recenti scoperte della psicologia dell’età evolutiva che dimostrano come il bambino sia fin dall’inizio dello sviluppo un piccolo
animale sociale dotato di un grande desiderio di scambio e di comunicazione con gli altri esseri viventi; oltre che con i genitori, anche con
i coetanei.
Il bambino socializza
Ci siamo chiesti quale relazione possa esistere fra la nuova condizione sociale della giovane madre, desiderosa di riuscire a conciliare il
proprio lavoro con la relazione con il figlio, e questa maggiore attitudine a valorizzare il desiderio di crescita dei figli piuttosto che il loro,
altrettanto innegabile, bisogno di dipendenza. L’ipotesi sulla quale abbiamo lavorato è questa: la madre che lavora sa, ben prima di avviare lo stato di gravidanza, che dovrà organizzare delle separazioni, precoci e prolungate, dal proprio bambino, appunto perché dovrà recarsi a lavorare anche quando il bambino è ancora molto piccolo. La consapevolezza che dovranno imparare tutti due, molto presto, a stare
separati per molte ore al giorno, spinge la madre a guardare il bambino con occhi diversi da quelli con i quali lo osserva e lo interpreta la
madre che può starci assieme tutto il giorno per molti anni. La madre che lavora ha bisogno di rassicurarsi che il bambino possa crescere
sano e felice anche se lei non è al suo fianco per alcune ore al giorno; ciò la induce a valorizzare il desiderio del bambino di stare anche
con altri esseri viventi oltre che con lei; nella nostra esperienza la giovane madre è orientata a pensare che il bambino si trovi molto bene
14
con altri bambini; che se ha dei buoni compagni di gioco il bambino stia molto bene e si diverta, e non sia affatto triste e desolato perché
non c’è la mamma vicina, anche se ogni tanto ci pensa e può provare un po’ di nostalgia.
Guardando il proprio bambino con quest’ottica, orientata a scorgere il desiderio e le capacità di crescita autonoma, la madre riesce a sentire e pensare che andare a lavorare non è una colpa nei confronti del figlio; consegnarlo anche molto piccolo al nido e poi alla scuola materna non significa imporgli un sacrificio e farlo soffrire rubandogli la presenza della madre; significa regalargli una grande occasione di
crescita, di socializzazione precoce, di gioco collettivo, di apprendimento di nuove nozioni e lo sviluppo di nuove capacità. Se la madre che
lavora non riesce a fare questa operazione mentale le diviene molto difficile integrare bene lo sviluppo del proprio ruolo sociale e le proprie funzioni materne, destinate a restare in perenne conflitto fra loro.
Nel nostro lavoro di consultazione abbiamo cercato di studiare quali possano essere le conseguenze di questo atteggiamento della madre
che lavora, teso a valorizzare l’autonomia e le capacità sociali del bambino, nello sviluppo successivo, soprattutto nel momento
dell’adolescenza; abbiamo l’impressione che certi fenomeni possano essere collegati con questo cambiamento di atteggiamento della
madre nei confronti del figlio, rispetto agli atteggiamenti iperprotettivi e infantilizzanti delle madri casalinghe tradizionali.
Naturalmente come psicologi cinici non siamo in grado di valutare fenomeni di portata tanto rilevante a livello di grandi numeri; possiamo
riferire solo ciò che riusciamo a intravvedere nella nostra area di osservazione che è quella della crisi, della sofferenza, del rischio. Quando
un adolescente sta male siamo costretti a chiederci quale sia la qualità della relazione che ha e ha avuto con la madre, sia quella reale,
che quella immagine di madre che ogni adolescente conserva nella propria memoria profonda ea che dall’interno della mente parla al figlio, lo sostiene, esprimendo appoggio, incitando a comportarsi in un determinato modo.
Spinta alla crescita
Studiando il tipo di immagine che alcuni adolescenti in crisi si erano formati della madre interna, mentale, affettiva, ci siamo imbattuti con
una certa frequenza in una rappresentazione della madre che porta alle estreme conseguenze i valori di cui parlavamo prima; una madre
interna che sospinge il figlio al Successo in tutti campi, da quello scolastico a quello sportivo, senza trascurare l’ambito della vita sentimentale e sessuale; una madre interna che incita all’autonomia, all’autosufficienza, allo sviluppo delle capacità, alla socializzazione, alla
15
precoce formazione della coppia; una madre interna che produce sentimenti di colpa e vergogna se non si riesce ad avere molti amici,
molte telefonate di invito, che non consente di sperimentare solitudine, nostalgia, passività.
Per noi psicologi questa è una novità; siamo stati per molti anni abituati a sentir parlare i nostri pazienti di madri interne ostili
all’emancipazione soffocanti, possessive, gelose dell’autonomia e degli amici dei figli, per non parlare dei loro fidanzati o fidanzate; abbiamo sempre sentito parlare dei rischi di portarsi dentro questo tipo di madre e delle inenarrabili sofferenze e conflitti nevrotici e sessuali che tutto ciò comportava. Perciò per noi psicologi è una incredibile novità sentire parlare di madri interne che creano conflitti e sofferenza perché esigono più autonomia, più indipendenza, amici e, perché no, una vita sessuale più spensierata e meno bigotta.
Nonostante la sorpresa siamo però certi che, in alcuni casi, ad alimentare situazioni di crisi adolescenziali contribuisca non poco il vissuto
dell’adolescente di non riuscire a soddisfare le aspettative di successo sociale coltivate dalla madre, sia reale che interna.
Abbiamo perciò avanzato l’ipotesi che, in alcuni casi, la necessità della madre di pensare che il figlio possa crescere felice anche se lei non
può essere sempre presente la sospinga ad incalzare il figlio nel sapersi creare un gruppo di amici che possano sostenerlo e nutrirlo affettivamente, non in modo alternativo a quello materno, bensì complementare; solo che perché il figlio possa avere accesso sicuro a questo
nutrimento affettivo bisogna che sia simpatico, di successo, bravo negli sport e a scuola; l’importante per la madre è poter pensare che la
separazione dal figlio non comporti tristezza e solitudine; anzi, benessere, compagnia, amore, attività e soddisfazioni; l’idea che, mentre si
lavora, il figlio non riesca a trovare nulla di meglio da fare che svuotare il frigorifero e appiccicarsi al televisore è insopportabile per la madre che lavora; da ciò dipende il suo sforzo di stimolarlo ad una precoce crescita nell’autogestione e nella socializzazione. In alcuni casi
questa rincorsa verso l’autonomia non ha successo; nel momento dello sviluppo adolescenziale può succedere che il figlio punti i piedi e
scioperi nei confronti di quelle che ora ritiene esagerate e poco attendibili aspettative materne.
Se molti adolescenti delle ultime generazioni appaiono più maturi e precoci di quelli delle generazioni precedenti è verosimile che ciò
possa dipendere anche dal diverso atteggiamento della madre nei loro confronti; è ovvio che dovrebbe avere conseguenze diverse essere
l’ostaggio infantile della madre a tempo pieno dal sentirsi ampiamente sponsorizzati nell’esplorare autonomamente il mondo alla ricerca
della propria più piena realizzazione.
Alcuni adolescenti in crisi che ci hanno consultato negli ultimi anni hanno dato voce alla nuova situazione che può venirsi a creare proprio
durante il processo adolescenziale nel rapporto con la madre; mentre in passato, ai tempi della madre possessiva e infantilizzante, ses-
16
suofobica e gelosa, il problema dell’adolescente consisteva nel liberarsi dalla tutela soffocante della madre, ora può succedere che
all’adolescente possa venire in mente di poterla finalmente conquistare la madre, non con una ridda di successi e di coppe sportive, ma
col bisogno, la malattia e la sofferenza, costringendola a stare ferma, a dimettersi dal ruolo sociale per dedicare più tempo ed energie al
ruolo materno, proprio quello tradizionale. Strana conclusione di un lungo lavoro di madre; aver fatto di tutto per regalare la liberà di
movimento ai figli, e non ipnotizzarli con fraudolenti promesse materne, e ritrovarseli appiccicati come bebè proprio nel momenti in cui ci
si aspetterebbe che prendessero il volo alla grande.
Giovanni lega la madre
Si presenta una collega psicologa per discutere alcune questioni legate ad un recente ricerca sugli usi e costumi giovanili. E una donna
molto ironica e preparata, abilissima nell’esercizio della sua professione. Alla fine dell’incontro mi chiede qualche consiglio riguardante il
figlio preadolescente di dodici anni; rispondo in modo sbadato e superficiale, più sulla scia della conversazione brillante fino a quel momento realizzata che non cercando di farmi davvero carico delle questioni forse dolorose ed importanti che quella domanda, poteva contenere. Nonostante però la superficialità sbadata della mia risposta la collega ha una reazione di intensità imprevedibile; getta l’habitus
professionale alle ortiche e con voce rotta, quasi piangendo dice che anche lei ha avuto più volte l’impressione che potesse trattarsi di
una faccenda quale quella che avevo ventilato io.
Personalmente non avevo affatto l’intenzione di suscitare una reazione così appassionata, né di avanzare alcuna ipotesi; in realtà avrei
dovuto tenere conto che di un figlio adolescente in crisi se ne parla spesso così, come la brillante ed ironica collega aveva fatto, fra le righe, alludendo, cercando di capire, ma non troppo, timorosissimi, prudenti, disponibili a sentire qualcosa, ma poco, o .almeno a rate, non
tutto in una volta. Anche la collega si era evidentemente attenuta a questo modello: aveva anche con se stessa simulato di dover venire a
parlare con il cosiddetto esperto di problemi adolescenziali per questioni esclusivamente legate alla propria professione, ed invece era solo la copertura del più urgente desiderio di discutere una rovente questione concernente le preoccupazioni che le destava il comportamento del figlio dodicenne.
Dopo essermi reso conto dell’intensità dell’angoscia della signora, uscita dal ruolo professionale di psicologa ed entrata drammaticamente in quello di madre di figlio preadolescente in crisi, fissai un appuntamento per discutere la questione, meglio, se possibile anche in pre-
17
senza del figlio. La signora venne invece da sola assicurandomi che il figlio non era ancora pronto ad affrontare il dialogo con lo psicologo.
E mi raccontò una vicenda apparentemente divertente e banale, che invece per la madre del dodicenne aveva il significato di una storia di
vita dolorosa e drammatica; una vicenda altamente traumatica in quanto dotata del potere di scardinare il senso fino a quel punto dato al
tipo di relazione intrattenuto col figlio, che invece si sbriciolava sotto l’urto delle recenti acquisizioni, apparentemente banali, in realtà
sconvolgenti proprio per la loro carica di senso.
La signora mi raccontò i seguenti avvenimenti:
il figlio durante l’infanzia era solito giocare con le corde; aveva raggiunto una abilità considerevole nell’aggiustare nodi, collegare fra loro
oggetti omogenei funzionalmente, creando cordate, sezionando spazi, delimitando col cordame aree della casa alle quali finiva poi per attribuire funzioni o significati simbolici diversificati; ogni tanto il gioco con le corde finiva per coinvolgere anche i personaggi della vita domestica che cadevano in qualche agguato nel lazzo teso ad ingabbiare nel cordame indissolubile del bambino che gioca e si diverte ogni
tanto aprendo la trama complessa del suo gioco enigmatico verso altre persone, temporaneamente inglobate dall’intrico impenetrabile
dello sciame di simboli che la sua mente secerne.
Negli ultimi mesi, il gioco da anni dimesso e caduto parzialmente in disuso, è invece tornato ampiamente di moda, ma le sua regole hanno
subito una trasformazione considerevole e agli occhi preoccupati della madre anche un nuovo o forse antichissimo, ma meno esplicito significato affettivo, simbolico e relazionale. Ore le corde non collegano più fra loro oggetti inanimati, ma persone umane se-moventi e vitalissime. Per aiutarmi a capire di cosa si tratti la signora mi racconta un episodio recente, che ho l’impressione abbia avuto per la signora
l’efficacia rivelatrice che altri episodi evidentemente non avevano avuto.
Lei entra in casa e, come un tempo, cade nell’agguato teso col lazzo nel saloncino d’ingresso dall’ex bambino, ora dodicenne preadolescente; compiaciuta per il ritorno dello scherzo infantile, si lascia legare sempre più stretta, vittima volontaria e recalcitrante dello
scherzo; s’accorge però di una foga particolare del figlio, di una dose non frequente di violenza nello stringere i nodi, nel fermare i movimenti possibili, nel vincolare gli arti rendendo loro impossibile ogni movimento volontario; i nodi si stringono ed il sequestro della persona e della sua mobilità volontaria diviene totale; la madre lascia fare, ma s’accorge che il figlio è andato al di là della soglia concordata
in termini di tempo di durata del sequestro e di fermezza e dolorosità del nodo; si spaventa, ma al contempo deve registrare un compiacimento evidente da parte sua; nel mentre infatti ufficialmente dichiara il proprio disappunto, lascia fare quasi volesse arrendersi e cedere e non solo colludere, ma quasi incitare il figlio a fare di peggio, ad impedire ancor più il movimento, la libertà, l’autonomia.
18
Ma il gioco non si conclude come al solito; ha una svolta imprevista; il figlio, dopo aver vincolata ben bene la madre ed averla stretta nelle
corde ed essersi assicurato che i nodi tenessero e che la prigioniera non potesse in alcun modo liberarsi, invece di cominciare a ritroso lo
scioglimento delle corde e la liberazione dell’ostaggio, la lascia legata nella stanza ed esce di casa, rendendo la madre sbigottita per
l’inatteso colpo di scena che sconvolge la trama tradizionale del rituale e spaventata per l’imprevedibile sviluppo della nuova trama assolutamente mai concordata.
Trascorrono due ore; la prigioniera ora è furibonda e minacciosissima, ma anche costernata per la sempre più evidente propria compiacenza nei confronti della nuova e straordinaria situazione; ora lei è costretta ad attendere il figlio che gira libero per la città, e non conosce l’orario del suo rientro, e non sa quando arriverà colui che potrà, se lo vorrà, sciogliere i nodi da lui stesso annodati. Non sa nemmeno con quale umore tornerà il suo sequestratore, se avrà voglia di ascoltare la sua richiesta di essere liberata o se dovrà attendere ancora; la madre è una donna intelligente, adusa a cogliere il significato simbolico e relazionale dei giochi e delle azioni degli esseri viventi, e
per ciò capisce di essere stata collocata nel ruolo di un’altra persona a lei ben nota. Capisce di essere stata collocata nelle condizioni nelle
quali lei collocava il figlio, lasciandolo a casa da solo, legato dalla dipendenza e dall’imprevedibilità e casualità dei suoi rientri; ora capisce
l’intensità del desiderio del figlio di potere esercitare un maggiore controllo sulla madre, l’impulso a legarla, a controllare i suoi movimenti, e soprattutto ad impedirli; il sogno di poter decidere lui i movimenti della madre, di potersi trovare al suo posto, padrone del movimento, della città, dell’autonomia. Ora lei giace costretta sul pavimento della stanza d’ingresso, tesa ad ascoltare i rumori provenienti dalle scale e dall’ascensore, speranzosa di poter tradurre ciò che sente in indizio del ritorno del suo sequestratore; capace anche però di liberarla dai ceppi e di restituirle il movimento, l’autonomia non solo degli arti, ma anche della mente; una mente di nuovo autonoma, non
più solo costretta ad attendere, ma disponibile per le mille altre cose che si possono fare quando non si è legati ad una persona al punto
di non poter neppure fare i compiti di scuola se ella non è in casa, affaccendata in altri ambiti, ma almeno la si sente, le si appartiene, ed
allora tutto diviene nuovamente possibile, anche pensare e parlare e non si è più costretti solo ad attendere.
Dopo due ore il figlio ritorna e silenzioso ed indifferente, criticandola per l’insipienza nello sciogliere autonomamente i nodi, la libera tirando il capo della corda, che d’un sol colpo fa sciogliere tutti i nodi; la madre decide di fingere di nulla e concorda con poche battute che
davvero non è stata capace di sciogliersi come sicuramente il figlio pensava sarebbe successo.
Poi non ne parlano più; la madre mi dice che mai avevano avuto un dialogo più profondo e coinvolgente; ora lei è decisissima a non cadere mai più in agguati di corda, ma è anche consapevole che dovrà fare i conti con l’antico desiderio di poter trovare un buon motivo, non
19
dipendente da lei per potersene stare a casa col figlio, sua prigioniera, sua padrona, entrambi schiavi del sogno di potersi appartenere
senza doverlo dichiarare.
A me chiede solamente cosa succederà ora al figlio, perché questo lei non lo sa veramente, come non Io so io, e temo neppure lo stesso
figlio, che nel frattempo ha fatto scomparire per sempre la corda con la quale ha finito di parlare, poiché a dodici anni gode di nuove
competenze ed il gioco ha esaurito il suo tempo...
20
SCHEDA DI SINTESI
21
I cambiamenti nelle relazioni parentali: la nuova famiglia affettiva
Le rilevanti trasformazioni verificatesi in Italia sul piano socioeconomico e culturale a partire dagli anni sessanta (la rivoluzione culturale del ’68, l’avvento della
famiglia nucleare,le trasformazioni del mondo del lavoro) hanno determinato la crisi del modello educativo tipico della famiglia della “società post-bellica”, fondato sull’indiscussa autorità paterna, «ispirato a un modello etico normativo, orientato alla responsabilizzazione e alla separazione, ad un atteggiamento cioè di
“svezzamento precoce” nei confronti della prole», indotta a lasciare presto la casa paterna per formare una famiglia propria.
Il «benessere economico» e «la complessità del contesto socio-economico» odierno consentono una presenza prolungata dei giovani in famiglia, funzionale alle
esigenze di una formazione più lunga (per molti di tipo universitario) con la duplice conseguenza di un cambiamento nella formulazione e gestione delle regole di
convivenza all’interno della famiglia e il rischio di un’adolescenza interminabile, perché sia la «carenza di opportunità lavorative e abitative» sia la comodità
dell’accudimento familiare non consentono né sollecitano il distacco.
«La società post bellica che faceva da sfondo alla loro adolescenza richiedeva ai giovani una precoce indipendenza economica, ed il modello educativo della famiglia appariva sintonico alle richieste del contesto sociale. La rigida gerarchia che caratterizzava la famiglia governata da un autorità paterna ancora indiscussa, forniva ai ragazzi e alle ragazze di allora la motivazione a volgere precocemente altrove lo sguardo, alla ricerca di un’indipendenza economica e di opinione, nonché di una libertà sessuale che la famiglia del passato non consentiva agli adolescenti: «Finché sei in casa mia fai quello che dico io!», tuonava il padre padrone, e i figli non vedevano l’ora di avere una casa propria...
L’attuale società post industriale consente invece alla famiglia un benessere economico sufficiente a mantenere i figli al proprio interno più a lungo, senza doverli spingere
troppo in fretta ad una attività lavorativa che peraltro non è in grado di garantire. La complessità dell’attuale contesto socio-economico richiede ai giovani un bagaglio
assai più ricco e differenziato di informazioni e competenze per consentir loro l’accesso al mondo del lavoro. Tali condizioni tendono a prolungare la permanenza dei figli
all’interno della famiglia d’origine oltre i tempi biologici dell’adolescenza, rendendo necessaria la formulazione di nuove regole di convivenza, che tengano conto della
presenza in casa di giovani adulti spesso non più soggetti all’autorità parentale. Il rischio è che tale contesto tenda ad organizzare le condizioni di vita di questi giovani
adulti in un’adolescenza interminabile, resa disarmonica dallo squilibrio fra uno sviluppo fisico ed intellettivo più precoce che in passato, cui non corrisponde una pari autonomia economica e psicoaffettiva. Si tratta di giovani poco sollecitati ad abbandonare la casa dei genitori dalle carenze di opportunità lavorative ed abitative, ma anche poco motivati a farlo per la possibilità di godere all’interno delle pareti domestiche di un accudimento «gestionale» e insieme di una libertà di movimento ben diversa
da quella concessa ai loro predecessori.»
L’evoluzione ha comportato una trasformazione delle figure parentali.
La famiglia del passato appariva caratterizzata da «una rigida suddivisione di ruoli fra i genitori». Al padre «era tradizionalmente affidato un ruolo etico normativo», che consisteva nel «trasmettere alle generazioni future norme e costumi sociali». La madre, invece, «svolgeva una funzione essenzialmente affettiva, quella di modulare gli scambi comunicativi e relazionali nell’ambito della famiglia.»
Nella famiglia di oggi si assiste ad «una certa sovrapposizione di ruoli fra le figure parentali».
La nuova figura paterna, in via di definizione e non priva di contraddizioni (come nei casi estremi del padre “assente” e del padre “materno”), «non disdegna di
svolgere una funzione affettiva in passato di esclusivo appannaggio materno»; «desidera stabilire una relazione affettiva precoce con il figlio … accetta di sviluppare nuove competenze comunicative, apprende ad usare il linguaggio degli affetti»; presenta «funzioni non … nettamente distinguibili da quelle di una madre».
La madre «ha ceduto a sua volta il dominio esclusivo della comunicazione affettiva familiare, ottenendo in cambio competenze in aree in passato di esclusivo
presidio paterno»; «ha spostato parte dei propri interessi e delle proprie competenze all’esterno della famiglia, pur condividendo con il partner un importante
investimento affettivo sulla vita familiare»; «ha assunto in parte quella funzione di ponte fra famiglia e società, di collettore di informazioni e norme della vita
sociale, che era in passato di esclusiva competenza maschile, così da essere nel rapporto con i figli sostanzialmente intercambiabile con il partner.»
La ridefinizione dei ruoli «rende talvolta ambivalenti e contraddittori i nuovi genitori», «più simili a figure fraterne attente e collaboranti che non alle figure paterne prescrittive ed autoritarie o alle madri iperprotettive ed avvolgenti» che hanno sperimentato nella loro giovinezza e vogliono evitare di riprodurre. Se «rischia in qualche caso di sconfinare nell’astensionismo educativo», non è priva di valori positivi: «nelle sue versioni meglio riuscite esprime con efficacia la contrattualità relazionale della nuova famiglia affettiva». Più democratica, aperta al dialogo, è caratterizzata da «relazioni tendenzialmente paritetiche, fondate
sull’ascolto e la condivisione reciproca, sul rispetto dei singoli individui, grandi o piccoli, maschi o femmine, che siano».
Non più “etica”, ma “affettiva”, la nuova famiglia non considera più suo «compito primario» «fornire alle nuove generazioni un orientamento etico». Interpreta
diversamente il proprio ruolo: «considera proprio scopo fondamentale quello di fornire amore e sicurezza ai figli, soddisfacendone ogni bisogno affettivo, economico e sociale»; «rappresenta se stessa come luogo privilegiato di accudimento e protezione, fonte per i figli di serenità e benessere»; adopera « ogni propria
risorsa affettiva, economica e sociale, per garantire ai figli un bagaglio ricco e differenziato di affetti e gratificazioni, di informazioni e competenze, utili ad affrontare in futuro un mondo» considerato «estraneo e difficile» al punto da «non considerare mai i figli sufficientemente pronti ed attrezzati» e «voler prolungare
all’infinito la fase di preparazione ed equipaggiamento».
La famiglia “lunga” e “affettiva” si presenta concentrata su se stessa o poco aperta alla fiducia nei confronti del sociale e del mondo esterno, che considera «infido e pericoloso».
«…il suo rapporto con l’esterno risulta invece marcato da preoccupazioni e timori, dalla tensione a proteggere l’appartenenza e il legame all’interno del nucleo contro ogni tendenza centrifuga.
La sfiducia che caratterizza il rapporto con il sociale di questa famiglia, il sentimento di non appartenenza a contesti sociali allargati, la sostanziale estraneità di concetti
quali «vicinato» o «quartiere», testimoniano una cultura affettiva in cui i ponti fra famiglia e società sembrano essersi da tempo bloccati o interrotti.
Il quadro è dunque quello di una cultura affettiva della famiglia contemporanea tendenzialmente democratica al suo interno e invece barricata e difesa nei confronti di
esterno rappresentato come infido e pericoloso, inquinato da veleni che minacciano la salute e il benessere dei figli non appena varchino le soglie del protettivo universo
familiare.»
22