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pagina 2 S t los protagonisti di successo A un anno da Civiltà letteraria europea, Meridiano che contiene parte della sua opera, Pietro Citati arricchisce la sua produzione con un nuovo libro, La morte della farfalla. Chiunque si accinga a diventare un lettore di Citati si renderà conto che pian piano sarà divorato da una curiosità e da una passione che diventeranno sempre più forti nei confronti di questo critico le cui pagine sono un esempio di eleganza, raffinatezza e rigore trasformato in vera poesia. È molto difficile dire cosa si prova leggendo Tolstoj o La colomba pugnalata, che sono due tra i libri più belli di Citati. Forse quello che si può raccontare nitidamente in quel turbinio di emozioni è la sensazione di sentire la voce di un uomo distante ma vicino, che apre le pagine di Guerra e pace o della Recherche ed inizia a leggerle con voce delicata, espressiva, sussurrante, quasi che avesse paura di rompere l’atmosfera densa di suggestioni che solo i grandi libri sono in grado di creare. E man mano che le pagine scorrono leggere e allegre sotto i nostri occhi, noi lettori, singoli musicisti di un’orchestra vastissima ma che ci è invisibile, ci accordiamo all’unisono alla sua voce. «Quando nel 1936 Francis Scott Fitzgerald pubblicò L’incrinatura ("The Crack-Up"), i suoi amici, i suoi amici-nemici, e i suoi nemici si indignarono profondissimamente. Soprattutto, si indignò il più abbietto tra loro: Ernest Hemingway, che non era ancora precipitato in un abisso molto più atroce… Non era possibile parlare di sé come, a quarant’anni, aveva fatto Fitzgerald: violare sino a quel punto il comune sentimento della decenza, rivelando al pubblico i disastri e i dolori della propria vita». Con un inizio immediato, veloce ma preciso, ci troviamo subito di fronte a quello che fu e che rappresentò il personaggio Fitzgerald. Con la sua prosa intensa e avvolgente, Citati racconta la storia di Zelda e dell’autore del Grande Gatsby. Lui era uno scrittore di grande successo fin dal primo libro, e diventò un mito dell’America degli anni Venti. «Fin dall’infanzia aveva incontrato una serie continua di fallimenti: mancanze, perdite, delusioni amorose, rinunce, abbandoni, insuccessi, umiliazioni, ferite sanguinosissime… Per tutta la vita immaginò sempre di essere soltanto un personaggio dell’Éducation sentimentale di Flaubert». Lei, Zelda, era l’opposto di Fitzgerald, un suo specchio rovesciato. «Se Fitzgerald era una sola incrinatura, Zelda Sayre non rivelava, in apparenza, nessuna crepa». Era una donna coraggiosissima, che non aveva paura di niente: «La regina delle farfalle. Sembrava conoscere soltanto le superfici della vita bevendo gioiosamente "la spuma della bottiglia"». Gli anni del loro matrimonio, della loro malattia (lui un alcolista, lei una schizofrenica radicale) sono raccontati da Citati attraverso uno stile che ricorda moltissimo quello di Flaubert: fluente ma contenuto. Come accade in certe favole, quando un personaggio grazie ad un filtro magico diventa invisibile e si intrufola ovunque ad insaputa di tutti, Pietro Citati scruta inosservato le esistenze di Zelda e Fitzgerald, frugando tra le loro lettere, annotando particolari, intenzioni, sensazioni, movimenti, abitudini, sentimenti. Grazie al suo sguardo multiforme e tentacolare in grado di adattarsi alle situazioni più svariate, Citati ci regala una storia tenera e struggente in un libro che coinvolge subito e non permette di interrompere la lettura a partire dalla prima pagina. Credo che le parole più belle che abbiano descritto in pochi ma intensi tratti questo critico siano quelle del suo affezionatissimo amico Federico Fellini: «Quello che posso darti sono le impressioni di un lettore asistematico e notturno che se la gode un mondo e leggere Citati, con quella sua bella prosa vellutata, ma che poi non sa che dirti, e se ci prova ha la frustrante consapevolezza di balbettare delle banalità… La sensazione più seducente, leggendo il libro, è quella di assistere al lavoro di un orafo, di un mastro orologiaio, che nel suo laboratorio silenzioso smonta e rimonta, per la nostra gioia, meccanismi complicati, ingranaggi delicatissimi, senza mai smarrirsi fra le mille rotelle e senza mai disperdere l’incanto immenso che da quelle macchine promana. Un miracolo». Un miracolo che Citati è in grado di rinnovare ad ogni suo libro e che noi assaporiamo pagina dopo pagina, in silenzio, immobili, scrutando nascosti in un angolo questo «mastro orologiaio» che pezzo dopo pezzo costruisce il suo congegno così come Geppetto, con sega e lima, ha creato il suo tenero Pinocchio. Stilos lo ha intervistato. Quando è cominciata la sua passione, il suo amore per Fitzgerald, un autore così misterioso e affascinante, e soprattutto quando ha pensato di scrivere un libro su di lui concentrandosi su un aspetto della sua vita? Ho cominciato a leggere Fitzgerald tantissimi anni fa, nel ’52 o forse nel ’53, non so dirle esattamente l’anno, ma sicuramente quando c’è stata la rinascita del mito di Fitzgerald. Fitzgerald era totalmente dimenticato: Tenera è la notte, che è un capolavoro del Novecento, non ha avuto il minimo successo. Quasi tutti, in America, credevano che Fitzgerald fosse morto. La letteratura era cambiata: degli scrittori di prima rimaneva Hemingway, restava un grande scrittore come Faulkner, ma c’era anche la letteratura populista, Steinbeck e così via. Nel dopoguerra, in America, rinacque la lettura di Fitzgerald. Oggi in America Il grande Gatsby ha una vendita annuale di trecentomila copie. Allora vennero stampati i racconti: prima ci fu una scelta fatta da Cowley, I ventotto racconti quasi tutti bellissimi. Poi vennero pubblicati i libri che non erano mai usciti come libri: il famoso "The Crack-Up", poi i Taccuini. Insomma Fitzgerald diventò un autore ancora più alla moda di quanto non fosse negli anni Venti. Ora questa fortuna di Fitzgerald ho l’impressione (ma non ne sono certo) che sia un po’ diminuita. Fitzgerald non è più vivo come mito. Un tempo era il mito degli anni folli, dell’alcool, della droga, della leggerezza, della fuga che dominò l’America dal 1920 fino alla crisi del ’29. Ora è rimasto un grande scrittore: quello che importa. La nascita del mio libro è del tutto casuale: anni fa in Italia Baldini e Castoldi ha tradotto le lettere di Zelda e di Scott, col titolo Caro Scott carissima Zelda. Volevo recensire queste lettere di Zelda e Fitzgerald, che erano uscite da pochi anni negli Stati Uniti. Allora ho letto S tilos Una pubblicazione Domenico Sanfilippo Editore Nella foto Pietro Citati fotografato nella sua casa in Maremma PIETRO CITATI Libro nato per seguire una suggestione e un richiamo: la vita della coppia Zelda e Scott e le sue implicazioni letterarie Quei miei tragici Fitzgerald VIVE AD ALBANO LAZIALE (ROMA). SI OCCUPA DI CRITICA LETTERARIA E DI STORIA DEL TEATRO. SCRIVE SU VARIE RIVISTE PIERLUIGI PIETRICOLA IL LIBRO PIETRO CITATI "La morte della farfalla" pp. 118, euro 13 Mondadori, 2006 Una storia d’amore e un profilo La vita dei coniugi Zelda e Scott Fitzgerald attraverso l’opera dell’autore del Grande Gatsby e i documenti anche fotografici che ripercorrono la loro vicenda matrimoniale. Ne emerge anche un profilo letterario dello scrittore sotto la luce riflessa dei suoi libri. Pietro Citati (Firenze 1930) è autore di moltissimi libri, tra cui Goethe (Mondadori 1970); Il tè del cappellaio matto (Mondadori 1972); Immagini di Alessandro Manzoni (Mondadori 1973); Alessandro (Rizzoli 1974); La primavera di Cosroe (Rizzoli 1977); Vita breve di Katherine Mansfield (Rizzoli 1980); Il migliore dei mondi impossibili (Rizzoli 1972); Tolstoj (Longanesi 1983); Il sogno della camera rossa (Rizzoli 1986); Kafka (Rizzoli 1987); Storia prima felice, poi dolentissima e funesta (Rizzoli 1989), Ritratti di donne (Rizzoli 1992); La colomba pugnalata (Mondadori 1995); La luce della notte (Mondadori 1996); L’armonia del mondo (Rizzoli 1998); Il male assoluto (Mondadori 2000); La mente colorata (Mondadori 2002), Israele e l’Islam (Mondadori, 2004). quel libro, poi ho cominciato a leggere le altre lettere, poi ho riletto i suoi romanzi, i suoi racconti; e poi ho letto diverse biografie. Alla fine ho accumulato tanto materiale che avrei potuto scrivere un libro di trecento pagine. Ma non volevo. Dalle mie letture la vita di Fitzgerald diventava immensamente più tragica di quanto io non credessi. Se lei legge le altre biografie (in Italia non ne è tradotta nessuna) le sembrerà molto più pacifica di quanto non sia nel mio libro. E per dare il senso della tragicità di questa vita ho rac- Direttore responsabile Mario Ciancio Sanfilippo Coordinatore Gianni Bonina Anno VIII, n. 20 Martedì 10 ottobre 2006 Registrazione Tribunale di Catania n. 11/99 del 24/4/99 Spedizione in Abb. Post. Art. 2 comma 20b legge 662/96 Stampa I.E.S srl Catania contato rapidissimamente, abolendo episodi, scorciando, buttando via, buttando via: per esempio ho abolito un capitolo sui rapporti tra Hemingway e Fitzgerald. Ho imitato un po’ Fitzgerald quando scrisse Il grande Gatsby, dove tutto è scorciato. Volevo rendere quella drammaticità attraverso la velocità della narrazione. Così invece di un grosso libro ne è venuto un libretto. Non so se ho fatto bene o male, ma sentivo che dovevo scrivere il libro in quel modo. Zelda e Fitzgerald: cosa li rendeva simili e cosa li distanziava? Quello che li distanziava e che li rendeva contemporaneamente simili era il fatto che tutti e due erano malati: Zelda molto più gravemente, perché era una schizofrenica incurabile. Quando Fitzgerald, che era un marito generoso e devoto, portò Zelda dal massimo specialista di schizofrenia del suo tempo, Eugen Bleuler, era pieno di rimorsi e si chiedeva: «Sarà stata colpa mia?». E Bleuler gli rispose: «Non si dia le colpe. Forse il matrimonio ha accelerato la cosa di due mesi, ma sarebbe comunque esplosa. La schizofrenia risale all’infanzia di Zelda». Quanto a Scott, era alcolizzato in modo tremendo. Solo un anno della sua vita non bevé: quello prima della sua morte, quando Sheilah Graham riuscì a distoglierlo dall’alcool. Fitzgerald ha bevuto sempre. In letteratura c’è una tradizione di grandi drogati e alcolizzati, una tradizione soprattutto inglese e francese, americana: pensi a Baudelaire o a De Quincey o a Rimbaud o a Poe. La differenza profonda è questa: De Quencey e Baudelaire, attraverso la droga o l’alcool, volevano giungere in un altro mondo: avevano intenzioni metafisiche; per loro la droga distruggeva il reale e faceva nascere un mondo completamente diverso. Avevano illuminazioni su una realtà che non conoscevano. In Fitzgerald questi desideri metafisici non esistono. Non vuole inseguire un’altra realtà. Fitzgerald beve soltanto per uccidere la realtà, vincere il proprio senso di colpa e fallimento e farsi amici gli esseri umani. Fitzgerald si sente sempre fallito, anche quando è al massimo del successo. Il primo suo libro ha venduto in pochi mesi sessantamila copie: all’incirca i due milioni di copie di oggi. Era diventato una divinità per i giovani degli anni Venti. Anche allora si sentiva perseguitato dallo scacco radicale. Questa era la ragione del suo alcolismo. Ci sono episodi talvolta grotteschi: quando lui lavorava per il cinema a Hollywood e Zelda era in una casa di cura, lei voleva che Fitzgerald la portasse a fare un viaggio ai tropici. In quel momento Fitzgerald non aveva soldi. Negli ultimi anni della sua vita era carico di debiti, perché pagava una costosa clinica privata per la moglie, costosissime scuole alla figlia e guadagnava poco. L’anno successivo la invitò a questo viaggio. Durante il viaggio Fitzgerald beve ininterrottamente e Zelda si occupò del marito ubriaco: dunque la cosiddetta folle si occupò del cosiddetto sano, lo portò in ospedale e lo rimandò ad Hollywood. La malattia fa di loro dei vicini e insieme delle persone distanti. Avevano molto in comune: erano come una stessa persona con due teste,che non potessero fare a meno di distruggersi a vicenda. Il legame era fortissimo. Non credo che fosse un legame (come tutti pensano) soprattutto erotico. Penso che fosse un profondissimo legame psichico. Il mondo letterario di Fitzgerald non è un mondo molto erotico. Un eros diffuso riempie le cose, è nell’aria, nel sole, nelle nuvole, dappertutto, ma non è un eros propriamente sessuale. Forse la cosa più bella nei loro rapporti sono le notti, nei primi anni di matrimonio, in cui parlavano da mezzanotte fino alle sei del mattino, parlavano ininterrottamente di tutto e smettevano solo quando arrivava l’alba. Zelda era una donna estremamente intelligente, sottile, con un acume psicologico straordinario e una grande crudeltà mentale. Tutto quello che lei diceva era prezioso per Fitzgerald, che copiava passi interi di lettere e diari di sua moglie. Fitzgerald diceva che Zelda era più forte di lui e che aveva perfino più talento di lui. Questo non è vero, perché il romanzo di Zelda è brutto. Le sue lettere invece sono molto belle. Zelda è stata fino alla fine la «bambina» di Fitzgerald: molto più della figlia la quale non faceva quello che il padre le diceva; mentre Zelda rimase fino alla fine una specie di figlia malata di un padre malato. Con chi si è sentito di più a suo agio mentre stava scrivendo il libro, con Zelda o con Fitzgerald? Non ci si sente molto a proprio agio né con l’uno né con l’altra. Io non sono né un alcolizzato né uno schizofrenico. Mi sono sentito molto a mio agio con la coscienza letteraria di Fitzgerald, perché questo alcolizzato aveva una coscienza letteraria formidabile, così come Flaubert o Kafka; un gusto perfetto. Fitzgerald legge Kafka nel ’34, quando nessuno sa chi è; che adora Keats; ha un’enorme ammirazione per Conrad quando la gente non lo amava - la Woolf non amava Conrad -, sebbene Conrad fosse il contrario di lui, perché era fluviale, abbondante, pieno di melma e di infinito, mentre Fitzgerald tende a concentrare e ha il senso della parola giusta. Sono sempre stato vicino alla coscienza letteraria di Fitzgerald, e ho cercato di imitare il suo modo di raccontare. E ci è riuscito benissimo…. Questo non lo so. Comunque non posso dire se Fitzgerald sia stato più grande in un libro piuttosto che in un altro. Posso dirle che Il grande Gatsby e Tenera è la notte sono due bellissimi romanzi, e che Fitzgerald ha scritto venti racconti meravigliosi. Al resto si può rinunciare. La vita di un grande scrittore è irraggiungibile così come la sua opera? A me viene sempre in mente l’immagine di Musil del chiodo che si vuole piantare in uno zampillo d’acqua, e credo che l’interpretazione di un grande testo letterario sia un po’ come piantare un chiodo in uno zampillo. Lei che ne pensa? Questa è una bellissima immagine di Musil. Ogni scrittore rappresenta un problema del tutto diverso. A me sembra che Fitzgerald come persona sia abbastanza comprensibile: non offre tali misteri. I veri misteri li offre Kafka, che è un enigma. La cosa più difficile non è interpretare la vita di un grande scrittore, ma i suoi libri. La cosa misteriosa di Fitzgerald è il fatto che iniziò in modo abbastanza rozzo e fluviale e diventò un vero maestro dello stile. SEGUE A PAGINA 3 Concessionaria pubblicità Pubblikompass tel.: 02.24424611 email: [email protected] REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE E TIPOGRAFIA Viale Odorico da Pordenone 50 - 95126 Catania email: [email protected] - tel: 095.330544 Abbonamenti Annuale 20 euro Conto corrente postale n. 218958 intestato a: Amministrazione Stilos Viale O. da Pordenone, 50 - 95126 Catania Distribuzione nazionale Parrini & C. S.p.a. protagonisti di successo PIETRO CITATI SEGUE DA PAGINA 2 Lei ha la virtù di trasformare uno studio lungo e complesso in una narrazione critica di gusto e livello. Come ci riesce? Questo è un piccolo libro e non ci sono interpretazioni di testi. Si tratta di un libro profondamente diverso da quello che sto facendo. Cercherò di scrivere un libro su Leopardi, e sarà molto lungo. Sarà un libro interpretativo, simile a quello sull’Odissea che si basava interamente sull’interpretazione del testo. E nel libro su Leopardi ci sarà l’interpretazione delle poesie, delle Operette morali e di alcune grandi immagini leopardiane: l’amore, il ricordo, la noia e così via. Ci sarà anche una storia della sua vita. Questo su Fitzgerald è un libro molto rapido; non potevano esserci in cento pagine analisi particolari. È un po’ simile a quell’altro mio libro sulla Mansfield. A proposito del suo libro sulla Mansfield: lei lo scrisse mentre stava lavorando al libro su Tolstoj perché le venne un impeto d’odio per l’autore di Guerra e pace. Ora sta lavorando su Leopardi e ha scritto un libro su Fitzgerald… Il libro su Fitzgerald l’ho scritto mentre stavo leggendo su Leopardi, l’anno scorso in primavera. In questo caso non c’è nessun impeto d’odio verso Leopardi, che è uno degli uomini più amabili e angelici della terra. La situazione era diversa nel caso della Mansfield. Stavo scrivendo un libro su Tolstoj e ho odiato quest’uomo che scriveva romanzi vasti come cattedrali, che scriveva di teologia, che era un apostolo e un profeta, che aveva dodici figli, che riempiva il mondo di sé. Mentre la Mansfield morì giovanissima: aveva scritto poco ma cose essenziali. In lei non c’è niente di profetico e di così odiosamente virile come in Tolstoj. In questo caso ci fu un contrasto. Nel caso di Leopardi invece non c’è nessun contrasto. A lei piace molto dipingere… Non ne sono capace. Io dipingevo da ragazzo. Dipingevo sempre ma senza talento. Dipingevo paesaggi, copiavo pitture, facevo sculture;ho copiato la testa del David di Michelangelo. Quando avevo cinque anni avevo disteso nel salone di casa nostra un foglio di tre metri per due. C’era la guerra in Etiopia. Il culmine di questa guerra fu agli inizi del ’36, quando c’è stata la battaglia dell’Amba Alagi che ha aperto la strada delle truppe italiane verso Addis Abeba. Era stata una battaglia cruenta, e io avevo dipinto un foglio con centinaia di morti, con feriti che cadevano al suolo. Ci avrò messo quindici giorni. Poi ho continuato a dipingere fino ai diciassette anni. Ho scritto anche quindici o venti fumetti: storie d’avventura di origine salgariana che si svolgevano nel Pacifico e in America meridionale. E tutto questo senza alcun talento. Ma ho un desiderio immenso di dipingere. Ho una casa in una pineta, Pineta di Roccamare, dove stava anche Calvino. Quando mangio, sono davanti ad una finestra e guardo sempre un bellissimo pino. Mi piacciono moltissimo i pini, le scorze, i colori, il rosso, il marrone e le diverse tonalità dei pini. Mentre mangio penso a quanto mi piacerebbe dipingere quel pino lì, e siccome il più grande pittore di pini è stato Cézanne, penso sempre che si potrebbe fare qualcosa di più bello di Cézanne, naturalmente non io. Non sapendo dipingere, vedo quadri e scrivo d’arte. Però supponiamo che venisse da lei Caravaggio in persona e le dicesse di dipingere Fitzgerald e Zelda insieme: in quale posa li ritrarrebbe? Fuggirei davanti a Caravaggio. Di Zelda e Fitzgerald abbiamo le fotografie, che sono molto rare e Un lavoro pari a quello per Goethe: la biografia del poeta di Recanati e i suoi temi: l’amore, il ricordo, la malattia Ma ora penso a Leopardi PAOLO DI PAOLO S e c’era una forma possibile per raccontare la vita fragile di Fitzgerald doveva essere questa. Mantiene a ogni pagina il segno di una tensione, il riflesso di un’inquietudine, questo piccolo libro di Citati. Più secco, rapido che in altri scritti, Citati si mette qui sulle tracce di Francis e di Zelda, attinge a lettere appassionate, a fotografie cui il tempo non ha sottratto fascino. C’è un elettrico, polveroso brillio che sembra avvolgere la figura di Fitzgerald, e i luoghi che egli attraversa. Avevamo detto quasi addio a quel mondo e al suo cantore nell’ultimo film di Altman, Radio America: la musica che si sparge nell’aria e una lieve malinconia che informa di sé ogni gesto: anche il piede che batte al ritmo di qualche allegra melodia. Torna qui invece, Fitzgerald, nella Morte della farfalla: e ne ritroviamo intatto il fascino magnetico che egli prestò al personaggio Dick Diver. Ma non c’è il «mito»: c’è l’uomo - innamorato, spa- S t los Nella foto Pietro Citati nello studio della sua casa romana belle. Quarant’anni fa la figlia di Fitzgerald e Zelda, Scottie, ha pubblicato un grande album di fotografie in collaborazione con lo specialista di Fitzgerald, Bruccoli, un italoamericano. Contiene decine di fotografie, di schizzi, di quadri di Zelda (è l’unico luogo dove si possono vedere i suoi quadri), di documenti. Il libro è esauritissimo, perché era molto caro, e in Italia non lo conosce nessuno. Le fotografie che ci sono nel libro vengono da quest’album: molte sono completamente ignote. A me piace moltissimo la fotografia di Fitzgerald sottotenente. Poi lei se lo immaginava che il suo capitano fosse Eisenhower? È una cosa comicissima. Queste fotografie non rendono giustizia a Zelda. Lei era bellissima, ma la sua bellezza era fatta tutti di colori, e non ne resta niente. In Narrate uomini la vostra storia Savinio sosteneva che «nel vero ritratto l’essenza del personaggio prende stanza e si ferma per sempre, e il committente, perduta ogni ragione di vivere, si incammina, falotico e svuotato, verso la morte». Lei è d’accordo? I ritratti pittorici sono molto più numerosi e belli di quelli letterari. Lei immagini soltanto cos’è la storia della pittura con i ritratti di Tiziano, Rembrandt, Rubens; una serie di assolute meraviglie: pensi al Baldassarre e Castiglione di Raffaello, una cosa sublime. Il ritratto pittorico è più facile perché nelle mani uno ha un modello davanti, e lo riproduce con i colori, che inseguono l’oggetto. Nel ritratto letterario di un critico che dipinge uno scrittore, il critico ha in mano soltanto le parole, e con la parole dare allo stesso tempo il senso dei colori, della psicologia e del movimento è estremamente difficile. Il ritratto di uno scrittore è molto più difficile del ritratto di una persona comune. Di ritrattisti letterari ce ne sono pochissimi, ma ce n’è uno supremo che è Sainte-Beuve. Non c’è stato mai nessun critico che neanche lontanamente ha avuto le qualità di ritrattista di Sainte-Beuve. Ma in Italia Praz e Macchia erano molto bravi come ritrattisti letterari. Goethe, Kafka, Proust, Tolstoj: a ciascuno lei ha dedicato dei libri molto belli. Ma a chi di questi si sente più vicino e quale è stato un autore fondamentale per la sua formazione? Goethe. Il libro su Goethe è stato quello sul quale ho lavorato di più: dieci anni. L’ho cominciato quando avevo trent’anni e l’ho finito a quaranta. Il modo col quale scrivo adesso è diverso da quello col quale scrissi Goethe: ora scrivo in modo più secco e rapido. Goethe invece è un libro un po’ barocco; ma io non solo ho imparato a fare il critico scrivendo quel libro, ma anche a scrivere. Scrivere un articolo e scrivere un libro sono cose completamente diverse: un articolo lo si fa in una mattina, si deve essere rapidi e sciolti. Il libro deve avere il senso del tempo, si deve cambiare passo, bisogna diventare un fiume. Goethe è stato la mente più grande del mondo moderno. In questo scorcio di nuovo millennio lei intravede qualche bravo, e magari grande autore nel panorama letterario odierno? Non mi pare che ci siano grandi autori. Ce ne sono di medi. Non posso parlare della letteratura italiana contemporanea, che conosco poco. Non c’è molto che mi affascina. Ma questo potrebbe essere dovuto alla mia scarsa informazione. Anche all’estero la situazione non è diversa dalla nostra. Ho cominciato a fare il recensore fin da giovanissimo, nel ’55, e in Italia c’erano Gadda, Caproni, Bertolucci, Calvino, la Morante, Lampedusa. Erano molto modesti. Gadda ad esempio mi diceva: «Quando parla di me non esageri, lei esagera sempre. Io non sono così grande». SECONDA LETTURA Transitando per i terreni della perdita e della solitudine ventato, devastato dall’alcol, capace di generosità e braccato da angosce puerili. «Ciò che gli importava - scrive Citati - era soltanto il dolore e la musica delle cose perdute; ma non poteva fare a meno di sognare un futuro di trionfi fantastici e irraggiungibili. Come Balzac era un mitomane incapace di guarire. Voleva possedere un dominio assoluto sulle cose vicine e lontane. Tentava e falliva, falliva e tentava. Solo una cosa era certa: la sconfitta, l’incrinatura, la morte mascherata dietro le luci». Un’ansia segreta di possesso del mondo: Fitzgerald «era affascinato dagli istanti e dalle cose che passano»: la laccatura, la patina d’oro che copre la brutale verità delle cose, la loro massiccia e indigesta importanza. È come se Citati, nella sua indagine, tirasse via con le unghie questa patina, ansioso di svelare e restituire al lettore il dolore da essa nascosto. E d’altra parte è lì, in quel grumo d’ombra, che si annidano le parole, è lì - scavando, quasi in preda a un panico creativo - che Fitzgerald trovava la materia estrema per i suoi romanzi e racconti. Poi sapeva ammantarli di polvere d’oro e allora brillavano. Non conta qui la ricostruzione di un processo creativo (che resta sempre e comunque inattingibile, anche forse a chi si arma di bisturi critico); per Citati conta sentire - con immaginazione emotiva, e chiedendo supporto alla sua rigogliosa memoria letteraria - la misteriosa predisposizione di un uomo fragile alle metamorfosi della scrittura. «Scriveva con furia, velocissimamente, su fogli di carta gialla: appena finito un foglio, lo gettava a terra, così che il pavimento era ricoperto da quei lividi lampi di letteratura». C’è un lontano scritto di Citati, "La fuga delle parole", pubblicato nel 1978 nel volume I frantumi del mondo, che sembra quasi una dichiarazione di poetica, seguita fin qui, fino a questo trepido Fitzgerald, con estrema coerenza. Muove dallo sgomento che si prova nel constatare come spesso la parola finisca col non essere più «un pieno, ma un vuoto: una mancanza, un ripiego, un mezzo termine, una fatale rinuncia, una ferita aperta e non richiusa». Si limitano, le parole, a sfiorare il mistero della realtà, senza riuscire a definirlo ed esaurirlo in sé: e solo quando «fuggono» verso altre parole - le parole già scritte, «custodite nei folti armadi della letteratura» -, solo allora, intrecciandosi e amalgamandosi con loro, ascoltandole echeggiare in sé stesse, variandole «come il musicista gioca intorno a un motivo», riescono a trasformarsi, e a trascinarci verso soglie e domande estreme cui sarebbe stato difficile giungere altrimenti. «E ci troviamo - concludeva Citati - con le nostre deboli forze ad affrontare temi tremendi, dei quali parliamo per interposta persona, con le parole degli altri, che ormai sono diventate la nostra unica voce, una voce più vera di quella che abbiamo mai pronunciato». Con La morte della farfalla, indagando nell’amore disperato di Zelda e Scott; transitando per i terreni della perdita, della solitudine, della malattia; scrutando, una volta ancora, il nodo che stringe il talento alla malinconia e alla disperazione, Citati conferma - stavolta sotto una luce diversa, che trema; in un respiro corto, pronto a spezzarsi - l’abilità con cui, dopo avere raccolto indizi e tracce con cura appassionata, sa ricostruire le tappe di un percorso in cui la vita e le parole, la vita e la letteratura, si intrecciano al punto da non distinguersi più. pagina 3 S C A F F A L E AUGUSTO CAVADI, E, per passione, la filosofia, pp. 187, euro 16,50, Donzelli 2006 Sottotitolo provocatorio per il saggio di Cavadi, docente di filosofia in un liceo di Palermo, "Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze", ovvero la filosofia, una disciplina che non è al servizio di nulla e che pure «serve» alla poesia, alla mistica, alla politica, alla letteratura. Oggi che poi è tornata di moda, dopo alcuni decenni di eclissi, è giusto spiegare come si «pensa» e perché l’uomo e la donna della strada dovrebbero filosofare per occupandosi abitualmente d’altro nella vita. ANDREA GENOVESE, Falce marina, pp. 290, euro 13, Intilla 2006 Uno squarcio inedito del Dopoguerra visto e vissuto da quel bambino che è stato. Dal fracasso delle bombe che cadevano su Messina ai tempi difficili della ricostruzione, Andrea Genovese, scrittore e giornalista messinese, rievoca in maniera deliberatamente e prepotentemente autobiografica un microcosmo, il quartiere di Giostra, in una Messina che ha dimenticato la sua identità, abitato da personaggi pittoreschi vivacemente ritratti. PLINIO MARIANI, Eroslibro, pp. 189, euro 13,50, Editino 2006 Un libro sull’erotismo inteso non solo come piaceri legati all’amore e al sesso ma anche come suggestioni e tentazioni. Tempi antichi e moderni nei racconti che si muovono tra sensualità, magia, e crimine, in cui l’autore indagando nel discrimine tra carne e anima, procede tra miti e fantasie classiche e letterarie: da Pigmalione a Candaule, consorte del re della Lidia, a Giulia, viziata figlia unica di Ottaviano Augusto, sino ad Antonio, tentato da Tebaide, e all’eros nell’harem. DANIELE DEL POZZO/LUCA SCARLINI (cura), Gay, pp. 312, euro 15, Mondadori 2006 Una guida italiana in centocinquanta voci in ordine alfabetico è questo dizionario della cultura gay, che si impone per una realtà che cerca riconoscimento identitario e politico dei propri diritti. Oltre le reazioni scandalistiche, oltre gli aspetti da gossip del fenomeno, il testo, che Gianni Vattimo, curatore della prefazione, definisce un monumento alla gay liberation, vuole disegnare la mappa tanto estesa quanto inesplorata della cultura gay, che attraverso artisti, letterati, scrittori, ha segnato il Novecento. GIANVITO LAFORGIA, Il mio Giuseppe, pp. 91, euro 10, Matarrese 2006 La voce di Giuseppe, sposo di Maria, madre di Gesù rivive attraverso le pagine del breve romanzo di Laforgia, attento osservatore della parola cristiana e cultore del presepio, una passione che ha ereditato dal padre. Il «suo» Giuseppe che parla in prima persona racconta la sua vicenda umana, una vicenda misteriosa in cui anche lui è prescelto quale «padre» del figlio di Dio. 4 S t los autori italiani Nella foto Pietro Ingrao, autore per Einaudi di Volevo la luna PIETRO INGRAO. I contrastanti «fatti IL LIBRO d’Ungheria», la strage di Portella, lo squadrismo fascista, i dubbi ancora aperti del caso Moro: una vita che è specchio dell’Italia contemporanea Confesso che ho sbagliato « E ra andata VIVE A MILANO DOVE DIRIGE così. Ero LA RIVISTA "GLI APOTI". ancora COLLABORA A DIVERSI PERIOsolo un DICI E QUOTIDIANI fanciullino: una sera, prima di accucciarmi nel letto FILIPPO MARIA BATTAGLIA per il sonno notturno non so perché - mi ero rifiutato di usare il vasetto, come voleva il rito serale. Era allora intervenuto mio padre a sollecitarmi promettendo in cambio qualsiasi regalo io volessi. Attratto da quella promessa mi ero accosciato sul vaso e avevo versato con sonora abbondanza la mia pipì. Mio padre, soddisfatto dell’esito, mi chiese che regalo volessi per premio. Era una dolce sera d’estate e dal balcone aperto avevo dinanzi il monte Appiolo su cui si levava, lenta e maestosa, una luna d’argento. Io subito dissi: - Voglio la luna». Ecco spiegato il titolo del libro di Pietro Ingrao. Un libro che ne rivela chiaramente la formazione, innanzitutto umanista e solo secondariamente politica. L’eco degli scrittori italiani del primo Novecento è fortissima: Giudo Gozzano (sulla casa di Luchino Visconti scrive che era «uno splendido palazzo di pessimo gusto», richiamandosi, neanche poi così velatamente, all’Amica di nonna Speranza dell’autore torinese), ma soprattutto Cesare Pavese («Prendiamo le armi ed uccidiamo. E nulla sappiamo dell’altro che viene ucciso. Quasi sempre uccidendo non vediamo nemmeno il suo corpo», che rievoca alcuni passi della Casa in collina), amato anche come traduttore e divulgatore della cultura americana ed europea. Ingrao sembra qui rappresentarsi quale figura dubbiosa, quasi prepolitica, con i suoi dichiarati errori ed i suoi manifesti tentennamenti. Una vita interessante da raccontare: l’infanzia a Lenola, l’adolescenza a Formia e quindi a Roma - dove avviene la rottura col fascismo e la formazione antifascista -, il lavoro di redattore all’"Unità", la direzione del quotidiano comunista fino all’ingresso nella segreteria politica del Pci e l’attività di parlamentare, che lo vedrà prima capogruppo comunista e poi presidente della Camera durante gli anni terribili del terrorismo e del sequestro Moro. Stilos ha incontrato l’autore, per rievocare, attraverso le pagine della sua narrazione, i momenti principali della sua vita. Nella nota introduttiva al libro lei scrive: «Una delle cose che mi è piaciuta sempre nella vita, e che avrei fatto senza annoiarmi, è sedermi in un caffé e guardare il fiume di persone che scorre dalle strade, chiedendosi chi sono o cercando di immaginare ciò che loro capita o che hanno in animo». Nasce da qui la sua passione politica? In certo senso sì. Ma a trascinarmi nella politica furono in realtà degli eventi terribili degli anni Trenta e del dilagare in Europa della violenza nazifascista. Furono proprio le vicissitudini europee di quegli anni, straordinarie nella loro tragicità, a segnare un passaggio cruciale per un gruppo di giovani intellettuali romani, sotto lo stimolo che veniva da Bruno Sanguinetti, figlio dell’industriale padrone della Arrigoni e diventato comunista in Belgio e in Francia, dai figli - Antonio e Pietro - di Giovanni Amendola, ammazzato dallo squadrismo fascista. Ma ad influire soprattutto sul mio orientamento agì l’ascesa del nazismo, la conquista violenta dell’Europa che il Fuhrer aveva iniziato. A partire da quegli eventi, che cambiarono i libri sul mio tavolo, finirono i miei studi al Centro Sperimentale di cinema e, al contempo, si intensificò il mio dialogo con i miei coetanei - primo fra tutti Antonio Amendola, ma poi altri ancora - su ciò che succedeva nel mondo. E cominciò per me l’esperienza della cospirazione clandestina. Proprio in questo senso è interessante leggere le pagine relative alla sua formazione, ai suoi interessi da giovane e, in particolare, la sua passione per la cultura americana ed europea. Steinbeck, Melville e Chaplin come si conciliarono con la politica statunitense di quegli anni? Durante la metà degli anni Trenta, già allora da parte mia - ma anche per tanti altri miei coetanei - il rapporto con l’America roosveltiana divenne intenso, legato anche alla mia grande passione per il cinema (quello di Chaplin, innanzitutto) e per la letteratura americana, che allora cominciava a giungere a noi giovani grazie ad alcuni punti focali d’Italia, primo fra tutti la Torino di Cesare Pavese, aprendo i nostri occhi sul mondo e fornendoci una lettu- I campi C della A geografia T A L O G O FABRIZIO BARTALETTI "Geografia generale" pp. 174, euro 14 Bollati Boringhieri, 2006 I principi e i campi di ricerca della geografia, per una equilibrata presentazione della materia come «scienza di sintesi», sono l’oggetto di studio di questa trattazione di Bartaletti, docente di Geografia urbana all’università di Genova. L’opera si divide in due parti: nella prima si percorre la storia del pensiero geografico, nella seconda si analizzano i campi di ricerca della geografia appartenenti sia all’ambito fisico-naturalistico che umano. PIETRO INGRAO "Volevo la luna" pp. 371, euro 18,50 Einaudi, 2006 Catone pagina ANDREA CARRARO Memorie personali una vita sulla breccia Le memorie di una vita trascorsa sulla breccia della storia politica nazionale, in gran parte attestato sul lato del dissenso: memorie ripercorse non tanto con il senno del poi ma con il dubbio del post factum, perché su molte pagine della nostra vita recente la storia deve ancora scrivere la verità. Sicché si tratta di memorie di tipo personale, ciò di cui l’autore non fa mistero, anzi avvertendo il lettore con nobile onestà d’animo e intellettuale. ra nuova dell’America. Alcune pagine della narrazione della clandestinità sono dedicate a Girolamo Li Causi, che purtroppo è stato ingiustamente dimenticato anche nel suo paese natale, Termini Imerese. Ha un episodio da poterci raccontare? Conobbi Li Causi a Milano, subito dopo la caduta di Mussolini e l’inizio dell’era badogliana. Li Causi era stato incaricato dal partito di seguire la redazione milanese dell’"Unità" che di fatto si riduceva a me e a Gillo Pontecorvo. Incontravo Li Causi per vagliare, correggere o integrare il testo di quel giornale. Eravamo in piena lotta cospirativa ed uscirono sotto la direzione di quel grande siciliano quattro numeri. Il rapporto umano con lui era molto caldo, d’altronde egli era preso da impegni più importanti, essendo uno dei massimi dirigenti del partito. Dopo il 25 luglio, mentre cominciava a formarsi in Italia la partigianeria antitedesca, io fui tentato, come tanti altri giovani comunisti di allora, di «andare in montagna», per dare un contributo - per modesto che fosse - alla aspra lotta della Resistenza. Mi rivolsi quindi a Li Causi, chiedendogli se potevo lasciare il giornale e andare a combattere nei gruppi clandestini partigiani. Ricordo la pacatezza, la dolcezza con cui lui mi dette la sua risposta negativa, che era poi fondata su un argomento semplice ma essenziale: siamo parte di una lotta più grande, i compiti a cui siamo chiamati vengono decisi da una direzione, comunista e più largamente antifascista, e noi dobbiamo obbedire a questa regola. E poi aggiunse, quasi immalinconito: «Sapessi quanta voglia avrei io di agire nella mia Sicilia». Un discorso molto affettuoso, e insieme fermo nel rifiutare la proposta di mutamento. Nel suo libro trova spazio anche l’eccidio di Portella della Ginestra. Come valuta oggi quella drammatica vicenda? Portella della Ginestra fu un massacro ignobile e orrendo, compiuto in una conca campestre in cui comunisti e socialisti di quei luoghi amavano incontrarsi per celebrare in allegria il primo maggio. A guidare il massacro fu il bandito Salvatore Giuliano, allora legato alla mafia italo-americana e alle forze di estrema destra allora potenti in Sicilia. L’eco che ebbe quel massacro spaventoso fu enorme. Da allora partì un moto delle forze di sinistra, nell’isola e nel Sud d’Italia, che presto divenne largo e incisivo. Nella grandiosa e terribile svolta della vita dell’Europa che fu il 1956, l’evento più tragico fu indubbiamente la rivolta di Budapest. Crede che quella ribellione sia stata l’effetto della destalinizzazione del XX congresso del Pcus o ritiene che comunque i due fattori si siano mossi parallelamente? Dopo le rivelazioni di Krusciov sullo stalinismo, era scattato in Ungheria un moto di popolo che invocava una svolta di libertà e aveva coinvolto anche un’ala del comunismo che si raccoglieva attorno a Nagy, come però anche anticomunisti tenaci e dichiarati, come il cardinale József Mindszenty, e al tempo stesso strati diversi dell’intellettualità ungherese e delle classi lavoratrici. La partecipazione popolare alla rivolta ungherese fu anche il riflesso di quel moto di libertà che le rivelazioni kruscioviane sui crimini di Stalin avevano alimentato nei paesi dell’Est sotto controllo sovietico: nella Polonia di Gomulka prima di tutto, e poi in Ungheria, dove agiva anche un dissenso interno nel gruppo comunista legato a Mosca. Presto in tutto il Paese sorse un moto antistalinista, e si determinò anche una frattura nell’ala comunista legata a Mosca. I sovietici sciaguratamente risposero a quella crisi politica con la violenza delle armi, per schiacciare anche quella parte stessa della sinistra magiara che tentava di guidare un’autentica riforma sociale. A Roma nel gruppo dirigente fummo in molti a non afferrare il senso di quella rivolta ungherese. Io, purtroppo - sbagliando gravemente - fui tra questi. Proprio in quei giorni, con roboanza cruciale, scrissi per "l’Unità" un editoriale, che si intitolava «Da una parte della barricata», schierandomi contro le forze nuove che scendevano in lotta per la libertà dell’Ungheria. Fu un errore grave di cui serbo un ricordo ancora cocente. I «fatti d’Ungheria», come vennero chiamati da Togliatti, aiutarono tuttavia il mondo comunista a comprendere la drammaticità dell’altra repressione, quella del 1968 in Cecoslovacchia. Assolutamente sì. Nel 1968 eravamo già andati avanti nella critica all’Urss. Eravamo in un’altra stagione politica. Io stesso partecipai alla riunione che si svolse quella notte fatale, in cui Sorprese dei testamenti SALVATORE DE MATTEIS "In piena facoltà" pp. 207, euro 14 Mondadori, 2006 Lungi dall’essere macabro questo catalogo «funebre» ha dei risvolti tragicomici e comunque rivela un aspetto inedito del post mortem. Quel che la gente scrive nei testamenti olografi, redatti «in piena facoltà», riguarda vendette, tradimenti, denaro, capricci, confessioni anche contro il volere dei parenti. Scritti e firmati di pugno dal testatore, riportati nell’originale, tutti rigorosamente veri, costituiscono una sorta di Spoon River nostrana. giunse l’annuncio dell’invasione sovietica, e nella quale decidemmo di prendere immediatamente posizione contro l’invasione sovietica. Togliatti già si era spento, e Longo, allora segretario del Pci, era lontano dall’Italia in vacanza in Urss. I presenti a Roma in quella notte - io, Cossutta, Reichlin, i redattori dell’"Unità" non fummo inerti. Quando, a notte avanzata, giunse alla redazione dell’"Unità" la conferma dell’invasione di Praga, non avemmo esitazioni. E anche se non riuscimmo a parlare con il segretario del partito, demmo alla stampa un comunicato che esprimeva la netta condanna - da parte del Pci - dell’aggressione venuta da Mosca. Era la prima volta - credo - che sui comunicati italiani veniva una condanna così dura di un atto sovietico. Arriviamo al 1964: la scomparsa di Palmiro Togliatti e il memoriale di Yalta, scritto poco prima di morire e per certi versi ancora enigmatico. A distanza di tanti anni, quale idea si è fatto sul significato di quel documento e sulle sue finalità? Quel memoriale togliattiano non era enigmatico: voleva essere chiaramente un tentativo per stabilire un dialogo più diretto con Kruscev, per costruire una continuità di colloquio che permettesse anche di superare le divergenze fra i dirigenti sovietici, i cinesi e i titini, che erano nuovamente in rottura con Mosca. Ma la morte stroncò quel tentativo. E presto vennero nuove gravi tensioni fra Mosca e la Cecoslovacchia di Dubcek. Nelle ultime pagine della sua narrazione lei descrive le tragiche ore del rapimento di Aldo Moro. Non nutrì mai perplessità di tipo umanitario circa il vostro atteggiamento di assoluta fermezza? Allora no. Mi schierai in favore della linea della difesa dello Stato e delle sue istituzioni. Anzi scrissi una lettera che conservai nel mio cassetto. Era rivolta a mia moglie Laura: esigeva, nell’ipotesi di un mio rapimento - tutti eravamo esposti alle mosse dei brigatisti- che anche se dalla prigionia avessi chiesto che si agisse per un compromesso con i miei rapitori bisognava respingere la mia richiesta e mantenere di fronte ai terroristi una linea di assoluta intransigenza. Oggi forse scriverei cose diverse: allora, probabilmente, si poteva avere un atteggiamento che salvasse la vita di Moro e poi riprendesse con ancora più vigore la lotta contro i brigatisti. Peraltro, non sono convinto che sull’«affaire Moro» ancora oggi sia emersa tutta la verità. Ancora non mi è chiaro, ad esempio, il famoso episodio di Gradoli: il dispiegamento di forze messe in campo per perquisire quel piccolo paese dell’Italia centrale e, invece, la totale assenza di controlli nella via romana che portava quel nome. Nella prima parte del libro lei scrive del valore antifascista e democratico della scuola, e fa riferimento al liceo che frequentò, nel quale insegnarono alcuni dei quadri antifascisti che diversi anni più tardi saranno coinvolti nella lotta partigiana. Quali furono gli stimoli che riuscirono a fare maturare in quei giovani maestri la sensibilità nei confronti della democrazia e della libertà? Durante il regime fascista ci furono nei licei degli insegnanti coraggiosi che si servirono della cattedra scolastica per stimolare la lotta antifascista. A Roma il liceo Visconti, ad esempio, ebbe professori che agivano coraggiosamente dalla cattedra per educare i giovani alla libertà. Da quella scuola difatt, venne fuori tutta una leva di giovani antifascisti: Bufalini, Pietro Amendola e altri ancora. Anche nel liceo di Formia in cui io studiai - il Vitruvio - incontrai due figure carissime di giovani insegnanti di storia e filosofia: Pilo Albertelli e Gioacchino Gesmundo. Purtroppo finirono poi nelle carceri naziste di Roma e furono assassinati nel massacro delle Ardeatine. Quando ritorno sul luogo dell’eccidio, è sempre per me una grande emozione rivedere nella selva degli assassinati dai nazisti, i volti spenti e morti di quei miei due maestri. Non ebbe mai dubbi sulla legittimità dell’attacco partigiano in Via Rasella, che lo provocò? Assolutamente no. Eravamo in guerra contro gli invasori del nostro Paese, massacratori del nostro popolo. E la barbarie della risposta nazifascista a quell’attacco di via Rasella - l’eccidio delle Fosse Ardeatine - è una conferma clamorosa del livello a cui giunse la ferocia nazista. Se penso a quel massacro - più volte sono tornato al sacrario che ricorda quell’eccidio - provo ancora una grande emozione, scrutando quella lunga selva di morti, e i volti immoti di quei due maestri che avevano contribuito a educarmi alla libertà, e che proprio alle Fosse Ardeatine avevano perso la vita. Universo chiamato famiglia LUCA RICCI "L’amore e altre forme d’odio" pp. 141, euro 11 Einaudi, 2006 Ventuno racconti per disegnare un’etologia del quotidiano vivere incentrato sui rapporti di coppia, d’amore e d’odio. L’autore esplora nel chiuso di camere matrimoniali e negli interstizi di rapporti apparentemente tranquilli, cammina sul campo minato di relazioni che sfociano in incubi quotidiani, punteggiati da dispetti, vendette, conflitti, aggressività pronte ad esplodere in quell’universo domestico chiamato famiglia. LO SGUARDO DI SITI Sul libro di Walter Siti Troppi paradisi (Einaudi) si è già detto molto. Lo scrittore Nicola Lagioia lo ha definito «il più bel libro italiano degli ultimi anni», o qualcosa di simile. Goffredo Fofi lo ha elogiato su "Internazionale": «Quel che nei libri precedenti c’era di compiaciuto ed esibito, anche nell’autodenigrazione, qui è depurato e finalizzato; l’"autobiografia contraffatta" serve a raccontare il mondo, partire da sé è un terreno di esplorazione e di giudizio». È vero, non c’è compiacimento alcuno, non è questo il problema. Il problema, squisitamente letterario, è che Walter Siti conosce benissimo la televisione e ne sviscera l’irrealtà e la falsificazione con piglio da sociologo e da antropologo. Ma la narrazione di rado prende quota. Siti ci racconta di un sacco di vip e vippetti, per esempio la conduttrice D’Eusanio, coi suoi salotti taroccati, ci mette dinanzi a una quantità di aneddoti, anche da corridoio, i flirt di questo e quello, le sveltine, i ricatti, i magheggi sotterranei per le carriere, ed è una sostanziale immoralità che regola i rapporti umani fra coloro che lavorano nella televisione (ma altrove la solfa non è molto diversa). Tuttavia non è quasi mai uno sguardo da narratore quello di Siti; manca, a mio parere, proprio quel «movimento romanzesco» di cui ha parlato Lagioia per protestare contro l’accusa di narcisismo destrorso che gli avevano lanciato Di Mauro e Cordelli dalle colonne di "Alias". D’accordo, non confondiamo le idee dell’autore con quelle del personaggio romanzesco, Lagioia in questo ha tutte le ragioni. Ma qui non c’è abbastanza selezione, gli eventi non acquistano quasi mai spessore drammaturgico. Certo, il libro è bello quando il personaggio racconta spietatamente lo squallore piccoloborghese dei genitori, o la morte del padre, sono efficaci certi dialoghi a due fra il protagonista sessantenne e il suo giovane compagno (anche se talvolta non si capisce chi dei due parli), è autentico e straziante Siti quando ci mette di fronte al disfacimento dei corpi che invecchiano. Ma sono isole fra teorizzazioni faticose sull’Occidente narciso e corrotto e sequenze di aneddoti ripetitivi nella sostanza e quasi irrelati. D’accordo, lo stile di Siti, coerentemente con l’assunto filosofico del libro, tende a omologare gli eventi dando a tutti la stessa importanza. Il problema è forse personale, nel senso che non riesco a considerare in modo così totalizzante l’universo televisivo. Mi chiedevo poi se l’indice di gradimento di questo libro presso un certo ceto intellettuale sarebbe stato il medesimo qualora la voce narrante fosse stata di un etero e non di un omosessuale. Si dirà, queste sono problemi d’altri tempi, da anni cinquanta, c’è stato Pasolini, c’è stato Sandro Penna, c’è stato Tondelli, c’è stato Arbasino e c’è stato Busi... Ma qui c’è un sovrappiù di sfacelo fisico, la vecchiaia che incombe. E allora un gay pingue e sessantenne, impastoiato nel magma della tivù, ci sembra davvero, in epoca postmoderna, tanto trasgressivo e à la page. A un certo punto nel libro il narratore rende un tributo (omaggiosberleffo) ad Alberto Arbasino, che lo tratta con snobistico e incomprensibile disprezzo. Macroscopico errore: perché per molti versi il romanzo di Walter Siti è proprio arbasiniano per la chiacchiera giocata su registri frivoli, colti e spregiudicati e anche per come ambisce «a racchiudere, a rimescolare, l’intera contemporaneità» come afferma la bandella di copertina. INES TESTONI ASSOCIATO DI PSICOLOGIA SOCIALE ALL’UNIVERSITÀ DI PADOVA. "PSICOLOGIA DEL NICHILISMO" (1997), "IL DIO CANNIBALE" (2001), "IL SACRIFICIO DEL CORPO" (2002) D i Emanuele Severino è uscito l’ultimo libro della trilogia che, assieme a Dall’Islam a Prometeo e Nascere, considera alcune forme essenziali della fenomenologia con cui attualmente appare il tramonto del pensiero tradizionale e lo sviluppo della tecnica proiettata verso la costruzione del proprio paradiso. Il muro di pietra è infatti un’opera in cui vengono riprese le argomentazioni che mostrano come la cultura sia la base del potere e come attraverso il dominio della filosofia esso raggiunga la sua espansione massima. Oggi che l’identità tra potere e volontà di potenza si manifesta in tutta la sua portata violenta grazie proprio alla riflessione di Severino, riteniamo che non possa passare sotto silenzio l’importante coincidenza tra questa sua pubblicazione e il richiamo da parte di Papa Ratzinger - risonante come un’intimazione in tutti i messaggi mediatici italiani, durante la vigilia della commemorazione della caduta delle Torri gemelle - rivolto agli occidentali affinché abbandonino il cinismo che tanto spaventa coloro che invece credono in Dio. Anche se la massima autorità vaticana ben si è guardata dall’essere esplicita rispetto al perché parlare proprio in questi termini il 10 settembre (in Sicilia dicono «la meglio parola è quella taciuta») purtroppo il messaggio protrettrico, che se fosse stato semplicemente asserito da un antropologo o da uno psicologo sociale in un qualsiasi articolo avrebbe potuto risultare addirittura banale, esposto da un Papa quel giorno di domenica ha risuonato come una severa minaccia: se non credi in Dio, succede quel che è successo a New York cinque anni fa, in scala mondiale, viste le attuali corse agli armamenti nucleari di taluni paesi molto credenti e molto ricchi grazie al petrolio. Poiché il pragmatismo occidentale la fa da padrone nella mentalità del senso più comune, al quale queste parole sono rivolte, o il Papa è un ingenuo oppure è scaltro e sa benissimo che la base della fede è il terrore, come mostra Severino e come, più limitatamente, confermano eminenti ricerche empiriche psicosociali. Dunque bisogna spaventare la popolazione per riempire le chiese. Certo se così fosse il messaggio d’amore, con questa semplice asserzione da senso comune, sarebbe tradito nel più profondo della propria struttura cristiana dalla massima figura spirituale che se ne fa portavoce, perché viene in questo modo affermato che è la paura ciò che muove alla preghiera e a Dio, e quanto più essa è forte tanto più l’anima si sente rapita dall’argomentum non apparentium, pronta ad attribuire potere a chi sembra che sappia che cosa siano i non apparentia. Certo suona come una sfida infine l’infallibile citazione contro l’Islam pronunciata in terra bavarese, quasi a voler creare le condizioni oggettive per dimostrare, nel caso non l’avessimo ancora capito, che siamo tutti seduti su una polveriera: basti infatti vedere come reagiscono i musulmani a semplici battute che mettano in questione il loro Dio. Ben altre critiche sopporta il cattolicesimo! Se per un verso una tale sortita non può esser annoverata tra quelle che risplendono tra le strategie per promuover la pace e la nonviolenza, per l’altro ci conferma che ormai ci siamo lasciati accerchiare dalla violenza di una fede con cui credevamo di aver già chiuso i conti. Ma in guerra, infatti si sa, i luoghi di culto sono sempre gremiti e l’appello a Dio, al quale ogni soldato più o meno scaramenticamente si rivolge prima di sfidare la sorte, ha sempre avuto il potere di muovere gli eserciti. Dunque per un verso convertire l’Occidente alla fede, come parallelamente intima anche Al Qaeda, è ciò che può evitare la guerra, salvo poi mandare su tutte le furie i fratelli fedeli orientali perché costringano il mondo cristiano all’autodifesa. Ora al bravo pragmatista occidentale, che ha poca voglia di vedersi abbattere i più attuali luoghi di culto in cui si celebra l’adorazione di qualsiasi simbolo del potere e della garanzia di egemonia, del simbolo sacro a quello economico, o di trovarsi paralizzati i mezzi di trasporto essenziali per mantenere i ritmi di produzione del progresso tecnologico stabilito, ha solo un’incognita da risolvere: poco importa il credere o no in Dio, se questo garantisce il mantenimento degli equilibri inter- EMANUELE SEVERINO . Se gli studi di psicologia sono arrivati a riconoscere la matrice violenta della fede non sanno però stabilire perché sia così. E questo è ciò che discute la filosofia di Severino, il quale, a proposito della crisi delle certezze tradizionali occidentali, usa la categoria della necessità IL LIBRO EMANUELE SEVERINO "Il muro di pietra" pp. 204, euro 19 Rizzoli, 2006 Dove comincia il tramonto? Si completa la trilogia incentrata sulla tradizione filosofica, che al suo terzo libro arriva al «tramonto». Una impietosa e acuta ricerca della verità tra religione, teologia, episteme e filosofia. Se a sostegno della fede può insediarsi il terrore L’ I N T E R V I S T A Com’è difficile trovare chi possa abbattere i muri di pietra GIANNI BONINA I n questo libro Severino torna a insistere sui temi della fede e della verità, non senza implicazioni letterarie. Stilos lo ha intervistato. Lei è ateo? Sia l’ateismo sia la negazione dell’ateisimo appartengono all’alienazione della verità, alla sua negazione. Voglio dire che la critica che muovo nei miei libri a Dio e alla fede in Dio o al concetto di Dio è di segno opposto rispetto all’ateismo riduzionista che dice che la vera realtà è questa, di questo mondo sperimentale, e che Dio è un sogno troppo grande da cui dobbiamo liberarci. No, il mio discorso guarda proprio all’opposto: Dio è un sogno troppo piccolo di cui dobbiamo liberarci: cioè la dimensione della verità è qualcosa di infinitamente più ampio, più profondo che non tutti gli dei che sono stati evocati dai mortali a partire dagli dei arcaici fino al dio del cristianesimo o dell’islamismo. L’ateismo come la sua negazione sono negazione della verità, perché hanno la stessa anima: credono che l’essere sia di per se stesso nulla. Sia un ateo come Leopardi, il quale dice che tutto esce dal nulla e tutto ci finisce, sia colui come Francesco d’Assisi che dice che c’è un dio che crea il mondo e che salva dal nulla, hanno la stessa anima perché entrambi credono che le cose prodotte o no da un dio escano dal nulla e tornino nel nulla. Perché le cose escano e ritornino nel nulla per l’uno c’è bisogno di un dio creatore e distruttore e per l’altro non c’è bisogno di nessun dio. La posizione leopardiana appartiene a uno dei momenti accomunati dalla stessa Follia. Ho lavorato a lungo su Leopardi da considerarlo uno dei pochissimi rappresentanti più rigorosi della Follia, di coloro che affermano e negano Dio. Da Leopardi si va a Dostoevskij e quindi a Nietzsche. E poi a Gentile. È questa la sequenza di coloro che sono radicali nella negazione del muro di pietra, cioè di un ordine immutabile, divino, eterno. Nella sua visione manca però Kierkegaard a fare da contraltare. Manca in questo libro ma non in altri. Del resto Kierkegaard appartiene agli «amici di Dio» e non è che sfugga al discorso che abbiamo fatto. Siccome a un certo punto dice che per trasformare il nulla in essere occorre la libera grazia di un dio... Lo dico per descrivere la Follia di coloro che credono in un dio senza il quale non ci potrebbe essere la trasformazione del nulla nell’essere. Non lo dico in proprio. Quel che io intendo mostrare è la coerenza dello sviluppo che porta alla Follia dalla sua forma meno rigorosa per quanto potente, e che si presenta all’inizio del pensiero occidentale, alla sua sua forma pià rigorososa qual è quella presente in Leopardi, Nietzsche e Dostoevskij. Rappresentare la coerentizzazione progressiva della Follia non significa essere amici della Follia ma semmai una negazione della Follia nichilistica. Se oltre il muro di pietra c’è il caos, la vita indicata da Nietzsche, Cristo sta con il caos? Lei dice di sì perché sta al di là della «rete» e cioè del principio aristotelico di non contraddizione. In Dostoevskij agiscono più livelli. Primo livello è il suo pensiero su qualcosa. Poi c’è la riflessione su questo qualcosa, la critica al muro di pietra, secondo livello, che è la contemporaneità. Terzo livello è lo sfondo, che consiste in ciò che chiamo «destino della verità». E poi in Dostoevskij c’è il «mare», ciò che sfugge a ogni «rete» e che implica la cristicità. Dostoevskij si illude di potere evocare una dimensione che sfugga a ogni rete; e per lui questa dimensione è appunto Cristo - mentre per Nietzsche è il caos, per Karl Barth l’assolutamente altro, per il neoplatonismo è l’Uno che sta al di là di qualsiasi rete concettuale. Ebbene questa è una millenaria illusione, perché «l’amico del mare», chiamiamo così Dostoevskij, se gli si chiede se il mare sia rete lui risponde che no; ma quando dice che il mare è mare se ne esce con quella sua rete che Aristotele aveva chiamato il principio di non contraddizione. Quindi il modo di sfuggire a questa super rete non c’è, perché nell’atto in cui «l’amico del mare» ci tiene che il mare non sia rete in quell’atto stesso abbiamo l’«esser sé» del mare. Lei assume il Dostoevskij sia delle Memorie del sottosuolo che dei Fratelli Karamazov. Ci sono vari aspetti in Dostoevskij. Mentre Leopardi è lineare e perentorio nella distruzione del muro di pietra, Dostoevskij non lo è altrettanto. Se dovessi fare una graduatoria direi che i pochissimi che sanno abbattere i muri di pietra sono Leopardi, Nietzsche e Gentile. Dostoevskij è quanto mai rilevante perché si avvicina alla radicalità della distruzione di questi pochi protagonisti della negazione della tradizione occidentale. C’è il Dostoevskij che dice che anche se la verità dicesse l’opposto di quello che dice Cristo lui starebbe con Cristo. Anche qui si impantana in contraddizioni: quando dice di scegliere Cristo, se gli chiediamo perché non possa scegliere insieme la verità e Cristo vediamo che credendo di liberarsi dai muri di pietra si appoggia al più solido di questi muri irto all’interno della cultura occidentale. Poi c’è il Dostoevskij dei Fratelli Karamazov e del "Grande Inquisitore". Qui abbiamo un chiarimento di quanto dicevo all’inizio, cioè del perché amico e nemico di dio hanno la stessa anima: il «Grande Inquisitore» parla dello spirito della negazione, della morte del non essere con il quale si è alleato: ora, o si intende un Cristo che non abbia nulla che fare con la Trinità cristiana dove il verbo è il creatore del mondo e il distruttore quando sopraggiungerà l’Apocalissi - e allora non capisco più cosa vuol dire la parola Cristo nel discorso di Dostoevskij; o invece Cristo è coinvolto nel concetto trinitario per cui il verbo è creatore e distruttore del mondo - e allora viene fuori che ha la stessa anima di quel Satana con cui il «Grande Inquisitore» si allea e che è lo spirito della negazione, del non essere, della morte. Se il mito è la fede nel divino e la filosofia è la risposta al terrore terreno, perché lei antepone il mito alla filosofia? Perché il mito è la prima forma di rimedio contro il terrore della morte. Quando non basta più l’invenzione mitica ecco che sboccia la filosofia. Dunque prima l’uomo osserva, contempla, racconta e poi pensa? No, il mito viene prima della filosofia perché è il rimedio contro la morte, poi la posta in gioco diventa troppo alta perché ci si accontenti del rimedio mitico contro la morte e allora occorre il rimedio vero: ed ecco il riferimento a quella verità in cui consiste la filosofia. Per pensiero non dobbiamo intendere il pensare, perché anche l’uomo mitico pensa al terrore del mondo. Per pensiero filosofico dobbiamo intendere la verità in senso forte, il pensiero incontrovertibile, secondo il significato di incontrovertibilità che prima della filosofia non c’era. Sono stati i Greci a evocare il concetto di un sapere che non possa essere smentito né da uomini né da dei né da cambiamenti di idee e costumi. Quindi il muro di pietra non nasce con Dostoevskij ma con la filosofia. Certo. Il muro di pietra è la pretesa di un sapere incontrovertibile che non riesce a reggere perché è una pretesa fondata sulla convizione dell’uscire e ritornare nel nulla da parte delle cose. Vuole essere un sapere incontrovertibile del divenire creativo e distruttivo delle cose e ha in sé la Follia. Per questo i Greci parlano di «epistéme». Molto presto ho introdotto nel linguaggio la parola «destino» per indicare ciò che riesce a essere quell’incontrovertibile che invece il muro di pietra dell’«epsistéme» occidentale non ha saputo essere. Nella foto Emanuele Severino, autore per Rizzoli di Il muro di pietra nazionali - il problema urgente da risolvere è stabilire a quale religione convenga mostrare di dare il proprio consenso e sperare che questa guadagni una qualche forma di maggioranza tanto da ripristinare una qualche forma di rappresentazione del futuro che non sia la guerra totale… Ma i prodromi che hanno riportato la vertigine del dilemma nel pensiero dell’utilitarista grazie a discorsi religiosi sono iniziati all’esordio del fatidico mese di settembre, allorché il Papa ha parlato di tre cause che in passato hanno indebolito la chiesa, la quale invece sopravviverà anche all’attuale forte cinismo occidentale, e sono il marxismo, il nazismo e il femminismo. Forse può sembrare una qual forma latente di riconoscimento della parità culturale tra generi paragonare l’enormità dell’orrore determinato da Stalin e Hitler a quello di… chi citiamo - Simone de Beauvoir, forse? E detto in questi tempi in cui in nome di Dio si uccidono figlie e si lapidano adultere, mentre simultaneamente in forma più prosaica si violentano donne in tutti gli angoli di strada, certo fa venire in mente che dobbiamo fare i conti con un’altra guerra, quella appunto mai risolta di genere, destinata alla vittoria di tutta la Weltanschauung maschile determinata a volere che il mondo possa continuare a esistere come è esistito fin qui se si trova il modo per riportare le donne alla ragione prefemminista. Quindi anche per le donne ora significa dover stabilire a quale monoteismo sia meglio che il proprio marito appartenga e dato che la riduzione del danno è una soluzione che funziona bene dal punto di vista pratico, cedendo alla minaccia è probabile che in Occidente torniamo ad avere le chiese gremite di donne con il velo in testa anziché con il burka ovunque. Se gli studi di psicologia sono arrivati a riconoscere la matrice violenta della fede non sanno però stabilire perché sia così. E questo è ciò che discute la filosofia di Emanuele Severino, il quale, a proposito della crisi delle certezze tradizionali occidentali non si limita ad usare la banale definizione di cinismo, bensì la ben più difficile e complessa categoria della necessità. Partendo da tale «necessità» viene dunque in evidenza quanto cinico sia qualsiasi appello alla conversione pronunciata da un’autorità che, muovendo la paura e aumentando il rischio che ciò che è temuto diventi realtà, evochi la possibilità di non dover pagare il prezzo della propria laicità. La novità de Il muro di pietra consiste nel riconoscere, similmente a Leopardi, sebbene in misura minore, in Dostoevskij la statura del poeta capace di essere filosofo, perché uno dei maggiori interpreti dell’ultimo tratto che conduce l’Occidente dalla tradizione all’essenza del nostro tempo. Il centro di questa essenza consiste nel vedere la necessità della negazione di ogni certezza e verità assoluta, ovvero di qualsiasi immutabile. Messi in relazione alle imprescindibili tematiche della morte di Dio di Nietzsche e del conseguente senso dell’esistenza di Heidegger, i temi dei lavori dello scrittore russo considerati, principalmente Le memorie del sottosuolo e I fratelli Karamazov, risultano strategie di fuga per superare, scavalcare, eludere un «muro di pietra che ti sputa in faccia» - espressione tratta dal primo scritto - impedendo il proseguimento del cammino. Secondo l’analisi di Severino, si tratta di una figura metaforica che serve a richiamare i muri che i Greci costruirono come roccheforti per difendersi dalla paura e che ora sono diventati prigioni che sbarrano la possibilità di movimento, e poiché sono eretti sulla sabbia della fede nel divenire, sono destinati al cedimento, quello cui stiamo assistendo inermi non in quanto cinici miscredenti ma in quanto sgomenti spettatori. Ma il passaggio che noi qui vogliamo evidenziare è la ripresa - e lasciamo al lettore in compito di delibarne l’analisi - da parte di Severino del celebre personaggio del «grande inquisitore», de I fratelli Karamazov, ovvero della figura del cinico assoluto; di colui che manteneva l’ordine sociale svolgendo scrupolosamente il lavoro del Sant’Uffizio con persecuzioni, processi e conseguenti autodafè; di colui che, incontrato Cristo in carne e ossa, ha preteso da lui che tornasse a nascondesi perché se si fosse mostrato ancora avrebbe portato scompiglio tra le gente e dunque nulla lo avrebbe salvato da una nuova morte violenta: quella del rogo. E se non possiamo sapere se il Papa sia ingenuo oppure scaltro, certo non possiamo credere che sia ignorante. Allora viene da chiedersi: che cosa ancora impedisce a chi è uomo di potere grazie alla cultura di prendere sul serio la filosofia? pagina 5 Ossigeno S t los autori italiani BENEDETTA CENTOVALLI L’EREDITÀ CORTI Nella sala Manganelli - università di Pavia - avvolta dal buio delle ombre e dal silenzio, un rumore improvviso che proviene dal cortile sforzesco come un soffio di vento scuote una figura minuta china su un tavolo ingombro di fogli, poi finalmente il campanello rischiara la situazione, è il bidello Rocco alla porta: «"Oh cribbio, non dovrebbe stare qui sola a queste ore." / "Lavoravo e non mi sono accorta dell’ora." / "Cosa continua sempre a leggere e a scrivere?" / "Questa, Rocco, è una domanda che è stata già fatta ad altri scrittori." / "E cos’è che hanno risposto questi altri scrittori?" / "Che non sanno fare altro"». Nel reticolo dei testi di studio e dei testi narrativi Maria Corti ha disseminato una sorta di macroautobiografia mentale, una mappa della sua personalissima ricerca creativa che negli anni è diventata sempre più precisa e mirata. La tirannia del tempo è stata addomesticata e messa al servizio di un ordine prefigurato. Al caos e alla casualità degli eventi è subentrata la necessità di un destino che prende forma proprio dal trascorrere del tempo, dal suo consumarsi, dal suo trasformarsi in altro disegno. Maria Corti ci ha lasciato un bagaglio complesso di opere da decifrare anche nel loro insieme, bagaglio in cui è impossibile scindere davvero la studiosa attrezzatissima, la filologa compiuta dalla narratrice libera, dall’esercizio dell’invenzione che indipendente trova i suoi percorsi personali e privati. Dal saggio dantesco al romanzo la sua voce resta invariata, ci sono elementi dell’uno che si trasferiscono nell’altro, traslocano, si cambiano d’abito, nella rintracciabilità di una matrice unica e inconfondibile. Negli ultimi anni ha riconquistato spazio la vocazione narrativa, quella a cui Maria Corti parrebbe affidare il suo testamento spirituale e la sua immagine pubblica più cordiale. Saggista affilata e erudita, della Corti è impossibile non ricordare lo scatto dell’intelligenza unito alla carica di un umanissimo sapere. Nei suoi lavori si accende sempre la scommessa di una comprensione più ampia, la propensione a un dialogo possibile, l’esercizio di una seduzione intellettuale che deve però trovare le sue ragioni nella conoscenza e in un’etica della ricerca («le due motivazioni che San Bernardo attribuiva al sapere: per apprendere, segno di umiltà; per insegnare, segno di carità»). La stessa inclinazione all’attualità, il tentativo costante di leggere il proprio presente e lo sguardo interrogativo e curioso verso le nuove generazioni, tengono vivi e pulsanti i suoi studi, tolgono polvere e distanza anche a lavori all’apparenza destinati a più che selezionati esperti. Ombre dal Fondo (Einaudi, 1997), Catasto magico (Einaudi, 1999) e Le pietre verbali (Einaudi, 2001), ultimi libri creativi della Corti, si configurano quasi come una trilogia sospesa tra memoir, saggio e racconto. Narrazioni che praticano la prima o la terza persona, premono il pedale di una scrittura saggistica, ne controllano il limite, lo tengono a registro. La «memoria» delle Carte, il mistero fabuloso e germinativo dell’Etna, il Sessantotto visto attraverso la rivoluzione linguistica dei suoi protagonisti, appaiono come occasioni narrative prestate a riflessioni e esperienze non finzionali che ruotano intorno all’universo creativo e in continua espansione della Corti. Punti luminosi di un suo tragitto che sempre muove dal reale al mentale, legato com’è «al tocco giusto dell’occhio, che interiorizza, interpreta e quindi riscrive». 6 differenza di ciò che pensa l’autore, a me sembra che Olive comprese non sia tanto un nuovo libro, quanto un libro nuovo rispetto al passato, da cui per molti versi si disancora. Infatti, la coralità della storia si accresce visibilmente: è vero i romanzi di Andrea Vitali sono stati sempre corali. Ma in essi si individuavano i protagonisti, e Bellano e il lago erano quello che nelle tragedie classiche è il coro. Qui, invece, è il coro il protagonista, e all’interno di esso ogni tanto una voce solista fa sentire la sua voce. Inoltre, emerge prepotentemente un inatteso risvolto onirico e surrealistico. Prima in modo seminascosto, poi con sempre maggiore forza e compiutezza. Si tratti di giocare al lotto i numeri di una delle tante piccole e grandi tragedie che si verificano a Bellano, sia che si tratti dei sogni della povera signora Dilenia Settembrelli e della sua amica Eufrasia Sofistrà. Mano a mano che la storia va avanti l’onirico si trasforma in surreale, alla maniera dei grandi francesi, da André Breton a Paul Eluard a Louis Aragon, a cui peraltro non fa il verso, avendo una propria spiccata autonomia stilistica e narrativa. A dispetto di quanto sostiene Antonio D’Orrico, la cui lettura di Olive comprese è stata probabilmente affrettata e viziata dalle sonorità del passato, qui non c’è per nulla di Piero Chiara, c’è dell’altro. In qualche modo si intravvedono, oltre all’epifenomeno surrealista, elementi narrativi di sostanza, quelli che, negli ultimi tempi, ho trovato solo in Houellebecq, cioè l’ipogeo esistenzialista, che torna con vigore in una letteratura spenta dai narcisismi baricchiani. Olive comprese, in definitiva, è un romanzo neoesistenzialista, ma, a differenza delle opere di Houellebecq, non è affatto un romanzo reazionario, smentendo in tal modo l’idea serpeggiante che l’esistenzialismo dei nostri giorni non potesse che essere retrivo e reazionario. Le molte perplessità, che mi si erano affacciate leggendo un testo di questo genere, derivavano forse dalla pigrizia del lettore al sentire una musica diversa da quella attesa, e ormai risultano quindi spazzate via dalla riflessione sul romanzo di Vitali, ripassato come una ampia e succosa antologia, prima di manifestare un’opinione convinta e, spero, convincente. Ho incontrato Andrea Vitali nella sua casa di Bellano. Adagiata sulla collina a Est del lago, la sua abitazione è costruita in modo da poter godere nel modo più completo della vista dello specchio d’acqua: ora ridente, ora corrusco, mai statico, immobile o spento. Un piccolo mare, in cui l’agitazione del vento che spira violento dalle forre che lo sovrastano, mai riesce a provocare i cavalloni di un Grecale, il vento che in pochi attimi dà al mio Ionio i connotati tempestosi, di cui parla già Omero nell’Odissea. Un piacere vero chiacchierare con Andrea Vitali, davanti a un bicchiere di generoso vino valtellinese e a un piatto di speck. Della nostra conversazione riporto pochi brani, quelli che mi sembra possano interessare di più i lettori. Un nuovo romanzo, Andrea Vitali, o un romanzo nuovo? Io direi un nuovo romanzo. O, perlomeno, non mi sono accorto dell’eventuale novità. Come al solito, pescando questa storia, mi sono preoccupato di raccontarla al meglio approfittando via via delle opportunità narrative che mi ha offerto, due delle quali sono la visionaria Dilenia Settembrelli e la sua degna compare Eufrasia Sofistrà. La vera novità ci sarebbe stata se il teatrino su cui la storia è inscenata non fosse stato il solito, invece sono ancora lì, avvinghiato all’unico protagonista seriale cui resto fedele, il luogo e la sua geografia. Mi sembra che la follia, come elemento normale della vita quotidiana, sia la scoperta di questa costruzione narrativa. Un fattore permanente e sottostante in tanti rapporti familiari, sociali, ideali. Una follia quieta e talora prorompente, anche violenta, ma non violentissima, accettata e subita dalla piccola collettività che lei mette in scena... Vuole aggiungere qualche considerazione? La follia, ma anche la semplice esuberanza, l’originalità, come viene chiamata ogni manifestazione che vada La storia patria mercé il romanzo ANDREA VITALI "Olive comprese" pp. 452, euro 16 Garzanti, 2006 DOMENICO CACOPARDO Nella foto Andrea Vitali che da Garzanti ha pubblicato Olive comprese L’ A U T O R E IL LIBRO VIVE A PARMA. CONSIGLIERE DI STATO. ULTIMO TITOLO "L’ACCACDEMIA DI VICOLO (BALDINI, BACIADONNE" 2005) A S t los autori italiani pagina Medico condotto di Bellano, Andrea Vitali si è fatto conoscere nel ’90 vincendo il premio Montblanc per il romanzo esordiente, con Il procuratore. Quel libro è visto oggi come la prima pietra della cosmogonia nella quale Vitali si trova impegnato da anni ricostruendo, sul piano dell’invenzione letteraria, la storia del suo paese: una storia circoscritta a una speciale epoca, gli anni tra le due guerre, specie i Trenta, quelli più paciosi e tanto poveri di storia ufficiale quanto ricchi di vicende private. A Bellano Vitali ha anche dedicato saggi di ricerca storica, ma è soprattutto nel romanzo che ha ricercato il filo della narrazione tra realtà e immaginazione. Sono così venuti titoli quali Una finestra vistalago (2003), La signorina Tecla Manzi (2004) e La figlia del podestà (2005), da aggiungere alla raccolta di racconti L’aria del lago (2001) e ai romanzi più datati nel tempo: Il meccanico Landru (1992) e Un amore di zitella (1996). La pantomima dell’Italietta Romanzo corale e polifonico, com’è nella cifra dell’autore comasco, Olive comprese ricrea la Bellano degli anni Trenta sorprendendola in un particolare stato soporifero, sotto la guazza del quale si svolgono esistenze quotidiane e minimaliste, vicende private e intrecciate nel gioco del chiacchiericcio e della minorità provinciale. Nuovi personaggi e altri già visti nei romanzi precedenti si incontrano per dare vita a una pantomima che moltiplica le versicolarità. Ma nel fondo agisce, come sempre, un oggetto oscuro di mistero, questa volta una morte inspiegabile. Sulla quale in maresciallo Maccadò è chiamato a indagare. ANDREA VITALI . Ancora Bellano, il paese dell’autore, teatro di una rappresentazione corale: «Poiché i miei "informatori" hanno vissuto l’epoca fascista resto fedele alla cornice storica che trovo peraltro divertente: mi riferisco a quegli anni Trenta dove un fascismo tronfio e molto borghese aveva trasformato l’Italia in un palcoscenico da operetta mentre ancora lontani erano gli anni delle brutture» Ho portato il dramma del Paese nell’operetta del mio villaggio SECONDA LETTURA Vizi e virtù di personaggi riuniti attorno a un ramo del lago di Como FEDERICA DI LUCA P er i personaggi di Olive comprese, che di Andrea Vitali è il nuovo romanzo edito da Garzanti, la lacustre Bellano si tinge di giallo. Chi ha ucciso la vedova Fioravanti? E i piccioni di Bellano sono davvero innocue bestiole? Dove si trova, insomma, «l’arma mortale» che il pervicace maresciallo Maccadò non esita a frugare fra le quotidiane esistenze dei laghè? Perché, qui si racconta di vite private e certo consuete, ma non banali, le quali poi, compiutamente, si compongono, pezzi musivi perfetti, in vicende d’istintiva e giocosa ironia, rivelando dell’autore bellanese l’ennesima prova di perizia narrativa, per storie senza respiro da non sembrare di invenzione, tanto sono ben congegnate da scorrere veloci fra le righe. L’autore della Figlia del podestà riconferma il culto innato del fatto, l’attitudine a raccontare la vita, conducendo, spontaneo, lo sguardo oltre la superficie e scrutare, ardito, una profondità che, lungi dal cedere a derive esistenzialiste, è resa, altresì, con agile schiettezza, in pagine sapidissime di vicende a catena, dalla fine psicologia. Così Andrea Vitali narra vizi e virtù di personaggi strettamente legati al suo lago, soffermandosi, anche, sugli aspetti più morbosi, per concedere poi il disincanto di uno scorcio felliniano: nella provincia comasca, ancora priva delle lividure della guerra, ma già amaramente presentita dagli echi belligeranti del nazionalismo franchista, vediamo sfilare, certo, la solita perpetua, il podestà ma anche balordi di amara malinconia. I «vitelloni», Ludovico Navacchi, il Risto, il Chiarabotti, il Valenza, perdigiorno dalle vite dissipate e illividite dalla noia, autori di bravate e di un mare di guai, destinati a perdersi in quel clima d’acquario, verso il quale il Chirabotti, spedito, dritto, al fronte dall’autore dei suoi giorni, deciderà di non fare più ritorno e in cui il Navacchi, dopo il soggiorno a Roma, stenterà a riconoscersi. Come dire: signori, questa è la vita, sebbene Vitali concede di farne conoscenza tramite pagine ilari e talora propriamente comiche da risultare nel complesso, assai godibili. Ma leggere Olive comprese significa anche fare la conoscenza di una morbida magia: vedere davvero le nubi piovane sullo specchio del lago, distinguere, spumose, le scie d’acqua dei battelli, fino ad avvertire - poiché è questa è anche la loro storia - i miagolii dei gatti del paese. Gatti piagnucolanti e ingombranti, gatti affranti per i quali si reclama il diritto a partecipare a un funerale, gatti accostati a donne svanite, come la Dilenia Settembrelli, eccentriche, come la Sofistrà, domestica sacerdotessa, alle prese con strani misteri, davvero indispensabile alla quiete di casa Settembrelli, ma anche donne tenere come la Filzina che al momento opportuno saprà dimostrarsi forte. Ma questa è anche la storia di Bellano, e del suo autore le cui storie germinano su un lago lombardo, come già nel passato, senza fare paragoni, su un lago lombardo presero vita racconti di Chiara e pagine di Hemingway, sebbene Vitali persegua una strada del tutto autonoma. FLAVIO SANTI. Un romanzo metastorico di torbidi e orrori Mostri della terra e della mente È una sera d’aprile di fine SetteVIVE A MESSINA. INSEGNA cento. In una taverna palermitaLETTERATURA ITALIANA ALna capita un avventore d’ecceL’UNIVERSITÀ. "NELLE STOzione: J. W. Goethe, appena giunto RIE DEGLI ALTRI" (RUBBETTIper mare da Napoli. Da più di dieci NO, 2006) anni sta lavorando al Faust, ma si sente «come in letargo, senza idee». ScoGIUSEPPE AMOROSO prirà in Sicilia la vera esistenza del Male «nella carne più terribile e osce- cose, indifferenti, hanno sempre la stessa pigrizia. na, quella della vita reale». Al suo tavolo si avvicina un uomo Un «baratro» inghiotte la famiglia nomisterioso, con una strana luce negli biliare. Adamo uccide ferocemente il padre Lucifero e occhi e una cicaviene rinchiuso trice sul volto. Al poeta racconta, Recensioni in manicomio. Federico, sconin un toscano FLAVIO SANTI volto, cerca di ricorretto ma scre"L’eterna notte trovare un po’ di ziato da una forte dei Bosconero" serenità, ma si inflessione sicipp. 227, euro 16 imbatte «solo in liana, la storia dei Rizzoli, 2006 sogni, incubi, fratelli Adamo e fatti spiacevoli, Federico, ultimi discendenti della famiglia baronale miraggi». Malato, torturato da amnedei Bosconero. E si snoda una sinistra sie e tremendi dolori di testa, cade vicenda di follia, orrende morti e cupe spesso nella narcolessia, vivendo così dannazioni, disordini del mondo che «in bilico tra il mondo dei vivi e quelesplode nel suo buio, mentre fuori le lo delle ombre». Con L’eterna notte dei Bosconero Flavio Santi scrive un torbido racconto di mostri della terra e della mente, in una rappresentazione ambigua, smemorante e che, tuttavia, appare il termometro di una dizione severa e sapienziale, onirica e anche critica (esemplari le pagine sulle misere condizioni degli oppressi e, in genere, sui costumi isolani del tempo), millimetrica nel misurare il concreto e visionaria nel farlo sparire nei sortilegi del febbrile cosmo. Di conseguenza, pur privilegiando gli orrori e le magie, l’autore domina gli scarti più imprecisabili, commenta le parole di quell’«Omero redivivo» che va schiudendo un nebuloso teatro dell’assurdo, in cui recita la più perversa anima degli uomini e l’infuocata Sicilia d’agosto mostra un insolito paesaggio di neve. Macabre scoperte di cadaveri decomposti, messinscene infernali, una «piovra» che svolazza sopra i tetti della civiltà che «solo un malato può desiderare», una «cosa simile alla rovina», odio e amore che stanno «come un groviglio di serpi in letargo», fosche leggende, manipoli di uomini acquattati in un dipinto, incarnazioni cicliche di demoni e vampiri si susseguono in un romanzo spaziato dallo «spettacolo» delle dicerie all’«appuntamento con una cometa». Si fronteggiano due diverse concezioni del mondo: una nordica, razionale e l’altra mediterranea, «disposta a venire a patti con il destino e le forme invisibili», innervandosi in una delirante processione di volti: Nervetta, che si muove «come una farfalla»; lo scolopio Telamonio e il servo Barcellona; un abate, nemico dell’umanità, e un medico con una «voglia elettrica di capire», e le inesauribili, negative figure di un viaggio verso il male, la morte, che se può richiamare l’Horcynus darrighiano, vira, però, verso sagome sataniche. Ed è una «nuova scintilla per il Faust». Nell’affannosa dispersione del tempo tutto è vero e tutto è falso: e se fosse «falsa» anche la luna? sopra o sotto le righe, è una componente importante nella mia vita. Non che io sia folle, non più di tanto o di tanti, ma la passione per la psichiatria, il suo studio, è un retaggio che ho dai tempi dell’università. Ci gioco, scrivendo, traducendola in grottesco, ma nella realtà, in quella professionale, è un elemento con cui fare i conti quasi quotidianamente. La follia nelle mie storie è una follia estrosa, molto simile alla fantasia di chi, per viverla degnamente, si inventa la vita. Come l’entomologo osserva i suoi insetti e li ama, così lei osserva il popolo del lago e lo mette in scena. Quali sono le reazioni dei suoi concittadini? Perlopiù positive una volta venuto meno finalmente il vezzo di voler riconoscere a tutti i costi questo o quello, come se i miei non fossero romanzi ma spaccati di cronaca dei tempi andati. Non manca chi li guarda con sufficienza e chi con aperta ostilità: a costoro posso solo suggerire di non acquistarli. Olive comprese è ancora un romanzo ambientato durante gli anni del fascismo e precisamente in quegli anni Trenta che vede come una «stagione d’elezione» e costituiscono il pabulum di quasi tutti i suoi romanzi. Perché la scelta di questo particolare periodo storico? È una scelta che si impone quando l’aneddoto che scatena la storia riguarda quel periodo storico. Poiché i miei «informatori» hanno vissuto quell’epoca resto fedele alla cornice storica che trovo peraltro divertente: mi riferisco a quegli anni Trenta dove un fascismo tronfio e molto borghese aveva trasformato l’Italia in un palcoscenico da operetta mentre ancora lontani erano gli anni delle brutture. Lei, prima che scrittore è anche medico condotto a Bellano, che è poi anche il suo paese natale. Viene fatto di dedurre che molti personaggi del romanzo siano in parte autobiografici. Cerco di stare alla larga dalla biografia e dall’autobiografia soprattutto, anche se non posso negare che spesso i miei personaggi sono la somma di varie osservazioni fatte sul campo, la piazza, il mondo dell’ambulatorio e altri osservatori che sono il mio bacino d’utenza dove trovo il materiale per costruire questo o quel personaggio. Circa l’autobiografia a volte ci casco e in Olive comprese il cacciatore guercio mi assomiglia da quando anch’io ho scoperto di avere un occhio destro parecchio invecchiato, ciò che è successo proprio durante un esercizio di mira. Fra moeurs de province e storia patria lei rivela vizi e pregi del nostro modo d’essere italiani. Ma gli italiani, a guardarli dallo speciale punto di osservazione che è la remota e paradigmatica Bellano, non sono proprio cambiati? Non lo so, non credo, mi auguro di no, auspico che resti un popolo dotato di fantasia, capace di arrangiarsi e assolutamente non cattivo. Mi è parso che i suoi personaggi siano uomini di amara malinconia, e forse solo un’evasione dal microcosmo di Bellano è in grado di scalfirla. È il Navacchi che trova pace e serenità in quel di Roma. Il Risto si accasa a Bellano e lì trascorrerà il resto della sua vita. La malinconia, per chi abita sul lago, è un’esperienza assolutamente non inusuale. Si sogna spesso di evadere, di abbattere i confini del piccolo, migrare verso un altrove dove sogniamo di essere più felici: ma un vero laghè, dopo due tre giorni di lontananza, comincia ad avvertire ancora la malinconia, quella del lago lontano, e deve ritornare. I personaggi femminili, la Sofistrà, soprattutto Dilenia Settembrelli, vivono in un «mondo altro», spesso estraneo alla comprensione dei più, che una costante presenza felina finisce con il sottolineare. Le donne vivono un altro spesso difficile da capire e spiegare. Più fantasioso anche, ed è questo che fa invidia agli uomini. Lei è accostato a Piero Chiara e Mario Soldati. Ho debiti con Chiara e Soldati e molti altri autori, tanti italiani del passato e contemporanei. Ma ciascuno batte una propria strada particolare. Che cosa bolle nella sua pentola? Una storia di ladri, ambientata negli anni Cinquanta già sostanzialmente pronta mentre il lavoro in corso è una nuova storia con cornice anni Trenta relativa alla sparizione di un discreto numero di antiche monete d’oro zecchino. La prima si intitola "Guardia e ladro", la seconda "Galeotto fu il collier": titoli provvisori, ma non troppo. [Parte dell’intervista è di Federica Di Luca] P revale l’amore nel romanzo di Giancarlo Marinelli, Ti lascio il meglio di me, premio Campiello 2006. È capace di vincere la distanza ed il tempo questo amore lucreziano che percorre tutti gli esseri viventi, in una continuità che nemmeno la morte può spezzare. E se qualcuno si è distratto, ci sono sempre gli omini del bosco, geni buoni che raccolgono in un sacchetto tutti gli sguardi che hanno incrociato durante la giornata e che vogliono tenere con sé. Dunque, se non moriamo, è anche «perché qualcuno che nemmeno conosciamo ci ricorda». Tanto più, allora, se è una scelta d’amore. È il segreto del quinto cerchio questa eternità d’amore? Nel buio in cui precipita Sebastiano dopo la perdita della figlia, una follia creativa lo spinge a ricostruire l’immagine di lei attraverso il suo lavoro di architetto. Invece Francesco vuole costruire una culla di legno - il suo tappeto volante per raggiungere il padre nel cielo? - per realizzare un desiderio di lui, che ha scolpito solo lapidi. Camilla lotta per accettare il bambino che porta in grembo, da quando è iniziato il disamore per l’uomo che di quel bambino non sa cosa farsene: perché dare alla luce un bambino è un po’ come dare alla luce una seconda volta l’uomo amato. Lo sa bene Giuliana, la madre che indossa un sorriso «sopra a un grido sopra la morte». Lei attende Sebastiano nella casa dove centuplica l’immagine di lui, perché il marito è la persona che ha amato al di sopra di tutti, e Minerva ne è stata il segno più grande. Anche Cedric ha il segno del padre sul viso, una lunga cicatrice inferta col coltello, che si sforza di giustificare come l’ultima carezza paterna. In un microcosmo compreso tra Ferrara e la foce dell’Adige agiscono personaggi che sembrano creati dalla fantasia popolare, con il mistero e la magia che si impastano alla nebbia. Su un secondo piano temporale, come se fosse figlio della fiaba, si staglia sul bosco Ombra Gigante, legato all’infanzia di due amici e poi ai loro figli, in un crudele disegno del fato. Su tutta la storia domina un indefinito loro, come una volontà suprema mai svelata. Ombra è come il bosco, fa paura perché non si può controllare, e lo segna il pregiudizio, ma è il detentore del mistero del quinto cerchio, la sua firma tracciata con carboni spenti. Figure minime ma ben delineate si intrecciano con le storie più grandi, la pietas del narratore per ognuna di loro. Anche per le stelle cadenti, perché sono meteoriti che muoiono. Figurine divertenti come le zitelle Malfatti, o la lettrice di A. Christie, anziane dalla fantasia fervida che si improvvisano detective e aprono di notte i cimiteri, e accendono fuochi e scagliano sale. Un sabba di streghe sembra sciogliere le lotte interiori come si scioglie la LIDIA GUALDONI L S t los Nella foto Giancarlo Marinelli, autore per Bompiani di Ti lascio il meglio di me GIANCARLO MARINELLI . Una esasperatissima storia di affetti e travolgimenti con mille implicazioni e corde dell’animo tirate fino allo spasimo. «Volevo scrivere la storia d’amore più grande, la più estrema, la più indelebile, la più inscalfibile che la mia fantasia potesse immaginare» IL LIBRO GIANCARLO MARINELLI "Ti lascio il meglio di me" pp. 362, euro 17 Bompiani, 2006 Tornare al passato per ricominciare Sebastiano e la moglie Giuliana perdono la figlia in un incidente. Lui si separa e torna nel paese natale, dove prova a ricominciare. Grazie a Ombra Gigante, l’amico d’infanzia. L’innocenza sradicata e l’elegia della bellezza VIVE A LUCCA. CURA UNA RUBRICA SETTIMANALE DI CRITICA LETTERARIA SULLA CRONACA DI LUCCA DE "LA NAZIONE" MARISA CECCHETTI nebbia lungo il fiume, mentre una campana suona da sola, e l’Adige sputa forme immonde, e in una grotta Ombra Gigante tiene la soluzione del mistero e dell’amore. Romanzo di grande spessore, intessuto con sapienza, carico di valori simbolici, dalle molteplici possibilità di lettura, con rimandi a grandi nomi della letteratura, Ti lascio il meglio di me si sviluppa con un ritmo teso, sostenuto da un linguaggio capace di trasfigurare la realtà, di esplodere, di fondersi con la musica, in una frequente «ossessione di poesia». Perché la morte, e soprattutto quella di un figlio, non si può elaborare se non attraverso parole di poesia, che la accarezzino e la raccontino al cuore in modo gentile. Stilos ha intervistato Marinelli. La Pietà ritorna nel suo romanzo, a cominciare da quella di E. Max, per proseguire con l’immagine di Sebastiano inginocchiato di fronte alla figlia, di Flavio di fronte al figlio, di Giuliana, di Sabrine, chine su Sebastiano stesso: queste immagini, che riportano calore e tenerezza alle mani degli uomini, nella loro universalità di significato, assumono il valore di una richiesta urgente d’amore nella società attuale? Assolutamente sì. Le mani degli uomini sono sempre più simili a lame, come dice Cedric; le lingue degli uomini sono sempre più simili a lame, persino le loro parole hanno la freddezza e l’assurdità unifunzionale di una lama; esistono solo per tagliare, per decostruire, per rompere. Le mani del mio architetto e di tutti i protagonisti di questo libro sono invece mani che cercano, che costruiscono, che intrecciano. Che salvano. La storia si intreccia intorno a Minerva, la luce degli occhi del padre, oltraggiata nel momento della sua fine. Ma altri bimbi di questa storia hanno subito violenza: si è proposto anche un obiettivo di denuncia etico-sociale? Non ho mai creduto alla letteratura capace di «eticizzare» l’individuo; per questo rifiuto la letteratura neorealista, così come il cinema o l’arte che si pongono il fine (che poi è quello predicato da Marx) non tanto di interpretare il mondo quanto di cambiarlo. È indubbio però che questa sistemati- ca violazione (anche nelle piccole cose: per esempio nei treni o negli aeroporti, che io frequento abitualmente, il pianto prolungato di un bambino getta nella nevrosi più totale tutti i presenti…), questa rimozione dell’innocenza (una rimozione che, non a caso, passa anche per il tentativo criminale, beduino, piccolo borghese, di togliere dai muri e dall’immaginario collettivo l’innocenza suprema; quella di Gesù Cristo), questa infame e, purtroppo tutta al maschile, tendenza a «uccidere», a «mangiare» i bambini, mi abbia portato a costruire un’elegia nei confronti di un mondo sempre più in pericolo, quasi in via di estinzione… Pinocchio, fiaba per bambini, è stato ritenuto adatto agli adulti. Il suo romanzo per adulti sembra scritto per tranquillizzare i bambini, o l’eterno bambino che è in noi, perché, nonostante il dramma, lascia una serena accettazione della vita e della sua fine, a dimostrazione di grande maturità ed equilibrio interiore: quanto conta la fede in tutto questo? Conta pesantemente, come può contare un tormento, un «limio» incessante dell’anima, un quesito che ti «starla» il cervello e i sensi; non sono cattolico ma mi ritengo irrimediabilmente, dolentemente cristiano: ho fede in chi MARCO FRANZOSO. L’imprevedibile vita di una donna a forte attenzione ai particolari, la capacità di rappresentazione delle figure umane e la precisione con cui viene descritto l’ambiente in cui i personaggi si muovono costituiscono gli elementi portanti di Tu pitoli successivi più che adolescente non sai cos’è l’amore, l’ultimo ro- sono naturalmente diverse, così come manzo di Marco Franzoso, già autore è diversa la consapevolezza della prodi Westwood dee-jay, da cui è stato pria condizione umana, delle conventratto uno spettacolo teatrale e di Edi- zioni acquisite a tal punto da rendere sol-M. Water Solubile. La storia di accettabile ogni fuga dalla realtà e Elisabetta, una donna apparentemen- delle lacerazioni che il passato ha late senza problemi, ma in preda ad un sciato. Alla fine non rimane che l’illudolore esistenziale che la porta ad ab- sione di aver ritrovato nella normalità bandonare il marito e il figlio per tor- di gesti e di rapporti un senso plausibinare a vivere nella casa dove è nata, dà le alla propria esistenza. Stilos ha inl’opportunità a Franzoso di mettere tervistato l’autore. in luce una serie di atteggiamenti che «Tu non sai cos’è l’amore»: a chi si sono alla base di un difficile rapporto rivolge l’affermazione, così diretta, con il mondo. Proprio quando, infatti, del titolo? potrebbe ragionevolmente aspirare a L’idea era di parlare direttamente al vivere una vita di lettore. Volevo agi e tranquillità, titolo che, in I n t e r v i s t e un ecco che Elisabetta qualche modo, percepisce come lo «tirasse denMARCO FRANZOSO un abisso di lucitro» subito. "Tu non sai cos’è dità e di solitudine Qualcosa che l’amore" che la separa dagli gli dicesse: pp. 222, euro 15 altri. Una coscien«Sto parlando Marsilio, 2006 za, questa, vissuta proprio a te». a volte come una Credo che la condanna, un prezzo di sofferenza da maggior parte delle donne possa dipagare per sopravvivere. re di condividere il malessere esiL’alternarsi di passato e presente e di stenziale della protagonista. Quali voci narranti diverse offre una molte- sono, però, gli elementi che lo rendoplicità di prospettive e di valutazioni no di tale intensità da produrre le che aiutano a ricostruire l’interiorità conseguenze che lei ha descritto? dei personaggi e la loro dimensione C’è una predisposizione quasi gepsicologica. Le risposte date alla pre- netica, o è dovuta alle circostanze, carietà della situazione che si è venu- alle esperienze, all’ambiente famita a creare da ciascuno dei tre protago- liare e sociale in genere? nisti - Elisabetta, il marito Paolo e il fi- Io volevo parlare di una donna la cui glio Domenico, che ritroviamo nei ca- vita, ad uno sguardo superficiale, fos- Se c’è un eccesso d’amore se in qualche modo invidiabile: la famiglia è sana, ha un bel bambino, un marito che la ama, non ha grossi problemi economici, né preoccupazioni di salute. Una donna normale, cui la vita avesse dato la possibilità di essere davvero felice. Eppure… eppure c’è qualcosa che anche così non funziona. Non conosco in profondità, e non credo che sia possibile conoscere la causa «medica» di questo malessere. Eppure, ad un certo punto questo malessere, senza preavviso viene in superficie e travolge tutto. Che sia per eccesso di amore? O per una sensibilità che semplicemente il mondo in cui viviamo non è più in grado di tollerare? Non so. È davvero una forma di malessere, oppure un modo mascherato di manifestare un’estrema lucidità che tutto coinvolge. Elisabetta lascia, qualche tempo, il marito e il figlio, ma alla fine si impone di «tornare normale» e di fare, come tutti, una vita normale. Come può generarsi una forza d’animo di questo genere? Quando lei decide di farlo, decide semplicemente di ritornare in apparenza allo stato precedente. Il suo non è un ritorno sincero e vissuto. È il desiderio di ricoprire tutto con uno strato di apparenza. Come fanno gli altri. C’è, nella scena del tentato stupro che lei descrive in modo toccante - il tentativo di Elisabetta come di annientare se stessa: «Io dovevo rimanere immobile e mimetizzarmi. Non L’ A U T O R E Una narrazione diversificata Nato nel 1965 vive e lavora a Padova. Ha pubblicato nel 1995 La guardia per Transeuropa, nel 1996 per Einaudi (con Giulio Mozzi) L’immigrazione e nel 1998 Westwood dee-jay per Baldini & Castoldi. Nel 1999 sono usciti i racconti Una gravidanza serena sulla rivista "Lo straniero" e Seghe proustiane in "Sconfinare". dovevo più esistere». Non è, in realtà, ciò che ha fatto anche in seguito, tornando in famiglia? Credo di sì. È come se «tornare normale» in questo mondo significasse semplicemente annullarsi e annullare la propria sensibilità. È come se il mondo in cui viviamo non tollerasse solo questo: la sensibilità. E di questo avesse paura. L’Occidente ha paura dell’individuo. Della persona. Lo spaventa perché scardina dalle profondità le proprie radici. Nella seconda parte del romanzo, sconfigge la morte, morendo con quella dignità utile a dare un senso deciso e definitivo ai giorni che ha trascorso; ho fede nel mistero degli incontri, delle passeggiate; ho fede nelle mani delle creature, nel viso di un bambino stravolto dalla fame in Africa, così come in quello del bimbo di Milano che gioca alla guerra con la Playstation; ho fede nella speranza «disperata» che esista tra gli uomini un seme di bellezza che resiste, che non ha paura, che non cede. Se Minerva è l’angelo che deve trovare pace, il piccolo Francesco rimane un perno della storia, raccogliendo gli obiettivi del padre scomparso, riallacciando legami ingiustamente recisi dal pregiudizio e dal tempo: i bambini sono portatori di grandi potenzialità d’amore, capaci di cambiare il mondo sbagliato degli adulti? I bambini ci insegnano la perfezione, attraverso i loro capricci; ogni capriccio di un bambino ha a che fare con l’esigenza di materializzare l’impossibile, l’invisibile; perché, a differenza dell’adulto, il bambino si rende conto che le regole sono sbagliate, che le cose, così come sono, non hanno alcuna vicinanza con la bellezza; per questo si «incapricciano», si inventano compagni immaginari, si ribellano all’esistente; se fossimo in grado di interpretare e di soddisfare i capricci dei bambini, aggiungeremmo un tassello di armonia a ciò che abbiamo reso disarmonico, deforme, involuto. A ciò che abbiamo reso scandalo. Il padre che ha conosciuto la morte, rasenta la pazzia e torna lentamente in sé attraverso gesti di amore per gli altri. Ha pensato a qualche parallelismo tra lui e il Salvatore vero e proprio? Di più; c’è una sorta di identificazione, quasi di «concorrenza» tra i due. Addirittura Caleri vuole terminare ciò che Cristo - a suo parere - non è stato in grado di fare. Inutile dire quanto Caleri sia Giancarlo Marinelli, e quanto il Cristo di Caleri sia ingombrante, ossessivo, adorato ed invidiato in egual misura da e per chi scrive. «Le tombe, se le sai ascoltare, ti parlano come le conchiglie» dice Minerva al padre. È la foscoliana illusione della «corrispondenza d’amorosi sensi» che fa accettare la fine? Magari Foscolo si ribalterà nella tomba, certo è che se i «pecoroni» (mi si passi la maligna, tracotante, disperata battuta…), che votavano al Campiello, avessero letto in questa chiave il mio libro, avrei vinto a man bassa. A quale genere letterario pensa che appartenga il suo romanzo? Non so se la storia d’amore si possa considerare di un genere letterario. Ma è quello che io volevo raccontare, che sempre è mia urgenza di raccontare. Una storia d’amore; in questo caso la più grande, la più estrema, la più indelebile, la più inscalfibile che la mia fantasia potesse immaginare. ritroviamo Domenico, dopo qualche anno, alle prese con problemi di vario genere - gli studi interrotti, il lavoro precario, la ricerca di emozioni forti grazie al sesso ed alla droga… Anche Paolo ha condotto un’esistenza in solitudine e con difficoltà economiche. È come se Elisabetta, con i suoi problemi, fosse stata da ostacolo alla felicità di altri. Ma chi ha cercato di capirla veramente e di aiutarla, nel corso degli anni? Oppure sarebbe comunque stato impossibile per lei trovare una vera via d’uscita? Non so. Io credo che tutti abbiano in qualche modo cercato di comprenderla. Ma credo che nessuno, tanto meno lei stessa avesse gli strumenti per farlo. Probabilmente, qui il problema non è più nemmeno quello di aiutare. Il problema è che siamo diventati estranei a noi stessi. Nonostante il passato, lei concede una nuova possibilità sia a Paolo sia a Domenico: la ritrovata serenità familiare, dalla quale però è stata esclusa Elisabetta. Perché questo lieto fine «parziale»? Non so se è una possibilità. Non credo. È un finale doppio, come è doppio tutto quello che succede nel libro. È come se i sentimenti non fossero in grado di farsi ingabbiare dalle definizioni e dalle razionalizzazioni. Non so se ricostruire una famiglia con degli estranei significhi proprio «ricostruire una famiglia». La famiglia la si costruisce con i familiari, con le persone che conosciamo bene. Il resto è fatto solo di surrogati. E di surrogati, di sogni a metà, di desideri massificati, di vite che sempre di più coincidono con le «carriere» è fatto questo nostro mondo. pagina 7 Finisterre autori italiani ARNALDO COLASANTI ROMANZI E RAGAZZE Scopro all’improvviso che la scrivania è invasa da romanzi di ragazze. Isabella Santacroce con Zoo (Fazi) ha scritto il suo grande libro. Stavolta ha ragione lei: «ogni spigolo di luce acceca». Niente è morboso e niente sa di pietà. La sua scrittura è come una sfera di vetro frantumata da uno spillone di ruggine. È estate, scrive, «la luce cade su di noi come neve gonfia d’aria». Il dolore viene preso e stretto fra le dita. Viene consumato dalle unghie che incancreniscono: è tanto feroce, confessa, da diventare «ridicolo». Anche Francesca D’Aloja con Il sogno cattivo (Mondadori) ci rivela un mondo. La vita (il senso di colpa di Penelope, l’odore indimenticabile di Margherita, il carcere, il tradimento, le follie del corpo, una generazione di cuori serrati), la narrazione dell’esistenza, insomma, è per la D’Aloja la fatica furiosa per difendere quel campo vuoto, ciò che un giorno avremmo chiamato l’anima e che oggi, almeno in queste pagine, percepiamo come una bestia, come la sconfitta: la tenerezza rabbrividita di una spiritualità che scruta i buchi del reale. Ci sono poi ragazze en plein air. Azzurra Carpo è andata in Amazzonia, ha percorso la «carretera interoceánica», ha visto l’orrore di certi gringos (le piantagioni, il narcotraffico) e la povertà degli indios, quelli senza nemmeno le canoe, con un pugno di patate abbrustolite sotto il sole bianco del primo giorno della creazione. In Amazzonia (Feltrinelli Traveller) narra di vita e di morte. Ma con un fare dolce, persino pudico, quasi che il nodo del bene e del male andasse sfiorato senza ansia, con una timidezza che, alla fine, regala alla vicenda di documenti e di cronache il respiro di un romanzo d’altri tempi. I libri stanno ammassati. In genere, lo sguardo delle scrittrici italiane sembra più intenso, meno claustrofobico, come dire più fantasioso e vitale di tanti colleghi narratori. Un gioiellino emerge da un esordio quasi in sordina. Manola Aramini (non so l’età, credo giovanissima, cittadina di Alessandria) scrive con Clotilde voleva le ali (L’Autore Libri Firenze) un romanzo intelligente e profondo. La narratrice lavora col pastello. Costruisce la sua storia a piccoli tratti. Colora le immagini e i personaggi e poi ne cancella i contorni, la pasta interiore, così che la tela si trasforma in una carta leggerissima. Una narratrice di poco talento avrebbe giocato tutto con la tinta dozzinale del sentimentale. L’Aramini no: la maniera del suo racconto è quella semplicità perfetta che nasconde (ma perché include) la cucitura di molteplici piani prospettici, la tridimensionalità sfumata della memoria in cui il racconto si fa romanzo. Clotilde (come in tanti romanzi di ragazze italiane) è una nonna, è la donna che parla alla nipote. Clotilde racconta una lunga storia, dove il dolore, la povertà, le illusioni diventano all’improvviso (e qui è la magia del suo carillon) i segni di un autoritratto, la fotografia di un paese (l’Italia) nel suo essere e non essere ancora un paese moderno. «Rimasi sola, racconta Clotilde, divenni un uomo, ma ero anche una moglie per curare un marito ammalato di cancro e una madre per crescere i figli». Coraggio, pazienza: una saggezza istintiva che imperla le parole, le fa sentire autentiche. E poi quello che interessa di più: Manola Aramini ha saputo nascondere in uno scrigno di famiglia un romanzo familiare dal respiro di mille pagine. Con un esile gioco di luci la sua memoria è diventata musica. S t los nuovi autori pagina 8 SILVIO MUCCINO - CARLA VANGELISTA Diogene Il tema da cui è nato il libro è stata la paura. La paura di esporsi, di vivere con serenità o almeno senza nascondimenti e maschere i rapporti umani. Come due persone di diversa età riescono a mettersi in gioco SOSSIO GIAMETTA RAGIONE DI RENSI Giuseppe Rensi è, tra i filosofi, colui che più si è avvicinato al fondamento della morale, al termine di una ricerca bimillenaria rimasta senza esito. Egli si è sempre occupato del problema morale; ma soprattutto se ne occupa in questo libro incompiuto, prefato e curato da Aniello Montano, La morale come pazzia (Mattia & Fortunato Editori, pp. 176, euro 15). Qui Rensi si distingue anzitutto per la sua impostazione del problema. Seguendo Spinoza e Schopenhauer, non si affanna a ricercare princìpi universali, imperativi e modelli da imporre all’agire, ma muove dall’osservazione delle azioni e dei comportamenti effettivi per comprenderne le radici e le motivazioni concrete. Ma già qui c’è uno sfasamento. Egli sostiene infatti l’isostenia dei contrari, cioè la pari legittimazione dei comportamenti più contrastanti, non sul piano della passione, dell’occasione, del carattere e del luogo e tempo storico, come sarebbe stato giusto e come fa Spinoza, ma sul piano della ragione. Per lui «è sempre la ragione che trionfa». «È un errore - dice - ritenere che… chi cede al vizio senta in sé un conflitto tra la ragione e la passione e vegga la prima sconfitta dalla seconda». Dopo, per la vera morale, fa il discorso contrario. Ma basterebbe qui, per non dargli ragione, il lamento di Ovidio: «video meliora proboque, deteriora sequor», vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio. Vero è invece che «l’atto trae sempre dalla nostra ragione le sue giustificazioni, si crea après coup la sua impeccabile logica». Il secondo merito è la confutazione di tutte le morali utilitarie, che in questo libro è particolarmente sviluppata in relazione a Bentham e Mill. Essa è basata sull’impossibilità di stabilire oggettivamente che cosa sia utile, faccia piacere e dia felicità. Il terzo e più grande merito è quello di affermare una morale pura, scevra di edonismo e utilitarismo, frutto di una virtù non insegnabile e non apprendibile, ma dono di natura. Essa è data a pochi, come furore divino (thèia manìa). La morale, nota Rensi, «si manifesta come obbedienza a qualcosa che è esterno a noi e ci trascende». Se non ci fosse eteronomia, rincara, non ci sarebbero neanche i conflitti spirituali. E parla di trascendenza, negando l’autonomia della morale e di tutte le attività spirituali, rivendicata dal pensiero moderno per liberarsi, dice, dalla sudditanza dalla cultura medioevale. Nel libro antiumanistico e anti-antropocentrico La trascendenza, afferma l’esistenza di una ragione universale di cui ogni «Io» è un frammento. Essa è «la Corrente cosmica che, come Bene e come Male, traversa perennemente il Mondo e costituisce la vera ed unica sostanza profonda di ogni coscienza personale». Con ciò Rensi si avvicina al massimo alla verità, per afferrare la quale sarebbe bastato introiettare nell’uomo ciò che egli considera esterno, e ridurre alla specie ciò che egli vede come universale, concepire insomma la morale come frutto della forza di gravità interna che la specie esercita sui suoi membri, sempre in tensione tra forza centripeta e forza centrifuga. La madre che rinuncia ai divertimenti per curare il bambino obbedisce alla prima, cioè ai bisogni fondamentali della specie, la madre che non cura il bambino per divertirsi, come nella canzone Balocchi e profumi, obbedisce alla seconda. C’è una scala in questo senso, sempre purtroppo completa, che va dal santo al criminale. Istruzioni sulla vita delle anime C iò che più di tutto colpisce incontrando Silvio Muccino e Carla Vangelista, è l’allegria, lo slancio appassionato con cui ne parlano. Lei sceneggiatrice di grande esperienza, lui attore e sceneggiatore giovanissimo e tra i più amati dal pubblico italiano: si incontrano su un divano, nella bella casa romana di Carla, nel cuore del quartiere Trieste, e parlano d’amore. Si interrogano a vicenda, «frugano», come dice Silvio in un lampo dei suoi occhi-fari, nella vita vissuta. Inventano una storia, cioè - nel senso dell’etimo - la tirano fuori, la portano allo scoperto. Così nascono Sasha e Nicole, lui ventenne, lei quarantenne: da una amorosa inchiesta. Silvio e Carla raccontano Sasha e Nicole come se parlassero dei loro vicini di casa. Come se descrivessero amici di vecchia data, ricostruendone a memoria tic, gesti, sospiri. È curioso vederli così emozionati, tutti e due: Muccino che rivive con entusiasmo, con foga quasi, il «bagno di emozione» della scrittura; Vangelista che ne ripercorre le fasi, attenta e luminosa. Si intendono con uno sguardo, e non hanno smesso di dialogare, neppure a libro finito. Tengono aperte le finestre, entra l’ultima luce di settembre; i rumori della città si mescolano alla musica che viene da un’altra stanza. Stanno in ascolto, forse sono pronti a raccontarsi e a raccontare ancora. Forse non hanno mai smesso. Stilos li ha intervistati. Ciò che sorprende è che l’incontro tra voi due, Carla e Silvio, ha generato non solo l’incontro dei due protagonisti, Nicole e Sasha, ma anche l’incontro con la forma romanzo. Venite entrambi dal cinema e avete consuetudine con le tecniche della sceneggiatura. La necessità del libro, quindi, da dove nasce? SILVIO MUCCINO: Nel mio caso, posso dire che una parte importante l’ha giocata il caso. Ho approfittato di un momento molto impegnato della mia vita, in cui mi era impossibile scrivere un film, per concentrarmi sulla voce di un personaggio con la sua storia da raccontare, il giovane Sasha appunto. L’ho ascoltata a lungo, questa voce, e mi è venuto quindi naturale provare a trasferirla su carta, scrivendo in prosa. Pagina dopo pagina, mi accorgevo con sorpresa che potevo muovermi in uno spazio più ampio di quello a cui ero abituato. La scrittura è stata un vero bagno di libertà, senza i ritmi, i tempi stretti del cinema. Nessuno poteva più dirmi, come accade su un set, «taglia», «qui non va bene, riprova», «qui dobbiamo metterci un Ritorno C al paese A sparito T A L O G O VANGELISTA Sceneggiatrice e amante dei golf Carla Vangelista è nata a Roma nel 1954, dove vive. Lavora da anni come sceneggiatrice, ha collaborato con grandi registi tra i quali Gabriele Salvatores, ha curato i dialoghi di fiction di successo. «Come il personaggio Nicole - si legge nella quarta di copertina di Parlami d’amore -, ha la fissazione dei golf di cachemire neri». Parlami d’amore è il suo primo romanzo. VIVE A ROMA. TRA L’ALTRO "HO SOGNATO UNA STAZIONE" (LATERZA) CON DACIA MARAINI. IMMINENTE "COME UN’ISOLA" (PERRONE) IL LIBRO SILVIO MUCCINO CARLA VANGELISTA "Parlami d’amore" pp. 401, euro 16 Rizzoli, 2006 PAOLO DI PAOLO colpo di scena». Per una volta, finalmente, di colpi di scena c’erano solo i miei, quelli interiori. Potevo parlare senza maschera, senza la solita parte dell’adolescente in cui cominciavo a sentirmi un po’ stretto. Scrivendo, ho fatto luce su una zona di me stesso rimasta al buio per troppo tempo. CARLAVANGELISTA: Ricordo che anni fa, quando ero alle prime armi come sceneggiatrice, uno dei rimproveri che più di frequente mi venivano rivolti era legato all’eccessiva letterarietà della mia prosa. Lavorando a questo libro, ho come riconquistato una attitudine, una predisposizione che avevo tenuto in un angolo. Qui potevo concentrarmi sui monologhi senza il timore di spendere un aggettivo di troppo; potevo ricostruire la voce interiore dei personaggi con più agio. Potevo stare anche un’ora a farli parlare, a inseguire le curve strette dei loro ragionamenti. E la complessità del personaggio di Nicole non sarebbe stato facile spiegarla con il cronometro alla mano, soltanto con le quattro battute di un film. Voleva più spazio, Nicole; e un po’ anch’io. In questo romanzo sembra che la trama spinga lo stile, lo preceda. La lingua dei personaggi non è un artificio, ma uno sfogo, anche brutale. E voi sembrate averlo registrato così com’è, così come l’avete «sentito». VANGELISTA: Nicole e Sasha sono due personaggi abituati al silenzio. Qui dovevamo dare loro voce, farli parlare. Nel momento in cui le loro vite si incontrano, anzi entrano in collisione, qualcosa esplode. Anche linguisticamente. Hanno bisogno di raccontarsi, di gridare, di esporsi insomma. Devono buttare fuori tutto ciò che avevano taciuto troppo a lungo. Devono svelarsi. È così che la scrittura rapida, magmatica di questo romanzo finisce col diventare un’esigenza della trama, del suo sviluppo. MUCCINO: Potrei dire che, avvicinandomi a questa storia e all’idea di questo romanzo, mi sono sentito in dovere di fare una scelta quasi «etica». Ho un sacro rispetto per la letteratura e per gli scrittori. Perciò io, da nonscrittore, volevo chiarire prima di tutto a me stesso (e quindi al lettore) il punto di partenza. C’era un solo modo per raccontare il mio personaggio: la MAURO CORONA "I fantasmi di pietra" pp. 279, euro 17 Mondadori, 2006 Un paese perduto chiamato Erto, un paese che non c’è più, il paese di Mauro Corona. Che vi ambienta una sorta di novella Spoon River; penetrando infatti tra le case abbandonate dal giorno del disastro del Vajont, lo scrittore interroga casali diroccati e camini spenti, strade deserte, piante inselvatichite: da ogni cosa emergono voci che raccontano antiche storie di uomini e di spettri, di amore e di odio, di persone scomparse e di sortilegi. Se ci si innamora di una matusa Un libro in pieno stile Muccino: amore tenero, tribolato e soprattutto pulito. Una storia d’amore che canta l’amore giovanile come specchio di una generazione che asseconda i buoni sentimenti. Un ragazzo si innamora di una donna matura e vive l’esperienza nei modi di una educazione sentimentale del nostro tempo. prima persona. Una prima persona che è il risultato di una immersione profonda nelle emozioni. Il coinvolgimento emotivo che investivo nella scrittura ha avuto qualcosa di straziante, di snervante. Il «lusso» di non essere scrittore, di non «fare» lo scrittore, mi ha consentito di tradurre il sentimento nella rapidità con cui viene percepito. L’io di Sasha coglie ciò che vuole cogliere, o gli càpita di cogliere, e lo vive a capofitto, non se ne distanzia. Così anch’io, scrivendo, ho evitato mediazioni. Ho evitato che la materia si raffreddasse, e l’ho proposta agli occhi del lettore con una immediatezza che magari lascia tramortiti, ma che sentivo necessaria. Naturali, prese dalla vita, le voci di Nicole e Sasha. Quanto avete impiegato a dominarle, a sentirle autonome? MUCCINO: Pochissimo. Ci ha forse aiutato anche la scelta di lavorare essenzialmente in luoghi distinti. L’obiettivo era che queste voci interagissero, comunicassero tra loro anche a distanza. E così è stato. Da attore e da sceneggiatore, la prima cosa che sento, quasi a pelle, dei personaggi è naturalmente la voce. Qui il problema era incanalare la voce, il suo impeto, in una struttura narrativa: trovare un «modo» di raccontare. Senza dubbio il confronto con Carla, che secondo me è straordinaria nella costruzione dei dialoghi, mi ha aiutato molto. E poi c’è stato il mio istinto, di cui ho voluto qui avvalermi e fidarmi. L’Iran in bianco e nero VANGELISTA: Mi rendo conto che alle voci dei nostri personaggi potrebbe essere mossa più di una obiezione stilistica. Ma bisogna tenere presente che Silvio e io abbiamo scelto fin dall’inizio una formula precisa: quella del «diario», della interiorizzazione diaristica. Per me, che ho venerato alcuni autori americani straordinariamente abili nei dialoghi, capaci di restituire su pagina una naturalezza sorprendente, la sfida era quella di lasciarmi condurre verso la lingua dai personaggi stessi. Nessuno di noi quando esce di casa e si fa male a un piede esclamerebbe «Accidenti, quel piccolo eppure appuntito sassolino grigio si è infilato nella scarpa!», ma esploderebbe in un «Porca miseria, che dolore!», o qualcosa del genere. In questo senso, mi pare che la scrittura debba essere anche un esercizio di fedeltà. Alla vita, soprattutto. Di là dal dato strettamente autobiografico, che non mi pare essenziale, è interessante capire, più in generale, come è stato rielaborato e ripensato in questa storia il vostro vissuto. VANGELISTA: Sicuramente entrambi abbiamo prestato molto di noi a questo romanzo. E d’altra parte come sarebbe possibile scrivere di qualcosa che non abbiamo neanche sfiorato? Mi sento piuttosto lontana da una forma onanistica dello scrivere, da una letteratura che nasce dalla letteratura. Chi scrive (nel cinema, nel giornalismo, nella letteratura) dovrebbe - almeno in teoria - essere animato da una multiforme curiosità per quanto gli accade intorno. Io parto da questo. E mi cibo di memoria, mia e altrui. Ci sono esperienze, che magari ho vissuto o a cui ho assistito anni fa, che sono tornate in modo anche inatteso nella scrittura. Insomma arrivi all’ultima pagina e ti accorgi che hai lasciato di te nel libro molto più di quanto avevi ipotizzato. Non è questione di autobiografia, o non solo. È un furto gentile e a volte inconsapevole: rubi. Rubi alla vita. Ma solo così puoi mettere un po’ di verità in quello che scrivi. MUCCINO: L’urgenza, il calore, l’intensità che si avvertono nelle pagine di Parlami d’amore derivano, come diceva Carla, da un innegabile utilizzo, ripensamento, del proprio vissuto. Per quanto riguarda me, ho prestato a Sasha parecchie emozioni, spaesamenti, contraddizioni che mi appartengono. Non in maniera fedele, però. Tutto stati d’animo, angosce, paure - viene riletto metaforicamente. Forse l’intero libro è una metafora. Pensa per esempio a come l’asma, problema che conosco bene, è vissuto da Sasha: si MARCELLA CROCE "Oltre il chador" pp. 218, euro 19,50 Medusa, 2006 L’Iran è oggi il paese di cui si parla di più al mondo e non solo per gli ultimi eventi. Naturale quindi l’esigenza di conoscerlo un po’ più da vicino e apprezzabilissime le testimonianze di chi è stato sul campo e ha visto e osservato. Come Marcella Croce, che ha insegnato due anni all’università di Isfahan e ha potuto avere una visione diretta di un certo modo di vivere, di alcune caratteristiche essenziali di quella splendida cultura. Gesti nell’arte greca sente, di volta in volta, malato tra i sani e sano tra i malati. Non è forse una estensione metaforica del dato concreto, dell’esperienza reale? L’ipotesi di raccontare una storia d’amore tra un giovane e una donna adulta come è nata? Quale è stata la scintilla? VANGELISTA: L’idea è nata proprio su questo divano. Da quando ci siamo conosciuti, io e Silvio abbiamo cominciato a fare chiacchierate lunghissime. E il tema attorno a cui ci è venuto naturale interrogarci è stata la paura. La paura di esporsi, di vivere con serenità o almeno senza nascondimenti e maschere i rapporti umani. Abbiamo pensato, quasi all’unisono, che sarebbe stato interessante, stimolante, raccontare una storia in cui due persone, per ragioni diverse, fanno fatica a esporsi, a mettersi in gioco. L’uno, Sasha, non ha il coraggio di correre incontro alle esperienze, non l’ha mai fatto. Nicole invece sì, ma si è scottata, ha avuto paura e, facendo un passo indietro rispetto a se stessa, si è chiusa. Perché la sua esistenza subisse una svolta, o quantomeno una scossa, dovevano accadere molte cose. La fine di un matrimonio, il rapporto tormentato con una persona più giovane che entra inaspettatamente nella sua vita… MUCCINO: Io forse mi ricordo com’è andata! Durante le conversazioni appassionate di cui diceva Carla, ci siamo messi un po’a frugare ciascuno nella vita dell’altro; e il nucleo della storia - questo innamoramento complicato tra Sasha e Nicole - è nato anche dall’enorme fascinazione da me provata verso il vissuto di Carla. Restavo incantato a sentirla raccontare gli anni Settanta, la diversa libertà di vivere le emozioni senza troppe reticenze e pudori. Tutto insomma è partito da lì, da lunghe chiacchierate fra amici. Poi il libro è stata un’idea di Carla. Le ho fatto leggere alcune pagine in cui davo voce a Sasha, senza una direzione precisa. Lei ne è rimasta colpita, mi ha spinto a proseguire. Così è nato Parlami d’amore. Il vostro romanzo è anche una fotografia attendibile di questa «età del provvisorio»: niente è stabile, sicuro. È così che lo sentite questo tempo? MUCCINO: Ciò che abbiamo capito, parlando tra noi e poi scrivendo, o meglio abbiamo «sentito» (arrendendoci di fronte a un’evidenza), è il fatto che esistano delle anime (si può usare ancora questa parola o è bandiSEGUE A PAGINA 9 CLAUDIO FRANZONI "Tirannia dello sguardo" pp. 289, euro 25 Einaudi, 2006 Questo saggio nasce dalla convinzione, solo in apparenza scontata, che i fatti stilistici siano a loro volta fatti storici e, dunque, fatti sociali. E allora ecco che l’attenzione punta sull’arte greca sulla cui semplicità e nobiltà di winckelmanniana memoria tutti, o quasi, sembrano essere d’accordo, anche per stabilire la perenne superiorità atemporale dell’arte classica. Ma era veramente così «atemporale» l’arte greca? Era così "ideale"? S t los nuovi autori pagina In questa pagina e nella precedente Silvio Muccino e Carla Vangelista, autori per Rizzoli di Parlami d’amore, fotografati da Stefano Cristiano Montesi SILVIO MUCCINO - CARLA VANGELISTA Un ventenne e una donna matura reduci da tare personali avviano un processo di disvelamento reciproco, che postula un’istanza di liberazione. Come vivere un incontro generazionale in una società centrifuga MUCCINO Autore di film noto come attore Silvio Muccino è nato a Roma nel 1982. Ha esordito nel cinema nel 1999 con Come te nessuno mai del fratello Gabriele. Del 2002 è Ricordati di me. Nel 2003 scrive e interpreta Che ne sarà di noi, diretto da Giovanni Veronesi, con cui lavora anche in un episodio di Manuale d’amore (2005). Il suo ultimo film, scritto e interpretato con Carlo Verdone, è Il mio miglior nemico. SEGUE DA PAGINA 8 ta?) prima che delle persone. Il modo in cui comunicano due anime, nonostante l’età, le rughe, le differenze di qualunque genere, è un canale privilegiato. Ecco, quello di Sasha e Nicole è un canale privilegiato. E lo è perché in qualche modo sono entrambi «vivi». Il loro cuore batte ancora, batte forte, anche se soffocato dalla paura. E questa paura mi sembra il segno distintivo dell’epoca in cui siamo immersi. Chi, come Sasha e me, è nato negli anni ottanta, è cresciuto assediato dalle paure. Siamo cresciuti con addosso l’ombra del rischio. Perfino su una notte d’amore poteva gravare un gigantesco timore, l’Aids. Ci siamo chiesti allora dove e come potesse aprirsi la strada di una reazione a tanta paura, interna ed esterna. E ci siamo accorti che c’era bisogno di una passione vera, impetuosa. C’era bisogno dei sentimenti. Oggi l’apparenza, e il sesso soprattutto, vengono usati come deterrente per i sentimenti (nel romanzo, il personaggio di Benedetta è eloquente in questo senso). Noi volevamo ripartire da lì. Dalla difficoltà di superare paure, diffidenze, differenze. La distanza generazionale tra Sasha e Nicole, in questo sforzo, c’entra fino a un certo punto. D’altra parte, non è così strano che un ventenne oggi provi attrazione per una quarantenne (basta guardarsi intorno!). Ma se ci fossimo limitati a raccontare la storia di un prurito, di una semplice relazione sessuale, sarebbe stato tutto molto più scontato. VANGELISTA: È verissimo, l’aspetto generazionale non è decisivo. Decisivo è il nostro rifiuto di credere, di accettare che le emozioni, qualunque forma abbiano, vadano castigate. Sembra che ci si debba vergognare di ridere, di piangere; è poco chic, poco intellettuale. Al bando sfumature, al bando i colori troppo accesi. Una maschera grigia per ogni occasione: o quella dell’ipersensibile o quella del «duro» a tutti i costi. E invece siamo fatti di sei miliardi di parti, e sarebbe giusto farle vedere tutte, comunicarle, comunicarcele. Che cosa imparano i personaggi? VANGELISTA: C’è una contaminazione continua tra i due. E parte nel momento in cui Nicole, chiusa in una prigione emotiva, incontra il ragazzo Sasha e comincia a spronarlo: «Vivi», gli dice, «tu devi vivere». Ma c’è qualcosa di ipocrita, almeno all’inizio, nella sua volontà di scuoterlo. Nicole non ha il coraggio di guardarsi allo specchio perché sa che quel «Vivi» dovrebbe gridarlo a se stessa. Troppo comodo e rassicurante stare su un balcone a guardare. È quando capisce di non poter continuare così che Nicole torna a imparare qualcosa, da Sasha e dalla vita. Torna a sentirsi viva. MUCCINO: Questa è la parte più filosofica. Poi c’è la parte più concreta, che mi diverte tantissimo. E riguarda ciò che hanno imparato non solo i personaggi, ma di riflesso anche gli autori, l’uno dall’altro. Da Carla ho capito, una volta di più, quanto conta giocare, nell’amicizia, nell’amore. Il 99% delle ragazze che ho incontrato hanno dimenticato cosa significhi giocare. Vivono i rapporti in modo serio se non perfino serioso. E il gioco, il divertimento, l’osare? Tanto meno ti vergogni di ciò che provi tanto più riesci a comunicarlo. Mettendoti in gioco, giocando. Scrivere è stato anche questo. Nei film finisci per essere sempre un po’ una marionetta, puoi prendere le distanze, dire: sì, ma quello è Orfeo; sì, ma quello è Tommaso; io che c’entro? Qui la maschera dovevo toglierla. La confusione tra sentimento e sentimentalismo potrebbe suscitare qualche accusa al romanzo. Come rispondereste? VANGELISTA: Che la letteratura molto spesso viene confusa con la razionalità spinta all’eccesso. «Adesso vi faccio vedere quanto sono riuscito a distaccarmi», sembrano dire certi scrittori di professione. Perché forse hanno disimparato a esprimere i sentimenti. Il lieto fine, per fortuna, non arriva liscio e immediato. C’è ancora qualche curva stretta, in cui gli stereotipi sulla coppia ventenne-quarantenne tornano in bocca agli stessi personaggi. Avoi, Silvio e Carla, che effetto fanno? MUCCINO: A me sembrano stereotipi estremamente comodi. Se tutto fosse stato ridotto, come dicevo prima, alla pulsione sessuale, forse nessuno troverebbe da ridire. Ma qui etichettare fa comodo, è come distogliere lo sguardo da qualcosa che ci spaventa. Per scrivere Parlami d’amore bisognava anche isolarsi un po’, dimenticare le voci del coro, il dito puntato contro. In una società che divora e trasforma i ruoli, fare questo salto senza rete (amarsi, comunque e nonostante) diventa più complicato. Se gli stereotipi sulla coppia ventenne-quarantenne, nella crisi finale, rispuntano tra i pensieri di Nicole, è perché, per una volta ancora, lei si nasconde, usa una maschera per troppo timore di perdersi. Mi piace l’idea che finalmente sia Sasha a strapparle quella maschera dal viso. E d’altra parte mi pare che quello della maschera sia uno dei fili più robusti della narrazione. Maschere che lentamente cadono, una a una, dal volto dei personaggi. VANGELISTA: Siamo crocefissi dagli stereotipi. E questo libro per me è stato anche un atto di ribellione agli stereotipi. Se avessimo riscritto Lolita, qualcuno avrebbe avuto da ridire? Qui non ci sono eroi né anti-eroi. E forse per questo i personaggi fanno Il gioco di maschere da lasciare cadere più paura. Perché tenerli a distanza è più difficile. VANGELISTA: Sì, è vero, Sasha e Nicole fanno paura. Portano avanti in modo anche prepotente e violento degli aspetti che ci appartengono, lati in ombra. Alzi la mano chi non ha mai avuto paura, chi non si è mai chiuso in sé stesso! Credo che anche la loro libertà, la libertà di Sasha e Nicole, possa far paura. La libertà che conquistano, e grazie a cui si accorgono che è possibile non essere più schiavi delle proprie insicurezze. Essere insomma liberissimi all’interno di una profonda umanità, e quindi imperfezione, e quindi con una serie di carichi che non ti limitano nel momento in cui dici: «bene, dato tutto questo, io vivo comunque». MUCCINO: Nel libro faccio dire a Sasha che tra Brando e Dean preferisce Dean. Sembra una scelta sciocca, una frase buttata lì, invece a me sembra un po’ una dichiarazione di poetica. Non credo, non ho mai creduto nell’eroe, e non riuscirei a interpretarlo come non riuscirei a interpretare un antieroe al cento per cento. Io credo nelle falle. Trovo meraviglioso e inquietante al tempo stesso l’essere LA RECENSIONE Ecco la nuova educazione sentimentale dopo Flaubert F acciamo conto che Madame Arnoux non abbia aspettato di invecchiare per confessare il suo amore a Frédéric. Facciamo conto che, coi capelli ancora lucidi, Madame abbia cominciato di buon grado a impartire al giovanotto le scrupolose lezioni di una (utilissima) «educazione sentimentale». Potremmo partire da qui, da Flaubert per capire qualcosa di Parlami d’amore, di cui s’è parlato come evento mediatico più che come libro. E d’altra parte non potrebbe forse Muccino, se avesse voglia di un film in costume, indossare i panni del nostro Frédéric Moreau? Sarebbe divertente vederlo alle prese con questo amore non vissuto per una donna più grande di lui, distante come una stella; sarebbe divertente, e istruttivo, vedere come un ragazzo che ha compiuto vent’anni nel 2002, possa mettersi nei panni di uno che li compiva attorno al 1848. Molto è cambiato, certo. Ma un certo smarrimento, una certa consistente incertezza a proposito del futuro, sembra in tono con l’«età del provvisorio». La nuova «educazione sentimentale» di Muccino e Vangelista, tuttavia, ha poco della passione contemplativa di Frédéric per Mme Arnoux: qui i due protagonisti cambiano abiti, voce, intenti. Al pari dei loro trisavoli, hanno molto da dire e da fare, ma, a differenza dei loro trisavoli, alla buon’ora lo fanno. La storia, d’altronde, con tutto il sacro rispetto per Flaubert, è questa: un ventenne che, assieme ai silenzi, ha mandato giù parecchie sconfitte, si innamora di una donna matura e un po’ indifesa che lo scuote, lo sprona a vivere. E lei che fa? Aspetta, osserva. Almeno all’inizio, gioca a fare la maestra. «Guarda, Frédéric», gli dice. Anzi: «guarda, Sasha» (ché siamo nel 2006!), è così che si ama, che si deve amare qualcuno. È così che si corteggia. È così che si parla. Non ha con sé lavagne e gessetti, Mme Arnoux, cioè Nicole (siamo nel 2006!), ma si diverte a fare la maestrina. Anzi, protegge sE stessa infilando i panni di cattedratica del sentimento. E lui, il ragazzo Sasha, che tra Marlon Brando e James Dean vorrebbe preferire (imitare) Dean, ascolta. Impara. Segue le «istruzioni per l’uso di Benedetta», la ragazzina complicata e appena sessuomane di cui è innamorato, che Nicole generosamente gli fornisce. Si accorge, però e infine, che aiutare Benedetta a vomitare, chiudendo festini lievemente squallidi, non è proprio il massimo. Allora alza gli occhi (dovrebbe averli celesti e magnetici come quelli di Muccino) e si accorge di quelli intensi (e un po’spaventati) di Nicole, che ha la grazia gentile di Carla Vangelista. Che succede poi? Succede che i due, Sasha e Nicole, siano assediati dai «ma», dai «però». Sono soffocati dalle insicurezze che loro stessi si confezionano addosso accuratamente. E allora non c’è più educazione sentimentale che tenga: allora bisogna buttarsi a capofitto nell’esperienza. Provare a incontrarsi davvero. Le curve e i dossi non mancano, certo; i pregiudizi sulla coppia ventenne-quarantenne stanno in agguato anche tra i loro stessi pensieri. Per superare gli inghippi, devono entrambi tentare di non vergognarsi più, di loro stessi e delle paure che gli spezzano il fiato. Così arriva l’amore: con un bellissimo corpo a corpo raccontato da Vangelista facendo saltare i ponti verbali come in un attentato (benevolo) alla sintassi; come se volesse dire: ma qui c’è solo il corpo, qui c’è solo la saliva, il desiderio; e allora che c’entra la grammatica? Così Sasha impara a non auto-distruggersi, a non auto-mortificarsi a ogni passo. Sgolandosi e facendo esplodere un non-detto tenuto sotto vuoto troppo a lungo. Parla, Sasha - e vive; parla d’amore. Muccino e Vangelista hanno scritto un romanzo strano, elastico, ribollente, in cui entrano i detriti della vita, in cui l’urgenza della trama precede lo stile. O meglio, l’urgenza della trama decide lo stile, che non è un parlato artificioso, costruito sul tavolo anatomico, ma è preso in prestito, anzi strappato alla vita che scorre giù in strada. Non c’è pretesa di letterarietà, dunque. C’è invece una zona di confine (tra letteratura e racconto orale, diario, cinema) in cui la vicenda si installa e i personaggi abitano con disinvoltura. Piacerà questo slancio che non prevede mediazioni; piaceranno questi «personaggi-corpo» che imparano a ridere e piangere ad alta voce, e a pronunciare i sentimenti senza lasciare che si raffreddino. Piaceranno perché, come i loro autori, vanno spiegando che le ricette precise, i vademecum filosofici, le teorie di cui manuali cartacei e televisivi abbondano, durano un tempo corto e inutile. Quello in cui si indossa la maschera dei sé stessi che vorremmo essere. Poi, i minuti della recita scadono - e ci vuole perfino un po’di coraggio: anche per il vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro. Ci vuole un po’ di coraggio anche per non averlo, il coraggio - ecco. Parlami d’amore farà storcere qualche naso (qualcuno, anzi, l’ha già storto), ma forse ingiustamente: perché non ha preteso di irrompere in qualche fortificata cittadella letteraria. Sta fuori dalla porta, beatamente; e catalizza reazioni emotive, invita all’immedesimazione, ad avventurarsi in qualche salubre ingenuità e imprudenza - come un diario, un blog, come una doppia lettera d’amore. P. D. P. umano quando incarna il bene e il male, quando mescola l’ombra alla luce. Pensa alla più grande maschera del cinema italiano, Alberto Sordi: ha compiuto una piccola, anzi enorme rivoluzione. È come se, attraverso i suoi personaggi, avesse messo in tavola tutte le carte della vita, dicendo: basta, adesso niente più eroi e niente più antieroi. Adesso conta l’essere umano, con le sue miserie, le sue debolezze, le sue meschinità, con le sue improvvise e inattese grandezze. Mi piace insomma quel cinema e quella letteratura che sanno stringere sempre più la macchina sull’io delle persone, che sanno farcele sentire intime, vicine perché contraddittorie e «fallate» come noi. Gli scrittori, alla fine di un libro, dicono spesso di sentirti «svuotati». Voi? VANGELISTA: Quando ho finito questo libro, non mi sono sentita per niente svuotata. Mi sono sentita un po’triste, semmai, perché abbandonavo una storia e dei personaggi che mi hanno tenuto compagnia a lungo. Insomma la nostalgia di Nicole e Sasha c’è, e con essa la voglia di raccontare ancora (questo non deve suonare come una minaccia, perché chissà quando e se accadrà). So per certo che Nicole e Sasha non usciranno mai più da me, per il semplice fatto che scrivendo questo libro io sono riuscita a fare pace con diversi lati del mio carattere, ho capito alcune cose importanti di me, di come sono davvero. Nicole è entrata dentro di me o io sono entrata dentro Nicole, e sarà quasi impossibile dimenticarla, dimenticarci. MUCCINO: Io credo che Sasha mi sia stato concretamente utile a superare certe difficoltà. Credo sia stato lui a farmi smettere di fumare, per esempio. Una ragazza che ha scritto al nostro forum (www.24sette.it/muccino_vangelista) qualche giorno fa, dopo avermi raccontato la sua esperienza con l’asma, mi ha domandato, quasi brutalmente: «Ma ti sei mai chiesto se vuoi davvero guarire?». È in realtà una domanda che molti asmatici non si pongono, perché con l’asma ci cresci e instauri uno strano rapporto: ti serve, un po’ ti fa male e un po’ no. Quella domanda mi ha fatto da pungolo anche durante la scrittura. Assieme a molte, moltissime altre. Sasha e Nicole abitano dentro di me e io non mi sono liberato di loro, né ho intenzione di farlo. Anzi, ci sono tanti aspetti di loro che vorrei ancora poter esplorare. Tante domande a cui vorrei provare a rispondere. Le reazioni dei lettori che impressione vi hanno fatto? MUCCINO: Il rapporto coi lettori è completamente diverso da quello con gli spettatori di un film. Attraverso il forum, che abbiamo voluto fortemente, dialoghiamo con chi ci racconta di essere stato letteralmente travolto da questa storia. Ma anche con chi non ne accetta alcuni aspetti, o la rifiuta del tutto. Questa interazione quotidiana ci dà parecchie soddisfazioni, ma soprattutto ci serve a capire come le emozioni di Sasha e Nicole abbiano fatto breccia. VANGELISTA: Molti ci chiedono se scriveremo un seguito. Ce lo chiedono come se aspettassero la seconda fase di una terapia di gruppo. Perché forse Parlami d’amore è anche questo. 9 S C A F F A L E BEPPE SAVIA, Un solitario amore, pp. 229, euro 17,50, Fandango 2006 Beppe Savia è ritenuto da un numero crescente di esaminatori un «classico» autentico, la sua poesia essendo considerata centrale nella ricerca del secondo Novecento. Osta a una maggiore conoscenza il fatto che i suoi libri sono introvabili come le riviste sulle quali pubblicava. In Solitario amore Savia si conferma poeta di talento pur avendo avuto una carriera consumatasi in pochi anni. PIER CARLO BONTEMPELLI, L’intelligence delle SS e la cultura tedesca, pp. 271, euro 18, Castelvecchi 2006 La ricerca del contatto tra il potere latente delle SS e la cultura tadesca. L’autore ci parla di giovani intellettuali preparati e desiderosi di espandere la loro conoscenza. Diversa invece la strategia ufficiale del Nazionalsocialismo propenso a collaborare con l’università e la ricerca scientifica. Senonché i giovani intellettuali puntano a cambiare la disciplina loro tramandata. L’intento è di ripristinare una conoscenza tedesca agli antipodi del sapere universale «tedesco». Ciò contrasta con le mire dei gerarchi nazisti come Goebbels che credono nella propaganda delle masse. STEFANO CAMMELLI, Ombre cinesi, pp. 256, euro 16,50, Einaudi 2006 L’Occidente da sempre cerca di carpire alla Cina il segreto della sua evoluzione in espansione pacifica e virtuosa. Da parte sua la Cina, molto riservata e guardinga, non ha mai accettato questa intromissione per cui ha fatto intendere all’Occidente ciò che non era vero. Ha creato, per la curiosità occidentale, una terra di immense ricchezze con una buona amministrazione aperta alla cristianità, interessata solo al denaro e misteriosa. In realtà c’è un’altra Cina da scoprire e come disse Henry Kissinger, «i misteri della Cina scompaiono in un solo modo, studiando». GINO TASCA, Isaia greco, pp. 123, euro 13, Pendragon 2006 Il rapporto che intercorre tra il temutissimo critico letterario Isaia Greco ed il suo uomo di fiducia, segretario tuttofare, maggiordomo e allievo schiavizzato. Ma quando Isaia si ammala è costretto a dipendere da quell’uomo: non può farne a meno perché è l’unico che capisce il suo linguaggio biascicato e poco chiaro per chiunque. L’unico capace di ispezionare il labirinto dei pensieri più intimi del suo padrone: una relazione nella quale s’intrecciano la sottomissione ormai liberata ed il potere represso di colui che ha sempre comandato. BRUNELLA SCHISA, La donna in nero, pp. 229, euro 15, Garzanti 2006 Manet è un famoso pittore francese i cui nudi femminili attraggono e scandalizzano Parigi. Nella sua vita appare Berthe, ventisettenne ribelle che cerca un suo spazio nel mondo artistico maschile. Il legame tra i due dura quindici anni e Manet ne è ossessionato. La ritrae sempre vestita di nero. Nel bel mezzo di dissensi politici, mette in evidenza un travolgente rapporto a due con l’enfasi di una grande intesa d’amore fatta di corpi ed immagini, luce e colore, parole ed emozione. Da ciò rileva lo spirito di un artista tormentato ed immortale in rapporto a una donna romantica nella sua liberalità considerata adesso la più grande pittrice dell’Ottocento. GIOVANNI BATTISTA GUIZZETTI, Terri Schiavo e l’umano nascosto, pref. Adriano Pessina, pp. 102, euro 9, Editrice Fiorentina 2006 Terri Schiavo, che qualcuno avrebbe voluto ancora in vita, è una donna in stato vegetativo, condannata a morte per disidratazione. Ci si chiede cosa sia lo stato vegetativo e di quali cure ed assistenza necessita. L’autore, dopo dieci anni, vuole dare le risposte a tali domande parlando di una dignità e un valore che sopravvivono nel tempo. 10 VIVE FRA VIGEVANO E MILA- S t los IL LIBRO/1 NO. AUTRICE DI ROMANZI, È STUDIOSA DI DANTE. "LA DIVINA COMMEDIA" (BOMPIANI PER LA SCUOLA, 2006) ANTONIO INCORVAIA ALESSANDRO RIMASSA "Generazione mille euro" pp. 168, euro 9,50 Rizzoli, 2006 BIANCA GARAVELLI I n una Milano che non è più «da bere», ma che somiglia piuttosto a una gigantesca macchina mangiasoldi, si svolgono le avventure di Claudio, junior account del marketing di una multinazionale, un ragazzo di ventisette anni che viene dalla provincia, dove ha una mamma affettuosa che per amor suo sta imparando a usare gli sms, e che ha un unico assillante obiettivo: far quadrare il suo bilancio mensile con i mille euro del suo stipendio. Cerca invano di sentirsi all’altezza della sua direttrice, femme fatale, che lo tiranneggia e ne sfrutta le buone idee senza riconoscerne il merito; compie viaggi di lavoro dei quali avrà il rimborso spese in cronico ritardo; si muove tra i fantasmi di una città che relega ai barboni il ruolo di saggi e che ospita il primo corteo di protesta degli stagisti. Così in Generazione mille euro Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa rivelano i segreti di una posizione lavorativa dal nome promettente (junior account appunto), ma la cui realtà non corrisponde affatto ad apparenze e aspettative, né in termini di retribuzione né di stabilità né di progressione di carriera. Raccontando l’allegra disperazione di Claudio e dei suoi tre conviventi, tutti, tranne uno figlio di papà ricco, alle prese con le sue stesse difficoltà in una città in cui i prezzi sono alle stelle (ma non altrettanto gli stipendi), il duo Incorvaia-Rimassa entra nel novero degli autori italiani che stanno denunciando questo pericoloso squilibrio, da Bajani a Nove. Stilos ha intervistato i due autori. Come può un libro nascere da un blog? E questa nascita è casuale o voluta? INCORVAIA: Nel nostro caso il libro è arrivato in libreria dopo essere stato distribuito gratuitamente sul web attraverso il sito www.generazione1000.com per tre mesi, dal 13 dicembre 2005 al 13 marzo 2006, come ebook vero e proprio, senza altro obiettivo se non quello di dar voce alla generazione dei ragazzi con un lavoro precario e senza stabilità sociale nel modo più immediato possibile. Scegliere internet come strumento di distribuzione, quindi, è stata un’idea intenzionale, motivata dalle enormi potenzialità di comunicazione e aggregazione proprie di questo supporto (e in Italia ancora largamente inesplorate). Il fatto che poi dal web sia approdato in libreria è stata invece una conseguenza del tutto casuale ed inattesa, determinata dal repentino passaparola che si era creato intorno al nostro progetto e che ha portato alcune case editrici ad interessarsene e a proporci la pubblicazione. Il blog è nato proprio nel momento in cui il romanzo è approdato in libreria, per dare un seguito originale e interattivo alle avventure dei quattro protagonisti in modo che la lettura non si esaurisse all’ultima pagina del libro ma proseguisse quotidianamente, evolvendosi in un mix tra fiction e realtà che mantiene fedelmente lo spirito iniziale del racconto. RIMASSA: In verità noi abbiamo scritto un romanzo e utilizzato - volutamente - il web come mezzo di distribuzione. Abbiamo creato un sito ad hoc, www.generazione1000.com, e abbiamo messo in download gratuito il libro in formato pdf. Infatti, non avendo contatti diretti con nessun editore e volendo arrivare a questa generazione velocemente e direttamente, abbiamo pensato fosse il metodo più rapido, economico ed efficace per raggiungere il nostro obiettivo. I quasi 24.000 download in soli 90 giorni dimostrano che anche in Italia il web è diventato uno strumento di comunicazione libero, indipendente e vincente. Il libro nasce quindi dalla volontà di «scoperchiare una pentola» che già bolliva da qualche tempo sulla piaga del precariato: come mai è un romanzo e non un saggio? INCORVAIA: Perché il saggio viene visto sempre come una sorta di «manuale per addetti ai lavori», privo di quella forza evocativa ed emotiva che noi intendevamo invece portare alla luce. Pubblicazioni di saggistica sul tema del precariato erano già state stampate, ma erano rimaste esperienze isolate e confinate ad una utilità più statistica che pratica. Per noi era importante evidenziare il lato umano, le intime complessità e la portata generazionale di quello che non è semplice- IL LIBRO/2 MICHELA MURGIA "Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria" pp. 124, euro 10 Isbn, 2006 Storie di comune sopraffazione Nel primo romanzo Claudio, junior account con contratto co.co.pro a 1028 euro al mese, divide affitto e spese con altri tre coetanei nella sua stessa condizione precaria. Nel secondo romanzo una giovane telefonista a tempo determinato rivela i soprusi e lo stato di mobbing che la logica del suo lavoro di sopraffazione e condizionamento mentale determina. ANTONIO INCORVAIA - ALESSANDRO RIMASSA . Confessioni, sudore e lacrime di due giovani «lavoratori» frutto della logica della flessibilità. Un libro nato su Internet, diventato un blog scaricato 24 mila volte e arrivato sulla carta stampata come un manifesto generazionale La giornata precaria di un junior account MICHELA MURGIA Telefoniste di call center, preda della voracità del sistema C amilla, una giovane donna combattiva ma con qualche problema economico, si trova a lavorare in un call-center di una grande, imprecisata, città. Subito, si accorge di non essere semplicemente stata costretta a ripiegare su di un lavoro precario e poco gratificante, ma di essere entrata in un meccanismo capace di stritolare. È costretta a dichiarare alla capufficio, soprannominata subito «Hermann», le proprie motivazioni, che dovrebbero non solo averla spinta a intraprendere quell’attività ma anche ad accollarsi un carico sempre maggiore di turni di lavoro, sempre più massacranti e frustranti. E tutto perché deve riuscire a raggiungere un certo numero di appuntamenti con altrettanti potenziali acquirenti di una sorta di aspirapolvere. Appuntamenti che un venditoresqualo (è proprio «Shark» il soprannome con cui lo chiama) è pronto a trasformare in trappole che creano falsi bisogni ai malcapitati clienti. Con un impianto a metà fra diario e resoconto di guerra, brevi capitoli dai titoli incisivi e un’ambientazione claustrofobica, tutta rigorosamente dentro il mondo opprimente e cieco dell’ufficio delle telefoniste, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria è una storia ironica e dirompente, con cui Michela Murgia denuncia lo squallido volto di una società che in sostanza sta tradendo se stessa. Non è solo il racconto delle ingiustizie che deve subire una telefonista con contratto a tempo determinato, ma della tragica voracità del sistema, che non esita a sacrificare qualunque valore. Stilos l’ha intervistata. Il romanzo nasce da un’esperienza autobiografica? Tra le molte cose che ho fatto in vita mia c’è anche una breve esperienza come telefonista e sicuramente per scrivere Il mondo deve sapere mi ci sono molto più che ispirata. Pur omettendo nomi e riferimenti che permettessero di risalire con precisione alle persone reali, le situazioni descritte nel libro e l’intero racconto fanno riferimento a cose che mi sono realmente accadute durante quel breve periodo lavorativo. Il libro tuttavia è autobiografico in senso lato, perché il racconto è tutto incentrato sull’esperienza; ho cercato di non inserire nel testo alcun dato esplicito che permettesse di sapere direttamente qualcosa di me. Non è tanto la storia della persona che volevo raccontare, quanto la descrizione di un mondo, che era surreale a prescindere da chi lo osservava. Suppongo che qualcosa di chi scriveva sia trasparso comunque, ma non si tratta di un processo cercato. Ma hai affrontato il lavoro nel call center per poter poi scrivere questa storia? Come moltissime altre persone, ho affrontato quel lavoro perché non ne avevo un altro migliore a disposizione. Mi ci sono trovata dentro e l’ho raccontato, ma non c’era alcun intento di reportage sotto copertura, diversamente ci sarebbe forse da dubitare della veridicità del racconto. Il modo in cui quello che ho scritto ha finito poi per diventare un libro è rocambolesco più di una eventuale azione da infiltrata, perché quello che è stato edito è comparso prima testualmente in un blog privato, un angolo catartico che credevo solo mio e della persona per cui lo scrivevo, la Silvia della dedica. Non c’era la minima intenzione di diventare la paladina di nessuno e, se devo essere sincera, non c’è nemmeno adesso. Quando scrivevo il blog non era lo sfruttamento dei lavoratori il tema che pensavo di descrivere; mi interessava raccontare un determinato atteggiamento di approccio alla persona che prescinde da qualunque rapporto lavorativo e che può sorgere anche nelle relazioni familiari, tra amici o tra persone che condividono un qualunque interesse. La manipolazione che in quel call center veniva assunta come modus operandi era duplice e per questo ancora più oscura: i datori di lavoro manipolavano i dipendenti per far loro ottenere i risultati, i dipendenti a loro volta manipolavano i potenziali clienti per indurli a bisogni che non avevano e far loro dare risposte positive. Un circolo vizioso che mi allibiva e che ho ribattezzato «puttanesimo», riferendomi all’uso costante di attribuire una funzionalità anche all’atto più gratuito e naturale, a stabilire un prezzo per ogni azione, escludendo ogni gratuità. Il tema dello sfruttamento professionale è solo il casus belli da cui si origina un discorso più ampio. Non a caso un sacerdote, presentando il mio libro a un incontro recente, stabilì addirittura un parallelismo tra i metodi di coercizione da me stigmatizzati e le tecniche missionarie di una certa chiesa di qualche decennio fa; segno evidente che quella pratica comportamentale va ben oltre gli ambiti lavorativi e potenzialmente - se assunta come accettabile - può applicarsi persino in contesti insospettabili. Per sfruttare le telefoniste la ditta cercava sin da subito di impostare i rapporti su un piano che esulasse dalla prestazione professionale, assumendo quante più informazioni possibili sulle motivazioni personali della persona per svolgere quel lavoro. Le informazioni venivano poi usate come forma di pressione psicologica, identificando in esse degli obiettivi equivalenti che, se raggiunti, determinavano il successo. Se invece gli obiettivi non venivano raggiunti, si stabiliva una proporzione diretta tra il traguardo professionale e quello personale: se non raggiungi l’obiettivo, sei un perdente anche nella vita. Questo meccanismo, se pure mi resti il dubbio che non sia nemmeno legale, soprattutto non è etico. B. G. Nella foto sopra Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa, autori per Rizzoli di Generazione mille euro. In basso Michela Murgia, che da Isbn ha pubblicato Il mondo deve sapere mente un argomento, ma un problema che coinvolge 3 milioni e 600 mila persone, dando voce a sogni, speranze, frustrazioni e sensazioni, elementi che non sarebbe stato possibile raccontare con la stessa fedeltà e immediatezza attraverso un saggio. RIMASSA: Abbiamo avuto l’idea leggendo, sul quotidiano spagnolo "El Pais", un’inchiesta che raccontava questa generazione e coniava il termine «milleurista»: da qui abbiamo ritenuto che l’idea del romanzo potesse meglio rappresentare questa generazione che, altrimenti, è solo un agglomerato di numeri, dati, cifre. Noi abbiamo dato spazio al lato emozionale, intimo, personale. Non siamo numeri ma donne e uomini, ragazze e ragazzi, esseri umani con realtà tra loro differenti ma accomunati dal vivere in perenne incertezza e difficoltà. Quella che abbiamo raccontato è una generazione precaria non solo da un punto di vista economico, ma, di riflesso, anche sociale. Qual è l’identikit di un «praticante seriale», che poi è il vostro protagonista Claudio, junior account in una multinazionale con sede anche a Milano? INCORVAIA: Senza voler essere in alcun modo autoreferenziale, penso di poter rispondere a questa domanda citando la mia diretta esperienza personale... Mi sono laureato in architettura nel 2000, proprio in coincidenza con le prime riforme - introdotte dall’allora ministro Treu - sul mondo del lavoro, che iniziavano a sollevare anche in Italia il dibattito sull’importanza della «flessibilità». Concetto che a me affascinò da subito, non solo per predisposizione personale alla versatilità ma anche perché ritenevo che una laurea in architettura potesse essere facilmente spendibile, da questo punto di vista, in tutti i settori della creatività e della comunicazione. Così ho lavorato (sempre in stage o in co.co.pro.) come grafico pubblicitario, come web editor, come project manager, come illustratore, come art director, come giornalista e come autore tv, accumulando esperienze - per l’appunto - da «praticante seriale», dal momento che in nessuno di questi casi la mia attività si è poi evoluta in un contratto e in una posizione stabile e duratura. Perché «ma insomma, tu cos’è che vuoi fare nella vita?» e perché «beh, ok: sai fare un po’ di tutto, ma alla fine non sai fare tutto di niente». Il «praticante seriale» dunque è una persona di 25/35 anni, con una laurea in tasca costata sacrifici economici e non, mille (legittime) aspettative per il proprio futuro e la voglia di mettersi alla prova senza riserve, parcheggiato dentro un sistema che lo imbottiglia in questo caso, e solo in questo, a tempo indeterminato - in una serie di esperienze a coriandolo che gli richiedono dinamismo e responsabilità senza offrirgli nulla in cambio. RIMASSA: Un giovane sui 25/35 anni, con una laurea in tasca e tante aspettative. Soprattutto con la voglia di fare e le capacità per emergere. Ma con un contratto a progetto, se non in nero. Con un lavoro dignitoso se non addirittura «intellettuale». Con tante responsabilità ma con poche certezze. Con molti compiti ma pochi euro. Un giovane che non si piange addosso ma, anzi, giorno dopo giorno si rimbocca le maniche per emergere sul lavoro e per mettere insieme soldi e idee per arrivare alla fine del mese. Ora che avete avuto successo, pensate che il romanzo avrà un seguito? INCORVAIA: L’idea del seguito del romanzo - inteso come proseguimento delle avventure dei suoi protagonisti - sta trovando sin dalla sua uscita attuazione nel blog, in cui Claudio, Rossella, Alessio e Matteo portano a turno commenti, emozioni e testimonianze legate in modo molto stretto all’attualità contingente. Le loro strade hanno preso direzioni spesso imprevedibili rispetto a quelle tratteggiate nel libro, e non solo: spesso sono i lettori stessi ad influire sul plot suggerendo soluzioni o proponendo eventi e dinamiche. Sotto il profilo strettamente letterario invece, non ci sarà un Generazione mille euro 2 per due motivi: il primo - di natura creativa - è che i sequel finiscono il più delle volte con il rovinare la magia (e l’unicità) dei prodotti originali, nascendo come prodotti in provetta anziché seguendo un’autentica ispirazione; il secondo di natura sociale - è che ci piacerebbe che il seguito della storia venisse scritto da chi ha il potere concreto per cambiare le cose, legislativamente e culturalmente. L’idea che, fra un anno, la situazione sia ancora tale da rendere potenzialmente attuale un sequel francamente inizia a spaventarci molto. Eccebombo autori italiani pagina AURELIO GRIMALDI IL MIGLIORE CAMILLERI Sono rimasto felicemente sorpreso alla lettura di un’intervista ad Andrea Camilleri, nella quale il famoso e apprezzato scrittore siciliano giudicava quali suoi migliori romanzi proprio i due che io considero i suoi più riusciti: Il birraio di Preston (1995) e La concessione del telefono (1998). Di fronte ad uno scrittore così prolifico è inevitabile una dispersione anche dei giudizi. Ne ho tratto l’auspicio che proprio queste due opere «possano» essere effettivamente tra le migliori della incessante produzione dello scrittore portoempedoclino. Nella diatriba ancora in corso sulla possibile tenuta estetica di Camilleri mi sono schierato tra gli «a favore». La fluente e inarrestabile narratività può secondo me garantire al nostro autore una «resistenza» notevole. Fino a prova contraria, avere una storia da raccontare, e saperlo adeguatamente fare, resta un merito indiscutibile. Sul «come» raccontare, resto convinto che lo stile pseudoagrigentino di Camilleri non sia il suo atout più prezioso. Ma nemmeno un punto debole squalificante. Nella somma del tutto, Camilleri resta un autore da seguire e da studiare. La concessione del telefono (1998) racconta l’intricata ma appassionante vicenda dell’intrepido Filippo Genuardi, siciliano bello, astuto, gran viveur, che nel lontano 1892 chiede l’autorizzazione all’istallo a casa propria di uno dei primissimi apparecchi telefonici. Tutto qui? Macché. Attorno a questa benedetta concessione de telefono si apre una contorta ma eccitante vicenda dove Camilleri ha buon gioco ad offrire i suoi soliti prediletti temi: la Sicilia della mafia, dell’onore, del sesso, dell’inganno. Filippo è un uomo sensualissimo. Ha sposato la figlia del più ricco del paese che tiene a bada con prestazioni sessuali indimenticabili. Ma attorno a lui si crea un orrendo gioco di equivoci ed errori che porta il povero Filippo, pressato dal suocero, dal boss locale, dalla rivalità cittadina tra carabinieri e polizia, in un giro paradossale, comico, infine tragico. Camilleri racconta il tutto con un sistema più volte adioperato. Astenendosi dal ruolo di scrittore-narrante, la vicenda viene raccontata attraverso sezioni alternate di «cose scritte» (fonti e documenti, registrati con un mimetismo scrittorio a volte perfetto) e «cose dette»: dialoghi puri, senza mezza didascalia! L’impresa, non facile, riesce perfettamente. Ed è una doppia impresa: non è semplice, con queste autolimitazioni di scrittura, mantenere un livello di ritmo nrrativo così vivace. Né è facile mantenere, di fronte a tale susseguirsi di eventi, una credibilità strutturale. Ma Camilleri vince autorevolmente la sua scommessa. Qualche volta eccede nella commedia, per esempio nella caratterizzazione del paranoico prefetto napoletano Marascianno. Ma anche qui non mancano delle perle. Ecco una sua irresistibile lettera al Questore: «Per quanto attiene alla mia drammatica vicenda famigliare potrei, se Voi foste non bergamasco ma napoletano come me, riassuntavela scrivendoVi di seguito cinque numeri (59, 17, 66, 37, 89) e Voi avreste chiara e immediata visione dell’accaduto». La Sicilia di Camilleri è un pianeta speciale. L’onore trionfa ma gli adulteri si moltiplicano. La mafia vince perché nello Stato i Cretini trionfano sugli Onesti e persino sui Disonesti. La sensualità presiede la vita quotidiana ma porta alla perdizione. Ma senza questo pianeta Sicilia non ci sarebbe questo Camilleri! Andrea Camilleri, La concessione del telefono (Sellerio 1998) S t los autori italiani pagina Nella foto Valeria Di Napoli che con lo pseudonimo di Pulsatilla ha pubblicato da Castelvecchi La ballata delle prugne secche P er quanto oramai lo sappiano praticamente tutti, è utile ricordare che la Pulsatilla è una pianta. Solo in un secondo tempo diviene lo pseudonimo di Valeria Di Napoli, venticinquenne foggiana che poco prima dell’estate fa il suo esordio in narrativa con La ballata delle prugne secche, producendo un botto secco nelle patrie lettere. L’ultima manchette pubblicitaria recita «la ragazza del secolo nuovo». Poi, più in piccolo, «prima ristampa, 40.000 copie». Precisiamo, le copie sono quelle stampate e distribuite. Il venduto ha altri numeri, bastanti comunque a fare di Pulsatilla un fenomeno editoriale di rilievo nell’asfittico panorama librario italiano. Il successo del libro sta tutto nella cattiveria che la pianta Pulsatilla trasporterebbe in Pulsatilla-Valeria, secondo la sua omeopata. Questo ad accettare la vulgata. In realtà il successo risiede nella grande capacità dell’autrice di operare su materiale autobiografico - non per nulla il sottotitolo del libro recita "bio-novel" - con un occhio cui non sfugge l’assurdità delle situazioni, la loro costante piega tragicomica. La De Napoli vi aggiunge inoltre il suo essere istintiva, senza peli sulla lingua al limite dell’autolesionismo, proprio come molti suoi conterranei, e il dono di saper mediare fra questi aspetti. A leggere La ballata delle prugne secche con la mente il meno legata all’idea di nuova generazione di scrittrici da blog, di giovane neofemminismo arrabbiato, di nuova reductio della donna a oggetto, di cabaret travestito da confessione romanzata, o qualsiasi altra etichetta le sia stata appiccicata sopra in questi mesi, gli elementi di cui si diceva prima sono perfettamente visibili e ne fondano lo stile e l’intento. Stile che ha inoltre dalla sua una notevolissima capacità ritmica e percussiva nella costruzione delle frasi cui si aggiunge una sfrenata passione per il racconto. La tradizione, se così vogliamo definirla, cui si rifà la Di Napoli non è allora quella moderna (anche se un tantino sembra ammiccarvi), ma quella orale: il «cunto», la narrazione di fatti anche minimi di vita quotidiana, ancora profondamente viva in buona parte d’Italia. Ma se guardiamo più attentamente in un libro sui generis come questo si incrociano forme disparate e postmoderne ma convergenti quali il diario e il blog, che di quello è l’ultima versione, migliorata in ciò, che il piacere di raccontarsi deve avvenire in pubblico; e possibilmente con un gusto nuovo, dissacratorio, sarcastico, disincantato e irridente. Con la forza dei 25 anni e la vocazione a vedere nel mondo i soli lati comici e paradossali. Ed ecco come nasce un fenomeno quale Pulsatilla, cui non per caso sta arridendo maggiore successo sul web che non in libreria: perché per fare funzionare «macchine» narrative del genere, è necessaria l’interazione mentre nel libro quel che troviamo è soprattutto icasticità. Stilos ha intervistato l’autrice. Visto che alcuni l’hanno riconosciuta erroneamente come una delle firme di "Grazia", mentre altri la continuano a dichiarare attiva nel campo della pubblicità, quale lavoro svolge adesso e come lo concilia con l’impegno di scrittrice? Dopo l’uscita del libro, diversi giornali (quotidiani, settimanali, mensili, "Grazia" incluso) mi hanno proposto delle collaborazioni. Due o tre pezzi sono già usciti, è un lavoro che mi diverte. Spero di potermi mantenere così e dedicare il resto del tempo al prossimo libro. Per il suo La ballata delle prugne secche ha sempre rifiutato di essere paragonata ai cosiddetti romanzi «chick-lit», perché quelli sono storie di fantasia. Al contrario il suo libro è una «bio-novel», una biografia romanzata, scritto con tutta la sincerità possibile. Non le sembra però che in alcuni passaggi la Balla- Paradiso C di Dante A in prosa T A L O G O PULSATILLA . Un esordio fulminante di un’autrice pugliese dotata di humour e di gusto del disincanto. Porta il nome di una pianta che induce cattiveria ma il suo «bio-novel» sprizza ottimismo e buonismo. L’ultima prova generazionalista che conquista la platea giovane Alla base del mio caos ci sono i miei genitori VIVE BOLOGNA E LAVORA HA IDEATO L’ANTOLOGIA "RESISTENZA60" (FERNANDEL, 2005) IL LIBRO A NELLL’EDITORIA. PULSATILLA "La ballata delle prugne secche" pp. 167, euro 10 Castelvecchi, 2006 SERGIO ROTINO ta sia pericolosamente tangente con Bridge Jones e compagnia? Bridget Jones e compagnia hanno avuto successo perché sono romanzi verosimili, cioè ricalcano la realtà con una buona approssimazione. La storia di Bridget Jones, seppure falsa, è credibile. La mia, essendo vera, anche. Credo che questo rappresenti il limite che voglio superare. Sarebbe interessante misurarmi con una storia incredibile, o perlomeno peculiare. Vedremo. Non ho ancora avuto un attimo per pensarci, né per riperendere la penna in mano. La sua visione disincantata degli avvenimenti che narra nel libro, il suo dipingere senza traccia di retorica certi spaccati della nostra società e dell’umanità che la anima, una volta sarebbe stata definita tragicomica. Voglio dire, sente che La ballata starebbe meglio vicino a Fantozzi che alle scrittrici «chick-lit»? In questo caso, non pensa di rischiare l’incasellamento fra i comici che oramai invadono le librerie oltre che la televisione? Qualcuno ha avuto la bontà - e l’ardire - di paragonarmi a Jonathan Swift, Erica Jong, Louis-Ferdinand Céline, per via delle fughe, dell’ironia, della spudoratezza e quant’altro. Non lo so, non ci capisco molto di critica letteraria. Secondo me La ballata è tanto lontana da Céline quanto da Fantozzi. Il personaggio di Fantozzi è un perdente, un reietto, un condannato. Sulla testa di Pulsatilla aleggiano nuvole di sfiga fantozziana solo di rado. In linea di massima sono una che avuto LUCIANO CORONA "Paradiso di Dante" pp. 190, euro 13 Fermento, 2006 Prosegue la «riscrittura interpretativa in prosa e per tutti» di Dante da parte di Luciano Corona che completa la trilogia dantesca, dopo "Inferno" e "Purgatorio". Anche per la terza cantica Corona permette di accedere alla complessità del "Paradiso" in maniera comprensibile, benché il tono elevato dei temi venga mantenuto dall’inizio del viaggio del poeta sino alla visione finale nella quale l’essere umano viene assorbito dimentico di sé. Storia del centro di un ombelico Un esordio che non nasconde la sua natura profondamente autobiografica, anche se non del tutto. Perché punte di finzionalità ci sono, questo è sicuro. Un libro che narra con grande vivacità e acutezza il centro dell’ombelico di una ragazza, Pulsatilla, come ce ne sono tantissime attorno a noi. E Pulsatilla non si piange addosso, no. Sferra pugni e calci ridendo in faccia a ogni possibile «sfiga» le capiti, a ogni situazione non proprio riuscita, a un mondo di imbecilli e saputelli, di rintronati e di esseri inutili. Questo è, fra le altre cose, La ballata delle prugne secche. Libro in cui vi è una sola donna, Pulsatilla. Tutti gli altri personaggi sono uomini, e non ci fanno mai una bellissima figura. Il libro, che è difficile chiamare romanzo per le continue digressioni autodiegetiche e l’assenza di una vera e propria fabula, è stato ritenuto uno dei principali casi editoriali del 2006. Uno di quei casi rari, vedi Melissa P. o Lara Cardella, che inopinatamente avvengono in Italia. Discorso sulla Lucania abbastanza culo, come tutti non mancano di ripetermi. Per quale motivo ha deciso di utilizzare uno pseudonimo - al di là che esso richiami una pianta officinale sinonimo di una sua presunta cattiveria e il relativo blog da lei tenuto - e non il suo vero nome per questo esordio? Non si accentua il divario fra il versante biografico della Ballata e quello romanzesco che lei vorrebbe invece rendere invisibile? Mentre io correggevo le bozze, qualcuno limava i dettagli della copertina, incluso il nome da mettere in alto. Tutto l’involucro che riveste il mio romanzo, titolo a parte, è stato deciso da altri. Non ricordo di essermi posta il problema del nome, non avevo di certo contemplato la prospettiva del caso editoriale, tutto è accaduto molto rapidamente, e credo che sia andato tutto come doveva andare. Lei dice di non avere molto tempo da dedicare alla lettura, e che lo stile adottato per scrivere sul blog e poi nel libro è assolutamente, totalmente originato dal suo bisogno fisico di scrivere. Poi però, cita autori e testi non certo di basso profilo, e usa una scrittura a mio avviso matura, estremamente smaliziata, scevra dalle pecche riscontrabili in un qualsivoglia esordiente. Delle due l’una, o lei è un genio oppure sta dando di che vivere al personaggio Pulsatilla. Mia madre insegna lettere e il gusto per i vocaboli eruditi devo averlo ereditato quindi da lei. Invece mio padre è un uomo privo di filo logico, da lui ho imparato a fare insalate con le parole che imparavo. A cinque anni dissi alla mia maestra d’asilo che la mia cameretta era «un mare magnum di cose», e la maestra diede di gomito alla sua collega perché non sapeva cosa fosse il «mare magnum». Io assorbo, ritengo e rilascio: un mio amico mi chiamava «Valeria Sponge», la spu- ANDREA DI CONSOLI "Una lucida passione, intervista a Filippo Bubbico" pp. 127, euro 10 Avagliano, 2006 Lunga intervista-conversazione tra un lucano e un lucano: Andrea Di Consoli nato a Bruxelles da genitori lucani e Filippo Bubbico, ex presidente della Regione Basilicata e attuale sottosegretario allo Sviluppo economico, anche lui lucano di Matera. Una sorta di inchiesta ragionata tra due interlocutori che parlano, ancora e consapevolmente, dei nodi cruciali e dei problemi del Mezzogiorno. E grande vittima e grande imputata la Basilicata. Ghibellini e guelfi in Sicilia gna. Comincio tre libri alla settimana e ne finisco uno ogni tre mesi, sono curiosa, irrequieta e mi annoio facilmente, ma ho una memoria di ferro e la perversione antropologica di origliare i discorsi degli altri. Non so se sono un genio, ma è come se ogni volta una fatina mi allungasse un sacchetto con la parola giusta. Quanto hanno influito sul suo bisogno di mettere su carta, di narrare le esperienze (sue e di Pulsatilla) quei genitori descritti nel libro come progressisti, buonisti ma assolutamente distonici, incapaci di organizzare la loro vita e quella della figlia? C’entrano qualcosa, ma non so bene in che modo. La frase celebre e abusata di Nietszche, «Bisogna avere un caos dentro di sé per generare una stella danzante», è veritiera: se non avessi avuto un grande caos addosso, avrei trovato più tempo per fare l’analisi dei dettagli, forse avrei fatto l’ingegnere o l’impiegata al catasto, ma mi sarei persa il lato affascinante, emotivo, narrativo della realtà. Alla base del mio caos ci sono indubbiamente i miei genitori. Mi sembra che, almeno in parte, La ballata mutui la costruzione del blog, cioè sia diviso in compartimenti quasi stagno. Trova che questa impressione corrisponda a quello che aveva in mente? Per questo si avvicina alla forma diaristica? Non credo che La ballata somigli a un diario, né a un blog. Mantiene lo stile del mio sito, che poi è il mio stile. I compartimenti stagno ricordano secondo me la schermata del computer, sono «finestre» che si aprono e si chiudono sulla vita. Io sono una fuggiasca, saltabecco, sono per mia indole inadatta alla continuità; il mio libro risente di questo stato d’animo, ma non mi dispiace. Nel libro si sente invece immediato il suo piacere per la narrazione, che scivola a volte sul crinale della chiacchiera (a mio avviso, uno dei principii della narrazione). Quanto di questo piacere fa parte di un suo corredo genetico e quanto l’ha aiutata a svilupparlo il lavoro di copy nelle agenzie di pubblicità? Immagino sia parte nel mio corredo genetico. Il pubblicitario non chiacchiera, è spinto alla sintesi, infatti il mondo della pubblicità mi stava stretto, avevo bisogno di spazi per il galoppo. L’offerta di pubblicare un libro è stata un’opportunità per farlo, come il blog d’altronde. Ma ha un metodo per quello che scrive? Voglio dire, prende appunti, costruisce una specie di canovaccio o va di getto direttamente su computer, come a rimettere sulla pagina il pensiero, la situazione che ha elaborato a mente? Di getto, a seconda della superficie che ho a disposizione: computer, quaderno, bloc notes, le pagine bianche in coda ai libri che porto in borsa, qualsiasi supporto va bene. Il computer lo prediligo, perché non restano le cancellature. Ogni giorno, quanto tempo dedica alla scrittura che non coincide con necessità lavorative, bensì con il bisogno di misurarsi con la pagina, cartacea o elettronica? La disciplina non è il mio forte. Scrivo solo quando e quanto mi va. È un difetto che devo emendare. Come è arrivata a organizzare il materiale attorno a un’idea di romanzo? Ho notato che in parte lo ha ripreso dal suo blog. Il romanzo in nuce era un catalogo di relazioni sentimentali fallimentari e bizzarre, intorno al quale poi si è strutturato il resto della biografia. Comunque, il materiale tratto dal blog rappresenta solo una piccola parte del libro, contrariamente a quanto si mormora in giro. Quanto c’è nel libro di cucina editoriale utile a dargli una struttura il più vicina alla narrazione? Di cucina editoriale c’è poco. Gli interventi dell’editor sono stati minimi. MARCELLO AMICO "Il guelfo ghibellino" pp. 114, euro 10 Intilla, 2006 Il guelfo-ghibellino attorno al quale Marcello Amico costruisce il suo romanzo non è una contraddizione in termini, ma è sicuramente esistito. Nei quattro quadri che formano la narrazione di Amico, l’esule esiliato, il cavaliere senza macchia, una donna arrogantissima e l’ultimo cavaliere, tutti tormentati dall’idea di essere fedeli alla Chiesa e all’Impero, sono guelfi-ghibellini. Amico risale al 200 siciliano attraverso un’attenta ricerca. 11 S C A F F A L E LINO BOLOGNA, L’assassino non è un angelo, pp. 174, euro 174, Contatto 2006 Si ispira ad un fatto vero la detective story di Bologna, medico con la passione del poliziesco. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in Val di Magra, vengono ritrovati due cadaveri in una stanza d’albergo chiusa all’interno. Solo una finestra a strapiombo sul mare avrebbe potuto permettere all’assassino di fuggire. Le cose si complicano quando appare un terzo cadavere. Ma il professor Dondi, medico legale, non crede agli angeli. STEFANO LORENZETTI, Dizionario del buon senso, Frediano Sessi (cura), pp. 241, euro 15, Marsilio 2006 Lorenzetti è irritato dagli applausi ai funerali, i farmaci che costano qualche miliardo al chilo, Ivrea con le battaglie delle arance ecc. Ma ciò che lo irrita maggiormene sono i giornalisti con le loro frasi fatte, le reticenze e l’approssimazione. Per questo ha lasciato la vicedirezione di un quotidiano nazionale dopo venticinque anni passati a coordinare il lavoro dei colleghi definendola «relazioni pericolose». Lui osserva le contraddizioni di un paese nevrotico per la mancanza del buon senso. Continua le interviste alla gente comune. Dal suo osservatorio privato prosegue in un moralismo sempre smussato dall’arguzia. Stefano Lorenzetti ha vinto il premio Saint Vincent dopo aver lavorato per diversi giornali e pubblicato svariati lavori. CARMELO ALIBERTI, Itaca Ithaca, pp. 87, euro 10, Il Convivio 2006 Approdo poetico, tra sogno e visione, tra echi classici e rimandi all’attualità, il dramma lirico per voce sola di Aliberti, poeta, narratore e critico letterario messinese. I versi di Itaca continuano un lungo discorso poetico iniziato con Il pianto del poeta, pregno di simbolismi e di significati sacrali colti dal poeta lungo il viaggio odissiaco della poesia, da Omero a Dante, da Mallarmé a Kavafis e Cattafi. Il poemetto è tradotto in inglese da Nino Famà ed Ennio Rao. Prefazione di Francesco Puccio, postfazione di Angelo Manitta. ROSSANA DEDOLA, La valigia delle Indie e altri bagagli, pp.231, euro 20, Mondadori 2006 Negli anni Sessanta l’India è stata molto visitata da giovani occidentali che ancora oggi vi ritornano ricchi della visuale più ampia e sulla scorta di un vasto bagaglio di narrazioni da parte di poeti e scrittori. L’India ha mostrato un’identità diversa dall’Occidente ed ha compiuto sforzi per capire il mondo dal quale provenivano giovani incapaci più di viverci. DIEGO ABATANTUONO, Eccezzziunale!, pp. 110, euro 10, Mondadori 2006 In queste pagine fluisce la comicità di Diego Abatantuono col suo cavallo di battaglia del «Terrunciello» dal cervello «eccezzziunale, veramente eccezzziunale!». Un animale strano, portentoso nell’amplesso col suo spopozionato sesso. Dice di essere milanese ma ha un marcato accento del Sud che lo fa ruspante e rustico. Libro pieno di vocaboli coniati apposta per lui, a volte incomprensibili ma di forte ilarità. Si parla anche di calcio ma nel modo più paradossale. SALVATORE VECA, Le cose della vita, pp. 283, euro 9,80, Bur 2006 Ci sono cose nella vita considerate utili per poter vivere: i cosidetti «mestieri della vita». Praticamente sono le armi che ci consentono il vivere, l’abitare, l’amare l’invecchiare, che determinano la pace, il dolore, la solitudine. Tramite la filosofia ci spogliamo di passioni, emozioni, identità e da tutte le cose inafferrabili che offuscano il nostro modo di vivere. Veca suggerisce dodici ritratti di colleghi ed amici, da Vilfredo Pareto a Marco Mondadori, che si sono espressi in modo decisivo per descrivere le cose della vita. on una meritoria opera di riscoperta e di nuova traduzione cominciata nel 2005 con Le colpe dei padri, continuata nel 2006 con È tempo di uccidere e ora con Otto milioni di modi per morire, la casa editrice romana Fanucci sta via via ripubblicando tutti i titoli di Lawrence Block, maestro americano della crimestory. Stilos lo ha intervistato. I suoi libri - e Otto milioni di modi per morire non fa eccezione - fanno venir voglia di partire per New York subito dopo averli letti: cosa prova nei confronti di questa città e quali pensa siano le caratteristiche che la rendono così letterariamente adatta all’hard boiled, ma non solo? New York da molto tempo è casa mia. Ma io ho sempre avuto una fortissima attrazione per questa città, anche quando non ci vivevo. Per me è la città più eccitante che esista. È una città sempre stimolante. Credo che sia questo il motivo per cui così tanta gente si sente tanto attratta. C’è però un’altra ragione per cui ambiento le mie storie a New York, e credo che sia lo stesso motivo per cui è così tremendamente adatta a fare da sfondo ai libri. Quando tu descrivi la città, non è come se tu stessi descrivendo l’ambiente di Marte; la gente la conosce già, perché ne ha già visto una buona parte nei tantissimi film e serie televisive che vi sono stati ambientati. Quindi il lettore ha già una disposizione mentale che è aperta alla città. Per quanto mi riguarda, sono tantissimi gli ambienti di New York che ho descritto; e c’è tanta gente che negli anni mi ha detto di essere andata a cercare questi posti. È buffo, perché alcuni posti sono immaginari, me li sono inventati di sana pianta. Molti però, quasi tutti, sono veri, e vengono ritrovati. Altri ancora erano veri, ma essendo i miei libri stati scritti molti anni fa, magari non ci sono più, hanno chiuso. Lo stesso bar dove andava Scudder, cioè il bar di Armstrong, è stato chiuso un paio di anni fa. Ma il proprietario, il vero Armstrong, diceva di aver spesso ricevuto le visite di comitive di turisti che erano andate a trovarlo, a bere nel suo locale: spesso gli chiedevano dove si sedeva Scudder, altre volte gli chiedevano di fare una foto assieme a loro. È bella questa cosa. Eppure nel libro New York viene anche definita «la città del menefreghismo» e dei suoi abitanti si dice che «guardano dall’altra parte quando la città uccide i loro amici» - tra l’al- tro in un bellissimo paragone con La collina dei conigli di Richard Adams… Infatti è anche questo, New York. Ma in verità sull’argomento si può parlare di una visione del mondo più ampia. Certamente New York fagocita i suoi abitanti e in qualche modo li rende indifferenti, ma è la vita moderna in generale che ha questo effetto sulle persone. È un problema comune a tutte le grandi metropoli. Il libro ha ventitré anni, ma non li dimostra; quantomeno davanti ai nostri occhi da europei risulta attuale. È diverso per un lettore americano? Beh, è una domanda molto difficile; certo, per esempio se penso alle modalità di investigazione, ora con le intercettazioni telefoniche, con il dna, è tutto più facile di quando indagava Scudder, specialmente nei primi libri. Però, tutto sommato, questi sono dettagli. Come persona, come uomo, credo che Scudder sia attuale. E anche l’ambientazione credo lo sia. A conforto di quanto dico, c’è il fatto che il libro è tuttora in catalogo, e continua a vendere bene. Immagino che la gente lo trovi dunque al passo coi tempi. Da Otto milioni di modi per morire è stato tratto un film (introvabile in Italia). Ha partecipato in qualche modo alla riduzione cinematografica? Cosa ha provato quando l’ha visto per la prima volta? No, non ho partecipato in alcun modo. Non mi hanno chiesto di partecipare alla stesura della sceneggiatura. Cosa ho provato, vedendolo, sapendo che era tratto dal mio libro… beh, le racconto un aneddoto indicativo: una volta un giornalista chiese a James M. Cain che cosa provasse pensando a ciò che Hollywood aveva fatto ai suoi libri. Lui rispose «Hollywood non ha fatto niente ai miei libri, guardi, sono tutti lì allineati sullo scaffale». Credo di dover considerare il film come «altro» dal libro, quindi. Ma per tornare alla domanda: sono sincero, il film non mi è piaciuto molto. Anzi, posso dire che è stato un fallimento sotto tutti i punti di vista. L’unica cosa che posso dire mi sia piaciuta è stata l’interpretazione di Jeff Bridges nei panni MADDALENA BONACCORSO NARRATIVA NOIR TANTI SITI ITALIANI SULLA VIVE E LAVORA A MILANO. COLLABORA CON DUE IMPOR- di Matthew Scudder e quella di Andy Garcia nei panni di Chance. Loro hanno recitato molto bene, ma il resto del film è stato veramente un disastro. Poi mi è anche capitato di parlarne, con Jeff Bridges; mi ha confessato di essere lui stesso rimasto deluso dal film. Mi ha detto che lui aveva svolto un lavoro molto meticoloso per prepararsi ed era convinto di aver fatto un buon lavoro; ma il problema era stato che la produzione aveva deciso di allontanare il regista originario, proprio alla fine del film, e di assegnarlo a un altro. Scrive anche sceneggiature? No, non scrivo molte sceneggiature. Ne ho scritto una per un film chiamato "Keller", su questo personaggio, ma non ne è stato ancora fatto niente. A proposito del personaggio di Keller, vuole parlarcene? Keller è un personaggio che mi paice molto… è comparso, finora, in tre libri. "Hit man", Hit list" e "Hit parade"; quest’ultimo è molto recente. È un sicario a pagamento, un assassino che uccide per soldi. Non avrei mai pensato di scrivere un libro sull’argomento, figuriamoci una serie… ma così va la vita. Keller è nato come protagonista di una short-story, era la storia di questo sicario che da New York si reca nell’Oregon perché ha avuto incarico di uccidere una persona che rientra nel programma di protezione dei testimoni. Però Keller finisce per entrare in confidenza con la vittima, la conosce e inizia ad avere dubbi sulla propria attività, pensa addirittura che non sia giusto ucciderla, pensa di cambiare vita. Cerca anche casa in Oregon. Ma un bel giorno si alza, ritorna in sé, uccide la persona che doveva uccidere e se ne torna a casa. Pensavo che Keller sarebbe finito così, con quella storia. Sono passati un paio d’anni senza che scrivessi nulla su di lui. Però mi sono reso conto che continuavo a pensarci, a questo personaggio. Ho pensato che magari potevo fargli fare un programma di psicoterapia; e quindi ho scritto una storia in cui raccontavo questo programma, e poi una cosa tira l’altra, insomma continuavo a scrivere storie su di lui; mi sono reso conto che stavo scrivendo una specie di romanzo a rate. Quindi ho raggruppato le prime dieci storie e ne ho fatto un romanzo, che è "Hit man". E poi da lì è venuto il resto. Lei ha creato diversi personaggi seriali, tutti diversi tra loro e tutti ugualmente convincenti. Sembra impossibile che siano usciti dalla stessa penna. Riesce sempre senza problemi a farli convivere dentro di sé? Sì, riesco e sono sempre riuscito a mantenere separata nella mia creatività personaggi così diversi e a far progredire le loro storie senza problemi. So- È nell’hard boiled del detective Matthew Scudder che il talento di Block ha trovato la sua ispirazione. È di nuovo tempo di indagare per Matthew Scudder: ex poliziotto con una bambina uccisa per sbaglio sulla coscienza, e ora detective privato con gravi problemi di alcoolismo. Sempre alle prese con le luci scintillanti e le anime perse di New York. Una prostituta viene trovata uccisa in una camera d’albergo. Era giovane e bellissima e stava cercando di cambiare vita. Ma non ha fatto in tempo, e ora il suo protettore, il fascinoso e enigmatico Chance, accusato dell’omicidio ma con un alibi di ferro, ingaggia il detective Scudder affinché trovi il colpevole. Un libro scritto nel 1982 dal quale nel 1986 è stato tratto un film, con la sceneggiatura di Oliver Stone. Prostituta uccisa colpevole cercasi LAWRENCE BLOCK "Otto milioni di modi per morire" Trad. Ornella Ranieri Davide, Nello Giugliano pp. 384, euro 15 Fanucci, 2006 LAWRENCE BLOCK Nella Grande Mela del cinema d’essai Giallo sofisticato ambientato in una New York che ispira più sogni anziché paura. Dove un libraio sui generis, Bernie Rodhenbarr, può trovare cittadinanza vestendo anche i panni del ladro, una sindrome che non lo abbandona mai, e quelli dell’investigatore. C’è un mistero da risolvere: un cadavere che aspetta di conoscere il suo amicida. Riluce la New York del cinema d’essai e in bianco e nero. Ritorna Bernie Rhodenbarr, libraio con il vizio inguaribile del furto ma sempre tentato dal piacere dell’onestà. Per pagare l’affitto della libreria si decide a commettere uno scasso, che gli riserva sorprese: non solo una rara raccolta di figurine di baseball ma anche un cadavere. Finisce naturalmente per essere il primo sospettato e deve impegnarsi in una nuova inchiesta che valga a salvare se stesso. Il titolo fa riferimento allo stato di derelizioni di New York dove, dietro un convincente apparato perbenista, si nascondono ignominie e aberrazioni. Una donna viene uccisa e il marito eredita ricche sostanze. Matthew Scudder indaga sulla morte finché scopre, rimanendone sconvolto, una videocassetta in cui si vedono un uomo e una donna torturare e uccidere un ragazzino. LAWRENCE BLOCK "Il ladro che credeva di essere Bogart" Trad. Alfredo Colitto pp. 287, euro 9,50 Hobby&Work, 1999 IL LADRO CHE CREDEVA... Uno scassinatore ben poco fortunato LAWRENCE BLOCK "Il ladro che rubava figurine" pp. 280, euro 9,50 Hobby & Work, 2000 IL LADRO CHE RUBAVA... l primo libro con protagonista Matthew Scudder viene pubblicato negli Stati Uniti nel 1976, con il titolo "The sins of the father". Block non ha ancora quarant’anni, ma la carriera che ha alle spalle è già notevole. Con questo romanzo e con la nascita di Matt Scudder lo scrittore americano entra nel gotha dei migliori story-teller dei tempi moderni: la critica e i lettori lo capiscono al volo e percepiscono immediatamente di trovarsi davanti a qualcosa di nuovo e stupefacente. Il romanzo ottiene subito un incredibile successo. A tutt’oggi Block continua a scrivere di Matthew Scudder: la serie negli Stati Uniti è già arrivata al quindicesimo volume - proprio di recente è uscito "All the flowers are dying" - e non tradisce segno di stanchezza né di ripetitività. In Italia, dopo una serie di titoli pubblicati negli anni Settanta sotto l’etichetta dei Gialli Mondadori, e dopo un lunghissimo periodo di inspiegabile oblìo, l’opera di ripubblicazione è appena iniziata. Matthew Scudder è probabilmente il personaggio seriale maggiormente riuscito nel panorama mondiale della crimestory. Ex poliziotto in forza al New York Police Department, e adesso detective privato senza licenza, lavora in modo anomalo, più che altro indaga per far favori agli amici. Problematico e affascinante; ricolmo di dubbi, schiacciato dall’alcoolismo, onesto fino al midollo. Riunisce le caratteristiche migliori dei grandi detective americani; da Sam Spade, indimenticato protagonista della serie creata da Dashiell Hammett, del quale possiede la forza di carattere e la tenacia, fino al moderno e metropolitano Harry Bosh di Michael Connelly, passando per Travis McGee, di John D.Mac Donald, con il quale ha in comune astuzia e accortezza. Matthew Scudder rende omaggio con ogni respiro alla sua città, che è poi l’amatissima città dove vive Block, New York «state of mind», le sue anime perse, le strade bagnate. Una città notturna, agitata, popolata da fantasmi ma che attira e cattura il lettore con un’invisibile calamita. Otto milioni di modi per morire è stato scritto e pubblicato negli Stati Uniti nel 1983 e bisogna sottolineare che è il quinto episodio della serie americana. Qui Matthew Scudder, detective privato, indaga su una serie di omicidi che colpiscono i membri di una riservatissima associazione chiamata «Club dei 31», cittadini degni di stima che si incontrano una volta l’anno. Agli inizi nessuno pensa a un serial killer mirato ma le indagini si indirizzano presto in questa direzione fino a precisarsi in una spietata e sorprendente caccia all’uomo tutta newyorkese. Caccia spietata a un serial killer LAWRENCE BLOCK Trad. Stefano Negrini "Una lunga linea di morte" pp. 316, euro 9,50 Hobby & Work, 2001 UNA LUNGA LINEA DI MORTE Una giovane bella prostituta viene trovata morta nell’appartamento che divideva con un un uomo accusato del delitto e spinto a togliersi la vita in carcere per protestare la sua innocenza. Il padre della ragazza incarica Matt Scudder allo scopo di capire chi fosse stata davvero sua figlia. Le indagini si muovono in una New York allucinata, fatta di bar aperti nottetempo e di individui catafratti. Morte misteriosa di una prostituta LAWRENCE BLOCK "Le colpe dei padri" pp. 176, euro 13 Fanucci, 2005 LE COLPE DEI PADRI da noi tuttavia esce come terzo, dopo Le colpe dei padri e È tempo di uccidere, la cui prima pubblicazione risale al 1976. "Eight way millions to die", questo il titolo originale, è sicuramente un libro topico nell’andamento della storia del detective, perché in esso, per la prima volta, Matthew Scudder ammette il suo alcoolismo e ne prende intimamente coscienza. Lo troviamo difatti, nelle prime pagine, appena uscito dall’ospedale; con una condanna che grava su di lui. L’alcoolismo lo ucciderà in pochi anni, se non riesce a smettere, subito. E lo troviamo, nell’ultima pagina, in lacrime, davanti al gruppo degli Alcoolisti anonimi. E tutto il romanzo è una lenta e continua presa di coscienza di quanto questo problema influisca sulla sua vita e sul suo lavoro. Non è lo scontato eroe americano che fa della dipendenza dal bourbon una forza: Scudder è un uomo come tanti, che nella bottiglia cerca solo la forza di resistere alla solitudine e al rimorso. È un personaggio che evolve, invecchia assieme al suo creatore, e man mano che passano i giorni e che la realtà cambia sotto i suoi occhi, anch’egli modifica se stesso e il suo modo di agire. Questa caratteristica, fondamentale, contribuisce a renderlo un personaggio vivo, ben radicato nel suo tempo ma, nonostante questo, attuale anche a vent’anni di distanza. Lo stile narrativo è disarmante nella sua semplicità. Lawrence Block non è scrittore che debba ricorrere a trucchi, la storia erompe naturalmente dalle pagine del libro con estrema pulizia e con un ritmo e una suspense che non concedono tregua. È un artigiano della scrittura che sfugge alla catalogazioni, e la sua abilità appare in modo inequivocabile semplicemente osservando come tutte le differenti componenti del plot narrativo convergano come un basso continuo, alla fine, in un unico, elettrizzante, insieme. Penetrante come una stilettatata. Nessuna parte è in sopravvento, nessun dettaglio è di troppo, nessun aggettivo è forzato. Tutto è essenziale e angosciante come in un quadro di Edward Hopper, tutto è dramma, tutto è incomunicabilità. Vita di New York, sempre e comunque. M. B. Scudder, l’americano pieno di vizi e virtù I L’aberrazione non ha confini LAWRENCE BLOCK "La perdizione" Trad. S. Negrini pp. 249, euro 15,49 Mondadori, 1992 LA PERDIZIONE no sempre riuscito a mantenere le diverse attitudini dei diversi personaggi contemporaneamente e a tenere ben separate le loro voci. Anzi, le dirò di più: un altro dei miei personaggi si chiama Evan Tanner. Avevo scritto sette storie con lui protagonista quando, molti anni fa, diciamo circa venticinque, smisi di scrivere storie su questo personaggio. Qualche anno fa decisi di scrivere un nuovo episodio della serie, l’ottavo. E quando mi accinsi a scriverlo, nel momento esatto in cui mi misi davanti al computer per scriverlo, non ebbi nessun problema a farlo, e quindi a immedesimarmi nuovamente nel personaggio di Tanner che tanti anni prima avevo abbandonato. Ho stupito per prima me stesso; perché, le dico la verità, anche io pensavo che magari all’inizio avrei avuto qualche problema a ricatturare la voce, l’essenza di Tanner. E a maggior ragione per il fatto che quei libri li scrivevo in prima persona. Invece, per fortuna, non è accaduto. Ho iniziato a scrivere e ho scoperto che in questo quarto di secolo Tanner semplicemente era rimasto nascosto in qualche cellula del mio cervello, e quando gli ho dato l’occasione per farlo ha ricominciato a parlare. Stava solo aspettando la possibilità di farlo Matthew Scudder e il ladro gentiluomo Bernie Rhodenbarr si muovono entrambi a New York. Non le viene mai voglia di scambiare un po’ le loro caratteristiche, o di farli incontrare? No, di scambiare un po’ le loro carat- Lawrence Block nasce a Buffalo, nell’Ohio, nel 1938. Da molti anni vive a New York. Nella sua carriera ormai quarantennale ha vinto tutto ciò che è possibile vincere: l’Edgar Award gli è stato conferito per ben tre volte. Ha ricevuto inoltre due volte il Maltese Falcon Award, il Nero Wolfe Award e cinque volte lo Shamus Award. Anche la Francia ha riconosciuto il suo genio, proclamandolo «Grand maître du roman noir». È stato tradotto in Europa fin dai primissimi anni Sessanta. Il suo romanzo Mona già nel 1962 entrò a far parte della prestigiosissima "Série Noire" di Marcel Duhamel. È sempre stato uno scrittore estremamente prolifico: ha iniziato a scrivere da giovanissimo e tra le sue opere, oltre i numerosi romanzi, vanno ricordati molti ottimi racconti e saggi. Si è mosso ininterrottamente e con estrema agilità tra i vari ambienti della letteratura di genere, sempre a suo agio tra la spy story, il thriller, il giallo classico fino all’hardboiled, la branca più forte e metropolitana del poliziesco. Scrive da giovane grande prolificità L’ A U T O R E 13 pagina Un ricattatore dei bassifondi di New York fa la fine che si merita: ucciso e gettato nel fiume. Prima di morire ha avuto il tempo di lasciare a Matt Scudder un fascicolo con tre storie e tre nomi di persone che stava ricattando. Il detective privato, ex poliziotto, avvia indagini che lo portano in un mondo inesplorato e pericoloso, nel cuore nero di una New York che fa da perfetta quinta a un intreccio di malaffare. Così finiscono i ricattatori LAWRENCE BLOCK "È tempo di uccidere" Trad. Ornella Ranieri Davide pp. 176, euro 13 Fanucci, 2006 È TEMPO DI UCCIDERE za, ottime recensioni… e quindi ho capito che era la mia strada. E adesso mi identificano così tanto con i polizieschi che se anche scrivessi un libro di cucina, beh, i librai lo metterebbero comunque nella sezione dei gialli! Dopo l’11 settembre lei ha scritto "Small town", un libro interamente su New York, ancora inedito in Italia. Vuole parlarcene? In verità per molti anni ho avuto in mente di scrivere una storia che avesse per protagonista New York vista dagli occhi di diversi personaggi. E che avesse dentro di sé quanti più elementi di questa grande città un libro potesse contenere. Io in verità avevo già iniziato questa storia, e quando è arrivato l’11 Settembre ero già a buon punto. Naturalmente, appena è successo quello che è successo la mia disperazione era totale. Ho pensato che non sarei mai più riuscito a riprendere in mano quelle pagine, che non sarei più andato avanti con la narrazione. Però man mano che il tempo passava ho capito che forse avrei potuto affrontare la questione in maniera diversa. Che proprio quelle pagine che avevo scritto, una volta sistemate e parzialmente riscritte, potessero essere l’ossatura di un libro ambientato nell’immediato domani delle torri gemelle. Che potessero essere testimonianza e speranza. Credo che il libro sia proprio questo, e spero che "Small town" venga presto pubblicato da Fanucci. Lei ha scritto anche dei manuali di scrittura: che consiglio darebbe a chi volesse scrivere un thriller? Sicuramente di scrivere la storia come viene in mente e non pensando a un pubblico immaginario. Non pensate a compiacere, a piacere. Scrivete la storia che vorreste leggere. C’è una citazione di Edgar Lawrence Doctorow, che lei riporta spesso: «Scrivere un romanzo è come guidare nella notte». Le piace molto? Sì, mi piace moltissimo questa citazione. Scrivere un romanzo è come guidare di notte, è veramente così. Non puoi vedere molto, vedi soltanto lì dove le luci della tua macchina si spingono, e oltre non vedi niente. Però puoi continuare a viaggiare tutta la notte e attraversare l’intero paese. Il che significa che quando inizi a scrivere un romanzo non è detto che tu ce lo debba avere tutto in mente, puoi cominciare a scriverlo comunque. E poi sarà una sorpresa anche per te, quello che succederà. [Trad. Seba Pezzani] so che arrivati alla fine di qualche mio libro si siano detti «Posso fare di meglio»! Riguardo all’ispirazione, certamente, mi fa piacere, e credo sia un fatto abbastanza naturale per ogni scrittore incorporare elementi degli autori che legge. Non necessariamente in maniera consapevole e volontaria. Io stesso, sicuramente, nel tempo ho preso tratti di altri scrittori; scrittori che ho letto in gioventù, magari. Quali scrittori ha amato particolarmente? Ah, guardi… io ho amato molto Dashiell Hammett. E poi Raymond Chandler, Cornell Woolrich, Fredrick Brown, Ed Mc Bain. E anche scrittori non di genere, come John O’ Hara, per esempio. Aproposito di Cornell Woolrich: lei ha completato un suo libro, Dentro la notte. Può parlarci di questa esperienza? L’ho fatto molti anni fa, una ventina, credo. Cornell Woolrich il romanzo l’aveva finito. Solo che era incompleto, nel senso che mancavano una trentina di pagine all’inizio, un’altra trentina più avanti, e soprattutto c’erano molte discrepanze. Per cui il mio lavoro è stato quello di colmare i vuoti e di dare organicità al testo. Ho dovuto risolvere dei problemi: per esempio nel capitolo 8 c’è un tizio che muore e ricompare nel capitolo 12. Per cui io ho avuto la responsabilità di far sì che questo libro potesse essere stampato e presentato al pubblico. Però alla fine rimane in tutto e per tutto un libro di Cornell Woolrich. Lei ha cominciato a scrivere giovanissimo, negli anni ’50. Era già consapevole del suo talento? No, diciamo che allora non ero consapevole di avere avuto in dono il talento della scrittura. Ho deciso che volevo diventare uno scrittore e ho cominciato a scrivere a 15, 16 anni e già qualche anno dopo ero un professionista. Non ho mai sentito un talento particolare per la scrittura, piuttosto il desiderio fortissimo di scrivere, questo sì. Restando in argomento: ha sempre desiderato scrivere polizieschi o arrivarci è stato un caso? All’inizio non ho deciso a mente fredda che mi sarei occupato di polizieschi; ho provato a scrivere diversi generi, di versi tipi di romanzi. Però con il passare del tempo mi sono reso conto che l’idea che più mi intrigava, che più mi interessava era proprio quella di scrivere dei gialli, dei polizieschi. La prima crime story che ho scritto ha avuto un’ottima accoglien- teristiche, no, finora non me ne è mai venuta voglia. In fondo credo che Scudder e Rhodenbarr vadano abbastanza bene così, e non abbiano bisogno di modificare i propri tratti o di scambiarsi alcune particolarità. Per quanto riguarda il farli incontrare… beh, alcuni lettori me lo hanno anche chiesto esplicitamente. Ma non credo che lo farò mai; vivono in due universi troppo diversi. È vero, tutti e due vivono in una città chiamata New York. Ma la New York di Scudder è buia, è molto dark, quella di Rhodenbarr è luminosa, gioiosa. Però, nonostante la sua problematicità, Scudder possiede un particolare umorismo… Sì, è vero, e la maggior parte dell’umorismo è contenuta secondo me nei dialoghi, nelle conversazioni che Scudder ha con i vari personaggi. Credo che questo rispecchi ciò che succede nella vita reale. Perché alla fine, soprattutto nell’ambito delle forze di polizia, questo umorismo c’è sempre. È un po’una sorta di scudo contro le durezze della vita. Il poliziotto deve averlo per poter misurarsi con gli orrori che si trova di fronte. Mi è molto piaciuta l’idea del «racket della protezione celeste». Scudder è ossessionato dal devolvere soldi alle chiese… Ah, sì, questa storia del «racket della protezione celeste» incuriosisce molto i miei lettori. Sinceramente, non so come mi sia venuta l’idea. Ma c’è solo nei primi libri della serie; e poi c’è un punto, anche se non ricordo bene dove con esattezza, in cui lui smette di farlo. Alcuni dicono che Scudder smette di dare soldi alla chiesa quando diventa sobrio… Ha mai commesso qualche errore, magari poi scovato dai suoi lettori? Beh, oggi nell’epoca dell’e-mail, è molto più facile per un lettore contattare direttamente l’autore di quanto non lo fosse una volta. Per cui non appena io commetto un errore (ma questo vale anche per molti altri scrittori) tantissimi lettori me lo fanno subito notare. L’errore più comune che mi capitava, soprattutto prima, di commettere, era quasi sempre legato a imperfezioni e a inesattezze sul tema delle armi. Pare che ci sia molta gente interessata alle armi più di quanto non lo sia io, quindi non appena sbaglio qualcosa me lo fanno subito notare. Al punto che ultimamente mi invento delle marche assurde di armi; così posso spararle grosse, dire quello che voglio senza che nessuno abbia il diritto di farmelo notare. I suoi libri contengono molti dettagli tecnici su armi, procedure di polizia, etc etc. Ha qualcuno che l’aiuta, che le fornisce consulenza? Devo dire che non c’è nessuno che mi aiuta a svolgere il lavoro di ricerca né io sono un autore che compie molte ricerche. Per cui le informazioni che suffragano i miei libri sono quelle informazioni che ho acquisito nel tempo, semplicemente guardandomi intorno. In Italia negli ultimi anni c’è stata un’enorme rinascita della letteratura poliziesca in tutte le sue varie accezioni. Questa rinascita è stata naturalmente seguita da innumerevoli dibattiti sulla validità della letteratura cosiddetta di genere e sulla sua dignità. Lei cosa ne pensa? In effetti anche negli Stati Uniti negli ultimi anni l’attenzione dei critici nei confronti del genere della crime story è cresciuta notevolmente. Questo forse perché la cosiddetta letteratura di serie A ha perso di vista un po’ il concetto base dello scrivere, cioè la storia. Che è invece un elemento trainante della letteratura di genere. Questo non significa che automaticamente tutta la letteratura di genere sia positiva e quella di serie A sia negativa. Ci possono certamente essere delle ottime storie di genere che possono essere messe sul piano della migliore letteratura, e ce ne possono essere altre pessime. Così come ci sono determinate storie scritte con un tono letterariamente alto che poi non raccontano niente. Vorrei anche dire un’altra cosa: dei giovani scrittori americani dell’ultima generazione ce ne sono diversi, forse tra i più interessanti, che hanno scritto indiscutibilmente delle storie poliziesche, anche se non vengono commercializzate come tali. Il giallo, l’indagine, a volte si nascondono tra le pieghe della scrittura… Molti scrittori di crime-story sia americani che italiani, per esempio, hanno tratto ispirazione dai suoi libri e altri hanno proprio dichiarato di aver iniziato a scrivere dopo aver letto lei. Questa cosa le fa piacere? Beh, sì, è vero che molti scrittori dichiarano di aver iniziato a scrivere dopo aver letto qualcosa di mio. Pen- della crime story sminuiscono le presunzioni maschili. Da Hammett in poi, scaturisce la «scuola dei duri», letteralmente hard boiled, che indica l’uovo sodo, compatto e consistente in bocca. Vi si cimenteranno firme leggendarie, poi rivalutate dal cinema. Si prenda, Horace McCoy, ricordato per Non si uccidono così anche i cavalli, sulle estenuanti gare di ballo nel periodo della Depressione, ma anche per Il sudario non ha tasche, accorata e inesorabile tragedia di un cronista deciso a pubblicare le verità più scomode, a scanso delle pressioni per metterlo a tacere. La scuola dei duri trova il suo cantore ufficiale in Raymond Chandler, nato a Chicago ma educato in Inghilterra. Al suo ritorno in patria, l’uomo affronta una serie di impieghi deludenti senza rinunciare alle sue predilezioni letterarie, raffinatissime, che vanno da Shakespeare a Proust. Finché a tarda età esordisce su "Black Mask" con racconti che elevano lo stile di Hammett a livelli eccelsi. L’investigatore Philip Marlowe, diversamente da Continental Op, pontifica di continuo sulla realtà. E i suoi pensieri sono elaborati e complessi, romantici e amari, non certo concisi. Il grande sonno, Addio mia amata, Finestra sul vuoto, Il lungo addio sono classici da tempo non confinati al giallo. Con Chandler, inoltra, si precisa il percorso di questa narrativa, direttamente parallela all’involuzione del modello americano, che corrompe la politica e devasta il territorio. Non a caso, gli autori interessati guardano molto all’Europa. Ross McDonald, un fedele imitatore di Chandler, inventa Lew Archer, detective privato di Los Angeles dal piglio decisamente proustiano. Perfino Elmore Leonard, ispiratore di Quentin Tarantino, conferisce ai suoi libri un retrogusto letterario derivato dal Vecchio Mondo. Quanto a Lawrence Block, il più illustre dei «duri» contemporanei, gli si ascrivono notoriamente preferenze culturali europee. La terra da cui partirono i Padri Fondatori costituisce per i giallisti americani la speranza di un ordine civile dettato dai valori e dalla Storia, che confluiscono nell’idea comunitaria di Stato, contrapposto all’arbitrio del privato. Peccato che, invece, da questo lato dell’Atlantico esista una deriva all’americana. Enzo Verrengia el giallo americano, la gente «uccide per solide ragioni», come scrive Raymond Chandler. Le origini del filone risalgono agli anni Venti, quando le edicole e gli empori degli Stati Uniti iniziano a traboccare di riviste popolari stampate su carta di scarsa qualità, ricavata dalla polpa del legno, e per questo dette «pulp magazines». Su quelle pagine appaiono racconti di genere, dalla fantascienza all’avventura, dall’horror al sentimentale. Ma i preferiti appartengono proprio al giallo. Un periodico, soprattutto, la vince tra tutti. È "Black Mask", maschera nera, che inonda i lettori di racconti sensazionali, da divorare. Una tendenza che si accentua sotto la direzione del capitano T. Shaw, che raccomanda ai suoi autori: «Quando avete dei dubbi su un personaggio, fatelo sparare». A prenderlo più sul serio è un ex investigatore privato della Pinkerton Agency, l’organizzazione privata di vigilanti cui viene accreditata la cattura di Jesse James. Il segugio riciclatosi scrittore perché affetto da tubercolosi, e quindi ormai inadatto ai lavori pesanti, si chiama Dashiell Hammett. È un comunista, che in realtà ha deciso di smetterla con la Pinkerton dopo aver visto i colleghi pestare degli operai in sciopero. Una cosa è dare la caccia ai criminali, altra ridursi a braccio violento del capitale. Così Hammett dà subito ai suoi scritti l’impronta decisiva della crime story. Questa deve rappresentare il marcio della società americana, fondata per definizione sul potere dei soldi e sull’anarchia del più forte. Il protagonista fisso di Hammett è Continental Op, un investigatore privato senza nome, che narra in prima persona. Il suo caso più rappresentativo è ripulire dalla corruzione e dallo strapotere una cittadina dal nome indicativo: Personville, deformato in Poisonville, città del veleno. Il romanzo si intitola in italiano Piombo e sangue. Continental Op riesce nel suo intento mettendo contro le due bande che si disputano il territorio. È la tecnica dell’Arlecchino servitore di due padroni, ripresa da Akira Kurosawa in Yoijmbo la sfida del samurai e con più efficacia da Sergio Leone in Per un pugno di dollari. La scrittura di Hammett fa da esempio. Frasi secche e significative, ironia, caratteri definiti in sintesi, colpi di scena, passaggi perfetti attraverso i risvolti della vicenda, femminilità sensuale e sfuggente ma mai riduttiva, anzi, le donne In principio fu Dashiell Hammett N LA CRIME STORY. Una epopea lettraria tutta made in Usa «Scrivere un romanzo è come guidare di notte. Non puoi vedere molto, vedi soltanto lì dove le luci della tua macchina si spingono, e oltre non vedi niente. Però puoi continuare a viaggiare tutta la notte e attraversare l’intero paese» Evan Tarner, Keller, Bernie Rhodenbarr, Scudder: protagonisti di più titoli che scompaiono e riappaiono anche a distanza di molti anni. Tutti cittadini della Grande Mela, una metropoli nella quale però non si incontrano mai IL LIBRO LO SCRITTORE DI NEW YORK IL PERSONAGGIO. Profilo di un detective che incarna lo spirito degli Usa S t los LO SCRITTORE DI NEW YORK primo piano L’impulso a creare personaggi seriali e maledetti C 12 pagina S t los autori stranieri pagina 14 « I mparai presto ad alzare gli occhi / verso il cielo». Inizia così una delle poesie di Lawrence Ferlinghetti, appena tradotte da Massimo Bacigalupo e da lui pubblicate con Interlinea in un volumetto appena uscito, Il lume non spento. Ferlinghetti è tornato in Italia, dopo una notevole presenza l’anno passato con l’amico e grande poeta Jack Hirschman, per ritirare due premi: il «Lerici-Pea per l’opera poetica», di cui si è celebrato quest’anno il decennale, e il «Lerici Città di Pace e di Poesia». Il volume, che Bacigalupo presenta in quarta di copertina con la discreta definizione di «raccolta curiosa», offre in fatto una buona introduzione all’opera ormai molto vasta di Ferlinghetti. Se la misura in genere piuttosto breve dei componimenti non rende giustizia alla dimensione diegetica del suo verso - quella per cui l’autore è forse più noto e di cui lo stesso Bacigalupo aveva collazionato ampia testimonianza in Poesie. Questi sono i miei fiumi. Antologia personale 1955-1993 (Newton & Compton, 1996) - quest’ultimo volume riunisce intatti i temi che attraversano 50 anni di impegno intellettuale e civile. Massimo Bacigalupo li riassume così nella densa introduzione: «La denuncia dell’alienazione, la ricerca di una serenità individuale in una vita il più possibile spoglia e naturale, la passione per le belle donne e in genere la felicità della vita amorosa, la scoperta della letteratura, la venerazione dei maestri e amici per cui Ferlinghetti ha scritto elegie (Kerouac, Ginsberg, persino l’intrattabile Corso, anche lui italo-americano)». Nel complesso, la raccolta conferma la longevità di un poeta che ha attraversato la seconda metà del Novecento e ha fatto ingresso nel nuovo secolo mostrando una coerenza degna di lode. A 87 anni, portati benissimo, è una miniera di ricordi e persone conosciute. Anche per questo, approfittando della consegna dei premi, in un ambiente oltretutto sommamente poetico come Lerici, è un’occasione rara chiacchierare con un poeta benissimo sopravvissuto al suo mito. Basta sentire il vigore con cui legge, o dice, le sue poesie: una voce ferma e stentorea che raccontava il dramma dell’11 settembre con versi in cui la tragedia si mescolava a un’ironia forse non dimentica delle sue origini. Ferlinghetti è bresciano per parte di padre, ma la madre era sefardita. E giusto da qui inizia la chiacchierata con Stilos. Lei ha una gran voce. Considera se stesso solo un poeta o anche un cantante? Oh, grazie, man. No, non sono un cantante. Ho letto le mie poesie accompagnato da gruppi jazz, dagli anni Cinquanta fino a oggi, ma non ho mai cantato. Forse la voce viene da mio padre. Era battitore d’asta, lui sì che aveva voce. La sua immagine è quella del poeta sempre e comunque contro l’establishment. Che cosa pensa dell’attuale presidenza americana? Bush e la sua gang di terroristi hanno trovato un buon pretesto coll’11 settembre. In che senso, scusi? E lei me lo domanda? Hanno usato quello per iniziare la terza guerra mondiale, nel senso che fanno la guerra al terzo mondo. Lei non vede quindi un pericolo nel terrorismo arabo, nei vari fondamentalismi di cui si parla in questi anni e di cui si vedono gli effetti? Io di sicuro non la vedo come il presiSEIA MONTANELLI J Interviste LAWRENCE FERLINGHETTI "Il lume non spento" pp 100, euro 10 Interlinea, 2006 LAWRENCE FERLINGHETTI . L’avversione all’attuale politica Usa e le sue radici italiane oltre che le passioni come quella per Pasolini; i poeti statunitensi e la concezione della poesia Anch’io come Pasolini non vedo più lucciole VIVE A SANREMO. CONSU- LENTE EDITORIALE, SCRIVE SU "IL GIORNALE" DEI LIBRI" E "L’INDICE GIOVANNI CHOUKHADARIAN dente Bush. Ha fatto una guerra contro l’Iraq, ma non sapeva neppure dove stesse l’Iraq sulla cartina geografica. La sua ignoranza sulla cultura e le questioni del vicino Oriente, ma direi anche dell’Oriente in genere, è completa. Lei è stato poeta laureato a San Francisco, di quella città è forse il più importante simbolo culturale, ma è nato a New York. Quando si trasferì là, e per quali ragioni? eh, intanto io sono stato a Parigi, dopo la guerra. Ero veterano di guerra e il governo ci passava 60 dollari al mese per studiare all’estero: per quel tempo erano molti. Sono stato alla Sorbona, per approfondire i miei studi francesi, ho tradotto Prévert e a Parigi ho scritto il mio romanzo, che si chiama "Her". In Italia, lo ha tradotto l’editore Einaudi e adesso, a Roma, minimumfax [Lei, minimumfax, pp. 125, euro 9,30]. E New York? Nel ’51, Karl Malden mi disse «Go west, man» e io ci sono andato. Avevo trentadue anni e non mi pento di quella scelta, ma sia chiaro che rimango un uomo dell’Est, un viso pallido. All’Est potrei tornare in ogni momento della mia vita, anche adesso. In ogni caso, lei sta a North Beach, che è il quartiere italiano di San Francisco. Quando ci sono arrivato, più di cinquant’anni fa, c’erano molti italiani di seconda generazione. La lingua parlata si chiamava norbicése. Sarebbe? Per dire «cortile» non dicevano «backyard», come in inglese, ma «becchiardo». Ora le cose sono cambiate, i figli di italiani sono morti e i nipoti o pronipoti sono americani a tutti gli effetti. Ed è vero che nel suo quartiere ha fatto mettere nomi di poeti alle vie? Sì. C’è una Kerouac Road, una Mark Twain Alley... È stato o è in contatto con gli italiani d’America? Quando decisi di fare l’editore, il mio primo socio era John Martin. Il nome non dirà niente, ma lui era figlio di Carlo Tresca, grande figura di anarchico, ucciso senza che neppure oggi se ne conoscano davvero le cause a New York nel ’43. Qualche anno fa ho scritto una poesia che si chiama "Old italians are dying". Non solo perché vedo i funerali che si celebrano nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo, ma anche perché, come dicevo, le radici italiane degli immigrati vanno perdendosi col passare degli anni. Lei ha tradotto Pasolini, Poesie romane. Perché lui e non un altro poeta, magari maggiore? Perché secondo me Pasolini è il più importante poeta italiano del Dopoguerra. E non parlo soltanto del poeta ma anche dell’intellettuale, del saggista. Il Partito comunista del suo tempo non lo accettò, ma Pasolini criticava il capitalismo usando gli strumenti di Marx. Ora, io credo che l’attacco al capitalismo portato da Marx sia attuale ancora ai nostri giorni. E legge ancora poesia italiana? A San Francisco ricevo cumuli di manoscritti da poeti italiani inediti. Credo che non ci sia mai stato periodo in cui l’Italia abbia avuto tanti poeti: e molti sono buoni. Alcuni li pubblico io, altri li affido ad Angelo Bertoli, che dirige City Lights Italia, a Firenze. A Lerici ho conosciuto Graziella Colotto [vincitrice del premio per la poesia inedita, ndr] e mi sembra molto interessante. Ma perché un poeta, giovane ma già affermato com’era lei, decide di fare l’editore e di pubblicare suoi coetanei, come per esempio Allen Ginsberg? Oh, Ginsberg era un amico. Ci si divertiva, con lui. Aveva l’abitudine di innamorarsi soltanto di uomini eterosessuali. E di usare sostanze psicotrope. No, questo non è vero. Chi usava le droghe erano altri: Timothy Leary, per esempio, o Aldous Huxley. "The doors of perception" è un grande libro. Poesia beat non vuol dire droga, lo nego. Si diceva della City Lights. In ogni modo, la casa editrice nasce dalla libreria che si chiama allo stesso modo, City Lights. La mia idea è che la poesia debba andare al popolo, e Nella foto Lawrence Ferlinghetti che da Interlinea ha pubblicato Il lume non spento quindi la libreria era ed è specializzata in tascabili, e anche la casa editrice che ne è nata. Lei ha avuto il talento di scoprire poeti importanti, ma quello era un tempo fortunato, per la poesia americana. Sì e no. Attorno alla metà degli anni Cinquanta, a San Francisco, comincia quella che si chiama oggi «American Renaissance». Oltre a Ginsberg, ho pubblicato Kenneth Patchen, Kenneth Rexroth, Dianne Di Prima, e il mio grande amico italiano Gregorio Nunzio Corso. Parlavamo una lingua comune ma soprattutto sembrava a noi tutti che la poesia americana stesse invecchiando male, fosse troppo legata all’accademia. Che però lei ha frequentato, laureandosi alla Columbia University. Sì ma, come dicevo prima, ho sempre creduto che la poesia dovesse essere popolare. Anche per questo, i poeti della mia generazione hanno cominciato a fare letture pubbliche dei loro versi. La critica ha parlato di poesia bardica, in effetti. È una definizione, sì. Ma noi avevamo il jazz, e del jazz soprattutto l’improvvisazione. In questo eravamo nuovi: scrivevamo una poesia fondata appunto sull’improvvisazione e il ritmo. La poesia americana degli anni Cinquanta, sia beat o no, di chi è figlia o nipote? A me piacevano molto i grandi francesi: Apollinaire su tutti, ma ovviamente anche Baudelaire e Rimbaud. Ho letto e amato molto Ezra Pound e T. S. Eliot. E poi, naturalmente, i grandi romantici inglesi: Wordsworth, Blake, Byron e Shelley. I romantici inglesi erano beat prima del tempo. È per questo che nella sua poesia si rintracciano molte citazioni? No, io non ho mai citato: ho soltanto rubato molto. «A lume non spento» è una parafrasi della prima raccolta di Pound, che a sua volta però citava Dante. Ma poi vorrei precisare anche una cosa, riguardo alla poesia beat. Io, Lawrence Ferlinghetti, non sono né sono mai stato un beat. Mi considero l’ultimo dei bohémien. A Parigi, dopo la guerra, era giusto da bohémien che vivevo e ho già spiegato che le mie influenze principali sono francesi. Dante a parte, nella sua poesia ci sono altri furti italiani, vero? Mah, in qualche modo. Si chiama in fatto "Are there still not fireflies" e si rifà a quel famoso articolo di Pasolini in cui si lamentava che, con la sparizione delle lucciole, sarebbe iniziata un’era spaventosa. Pasolini non aveva torto. Perché, anche lei non ne vede più? Non tante, se devo dire il vero. Non vedrà lucciole, ma lei in Italia è tornato di recente. Sì, è vero. Son passato l’anno scorso da Chiari, in provincia di Brescia, e ho ritrovato la casa in cui abitava mio padre. A vent’anni, nel 1892, era emigrato come tanti altri italiani in America. Entro nel portone con il mio cameraman e un inquilino, sbirciandoci dalla finestra, ci urla «parassiti». Poi ne esce un altro e grida qualcosa come «cuu...» Adesso non ricordo. Un altro, nel frattempo, aveva chiamato i carabinieri, che ci portano in comando. Stiamo lì mezz’ora, fino a che non telefona il mio gallerista di Verona e spiega chi siamo e perché siamo lì. Avventuroso, ma almeno a lieto fine. Lei ha scritto, in "A coney island of my mind", che stava aspettando il ritorno dello stupore. Sono passati cinquant’anni: lo ha visto, lo stupore? No, io non l’ho visto. Ma ora beviamo, che dice? JAIME BAYLY. La Lima di oggi in un romanzo moderno aime Bayly, presentatore televisivo prima a Lima e poi a Miami, brillante giornalista e scrittore molto amato nel mondo, è uno degli esponenti di spicco del nuovo corso della letteratura sudamericana (con Bayly racconta la borghesia ricca e biMario Mendoza, Roberto Bolaño e il gotta della capitale peruviana, pronta suo maestro Mario Vargas Llosa, al- a colpire chiunque si mostri diverso e meno negli ultimi anni) che ha rifiuta- abbia il coraggio di vivere la propria to il realismo magico e il mito della vita sfidando le convenzioni, ma soterra del bon saprattutto traccia vage in cui reapercorso Recensioni un lizzare le vecprofondamente chie utopie di personale in cui JAIME BAYLY stampo euro"L’uragano ha il tuo nome" segue i suoi perpeo, per racconsonaggi, tutti Trad. A. Morino, A. Torsello tare finalmente connotati da pp. 532, euro 16 la modernità e esperienze autoSellerio, 2006 recuperare l’abiografiche, nelspetto più caratteristico dell’America la scoperta e soprattutto nell’accettaLatina: il mestizaje, l’ibridismo, la zione della propria sessualità. mistura di popoli e culture. Con i suoi Nell’ultimo libro dal bellissimo titolo nove romanzi - l’esordio avviene nel L’uragano ha il tuo nome (El huracán 1994 con "No se lo digas a nadie" lleva tu nombre, 2004), Bayly conclu(Non dirlo a nessuno, Sellerio 2003) - de il ciclo iniziato dieci anni prima e La borghesia ricca è pure bigotta racconta la storia di Gabriel Barrios, giovane conduttore televisivo, con aspirazioni letterarie, fortemente diviso tra i condizionamenti che gli vengono dalla società omofoba e razzista in cui è cresciuto e il desiderio di vivere apertamente la proprio omosessualità. A complicare le cose arriva come un uragano l’amore tenero e sconvolgente per la bellissima Sofia, che definisce «una droga buona che mi fa ridere», e gli offre una vita lontana da quella Lima opprimente e polverosa che odia tanto e la prospettiva di ricominciare negli Stati Uniti, di abbandonare il lavoro in televisione che lo degrada e lo umilia, di iniziare a pensare seriamente alla sua carriera di scrittore. Gabriel decide di partire con lei, ma lentamente si accorge che pur amandola, la loro vita insieme sarebbe una menzogna, significherebbe continuare a fingere e reprimere i suoi veri desideri, accettando di soccombere alla stessa asfittica ipocrisia che lo spinge a fuggire da Lima. Così il romanzo descrive la profonda crisi del protagonista costantemente in bilico tra emozioni distinte e contrapposte, in preda allo smarrimento di chi è in cerca della propria identità e che è destinato a perdersi prima di ritrovarsi. Tra Lima, Miami e Washington, passando per Madrid e Parigi, Gabriel compie anche un lungo viaggio dentro se stesso per scoprirsi di volta in volta egoista, infantile, fragile, ambizioso. Nemmeno l’amore può imporsi sulla volontà e gli istinti più profondi e soprattutto mai può cambiare la natura di chi ne è oggetto, sembra sostenere il libro. Anche se poi la tesi verrà smentita dalla nascita di una bimba che dice Gabriel «mi educherà all’amore». La narrazione tutta in prima persona, segue il flusso di pensieri di Gabriel e i pochi dialoghi sono riportati in corsivo e diluiti nel testo. Il lettore ha così la sensazione di entrare direttamente nella coscienza del giovane, crudelmente esposta ed esibita sulla pagina. La scrittura quasi febbrile restituisce un senso di urgenza, il dissidio interiore del protagonista, la sua corsa disperata verso qualcosa, il bisogno di riconoscersi e di appropriarsi della propria identità. E se a volte è il fastidio a dominare la S C A F F A L E MICHAEL CRICHTON, In caso di necessità, trad. Dianella Selvatico Estense, pp. 310, euro 8,50, Garzanti 2006 L’intera comunità di medici conosce e sa del medico cinese Arthur Lee che pratica aborti ma non per lucro bensì per convinzione morale. Ma un giorno muore una ragazza per aborto mormorando il nome del medico cinese che viene arrestato. Interviene un amico di Lee, John Berry, che conduce un’indagine inflessibile che lo porta ad una verità sconvolgente. Crichton è autore della serie televisiva "E.R. Medici in prima linea". DANIEL WELZER-LANG, Maschi e altri maschi, trad. Sergio Arecco, pp. 273, euro 15, Einaudi 2006 Oggi le donne sono cambiate, ma dobbiamo dire lo stesso degli uomini? Sono cambiati in modo poco chiaro. Sappiamo della conquista del mondo gay, ma in che modo si sta proponendo l’uomo nell’universo dei queer, dei trans, dei bisessuali e dei «professionisti» maschili del sesso? In che modo l’uomo si sta reinventando nel «dominio del mondo maschile« tanto studiato dai sociologi? L’autore espone quindici anni di studi compiuti in svariati ambienti: nelle strade di periferia, nelle violenze delle carceri. Ha scritto un libro senza veli perché aiuti a conoscere gli innumerevoli lati del genere maschile. Affrontando senza reticenze il tema dell’omosessualità. DANIELLE STEEL, Un angelo che torna, trad. Grazia Maria Griffini, pp. 311, euro 17, Sperling & Kupfer 2006 La madre Alice ed il figlio Johnny sono inseparabili, un legame unico. Per Alice, suo figlio è tutto quello che possa esserci di bello al mondo, ma i suoi diciassette anni vengono spezzati da un incidente. Una morte inaccettabile che lacera il cuore della madre. Ma accade qualcosa di insolito e piacevole perché Alice avverte la presenza di Johnny, invisibile per gli altri, che le tiene compagnia ed il loro bene è più forte di quando era vivo; è ritornato per una missione che lui stesso non comprende: forse per placare la pena della madre e dei suoi familiari e anche della fidanzata perché continui la sua vita. Un dramma vissuto dalla stessa autrice che vuole comunicare una dottrina di speranza e coraggio. SARA GRAN, La voce dentro, trad. Eva Kampmann, pp. 165, euro 13, Longanesi 2006 Niente di spiacevole nella vita dell’architetto trentaduenne Amanda, sposata all’uomo perfetto. Ma ad un tratto la sua esistenza cambia sconvolgendole la vita. Dentro la sua testa picchiettano delle strane voci che la stimolano a rubare facendole assumere un comportamendo violento contro il marito con il quale le liti sono sempre più aspre. Una voce le dice che lei è la seconda moglie di Adamo, l’essenza dello spirito femminile. Gli specialisti non sono competenti e così neppure gli esorcisti o guaritori. lettura, un sentimento di rivolta per la costante indecisione di Gabriel, per la sua incapacità di mettersi seriamente in gioco, per l’estenuante rincorrersi di pentimenti e rimorsi e per l’eccesso di ripetizioni, alla fine è chiaro che l’intento di Bayly è proprio quello di non nascondere nulla del suo protagonista, di far partecipare il lettore del suo dramma, perché possa comprenderlo e giungere con lui alle sue stesse conclusioni, riassunte in una frase (in epigrafe al libro) di Roberto Bolaño: «L’amore non porta mai niente di buono. L’amore porta sempre qualcosa di meglio». L’uragano ha il tuo nome però è anche un atto d’amore verso la letteratura e un’implicita dichiarazione programmatica da parte di Bayly che sembra sostenere che scrivere è una terapia, un modo per esorcizzare i propri fantasmi, uno strumento per entrare in contatto con il proprio io più profondo e conoscersi per poter vivere più consapevolmente la propria esistenza. S t los Nella foto Tim Parks, autore per Il Saggiatore di Il silenzio di Cleaver S iamo sinceri: gli istrioni ci sono simpatici. Possiamo dire di loro tutto il male possibile: che sono egocentrici ed egoisti, inaffidabili, falsi ed esagerati; che arraffano tutto quello che possono della vita, persone e cose; che, se per un cortocircuito si spengono le luci dei riflettori, si afflosciano, diventano ombre, perdono voce e potere; che in definitiva sono dei buffoni. Tutto vero, eppure sia che si chiamino Falstaff, Barney o Harold Cleaver, come il protagonista dell’ultimo romanzo di Tim Parks, anche se non li prendiamo sul serio e diffidiamo di loro, continuiamo a sentire la loro voce dopo aver riposto il libro sullo scaffale. Il silenzio di Cleaver comincia con una partenza: ci viene detto che nell’autunno del 2004 Harold Cleaver prese un aereo diretto da Londra a Milano Malpensa e forse al lettore italiano non è subito chiaro quanto sia allusivo il cognome del personaggio, in quanto il verbo to cleave significa nello stesso tempo «fendere, tagliare» e «unirsi a qualcosa». Perché Cleaver, giornalista di successo, dà un taglio netto alla sua vita poco dopo aver fatto una inchiodante intervista al presidente degli Stati Uniti e aver letto l’autobiografia romanzata scritta da suo figlio che lo dipinge in maniera spietata come la personificazione «dell’ambizione, dell’appetito e dell’avidità». E però vedremo che Cleaver, nell’eremitaggio sulle montagne dell’Alto Adige, si aggrappa ai ricordi, sostituisce un’esistenza con un’altra in questa fame di vita che è parte di lui, quanto l’ingordigia di cibo, di donne, di successo. Dell’aspetto di Harold Cleaver non sappiamo molto: è sovrappeso (e ci pare giusto che lo sia, ingombrante in tutti i sensi) ed è calvo, ama i colori sgargianti, tipo camicie viola con cravatta giallo limone o viceversa. Della sua famiglia apprendiamo a poco a poco: dei quattro figli ne restano tre, perché è morta la gemella del ragazzo che ha scritto il libro accusatore, e Cleaver non può divorziare dalla loro madre per il semplice fatto che non l’ha mai sposata. E poi c’è una sfilza di amanti, sempre più giovani con il passare degli anni. Cleaver ha mollato tutto dunque, è partito senza dire niente, ha intenzione di non leggere neppure un rigo (si è dimenticato gli occhiali), di non scrivere (non ha penne e tantomeno il pc), di non parlare con nessuno (non ha con sé il ricarica cellulare). E affitta una casa a 1800 metri, senza elettricità né acqua corrente, con gabinetto esterno. Per stare da solo, pensare, riflettere. Ma, se immaginava di trovare il silenzio, si è sbagliato, perché «la mente era più fragorosa di tutto ciò che aveva rifiutato. La mente era assordante. La mente era la cascata nel cuore del bosco». Succede così poco e scorrono così veloci le pagine del romanzo di Tim Parks, è l’avventura della mente di Cleaver che ci trascina, gigione straordinario che monologa di continuo, anche quando in realtà dialoga con il figlio, ribattendo nella sua mente a quanto questi ha scritto nel romanzo per cui è candidato al Booker Prize. È come se leggessimo due romanzi, due punti di vista diversi sullo stesso personaggio: Cleaver commenta e interpreta frase dopo frase il libro del figlio. È tutto vero, gli aforismi riportati sono veri, lui ha proprio detto quelle parole, ma come è possibile che lo faccia sembrare un simile mostro? Lo stile di Parks è quanto mai intrigante e stimolante, passando di continuo dall’uso della terza a quello della prima persona, inserendo frasi in tedesco quando il personaggio dialoga con la famiglia Stolberg da cui ha preso in affitto la casa. E questa è tutta un’altra storia, quella che Cleaver costruisce nella sua fantasia o che in parte gli viene detta, per quanto lui possa capirla (e questo giustifica l’uso del tedesco, con effetti a volte molto buffi), del vecchio nazista che aveva cercato l’isolamento come lui e della ragazza Scontro C tra A gemelli T A L O G O TIM PARKS . «Quando Cleaver lascia tutte le cose che lo fanno essere quello che è, cerca di ricostruire in Alto Adige un rapporto che rifletta quelli che lo hanno reso come egli è. C’è un elemento di commedia: incapace di lasciar stare le persone che ha abbandonato, continua a pensare e a parlare a loro» Rifiutare tutto il mondo e accettare solo se stessi VIVE A MILANO, IL LIBRO DOVE HA SVOLTO PER ANNI ATTIVIÀ DI INSEGNANTE. SCRIVE ANCHE TIM PARKS "Il silenzio di Cleaver" Trad. Giovanna Granato pp. 284, euro 16 Il Saggiatore, 2006 SU UNA RIVISTA ON LINE MARILIA PICCONE morta nel dirupo e dell’altra che partorisce una bambina senza padre. Perché questa è la maniera di Cleaver di amare la vita, di interessarsi agli altri- egocentrico ma irresistibile. Stilos ha intervistato lo scrittore inglese che vive in Italia dal 1981. Nei suoi ultimi libri sceglie sempre un solo personaggio gigantesco a dominare la scena. Viene da pensare ai drammi di Christopher Marlowe. È un gran complimento… ma è meglio stare alla larga dai paragoni. È vero che gli ultimi miei libri pubblicati in Italia hanno un personaggio centrale dominante. Perché sono dei libri sull’essere chiuso in una coscienza ossessiva e c’è una forte sensazione che questa mente esista e sia caratterizzata dalle persone che gli sono intorno. Cleaver è stato fatto dai suoi figli, dal mondo dei media londinese, ed esiste in relazione a loro. Quando, all’inizio, lascia tutte le cose che lo fanno essere quello che è, il suo senso di identità è messo sotto stress e cerca di ricostruire in Alto Adige qualche tipo di rapporto che vagamente rifletta quelli che lo hanno reso come egli è. C’è un elemento di commedia: è incapace di lasciar stare le persone che ha abbandonato, continua a pensare e a parlare a loro. E sembra anche che il suo interesse sia rivolto alla mezza età, a quell’epoca nella vita quando si incominciano a tirare le somme. Non sono certo che mi piaccia che questo romanzo venga definito come un romanzo sulla crisi di mezza età, perché qualcuno come Cleaver è al di là della crisi di mezza età, Cleaver ha avuto la crisi di mezza età una decina di anni fa. È arrivato ad un punto più estremo di rifiuto. C’è un momento in cui un uomo diventa consapevole del- JUAN MARSÉ "Canzone d’amore al Lolita’s Club" Trad. Hado Lyiria pp. 272, euro 17 Frassinelli, 2006 Due gemelli molto diversi, Raul e Valentìn, ancora piccoli abbandonati dalla madre per prostituirsi. Raul è un poliziotto focoso dalla mano pesante, viene sospeso e decide di ritornare nella sua casa di Castel Fedels, ma lui il caos se lo porta dentro ed ovunque. Quando scopre che il fratello Valentìn lavora nel locale Lolita’s Club come cuoco tuttofare e i clienti comprano le ragazze, va su tutte le furie e rompe il legame tra Valentìn e Milena. La solitudine di un casolare Il giornalista Harold Cleaver decide di lasciare tutto, Inghilterra, lavoro, famiglia, cellulare, computer, e parte per l’Alto Adige. Suo figlio ha appena avuto grande successo pubblicando un libro dissacrante su di lui che termina con la sua morte fittizia. Nella solitudine di un casolare che ha affittato, Cleaver pensa, ricorda, tira le somme della sua vita. la traiettoria della vita e del fatto che non c’è più molto tempo per cambiarla. E Cleaver ha raggiunto quel punto. Mi interessa quel punto di esaurimento in cui diventa impossibile continuare a comportarsi come al solito e penso che questo libro, con l’intensità del pensiero e della scrittura, crei la sensazione di un’ansia frenetica, di qualcuno che cerca di risolvere per sempre dei problemi. Il libro crea una sorta di catarsi di esaurimento nel personaggio, nello scrittore e nel lettore. E alla fine si ha l’idea di essere arrivati ad un termine perché tutto è stato sviscerato. All’improvviso Harold Cleaver decide di «staccare», di abbandonare tutto: che cosa c’è dietro questa decisione? All’inizio Cleaver non sa il perché di questa decisione radicale. È ovvio che il libro del figlio serve da catalizzatore. Il figlio lo ha attaccato nello spazio pubblico e non in quello privato, e Non c’è l’isola perfetta quello pubblico è il dominio di Cleaver e il figlio lo distrugge. Ma, mentre il libro procede, c’è una specie di desiderio di morte dietro la sua partenza, un desiderio non tanto di morire quanto di non essere. Dietro la cultura occidentale, dietro il consumismo, dietro la frenetica organizzazione della sicurezza, ci sono dei lati oscuri, il desiderio che tutto finisca. Il desiderio di morte è molto forte, io penso, nella cristianità. Harold Cleaver parte per l’Alto Adige: è una scelta dovuta al fatto che è un luogo che lei conosce bene? O perché aveva bisogno di un luogo abbastanza strano da farlo sentire in esilio e tuttavia non troppo strano per permettergli di continuare a giocare il suo ruolo? Quando si scrive un libro come questo non si fa una scelta ampia, si sceglie un posto che si conosce di persona. L’Alto Adige è interessante perché è rimasto di cultura di fondo tedesca e austriaca dentro l’Italia. In Inghilterra poche persone sanno dell’Alto Adige. Era un luogo emblematico. Era il posto giusto per Cleaver. Lui dice che è andato là perché, quando ha chiesto indicazioni all’agenzia di viaggio per una località sciistica dove nessuno lo riconoscesse, lo hanno indirizzato là. C’è poi un gioco di parole sul nome della casa, «Rosenkranzhof»: lo ha inventato apposta? In Alto Adige ci sono parecchie case chiamate «Rosenkranzhof» e mi interessava il motivo del rosario, Rosenkranz, che si addice all’ossessione di Cleaver che cerca di calmarsi con la ripetizione di certe formule. E per un pubblico di lettori inglesi il nome Rosenkranz avrebbe richiamato la famosa frase di Shakespeare quando Amleto annuncia la morte di Rosenkranz e Guildenstern. Tutti sanno che il padre di Amleto è stato ucciso e Amleto vuole uccidere il suo patrigno. Il nome si presta a parecchi giochi. Cleaver non conosce bene la Germania e non conosce affatto l’Alto Adige, non afferra il significato del rosario, ma il nome accende una lampadina nella LORRAINE FOUCHET "Il battello del mattino" Trad. Doriana Comerlati pp. 324, euro 14,50 Garzanti, 2006 Eva ha una violenta lite con il padre, noto avvocato, che subisce un incidente riportando delle ferite. Lei vuole cambiare vita lasciando Parigi e stabilendosi in un’isola della costa britannica. Con lei c’è una magrebina, un ebanista ed un medico in crisi. Lei non sa che non c’è isola perfetta, che il bene diventa il male e viceversa, che il destino è mutevole, che l’ira non porta a nulla, che essere nel giusto non significa avere ragione. L’amore è da curare sua mente perché suo figlio ha usato quella frase famosa per descrivere la morte di suo padre nel libro, e quindi gli fa pensare alla sua propria morte nel libro del figlio. Non siamo certi se pensare a Cleaver come a un fallito perché non ha prodotto il suo capolavoro o se il suo fallimento sia nel non riconoscere i suoi limiti… C’è un po’ di commedia nel libro intorno a questa faccenda del «capolavoro». Quello che suggerisco è che la sola idea di capolavoro è impensabile nel mondo dei media, a meno che non pensiamo che l’intervista di Cleaver con il presidente americano sia un capolavoro. I media non permettono capolavori. Un capolavoro significa un’opera d’arte ed è impensabile perché richiede lunga riflessione e nessuno fa lunghe riflessioni nei media: non hanno tempo di pensare. C’è molto da dire contro Cleaver e tuttavia è tremendamente divertente, ricco di humour e non possiamo fare a meno di trovarlo simpatico. Perché ci piace Cleaver? Cleaver ci piace per la sua energia, per il suo humour, l’onestà della sua autodistruzione e poi anche perché non è più un vincente. È più facile amare una persona che non è vincente. Lo incontriamo quando ha preso una decisione coraggiosa: per un uomo nella sua posizione staccarsi completamente da tutto è ancora più coraggioso che per chiunque altro. E poi ci piace perché non pretende mai di essere buono. Viviamo in un mondo in cui tutti non fanno che ripetere agli altri quanto sono buoni. E a lei piace Cleaver? La parola «piacere» non è abbastanza per il mio coinvolgimento con un personaggio come Cleaver. Finché Cleaver rimane un fenomeno sulla pagina, sì, mi è piaciuto crearlo, mi piace come funziona la sua mente. Quello che fai con questi personaggi è dare loro molta della tua energia, così il lettore capisce che c’è della simpatia, ma a volte si può anche creare una vita così criticabile che il lettore può restare confuso se debba o no provare simpatia per il personaggio. E ci sono dei lettori che hanno odiato Cleaver, soprattutto le donne. Se il titolo del libro del figlio è "All’ombra di mio padre", dobbiamo dire che Alex è una pallida ombra del padre e alla fine sembra ricalcare le sue orme. È una forma di assoluzione della vita del padre, una sorta di comprensione più ampia? Fino ad un certo punto. Mi piace il personaggio di Alex: è difficile crescere con un padre così, che occupa ogni spazio sulla mappa e non ne lascia per lui. In più è difficile perdere una sorella gemella, come è successo ad Alex. E poi c’è stato un dramma nella sua vita- non riveliamo la trama, solo che tecnicamente mi serviva per alleviare la storia di Cleaver. Il problema era come finire il libro: poteva essere una fine noiosa, Cleaver torna in patria o muore. La storia del figlio può cambiare la nostra visione del libro, cambia il bisogno del lettore per un finale forte. Il monologo interiore che ha usato negli ultimi libri è lo stile che le si addice di più? Non mi piace molto il monologo interiore. Le parole «monologo interiore» sono state usate per descrivere questo libro, ma in realtà il libro è ufficialmente in terza persona, a volte in prima persona, non c’è un punto di vista preciso, quella che abbiamo è una sensazione di frammentazione mentale, l’idea che c’è meno controllo della mente e dei suoi movimenti rispetto a quello che si ha nel monologo interiore. Il monologo interiore di Joyce non mi ha mai soddisfatto perché in realtà dimostra il controllo mentale dell’autore stesso. Joyce cerca di trasformare in linguaggio quelle cose che la mente non trasforma in linguaggio. Perde così quella mi pare essere la maggiore caratteristica della mente che è il costante parlare a se stessa. FRANÇOIS LELORD "I segreti dell’amore" Trad. Valeria Galassi pp. 280, euro 16,60 Corbaccio, 2006 Il professor Cormoran è uno strano scienziato che riesce a trovare in una molecola la cura per le pene d’amore; purtroppo scompare con la sua scoperta. Una multinazionale farmaceutica incarica il giovane psichiatra Hectore di ritrovare Cormoran e qui ha inizio un’autentica avventura tra massaggiatrici cambogiane, hotel di Shangai, spie e farabutti, mentre lui stesso è pedinato da persone misteriose. Il sogno di Hectore è di trovare la cura. pagina 15 Capoverso autori stranieri IDOLINA LANDOLFI ELENA SALIBRA, VERS.ES, PP. 66, EURO 11,50, DIABASIS «Un diario dal passo sincopato», definisce Paolo Ruffilli questo libro, nella sua postfazione. Ed è difatti una sorta di rassegna di luoghi e tematiche cari, il calettarsi della memoria nei passati giorni («e così a me s’aggrumano i giorni»), il ritrovare, nel discreto ma altamente significante ambiente quotidiano, tracce simboliche del sé, che vi si riverbera coi suoi infiniti volti. Sono poesie sempre dedicate, anche quando non esplicitamente, e che insomma presuppongono un interlocutore: e sia il bambino appena nato, «morbido gomitolo / di sogni», o i paesaggi scomparsi, disperatamente evocati, una Ortigia (la sua terra natale) stravolta dalla feroce modernità ("La casa rosa" e in genere l’intera prima sezione della raccolta, "Stanze e madrigali", è dedicata alla Sicilia), che resiste caparbia nei suoi angoli più segreti, in una lotta silenziosa contro l’oblio di ciò che era. Bella, e molto indicativa, nella poesia "Per un quadro non ancora iniziato", l’immagine delle due barche «rimpiattate al largo / a rimbalzare nell’acqua dell’ingorgo». Una vena di profonda malinconia attraversa questo mondo inquieto, preda del vento e delle onde, come le barche, e le gomene, le reti, e le vele sbattute in lunghissima agonia; quasi una schiera di anime in pena che sorgano e parlino da ogni cosa, raccontando la loro storia di sogni perduti, di «stanchezza dei giorni», di «attesa del tempo». Un senso forte di provvisorietà tiene queste intime figurazioni, di transito verso un non mai definito altrove. GUIDO BALDASSARRI, VIAGGIO IN AUTOSTRADA, PP. 108, EURO 10, SCIASCIA Narrazione poetica per frammenti, suddivisa in due sezioni, "Il viaggio", "Le soste", su uno dei temi classici dell’«esplorazione»: esterna ed interna, naturalmente: «Una laica via crucis, dove il viandante incontra […] l’altro da sé e, in qualche modo, se stesso». Figure e paesaggi scorti un istante, in rapide «epifanie» (è termine d’autore), ragazze per strada, donne abbandonate al respiro del mare (l’acqua, le acque, così importanti nel volume), pescatori intenti al lavoro; e paesaggi che si accendono di simboli, regioni immaginate, quelle fantastiche delle leggende del mare, i Sargassi coi loro miraggi, le Fate morgane. Viaggio per fermare il tempo, e ripercorrerlo semmai a ritroso, fino ai propri giovani anni; per scorrazzare liberi in questa dimensione sovra tutte fittizia. Viaggio, infine e anche, tra i propri numi letterari, i poeti amati, la Achmatova, la Dickinson, Rimbaud. NUOVA POESIA AMERICANA - LOS ANGELES, A CURA DI LUIGI BALLERINI E PAUL VANGELISTI (TESTO A FRONTE), PP. 385, EURO 9,40, MONDADORI Diciotto poeti di Los Angeles a comporre la prima tappa di un attraversamento della poesia americana. Una mappatura che parte appunto dalla costa occidentale, da una Los Angeles considerata come luogo della mente, luogo estremo, convulso, intricato. Le voci appartengono a generazioni diverse, e sono diversissime esse stesse, dagli afroamericani Will Alexander e Wanda Coleman, da Rae Armantrout, Michael Davidson a Jack Hirschman e a Stuart Z. Perkoff, da Jerome Rothenberg a John Thomas. Voci che, «lungi dal formare un insieme coerente, producono l’effetto di una rinuncia, quasi che l’idea di una storia comune e di una identità culturale, non sia neppure, a queste latitudini, desiderabile» scrivono i curatori. pagina 16 S t los autori stranieri A vvincente e sorprendente il nuovo romanzo di Joanne Harris, la scrittrice inglese nota per Chocolat, tradotto in tutto il mondo e da cui nel 2001 è stato tratto l’omonimo film. A Chocolat hanno fatto seguito nunmerosi romanzi ed ora arriva La scuola dei desideri, in cui dipinge il mondo della scuola. La Harris, infatti, che è francese per parte materna e inglese per l’altra metà paterna, prima di dedicarsi completamente alla scrittura, è stata un’insegnante particolarmente attenta ad osservare, ovviamente in maniera interessata per quel che poi avrebbe scritto, il caotico mondo della scuola, un universo di rapporti complessi, uno specchio d’acqua sotto il quale ribollono illusioni, conflitti, manie, ossessioni, complessi di inferiorità, sensi di colpa e, ancora, meschinità, inganni, imposture, millanterie. Un mondo che la scrittrice tende a riprodurre fedelmente con una minuziosità da miniatura e con un raffinato culto del dettaglio (che la curatissima traduzione italiana rende appieno), calandovi una storia inventata, ma paurosamente vicina alla realtà. Una storia in cui i desideri, i segreti turbamenti, la pena di non essere quel che si vorrebbe, degli adolescenti, fanno il paio con la fragilità e l’insicurezza, così pericolosa per i giovani, degli adulti. Giovani e adulti si incontrano e si scontrano, convivono e si respingono nel cuore arrogante della St. Osvald’s Grammar school for boys, un esclusivo collegio maschile nel nord dell’Inghilterra, che vanta una tradizione di eccellenza accademica, ma che registra i cambiamenti che le nuove tecnologie apportano anche ad una scuola così gelosa della sua fama. E un adolescente e un adulto sono le due voci narranti del romanzo, una storia «estrema» di ricerca dell’identità; Snyde, per il quale St. Osvald è la «scuola dei desideri», il sogno-ossessione di tutta la sua giovane vita, è un adolescente inquieto che vede in quell’istituto austero e vecchio che abbisogna di riparazioni urgenti prima che il terreno su cui sorge venga venduto come edificabile, tutto ciò che desidera per affermare se stesso, per sentire che esiste e che è visibile. Ma è irraggiungibile per chi è figlio del portiere del college; a Snyde, creatura solitaria, un po’goffa in compagnia, «invisibile» a scuola, studente della Sannybank, la scuola popolare locale, l’accesso a quel mondo è vietato. Ma, ancora bambino, decide di non farsi intimidire dalla proibizione ben evidente in un cartello che incombe come la minaccia ringhiosa di un bullo delle scuola. La tentazione di entrare in quel luogo in cui polvere e odore di stantio sembrano spalmarsi su tutto, persino sulla giacche blu e i pantaloni grigi della divisa degli studenti, mentre i topi prosperano nei suoi vecchi locali, è troppo forte. Quegli odori sono per Snyde il profumo di ciò che non può avere e quei pantaloni e quelle giacche sono il glamour di giovani di una razza diversa, dorati non solo dalla luce del sole ma da qualcosa di meno tangibile, un’aura speciale che li ricopre di una patina misteriosa. Snyde è convinto che quello è il posto cui appartiene davvero, lì la sua sicurezza, lì la sua casa. E così sfida l’ordine, entra di nascosto a St. Osvald ed impara a conoscerne tutti gli angoli, ma si rende subito conto che lì lui è un corpo estraneo; consapevole dei suoi jeans sporchi, delle scarpe da ginnastica consumate, della faccia emaciata e dei capelli flosci. In qualche modo è inferiore, volgare: una spia, un piccolo essere spregevole, sudicio. Invisibile o no è così che lo avrebbero visto sempre. È solo un Sunnybanker, quello è il marchio terribile che si porta addosso. Comincia così la sua rabbia, che di giorno in giorno gli divampa dentro come un’ulcera e alimenta il germe della rivolta che cova nel chiuso di una vita familiare inesistente e di una solitudine devastante. Snyde dunque dichiara guerra a St. Osvald; se St. Osvald non lo vuole se la prenderà lui e nulla, nessuno, potrà fermarlo. Di rabbia in rabbia, di invidia in invidia, di ossessione in ossessione, Snyde, prima adolescente, poi giovane docente procederà con il suo fardello di scomode verità psicologiche verso il suo scopo, con un incredibile colpo di scena finale. Stilos ha intervistato l’autrice giunta in Italia per la promozione del suo libro. Il mondo della scuola e i suoi segreti. Perché ha scelto questo argomento? Ho insegnato per vari anni in passato e sono sette anni che non insegno più. Era tempo, dunque, che mi fermassi a riflettere sulla scuola. Nei miei libri precedenti ho esplorato molto le esperienze dirette e indirette familiari e le esperienze francesi, giacché io sono francese per parte di madre. Con questo romanzo ho realizzato quel che avevo in mente di fare da tempo, di scrivere l’esperienza straordinaria e importante della scuola. Allontanarsi dai temi che hanno caratterizzato gli ultimi suoi romanzi è stata una scelta dettata da esigenze narrative o risponde ad una sua ricerca letteraria? Non volevo allontanarmi dai temi trattati né rinnegarli. Del resto questa storia è stata pensata già al tempo di Chocolat. Io ho una scrittura rapida, ma una gestazione molto lunga delle storie. Devono sedimentare dentro di me, fino a quando giunge incontenibile il bisogno di raccontarle. Dunque non è stato strategico cambiare ambientazione e argomento. Era solo arrivato il momento che aspettavo da sette anni. L’incipit del romanzo non lascia dubbi con la parola «omicidio» in primo piano. Eppure il suo non sembra un thriller. Ma se invece lo è, che tipo di thriller è? Ha detto bene, il mio non è un thriller. Non ho avuto nessuna intenzione di scriverlo. Ma se proprio dobbiamo chiamarlo così o può sembrare tale, allora chiamiamolo thriller psicologico, un «thriller» alla Wilkie Collins, alla Sherlock Holmes. Anche se, in realtà, non ci sono delitti o assassini da scoprire, né indagini condotte da qualcuno. Ma ci sono piuttosto colpe e ossessioni che possono condurre anche al delitto. Da cosa nascono le sue incursioni in un collegio esclusivo come St. Osvald? Ho insegnato sia in una scuola statale mista, sia in una scuola privata per maschi per dodici anni. Insegnavo francese, tedesco e anche latino e dunque è a questo che mi sono ispirata per rappresentare i due mondi opposti delle due scuole del romanzo. Sunnybunk Park è la scuola pubblica, dove tutto è popolare, St. Osvald Una gita C non A ortodossa T A L O G O THOMAS RAUCAT "L’onorevole gita in campagna" Trad. Graziella Cillario pp. 188, euro 9,50 Einaudi, 2006 Nel 1922 un piccolo industriale di Tokio trova molto strano che uno studioso europeo inviti una giovane nipponica a fare una gita in campagna. Si offre di accompagnarli mentre informa alcuni suoi conoscenti. Lui ha un piano molto semplice ma sorgono ostacoli e le stesse persone coinvolte vivono i preparativi con emozione ciascuno a modo proprio. La rigida etica nipponica si rivela un ostacolo insormontabile per l’«onorevole» gita. JOANNE HARRIS . «Ho insegnato per vari anni e ho voluto reralizzare quel che avevo in mente di fare da tempo: scrivere l’esperienza straordinaria della scuola» Le colpe hanno una vita IL LIBRO JOANNE HARRIS "La scuola dei desideri" Trad. Laura Grandi, pp. 445, euro 16,50, Garzanti, 2006 La scuola inglese dei segreti C’è una scuola esclusiva, il St. Osvald College che rappresenta per Snyde, adolescente inquieto e di modesta estrazione sociale, un miraggio irraggiungibile. Davanti all’esclusivo istituto, di cui suo padre è il portiere, un cartello in vista proibisce l’ingresso. Ed è quel limite che spinge Snyde a visitare spesso la scuola che gli è vietata e che lo porterà da adulto ad entrarci da docente. Per insegnarvi, per osservare e per mettere a punto un diabolico piano di distruzione di quell’autorità che lo ha respinto. Senso vietato di Massimo Onofri SCRIVERE INSIEME Wu Minchia Uter Blisset L’ultimo uomo sulla luna ANDREW SMITH "Polvere di luna" Trad. Irene Piccinini pp. 385, euro 17, Cairo, 2006 Tra il 1969 ed il 1972, dodici uomini furono mandati sulla luna e tutti ne rimasero segnati. Poi mai più un uomo ha compiuto un allunaggio. Di quegli uomini moonwalkers solo nove sono ancora in vita. Ciò è riportato dal giornalista Andrew Smith mentre intervista, nel 1999, l’astronauta Charlie Duke; ma l’intervista viene interrotta per un triste comunicato che annunzia la morte dell’astronauta Pete Conrade. Nella foto Joanne Harris, autrice per Garzanti di La scuola dei desideri è un altro mondo ed io li ho immaginati pensando alle scuole in cui ho insegnato. Il mio è un romanzo di finzione ma immaginato su basi reali. E come mai un collegio inglese e non uno francese? Non ho mai insegnato in una scuola francese e a me non piace raccontare di ciò che non vedo e non so. Immagino poi che lì ci sia un sistema scolastico diverso che non avrei potuto raccontare. I luoghi stessi del mio romanzo si ispirano agli stessi luoghi scolastici da me frequentati. La torre campanaria della St. Osvald, topi compresi, è la stessa della mia Lizcamp School, ma altri ambienti invece sono del St. Catherine’s College di Cambridge in cui mi sono laureata. Lei descrive i rapporti complessi che vi sono all’interno della scuola tra insegnanti, colleghi, alunni, genitori. Oltre la scuola, qual è stato il suo osservatorio? Da studentessa e da docente la scuola è un mondo in cui ho abitato tutta la vita. I miei genitori erano entrambi professori, io sono stata alunna e poi insegnante, adesso seguo mia figlia e incontro madri che hanno i figli a scuola. Da figlia, da madre, da allieva, da amica ho avuto e ho modo di entrare all’interno dei rapporti umani di quel mondo, a volte complessi e stratificati come è normale che sia di ogni luogo di lavoro. Il suo romanzo porta alla luce un mondo di fragilità e di equilibrio precario dell’istituzione scuola. Crede che sia inevitabile che in ogni luogo di lavoro, soprattutto se chiuso ed esclusivo, possano esserci dei segreti? Credo che sia inevitabile che vi siano segreti perché vi sono le esperienze umane. E credo sia anche inevitabile che questi «segreti» vengano fuori perché si lavora gomito a gomito. Quando si tratta di un luogo chiuso ed esclusivo come un collegio magari tardano ad essere scoperti, salvo a detonare improvvisamente prima o poi. Nel suo romanzo i misteri della psiche umana vanno scoprendosi via via che si avanza nella lettura alla pari dei misteri della vecchia struttura di St. Osvald. È vero. Il fatto è che St. Osvald è trattato come un personaggio a sé, e siccome ha molti anni d’età ha più segreti di altri personaggi. Bisogna addentrarvisi per conoscerli, allo stesso modo in cui bisogna procedere nei misteri della psiche umana. Diciamo che il procedere parallelo dei misteri di due interiorità, di un luogo e dell’anima, è proprio del romanzo gotico, con la sua totale affinità tra luogo e personaggio. Se pensiamo a un romanzo come Cime tempestose pensiamo ad un luogo che ha una sua personalità proprio come i personaggi. Oltre che i luoghi da lei citati c’è stato qualche altro luogo che ha suggestionato il suo racconto? Ci sono tante esperienze personali che influiscono su una storia, tante immagini, tante suggestioni. Io ricordo in particolare, come suggestione che è ritornata in questo libro, il fatto di essere salita in cima al duomo di Milano e di aver guardato da lassù il mondo sottostante. Una visione da vertigini. Ossessioni e vendetta sono il mantra di Snyde, una delle due voci narranti, che anno dopo anno porta a compimento il suo piano. Quale trauma provoca il suo modo di essere? È un trauma che risale all’infanzia e che all’inizio nasce come invidia e rabbia, poi come desiderio crescente per qualcosa che non avrà mai, desiderio che assume forme ossessive, deviate, malate. St. Osvald rappresenta un mondo da cui Snyde è escluso, ciò che non potrà avere per differenze sociali ed economiche. Possedere intelligenza non basta a Snyde, che non demorde e si nutre del gusto della vendetta giorno per giorno, fino al punto in cui non può rinunciare, non può più tornare indietro. È un divieto, un ordine, l’autorità che mette in moto le azioni trasgressive di Snyde. Lo dichiara nell’affermazione iniziale di voler dichiarare guerra a St. Osvald. Ma perché dichiarare guerra ad una scuola? È una guerra perché non si tratta solo del divieto di oltrepassare dei confini, come quelli segnalati davanti all’austero edificio di St. Osvald. È una guerra di classe sociale, è una guerra di ambizione contro un nemico dalle tante forme che si configura in St. Osvald. Ma è anche e soprattutto una guerra per la propria identità, una guerra che Snyde conduce con la sua stessa persona, una lotta che non finisce perché il finale del romanzo rimane aperto. Nella galleria dei personaggi che presenta molti sono bizzarri e maniacali. Ma il confronto ben presto si riduce al personaggio principale e al professore Straitley, l’altra voce narrante. Due personaggi opposti che, però, in qualche modo sembrano incontrarsi. Sono diversi perché l’uno giovane, l’altro anziano e per il fatto che uno sta al di qua della barriera sociale e l’altro al di là. Li divide St. Osvald. Ma curiosamente è proprio St. Osvald in un certo senso ad unirli. Sì, i due si assomigliano perché hanno in comune la cultura accademica, latino compreso, intelligenza, attitudine all’attenzione, una buona dose di ironia, e ci tengono all’insegnamento e all’istituzione di St. Osvald, anche se Snyde per distruggerli e Straitley per salvarli. Il personaggio di Snyde racchiude un mistero che aleggia da subito nel romanzo. Ma chi è veramente? In realtà a tutti noi capita, se vediamo una cosa o una persona che sta al suo posto, di non vederla affatto. Non ci interroghiamo per chiederci chi sia, se sia in un modo o in un altro. La nostra reazione visiva è spesso pigra. Uno dei problemi di Snyde infatti è proprio quello di essere invisibile, insignificante. La sua è una guerra per diventare visibile, una guerra per un’identità che è in bilico tra complessi e paure. Quanto al fatto che riusciva da adolescente ad entrare e circolare per St. Osvald e poi da giovane docente ad inserirsi nell’esclusivo collegio per portare a termine il suo piano, non c’è da farsi nessuna meraviglia. A me è capitato personalmente di trovare studenti che non facevano parte della scuola, per non parlare di un episodio che in Inghilterra ha fatto scalpore e che è diventato un fatto di cronaca: un giovane pedofilo si è finto studente per stare vicino ai ragazzi. È riuscito ad ingannare tutti per più di un anno, prima di essere scoperto. E così capita a tutti noi: perché mai dovremmo pensare che quella persona che c’è davanti sia diversa da quello che sembra? La realtà vince la finzione GLORIA GOLDREICH "A cena con Anna Karenina" Trad. Rita Gatti pp. 307, euro 9,90, Newton Compton,2006 Sei signore molto amiche si incontrano per parlare di letteratura. In apparenza tutto bene; commentano Tolstoj incontrando metaforicamente Anna Karenina. Parlano di sogni e di paure mentre consumano cibi raffinati. Ad un tratto Cynthia rompe il suo perbenismo comunicando la sua separazione dal marito, un affermato regista, senza dare spiegazione ma spingendo ciascuna di esse a dare uno sguardo più approfondito alla loro vita. S C A F F A L E TIMOTHY TAYLOR, Come l’uomo incontrò la morte, trad. Francesca De Lillis, pp. 315, euro 9,90, Newton Compton 2006 L’archeologo Taylor studia la reazione umana di fronte alla morte. Iniziando dalla preistoria, la concezione della parola anima è stata difficile per capire che l’anima siamo noi che sopravviviamo anche dopo la morte. Tale idea dell’anima è nata forse prima della scrittura e dopo il linguaggio. L’archologia si prefissa di invocare i morti indagando così i rituali, i corpi rinvenuti ed i sarcofaghi monumentali. L’autore affronta argomenti come il vampirismo, il cannibalismo e la mummificazione; ma in ogni campo suo scopo principale è l’esame delle testimonianze dell’incontro dei nostri antenati con la morte. NICOLE KRAUSS, Un uomo sulla soglia, trad. Federica Oddera, pp. 286, euro 15, Guanda 2006 Samson Green è come se non fosse mai esistito; non ha più ricordi perché un tumore al cervello gli ha tolto la memoria. Ora è solo. Non può rimpiangere la vita di prima perché non la ricorda. Segue inevitabilmente il divorzio dalla moglie Anna che aveva tanto collaborato al recupero della memoria. Deve inventarsi un passato che riempia il suo cervello, perciò accetta di essere sottoposto alle cure di un carismatico che sembra restituirgli i sogni ma che invece lo sottoporrà ad una dolorosa rinascita riportandolo a rivivere la via del ritorno. Scopo dell’autrice è mostrare la difficoltà di vivere e di rivivere, il distacco sottile del presente dal passato, della solitudine e della memoria che è un importante contenitore del cuore in cui ciascuno si ripara costruendosi la propria individualità. M. RAYMOND, Tre frati ribelli, trad. Luigi Ragazzoni, pp. 294, euro 17, S. Paolo 2006 Durante le crociate emergono tre eroi spirituali che creano il monacheismo circense applicando le regole di S. Benedetto: S. Roberto fedele pur ribelle, l’umile sant’Alberigo e santo Stefano Harding, leale e razionale. Sono questi i padri dei «monaci bianchi» circensi e trappisti. Le loro vite sono narrate in un romanzo che vuole mettere in evidenza la missione dei monaci detti anche «silenziosi» e che tutt’oggi - a più di un millennio tengono alta la memoria dei loro fondatori. M. Raymond, monaco trappista, ha riscosso successo e consensi in Europa e negli Stati Uniti affermandosi come scrittore con L’uomo che si vendicò di Dio. LYNDA LA PLANTE, Oltre ogni sospetto, trad. Matteo Curtoni e Maura Parolini, pp. 475, euro 16,50, Garzanti 2006 Negli ultimi dodici anni sono state uccise cinque donne, prostitute e drogate, molto diverse dalla giovane diciassettenne Melissa, bella e dolce. Questo omicidio non sembra collegato agli altri e l’ispettore Langton, per incastrare l’assassino, si fa aiutare da Anna Travis con il suo gruppo. Anna però è ambiziosa e vuole andare oltre il suo ruolo mentre per i colleghi è ancora inesperta. Lynda La Plante propone un affascinante personaggio che sa aggirarsi con abilità nelle situazioni più difficili ed oscure. UZODINMA IWEALA, Bestie senza una patria, trad. Alessandra Montrucchio, pp. 127, euro 9,50, Einaudi 2006 Prima nei villaggi si viveva una vita pacata, fatta di tante cose piccole e piacevoli come il giocare, mangiare, l’amicizia, andare a scuola la mattina e in chesa la domenica. Il sorriso è di tutti e i padri raccontano la loro vita ai figli. Agu ed il suo migliore amico Dike non avrebbero mai immaginato un totale cambiamento con la brutale guerra che costringe ad uccidere per non essere uccisi. Il ricordo di ciò che era prima dà la forza di continuare a vivere perché obbedire agli uomini-belva è atroce. Iweala racconta la storia di un bambino costretto a crescere perdendo l’nnocenza per l’atrocità degli adulti. S t los I mmaginate di essere bambini e di dover convivere con una madre che vi sgrida dicendo: «Un giorno verrà qualcuno a uccidermi e allora ti dispiacerà» oppure «Un bel giorno ti sveglierai e io non ci sarò più. Scomparsa. Aspetta e vedrai». Forse un bambino non dà molto peso a simili minacce, ma immaginate di scoprire, una volta adulti, che quelle parole non solo esprimevano un timore fondato, ma che tutti i comportamenti apparentemente legati ad una forma di follia o di ossessione altro non sono stati che le conseguenze del fatto che vostra madre è stata una spia inglese durante la Seconda guerra mondiale: tutto ciò che sapete o, meglio, che credevate di sapere di lei, del suo passato, persino il suo nome, non è che una costruzione basata su bugie. Solo in questo modo potrete immedesimarvi in Ruth Gilmartin, la giovane inglese, protagonista dell’ultimo romanzo di William Boyd, Inquietudine, quando, nell’afosa estate del 1976 si vede consegnare dalla madre Sally un raccoglitore con varie dozzine di pagine. Il titolo: "Storia di Eva Delektorskaja". «Io sono Eva Delektorskaja» spiega Sally ad una Ruth incredula. Ma come conciliare l’immagine di una tranquilla vedova che vive nel minuscolo villaggio di Middle Ashton, con l’esule della rivoluzione russa del 1917, per metà russa e per metà inglese, addestrata e assoldata da un’agenzia di spionaggio britannica durante la guerra, una donna che ha dovuto mentire, cambiare identità e case sicure, e che solo ora, temendo di essere stata scoperta, ha deciso di consegnare la sua storia alla figlia? Ruth, già alle prese con una precaria vita da madre single, deve fare i conti con il passato di Sally/Eva e decidere se crederle o dubitare delle compromettenti informazioni contenute nelle memorie che, di volta in volta, le vengono consegnate, segreti di cui persino il padre era sempre rimasto all’oscuro. Che cosa è successo a Eva? Come mai si chiama Sally? Perché ora ha di nuovo tanta paura? E, soprattutto, che cosa vuole dalla figlia? Per il lettore come per Ruth, una cosa per volta: solo così, «ogni domanda avrà la sua risposta». Come spiega lo stesso autore nelle "Note sul contesto storico di Inquietudine", questo è un romanzo di fantasia, basato però su fatti reali, anche se poco conosciuti, della storia inglese. Essi fanno riferimento all’obiettivo di Churcill di convincere gli Stati Uniti ad entrare in guerra. Nel 1941 Roosevelt, pur propenso ad aiutare l’Inghilterra, incontrò la resistenza di un’opinione pubblica decisamente sfavorevole all’idea di combattere nuovamente in Europa. La campagna di persuasione che il governo britannico decise allora di mettere in atto fu affidata ad un’agenzia con sede a New York, la Bsc - British Security Coordination - che in poco tempo divenne una vasta organizzazione capace di manipolare notizie e intimidire gli oppositori in seno al Congresso, in modo da persuadere gli americani a cambiare idea: un piano occulto fra i più ambiziosi, efficaci e rischiosi della storia recente, anche se non è possibile sapere fino a che punto l’operato della Bsc avrebbe potuto condizionare gli Stati Uniti, poiché con l’attacco di Pearl Harbor il sogno di Churchill si realizzò definitivamente. In questo contesto si svolge dunque la storia narrata da Eva - l’addestramento, le missioni, il tradimento, la fuga… - cui si alternano i capitoli dedicati agli episodi di vita privata e pubblica narrati da Ruth. Fra tutte naturalmente prevale la sensazione di inquietudine evocata dal titolo, che ha accompagnato per più di quarant’anni Eva, non solo durante la sua attività come spia, ma anche quando poteva ormai essere certa di non correre più alcun pericolo. Quella stessa inquietudine che si insinua spesso fra le pieghe di tante vite ordinarie, diventando malessere esistenziale, e che, a ben vedere, molti di noi condividono con Eva, pur non essendo agenti segreti. Stilos ha intervistato William Boyd Com’è nata l’idea di Inquietudine? L’idea viene dal mio precedente romanzo, Ogni cuore umano, perché il personaggio principale era stato per un breve periodo una spia. Facendo ricerche per quei capitoli, mi sono incuriosito circa la psicologia delle spie e le caratteristiche che dovrebbero possedere. Una domanda - non so perché mi è rimasta in testa: che cosa si prova a scoprire che uno dei genitori mente e che tutto quello che si credeva di sapere di questa persona è un artificio? E un secondo dopo ho pensato: qualcuno scopre che suo padre è stato una spia? No! Sarebbe molto IL LIBRO WILLIAM BOYD "Inquietudine" Trad. Vincenzo Mingiardi pp. 352, euro 17 Neri Pozza, 2006 Dalla prima linea all’ultimo villaggio Ruth Gilmartin va a trovare la madre in un lontano villaggio dell’Inghilterra e viene accolta sull’uscio da una donna su una sedia a rotelle che appena in casa si alza e dà luogo ad un’altra stranezza: consegna alla figlia un memoriale perché sappia. Sappia cosa? Che lei è stata una spia inglese negli Stati Uniti durante la guerra mondiale. Il memoriale è un romanzo nel romanzo: la storia di una donna in prima linea che poi diviene una quieta signora della provincia inglese. WILLIAM BOYD . L’originale storia delle spie inglesi negli Stati Uniti prima di Pearl Harbor. Hanno una missione: agire per convincere l’opinione pubblica americana ad accettare di entrare in guerra. Una donna si distingue tra le altre e lascia scritta la sua vicenda in un memoriale destinato alla figlia Se tra la madre e la figlia metti una spia in mezzo VIVE A MILANO DOVE SVOLGE ATTIVITÀ DI INSEGNANTE. DIRIGE LA SEZIONE LETTERARIA DI UN PORTALE WEB LIDIA GUALDONI più interessante scoprire che la madre è stata una spia. Questa è stata l’idea iniziale del romanzo, la straordinaria storia delle spie inglesi negli Stati Uniti prima di Pearl Harbor. Essere stati spie in Germania, in Francia o in Russia, d’accordo… Ma la storia delle spie in America: questo è un vero regalo per un romanzo, è fantastico! Credo di essere stato il primo scrittore ad interessarsi a questo argomento, un poco imbarazzante per noi... Conosce il sito Wikipedia? Chi fa una ricerca digitando la sigla Bsc, ottiene subito come risultato "Restless", Inquietudine, il mio romanzo. Non ce ne sono altri. Ecco dunque l’idea iniziale: la mia curiosità per le spie e quella domanda. Adesso però che ho scritto Inquietudine, se rivedo a posteriori il mio lavoro, mi accorgo che l’interesse per chi ha cambiato identità o per chi ha perso la propria identità c’è sempre stato: è presente in almeno tre o quattro romanzi e ci sarà in quello che sto scrivendo. Perciò è qualcosa che mi intriga, o che mi ossessione, anche se non so spiegare perché. Nel romanzo si alternano capitoli dove la voce narrante in prima persona è Ruth, la figlia, a quelli dove a raccontare, in terza persona, è Eva, la madre: perché questa scelta? Ci sono diverse ragioni, alcune delle quali prettamente legate a tecniche di scrittura. Innanzitutto, due personaggi che si esprimono in prima persona possono creare confusione, mentre le due voci narranti diverse mi hanno aiutato a tenere distinte le due storie, in modo immediato e semplice. Inoltre, ho voluto creare una differenza fra Come C evitare A i Narcisi T A L O G O gli stili delle due protagoniste. La voce di Ruth è più complessa, quella di Eva più chiara, semplice, narrativa. Infine, Ruth si può considerare il vero io narrante del romanzo, perché è a lei che Eva consegna i capitoli della sua storia, in modo che li legga. E c’è un’indicazione - ad un certo punto Eva dice a proposito del memoriale: «Continuo ad aggiungere, cancellare, riscrivere. Cerco di renderlo più leggibile. Voglio che sia coerente. Se vuoi puoi sistemarlo un po’: tu scrivi molto meglio di me» - che lascia intendere come, forse, Ruth abbia epurato la storia della madre. Il fatto che sia alla terza persona la rende comunque più oggettiva. È stato difficile esprimere il punto di vista femminile delle due protagoniste, madre e figlia? Mi è capitato spesso nei miei primi racconti, negli anni Settanta, di esprimere il punto di vista femminile. Nel mio secondo romanzo, "An Ice-cream War", ci sono diverse voci, due delle quali femminili ed anche nel mio "Brazzaville Beach" la protagonista è una giovane scienziata criminologa. Esprimerlo non solo è facile, ma possiede anche una certa attrattiva. Perché scrivere un romanzo, per me, significa liberare l’immaginazione, andare in luoghi diversi, vivere situazioni ed essere persone che non posso essere. Non sono uno scrittore autobiografico, non mi interessa attingere alle mie esperienze come materiale. E quale modo migliore di liberare l’immaginazione, se non cambiare sesso e poter vedere il mondo attraverso gli occhi di una donna? È molto stimolante per me, è come mettermi in discussione. Mi ci vuole così tanto tempo per terminare un romanzo, tre o quattro anni, e se sono stimolato, eccitato e incuriosito da ciò che sto scrivendo, ho la speranza che anche il lettore lo sarà. Questo rende i miei libri qualcosa che la gente non si aspetta, qualcosa di nuovo, di diverso, uno shock, a volte. UMBERTO TELFENER "Ho sposato un Narciso" pp. 231, euro 9 Castelvecchi, 2006 Narciso è l’uomo sempre affascinante e desiderato, intelligente dai gesti raffinati, grande seduttore; ma qualche volta può essere anche depresso ed incerto in alcune situazioni. Lui vuole piacere alle donne e alle donne chiede di aiutarlo a piacersi; ma si trova ad un tratto spiazzato se è una donna a chiedere aiuto a lui perché il Narciso è troppo preso di sé e non può permettersi dubbi. Ritorno di troppa fiamma pagina Nella foto William Boyd, autore per Neri Pozza di Inquietudine Ho scritto diversi romanzi con protagoniste femminili, ma non mi preoccupo del genere, del loro sesso. Penso solo alla loro personalità ed al carattere. Perciò, se mai i miei personaggi femminili si ritrovassero in una situazione che sembra sollevare una questione legata a politiche sessiste e al genere femminile, la ignoro, penso semplicemente a ciò che ci si aspetta che loro facciano, senza chiedermi se una donna pensa e agisce così o se un uomo pensa e si comporta in un altro modo. Questo, immagino, fa sì che le lettrici credano nei miei personaggi, perché sono vivi, intensi. Possiedono caratteri complessi, possono scegliere fra varie possibilità, anche se a volte si contraddicono, ma questo fa di loro persone vere, che «escono» dalle pagine. Ma crede che ci sia una qualche differenza fra l’essere una spia donna e una spia uomo? È davvero una buona domanda… Ci sono state molte spie donna durante la Seconda guerra mondiale, ma penso che per essere una buona spia occorra disumanizzare se stessi, perché ci trova a vivere in un mondo dove non si può aver fiducia in nessuno, dove occorre diffidare di tutto e di tutti: da questo può dipendere la vita stessa. È necessario non lasciarsi sopraffare dall’emotività - la simpatia, il disgusto, l’amicizia, i buoni sentimenti… , ed essere sempre all’erta. In questo senso credo non ci siano differenze fra una spia donna ed una spia uomo. Del resto fino all’anno scorso, a capo dei servizi segreti britannici c’era una donna. Forse l’unica differenza è che ci sono sempre stati più uomini rispetto alle donne. L’operato della Bsc negli Stati Uniti è stato tenuto a lungo nascosto, ma lei, nel romanzo sembra comunque assolvere i mezzi utilizzati dagli inglesi in quella circostanza. È così? Credo non avessero scelta. Se c’era una possibilità che il sogno di Chur- ELLIOT PERLMAN "Sette tipi di ambiguità" pp. 698, euro 19,50 Guanda, 2006 Il destino rimette sulla strada di Simon Heywood, insegnante disoccupato, Anna che è stata una sua vecchia fiamma e della quale è sempre innamorato. Decide di rapirle il figlio. Si entra così in una vicenda complessa narrata a sette voci come cerchi di acqua formati dal lancio di un sasso. Simon conoscerà il carcere e le accuse di pedofilia. Attorno a lui si fa terra bruciata. chill - vedere gli Stati Uniti a fianco della Gran Bretagna -, si realizzasse, questa occasione doveva essere colta. L’unica alternativa era la pace. In un certo senso abbiamo una giustificazione. Noi inglesi ci siamo sempre illusi di avere un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, ma non è così. Gli Stati Uniti si sono sempre occupati di ciò che è «al di fuori», solo quando hanno avuto un loro personale tornaconto. E così facciamo noi, così fanno tutti gli altri stati. Questo significa fare politica estera: chiedersi, ciascuno, che cosa è bene per il proprio paese, per gli Stati Uniti, per la Gran Bretagna, per la Francia o per l’Italia. E questo è stato fatto all’epoca da chi lavorava nella Bsc, perché convinto che gli Stati Uniti trattino noi inglesi in un modo speciale e diverso da tutti gli altri, anche se non è vero. Credo perciò che sia di estremo interesse il fatto che i britannici nel 1941 fossero politicamente molto pragmatici, tanto da inviare in America un alto numero di spie in modo che gli americani cambiassero la loro opinione. Avevamo forse tremila agenti in America. Propaganda filobritanniaca, manipolazione di informazioni, sporchi trucchi… È un argomento molto complesso per noi: credo che in un certo senso fosse sbagliato, più che sbagliato, questo comportamento, ma in situazioni disperate occorre essere cinici. Il piano stava avendo successo, anche se non sappiamo che cosa sarebbe accaduto in seguito, visto che l’attacco giapponese a Pearl Harbor ha dato una mano agli inglesi. Ora la situazione si è un poco capovolta: Bush ha portato come alleato nella guerra in Iraq Tony Blair, anche se non tutti gli inglesi hanno approvato. La guerra, manipolazione di informazioni, spionaggio e controspionaggio, agenti segreti e, sullo sfondo, il problema dell’integrazione razziale… Il suo romanzo può essere letto anche in chiave moderna? Nel romanzo prevale l’idea della manipolazione delle informazioni. L’Inghilterra ha provocato un vorticare di informazioni false, cosa che si è estesa un po’ ovunque nel corso degli anni, in Russia, ad esempio. Normalmente, però, le false notizie venivano create dai governi per la propria popolazione e la novità è costituita dal fatto che, in questo caso, sono state manipolate informazioni da passare ad uno stato estero. È stato abbastanza straordinario il tentativo di far cambiare l’opinione ad un’altra popolazione, non alla propria. Ci sono lezioni da imparare. Certo nel 1940-41 la gente credeva a quello che leggeva sui giornali, che sentiva alla radio o al cinema molto più di quanto lo faccia ora, e Internet ha cambiato il nostro modo di cercare e trovare informazioni. Non c’è più bisogno che i governi mandino spie all’estero con questo obiettivo, anche perché possiamo essere tutti spiati attraverso il telefono cellulare e la Rete… Non si è più parlato di spie e di doppio gioco dalla fine della guerra fredda. La nostra prossima generazione di spie sarà forse costituita da giovani pakistani infiltrati nelle fila di Al Qaeda per sventare i loro attentati. In definitiva, però, l’inquietudine di cui lei parla, a partire dal titolo, è una condizione esistenziale o è dovuta alle circostanze in cui si è trovata a vivere Eva? Certamente in un caso di identità perduta, o nascosta, come quello di Eva, l’inquietudine diventa una condizione necessaria: in questo caso si diventa ansiosi anche per qualcuno che sta arrivando a bussare alla porta. Ma credo che l’inquietudine che caratterizza la vita una spia sia condivisa da tutto il genere umano, soprattutto quando si arriva ad una certa età e ci si chiede «quanto tempo mi rimane da vivere?». È una sensazione di incertezza, di timore che ci assale, dovuta alla nostra mortalità, al senso di precarietà. «Come potrò vivere il resto della mia vita?» è una domanda senza risposta, visto che non sappiamo quando moriremo: forse domani, forse tra trent’anni… A questo proposito, oltre alla bellissima citazione iniziale tratta da Proust, c’è, nel finale, la situazione in cui Ruth scopre che Eva sta ancora cercando qualcuno che la spia dal bosco, nonostante possa ormai considerarsi tranquilla e al sicuro. In quel momento Ruth capisce che non lo sarebbe mai stata, che avrebbe sempre scrutato il bosco in attesa, convinta che prima o poi qualcuno sarebbe venuto a portarla via: «All’improvviso pensai che in fondo è quello che facciamo tutti, ciò che ci rende tutti uguali: è la condizione di noi mortali, di noi esseri umani. Un giorno verrà qualcuno a portarci via, e non occorre essere una spia per sapere che cosa si prova». 17 Trovarobe autori stranieri GIULIO MOZZI LA CINA LIBRAIA Sono stato a Pechino. In diciassette giorni ho visto tutto quello che il bravo turista deve vedere: Città Proibita, Palazzo d’Estate, Tempio del Cielo, Grande Muraglia, e così via. Ho anche molto girato (a piedi) per strade e circonvallazioni e svincoli di questa smisurata città, godendomi la vista di un traffico spaventoso, di quartieri antichi (i famosi hutong) rasi al suolo, di deliri architettonici quali non ne avevo visti mai (enormi edifici a forma di torta nuziale, di estintore, di arco voltaico, di dolceforno, di juke-box, di abbazia di Westminster, di Colosseo Quadrato eccetera). Naturalmente ho ficcato il naso in qualche libreria. E, confesso, nemmeno il gigantismo di Pechino mi aveva preparato a quello che ho visto. A Wangfujing, nel viale che è un po’il Corso Buenos Aires della «Pechino da bere», c’è la libreria più grande e più bella che abbia mai vista. Cinque o sei piani, non ricordo più, forse sette; un’esposizione fatta benissimo, chiara e intuitiva (con cartelli anche in inglese); e una folla entusiasmante. Tra l’altro i pechinesi hanno la buona abitudine (visto che i soldi circolanti sono ancora pochi) di leggersi i libri da cima a fondo in libreria, prima di decidere se acquistarli. Così, attorno al banco delle novità di narrativa c’è una cortina di lettori che se ne stanno tranquilli, in piedi, a leggere pagine su pagine. Nel loro reparto i bambini stanno seduti in terra, o sdraiati, e si sfogliano (da soli o con la mamma) i loro bei libretti (piuttosto belli, in genere, quelli di produzione nazionale; e molto di tradotto o importato dall’Occidente), senza porsi il minimo problema. Se un bambino facesse così, in Italia, sarebbe il genitore, prima ancora che il libraio, a intervenire: «Guardare e non toccare!». No, no: in quella libreria si tocca tutto. Le cose che mi hanno definitivamente commossa sono due. Una è il piano quarto (credo), interamente dedicato a libri di disegno, acquerello e calligrafia. Questo mi ha data l’idea di quanto disegno acquerello e calligrafia siano ancora importanti nella Cina d’oggi. Senza contare che poi, all’ultimo piano, c’è un altro settore dove si comprano pennelli, carta, cartoncini, quaderni, inchiostri e calamai. Girando per quel corpaccione devastato e immenso che è oggi Pechino, ho fatto questo pensiero: «I nostri antichi, i Greci e i Romani, hanno scelti per le loro arti maggiori i materiali più solidi: il marmo, il bronzo. I Cinesi, invece, hanno scelti i più labili: il legno» (i palazzi imperiali sono quasi tutti in legno), «la carta, il giardino. Per questo è stato così facile, per il regime comunista prima e per il regime consumista oggi, distruggere e cancellare il passato». Non so se il pensiero sia storicamente sensato, ma mi è venuto così. L’altra cosa commovente l’ho vista nel piano dedicato alle pubblicazioni tecniche e scientifiche (il terzo, se non ricordo male): dieci metri di parete tutti pieni di fascicoli di norme tecniche. Se qualche ingegnere edile o meccanico o idraulico legge Stilos, credo che capirà la mia commozione. Ho lavorato sette anni, in un’altra vita, in una libreria tecnico-scientifica, ed eravamo così fieri dei nostri tre scaffali di norme tecniche: c’era gente che veniva a Padova da Udine, da Brescia, da Bologna, per attingere al nostro scaffale. E qui: dieci metri di parete! Ecco con cosa si distrugge la cultura della carta, del legno e del giardino: con dieci metri di parete tutti pieni di norme tecniche! (Lo so, dovevo riferirvi la fine di un dialoghetto. Ma il jet-lag mi ha incasinato. Facciamo la prossima volta). 18 I l nome della purezza è Tocqueville, la purezza della democrazia s’intende. La limpidezza di idee illuminate sull’equilibrio dei poteri, l’esempio dell’America fanno di Alexis de Tocqueville l’analista politico e lo storico che più abbia incarnato in sé i valori della democrazia e li abbia trasmessi a generazioni di docenti, studiosi e studenti riverberandosi fino a noi. Tocqueville è un riferimento certo del pensiero liberale e un modello citato tutte le volte che la democrazia è scivolata o stia scivolando verso forme di decadenza. Lievi, gravi o gravissime che siano, bisogna sempre partire da lui. Lo fa quasi con l’umiltà di un apprendista anche John Lukacs in un’opera provocatoria appena apparsa in Italia, Democrazia e populismo, che muove appunto dalla lezione del grande francese. Esule ungherese, come molti altri sviluppatosi negli Stati Uniti, 82 anni, Lukacs ci ha insegnato come Churchill, per quanto visionario, avesse ben chiari gli assetti dell’Europa e soprattutto quanto fragile sarebbe stato il comunismo. Per contrappasso ci ha spiegato anche che Hitler non era così matto come ce lo siamo dipinto. Pericoloso sì, ma non politicamente instabile come Stalin. Davvero il professore ha detto queste cose? Certo, sono nei suoi libri più famosi, così non è una sorpresa che seppure con i toni caustici a lui cari - ci spieghi soavemente in un libro che a tratti sembra perfino disinteressarsene come l’America di Bush - «uno che si diverte a interpretare il ruolo del soldato» - stia man mano cancellando la sua democrazia in nome di un piatto e insidiosissimo populismo. Anche se Washington è in buona compagnia. Stilos ha intervistato Lukacs. Come se l’immagina un Tocqueville oggi? Se improvvisamente il grande pensatore ricomparisse come giudicherebbe lo spettacolo del mondo? Sarebbe molto sorpreso delle circostanze materiali del mondo e sicuramente non avrebbe mai potuto aspettarsi un simile sviluppo materiale e tecnologico. Ma se restringiamo lo spazio alla politica, alla società e al modo in cui le persone pensano, non sarebbe molto sorpreso. La storia della democratizzazione del mondo è pressoché inseparabile dall’americanizzazione del pianeta. Eppure le tentazioni di presidenti americani, da Wilson a Bush, sono proseguite anche contro l’evidenza del fatto che l’affermazione «rendere il mondo sicuro per la democrazia» ha comportato e comporta conseguenze imprevedibili e certo non democratiche. Il problema non è rendere il mondo sicuro per la democrazia ma semmai l’opposto: come rendere sicura la democrazia per il mondo. Dunque dove sbaglia l’America? È una questione complessa e difficile. Tanto per cominciare il popolo americano e il governo non sono la stessa cosa. Il governo americano sbaglia perché porta all’estremo la rappresentazione che ha di se stesso e cioè l’idea che gli Stati Uniti hanno la missione di democratizzare il mondo. Questo è un errore profondo, qualcosa che i fondatori del Paese non hanno mai pensato. È piuttosto il frutto di un complicato sviluppo della politica, della pubblicità, della retorica americana che è divenuta universale solamente nel Novecento. Infatti va avanti da un secolo ed è un’idea pericolosissima non solo per il mondo globalizzato ma per l’America stessa. La democrazia è il governo del popolo o è il governo in nome del popolo? Democrazia è il governo in nome del popolo; ma ciò dipende dalle circostanze. Può essere vero e qualche volta è abbastanza vero che chi parla in nome del popolo nel modo in cui lo sostiene rappresenta effettivamente ciò che il popolo vuole, ma la storia e il Novecento lo ha tragicamente confermato - dice che in molte circostanze non è vero. Per questo la cosidetta politica democratica è astratta perché in realtà non il popolo decide, non parla, anzi se parla, parla sempre meno, sicché tra il popolo e la verità c’è sempre molta distanza. E i media e la pubblicità come l’hanno cambiata? Che fisionomia hanno oggi le elezioni politiche? Trascurerei i media, che possono piacere o non piacere ma non hanno un’influenza diretta. Perlomeno non quanto la pubblicità e più in generale la propaganda che è un problema differente e difficile perché contraddice l’idea stessa di democrazia. Mi piace ripeterlo: l’origine dell’idea democra- S t los autori stranieri JOHN LUKACS . Lo spettro sempre più incombente di una maggioranza spesso artificiale che invoca democrazia nel nome del popolo, e mentre lo dice vende un falso. Perché il populismo sta diventando una tendenza politica a sé, subordina tutto a una astratta e strumentale sovranità popolare Il culto del populismo ecco la nuova religione VIVE A GENOVA. GIÀ IL LIBRO CAPO CULTURA DEL "SECOLO XIX", SI OCCUPA DELLA PROMOZIO- JOHN LUKACS "Democrazia e populismo" Trad. Giovanni Ferrara Degli Uberti pp. 230, euro 17,60 Longanesi, 2006 NE DI EVENTI CULTURALI SERGIO BUONADONNA tica è che le decisioni politiche siano prese in nome del popolo. Il culto della popolarità invece può avere due facce: può essere un bene ma può essere anche male perché - ammettiamolo - anche il popolo può sbagliare le sue scelte. Un monarca può essere buono o no, un’aristocrazia pure e il popolo pure. Ma la pubblicità introduce un altro elemento: la pressione indotta, psicologica, economica, strumentale. In America le elezioni non sono più elezioni di popolo e basate sulla popolarità dei candidati, ma vere e proprie gare di pubblicità. Manipolate e spesso false. Come in Italia, più o meno, dove negli ultimi dodici anni sono comparsi in politica personaggi che hanno segnato un cambiamento profondo dell’uso della politica, spesso svuotandola dall’interno puntando so- Come si arriva alla demagogia Tenendo sempre presente la lezione di Tocqueville, i cambiamenti che la democrazia nel mondo, e soprattutto negli Usa, sta subendo diventando sempre più una forma di demagogia. prattutto sulla chiave populista. Io questo non lo so, di sicuro lo sa meglio lei perché sfortunatamente io non so molto dell’Italia, anche perché in questi ultimi anni i giornali e le televisioni americani si occupano molto meno di quel che passa in Europa ri- spetto a mezzo secolo fa. Professore, naturalmente lei dissimula, ma diciamo che la sua nonrisposta è molto eloquente. Cambiamo argomento. Come sono cambiati in questo inizio di secolo i nomi della politica? Gli «ismi» come liberalismo e conservatorismo, nazismo e comunismo, nazionalismo e socialismo, hanno ancora un senso? Questa è una domanda che mi piace. Io sono stato sempre scettico sugli «ismi». Prendiamo per esempio il comunismo. Come io vedo Stalin, egli durante gli ultimi vent’anni della sua vita non è più un fedele comunista. Era uno statista nazionalista russo che usava il comunismo quando gli faceva comodo, ma era secondario per lui. Ed ecco come si tradiscono le idee della politica e come basta un cattivo interprete per cambiare senso al liberalismo, al conservatorismo, a seconda delle idee che si dice di voler propugnare. E sicuramente oggi liberalismo e conservatorismo hanno proprio cambiato senso. Destra e sinistra hanno perso i loro connotati? Lei ha sostenuto che la destra ha fondato la sua forza sull’odio, la sinistra sulla paura. Lo SECONDA LETTURA Democrazia sempre più vulnerabile di fronte alla demagogia GIAN PAOLO SERINO P er John Lukacs, tra i maggiori storici contemporanei, è possibile che «la democrazia occidentale, così come l’abbiamo conosciuta, abbia già cominciato a seguire un deriva simile a quella della Germania nazista, dove la demagogia populista s’impadronì del potere, prese il controllo dei media e così pilotò le elezioni che la legittimarono». Se a molti il parallelismo può sembrare azzardato non si pensi di trovarsi di fronte ad un libro catastrofico o un libro dove le tesi siano esposte in nome del radicalismo storico più sfrontato: Lukacs con estrema semplicità e incredibile chiarezza delinea le coordinate di una società, la nostra, dove i media, la pubblicità e la propaganda hanno alimentato una nuova forma di populismo. Quello che terrorizzava Albert Camus ne La caduta («Quando tutti saremo colpevoli allora sarà la democrazia»), quello che ha descritto Thoreau nel suo Walden («In un mondo che continua a progredire nessuno progredisce veramente») e quello che ha profetizzato Alexis De Tocqueville ne La democrazia in America trovano in questo saggio il loro punto d’incontro. Lukacs ci racconta il nostro presente: il trionfo della civiltà delle immagini su quella della parola, le competizioni elettorali ridotte a gare pubblicitarie nel nome di una democrazia sempre più vulnerabile alle sirene della demagogia. Le tesi di Lukacs non sono certo delle novità: da Guy Debord a Neil Postman, da Noam Chomsky a Jean Baudrillard sono moltissimi i sociologi che ci hanno raccontato, spesso con un anticipo ai limiti delle visionarietà (si pensi solo al genio anticipatore di Debord e della sua Società dello spettacolo), il nostro «mondo nuovo». Lukacs però, si è detto, riesce a farlo con un linguaggio chiaro e istantaneo: parole che mirano dritte all’orologeria delle nostra coscienza e riescono a scardinarla senza violentarla. Leggendo questo libro tutto appare evidente: tassello dopo tassello riusciamo a ricostruire un mosaico che non ha le coordinate da incubo di un libro di Philip Dick solo perché ci è familiare, solo perché, vivendolo ogni giorno, lo assorbiamo come si potrebbe fare con un film. E l’incubo maggiore sta proprio in questo: la consapevolezza della nostra impotenza di fronte ad un ingranaggio sociale che è talmente semplice da apparirci ormai indecifrabile. Nella foto John Lukacs, autore per Longanesi di Democrazia e populismo pensa ancora? Non più perché i confini non sono netti come in passato, però sono sentimenti che rimangono nei movimenti estremisti. Di fatto destra e sinistra come li conosciamo oggi hanno rinunciato a questa dicotomia radicale, però hanno perso molto meno le loro identità politiche. Il paradigma letterario di Stendhal, che lei giudica nel libro come un microcosmo degli antichi regimi totalitari, oggi è solo un simulacro d’autore di fronte a un mondo sempre più ignorante e consumista, dunque privo di valori? Stendhal era un grande scrittore così come lo furono Victor Hugo e Dumas che seppero leggere il passaggio tra la vecchia destra aristocratica, i regni e i ducati autoritari, i conservatori e le loro polizie e la rivoluzione francese. Questo era il paradigma e anche la forza d’attrazione che tempi e idee nuovi esercitarono allora. La domanda tornò a porsi dopo la Seconda guerra mondiale in Francia e negli Stati Uniti, ma chi vide in essa una sorta di riproposizione del marxismo e dei rivoluzionari russi dell’Ottocento, sbagliava. La storia più recente ci dice che sono tornati a vincere i nazionalismi e che il socialismo reale è stato cancellato. Al di là del giudizio storico sui dittatori del XX secolo (da Hitler a Stalin), che significato ha e che ruolo può ancora avere saper parlare alle masse? È una domanda che mi faccio spesso, ma non ho ancora trovato la giusta risposta. Molti analisti, per esempio, hanno detto e scritto che nell’epoca della televisione Hitler non avrebbe avuto successo. È possibile, ma non ne sono così sicuro. Quando lei parla di fraintendimento del liberalismo che cosa intende dire? Che cosa è stato travisato, quali trionfi e quali illusioni? Certo il liberalismo ha vinto perché non c’è più la schiavitù, il Novecento ha sancito l’emancipazione femminile ed il suffragio popolare. Eppure il liberalismo è in declino perché avrebbe dovuto estendere la giustizia e invece non sembra essere proprio così. Viviamo in un mondo in cui la propaganda dei media conta molto più della giustizia e della verità, che a questo punto mi sembrano latitanti. Secondo lei l’Occidente scivola nel populismo. È una deriva inarrestabile oppure è il frutto del prevalere del sentimento popolare sulla razionalità? Non ho scritto che il populismo vincerà, ma segnalo il pericolo del culto del populismo, del culto di una maggioranza spesso artificiale che invoca democrazia nel nome del popolo, e mentre lo dice vende un falso. Perché il populismo sta diventando una tendenza politica a sé, un metodo che ignora i diritti delle minoranze e degli individui; subordina quasi tutto a una astratta e strumentale sovranità popolare. Per questo lei pensa che le donne saranno la grazia salvatrice, saranno loro a liberarci da stupidità e populismo? No. Parlo delle donne nel capitolo su odio e paura e dico che l’odio è più forte della paura. Perché l’odio unisce le masse e in questo senso non c’è grande differenza fra donne e uomini. Una donna può rispettare un uomo che odia ma non un uomo che ha paura perché rivela debolezza. C’è una forza spirituale umana che le donne possiedono: l’amore che possono naturalmente offrire agli individui. Viene dalla loro struttura mentale e spirituale. In questo senso l’amore è non solo moralmente ma funzionalmente importante, perché non è l’amore di se stesso ma verso un altro individuo. Le donne hanno questa forza e tale rimarrà fino alla fine della storia umana. Parlare di scontro di civiltà come ha fatto Huntington è una follia alla luce degli eventi più recenti: dall’Iraq al Libano; dalle minacce dell’Iran agli Hezbollah fino al discorso del Papa sulla natura di Dio che gli islamici hanno letto come una condanna e una minaccia al fondamentalismo? Huntington non mi impressiona. Dice cose ovvie che conosciamo e sulle quali non credo sia necessario soffermarsi ulteriormente. Il problema di Huntington è che la sua posizione non è autentica. Certo che c’è uno scontro in atto, la guerra in Iraq, il conflitto in Libano, le incomprensioni tra Chiesa cattolica e Islamismo e comunque l’offensiva religiosa islamista ma questo non significa che in tutti i sensi due civiltà si affrontino. Significa che ci sono molti ostacoli da superare e questo è compito della politica più che della religione. Altro pagina WALTER PEDULLÀ IL RITORNO DI MALERBA Non tocca a me recensire il nuovo romanzo di Luigi Malerba (Fantasmi romani, Mondadori). Di passaggio perciò mi limiterò a qualche telegrafica impressione di lettura. Riceverlo e leggerlo è stato un tutt’uno: cinque ore dopo averlo iniziato, l’ho finito. È una constatazione ma potrebbe essere un giudizio. Da sempre Malerba è narratore di vigorosa trazione dinamica, trama seducente, e prosa scorrevole che è frutto di tenace lavoro di lima e di calcolo. Lo confermano i cinque romanzi degli ultimi dieci anni, dove vince una geometria narrativa che sta mettendo ordine, ancorché paradossale, nel caos che un giorno fu affidato all’informale. È il «ritorno all’ordine» di Malerba? Quanto quello di tanti autori canonici delle avanguardie storiche, da Palazzeschi a Bontempelli, da Savinio a Campanile, da Marinetti a Zavattini, che dopo aver tentato col «classicismo di domani» approdarono al «classicismo di oggi». Non fu restaurazione, non lo è quella di Malerba. Non è questione di bellezza, «funzionavano» meglio le opere che avevano una direzione che non si cerca più, perché non si sa dove si sta andando. Forse questa fase della narrativa di Malerba domani funzionerà di più, ma per ora debbo accontentarmi: il suo linguaggio è una sonda efficace dentro il nostro modo di vivere. È questo il realismo dell’avanguardia? Col passare del tempo il romanziere è diventato più «romanzesco», con evidente soddisfazione dei lettori che lo seguono da quando si è imposto come uno dei più originali e complessi narratori degli anni Sessanta. Non vorrei che si dimenticasse cosa rappresentano nella letteratura del secondo Novecento i racconti «contadini» dell’opera di esordio (nella Scoperta dell’alfabeto l’elementare si fa carico di tutto, e la terra è la Terra). O la storia di un uomo da nulla che per esistere deve inventarsi una vita fuori del comune (nel Serpente, che non è solo il capolavoro di Malerba ma che è tout court un capolavoro, il venditore di francobolli crea il canto muto e il coito come miscela di sinfonie: l’arte serve a qualcosa). O l’esilarante giallo «edipico» (in Salto mortale l’investigatore è il colpevole) che è il migliore esempio di informale nella nostra narrativa. Malerba non è solo questo. È anche quello dei racconti di Testa d’argento (un mosaico di dissennatezze esemplari del nostro tempo) e del romanzo Il protagonista (storia di un organo sessuale maschile che è alla febbrile ma vana - d’amore si parla ma non si fa ricerca della compagna e che si riduce a corteggiare il proprio corpo, il suo posteriore). Il romanzo parla del romanzo e dell’ambizione di trovare il lettore ideale, quello che si identifica con l’autore in omologia col personaggio che, scoraggiato dall’impossibilità di trovare l’anima gemella, si riduce, ovviamente solo col desiderio, in se stesso. Sempre più spesso i personaggi di Malerba, come nel dormiveglia si sogna di sognare, si comportano come se fossero, non nella realtà, bensì in un romanzo. Il linguaggio dei cortigiani di Bisanzio nel Fuoco greco è più incisivo di un coltello: nella civilissima corte bizantina che è la vita contemporanea un dialogo di sottile maldicenza uccide in modo più efferato di una spada. La cifra stilistica di Malerba continua il massacro che un giorno fu comico e ora è tragico. E la sua narrativa continua a fare il vuoto dove una cultura fa il pieno sublimando il tornaconto personale dentro una civiltà che può essere felice solo perché non s’è accorta d’essere formata di fantasmi. S t los pagina Illustrazione di René Magritte: "Le Grand Siècle", 1954, Gelsenkirchen, Städtisches Museum Q uel momento alla fine era arrivato. Doveva ricominciare a camminare da solo. Un po’ ogni giorno, aiutandosi con quelle due stampelle a treppiede. Gli sembrava di avere davanti una vita nuova. Era una bella cosa, avrebbe dovuto essere contento. Verso le sette di sera s’infilò il cappotto e un passo dopo l’altro uscì sul pianerottolo. Quando entrò nell’ascensore si sentiva già stanco. Poteva fare tutto con molta tranquillità, sua moglie non era ancora tornata. Scese a piano terra. Sorretto dalle stampelle uscì dal palazzo, uno dei tanti costruiti in quella periferia estrema che confinava con la campagna. Si fermò un attimo a riprendere fiato e guardò il punto dove aveva deciso di arrivare, il grande viale dove il traffico scorreva continuo e veloce. Da casa sua dovevano essere almeno un centinaio di metri, forse anche centocinquanta. La sua nuova vita stava per cominciare. Fra lui e il viale c’era un enorme slargo con dei giardinetti comunali e uno stradone dove non passava quasi nessuno. I lampioni erano altissimi, con la lampadine gialle. Nell’aria fredda stagnava una nebbiolina appiccicosa. In lontananza si vedevano le luci di un centro commerciale, forse il più grande della regione. Fece un sospiro e cominciò a mandare avanti un piede dopo l’altro, lungo il vialetto condominiale. Si sentiva emozionato, ma anche un po’ teso. «Non deve assolutamente cadere» aveva detto il fisioterapista. Quella specie di mago era riuscito a rimetterlo in piedi in pochi mesi. Un miracolo. Dopo l’incidente, lui si era convinto che non avrebbe mai più potuto camminare. Anche sua moglie e tutti i suoi parenti ne erano convinti, anche se avevano sempre recitato la commedia. Ma i loro sguardi parlavano più delle loro parole. In fondo avevano ragione. Sperare era difficile. Nemmeno a vent’anni sarebbe stato facile rimettersi da un incidente del genere, e lui ne aveva quasi sessanta. Un camioncino era passato col rosso e aveva preso in pieno la sua macchina. Non si ricordava nient’altro. A un certo punto aveva aperto gli occhi e aveva visto una parete bianca. Non riusciva a muoversi. Non capiva cosa stesse succedendo. Poi aveva visto apparire una faccia sconosciuta. «Mi sente?» aveva chiesto una voce. Lui era riuscito a dire di sì e lo sconosciuto sembrava soddisfatto. Poi più nulla. Quando aveva ripreso conoscenza, fuori c’era il sole. Si sentiva così debole che non riusciva nemmeno a parlare. Nei giorni successivi, un po’ alla volta, gli raccontarono com’era andata la faccenda. Era arrivato in ospedale clinicamente morto, ma i medici non si erano arresi e lo avevano ripreso per i capelli. Era stato in coma qualche settimana, e aveva subito diverse operazioni alla colonna vertebrale e alle gambe. «Camminerò?» aveva chiesto lui una mattina. Il medico gli aveva detto con franchezza che era ancora presto per sapere se sarebbe guarito completamente o se invece… Uscì dal giardino condominiale e proseguì sul marciapiede in direzione del viale. L’aria puzzava di macchine e il freddo entrava sotto i vestiti, ma lui doveva soltanto camminare fino a quel lampione laggiù. Dopo più di un anno adesso poteva di nuovo stare in piedi da solo. Era davvero come rinascere. Aveva piovuto da poco, e per terra era ancora bagnato. Guardò il cielo. Era coperto senza speranza. Se avesse ricominciato a piovere si sarebbe inzuppato fino alle ossa. Una tartaruga sarebbe stata più veloce di lui. I primi tempi in ospedale erano stati duri. Non aveva forze, e doveva essere assistito di continuo. Sua moglie faceva il possibile, ma non poteva certo smettere di andare a lavorare. Lui si ritrovava spesso da solo, a guardare il soffitto. Pensava, ricordava il passato, immaginava il suo futuro su una carrozzella. E a volte piangeva. Quando aveva bisogno di fare pipì suonava il campanello. Per ogni minima cosa dipendeva dalle infermiere, e la più vecchia poteva essere sua figlia. Questa cosa lo faceva sentire molto male. Lui era abituato a cavarsela da solo, a camminare sulle sue gambe, a decidere. Quella condizione era troppo umiliante. Ma non poteva farci nulla, il suo corpo non rispondeva. E poi gli mancavano le forze. L’unica cosa che poteva fare era sperare di riavere presto le sue gambe. Era pieno di cicatrici, ma le operazioni erano andate bene. Guardava il soffitto e pensava alla Fece un sospiro e cominciò a mandare avanti un piede dopo l’altro, lungo il vialetto condominiale. Si sentiva emozionato, ma anche un po’ teso. «Non deve assolutamente cadere» aveva detto il fisioterapista. Quella specie di mago era riuscito a rimetterlo in piedi in pochi mesi. Un miracolo Le stampelle servono ad attraversare la vita MARCO VICHI VIVE A FIRENZE. HA CREATO LA SERIE DI POLIZIESCHI DEL COMMISSARIO BORDELLI CHE ESCONO DA GUANDA sua vita di prima, al suo impiego nell’amministrazione pubblica che gli aveva sempre dato molte soddisfazioni, alle cenette di sua moglie mangiate davanti alla partita, alle passeggiate estive sul bagnasciuga, alle domeniche pomeriggio passate a bere e a giocare a carte a casa di suo cognato carabiniere. E piangeva. Non molto, solo qualche lacrima. Non arrivava mai a singhiozzare, non era da lui. Facendo molta attenzione scese dal marciapiede. Gli sembrò una grande conquista, la prova concreta che finalmente poteva camminare senza l’aiuto di nessuno. Era cominciata davvero una nuova vita, e sarebbe stata diversa da quella di prima, più bella. Essere scampato alla morte gli faceva vedere la vita in un modo tutto diverso. Dopo quell’incidente alcune cose per lui avevano perso di valore, e altre invece... Mattone su mattone avrebbe costruito la sua guarigione, la sua nuova vita. Prima o poi avrebbe potuto di nuovo camminare, saltare, nuotare, correre. Doveva solo metterci tutta la sua volontà, ogni giorno, fino alla fine. Sentì una scintilla di euforia nello stomaco, che svanì subito. Non aveva senso esaltarsi. Non in quel momento. Ora non aveva altro da fare che attraversare quello stradone deserto e salire sull’altro marciapiede. Poi quel lampione laggiù. Il resto sarebbe arrivato dopo, un po’ alla volta, mattone su mattone. Ci voleva tenacia e pazienza. Ma gli faceva bene avere una direzione precisa da seguire, un traguardo così importante davanti agli occhi. Aveva qualcosa di eroico. Il rombo continuo del traffico gli dava fastidio, lo distraeva dai suoi pensieri. Il viale era ancora lontano per le sue gambe, ma con calma ci sarebbe arrivato. La strada era un po’ in salita, e Vampiro C e pure A conte T A L O G O questo rendeva tutto più difficile. Si sentiva un po’ spaesato, frastornato, come se tutto intorno a lui fosse nuovo e si muovesse a una velocità accelerata. Ma era normale, per uno che non usciva di casa da più di un anno. Per mesi aveva immaginato quel giorno speciale, lo aveva desiderato più di ogni altra cosa… e adesso che lo viveva si sentiva soltanto un po’ strano. Era arrivato a un passo dalla morte, avrebbe potuto morire, non esistere più. In quel momento avrebbe potuto essere in un cimitero, con un mazzo di fiori appassiti davanti alla sua fotografia. Invece era ancora lì, come un resuscitato. Aveva davanti una nuova vita, avrebbe ritrovato le sue gambe e tutto sarebbe stato diverso. Più bello. Era arrivato appena a metà del tragitto, e aveva già voglia di tornare indietro. Si sentiva sfinito. Ma se cominciava a fare così ci avrebbe messo molto più tempo a guarire. Il fisioterapista era stato chiaro. Per guarire più in fretta ci voleva la forza della volontà. Doveva arrivare fino a quel lampione sul viale, a costo di metterci tutta la notte. Una delle infermiere era molto carina. Aveva dei modi un po’ sbrigativi, ma in fondo era gentile. Si chiamava Maria. Quando lui suonava per orinare sperava sempre che non arrivasse la bella Maria, con i suoi capelli neri e quegli occhi lucenti come sassi bagnati. Non voleva che fosse proprio lei a mettergli il pappagallo sotto il sedere. Si vergognava. E quando arrivava proprio Maria, lui allora le chiedeva un bicchier d’acqua o di mettere un po’ di musica. Poi aspettava un quarto d’ora e suonava di nuovo, sperando che arrivasse un’altra infermiera. E se invece arrivava Maria… Il clacson di un camion lo fece sobbalzare. Non aveva suonato a lui, ma era un suono a cui non era più abituato. Si fermò un minuto a riprendere fiato, poi ricominciò la scalata verso il viale. Il lampione era laggiù che lo aspet- ALESSIA ROCCHI "Anghelos" pp. 430, euro 18, Rizzoli, 2006 Noir medioevale per il libro d’esordio della giovane Rocchi, laureata in Lettere alla Sapienza di Roma. A Benevento, nell’anno del Signore 999, il servo Raphael incontra una creatura orrenda, il vampiro conte Nikeforos, discendente della temutissima Stirpe degli Anghelos, fuggito dall’isola di Thera per non cadere vittima dell’ambizioso vescovo Alexandros. Il jazz made in Usa tava, alto come una torre. A parte la fatica era bello camminare, più bello di qualunque altra cosa. Ancora qualche mese di pazienza, poi avrebbe ripreso a vivere normalmente. Sarebbe tornato a lavorare nel suo ufficio, avrebbe guidato la macchina, avrebbe fatto il bagno in mare e tutte le altre cose che fanno le persone normali. Be’, forse non sarebbe stata una nuova vita in tutti i sensi, ma lui si sentiva comunque un uomo nuovo, un resuscitato. Era andato fino all’aldilà e poi era tornato indietro. Doveva solo godersi quel regalo, scartarlo con calma e assaporarlo come un dolce. In ospedale era migliorato in fretta, e dopo qualche mese aveva cominciato la rieducazione funzionale. I primi tempi a letto, poi attaccato a qualche attrezzo. Dopo altri sette mesi il medico aveva detto che era arrivato il momento di camminare da solo. «Dal mese prossimo per lei comincia una nuova vita» aveva detto. E lui aveva pensato: Non vedrò più Maria. Maria gli piaceva. Non poco, molto. A un certo punto aveva cominciato a pensare di essersi innamorato, e si era sentito in colpa verso sua moglie. Ma era inutile farsi il sangue amaro. Per Maria sentiva quello che sentiva, non poteva farci nulla. Un giorno si era fatto coraggio e gliel’aveva detto. «Signorina Maria, penso di essermi innamorato di lei.» «Non si preoccupi, nella sua situazione può succedere» aveva detto lei con un sorriso da infermiera, e se n’era andata. Lui non le aveva detto più niente. Era arrivato a una ventina di metri dal grande viale pieno di macchine. Sotto quei lampioni altissimi con la luce gialla le macchine sembravano tutte grigie. Non le aveva mai viste in quel modo, le macchine. Passavano veloci come topi. A un tratto pensò a se stesso prima dell’incidente, e gli sembrò di guardare da lontano la vita di un altro. Ripassò a mente una sua giornata di allora, GIAN CARLO RONCAGLIA "Il jazz e il suo mondo" pp. 510, euro 16, Einaudi, 2006 È impossibile comprendere il mondo fantastico del jazz se non si fa riferimento agli sviluppi della memorabile storia americana con i suoi conflitti sociali e la sua capacità di essere un misto di linguaggi e sperimentazioni. Solo il mondo del jazz riesce in questa impresa esprimendo l’America con il suo ritmo frenetico e al contempo sentimentale e trascinante. se la fece scorrere in mente come un documentario… la sveglia alle sette, la barba, la colazione col caffè che sapeva di bruciato, il bacio stanco a sua moglie, la prima sigaretta, la macchina, i semafori, le code, l’ufficio con i colleghi, i pettegolezzi, le invidie… all’improvviso capì che quel lavoro nell’amministrazione comunale non gli aveva mai dato nessuna soddisfazione, a parte il cinque del mese quando gli consegnavano la busta paga. Lo sentì come avrebbe sentito un calcio nello stomaco. E le cenette davanti alla partita erano sempre state rovinate da quella rompicoglioni di sua moglie, che non lo lasciava in pace nemmeno quando c’era un rigore. E suo cognato, carabiniere in pensione, era uno che capiva poco di tutto ma voleva sempre dire la sua, alzava la voce e blaterava contro i negri e i comunisti. E dalle vacanze al mare tornava sempre con un malessere che non aveva mai avuto il coraggio di ammettere… Preso dai ricordi, senza rendersene conto era arrivato alla sua meta. Si fermò sull’immenso marciapiede del viale, appoggiandosi bene alle stampelle. Alzò gli occhi. Venti metri sopra di lui, la luce gialla del lampione brillava dietro un velo leggero di nebbia. L’aria era più calda per via delle macchine, ma era irrespirabile. Aveva sbagliato tutto, ora lo vedeva con chiarezza. La sua vita era stata un errore dietro l’altro. Se n’era accorto troppo tardi. Avrebbe dovuto fare l’archeologo, andare in giro per il mondo a scavare buche per cercare ossicini fossili e cocci. O magari avrebbe potuto essere un medico che accorreva nelle zone di guerra, per curare feriti e bambini. Gli sarebbe piaciuto aver fatto qualcosa di grande, che lasciasse un segno, e invece non era nemmeno riuscito a fare un figlio. Era affondato lentamente in quella vita noiosa, ci si era abituato come a un brutto quadro appeso nell’ingresso. Si voltò verso sinistra. In mezzo a quella nebbiolina le luci del centro commerciale erano quasi belle. Lo conosceva bene, quel mostro luminoso. Fino a un anno prima ci andava a fare la spesa tutti i sabati pomeriggio. Ci andava sempre da solo. Preferiva così. Spingeva il carrello e guardava le donne che gli passavano accanto. A ognuna dedicava un pensiero. Era uno dei suoi angoli segreti, un’avventura a cui non avrebbe potuto rinunciare. Il sabato era il giorno dei sogni. L’incidente era successo proprio un sabato, mentre tornava dal centro commerciale con la macchina carica di sacchetti. Le ventate tiepide delle macchine in corsa gli arrivavano in faccia e gli alzavano i capelli sulla testa. Guardò il marciapiede di fronte, e gli sembrò lontanissimo. Sarebbe davvero riuscito ad arrivarci, un giorno? La strada che portava alla guarigione era lunga e faticosa. Doveva metterci tutta la sua volontà, se lo diceva di continuo. Ma in fondo a quella strada cosa avrebbe trovato? Qual era lo scopo di tutta quella fatica? Davvero la sua vita sarebbe cambiata? O sarebbe stato tutto come prima? La sveglia alle sette, la barba, la colazione col caffè bruciato, la prima sigaretta, i colleghi… la stessa identica vita di prima, per sempre… Scosse il capo. Trovarsi dentro a quella vita senza rendersene conto poteva capirlo, ma vederla in faccia e scegliere di continuare a viverla… Ma in fondo quali speranze aveva di poterla davvero cambiare? A cinquantanove anni? E in che modo? Che senso aveva? Accanirsi a camminare e camminare ogni giorno con quelle stampelle a treppiede, mesi e mesi su e giù nella strada davanti a casa per guarire in fretta e tornare a fare le stesse cose di prima, quelle cose che ora non gli piacevano più, che forse non gli erano mai piaciute, stare in un ufficio polveroso con gente stupida a fare un lavoro inutile, il sabato spingere un carrello guardando le donne degli altri e tornare a casa da una donna che non amava più da vent’anni… ormai la sua vita era quella, non aveva la possibilità di cambiare più nulla. Non avrebbe nemmeno saputo da che parte cominciare… e se anche ci avesse provato non sarebbe servito a niente. Di lontano vide i fari di un camion, un grosso Tir con le lucine rosse tutte intorno alla cabina. In mezzo a quelle macchine grigie sembrava una muraglia prodigiosa, un idolo fra i pigmei. Capì in quel momento che poteva fare una cosa importante, la prima della sua vita. «Chissà se Maria lo verrà a sapere» pensò. Aspettò che il camion fosse molto vicino e con un salto si buttò sotto le ruote. © Vichi per Stilos, "Mattone su mattone", 2006 19 Occidente narrazioni inedite WALTER PEDULLÀ RITORNO A SANAH 1955. Roma. Avere ventiquattro anni ma essere già baciato in fronte dalla fortuna di ricevere libri da recensire; o da catturarvi suggestioni per quella letteratura camuffata da giornalismo in cui andava cimentandosi senza vergogna. Gli arriva in cordiale omaggio (così la dedica) da Ettore Rossi luminare dell’Istituto per l’Oriente un tomo inquietante già nel titolo: "Documenti sulle origini e gli sviluppi della questione araba". Ma ogni riluttanza si dissipa subito alle prime righe del primo capitolo. Un attacco eccitante da romanzo di avventure per giovinetti (quale di fronte ai libri rimane ancora): «Era il dicembre del 1880 quando un’associazione segreta araba affiggeva nottetempo sui muri delle città di Beirut, Tripoli e Damasco bianchi manifesti con i versi di Jbrahim al-Yazigi: "Con la spada si possono raggiungere mete lontane / Ma piuttosto salute e pace siano a voi nobili arabi / E benefichino le nubi il vostro paese"». 1995. Alessandia d’Egitto. Nella hall dell’Hotel Marriot dove Lawrence Durrell scriveva i suoi Quartetti, la mia guida-interprete colta e raffinata suggerisce un incipit destabilizzante per il mio film-tv sullo scrittore. «Il sultano che distrusse nel 1215 la biblioteca di Alessandria così sosteneva l’inutilità dei libri: O questi libri dicono la stessa cosa del Corano, allora sono inutili; o dicono cose diverse ed allora sono ugualmente da distruggere. Credo che quella egiziana mentisse per giocare con me all’occidentale evoluta». 2000. Sanah. Il mafray nelle case degli yemeniti è un rifugio tutto maschile dove l’uomo arabo si procura la sofficità della vita spargendo tappeti e cuscini, tappeti su tappeti, cuscini su cuscini. Scompaiono così scabrose superfici in calce e pietra di pavimenti e pareti. È una bolla d’aria, il mafray, dove si galleggia sulla realtà: il soverchiare del trascendente sulla razionalità è nella psicologia di ogni mussulmano. Si masticano erbe rasserenanti, si libera il pensiero o lo si raggomitola nel fondo della coscienza per srotolarlo come un tappetino di preghiera disteso verso la Mecca; ci si assopisce o si chiacchiera (mai si discute) si calcolano guadagni e perdite negli affari come si raccontassero storielle piccanti (infatti ridono coprendosi la bocca); qualche volta si parla del tempo come nei club inglesi; ci si rivolta sul fianco, ci si puntella con un gomito, si rutta con soddisfazione. È tutto così dedicato al corpo, ad una fisicità senza angoli. Sarebbe il mafray acconcio alla fisicità del fare l’amore, se da secoli non fosse severamente off limits alle donne. È in questi luoghi morbidi ed alieni dagli scontri dialettici (forse per questo l’esclusione delle donne, doppio richiamo alla piacevolezza ed alla cruda realtà della vita: vir post coitum triste) che i rifugiati nel soporifero mafray e il cristiano d’Occidente ammesso gentilmente si chiedono senza dirselo: Dialogo e/o guerra di religione? Ho visto il letto di pietra su cui dormiva Francesco nei romitori toscani, il sasso- giaciglio di Antonio nello speco di Lisbona. Quello di Giovanni a Patmos stupisce e suscita incredulità nei ragionieri che fanno del turismo spirituale tra monasteri ortodossi e la misogina enclave del monte Athos. Tutto qui. Interrogare sempre le carte: ad esempio il mimetismo di Montesquieu nelle Lettere persiane funziona. La scrittura camuffata, appunto. Un europeo che per esprimere saggezza indossa comodi e rigonfi indumenti arabi. P report er Robin edizioni in libreria Salvatore Savignano con Un posto sotto terra (pp. 240, euro 12), un noir mediterraneo e surreale ambientato in Irpinia con i defunti che si ribellano e un finale horror. E Raffaele Castelli con Il pacco di Durante (pp. 96, euro 10), una storia che contiene sin dal titolo l’oggetto del contendere, appunto un pacco, dei protagonisti dell’avventura. Del romano Giorgio Pochetti Angeli (pp. 144, euro10), una raccolta di storie familiari che rasentano il paradosso e il surreale. E quindi Alberto Davanzo con Il fiume scomparso (pp. 204, euro 12), una storia di ritorni e di memorie sullo sfondo del paesaggio piemontese e del Piave. Di Sonzogno Il sogno strappato (pp. 630, euro 18,50) di Barbara & Stephanie Keating, le autrici di La figlia francese, che stavolta raccontano una storia di passioni femminili, tra gli anni Sessanta e Settanta, ambientata tra il continente africano e quello europeo. È invece un thriller la cui principale cifra stilistica è l’angoscia Occhi vuoti (pp. 432, euro 18,50), ambientato al Polo Nord, di Juris Jurjevics. Torna Matilde Asensi con L’origine perduta (pp. 486, euro 19), l’autrice di L’ultimo Catone, un thriller che mescola storia, leggenda, avventura, matematica, magia, genetica. Castelvecchi propone Controformazione (pp. 256, euro 15), di Massimo Veneziani, un saggio, con prefazione di Carlo Lucarelli, sulla stampa alternativa e il giornalismo d’inchiesta dagli anni Sessanta a oggi. Tokyo underground (pp. 250, euro 18) di Gabriele Rossetti si addentra nei meandri allucinanti dell’erotismo giapponese contemporaneo, della vita privata e dell’underground. Flavio Mazzini in E adesso chi lo dice a mamma (pp. 216, euro 12) presenta racconti e confessioni degli omosessuali e del coming out. E quindi di Henry Miller Insomnia (pp. 120, euro 10), una lunga lettera sul conflitto tra passione e ragione, una storia d’amore tra un settantenne e la sua giovane musa. Franco Angeli editore propone come novità La fabbrica del libro, bollettino semestrale di storia dell’editoria in Italia SILVANA MAURI "Ritratto di una scrittrice involontaria" pp. 291, euro 15 Nottetempo, 2006 MASSIMO CARLOTTO MASSIMO CARLOTTO "La terra della mia anima" pp. 160, euro 12 Edizioni e/o, 2006 PIETRO NEGRI SCAGLIONE PIETRO NEGRI SCAGLIONE "Questioni private" pp. 289, euro 21 Einaudi, 2006 JOSEPH CAMPBELL ’ALA AL-ASWANI "Palazzo Yacoubian" Trad. Bianca Longhi pp. 216, euro 12,80 Feltrinelli, 2006 JOSEPH CAMPBELL "L’eroe dai mille volti" Trad. Franca Piazza pp.394, euro 14 Guanda, 2000 NUOVI TITOLI PROSSIMAMENTE che presenta in questo numero, tra le altre cose, il carteggio Sciascia-Bompiani. E inoltre Un rapporto difficile. Romania e Stati Uniti nel periodo interbellico (pp. 192, euro 18) di Giuseppe Motta, docente di Storia dell’Europa orientale all’università di Bergamo, che analizza il fascismo rumeno oggetto dell’attenzione del Dipartimento di Stato americano. Per Baldini Castoldi Dalai in libreria l’ungherese Andràs Nagy con Il caso BangJensen (pp. 432, euro 18) che ripercorre la rivoluzione ungherese, la sanguinosa rappresaglia del regime di Kàdàr, il ruolo della diplomazia sovietica, dell’Onu e la morte misteriosa del diplomatico danese Bang-Jensen. E ancora Guido Gozzano e i Crepuscolari con Felicità e i Crepuscolari (pp. 392, euro 10,50), antologia in cui sono raccolti dieci poeti crepuscolari, da Gozzano a Govoni, da Corazzini a Martini. E quindi uno dei massimi esponenti della letteratura indiana, pubblicato per la prima volta in Italia, Vaikom Muhammad Basheer, con Mio nonno aveva un elefante (pp. 168, euro 17,50), breve romanzo di formazione con Pattoumma, protagonista femminile Di Avagliano sono presenti in libreria Gli ultimi figli (pp. 200, euro 14) di Silvia Bonucci, storia familiare di tre generazioni a confronto, attraverso le quali si leggono i RITROVATO IL DIARIO INEDITO DI CLEMENTE REBORA La scoperta, a cinquant’anni dalla morte del poeta, di un diario inedito è avvenuta a Stresa. Nel Diario intimo pubblicato da Interlinea confessioni sulla massoneria e sulla giovinezza, giudizi su D’Annunzio vate della guerra, ricordi della guerra tra sogni e visioni di fede. Rebora nacque a Milano nel 1885 e morì a Stresa nel 1957: fu vociano e fece la guerra per poi scegliere il silenzio e il sacerdozio. libraio ’ALA AL-ASWANI SERGEJ DOVLATOV EMANUEL CARNEVALI "Racconti di un uomo che ha fretta" Trad. Maria Pia Carnevali pp. 200, euro 15 Fazi, 2005 GEORGE STEINER "Linguaggio e silenzio" Trad. Ruggero Bianchi pp. 330, euro 15 Garzanti, 2006 le scelte del GEORGE STEINER MICHAEL J. GELB "Il genio che c’è in te" pp. 352, euro 19 Il Saggiatore, 2006 SERGEJ DOVLATOV "La marcia dei solitari" Trad. L. Salmon pp. 230, euro 10 Sellerio, 2006 JOE SACCO JOE SACCO "Gorazde. Area protetta" Trad. Daniele Brolli pp. 227, euro 16,50 Mondadori, 2006 CARLA BENEDETTI critico SILVANA MAURI EMANUEL CARNEVALI MICHAEL J. GELB AMARTYA SEN "Identità e violenza" Trad. Fabio Galiberti pp. XII-219, euro 12 Laterza, 2006 LIBRERIA PISANTI Corso Umberto I 38/40 Napoli www.libreriapisanti.it [email protected] le scelte del PAOLO MASTROIANNI "Altrove" pp. 106, euro 12 Effigie, 2006 PATRICK SUSKIND "Il profumo" Trad. Giovanna Agabio pp. 272, euro 17,60 Longanesi, 2006 CORMAC MCCARTHY CORMAC McCARTHY "Non è un paese per vecchi" Trad. Martina Testa pp. 251, euro 17 Einaudi, 2006 JASON BURKE JASON BURKE "Al Qaeda" Trad. Bruno Amato pp. 248, euro 16 Feltrinelli, 2004 cambiamenti dell’Italia degli ultimi cinquant’anni. E Olimpo (pp. 190, euro 12,50), terzo romanzo del poeta Umberto Piersanti, che ambienta una singolare storia d’amore e di emozioni tra Montefeltro e la montagna degli dèi. Franco Scaglia, già autore del Custode dell’acqua, torna con Il viaggio di Gesù (pp. 120, euro 6), affascinante viaggio nei luoghi e sulla tracce di Gesù. Marcos y Marcos propone Ring Lardner, autore di Tagliando i capelli (pp. 224, euro 14,50), miti, pettegolezzi e vizi made in Usa agli inizi del Novecento. E ancora La fiaba dell’ultimo pensiero (pp. 512, euro 18) di Edgar Hilsenrath, titolo lieve per la storia di uno sterminio, quello del popolo armeno nel 1915. Pendragon propone come autori Anna Luisa Pignatelli con Buio (pp. 204, euro 129), viaggio alla scoperta della realtà rurale toscana e dei suoi abitanti visti con gli occhi di un personaggio ombroso come il buio, il soprannome che porta. Di Gino Tasca è Isaia Greco (pp. 123, euro 13), breve romanzo focalizzato sul personaggio principale, Isaia Greco, un temuto critico letterario che ammalatosi improvvisamente lascia una sorta di testamento spirituale. Un divertente manuale di psicologia è Come riconoscere l’altra metà della mela evitando il bruco (pp. 272, euro 12), dello psicoterapeuta Angelo Bona, per la prevenzione e la cura delle fregature sentimentali. E quindi cinque saggi sul pensiero e la fortuna di Machiavelli in Machiavelli e i suoi interpreti (pp. 164, euro 16), di Luca D’Ascia. Per FBE edizioni in libreria Bollywood (pp. 112, euro 15), viaggio alla scoperta dei segreti della leggendaria città del cinema indiano, di Pierre Polomé e Virginie Broquet. The Blues Highway (pp. 320, euro 21) di Richard Knight è una guida turistico-musicale, un manuale pratico per chi vuole conoscere i luoghi della musica moderna mondiale. E quindi di Susan Marg Matrimoni Vip a Las Vegas (pp. 240, euro 12), tutto sul mito dei matrimoni nella città del Nevada dalla nascita del centro mondiale del gioco alle nozze leggendarie. E ancora In viaggio da sola e in compagnia (pp. 288, euro 13), racconti di viaggio di Martha Gellhorn. GIANCARLO DE CATALDO autore ENRICO CALAMAI "Nessun asilo politico" pp. 212, euro 6,80 Feltrinelli, 2006 PAOLO MASTROIANNI AMARTYA SEN PATRICK SUSKIND KHALED HOSSEINI "Il cacciatore di aquiloni" Trad. Isabella Vaj pp. 394, euro 17,50 Piemme, 2004 le scelte dell’ ENRICO CALAMAI GIOVANNI MARIA BELLU "I fantasmi di Portopalo" pp. 252, euro 8.40 Mondadori, 2006 FEDERICO RAMPINI "L’impero di Cindia" pp. 371, euro 15 Mondadori, 2006 narrativa straniera narrativa italiana GIOVANNI MARIA BELLU ROBERTO SAVIANO "Gomorra" pp. 331, euro 15,50 Mondadori, 2006 FEDERICO RAMPINI KHALED HOSSEINI saggistica straniera saggistica italiana ROBERTO SAVIANO EDOARDO ALBINATI FILIPPO TIMI "Tuttalpiù muoio" pp. 454, euro 17,50 Fandango, 2006 WALTER VELTRONI "La scoperta dell’alba" pp. 150, euro 16 Rizzoli, 2006 narrativa straniera narrativa italiana ALBINATI & TIMI PIETRO INGRAO "Volevo la luna" pp. 371, euro 18,50 Einaudi, 2006 WALTER VELTRONI saggistica straniera saggistica italiana PIETRO INGRAO GIANRICO CAROFIGLIO "Ragionevoli dubbi" pp. 320, euro 12 Sellerio, 2006 narrativa straniera narrativa italiana GIANRICO CAROFIGLIO saggistica italiana 20 S t los saggistica straniera osservatorio librario pagina S t los schede libri C i sono libri che sembrano rappresentare i cattivi costumi con lo scopo di emendarli, ma che finiscono per scadere nel moralismo, generati come sono, più che dai cattivi costumi, da esigenze di facciata di una società annaspante tra edonismo e ipocrisia, nemica della verità e della memoria, non estranea a facili assoluzioni. Ci sono altri libri che invece dei cattivi costumi sono il risultato: nel senso che contro di essi si levano, a dissiparne la nebbia di reiterate imposture. Libri che, tra dubbi e contraddizioni, fantasia e realtà, illuminano scenari attesi e irrealizzati, in cui sono disseminati dialoghi morali e tracce di vita che trapassano le generazioni. Libri come Romolo il Grande, una pièce scritta nel 1948 da un Dürrenmatt ancora ventisettenne, in cui si prefigurano già i principali temi e percorsi della notevolissima produzione (da La visita della vecchia signora a I fisici, da Il giudice e il suo boia a Giustizia) del grande scrittore e drammaturgo: il limaccioso rapporto individuo-potere, la giustizia ridotta a squallida farsa, la deriva dell’uomo in un mondo incancrenito e stravolto... Siamo nel 476 d.C.: l’impero romano è ormai allo sfascio, e i germani di Odoacre calano inesorabilmente su Roma. Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore romano d’Occidente (adulto e disincantato, ben diverso dal quattordicenne personaggio storico che subì l’enorme peso di quei tragici eventi), si è inspiegabilmente ritirato nella sua villa di campagna: dove svende i busti dei grandi romani del passato, si dedica all’agricoltura, ma soprattutto alleva polli (e a ciascuna gallina arriva ad attribuire il nome di imperatori e alti dignitari; una la chiama addirittura Odoacre). 21 ALMANACCO FRIEDRICH DÜRRENMATT Deviazioni dalla realtà da prendere con serietà filosofica: come fece Romolo Romolo resta inamovibile davanti alle ripetute e drammatiche sollecitazioni di ministri e familiari: Giulia (la moglie), Rea (la figlia), Emiliano (promesso sposo di Rea), che lo supplica di permettere il matrimonio di Rea con Cesare Rupf, ricchissimo fabbricante di calzoni, disposto, in cambio, a salvare le finanze dell’impero. Al ministro degli interni, sconvolto dall’assurda indolenza, quell’«allevatore di pollame incoronato» aveva risposto: «Non sono le notizie a sconvolgere il mondo. Sono i fatti, e quelli non possiamo cambiarli perché son già accaduti quando le notizie arrivano». E resta serafico, Romolo, anche quando i suoi funzionari (compreso Emiliano), esasperati, stanno per ucciderlo. Uno scenario surreale e grottesco, dunque. Una ricercata deviazione dalla realtà; e di questa forzatura Dürrenmatt avvisa il lettore fin dal sottotitolo: "Una commedia storica, che non si attiene alla storia, in quattro atti", come a portarlo per mano fino all’epigrafe: «Il grande stratagemma di considerare piccole deviazioni dalla realtà come la realtà stessa (su cui si basa tutto il calcolo differenziale) è al tempo stesso il fondamento per la nostra spiritosa considerazione su dove si andrebbe di solito a finire se trattassimo Tutto il calcio spasimo per spasimo NICK HORNBY (cura) "Il mio anno preferito" Trad. Massimo Bocciola, Giovanni Garbellini, Giuliana Zeuli pp. 245, euro 14,50 Guanda, 2006 NANNI BALESTRINI Lettere come figure e non come segni Se è vero che il materiale originario della poesia non è la parola, ma la lettera, come ha detto Kurt Schwitters, pittore, scultore e scrittore tedesco che si è mosso nel campo dell’espressionismo e del dada, allora l’attività poetica di Balestrini usa la lettera. La lettera, dunque la poesia, come corpo, come «sussulto grafico» il cui segno scritto non è semplice notazione fonetica ma trascrizione visiva che intende incidere profondamente lo stesso corpo del testo. Si tratta evidentemente dell’esigenza di chi ha «dovuto» uscire gradualmente dal modello tradizionale del libro e ha fatto sì che le lettere e le parole che fino ad un certo momento avevano funzionato come segni, cominciassero poi a funzionare come figure, sempre più complesse. Come corpi, appunto, visti e trascritti visivamente in logogrammi, icone grafiche, segni tipografici composti e ricombinati in tavole e collage, o disposti in stele, in pilastri e mappe. Combinazioni «sconcertanti» secondo Umberto Eco, che insieme con Paolo Fabbri, Toni Negri, Paolo Ottonieri, Paul Virilio, Reinhard Sauer, Franco Purini, Renato Barilli, Manuela Gandini, Gillo Dorfles, Edoardo Sanguineti, Achille Bonito Oliva, ha dato una sua lettura dell’opera di Balestrini; tagli e dissezioni e di nuovo ricombinazioni labirintiche delle materie che manifestano quella «filosofia del montaggio» che Balestrini intende praticare, affinché la poesia si faccia NANNI BALESTRINI "Con gli occhi del linguaggio" pp. 173, euro 25 Derive Approdi, 2006 spazio e forma. Perché nel suo lavoro, come osserva Bonito Oliva, «l’opera diventa quel luogo heideggeriano che non si contempla frontalmente come una vecchia scultura, ma il campo di riserva di un linguaggio capace di creare una dimora effettiva in cui lo spettatore possa fluttuare e respirare». Si è che Balestrini ritiene che di testi se ne siano scritti fin troppi e che quindi bisogna tagliare. Tagliare, recidere (il contrario, insomma, del «non recidere forbice» montaliano), per nuovamente sovrapporre, incollare e ricomporre in una «pagina» morfologicamente e cromaticamente rinnovata. «Il muro delle parole» dice Paul Virilio nei versi dedicati a Balestrini, o le parole come muro, «muraglie di parole« (così Ottonieri) che diventano pietra nel senso reale del termine e si fanno stele e obelisco, «torri babeliche e colonne traiane che narrano la nostra storia in una fisiologica frammentazione verbale» (Gandini). Un approdo «monumentale», quello del Balestrini delle stele, che non ha nulla di celebrativo, ma che testimonia concretamente il monumento al verbo. Patrizia Danzè JAVIER SIERRA Il mistero millenario di Napoleone Il 12 agosto del 1799 Napoleone sbarca in Egitto per indebolire il dominio degli inglesi. Ma perché spiegare forze imponenti e portarsi dietro un seguito di archeologi, astronomi, ingegneri? Napoleone ha un segreto, ipotizza Sierra, e la sua missione riguarda un mistero millenario. FRIEDRICH DÜRRENMATT "Romolo il Grande" Trad. Aloisio Rendi pp. 145, euro 11 Marcos y Marcos, 2006 la deviazione con serietà filosofica». Parole illuminanti che il drammaturgo svizzero prende in prestito da Georg Lichtenberg, celebre scienziato e scrittore tedesco del Settecento, cultore significativo dell’aforistica moderna, raffinato indagatore dell’animo umano. E così Dürrenmatt si diverte a mostrarci gli spiritosi sviluppi della sua deviazione, al tempo stesso cesellando quadri di meccanica precisione e obiettività, attraverso una scrittura già asciutta, essenziale, felicemente GRAZIA DELEDDA "Come solitudine" pp. 345, euro 24, 50 Donzelli, 2006 Novelle rare della Deledda di carica umana Q NICK HORNBY Storie in cui la passione per il calcio si sposa con quella della scrittura, racconti legati da tuttei gli aspetti che il calcio assume: attaccamento, esaltazione, fanatismo, sofferenza, sacrificio. Sia che si tratti della squadra del cuore sia che si racconti l’epopea degli incontri mondiali. pagina JAVIER SIERRA "Il segreto egizio di Napoleone" Trad. Claudia Marinelli pp. 250, euro 17 Tropea, 2006 uando, nel gennaio 1921, D. H. Lawrence visitò la Sardegna proveniente dal buen retiro di Taormina, dopo aver visitato Cagliari dove «terra e mare sembrano finire entrambi», si diresse con un trenino verso Nuoro, la città di Grazia Deledda, lì dove «la vita è così primitiva, così pagana, così straordinariamente barbara e semi-selvaggia. Eppure è vita umana». Il grande scrittore inglese cercava nelle brughiere «cespugliose» della Barbagia, descritta mirabilmente in Mare e Sardegna, quei «sentieri del tempo» di cui la Sardegna rappresentava una isola fertile, sede del «genio consapevole» di cui la Deledda era testimone e straordinaria voce universale. Il riferimento diretto alla scrittrice da parte di un intellettuale e letterato di razza come Lawrence - che curerà la traduzione inglese di romanzi quali La madre e Canne al vento, così come avrebbe fatto con le opere di Verga - ci fa comprendere come l’arte narrativa «mediterranea» della Deledda stava penetrando nel mondo culturale europeo, segno di una consacrazione internazionale che sarebbe arrivata col premio Nobel assegnato nel 1926, dieci anni prima della morte, avvenuta nel Ferragosto del 1936. Due date che quest’anno celebrano il loro anniversario in un silenzio assordante del mondo letterario italiano che non ha sempre compreso appieno e valorizzato l’opera della scrittrice sarda. Una grandezza che continua ad attraversarci nella sua grazia e nella sua forza prepotente, come è possibile constatare immergendoci nelle «storie e novelle di un’isola» raccolte in Come solitudine, l’antologia curata dalla poetessa Antonella Anedda. Un crogiolo di tracce narrative che scavano nei tormenti familiari ("Battesimi"), di bozzetti storici (il medioevo de "Il sigillo d’amore"), di fabule (il delizioso "Sotto il pino"), di parabole come "La grazia", esempio vivido del rapporto con la giustizia e con le istituzioni del popolo sardo. Una cinquantina di rare novelle che mostrano le sfaccettature poliedriche dell’animus deleddiano e del suo affascinante, personale, elevato sincretismo letterario che riesce, con descrizioni sorprendenti e poetiche, ad inglobare un’incredibile forza naturalistica velata di slanci romantici, di elementi freudiani e d’annunziani, di spiritualità luminosa e tormentata, di agonia biblica e misericordia cristiana. Ovunque vibra una carica umana senza confini, con la Terra che guarda il cielo e cielo che rispecchia i limiti della Terra. Come i dipinti di Giuseppe Biasi, le parole della scrittrice creano uomini e donne scavati da limiti e da desideri, da paure e da deliri: un’umanità appesa come i rami di mirto, corposa e spugnosa come il sughero e colorata come gli asfodeli. C’è la religione genuina che vuole trasformare il peccato in redenzione e miracolo ("Il voto"), c’è «l’ebbrezza selvaggia» della morte, c’è la pietas del «vecchio selvaggio in adorazione della luna». C’è soprattutto il genio femminile - orgoglio e grazia insieme - vestita di donna-amazzone, capace di non arrendersi alla prepotenza maschile ("Serra"), fervida nell’attesa tormentata ed epifanica, come l’Ilaria dagli occhi «ardenti» di "Dramma". Leggendo questi racconti è possibile comprendere come la produzione di questa autrice classica e moderna sia una miniera per chi ama la grande letteratura, e per chi vuole assorbire angoli, scorci, tradizioni, usi, miti della Sardegna di ieri. Isola-continente così carica di orizzonti e lambita sempre da quella «memoria sciamanica» che - rileva la Anedda - si coniuga magistralmente alla solitudine così selvatica e così umana cantata dalla «grande madre» Grazia Deledda. Sergio Di Giacomo GIULIANO DEGO allusiva. A cominciare da Romolo: giudice inflessibile e spietato boia (armato delle «branche della verità» e delle «zanne della giustizia») di un impero marcio, opprimente e sanguinario (sorto «sull’ecatombe di vittime massacrate nelle guerre per la maggior gloria di Roma, o sbranate dalle belve perché Roma si divertisse»), mordace dissacratore di augusti miti, acuto investigatore di umane miserie, depositario di un sottile tormento morale. Nessuno sfugge ai dardi dell’imperatore, neanche Emiliano: che, dalla crosta dell’onore militare umiliato, affiora quale «vittima del potere tante volte disonorata e offesa». E non va meglio agli altri personaggi, ballonzolanti su una scacchiera in disfacimento che assomiglia non poco al mondo attuale. Un mondo assai greve, dove il potere e il piacere spesso si coniugano con la convenienza e la ferocia, dove tanti uomini brancolano nel buio di avvenimenti scellerati, in una sorta di grottesco labirinto in cui persino le guerre sono giustificate, sotto l’ombra inquietante di spregiudicate tirannie economiche. Non smette mai di sollecitare la nostra coscienza, Dürrenmatt, con questa difficile («difficile proprio perché sembra facile») e abile sotie, quest’im- probabile vaudeville «da porre tra il comico Theo Lingen e G. B. Shaw» (così chiosa lo scrittore nell’opportuna nota finale; felicemente contagiato proprio dal brio, dal gusto del paradosso, dalla beffarda ironia del miglior Shaw, anche lui autore di un vivace scherzo sull’imperialismo britannico, L’uomo del destino). Questa buffoneria che - come il gidiano "Les caves du Vatican" - si muta in rivelazione, dopo aver verificato le conseguenze delle proprie deviazioni: soprattutto nel senso dell’accostarsi il più possibile alle verità dell’esperienza umana, nel complicato rapporto tra realtà e verità, apparenza e sostanza, bene e male. E se Lafcadio è il tragico e irrisolto eroe dell’atto gratuito, se dai Sotterranei non si esce, Romolo (che Dürrenmatt gradualmente disvela come «spiritoso, rilassato, umano, eppure in fondo un uomo che […] mira alla morte») viene giustiziato dal mondo. Ne ammiriamo la tragedia e la grandezza proprio attraverso la commedia della sua fine: l’imperatore va in pensione, alle dipendenze di Odoacre, ma «ha la ragionevolezza e la saggezza di accettare anche questo destino». Insieme al suo alter ego: un Odoacre anche lui appassionato di polli, che aveva creduto, come Romolo, di poter liquidare il proprio mondo, sfiancato com’era dal potere e dalle continue campagne di conquista, e prefigurandone l’oscuro futuro. E invece i due hanno davanti soltanto i tragici rottami del presente, dei quali non possono assolutamente disfarsi. È questo il conto, piuttosto salato, di uno scrittore ancora giovane, ma già ben fornito di una straordinaria e profetica visionarietà, oltre che di una salutare, necessaria irriverenza. Giuseppe Giglio GARTH NIX L’attacco finale di un negromante Lotta tra il Bene e il Male in Ancelterra e nell’Antico Reame: schiere di non morti hanno invaso i due paesi agli ordini del negromante Hedge che lavora per liberare Orannis il Distruttore dalla sua millenaria prigionia. Ma se ciò dovesse accadere la terra precipiterebbe nell’oscurità. GARTH NIX "Abhorsen" Trad. Fabrizia Villari Gerli pp. 372, euro 18,60 Nord, 2006 GIOVANNI MARTINI Momenti quotidiani di esistenze bruciate Giovanni Martini firma otto racconti quasi perfetti. Otto racconti ambientati a Roma che non vivono di collocazione geografica, ma dei personaggi che li abitano. Otto short stories che descrivono situazioni complicate e a volte semplicissime e ruotano intorno alla presenza, all’individuo, all’esserci. L’estrema varietà dei temi trattati convive nello stesso spazio, sostenuta dalla qualità della scrittura. Tema centrale dei racconti altro non è che la volontà di riproporre momenti quotidiani, a volte cruciali, di esistenze bruciate. Protagonisti delle storie di questo autore (che, come spiega la quarta di copertina, vuole mantenere la sua identità nascosta e comunica con la casa editrice unicamente attraverso email) sono persone instabili che hanno paura di rubare lo spazio vitale altrui e di essere private del proprio, individui sconfitti che non vogliono rassegnarsi. Artefici sono giovani, vecchi, adulti, bambini, che camminano, che vanno avanti per la loro strada, correndo o procedendo lentamente verso un futuro incerto, che a tratti diventa facilmente intuibile. Il volume propone dei testi fortemente coesi che trovano nella ricerca del dettaglio e del particolare, in molti casi essenziali per la fluidità e la resa realistica della narrazione, un naturale elemento aggiunto. Da evidenziare senza dubbio "Morte del pittore", racconto posto quasi a chiudere il libro, che bilancia qual- GIOVANNI MARTINI "La nostra presenza" pp. 108, euro 12 Fazi, 2006 che caduta di stile de "I dolori riproduttivi". Protagonista è un ragazzo, un nipote, che non si fa scrupolo di vendere oggetti e quadri, di depredare la casa di famiglia per alimentare una vita fatta di invenzione, di parole. Centrale nel racconto è l’opposizione fra l’inventore e il falsario, fra lo sperimentatore che si contrappone necessariamente all’uomo cui è sufficiente frequentare vie già conosciute. Impossibile non associare il pioniere delle lettere e contenuti, il nipote senza scrupoli, al giovane (vecchio?) autore del volume. Difficile non cogliere una profonda critica verso il mondo delle lettere italiane, portato a disprezzare racconti più o meno lunghi e short stories. Martini firma con questo esordio otto scorci di vita dalla forte personalità. Otto storie pronte a mostrare il coraggio di un autore che ha la forza di sperimentare tagli narrativi di solito poco apprezzati in Italia, ma che non ha il coraggio di apparire in pubblico. Che si tratti dell’ennesima trovata pubblicitaria? Sarebbe un peccato vista la validità del testo. Flavia Piccinni ADRIANO PROSPERI Serial killer anche nella Roma di Nerone Infanticidio, secondo antiche abitudini Ambientato nella Britannia romana e nella corrotta Roma neroniana, il giallo storico di Dego inizia nel 59 d. C. con una regina frustata a sangue e le due giovani figlie stuprate. Dell’atto si vendica la principessa Seren che intreccia la sua vita con Nerone e un serial killer dell’antichità. GIULIANO DEGO "Seren la Celta" pp. 333, euro 10,20 Bur Rizzoli, 2006 La storia lontana di un infanticidio avvenuto a Bologna nel 1709, ma che pone problemi moralmente inquietanti quanto mai attuali se si pensa che l’infanticidio, inteso come soppressione dei neonati indesiderati, è un fatto che accompagna la storia della specie umana. ADRIANO PROSPERI "Dare l’anima" pp. 373, euro 24 Einaudi, 2006 pagina 22 P iovono libri, si potrebbe dire parafrasando la celebre poesia di Eliot: e una parte rilevante di questo diluvio bibliografico s’addensa attorno al corpo mastodontico di quel caro estinto che è l’istituzione scolastica. Piovono saggi che documentano limiti ed arretratezze dell’italico modello rispetto a quello europeo, spinti dal tentativo vano di dipanare la massa contraddittoria delle nuove disposizioni legislative emanate da questo o quel nuovo reggente della Pubblica(?) Istruzione. Sia detto inter nos: questi provvedimenti sembrano costituire un perfetto esempio di eterogenesi dei fini: emanati infatti con la speranza di migliorare la condizione di una istituzione in cronico stato comatoso, ne accelerano precocemente la fine. Ma piovono anche i romanzi sulla scuola, attraversati dal cinismo corrosivo ed acre tipico di chi, essendone «prigioniero», considera l’istituzione ontologicamente irriformabile: un Titanic che non consente alcuna salvezza per i passeggeri: personale docente e non docente, alunni, famiglie… Piovono poi i romanzi scritti da chi è riuscito a fuggire dalla fortezza Bastiani e allora, guardando à rebours i propri anni di carriera, si concede volentieri il lusso dell’autocelebrazione per aver così brillantemente assolto, con piglio tra il romantico ed il donchisciottesco, «un-ruolo-di-centrale-importanza-per-lacrescita-della-società-tutta». È piovuto recentemente anche questo Scusi, prof: ho sbagliato romanzo di Alessandro Banda. Chi scrive aveva molto apprezzato l’autore nel suo esordio del 2001 Dolcezze del rancore (Einaudi), ma questo suo quarto romanzo mi sembra opera deludente sotto tanti punti di vista: a partire dal titolo, ammiccante ad un gergo tra il paragiovanilistico e la gag demenzial-televisiva. Nel romanzo veniamo proiettati in un luogo della nostra penisola, chiamato Tragedistan, ma facilmente identificabile, come si evince da indizi e suggerimenti disseminati a piene mani, nel Trentino-Alto Adige; siamo in una scuola superiore, il palcoscenico su cui agiscono caricature di professori la cui personalità pare assimilabile, per fissità stereotipica, a certe maschere della commedia dell’arte. Ma quasi tutto in questo libro appare scontato e sostanzialmente deja S S t los schede libri ALMANACCO Alessandro Banda / Marco Palladini La galleria di caricature e stereotipi lù: il preside (anzi, no: oggi sono gratificati del titolo di Dirigenti Scolastici) che, come accade nella stragrande maggioranza dei libri dedicati alla scuola, si barcamena tra la rigida applicazione di assurde norme burocratiche e la zavorra di una crassa ignoranza; i docenti che appaiono alla stregua macchiette più che personaggi, privi di ogni spessore e iamo da qualche anno abituati alla periodica comparsa di libri da cui si alzano dolorose lamentazione sul triste destino della scuola italiana: pagine per lo più satiriche (ma non sempre), talora intelligenti, talaltra sospettosamente rancorose (soprattutto se le biografie degli autori svelano il tentativo frustrato di lasciare i lidi scolastici per approdare alle sponde dell’agognata accademia). È un piacere scoprire nel libro di Alessandro Banda, che pure va a collocarsi nel sottogenere del pamphlet scolastico, uno scatto che lo distingue (e decisamente lo salva). Prima di tutto perché degli stessi libri che lo hanno preceduto nel genere sa prendersi gioco (o meglio, di quello che viene definito il «paradosso della puttana», vissuto dai professori che si scagliano con i loro scritti contro la scuola che «a ben vedere, gli dà da mangiare, a questi ingrati»), così come della figura dell’insegnante costretto per sopravvivere ad alternare i suoi grigi panni di docente con quelli, non molto più allegri, di scrittore dalle basse tirature (e così lo scherzo con la propria autobiografia il personaggio in questione si chiama con scoperta allusione Dan Baha - libera da ogni sospetto lo sguardo critico sulla realtà scolastica di una persona, l’autore, «informata sui fatti»). In secondo luogo, perché la satira degli aspetti degenerati della scuola, dominata da sigle tanto ridicole quanto sospettosamente vuote di senso (non sarà facile, per i non addetti ai lavori, distinguere tra le vere e le inventate) e da un’ansia burocratica che spegne negli insegnanti ogni motivazione ed entusiasmo, si intreccia con la difesa delle parole della letteratura. Nella scuola di un misterioso Tragedistan, un paese in cui si parlano molte lingue, per il quale il resto del mondo non conta nulla, la cui cultura (e non solo) è fortemente influenzata da quella italiana, si promuove l’attualizzazione dei classici della letteratura, cioè la loro riscrittura in chiave moderna che li renda appetibili ai giovani lettori. A fare le spese di tale mostruosa (ma non così inedita) operazione, nell’ordine, I Promessi Sposi, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, La Vita Nova. Il colpo d’ala di Banda sta nella rappresentazione (a cui avrebbe forse anche potuto destinare un più ampio Un bel gioco di riconoscimenti dal classico U scrizione del paesaggio si alternano ad un rovinismo di vedute, come nel racconto "Stilicone o il cambio della guardia", storia del tramonto dell’Impero romano, disastroso passaggio epocale di un’era in cui la tribalità dell’orda si oppone all’ordinamento iussivoo. In "Eleusi, vicino casa mia" è sempre il tema dell’altro che ritorna nelle vesti del doppio, l’ignoto nemico celato in noi stessi, cui si ricorre per metafore ideologiche, patologiche, poetiche. In una didimea interpretazione dell’autore/attore, il racconto vira nella pura lirica, inserendo assonanze versificatorie («l’inferno è infermo») o termini provenienti da discipline specialistiche, in un calderone che mescola e serve un cocktail di neologismi capace di rendere insieme la visionarietà del passato e l’epopea della contemporaneità. Scisso tra «farfalla e verme immondo» il poeta esemplifica un dettato scapigliato ancora in auge: che la scrittura è limitante rappresentazione, superata dalla visione elettronica e reiterata dei media. La società dello spettacolo riesce ad inglobare a sua immagine e somiglianza la realtà, rendendone Il registro della ballata politica na raccolta di racconti piuttosto eterogenea, che fatica a stare dentro un unico contenitore, perché deborda costantemente dai generi e dai canoni attraversati. Una poliedrica rivisitazione della tradizione, di molti immaginari collettivi, come quello cinematografico, teatrale, della storia del pensiero filosofico e delle trasformazioni sociali. Nel racconto "Ventimila tigri" l’atmosfera sospesa da Deserto dei tartari si sublima in un linguaggio quasi da «parnassianesimo sperimentale». Le forti influenze di raffinati autori francesi, da Gautier a Rachilde, da L’Isle-Adame a Baudelaire, si sposano con metafore immaginifiche dell’impero tecnocratico e postumano, strabordando direttamente nella fantascienza. Non è un caso che autori come L’IsleAdame abbiano scritto opere molto vicine a tale immaginario futurista, ma Palladini è capace di alternare questo sofisticato registro con la ballata politica, in uno stile semplicistico-dialettale o populista, a volte carnale, in una sorta di materialismo scolpito nella voluttà del fraseggio. Il gusto dell’esotismo e dell’archeologico e la de- ALESSANDRO BANDA "Scusi, prof, ho sbagliato romanzo" pp. 192, euro 13 Guanda, 2006 spazio) della reazione degli studenti che, obbligati a leggere tali forzate riscritture, si fanno carbonari della parola e, di nascosto, acquistano le edizioni originali, possibilmente non commentate, di sicuro prive di apparati didattici, pronti a riconoscere nella «classicità» di queste opere il loro essere autenticamente moderne (con qualche, ragionevole, dubbio sull’Ortis: critici severi, ritengono l’attualizzazione del romanzo foscoliano la parodia di una parodia). Nell’esercizio delle tre rielaborazioni Banda si diverte con eleganza: soprattutto nella riscrittura dei Promessi Sposi in cui, più che nei due casi successivi, il gioco si realizza non solo nell’attualizzazione (fra Cristoforo/Friar Laurence diventa un ex-ultras), a cui si aggiunge l’enfatizzazione (don Rodrigo/Rodriguez è peren- manifesta solo l’oscena rappresentazione. Così, come essa ha il suo fondale scenografico che le permette di sopravvivere al suo disfacimento, anche l’uomo cerca il suo «doppio-fondo», nella "Musica del boia", la risonanza è con l’orrore che ci caratteriz- L’AUTORE. Nato a Bolzano nel 1963. Nel 1992 ha conseguito il dottorato di ricerca in Filologia italiana. Dal 1993 insegna nelle scuole superiori. Ha pubblicato i racconti Dolcezze del rancore (Einaudi, 2001) e i romanzi La verità sul caso Caffa (Guanda, 2003) e La città dove le donne dicono di no (Guanda,2005). MARCO PALLADINI "Il comunismo era un romanzo fantastico" pp. 172, euro 17 Zona, 2006 za come bestie esperte nell’invidia dell’altro e nell’arte della guerra. Il teatro è ancora il palcoscenico per queste tarantole impazzite di personaggi, come il vuoto Dj-Profeta del racconto "Stanotte ho fatto ballare dio", icona demiurgica di una genera- L’AUTORE. È autore di teatro di ricerca, performer scenico-poetico. Come critico e giornalista ha collaborato con quotidiani, agenzie di stampa, magazine e periodici. Ha curato e allestito performance, spettacoli, manifestazioni culturali, convegni, in varie località d’Italia. Numerosi suoi testi per il teatro (tra i quali Salomè: memorie di una inco-sciente, Me Dea, Justine - Il vizio della virtù, Mammolo - Il sogno del santo calciatore e Pithagora Iperboreo) sono stati rappresentati con successo. Ha pubblicato i volumi in versi Et ego in movimento (’87), Autopia (’91), Ovunque a Novunque (’95), Fabrika Poiesis (’99) e i testi teatrali Destinazione Sade (trilogia, ’96) e il dramma Serial Killer (’99). Sotto il titolo Gli angeli ribelli e l’Età Oscura, Marco Palladini ha realizzato un mix di due suoi recenti lavori: il cd poetico-musicale Trans Kerouac Road (Editrice Zona) e la performance teatrale Poesie per un tempo di guerra. credibilità narrativa, ognuno con gravi problemi comportamentali e sociali: la Classicista Demodè, la Pseudo intellettuale, la Maniaco-depressiva, la Brutta e Stronza, la Sgallettata, il Maniaco-Sessuale, il Fanatico Teorizzante, il Matto Vero… e battezzati con nomi che forse dovrebbero far sorridere: Pippetti, Toboso, Malgorzata Zebitowska, Sacer, etc… L’unico che si salva, l’unico che ha qualche caratteristica e consistenza umana è (guarda te il caso!) un docente dall’assonante nome di Dan Baha: che sia un alter ego dell’autore questo unico sano in un mondo di pazzi? In questa scuola, alle prese come tutte le scuole italiane con quella che sembra l’emergenza didattica n.1, ovverosia il problema del rifiuto della lettura da parte degli alunni (quando invece si sa che nella società degli adulti le cose vanno molto meglio…), si decide di sperimentare una grande novità: la riscrittura di tre classici (I Promessi sposi, l’Ortis e la Vita nova) con i quali gli studenti devono obbligatoriamente «confrontarsi» nel corso della loro carriera scolastica. Su 184 pagine totali del libro, la riscrittura ex-novo di questi tre testi, perseguìta attraverso una indigeribile risciacquatura degli stereotipi più vieti di certa ultramoderna letteratura di serie B, ne occupa quasi la metà: è forse il momento meno riuscito del libro, tanto che si prova addirittura nostalgia per l’Ortis, quello vero. Questo è poi anche quello che succede ai malcapitati studenti dell’istituto perché, più o meno come accadeva ne L’attimo fuggente, anche qui essi decidono di non tenere in alcun conto gli insegnamenti dei cattivi maestri e dedicarsi, in modo cospiratorio e carbonaro, alla lettura dei testi originali. Così come nel film facevano i giovani membri della cospirativa Dead Poets Society , qui gli studenti del Tragedistan si troveranno a compulsare avidamente gli originali, a scambiarsi, da spacciatori della Cultura, questo o quell’incipit, questa o quella frase. A proposito di mancanza di originalità: ma nell’ultima pagina, senza alcun riferimento alla fonte, c’è o no una riproduzione pressoché assoluta di una famosa asserzione tratta da Le città invisibili di Calvino? Linnio Accorroni nemente alle prese col problema di una castità forzata) e spesso il rovesciamento (Lucia/Lucy è una disinvolta ragazza dai molti amanti), ma soprattutto nella contaminazione: i professori tragedistani rimescolano le carte (strizzata d’occhio all’ormai irrinunciabile postmoderno), e così nella presentazione di Lucia utilizzano la descrizione di Gertrude, mentre scrivono della vigna di Renzo si ricordano del giardino (luogo di morte) del Leopardi dello Zibaldone, e nei loro esercizi citano la Pastrufazio gaddiana, i ragazzi di vita di Pasolini, i diavoli danteschi, il nitrito di pascoliana memoria... ma il lettore potrà continuare nel gioco dei riconoscimenti per il quale è richiesta una buona cultura scolastica - fino ad arrivare all’ultima pagina dove ritroverà l’invito che suggella Le città invisibili: quello a cercare nell’inferno in cui ci troviamo a vivere (a lavorare/studiare) ciò che inferno non è. Banda è bravo a disegnare con brevi colpi di penna il clima della sala professori o dell’Aula Magna in cui si svolgono le assemblee collegiali (e solo i lettori-insegnanti sanno che taluni episodi che il lettore comune attribuirà alla fantasia sfrenata dello scrittore satirico non sono che drammatico esempio del più oggettivo realismo narrativo). La sua è scrittura dal ritmo veloce, che riproduce con divertimento i molteplici toni dei personaggi dei classici rifatti (che parlano sempre in prima persona: quasi che i docenti del Tragedistan ritengano il narratore esterno una complicazione per le menti dei loro allievi) e le voci, spesso sgradevoli, dei professori tragedistani: molti dialoghi, frasi brevi e incalzanti, talora una convincente sentenziosa levità. P.S. A rassicurazione di studenti, genitori e futuri insegnanti: nella scuola italiana, in qualche caso, e voglio credere non raro, le misteriose sigle della burocrazia vengono neutralizzate da docenti che, continuando a credere in ciò che insegnano, riescono ad assolvere al dovere di educare, per dirla con Edgar Morin, alla complessità dell’esistere; docenti che piace pensare arruolati tra quei «fanti perduti della letteratura» a cui l’autore, con un’ultima citazione (dal Fermo e Lucia), dedica il libro. Anna Longoni zione che ha sostituito il suono al senso, ma che è anche capace di ritornare alla contraddizione attraverso una esperienza totalizzante di sradicamento dalla realtà e dalla storia. Siamo di fronte ad un atto manipolatorio, quello di combinare assonanze col corpo, che inscena nel suo vorticoso implodersi l’alienazione solipsistica di questa gioventù della technocrazia musicale. Convince, l’assoluta precisione in cui un padre «si cala» nell’acido di un figlio, anche quando questo si manifesta come totale assenza di comunicazione. Il racconto "La Banda dei Quattro" è costruito attraverso un incrocio di mail - espediente di per sé abbastanza impoetico - ma capace, nelle mani dell’autore, di rendere evidente il vuoto di comprensione, da parte delle ultime generazioni, della nostra situazione politica e sociale. È infatti un uomo senza lingua il cattivo maestro che cerca una interlocutrice in una giovane no-global dell’area cattolica. Le precise indagini psicologiche di questi racconti ne costituiscono il lato meno pregnante, rispetto alle analisi che i protagonisti fanno della realtà. Sono attanti di un discorso collettivo interrotto, frammenti di quel romanzo fantastico che era il comunismo. Può essere anche la metafora del futuro che viene da lontano, del ritorno al passato, a spiegare un tempo storico ormai privo di prospettive, in cui l’unica via d’uscita sembra essere un rivolgimento a schemi arcaici come l’Esodo, che nel racconto "Fuoco freddo" raccoglie la speranza di un nuovo ver sacrum di questa umanità così poco umana. Intere pagine cariche di descrizioni fantasmagoriche e allucinate, ora vicine a Burroughs ora vicine a Bukowski, si susseguono ininterrottamente da un racconto all’altro. Il senso più profondo di queste speculazioni narrative sta nel porsi continuo delle domande, nelle risposte mai scontate di una verità (rivoluzionaria) fatta a scomparti. La vita diviene performance collettiva, teatro dell’assurdo, grand guignol, crudeltà in iper-offerta. Un evoluzionismo regressivo in cui, per tornare alla scoperta della Ragione, si deve «bruciare Sade» ("Metastasi di Sade"), portando l’illuminismo al paradosso. Chiara Cretella S t los schede libri Così muoiono gli intellettuali in questa Italia GOFFREDO FOFI "Da pochi a pochi. Appunti di sopravvivenza" pp. 151, euro 12 Elèuthera, 2006 23 ALMANACCO Goffredo Fofi / Gianni Oliva / Andrea Piva / Bruno Remaury C hi ne ha viste e fatte tante (in senso buono, s’intende) nella sua vita, come ne ha viste e fatte un vero intellettuale militante come Goffredo Fofi, non può, tirando le somme di cinquant’anni di impegno, suonare nacchere di felicità. Il fardello di storia che pesa sulle spalle conduce a un discreto pessimismo, anzi alla certezza che l’Italia è un paese vistosamente cambiato in peggio e decisamente bisognoso, dunque, di una terapia d’urto. Fofi non è un economista, bensì un antropologo nel senso più lato del termine, uscito dalla «scuola», dalla collaborazione e dall’amicizia con Capitini, Carlo Levi, Dolci, Rossi-Doria, e molti altri protagonisti del rinnovamento nazionale, convinti realizzatori del pensiero-azione. Il discorso di Fofi, il suo zelo morale, va diritto al cuore delle trasformazioni. Problema massimo: come e in chi individuare delle minoranze, quei neanche tanto simbolici «pochi» di questo suo ultimo libro (o diario in pubblico) che s’intitola Da pochi a pochi. Appunti di sopravvivenza, da assimilare come compagni di strada scampati alla catastrofe della globalizzazione, ovvero dell’americanizzazione? Come convincere costoro, nella loro posizione moralmente invidiabile di «lucidamente perdenti», a costruire o ricostruire spazi di lotta per combattere il «Superpresente», la grande macchina del «consumo-consenso», che miscela diabolicamente insieme aromi democratici e proteine di pubblicità, piegando al non-pensiero e alla non-azione eserciti sterminati di «Pinocchi», di burattini, asserviti o rassegnati alla rassicurante mediocrità del tutto-compreso trinitario stipendio-vacanze-tv? E dire che c’era stato un periodo della storia italiana, davvero notevole per crescita di benessere e per gusto della modernità, identificato da Fofi nel ventennio tra il 1943 e il 1963, lo stesso periodo su cui hanno indagato con molta empatia storiografica studiosi come Silvio Lanaro e Guido Crainz, molto apprezzati da Fofi. Un periodo, quello, in cui l’Italia avrebbe potuto diventare migliore, mantenendo alto il profilo di dignità che s’era assicurato con lo scatto della Resistenza e con l’entusiasmo della ricostruzione, mai rischiando di diventare, come ricorda Fofi, «mediana o mediocre», secondo una definizione di Levi. Il ’68, il terrorismo, gli scandali, lo spoil-system, il bonapartismo craxiano e berlusconiano hanno rapidamente affossato tutto, trascinando in questo rovinoso precipizio anche gli intellettuali. «Paradossalmente - scrive l’autore - gli intellettuali sono morti come categoria di possibile riferimento […] proprio quando sono dilagati, quando il loro numero è diventato legione, quando il "sistema" ha puntato tutto sulla "cultura", sulla "comunicazione"». È una crisi che riguarda anche soggetti apparentemente inattaccabili come il volontariato, il servizio civile, il terzo settore, per motivi diversi e complessi ripiegati anch’essi nel «particulare». «Da pochi a pochi»: sembra di riudire in sottofondo la voce di un irriducibile Gobetti, stretto tra guerra e dittatura, eppure determinato a indicare una strada. Fofi, nel «piccolo» e nel «marginale» in cui si riconosce, non si stanca di richiamare di nuovo e sempre all’impegno: «Dovremmo ricominciare dai singoli e da piccole minoranze frantumate ma attive, da formiche pazienti e asini testardi a ridefinirci come membri coscienti e operosi di un villaggio, di un territorio, di una Nazione, di uno Stato, di un Pianeta, nella persuasione dei nostri doveri più che in quella dei diritti, e semmai a partire dai diritti degli altri e della natura e del futuro». Sergio D’Amaro L’AUTORE. Fofi è nato a Gubbio nel 1937. Il suo ultimo libro è uscito nel 2004 da Mondadori: Totò. Storia di un buffone serissimo. Il suo nome è soprattutto legato ad alcune riviste da lui fondate: "Linea d’ombra", "La terra vista dalla luna" e "Lo Straniero", l’unica in vita. pagina Bellezza, salute e giovinezza Ecco la donna A BRUNO REMAURY "Il gentil sesso debole" pp. 285, euro 21,50 Meltemi, 2006 ffascinante studio sui rapporti controversi tra mass media e corpo femminile. Partendo dalla premessa di una visione dell’altro più estesa, in quanto non facente parte dell’universo di riferimento studiato, l’antropologo Remaury ci spiega le ragioni di un mercato e di una sofferenza della donna, attraverso i messaggi promozionali che ad essa si rivolgono, i quali hanno sostituito quella precettistica antica che si rivolgeva alla sua educazione morale e fisica. Mediante una ricognizione nel mondo della pubblicità, della comunicazione, della cosmetologia e delle scienze sociali, l’autore individua precipuamente l’onnipervasività dell’immagine femminile in una specifica strategia di conservazione patriarcale da parte del discorso dominante. Non è infatti vero, come molti si ostinano oggi a dichiarare, che l’acquisita libertà di scelta da parte delle donne le abbia liberate dalla morsa della plasmazione ad uso del pensiero maschile: «Più le pratiche corporali si diversificano più causano una marcata dipendenza dai modelli tradizionali, un’incarnazione in profondità di quei discorsi (…) più la donna moltiplica e diversifica i suoi saperi e le sue pratiche meno riesce a liberarsi delle rappresentazioni sottese a entrambi». Confondendo l’idioletto femminile con il discorso dominante si soggiace ad un colossale inganno: quello della presunta libertà di scelta. Le devianze dal modello, se non soggette e riconducibili ad altrettanti canoni, generano l’esclusione dalla norma, anche quando essa viene intesa come «il grado zero della mostruosità». Ricollegandosi al testo di Rosi Braidotti, Madri mostri macchine (Manifestolibri 2005) si potrebbe leggere il saggio di Remaury come una prima introduzione al canone della norma, così come il testo della Braidotti ne individuava gli archetipi nella teratologia e nella deformazione. La norma comunicativa si riassume nella triade bellezza, salute, giovinezza, cui si aggiunge la supremazia del modello della giovane bianca e occidentale. Il corpo femminile esce da questa indagine in una pericolosa prospettiva di «maturità»: esso è cioè inteso in senso positivista come via via perfezionabile di pari passo con la presunta civilizzazione derivata dalla tecnocrazia. I metodi invasivi, ma altamente democratici, della bellezza alla portata di tutti, sono quelli offerti dalla cosmetologia e dalla chirurgia estetica. L’operazione invasiva di asportazione, ricomposizione, rimodellamento dell’identità non fanno che dichiarare l’assoluta soggezione della donna, preda di una pratica manipolatoria sempre più sotterranea, astuta ed ineludibile. In questo percorso il linguaggio della persuasione estetica appare alienante nella sua pretesa prescrittiva di apparente e semplicistico benessere, in cui il soggetto è chiamato, come in molti slogan pubblicitari, a ridurre l’essere al solo corpo. Chiara Cretella Dolori di un professore derelitto ANDREA PIVA "Apocalisse da camera" pp. 205, euro 13,80 Einaudi, 2006 L e cinque parti che compongono Apocalisse da camera, esordio letterario di Andrea Piva (salernitano, nato nel ’71) sono segmentate in rapidi paragrafi di non più di tre pagine, brevi flash narrativi che nonostante la brevità del racconto riescono a dare respiro all’intera narrazione senza soffocarla o appesantirla. In mezzo a questo flusso spezzato si dipana la storia di Ugo Cenci, assistente universitario di filosofia del diritto all’università di Bari con un debole per le belle studentesse. Studente svogliato, laureato senza grandi ambizioni, dopo la laurea in Giurisprudenza s’è installato sotto l’ala protettiva del professor Frappelle, amico di lungo corso di suo padre, che lo che ha accolto nelle file dei suoi scherani da cattedra fidando più sui lunghi anni di amicizia col genitore che sul curriculum dell’assistente. Cocainomane saltuario ma tenace, alcolizzato e imbattibile ingurgitatore di pillole e farmaci, Ugo Cenci ha trasformato la sua altrettanto imbattibile ossessione per le donne in un redditizio scambio di favori: esami in cambio di sesso. Un mercato sano e fiorente nelle università italiane, che Piva racconta con la giusta dose di distanziamento ironico, necessaria per non cadere nella stigmatizzazione vuota e moralistica di un male che per alcuni, studenti e professori, sembra essere solo un accidente necessario e tutto sommato indolore. Un mercato - è la scena d’apertura del romanzo - destinato, sembra, allo smantellamento, visto che tra i banchi si fa sempre più insistente il chiacchiericcio intorno al dottor Cenci e ai suoi rapporti con le studentesse. Nell’unica giornata in cui Piva ambienta il suo romanzo, Ugo sembra allora fermare il flusso impazzito del presente nel quale è immerso e ritornare in qualche modo indietro: agli anni in cui viveva con i genitori, ai momenti felici dell’adolescenza, all’incontro di anni prima (che si sarebbe potuto trasformare in amore ma che invece scivola verso uno scioglimento terribile e grottesco) con Giulia. Sarà la concatenazione suicida di alcol, hascisc e cocaina e scaraventarlo di nuovo nel suo presente assurdo, in un delirio paranoico finale che si concluderà in un modo che è giusto lasciare alla scoperta del lettore. È un’epica di agghiacciante normalità, quella che racconta Piva. Già un altro esordio, Ad avere occhi per vedere (minimum fax) di Leonardo Pica Ciamarra, aveva dispiegato sotto gli occhi dei lettori l’orrore che si cela spesso nei corridoi dei dipartimenti universitari. In Apocalisse da camera quello sguardo è come attenuato, soffuso, più sfumato, lambisce con maggiore leggerezza quei territori, stemperandoli in un disincanto che sembra posarsi, come la neve nel famoso racconto di Joyce, «su tutto, sui vivi e i morti». Perché qui l’orribile protagonista non è il personaggio peggiore del libro. Gli gravitano attorno - messi come sullo sfondo eppure vivi e sbozzati a tutto tondo, piccole correnti carsiche che scorrono sotto la crosta del romanzo restando sempre presenti e forti - docenti cinici e disillusi, genitori che hanno tirato in barca i remi dell’intelletto per dedicarsi a lunghe sessioni di consumo televisivo, sceneggiatori folli convinti che il futuro delle fiction sia la scrittura di serial che hanno come protagonista un pastore tedesco che risolve casi di omicidio. L’Apocalisse di Piva, raccontata con una scrittura sinuosa, che si snoda per mezzo di lunghi giri di frasi assemblate con un lessico ora volutamente basso ora raffinatamente alto, è anche, o soprattutto, la storia di una personale evasione, un tentativo di segare le sbarre, annodare le lenzuola sul moncherino metallico e fuggire, calandosi con velocità, senza preoccuparsi troppo di segarsi i palmi delle mani, da quel carcere chiamato vita. Piero Sorrentino L’AUTORE. Fratello di Alessandro, regista di Lacapagira, film del quale Andrea ha scritto la sceneggiatura, è autore anche di testi per la radio. Ha sceneggiato anche il film Mio cognato. sguardi e riguardi pagina 24 V O C I PREMIO GANDOVERE RICONOSCIMENTO A "CAMEO" DI CROVI La 25a edizione del Premio Gandovere (fondato da Maria Corti) è stata vinta da Raffaele Crovi con il romanzo Cameo (Mondadori). La giuria che ha assegnato il premio, presieduta da Elena Loewenthal, è formata da Giorgio Barberi Squarotti, Giovanni Giudici, Folco Portinari, Vittorio Spinazzola e Armando Torno. PREMIO DESSÌ DE MARCHI E ABATE TRA I FINALISTI La giuria del Premio Giuseppe Dessì, composta da Silvio Ramat (presidente), Massimo Murgia, Dimitri Pibiri, Anna Dolfi, Marcello Fois, Duilio Caocci, Idolina Landolfi, Gianni Filippini, Laura Pariani, Leandro Muoni, Aldo Forbice, Massimo Onofri, ha premiato il 30 settembre, a Villacidro, i finalisti della XXI edizione 2006: per la sezione narrativa Cesare De Marchi con La furia del mondo, Feltrinelli; Carmine Abate con Il mosaico del tempo grande, Mondadori; Domenico Seminerio con Il cammello e la corda, Sellerio. Per la sezione poesia Giancarlo Pontiggia con Bosco del tempo, Guanda; Mariangela Gualteri con Senza polvere senza peso, Einaudi; Francesco Permurian con Il teatro della neve, L’Obliquo. URBINO LE GIORNATE DELLA TRADUZIONE Dal 20 al 22 ottobre all’università di Urbino si svolge la quarta edizione delle Giornate della traduzione letteraria. Professionisti dell’editoria, scrittori, traduttori, giornalisti e intellettuali si alterneranno in seminari e dibattiti. Ospite sarà Susan Bassnett, illustre studiosa di teoria della traduzione e direttrice del Centre for Translation and Comparative Cultural Studies dell’università di Warwick (GB). Il convegno è curato da Stefano Arduini e dalla traduttrice Ilide Carmignani. Il 19 settembre a Torino, nell’ambito del ciclo Grinzane da Nobel «Incontri a Palazzo Reale», Josè Saramago ha tenuto una lectio magistralis sul tema "Difesa e elogio di Cassandra". Eccone il testo. C assandra è a Torino, va in giro per le strade, parla con le persone e dice «Il mondo non sta bene» e pensa che il problema non è che gli abitanti non le credono ma che non fanno niente. Perché? O perché non credono di poter fare o perché non hanno la possibilità di farlo o perché non lo vogliono fare. Cassandra parla ai giovani, perché i giovani sono vittime del peggiore degli inganni. Cassandra infatti dice a loro, ai giovani, di affrontare il problema. «Se voglio uccidere il dragone» dice «gli taglio la testa, non gli limo le unghie dei piedi perché ricrescono». Forse gli scrittori sono come Cassandra, in quanto osservatori del mondo e interpreti di ciò che accade e che potrà accadere. E proprio uno scrittore, Umberto Eco, ha affermato «Ho paura del futuro per i miei nipoti», gli stessi nipoti cui Cassandra vaticinava il futuro davanti ai sepolcri degli avi senza essere creduta. Mi ha colpito molto questa cosa, mi hanno colpito queste parole e mi sono chiesto perché un uomo come Eco ha paura del futuro. Io ho fama di provocatore, ma non sono un provocatore gratuito. Semplicemente dico quello che penso e poi sto a vedere le reazioni. Sono uno scrittore, ma sono prima di ogni cosa un cittadino. E che cosa può fare un cittadino, oltre a lavorare, studiare, procreare? C’è una cosa importante, può fare la politica. Parlare di politica significa parlare di democrazia. Ma noi abbiamo un simulacro di democrazia. Viviamo in un posto dove si può parlare di tutto, ma c’è solo un argomento che non viene mai discusso, la democrazia. Scommetto la testa che non c’è mai stato un posto al mondo dove le persone si sono riunite per parlare della democrazia, come se fosse una cosa che non si poteva toccare. Democrazia e potere sono due cose che non si possono toccare. E oggi il potere non è solo dei governi, anzi il potere è economico: sono le multinazionali, le grandi imprese, sono le banche a governare davvero. I governi non fanno altro che eseguire ordini che arrivano dall’alto. Dunque, io sono un provocatore, ma sono uno scrittore, anzi sono provocatore perché sono uno scrittore. Ad uno S t los Nella foto busto di Cassandra di Max Klinger (18571920) Una cassandra in veste di provocatore: come dev’essere ogni scrittore. Il quale è anche un cittadino che fa politica e persegue la felicità. Ma i popoli si odiano perché hanno ognuno un loro Dio Diventare atei e avere la pace VIVE A LISBONA. È PREMIO NOBEL. ULTIMI TITOLI "LE INTERMITTENZE DELLA MORTE" (EINAUDI) E "SAGGIO SULLA LUCIDITÀ" (EINAUDI) scrittore si chiede di parlare di letteratura. Ma credo che non si possa parlare «della letteratura», ma «di letteratura». Di solito alle presentazioni letterarie io non parlo dei miei libri, o, meglio, parlo per dieci minuti dei miei libri e per gli altri cinquanta del mondo. Dunque parlo del mondo. Dove voglio arrivare? Forse per l’età che ho mi segue un sentimento di urgenza, la sensazione di non avere più tempo. Appena nato, la speranza di vita nel mio villaggio era di trentatré anni. Oggi ne ho ottantatré. In tutto questo tempo ci sono stati grandi miglioramenti, ma stiamo lasciando una scia di distruzione che lascerà il segno. Il pianeta sta subendo grandi cambiamenti e rovine, il fiume vicino al mio villaggio adesso è una fogna, peggio delle fogne di Roma. Lo sappiamo, ne siamo tutti consapevoli, ma sembra che non interessi a nessuno. Ma siamo noi gli artefici della nostra felicità o credete che alle multinazionali interessi la nostra felicità? Noi abbia- JOSÈ SARAMAGO mo due possibilità: dire la verità o denunciare la menzogna. Se si aprono diversi giornali, vediamo che ognuno dà una versione differente dei fatti, tutti hanno ragioni a sostegno della propria tesi, e noi non possiamo capire dove sta la verità. E forse denunciare la menzogna diventa molto difficile. Ma è quello che dovrebbe fare lo scrittore, che dovrebbe fare ognuno di noi. In ogni intervista mi viene chiesto «Qual è il ruolo dello scrittore oggi?». Certo, credo e dico che il ruolo dello scrittore è scrivere. Non è un ruolo specifico, egli è un cittadino come gli altri. L’intervento di un intellettuale è come quello di un qualsiasi altro cittadino, come il medico; il medico è un cittadino come l’intellettuale lo è. Però l’intellettuale si chiede come risolvere i problemi. Ovviamente non ha risposte, ma credo che se tutti cominciassero ad avere una vita più democratica in tutti gli ambienti della società, famiglia, lavoro, medici, ingegneri, e tutti gli altri lavoratori, forse, e sottolineo forse, qualcosa potrebbe cambiare. Ma oggi quello che vedo è una divisione dei popoli, della gente. Una volta si credeva che la religione fosse il collante delle so- cietà, delle comunità. In realtà le religioni non sono mai servite ad avvicinare i popoli. Il mondo sarebbe molto più pacifico se tutti fossimo atei. Che l’immaginazione di una trascendenza si sia trasformata in odio, violenza, intolleranza, è assurdo. Se c’è un dio è uno, non sono due o tre. Perché per la differenza di opinioni, perché alcuni decidono di riposare la domenica, altri il venerdì, allora ci ammazziamo? Ammazzare in nome di Dio è rendere Dio un assassino. Ma forse ammazzare è proprio dell’uomo. Lo abbiamo fatto fin dall’inizio, un animale capace di torturare il proprio simile è solo l’uomo. Scriviamo La Divina Commedia e torturiamo il nostro prossimo. Dipingiamo la Cappella Sistina e torturiamo il nostro prossimo. C’è qualcosa di sbagliato nel nostro spirito, forse siamo tutti malati. E cerchiamo, parliamo di Dio. Ma chiediamoci perché Dio avrebbe creato l’universo. Per un capriccio? Io ho una teoria, una tesi, più che altro, diciamo «creazionista». Perché Dio ha creato l’universo? Io credo che Dio l’abbia creato perché il suo obiettivo era creare l’uomo e quindi voleva dargli una casa. Poi però l’uomo si è comportato talmente male che Dio è arrivato a dire «Se non faccio qualcosa questi mi rovinano tutto l’universo». E così ci ha rinchiusi tutti su questo pianeta, una specie di prigione. Una «prigione» in cui gli uomini hanno creato a loro volta grandi cose, grandi civiltà. Ci sono popoli che hanno vissuto un grande passato, e ci sono state grandi civiltà, quella portoghese, quella greca, quella romana, per dirne solo alcune. I portoghesi erano pochissimi e hanno conquistato mezzo mondo. E che fine hanno fatto queste grandi civiltà? Ci sono generazioni della decadenza che nuotano nella decadenza. Lo vediamo, lo viviamo, ma forse la peggior cosa che potrebbe succedere è accorgersi che non meritiamo di vivere. E non meritare di vivere è la peggior cosa che può capitare. Io ho 83 anni, sono anziano, spero di poter vivere ancora qualche anno con la mia Pilar, ma spero di poter uscire da questa vita dicendo «Le cose sono migliorate». Vorrei chiudere questo incontro con una frase: «Non cambieremo la vita, se non cambieremo vita». E per cambiare vita intendo dire che bisogna cambiare il nostro stile di vita, difendere i diritti umani. Che fine faranno i diritti umani? Nel corso del XXI secolo o assisteremo al trionfo dei diritti umani, o li accompagneremo al cimitero. V O C I BAGLIORI D’AUTUNNO ZOLA A PERUGIA UNA RETROSPETTIVA Un ciclo d’incontri su Emile Zola è in programma a Perugia dal 24 al 31 ottobre 2006. L’iniziativa si chiama «Bagliori d’autore» e nelle giornate di studio dedicate allo scrittore francese riguarderà vari aspetti della sua produzione e in particolare il ciclo dei Rougon Macquart. Vi prenderanno parte Simone Casucci, Mario Coletti, Giuseppe Panella, Giovanni Paoletti, traduttore e studioso di letteratura francese che presenterà il romanzo "Sua eccellenza Eugène Rougon", tradotto per la prima volta in italiano, Massimo Sestili. Ad animare gli incontri la Compagnia dell’aurora. BOLOGNA EVANGELISTI PRESENTA STEFANO DI LAURO Il 13 ottobre alle 18 alla libreria Trame di Bologna Valerio Evangelisti presenta il libro di Stefano Di Lauro Operè (Besa). Nel suo primo romanzo, tra noir, scienza e poesia, Di Lauro (regista e autore teatrale) ripercorre le tracce del mito di Orfeo ed Euridice di cui scopre, celato in un doppio fondo, un finale segreto, inatteso, inaudito. FESTIVALA TORINO «IMPUTATO, ALZATEVI» PROCESSO ALLA STORIA La storia e i suoi processi saranno i protagonisti della seconda edizione del Festival Storia di Torino «Imputato, alzatevi», dedicato al processo nei secoli, che si svolgerà dal 18 al 22 ottobre tra Torino, Saluzzo e Savigliano. Dal «Processo a Gesù», cui seguirà giorno a Savigliano la lectio magistralis di Adriano Prosperi sul tema «Grazia e Giustizia nella storia» al «Processo a Socrate, ovvero i limiti della democrazia». E ancora altri processi: «Processi ai partigiani», «La fabbrica dei profumi», «I due processi Rosselli», i «Processi all’Areopago: Frine», «L’Inquisizione, un tribunale della fede: valdesi e inquisitori».