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pagina
2
S t los
protagonisti
di successo
A
un anno da Civiltà letteraria europea, Meridiano che
contiene parte della sua opera, Pietro Citati arricchisce la sua produzione con un nuovo libro, La morte
della farfalla. Chiunque si accinga a diventare un lettore di Citati si renderà conto che pian piano sarà divorato da una curiosità e da una passione che diventeranno sempre più forti nei confronti di questo critico le cui pagine sono un
esempio di eleganza, raffinatezza e rigore trasformato in vera poesia.
È molto difficile dire cosa si prova leggendo Tolstoj o La colomba pugnalata, che sono due tra i libri più belli di Citati. Forse quello che si può raccontare nitidamente in quel turbinio di emozioni è la sensazione di sentire la voce di un uomo distante ma vicino, che apre le pagine di Guerra e pace o della Recherche ed inizia a leggerle con voce delicata, espressiva, sussurrante, quasi che
avesse paura di rompere l’atmosfera densa di suggestioni che solo i grandi libri sono in grado di creare. E man mano che le pagine scorrono leggere e allegre sotto i nostri occhi, noi lettori, singoli musicisti di un’orchestra vastissima ma che ci è invisibile, ci
accordiamo all’unisono alla sua voce.
«Quando nel 1936 Francis Scott Fitzgerald pubblicò L’incrinatura ("The Crack-Up"), i suoi amici, i suoi amici-nemici, e i suoi nemici si indignarono profondissimamente. Soprattutto, si indignò
il più abbietto tra loro: Ernest Hemingway, che non era ancora precipitato in un abisso molto più atroce… Non era possibile parlare di sé come, a quarant’anni, aveva fatto Fitzgerald: violare sino
a quel punto il comune sentimento della decenza, rivelando al
pubblico i disastri e i dolori della propria vita».
Con un inizio immediato, veloce ma preciso, ci troviamo subito
di fronte a quello che fu e che rappresentò il personaggio Fitzgerald. Con la sua prosa intensa e avvolgente, Citati
racconta la storia di Zelda e dell’autore del Grande
Gatsby. Lui era uno scrittore di grande successo fin
dal primo libro, e diventò un mito dell’America degli anni Venti. «Fin dall’infanzia aveva incontrato
una serie continua di fallimenti: mancanze, perdite,
delusioni amorose, rinunce, abbandoni, insuccessi,
umiliazioni, ferite sanguinosissime…
Per tutta la vita immaginò sempre di essere soltanto un personaggio dell’Éducation sentimentale di
Flaubert». Lei, Zelda, era l’opposto di Fitzgerald, un
suo specchio rovesciato. «Se Fitzgerald era una
sola incrinatura, Zelda Sayre non rivelava, in apparenza, nessuna crepa». Era una donna coraggiosissima, che non aveva paura di niente: «La regina delle farfalle. Sembrava conoscere soltanto le superfici della vita bevendo gioiosamente "la spuma della
bottiglia"».
Gli anni del loro matrimonio, della loro malattia (lui
un alcolista, lei una schizofrenica radicale) sono raccontati da Citati attraverso uno stile che ricorda moltissimo quello di Flaubert: fluente ma contenuto.
Come accade in certe favole, quando un personaggio grazie ad un filtro magico diventa invisibile e si
intrufola ovunque ad insaputa di tutti, Pietro Citati
scruta inosservato le esistenze di Zelda e Fitzgerald,
frugando tra le loro lettere, annotando particolari, intenzioni, sensazioni, movimenti, abitudini, sentimenti.
Grazie al suo sguardo multiforme e tentacolare in
grado di adattarsi alle situazioni più svariate, Citati ci regala una storia tenera e struggente in un libro
che coinvolge subito e non permette di interrompere la lettura a partire dalla prima pagina.
Credo che le parole più belle che abbiano descritto
in pochi ma intensi tratti questo critico siano quelle del suo affezionatissimo amico Federico Fellini: «Quello che posso darti sono le impressioni di un lettore asistematico e notturno che se la gode un mondo e leggere Citati, con quella sua bella prosa vellutata, ma che poi non sa che dirti, e se ci prova ha la frustrante consapevolezza di balbettare delle banalità… La sensazione più seducente, leggendo il libro, è quella di assistere al lavoro di un
orafo, di un mastro orologiaio, che nel suo laboratorio silenzioso
smonta e rimonta, per la nostra gioia, meccanismi complicati, ingranaggi delicatissimi, senza mai smarrirsi fra le mille rotelle e
senza mai disperdere l’incanto immenso che da quelle macchine
promana. Un miracolo». Un miracolo che Citati è in grado di rinnovare ad ogni suo libro e che noi assaporiamo pagina dopo pagina, in silenzio, immobili, scrutando nascosti in un angolo questo «mastro orologiaio» che pezzo dopo pezzo costruisce il suo
congegno così come Geppetto, con sega e lima, ha creato il suo tenero Pinocchio. Stilos lo ha intervistato.
Quando è cominciata la sua passione, il suo amore per Fitzgerald, un autore così misterioso e affascinante, e soprattutto quando ha pensato di scrivere un libro su di lui concentrandosi su un aspetto della sua vita?
Ho cominciato a leggere Fitzgerald tantissimi anni fa, nel ’52 o
forse nel ’53, non so dirle esattamente l’anno, ma sicuramente
quando c’è stata la rinascita del mito di Fitzgerald. Fitzgerald era
totalmente dimenticato: Tenera è la notte, che è un capolavoro del
Novecento, non ha avuto il minimo successo. Quasi tutti, in
America, credevano che Fitzgerald fosse morto. La letteratura era
cambiata: degli scrittori di prima rimaneva Hemingway, restava
un grande scrittore come Faulkner, ma c’era anche la letteratura
populista, Steinbeck e così via. Nel dopoguerra, in America, rinacque la lettura di Fitzgerald. Oggi in America Il grande Gatsby ha
una vendita annuale di trecentomila copie. Allora vennero stampati i racconti: prima ci fu una scelta fatta da Cowley, I ventotto
racconti quasi tutti bellissimi. Poi vennero pubblicati i libri che
non erano mai usciti come libri: il famoso "The Crack-Up", poi i
Taccuini. Insomma Fitzgerald diventò un autore ancora più alla
moda di quanto non fosse negli anni Venti. Ora questa fortuna di
Fitzgerald ho l’impressione (ma non ne sono certo) che sia un po’
diminuita. Fitzgerald non è più vivo come mito. Un tempo era il
mito degli anni folli, dell’alcool, della droga, della leggerezza, della fuga che dominò l’America dal 1920 fino alla crisi del ’29. Ora
è rimasto un grande scrittore: quello che importa. La nascita del
mio libro è del tutto casuale: anni fa in Italia Baldini e Castoldi ha
tradotto le lettere di Zelda e di Scott, col titolo Caro Scott carissima Zelda. Volevo recensire queste lettere di Zelda e Fitzgerald,
che erano uscite da pochi anni negli Stati Uniti. Allora ho letto
S tilos
Una pubblicazione
Domenico Sanfilippo Editore
Nella foto Pietro Citati fotografato nella sua casa
in Maremma
PIETRO CITATI
Libro nato per seguire una suggestione
e un richiamo: la vita della coppia Zelda
e Scott e le sue implicazioni letterarie
Quei miei
tragici
Fitzgerald
VIVE
AD
ALBANO LAZIALE (ROMA). SI
OCCUPA DI CRITICA
LETTERARIA E DI STORIA DEL TEATRO. SCRIVE SU VARIE RIVISTE
PIERLUIGI PIETRICOLA
IL LIBRO
PIETRO CITATI
"La morte della farfalla"
pp. 118, euro
13
Mondadori,
2006
Una storia
d’amore
e un profilo
La vita dei coniugi Zelda e Scott Fitzgerald attraverso
l’opera dell’autore del Grande Gatsby e i documenti anche fotografici che ripercorrono la loro vicenda matrimoniale. Ne emerge anche un profilo letterario dello
scrittore sotto la luce riflessa dei suoi libri.
Pietro Citati (Firenze 1930) è autore di moltissimi libri, tra
cui Goethe (Mondadori 1970); Il tè del cappellaio matto
(Mondadori 1972); Immagini di Alessandro Manzoni
(Mondadori 1973); Alessandro (Rizzoli 1974); La primavera di Cosroe (Rizzoli 1977); Vita breve di Katherine
Mansfield (Rizzoli 1980); Il migliore dei mondi impossibili (Rizzoli 1972); Tolstoj (Longanesi 1983); Il sogno della
camera rossa (Rizzoli 1986); Kafka (Rizzoli 1987); Storia
prima felice, poi dolentissima e funesta (Rizzoli 1989), Ritratti di donne (Rizzoli 1992); La colomba pugnalata
(Mondadori 1995); La luce della notte (Mondadori
1996); L’armonia del mondo (Rizzoli 1998); Il male assoluto (Mondadori 2000); La mente colorata (Mondadori
2002), Israele e l’Islam (Mondadori, 2004).
quel libro, poi ho cominciato a leggere le altre lettere, poi ho riletto i suoi romanzi, i suoi racconti; e poi ho letto diverse biografie.
Alla fine ho accumulato tanto materiale che avrei potuto scrivere un libro di trecento pagine. Ma non volevo. Dalle mie letture la
vita di Fitzgerald diventava immensamente più tragica di quanto
io non credessi. Se lei legge le altre biografie (in Italia non ne è tradotta nessuna) le sembrerà molto più pacifica di quanto non sia nel
mio libro. E per dare il senso della tragicità di questa vita ho rac-
Direttore responsabile
Mario Ciancio Sanfilippo
Coordinatore
Gianni Bonina
Anno VIII, n. 20
Martedì 10 ottobre 2006
Registrazione Tribunale
di Catania n. 11/99 del 24/4/99
Spedizione in Abb. Post.
Art. 2 comma 20b legge 662/96
Stampa I.E.S srl Catania
contato rapidissimamente, abolendo episodi, scorciando, buttando via, buttando via: per esempio ho abolito un capitolo sui rapporti tra Hemingway e Fitzgerald. Ho imitato un po’ Fitzgerald
quando scrisse Il grande Gatsby, dove tutto è scorciato. Volevo
rendere quella drammaticità attraverso la velocità della narrazione. Così invece di un grosso libro ne è venuto un libretto. Non so
se ho fatto bene o male, ma sentivo che dovevo scrivere il libro in
quel modo.
Zelda e Fitzgerald: cosa li rendeva simili e cosa li distanziava?
Quello che li distanziava e che li rendeva contemporaneamente simili era il fatto che tutti e due erano malati: Zelda molto più gravemente, perché era una schizofrenica incurabile. Quando Fitzgerald, che era un marito generoso e devoto, portò Zelda dal massimo specialista di schizofrenia del suo tempo, Eugen Bleuler, era
pieno di rimorsi e si chiedeva: «Sarà stata colpa mia?». E Bleuler
gli rispose: «Non si dia le colpe. Forse il matrimonio ha accelerato la cosa di due mesi, ma sarebbe comunque esplosa. La schizofrenia risale all’infanzia di Zelda». Quanto a Scott, era alcolizzato in modo tremendo. Solo un anno della sua vita non bevé: quello prima della sua morte, quando Sheilah Graham riuscì a distoglierlo dall’alcool. Fitzgerald ha bevuto sempre. In letteratura c’è
una tradizione di grandi drogati e alcolizzati, una tradizione soprattutto inglese e francese, americana: pensi a Baudelaire o a De
Quincey o a Rimbaud o a Poe. La differenza profonda è questa:
De Quencey e Baudelaire, attraverso la droga o l’alcool, volevano giungere in un altro mondo: avevano intenzioni metafisiche;
per loro la droga distruggeva il reale e faceva nascere un mondo
completamente diverso. Avevano illuminazioni su una realtà che
non conoscevano. In Fitzgerald questi desideri metafisici non esistono. Non vuole inseguire un’altra realtà. Fitzgerald beve soltanto per uccidere la realtà, vincere il proprio senso di
colpa e fallimento e farsi amici gli esseri umani.
Fitzgerald si sente sempre fallito, anche quando è
al massimo del successo. Il primo suo libro ha venduto in pochi mesi sessantamila copie: all’incirca
i due milioni di copie di oggi. Era diventato una divinità per i giovani degli anni Venti. Anche allora si
sentiva perseguitato dallo scacco radicale. Questa
era la ragione del suo alcolismo. Ci sono episodi
talvolta grotteschi: quando lui lavorava per il cinema a Hollywood e Zelda era in una casa di cura, lei
voleva che Fitzgerald la portasse a fare un viaggio
ai tropici. In quel momento Fitzgerald non aveva
soldi. Negli ultimi anni della sua vita era carico di
debiti, perché pagava una costosa clinica privata
per la moglie, costosissime scuole alla figlia e guadagnava poco. L’anno successivo la invitò a questo
viaggio. Durante il viaggio Fitzgerald beve ininterrottamente e Zelda si occupò del marito ubriaco:
dunque la cosiddetta folle si occupò del cosiddetto sano, lo portò in ospedale e lo rimandò ad Hollywood. La malattia fa di loro dei vicini e insieme
delle persone distanti. Avevano molto in comune:
erano come una stessa persona con due teste,che
non potessero fare a meno di distruggersi a vicenda. Il legame era fortissimo. Non credo che fosse
un legame (come tutti pensano) soprattutto erotico.
Penso che fosse un profondissimo legame psichico. Il mondo letterario di Fitzgerald non è un mondo molto erotico. Un eros diffuso riempie le cose,
è nell’aria, nel sole, nelle nuvole, dappertutto, ma
non è un eros propriamente sessuale. Forse la cosa
più bella nei loro rapporti sono le notti, nei primi
anni di matrimonio, in cui parlavano da mezzanotte fino alle sei del mattino, parlavano ininterrottamente di tutto e smettevano solo quando arrivava l’alba. Zelda era
una donna estremamente intelligente, sottile, con un acume psicologico straordinario e una grande crudeltà mentale. Tutto quello che lei diceva era prezioso per Fitzgerald, che copiava passi interi di lettere e diari di sua moglie. Fitzgerald diceva che Zelda era
più forte di lui e che aveva perfino più talento di lui. Questo non
è vero, perché il romanzo di Zelda è brutto. Le sue lettere invece
sono molto belle. Zelda è stata fino alla fine la «bambina» di Fitzgerald: molto più della figlia la quale non faceva quello che il padre le diceva; mentre Zelda rimase fino alla fine una specie di figlia malata di un padre malato.
Con chi si è sentito di più a suo agio mentre stava scrivendo
il libro, con Zelda o con Fitzgerald?
Non ci si sente molto a proprio agio né con l’uno né con l’altra. Io
non sono né un alcolizzato né uno schizofrenico. Mi sono sentito
molto a mio agio con la coscienza letteraria di Fitzgerald, perché
questo alcolizzato aveva una coscienza letteraria formidabile, così come Flaubert o Kafka; un gusto perfetto. Fitzgerald legge
Kafka nel ’34, quando nessuno sa chi è; che adora Keats; ha un’enorme ammirazione per Conrad quando la gente non lo amava - la
Woolf non amava Conrad -, sebbene Conrad fosse il contrario di
lui, perché era fluviale, abbondante, pieno di melma e di infinito,
mentre Fitzgerald tende a concentrare e ha il senso della parola giusta. Sono sempre stato vicino alla coscienza letteraria di Fitzgerald,
e ho cercato di imitare il suo modo di raccontare.
E ci è riuscito benissimo….
Questo non lo so. Comunque non posso dire se Fitzgerald sia stato più grande in un libro piuttosto che in un altro. Posso dirle che
Il grande Gatsby e Tenera è la notte sono due bellissimi romanzi, e che Fitzgerald ha scritto venti racconti meravigliosi. Al resto
si può rinunciare.
La vita di un grande scrittore è irraggiungibile così come la
sua opera? A me viene sempre in mente l’immagine di Musil del chiodo che si vuole piantare in uno zampillo d’acqua,
e credo che l’interpretazione di un grande testo letterario sia
un po’ come piantare un chiodo in uno zampillo. Lei che ne
pensa?
Questa è una bellissima immagine di Musil. Ogni scrittore rappresenta un problema del tutto diverso. A me sembra che Fitzgerald
come persona sia abbastanza comprensibile: non offre tali misteri. I veri misteri li offre Kafka, che è un enigma. La cosa più difficile non è interpretare la vita di un grande scrittore, ma i suoi libri. La cosa misteriosa di Fitzgerald è il fatto che iniziò in modo
abbastanza rozzo e fluviale e diventò un vero maestro dello stile.
SEGUE A PAGINA 3
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protagonisti
di successo
PIETRO CITATI
SEGUE DA PAGINA 2
Lei ha la virtù di trasformare uno studio lungo e complesso
in una narrazione critica di gusto e livello. Come ci riesce?
Questo è un piccolo libro e non ci sono interpretazioni di testi. Si
tratta di un libro profondamente diverso da quello che sto facendo. Cercherò di scrivere un libro su Leopardi, e sarà molto lungo.
Sarà un libro interpretativo, simile a quello sull’Odissea che si basava interamente sull’interpretazione del testo. E nel libro su Leopardi ci sarà l’interpretazione delle poesie, delle Operette morali e di alcune grandi immagini leopardiane: l’amore, il ricordo, la
noia e così via. Ci sarà anche una storia della sua vita. Questo su
Fitzgerald è un libro molto rapido; non potevano esserci in cento pagine analisi particolari. È un po’ simile a quell’altro mio libro sulla Mansfield.
A proposito del suo libro sulla Mansfield: lei lo scrisse mentre stava lavorando al libro su Tolstoj perché le venne un impeto d’odio per l’autore di Guerra e pace. Ora sta lavorando
su Leopardi e ha scritto un libro su Fitzgerald…
Il libro su Fitzgerald l’ho scritto mentre stavo leggendo su Leopardi, l’anno scorso in primavera. In questo caso non c’è nessun impeto d’odio verso Leopardi, che è uno degli uomini più amabili e
angelici della terra. La situazione era diversa nel caso della Mansfield. Stavo scrivendo un libro su Tolstoj e ho odiato quest’uomo
che scriveva romanzi vasti come cattedrali, che scriveva di teologia, che era un apostolo e un profeta, che aveva dodici figli, che
riempiva il mondo di sé. Mentre la Mansfield morì giovanissima:
aveva scritto poco ma cose essenziali. In lei non c’è niente di profetico e di così odiosamente virile come in Tolstoj. In questo caso ci fu un contrasto. Nel caso di Leopardi invece non c’è nessun
contrasto.
A lei piace molto dipingere…
Non ne sono capace. Io dipingevo da ragazzo. Dipingevo sempre ma senza talento. Dipingevo paesaggi, copiavo pitture, facevo sculture;ho copiato la
testa del David di Michelangelo. Quando avevo
cinque anni avevo disteso nel salone di casa nostra
un foglio di tre metri per due. C’era la guerra in
Etiopia. Il culmine di questa guerra fu agli inizi del
’36, quando c’è stata la battaglia dell’Amba Alagi
che ha aperto la strada delle truppe italiane verso
Addis Abeba. Era stata una battaglia cruenta, e io
avevo dipinto un foglio con centinaia di morti, con
feriti che cadevano al suolo. Ci avrò messo quindici giorni. Poi ho continuato a dipingere fino ai diciassette anni. Ho scritto anche quindici o venti fumetti: storie d’avventura di origine salgariana che si
svolgevano nel Pacifico e in America meridionale.
E tutto questo senza alcun talento. Ma ho un desiderio immenso di dipingere. Ho una casa in una pineta, Pineta di Roccamare, dove stava anche Calvino. Quando mangio, sono davanti ad una finestra e
guardo sempre un bellissimo pino. Mi piacciono
moltissimo i pini, le scorze, i colori, il rosso, il marrone e le diverse tonalità dei pini. Mentre mangio
penso a quanto mi piacerebbe dipingere quel pino
lì, e siccome il più grande pittore di pini è stato Cézanne, penso sempre che si potrebbe fare qualcosa
di più bello di Cézanne, naturalmente non io. Non
sapendo dipingere, vedo quadri e scrivo d’arte.
Però supponiamo che venisse da lei Caravaggio
in persona e le dicesse di dipingere Fitzgerald e
Zelda insieme: in quale posa li ritrarrebbe?
Fuggirei davanti a Caravaggio. Di Zelda e Fitzgerald abbiamo le fotografie, che sono molto rare e
Un lavoro pari a quello per Goethe: la
biografia del poeta di Recanati e i suoi
temi: l’amore, il ricordo, la malattia
Ma ora
penso a
Leopardi
PAOLO DI PAOLO
S
e c’era una forma possibile per
raccontare la vita fragile di Fitzgerald doveva essere questa.
Mantiene a ogni pagina il segno di una
tensione, il riflesso di un’inquietudine,
questo piccolo libro di Citati. Più secco, rapido che in altri scritti, Citati si
mette qui sulle tracce di Francis e di
Zelda, attinge a lettere appassionate, a
fotografie cui il tempo non ha sottratto fascino. C’è un elettrico, polveroso
brillio che sembra avvolgere la figura
di Fitzgerald, e i luoghi che egli attraversa. Avevamo detto quasi addio a
quel mondo e al suo cantore nell’ultimo film di Altman, Radio America: la
musica che si sparge nell’aria e una
lieve malinconia che informa di sé
ogni gesto: anche il piede che batte al
ritmo di qualche allegra melodia. Torna qui invece, Fitzgerald, nella Morte
della farfalla: e ne ritroviamo intatto il
fascino magnetico che egli prestò al
personaggio Dick Diver. Ma non c’è il
«mito»: c’è l’uomo - innamorato, spa-
S t los
Nella foto Pietro Citati nello studio della sua casa
romana
belle. Quarant’anni fa la figlia di Fitzgerald e Zelda, Scottie, ha
pubblicato un grande album di fotografie in collaborazione con lo
specialista di Fitzgerald, Bruccoli, un italoamericano. Contiene
decine di fotografie, di schizzi, di quadri di Zelda (è l’unico luogo dove si possono vedere i suoi quadri), di documenti. Il libro è
esauritissimo, perché era molto caro, e in Italia non lo conosce
nessuno. Le fotografie che ci sono nel libro vengono da quest’album: molte sono completamente ignote. A me piace moltissimo
la fotografia di Fitzgerald sottotenente. Poi lei se lo immaginava
che il suo capitano fosse Eisenhower? È una cosa comicissima.
Queste fotografie non rendono giustizia a Zelda. Lei era bellissima, ma la sua bellezza era fatta tutti di colori, e non ne resta niente.
In Narrate uomini la vostra storia Savinio sosteneva che «nel
vero ritratto l’essenza del personaggio prende stanza e si ferma per sempre, e il committente, perduta ogni ragione di vivere, si incammina, falotico e svuotato, verso la morte». Lei è
d’accordo?
I ritratti pittorici sono molto più numerosi e belli di quelli letterari. Lei immagini soltanto cos’è la storia della pittura con i ritratti
di Tiziano, Rembrandt, Rubens; una serie di assolute meraviglie:
pensi al Baldassarre e Castiglione di Raffaello, una cosa sublime.
Il ritratto pittorico è più facile perché nelle mani uno ha un modello davanti, e lo riproduce con i colori, che inseguono l’oggetto.
Nel ritratto letterario di un critico che dipinge uno scrittore, il critico ha in mano soltanto le parole, e con la parole dare allo stesso tempo il senso dei colori, della psicologia e del movimento è
estremamente difficile. Il ritratto di uno scrittore è molto più difficile del ritratto di una persona comune. Di ritrattisti letterari ce
ne sono pochissimi, ma ce n’è uno supremo che è Sainte-Beuve.
Non c’è stato mai nessun critico che neanche lontanamente ha
avuto le qualità di ritrattista di Sainte-Beuve. Ma in Italia Praz e
Macchia erano molto bravi come ritrattisti letterari.
Goethe, Kafka, Proust, Tolstoj: a ciascuno lei ha
dedicato dei libri molto belli. Ma a chi di questi
si sente più vicino e quale è stato un autore fondamentale per la sua formazione?
Goethe. Il libro su Goethe è stato quello sul quale
ho lavorato di più: dieci anni. L’ho cominciato
quando avevo trent’anni e l’ho finito a quaranta. Il
modo col quale scrivo adesso è diverso da quello
col quale scrissi Goethe: ora scrivo in modo più
secco e rapido. Goethe invece è un libro un po’ barocco; ma io non solo ho imparato a fare il critico
scrivendo quel libro, ma anche a scrivere. Scrivere
un articolo e scrivere un libro sono cose completamente diverse: un articolo lo si fa in una mattina, si
deve essere rapidi e sciolti. Il libro deve avere il senso del tempo, si deve cambiare passo, bisogna diventare un fiume. Goethe è stato la mente più grande del mondo moderno.
In questo scorcio di nuovo millennio lei intravede qualche bravo, e magari grande autore nel
panorama letterario odierno?
Non mi pare che ci siano grandi autori. Ce ne sono
di medi. Non posso parlare della letteratura italiana contemporanea, che conosco poco. Non c’è
molto che mi affascina. Ma questo potrebbe essere dovuto alla mia scarsa informazione. Anche all’estero la situazione non è diversa dalla nostra. Ho
cominciato a fare il recensore fin da giovanissimo,
nel ’55, e in Italia c’erano Gadda, Caproni, Bertolucci, Calvino, la Morante, Lampedusa. Erano molto modesti. Gadda ad esempio mi diceva: «Quando parla di me non esageri, lei esagera sempre. Io
non sono così grande».
SECONDA LETTURA
Transitando per i terreni della perdita e della solitudine
ventato, devastato dall’alcol, capace di
generosità e braccato da angosce puerili. «Ciò che gli importava - scrive Citati - era soltanto il dolore e la musica
delle cose perdute; ma non poteva fare a meno di sognare un futuro di
trionfi fantastici e irraggiungibili. Come Balzac era un mitomane incapace
di guarire. Voleva possedere un dominio assoluto sulle cose vicine e lontane. Tentava e falliva, falliva e tentava.
Solo una cosa era certa: la sconfitta,
l’incrinatura, la morte mascherata dietro le luci».
Un’ansia segreta di possesso del mondo: Fitzgerald «era affascinato dagli
istanti e dalle cose che passano»: la
laccatura, la patina d’oro che copre la
brutale verità delle cose, la loro massiccia e indigesta importanza. È come
se Citati, nella sua indagine, tirasse via
con le unghie questa patina, ansioso di
svelare e restituire al lettore il dolore
da essa nascosto. E d’altra parte è lì, in
quel grumo d’ombra, che si annidano
le parole, è lì - scavando, quasi in preda a un panico creativo - che Fitzgerald trovava la materia estrema per i
suoi romanzi e racconti. Poi sapeva
ammantarli di polvere d’oro e allora
brillavano. Non conta qui la ricostruzione di un processo creativo (che resta sempre e comunque inattingibile,
anche forse a chi si arma di bisturi critico); per Citati conta sentire - con
immaginazione emotiva, e chiedendo
supporto alla sua rigogliosa memoria
letteraria - la misteriosa predisposizione di un uomo fragile alle metamorfosi della scrittura. «Scriveva con
furia, velocissimamente, su fogli di
carta gialla: appena finito un foglio, lo
gettava a terra, così che il pavimento
era ricoperto da quei lividi lampi di
letteratura».
C’è un lontano scritto di Citati, "La fuga delle parole", pubblicato nel 1978
nel volume I frantumi del mondo, che
sembra quasi una dichiarazione di
poetica, seguita fin qui, fino a questo
trepido Fitzgerald, con estrema coerenza. Muove dallo sgomento che si
prova nel constatare come spesso la
parola finisca col non essere più «un
pieno, ma un vuoto: una mancanza, un
ripiego, un mezzo termine, una fatale
rinuncia, una ferita aperta e non richiusa». Si limitano, le parole, a sfiorare il mistero della realtà, senza riuscire a definirlo ed esaurirlo in sé: e
solo quando «fuggono» verso altre
parole - le parole già scritte, «custodite nei folti armadi della letteratura» -,
solo allora, intrecciandosi e amalgamandosi con loro, ascoltandole echeggiare in sé stesse, variandole «come il
musicista gioca intorno a un motivo»,
riescono a trasformarsi, e a trascinarci verso soglie e domande estreme cui
sarebbe stato difficile giungere altrimenti. «E ci troviamo - concludeva
Citati - con le nostre deboli forze ad
affrontare temi tremendi, dei quali
parliamo per interposta persona, con
le parole degli altri, che ormai sono diventate la nostra unica voce, una voce
più vera di quella che abbiamo mai
pronunciato».
Con La morte della farfalla, indagando nell’amore disperato di Zelda e
Scott; transitando per i terreni della
perdita, della solitudine, della malattia; scrutando, una volta ancora, il nodo che stringe il talento alla malinconia e alla disperazione, Citati conferma - stavolta sotto una luce diversa,
che trema; in un respiro corto, pronto
a spezzarsi - l’abilità con cui, dopo
avere raccolto indizi e tracce con cura
appassionata, sa ricostruire le tappe di
un percorso in cui la vita e le parole, la
vita e la letteratura, si intrecciano al
punto da non distinguersi più.
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S C A F F A L E
AUGUSTO CAVADI, E, per
passione, la filosofia, pp. 187, euro 16,50, Donzelli 2006
Sottotitolo provocatorio per il saggio di Cavadi, docente di filosofia
in un liceo di Palermo, "Breve introduzione alla più inutile di tutte le
scienze", ovvero la filosofia, una
disciplina che non è al servizio di
nulla e che pure «serve» alla poesia,
alla mistica, alla politica, alla letteratura. Oggi che poi è tornata di
moda, dopo alcuni decenni di eclissi, è giusto spiegare come si «pensa» e perché l’uomo e la donna della strada dovrebbero filosofare per
occupandosi abitualmente d’altro
nella vita.
ANDREA GENOVESE, Falce
marina, pp. 290, euro 13, Intilla
2006
Uno squarcio inedito del Dopoguerra visto e vissuto da quel bambino che è stato. Dal fracasso delle
bombe che cadevano su Messina
ai tempi difficili della ricostruzione,
Andrea Genovese, scrittore e giornalista messinese, rievoca in maniera deliberatamente e prepotentemente autobiografica un microcosmo, il quartiere di Giostra, in una
Messina che ha dimenticato la sua
identità, abitato da personaggi pittoreschi vivacemente ritratti.
PLINIO MARIANI, Eroslibro,
pp. 189, euro 13,50, Editino
2006
Un libro sull’erotismo inteso non
solo come piaceri legati all’amore e
al sesso ma anche come suggestioni e tentazioni. Tempi antichi e moderni nei racconti che si muovono
tra sensualità, magia, e crimine, in
cui l’autore indagando nel discrimine tra carne e anima, procede tra
miti e fantasie classiche e letterarie:
da Pigmalione a Candaule, consorte del re della Lidia, a Giulia, viziata figlia unica di Ottaviano Augusto, sino ad Antonio, tentato da Tebaide, e all’eros nell’harem.
DANIELE DEL POZZO/LUCA SCARLINI (cura), Gay, pp.
312, euro 15, Mondadori 2006
Una guida italiana in centocinquanta voci in ordine alfabetico è questo
dizionario della cultura gay, che si
impone per una realtà che cerca riconoscimento identitario e politico
dei propri diritti. Oltre le reazioni
scandalistiche, oltre gli aspetti da
gossip del fenomeno, il testo, che
Gianni Vattimo, curatore della prefazione, definisce un monumento
alla gay liberation, vuole disegnare
la mappa tanto estesa quanto inesplorata della cultura gay, che attraverso artisti, letterati, scrittori, ha segnato il Novecento.
GIANVITO LAFORGIA, Il
mio Giuseppe, pp. 91, euro 10,
Matarrese 2006
La voce di Giuseppe, sposo di Maria, madre di Gesù rivive attraverso
le pagine del breve romanzo di
Laforgia, attento osservatore della
parola cristiana e cultore del presepio, una passione che ha ereditato
dal padre. Il «suo» Giuseppe che
parla in prima persona racconta la
sua vicenda umana, una vicenda
misteriosa in cui anche lui è prescelto quale «padre» del figlio di Dio.
4
S t los
autori
italiani
Nella foto Pietro Ingrao, autore per Einaudi di Volevo la luna
PIETRO INGRAO. I contrastanti «fatti
IL LIBRO
d’Ungheria», la strage di Portella, lo squadrismo
fascista, i dubbi ancora aperti del caso Moro: una
vita che è specchio dell’Italia contemporanea
Confesso
che ho
sbagliato
«
E
ra andata
VIVE A MILANO DOVE DIRIGE
così. Ero
LA RIVISTA "GLI APOTI".
ancora
COLLABORA A DIVERSI PERIOsolo un
DICI E QUOTIDIANI
fanciullino: una sera, prima di
accucciarmi nel letto
FILIPPO MARIA BATTAGLIA
per il sonno notturno non so perché - mi ero
rifiutato di usare il vasetto, come voleva il rito serale. Era allora
intervenuto mio padre a sollecitarmi promettendo in cambio
qualsiasi regalo io volessi. Attratto da quella promessa mi ero accosciato sul vaso e avevo versato con sonora abbondanza la mia
pipì. Mio padre, soddisfatto dell’esito, mi chiese che regalo volessi per premio. Era una dolce sera d’estate e dal balcone aperto avevo dinanzi il monte Appiolo su cui si levava, lenta e maestosa, una
luna d’argento. Io subito dissi: - Voglio la luna». Ecco spiegato il
titolo del libro di Pietro Ingrao. Un libro che ne rivela chiaramente la formazione, innanzitutto umanista e solo secondariamente
politica. L’eco degli scrittori italiani del primo Novecento è fortissima: Giudo Gozzano (sulla casa di Luchino Visconti scrive che
era «uno splendido palazzo di pessimo gusto», richiamandosi,
neanche poi così velatamente, all’Amica di nonna Speranza dell’autore torinese), ma soprattutto Cesare Pavese («Prendiamo le
armi ed uccidiamo. E nulla sappiamo dell’altro che viene ucciso.
Quasi sempre uccidendo non vediamo nemmeno il suo corpo»,
che rievoca alcuni passi della Casa in collina), amato anche come traduttore e divulgatore della cultura americana ed europea.
Ingrao sembra qui rappresentarsi quale figura dubbiosa, quasi prepolitica, con i suoi dichiarati errori ed i suoi manifesti tentennamenti. Una vita interessante da raccontare: l’infanzia a Lenola, l’adolescenza a Formia e quindi a Roma - dove avviene la rottura col
fascismo e la formazione antifascista -, il lavoro di redattore
all’"Unità", la direzione del quotidiano comunista fino all’ingresso nella segreteria politica del Pci e l’attività di parlamentare, che
lo vedrà prima capogruppo comunista e poi presidente della Camera durante gli anni terribili del terrorismo e del sequestro Moro. Stilos ha incontrato l’autore, per rievocare, attraverso le pagine della sua narrazione, i momenti principali della sua vita.
Nella nota introduttiva al libro lei scrive: «Una delle cose che
mi è piaciuta sempre nella vita, e che avrei fatto senza annoiarmi, è sedermi in un caffé e guardare il fiume di persone
che scorre dalle strade, chiedendosi chi sono o cercando di
immaginare ciò che loro capita o che hanno in animo». Nasce
da qui la sua passione politica?
In certo senso sì. Ma a trascinarmi nella politica furono in realtà
degli eventi terribili degli anni Trenta e del dilagare in Europa della violenza nazifascista. Furono proprio le vicissitudini europee di
quegli anni, straordinarie nella loro tragicità, a segnare un passaggio cruciale per un gruppo di giovani intellettuali romani, sotto lo
stimolo che veniva da Bruno Sanguinetti, figlio dell’industriale
padrone della Arrigoni e diventato comunista in Belgio e in
Francia, dai figli - Antonio e Pietro - di Giovanni Amendola, ammazzato dallo squadrismo fascista. Ma ad influire soprattutto sul
mio orientamento agì l’ascesa del nazismo, la conquista violenta dell’Europa che il Fuhrer aveva iniziato. A partire da quegli
eventi, che cambiarono i libri sul mio tavolo, finirono i miei studi al Centro Sperimentale di cinema e, al contempo, si intensificò
il mio dialogo con i miei coetanei - primo fra tutti Antonio Amendola, ma poi altri ancora - su ciò che succedeva nel mondo. E cominciò per me l’esperienza della cospirazione clandestina.
Proprio in questo senso è interessante leggere le pagine relative alla sua formazione, ai suoi interessi da giovane e, in particolare, la sua passione per la cultura americana ed europea.
Steinbeck, Melville e Chaplin come si conciliarono con la politica statunitense di quegli anni?
Durante la metà degli anni Trenta, già allora da parte mia - ma anche per tanti altri miei coetanei - il rapporto con l’America roosveltiana divenne intenso, legato anche alla mia grande passione
per il cinema (quello di Chaplin, innanzitutto) e per la letteratura
americana, che allora cominciava a giungere a noi giovani grazie
ad alcuni punti focali d’Italia, primo fra tutti la Torino di Cesare
Pavese, aprendo i nostri occhi sul mondo e fornendoci una lettu-
I campi
C della
A geografia
T
A
L
O
G
O
FABRIZIO
BARTALETTI
"Geografia generale"
pp. 174, euro 14
Bollati Boringhieri,
2006
I principi e i campi di ricerca della geografia, per una
equilibrata presentazione della materia come «scienza di
sintesi», sono l’oggetto di studio di questa trattazione di
Bartaletti, docente di Geografia urbana all’università di
Genova. L’opera si divide in due parti: nella prima si
percorre la storia del pensiero geografico, nella seconda
si analizzano i campi di ricerca della geografia appartenenti sia all’ambito fisico-naturalistico che umano.
PIETRO INGRAO
"Volevo la luna"
pp. 371, euro 18,50
Einaudi, 2006
Catone
pagina
ANDREA CARRARO
Memorie personali
una vita sulla breccia
Le memorie di una vita trascorsa sulla breccia della storia politica nazionale, in gran parte attestato sul lato del dissenso: memorie ripercorse non tanto con
il senno del poi ma con il dubbio
del post factum, perché su molte
pagine della nostra vita recente
la storia deve ancora scrivere la
verità. Sicché si tratta di memorie di tipo personale, ciò di cui
l’autore non fa mistero, anzi avvertendo il lettore con nobile
onestà d’animo e intellettuale.
ra nuova dell’America.
Alcune pagine della narrazione della clandestinità sono dedicate a Girolamo Li Causi, che purtroppo è stato ingiustamente dimenticato anche nel suo paese natale, Termini Imerese.
Ha un episodio da poterci raccontare?
Conobbi Li Causi a Milano, subito dopo la caduta di Mussolini e
l’inizio dell’era badogliana. Li Causi era stato incaricato dal partito di seguire la redazione milanese dell’"Unità" che di fatto si riduceva a me e a Gillo Pontecorvo. Incontravo Li Causi per vagliare, correggere o integrare il testo di quel giornale. Eravamo in piena lotta cospirativa ed uscirono sotto la direzione di quel grande
siciliano quattro numeri. Il rapporto umano con lui era molto caldo, d’altronde egli era preso da impegni più importanti, essendo
uno dei massimi dirigenti del partito. Dopo il 25 luglio, mentre cominciava a formarsi in Italia la partigianeria antitedesca, io fui tentato, come tanti altri giovani comunisti di allora, di «andare in
montagna», per dare un contributo - per modesto che fosse - alla
aspra lotta della Resistenza. Mi rivolsi quindi a Li Causi, chiedendogli se potevo lasciare il giornale e andare a combattere nei gruppi clandestini partigiani. Ricordo la pacatezza, la dolcezza con cui
lui mi dette la sua risposta negativa, che era poi fondata su un argomento semplice ma essenziale: siamo parte di una lotta più
grande, i compiti a cui siamo chiamati vengono decisi da una direzione, comunista e più largamente antifascista, e noi dobbiamo
obbedire a questa regola. E poi aggiunse, quasi immalinconito:
«Sapessi quanta voglia avrei io di agire nella mia Sicilia». Un discorso molto affettuoso, e insieme fermo nel rifiutare la proposta
di mutamento.
Nel suo libro trova spazio anche l’eccidio di Portella della Ginestra. Come valuta oggi quella drammatica vicenda?
Portella della Ginestra fu un massacro ignobile e orrendo, compiuto in una conca campestre in cui comunisti e socialisti di quei
luoghi amavano incontrarsi per celebrare in allegria il primo
maggio. A guidare il massacro fu il bandito Salvatore Giuliano, allora legato alla mafia italo-americana e alle forze di estrema destra allora potenti in Sicilia. L’eco che ebbe quel massacro spaventoso fu enorme. Da allora partì un moto delle forze di sinistra, nell’isola e nel Sud d’Italia, che presto divenne largo e incisivo.
Nella grandiosa e terribile svolta della vita dell’Europa che fu
il 1956, l’evento più tragico fu indubbiamente la rivolta di
Budapest. Crede che quella ribellione sia stata l’effetto della
destalinizzazione del XX congresso del Pcus o ritiene che comunque i due fattori si siano mossi parallelamente?
Dopo le rivelazioni di Krusciov sullo stalinismo, era scattato in
Ungheria un moto di popolo che invocava una svolta di libertà e
aveva coinvolto anche un’ala del comunismo che si raccoglieva
attorno a Nagy, come però anche anticomunisti tenaci e dichiarati, come il cardinale József Mindszenty, e al tempo stesso strati diversi dell’intellettualità ungherese e delle classi lavoratrici. La partecipazione popolare alla rivolta ungherese fu anche il riflesso di
quel moto di libertà che le rivelazioni kruscioviane sui crimini di
Stalin avevano alimentato nei paesi dell’Est sotto controllo sovietico: nella Polonia di Gomulka prima di tutto, e poi in Ungheria,
dove agiva anche un dissenso interno nel gruppo comunista legato a Mosca. Presto in tutto il Paese sorse un moto antistalinista, e
si determinò anche una frattura nell’ala comunista legata a Mosca.
I sovietici sciaguratamente risposero a quella crisi politica con la
violenza delle armi, per schiacciare anche quella parte stessa della sinistra magiara che tentava di guidare un’autentica riforma sociale. A Roma nel gruppo dirigente fummo in molti a non afferrare il senso di quella rivolta ungherese. Io, purtroppo - sbagliando gravemente - fui tra questi. Proprio in quei giorni, con roboanza cruciale, scrissi per "l’Unità" un editoriale, che si intitolava «Da
una parte della barricata», schierandomi contro le forze nuove che
scendevano in lotta per la libertà dell’Ungheria. Fu un errore grave di cui serbo un ricordo ancora cocente.
I «fatti d’Ungheria», come vennero chiamati da Togliatti, aiutarono tuttavia il mondo comunista a comprendere la drammaticità dell’altra repressione, quella del 1968 in Cecoslovacchia.
Assolutamente sì. Nel 1968 eravamo già andati avanti nella critica all’Urss. Eravamo in un’altra stagione politica. Io stesso
partecipai alla riunione che si svolse quella notte fatale, in cui
Sorprese
dei
testamenti
SALVATORE
DE MATTEIS
"In piena facoltà"
pp. 207, euro 14
Mondadori, 2006
Lungi dall’essere macabro questo catalogo «funebre» ha
dei risvolti tragicomici e comunque rivela un aspetto inedito del post mortem. Quel che la gente scrive nei testamenti olografi, redatti «in piena facoltà», riguarda vendette, tradimenti, denaro, capricci, confessioni anche
contro il volere dei parenti. Scritti e firmati di pugno dal
testatore, riportati nell’originale, tutti rigorosamente veri, costituiscono una sorta di Spoon River nostrana.
giunse l’annuncio dell’invasione sovietica, e nella quale decidemmo di prendere immediatamente posizione contro l’invasione sovietica. Togliatti già si era spento, e Longo, allora segretario del
Pci, era lontano dall’Italia in vacanza in Urss. I presenti a Roma
in quella notte - io, Cossutta, Reichlin, i redattori dell’"Unità" non fummo inerti. Quando, a notte avanzata, giunse alla redazione dell’"Unità" la conferma dell’invasione di Praga, non avemmo
esitazioni. E anche se non riuscimmo a parlare con il segretario del
partito, demmo alla stampa un comunicato che esprimeva la netta condanna - da parte del Pci - dell’aggressione venuta da Mosca.
Era la prima volta - credo - che sui comunicati italiani veniva una
condanna così dura di un atto sovietico.
Arriviamo al 1964: la scomparsa di Palmiro Togliatti e il memoriale di Yalta, scritto poco prima di morire e per certi versi ancora enigmatico. A distanza di tanti anni, quale idea si è
fatto sul significato di quel documento e sulle sue finalità?
Quel memoriale togliattiano non era enigmatico: voleva essere
chiaramente un tentativo per stabilire un dialogo più diretto con
Kruscev, per costruire una continuità di colloquio che permettesse anche di superare le divergenze fra i dirigenti sovietici, i cinesi e i titini, che erano nuovamente in rottura con Mosca. Ma la
morte stroncò quel tentativo. E presto vennero nuove gravi tensioni fra Mosca e la Cecoslovacchia di Dubcek.
Nelle ultime pagine della sua narrazione lei descrive le tragiche ore del rapimento di Aldo Moro. Non nutrì mai perplessità di tipo umanitario circa il vostro atteggiamento di assoluta fermezza?
Allora no. Mi schierai in favore della linea della difesa dello Stato
e delle sue istituzioni. Anzi scrissi una lettera che conservai nel mio
cassetto. Era rivolta a mia moglie Laura: esigeva, nell’ipotesi di un
mio rapimento - tutti eravamo esposti alle mosse dei brigatisti- che
anche se dalla prigionia avessi chiesto che si agisse per un compromesso con i miei rapitori bisognava respingere la mia richiesta e
mantenere di fronte ai terroristi una linea di assoluta intransigenza.
Oggi forse scriverei cose diverse: allora, probabilmente, si poteva
avere un atteggiamento che salvasse la vita di Moro e poi riprendesse con ancora più vigore la lotta contro i brigatisti. Peraltro, non
sono convinto che sull’«affaire Moro» ancora oggi sia emersa tutta la verità. Ancora non mi è chiaro, ad esempio, il famoso episodio di Gradoli: il dispiegamento di forze messe in campo per perquisire quel piccolo paese dell’Italia centrale e, invece, la totale assenza di controlli nella via romana che portava quel nome.
Nella prima parte del libro lei scrive del valore antifascista e
democratico della scuola, e fa riferimento al liceo che frequentò, nel quale insegnarono alcuni dei quadri antifascisti
che diversi anni più tardi saranno coinvolti nella lotta partigiana. Quali furono gli stimoli che riuscirono a fare maturare in quei giovani maestri la sensibilità nei confronti della democrazia e della libertà?
Durante il regime fascista ci furono nei licei degli insegnanti coraggiosi che si servirono della cattedra scolastica per stimolare la
lotta antifascista. A Roma il liceo Visconti, ad esempio, ebbe professori che agivano coraggiosamente dalla cattedra per educare i
giovani alla libertà. Da quella scuola difatt, venne fuori tutta una
leva di giovani antifascisti: Bufalini, Pietro Amendola e altri ancora. Anche nel liceo di Formia in cui io studiai - il Vitruvio - incontrai due figure carissime di giovani insegnanti di storia e filosofia: Pilo Albertelli e Gioacchino Gesmundo. Purtroppo finirono poi nelle carceri naziste di Roma e furono assassinati nel massacro delle Ardeatine. Quando ritorno sul luogo dell’eccidio, è
sempre per me una grande emozione rivedere nella selva degli assassinati dai nazisti, i volti spenti e morti di quei miei due maestri.
Non ebbe mai dubbi sulla legittimità dell’attacco partigiano
in Via Rasella, che lo provocò?
Assolutamente no. Eravamo in guerra contro gli invasori del nostro Paese, massacratori del nostro popolo. E la barbarie della risposta nazifascista a quell’attacco di via Rasella - l’eccidio delle
Fosse Ardeatine - è una conferma clamorosa del livello a cui giunse la ferocia nazista. Se penso a quel massacro - più volte sono tornato al sacrario che ricorda quell’eccidio - provo ancora una grande emozione, scrutando quella lunga selva di morti, e i volti immoti di quei due maestri che avevano contribuito a educarmi alla libertà, e che proprio alle Fosse Ardeatine avevano perso la vita.
Universo
chiamato
famiglia
LUCA RICCI
"L’amore e altre
forme d’odio"
pp. 141, euro 11
Einaudi, 2006
Ventuno racconti per disegnare un’etologia del quotidiano vivere incentrato sui rapporti di coppia, d’amore e
d’odio. L’autore esplora nel chiuso di camere matrimoniali e negli interstizi di rapporti apparentemente tranquilli, cammina sul campo minato di relazioni che sfociano in incubi quotidiani, punteggiati da dispetti, vendette, conflitti, aggressività pronte ad esplodere in quell’universo domestico chiamato famiglia.
LO SGUARDO DI SITI
Sul libro di Walter Siti Troppi
paradisi (Einaudi) si è già detto
molto. Lo scrittore Nicola Lagioia lo ha definito «il più bel libro italiano degli ultimi anni», o
qualcosa di simile. Goffredo Fofi lo ha elogiato su "Internazionale": «Quel che nei libri precedenti c’era di compiaciuto ed esibito, anche nell’autodenigrazione, qui è depurato e finalizzato;
l’"autobiografia contraffatta" serve a raccontare il mondo, partire
da sé è un terreno di esplorazione e di giudizio». È vero, non c’è
compiacimento alcuno, non è
questo il problema. Il problema,
squisitamente letterario, è che
Walter Siti conosce benissimo la
televisione e ne sviscera l’irrealtà
e la falsificazione con piglio da
sociologo e da antropologo. Ma
la narrazione di rado prende quota. Siti ci racconta di un sacco di
vip e vippetti, per esempio la
conduttrice D’Eusanio, coi suoi
salotti taroccati, ci mette dinanzi
a una quantità di aneddoti, anche
da corridoio, i flirt di questo e
quello, le sveltine, i ricatti, i magheggi sotterranei per le carriere,
ed è una sostanziale immoralità
che regola i rapporti umani fra
coloro che lavorano nella televisione (ma altrove la solfa non è
molto diversa).
Tuttavia non è quasi mai uno
sguardo da narratore quello di
Siti; manca, a mio parere, proprio quel «movimento romanzesco» di cui ha parlato Lagioia
per protestare contro l’accusa di
narcisismo destrorso che gli avevano lanciato Di Mauro e Cordelli dalle colonne di "Alias".
D’accordo, non confondiamo le
idee dell’autore con quelle del
personaggio romanzesco, Lagioia in questo ha tutte le ragioni.
Ma qui non c’è abbastanza selezione, gli eventi non acquistano
quasi mai spessore drammaturgico. Certo, il libro è bello quando
il personaggio racconta spietatamente lo squallore piccoloborghese dei genitori, o la morte del
padre, sono efficaci certi dialoghi
a due fra il protagonista sessantenne e il suo giovane compagno
(anche se talvolta non si capisce
chi dei due parli), è autentico e
straziante Siti quando ci mette
di fronte al disfacimento dei corpi che invecchiano. Ma sono isole fra teorizzazioni faticose sull’Occidente narciso e corrotto e
sequenze di aneddoti ripetitivi
nella sostanza e quasi irrelati.
D’accordo, lo stile di Siti, coerentemente con l’assunto filosofico del libro, tende a omologare
gli eventi dando a tutti la stessa
importanza.
Il problema è forse personale,
nel senso che non riesco a considerare in modo così totalizzante
l’universo televisivo. Mi chiedevo poi se l’indice di gradimento di questo libro presso un
certo ceto intellettuale sarebbe
stato il medesimo qualora la voce narrante fosse stata di un etero e non di un omosessuale. Si
dirà, queste sono problemi d’altri tempi, da anni cinquanta, c’è
stato Pasolini, c’è stato Sandro
Penna, c’è stato Tondelli, c’è stato Arbasino e c’è stato Busi...
Ma qui c’è un sovrappiù di sfacelo fisico, la vecchiaia che incombe. E allora un gay pingue e
sessantenne, impastoiato nel
magma della tivù, ci sembra
davvero, in epoca postmoderna,
tanto trasgressivo e à la page. A
un certo punto nel libro il narratore rende un tributo (omaggiosberleffo) ad Alberto Arbasino,
che lo tratta con snobistico e incomprensibile disprezzo. Macroscopico errore: perché per
molti versi il romanzo di Walter
Siti è proprio arbasiniano per la
chiacchiera giocata su registri
frivoli, colti e spregiudicati e anche per come ambisce «a racchiudere, a rimescolare, l’intera
contemporaneità» come afferma la bandella di copertina.
INES TESTONI
ASSOCIATO DI PSICOLOGIA SOCIALE ALL’UNIVERSITÀ DI PADOVA. "PSICOLOGIA DEL NICHILISMO" (1997), "IL DIO CANNIBALE"
(2001), "IL SACRIFICIO DEL CORPO"
(2002)
D
i Emanuele Severino è
uscito l’ultimo libro della trilogia che, assieme a
Dall’Islam a Prometeo
e Nascere, considera alcune forme essenziali della fenomenologia con cui attualmente appare il
tramonto del pensiero tradizionale e lo
sviluppo della tecnica proiettata verso
la costruzione del proprio paradiso. Il
muro di pietra è infatti un’opera in cui
vengono riprese le argomentazioni
che mostrano come la cultura sia la
base del potere e come attraverso il
dominio della filosofia esso raggiunga
la sua espansione massima. Oggi che
l’identità tra potere e volontà di potenza si manifesta in tutta la sua portata
violenta grazie proprio alla riflessione
di Severino, riteniamo che non possa
passare sotto silenzio l’importante
coincidenza tra questa sua pubblicazione e il richiamo da parte di Papa
Ratzinger - risonante come un’intimazione in tutti i messaggi mediatici
italiani, durante la vigilia della commemorazione della caduta delle Torri
gemelle - rivolto agli occidentali affinché abbandonino il cinismo che tanto
spaventa coloro che invece credono in
Dio. Anche se la massima autorità vaticana ben si è guardata dall’essere
esplicita rispetto al perché parlare proprio in questi termini il 10 settembre
(in Sicilia dicono «la meglio parola è
quella taciuta») purtroppo il messaggio protrettrico, che se fosse stato
semplicemente asserito da un antropologo o da uno psicologo sociale in un
qualsiasi articolo avrebbe potuto risultare addirittura banale, esposto da un
Papa quel giorno di domenica ha risuonato come una severa minaccia: se
non credi in Dio, succede quel che è
successo a New York cinque anni fa,
in scala mondiale, viste le attuali corse agli armamenti nucleari di taluni
paesi molto credenti e molto ricchi
grazie al petrolio.
Poiché il pragmatismo occidentale la
fa da padrone nella mentalità del senso più comune, al quale queste parole
sono rivolte, o il Papa è un ingenuo oppure è scaltro e sa benissimo che la base della fede è il terrore, come mostra
Severino e come, più limitatamente,
confermano eminenti ricerche empiriche psicosociali. Dunque bisogna spaventare la popolazione per riempire le
chiese. Certo se così fosse il messaggio d’amore, con questa semplice asserzione da senso comune, sarebbe
tradito nel più profondo della propria
struttura cristiana dalla massima figura spirituale che se ne fa portavoce,
perché viene in questo modo affermato che è la paura ciò che muove alla
preghiera e a Dio, e quanto più essa è
forte tanto più l’anima si sente rapita
dall’argomentum non apparentium,
pronta ad attribuire potere a chi sembra
che sappia che cosa siano i non apparentia. Certo suona come una sfida infine l’infallibile citazione contro l’Islam pronunciata in terra bavarese,
quasi a voler creare le condizioni oggettive per dimostrare, nel caso non
l’avessimo ancora capito, che siamo
tutti seduti su una polveriera: basti infatti vedere come reagiscono i musulmani a semplici battute che mettano in
questione il loro Dio. Ben altre critiche
sopporta il cattolicesimo!
Se per un verso una tale sortita non
può esser annoverata tra quelle che risplendono tra le strategie per promuover la pace e la nonviolenza, per l’altro ci conferma che ormai ci siamo lasciati accerchiare dalla violenza di
una fede con cui credevamo di aver
già chiuso i conti. Ma in guerra, infatti si sa, i luoghi di culto sono sempre
gremiti e l’appello a Dio, al quale ogni
soldato più o meno scaramenticamente si rivolge prima di sfidare la sorte,
ha sempre avuto il potere di muovere
gli eserciti. Dunque per un verso convertire l’Occidente alla fede, come
parallelamente intima anche Al Qaeda, è ciò che può evitare la guerra, salvo poi mandare su tutte le furie i fratelli fedeli orientali perché costringano il
mondo cristiano all’autodifesa. Ora
al bravo pragmatista occidentale, che
ha poca voglia di vedersi abbattere i
più attuali luoghi di culto in cui si celebra l’adorazione di qualsiasi simbolo del potere e della garanzia di egemonia, del simbolo sacro a quello economico, o di trovarsi paralizzati i mezzi di trasporto essenziali per mantenere i ritmi di produzione del progresso
tecnologico stabilito, ha solo un’incognita da risolvere: poco importa il credere o no in Dio, se questo garantisce
il mantenimento degli equilibri inter-
EMANUELE SEVERINO . Se gli studi di psicologia sono arrivati a riconoscere
la matrice violenta della fede non sanno però stabilire perché sia così. E
questo è ciò che discute la filosofia di Severino, il quale, a proposito della crisi
delle certezze tradizionali occidentali, usa la categoria della necessità
IL LIBRO
EMANUELE
SEVERINO
"Il muro di pietra"
pp. 204, euro 19
Rizzoli, 2006
Dove comincia
il tramonto?
Si completa la trilogia incentrata sulla tradizione filosofica, che al suo terzo libro arriva
al «tramonto». Una impietosa
e acuta ricerca della verità tra
religione, teologia, episteme e
filosofia.
Se a sostegno della fede
può insediarsi il terrore
L’ I N T E R V I S T A
Com’è difficile trovare chi possa abbattere i muri di pietra
GIANNI BONINA
I
n questo libro Severino torna a insistere sui temi della fede e della verità, non senza implicazioni letterarie. Stilos lo ha intervistato.
Lei è ateo?
Sia l’ateismo sia la negazione dell’ateisimo appartengono all’alienazione della verità, alla sua negazione. Voglio
dire che la critica che muovo nei miei libri a Dio e alla fede in Dio o al concetto di Dio è di segno opposto rispetto all’ateismo riduzionista che dice che la vera realtà è
questa, di questo mondo sperimentale, e che Dio è un sogno troppo grande da cui dobbiamo liberarci. No, il mio
discorso guarda proprio all’opposto: Dio è un sogno
troppo piccolo di cui dobbiamo liberarci: cioè la dimensione della verità è qualcosa di infinitamente più ampio,
più profondo che non tutti gli dei che sono stati evocati
dai mortali a partire dagli dei arcaici fino al dio del cristianesimo o dell’islamismo. L’ateismo come la sua negazione sono negazione della verità, perché hanno la
stessa anima: credono che l’essere sia di per se stesso
nulla. Sia un ateo come Leopardi, il quale dice che tutto
esce dal nulla e tutto ci finisce, sia colui come Francesco
d’Assisi che dice che c’è un dio che crea il mondo e che
salva dal nulla, hanno la stessa anima perché entrambi
credono che le cose prodotte o no da un dio escano dal
nulla e tornino nel nulla. Perché le cose escano e ritornino nel nulla per l’uno c’è bisogno di un dio creatore e distruttore e per l’altro non c’è bisogno di nessun dio. La
posizione leopardiana appartiene a uno dei momenti accomunati dalla stessa Follia. Ho lavorato a lungo su Leopardi da considerarlo uno dei pochissimi rappresentanti più rigorosi della Follia, di coloro che affermano e negano Dio.
Da Leopardi si va a Dostoevskij e quindi a Nietzsche.
E poi a Gentile. È questa la sequenza di coloro che sono
radicali nella negazione del muro di pietra, cioè di un ordine immutabile, divino, eterno.
Nella sua visione manca però Kierkegaard a fare da
contraltare.
Manca in questo libro ma non in altri. Del resto Kierkegaard appartiene agli «amici di Dio» e non è che sfugga
al discorso che abbiamo fatto.
Siccome a un certo punto dice che per trasformare il
nulla in essere occorre la libera grazia di un dio...
Lo dico per descrivere la Follia di coloro che credono in
un dio senza il quale non ci potrebbe essere la trasformazione del nulla nell’essere. Non lo dico in proprio. Quel
che io intendo mostrare è la coerenza dello sviluppo che
porta alla Follia dalla sua forma meno rigorosa per
quanto potente, e che si presenta all’inizio del pensiero
occidentale, alla sua sua forma pià rigorososa qual è
quella presente in Leopardi, Nietzsche e Dostoevskij.
Rappresentare la coerentizzazione progressiva della Follia non significa essere amici della Follia ma semmai una
negazione della Follia nichilistica.
Se oltre il muro di pietra c’è il caos, la vita indicata da
Nietzsche, Cristo sta con il caos? Lei dice di sì perché
sta al di là della «rete» e cioè del principio aristotelico di non contraddizione.
In Dostoevskij agiscono più livelli. Primo livello è il suo
pensiero su qualcosa. Poi c’è la riflessione su questo
qualcosa, la critica al muro di pietra, secondo livello, che
è la contemporaneità. Terzo livello è lo sfondo, che consiste in ciò che chiamo «destino della verità».
E poi in Dostoevskij c’è il «mare», ciò che sfugge a
ogni «rete» e che implica la cristicità.
Dostoevskij si illude di potere evocare una dimensione
che sfugga a ogni rete; e per lui questa dimensione è appunto Cristo - mentre per Nietzsche è il caos, per Karl
Barth l’assolutamente altro, per il neoplatonismo è l’Uno che sta al di là di qualsiasi rete concettuale. Ebbene
questa è una millenaria illusione, perché «l’amico del
mare», chiamiamo così Dostoevskij, se gli si chiede se il
mare sia rete lui risponde che no; ma quando dice che il
mare è mare se ne esce con quella sua rete che Aristotele aveva chiamato il principio di non contraddizione.
Quindi il modo di sfuggire a questa super rete non c’è,
perché nell’atto in cui «l’amico del mare» ci tiene che il
mare non sia rete in quell’atto stesso abbiamo l’«esser
sé» del mare.
Lei assume il Dostoevskij sia delle Memorie del sottosuolo che dei Fratelli Karamazov.
Ci sono vari aspetti in Dostoevskij. Mentre Leopardi è lineare e perentorio nella distruzione del muro di pietra,
Dostoevskij non lo è altrettanto. Se dovessi fare una graduatoria direi che i pochissimi che sanno abbattere i muri di pietra sono Leopardi, Nietzsche e Gentile. Dostoevskij è quanto mai rilevante perché si avvicina alla
radicalità della distruzione di questi pochi protagonisti
della negazione della tradizione occidentale. C’è il Dostoevskij che dice che anche se la verità dicesse l’opposto di quello che dice Cristo lui starebbe con Cristo. Anche qui si impantana in contraddizioni: quando dice di
scegliere Cristo, se gli chiediamo perché non possa scegliere insieme la verità e Cristo vediamo che credendo di
liberarsi dai muri di pietra si appoggia al più solido di
questi muri irto all’interno della cultura occidentale.
Poi c’è il Dostoevskij dei Fratelli Karamazov e del
"Grande Inquisitore". Qui abbiamo un chiarimento di
quanto dicevo all’inizio, cioè del perché amico e nemico di dio hanno la stessa anima: il «Grande Inquisitore»
parla dello spirito della negazione, della morte del non
essere con il quale si è alleato: ora, o si intende un Cristo
che non abbia nulla che fare con la Trinità cristiana dove il verbo è il creatore del mondo e il distruttore quando sopraggiungerà l’Apocalissi - e allora non capisco più
cosa vuol dire la parola Cristo nel discorso di Dostoevskij; o invece Cristo è coinvolto nel concetto trinitario per
cui il verbo è creatore e distruttore del mondo - e allora
viene fuori che ha la stessa anima di quel Satana con cui
il «Grande Inquisitore» si allea e che è lo spirito della negazione, del non essere, della morte.
Se il mito è la fede nel divino e la filosofia è la risposta al terrore terreno, perché lei antepone il mito alla filosofia?
Perché il mito è la prima forma di rimedio contro il terrore della morte. Quando non basta più l’invenzione mitica ecco che sboccia la filosofia.
Dunque prima l’uomo osserva, contempla, racconta
e poi pensa?
No, il mito viene prima della filosofia perché è il rimedio contro la morte, poi la posta in gioco diventa troppo
alta perché ci si accontenti del rimedio mitico contro la
morte e allora occorre il rimedio vero: ed ecco il riferimento a quella verità in cui consiste la filosofia. Per pensiero non dobbiamo intendere il pensare, perché anche
l’uomo mitico pensa al terrore del mondo. Per pensiero
filosofico dobbiamo intendere la verità in senso forte, il
pensiero incontrovertibile, secondo il significato di incontrovertibilità che prima della filosofia non c’era. Sono stati i Greci a evocare il concetto di un sapere che non
possa essere smentito né da uomini né da dei né da cambiamenti di idee e costumi.
Quindi il muro di pietra non nasce con Dostoevskij
ma con la filosofia.
Certo. Il muro di pietra è la pretesa di un sapere incontrovertibile che non riesce a reggere perché è una pretesa
fondata sulla convizione dell’uscire e ritornare nel nulla da parte delle cose. Vuole essere un sapere incontrovertibile del divenire creativo e distruttivo delle cose e ha
in sé la Follia. Per questo i Greci parlano di «epistéme».
Molto presto ho introdotto nel linguaggio la parola «destino» per indicare ciò che riesce a essere quell’incontrovertibile che invece il muro di pietra dell’«epsistéme»
occidentale non ha saputo essere.
Nella foto Emanuele Severino, autore per Rizzoli di
Il muro di pietra
nazionali - il problema urgente da risolvere è stabilire a quale religione
convenga mostrare di dare il proprio
consenso e sperare che questa guadagni una qualche forma di maggioranza tanto da ripristinare una qualche
forma di rappresentazione del futuro
che non sia la guerra totale…
Ma i prodromi che hanno riportato la
vertigine del dilemma nel pensiero
dell’utilitarista grazie a discorsi religiosi sono iniziati all’esordio del fatidico mese di settembre, allorché il Papa ha parlato di tre cause che in passato hanno indebolito la chiesa, la quale
invece sopravviverà anche all’attuale
forte cinismo occidentale, e sono il
marxismo, il nazismo e il femminismo. Forse può sembrare una qual forma latente di riconoscimento della parità culturale tra generi paragonare l’enormità dell’orrore determinato da
Stalin e Hitler a quello di… chi citiamo - Simone de Beauvoir, forse? E
detto in questi tempi in cui in nome di
Dio si uccidono figlie e si lapidano
adultere, mentre simultaneamente in
forma più prosaica si violentano donne in tutti gli angoli di strada, certo fa
venire in mente che dobbiamo fare i
conti con un’altra guerra, quella appunto mai risolta di genere, destinata
alla vittoria di tutta la Weltanschauung
maschile determinata a volere che il
mondo possa continuare a esistere come è esistito fin qui se si trova il modo
per riportare le donne alla ragione prefemminista. Quindi anche per le donne ora significa dover stabilire a quale
monoteismo sia meglio che il proprio
marito appartenga e dato che la riduzione del danno è una soluzione che
funziona bene dal punto di vista pratico, cedendo alla minaccia è probabile
che in Occidente torniamo ad avere le
chiese gremite di donne con il velo in
testa anziché con il burka ovunque. Se
gli studi di psicologia sono arrivati a riconoscere la matrice violenta della fede non sanno però stabilire perché sia
così. E questo è ciò che discute la filosofia di Emanuele Severino, il quale, a
proposito della crisi delle certezze tradizionali occidentali non si limita ad
usare la banale definizione di cinismo,
bensì la ben più difficile e complessa
categoria della necessità. Partendo da
tale «necessità» viene dunque in evidenza quanto cinico sia qualsiasi appello alla conversione pronunciata da
un’autorità che, muovendo la paura e
aumentando il rischio che ciò che è temuto diventi realtà, evochi la possibilità di non dover pagare il prezzo della propria laicità.
La novità de Il muro di pietra consiste
nel riconoscere, similmente a Leopardi,
sebbene in misura minore, in Dostoevskij la statura del poeta capace di essere filosofo, perché uno dei maggiori
interpreti dell’ultimo tratto che conduce l’Occidente dalla tradizione all’essenza del nostro tempo. Il centro di
questa essenza consiste nel vedere la
necessità della negazione di ogni certezza e verità assoluta, ovvero di qualsiasi immutabile. Messi in relazione
alle imprescindibili tematiche della
morte di Dio di Nietzsche e del conseguente senso dell’esistenza di Heidegger, i temi dei lavori dello scrittore russo considerati, principalmente Le memorie del sottosuolo e I fratelli Karamazov, risultano strategie di fuga per
superare, scavalcare, eludere un «muro
di pietra che ti sputa in faccia» - espressione tratta dal primo scritto - impedendo il proseguimento del cammino. Secondo l’analisi di Severino, si tratta di
una figura metaforica che serve a richiamare i muri che i Greci costruirono
come roccheforti per difendersi dalla
paura e che ora sono diventati prigioni
che sbarrano la possibilità di movimento, e poiché sono eretti sulla sabbia
della fede nel divenire, sono destinati al
cedimento, quello cui stiamo assistendo inermi non in quanto cinici miscredenti ma in quanto sgomenti spettatori.
Ma il passaggio che noi qui vogliamo
evidenziare è la ripresa - e lasciamo al
lettore in compito di delibarne l’analisi - da parte di Severino del celebre
personaggio del «grande inquisitore»,
de I fratelli Karamazov, ovvero della
figura del cinico assoluto; di colui che
manteneva l’ordine sociale svolgendo
scrupolosamente il lavoro del
Sant’Uffizio con persecuzioni, processi e conseguenti autodafè; di colui
che, incontrato Cristo in carne e ossa,
ha preteso da lui che tornasse a nascondesi perché se si fosse mostrato
ancora avrebbe portato scompiglio tra
le gente e dunque nulla lo avrebbe
salvato da una nuova morte violenta:
quella del rogo. E se non possiamo sapere se il Papa sia ingenuo oppure
scaltro, certo non possiamo credere
che sia ignorante. Allora viene da
chiedersi: che cosa ancora impedisce
a chi è uomo di potere grazie alla cultura di prendere sul serio la filosofia?
pagina
5
Ossigeno
S t los
autori
italiani
BENEDETTA CENTOVALLI
L’EREDITÀ CORTI
Nella sala Manganelli - università di Pavia - avvolta dal buio
delle ombre e dal silenzio, un rumore improvviso che proviene
dal cortile sforzesco come un
soffio di vento scuote una figura
minuta china su un tavolo ingombro di fogli, poi finalmente il
campanello rischiara la situazione, è il bidello Rocco alla porta:
«"Oh cribbio, non dovrebbe stare qui sola a queste ore." / "Lavoravo e non mi sono accorta dell’ora." / "Cosa continua sempre a
leggere e a scrivere?" / "Questa,
Rocco, è una domanda che è stata già fatta ad altri scrittori." / "E
cos’è che hanno risposto questi
altri scrittori?" / "Che non sanno
fare altro"».
Nel reticolo dei testi di studio e
dei testi narrativi Maria Corti ha
disseminato una sorta di macroautobiografia mentale, una
mappa della sua personalissima
ricerca creativa che negli anni è
diventata sempre più precisa e
mirata. La tirannia del tempo è
stata addomesticata e messa al
servizio di un ordine prefigurato.
Al caos e alla casualità degli
eventi è subentrata la necessità di
un destino che prende forma proprio dal trascorrere del tempo,
dal suo consumarsi, dal suo trasformarsi in altro disegno. Maria
Corti ci ha lasciato un bagaglio
complesso di opere da decifrare
anche nel loro insieme, bagaglio
in cui è impossibile scindere davvero la studiosa attrezzatissima,
la filologa compiuta dalla narratrice libera, dall’esercizio dell’invenzione che indipendente
trova i suoi percorsi personali e
privati. Dal saggio dantesco al
romanzo la sua voce resta invariata, ci sono elementi dell’uno
che si trasferiscono nell’altro,
traslocano, si cambiano d’abito,
nella rintracciabilità di una matrice unica e inconfondibile.
Negli ultimi anni ha riconquistato spazio la vocazione narrativa,
quella a cui Maria Corti parrebbe
affidare il suo testamento spirituale e la sua immagine pubblica
più cordiale. Saggista affilata e
erudita, della Corti è impossibile
non ricordare lo scatto dell’intelligenza unito alla carica di un
umanissimo sapere. Nei suoi lavori si accende sempre la scommessa di una comprensione più
ampia, la propensione a un dialogo possibile, l’esercizio di una
seduzione intellettuale che deve
però trovare le sue ragioni nella
conoscenza e in un’etica della
ricerca («le due motivazioni che
San Bernardo attribuiva al sapere: per apprendere, segno di
umiltà; per insegnare, segno di
carità»). La stessa inclinazione
all’attualità, il tentativo costante
di leggere il proprio presente e lo
sguardo interrogativo e curioso
verso le nuove generazioni, tengono vivi e pulsanti i suoi studi,
tolgono polvere e distanza anche a lavori all’apparenza destinati a più che selezionati esperti.
Ombre dal Fondo (Einaudi,
1997), Catasto magico (Einaudi,
1999) e Le pietre verbali (Einaudi, 2001), ultimi libri creativi della Corti, si configurano quasi come una trilogia sospesa tra memoir, saggio e racconto. Narrazioni che praticano la prima o la
terza persona, premono il pedale
di una scrittura saggistica, ne
controllano il limite, lo tengono a
registro. La «memoria» delle
Carte, il mistero fabuloso e germinativo dell’Etna, il Sessantotto visto attraverso la rivoluzione
linguistica dei suoi protagonisti,
appaiono come occasioni narrative prestate a riflessioni e esperienze non finzionali che ruotano
intorno all’universo creativo e in
continua espansione della Corti.
Punti luminosi di un suo tragitto
che sempre muove dal reale al
mentale, legato com’è «al tocco
giusto dell’occhio, che interiorizza, interpreta e quindi riscrive».
6
differenza di ciò che
pensa l’autore, a me
sembra che Olive comprese non sia tanto un
nuovo libro, quanto un
libro nuovo rispetto al passato, da cui
per molti versi si disancora. Infatti, la
coralità della storia si accresce visibilmente: è vero i romanzi di Andrea Vitali sono stati sempre corali. Ma in essi si individuavano i protagonisti, e
Bellano e il lago erano quello che nelle tragedie classiche è il coro.
Qui, invece, è il coro il protagonista, e
all’interno di esso ogni tanto una voce
solista fa sentire la sua voce. Inoltre,
emerge prepotentemente un inatteso
risvolto onirico e surrealistico. Prima
in modo seminascosto, poi con sempre maggiore forza e compiutezza. Si
tratti di giocare al lotto i numeri di una
delle tante piccole e grandi tragedie
che si verificano a Bellano, sia che si
tratti dei sogni della povera signora
Dilenia Settembrelli e della sua amica
Eufrasia Sofistrà.
Mano a mano che la storia va avanti
l’onirico si trasforma in surreale, alla
maniera dei grandi francesi, da André
Breton a Paul Eluard a Louis Aragon,
a cui peraltro non fa il verso, avendo
una propria spiccata autonomia stilistica e narrativa.
A dispetto di quanto sostiene Antonio
D’Orrico, la cui lettura di Olive comprese è stata probabilmente affrettata e
viziata dalle sonorità del passato, qui
non c’è per nulla di Piero Chiara, c’è
dell’altro. In qualche modo si intravvedono, oltre all’epifenomeno surrealista, elementi narrativi di sostanza,
quelli che, negli ultimi tempi, ho trovato solo in Houellebecq, cioè l’ipogeo esistenzialista, che torna con vigore in una letteratura spenta dai narcisismi baricchiani. Olive comprese, in
definitiva, è un romanzo neoesistenzialista, ma, a differenza delle opere di
Houellebecq, non è affatto un romanzo reazionario, smentendo in tal modo
l’idea serpeggiante che l’esistenzialismo dei nostri giorni non potesse che
essere retrivo e reazionario.
Le molte perplessità, che mi si erano
affacciate leggendo un testo di questo
genere, derivavano forse dalla pigrizia
del lettore al sentire una musica diversa da quella attesa, e ormai risultano
quindi spazzate via dalla riflessione
sul romanzo di Vitali, ripassato come
una ampia e succosa antologia, prima
di manifestare un’opinione convinta e,
spero, convincente.
Ho incontrato Andrea Vitali nella sua
casa di Bellano. Adagiata sulla collina
a Est del lago, la sua abitazione è costruita in modo da poter godere nel
modo più completo della vista dello
specchio d’acqua: ora ridente, ora corrusco, mai statico, immobile o spento.
Un piccolo mare, in cui l’agitazione
del vento che spira violento dalle forre che lo sovrastano, mai riesce a provocare i cavalloni di un Grecale, il
vento che in pochi attimi dà al mio Ionio i connotati tempestosi, di cui parla già Omero nell’Odissea. Un piacere vero chiacchierare con Andrea Vitali, davanti a un bicchiere di generoso
vino valtellinese e a un piatto di speck.
Della nostra conversazione riporto pochi brani, quelli che mi sembra possano interessare di più i lettori.
Un nuovo romanzo, Andrea Vitali, o
un romanzo nuovo?
Io direi un nuovo romanzo. O, perlomeno, non mi sono accorto dell’eventuale novità. Come al solito, pescando
questa storia, mi sono preoccupato di
raccontarla al meglio approfittando
via via delle opportunità narrative che
mi ha offerto, due delle quali sono la
visionaria Dilenia Settembrelli e la
sua degna compare Eufrasia Sofistrà.
La vera novità ci sarebbe stata se il
teatrino su cui la storia è inscenata
non fosse stato il solito, invece sono
ancora lì, avvinghiato all’unico protagonista seriale cui resto fedele, il luogo e la sua geografia.
Mi sembra che la follia, come elemento normale della vita quotidiana, sia la scoperta di questa costruzione narrativa. Un fattore permanente e sottostante in tanti rapporti familiari, sociali, ideali. Una follia
quieta e talora prorompente, anche
violenta, ma non violentissima, accettata e subita dalla piccola collettività che lei mette in scena... Vuole
aggiungere qualche considerazione?
La follia, ma anche la semplice esuberanza, l’originalità, come viene chiamata ogni manifestazione che vada
La storia patria
mercé il romanzo
ANDREA VITALI
"Olive comprese"
pp. 452, euro 16
Garzanti, 2006
DOMENICO CACOPARDO
Nella foto Andrea Vitali che da Garzanti ha pubblicato
Olive comprese
L’ A U T O R E
IL LIBRO
VIVE A PARMA. CONSIGLIERE
DI STATO. ULTIMO TITOLO
"L’ACCACDEMIA DI VICOLO
(BALDINI,
BACIADONNE"
2005)
A
S t los
autori
italiani
pagina
Medico condotto di Bellano,
Andrea Vitali si è fatto conoscere nel ’90 vincendo il premio Montblanc per il romanzo
esordiente, con Il procuratore.
Quel libro è visto oggi come la
prima pietra della cosmogonia
nella quale Vitali si trova impegnato da anni ricostruendo, sul
piano dell’invenzione letteraria, la storia del suo paese: una
storia circoscritta a una speciale epoca, gli anni tra le due
guerre, specie i Trenta, quelli
più paciosi e tanto poveri di
storia ufficiale quanto ricchi di
vicende private. A Bellano Vitali ha anche dedicato saggi di
ricerca storica, ma è soprattutto nel romanzo che ha ricercato il filo della narrazione tra
realtà e immaginazione. Sono
così venuti titoli quali Una finestra vistalago (2003), La signorina Tecla Manzi (2004) e
La figlia del podestà (2005), da
aggiungere alla raccolta di racconti L’aria del lago (2001) e ai
romanzi più datati nel tempo:
Il meccanico Landru (1992) e
Un amore di zitella (1996).
La pantomima
dell’Italietta
Romanzo corale e polifonico,
com’è nella cifra dell’autore
comasco, Olive comprese ricrea la Bellano degli anni
Trenta sorprendendola in un
particolare stato soporifero,
sotto la guazza del quale si
svolgono esistenze quotidiane e
minimaliste, vicende private e
intrecciate nel gioco del chiacchiericcio e della minorità provinciale. Nuovi personaggi e
altri già visti nei romanzi precedenti si incontrano per dare
vita a una pantomima che
moltiplica le versicolarità. Ma
nel fondo agisce, come sempre,
un oggetto oscuro di mistero,
questa volta una morte inspiegabile. Sulla quale in maresciallo Maccadò è chiamato a
indagare.
ANDREA VITALI . Ancora Bellano, il paese dell’autore, teatro di una rappresentazione corale: «Poiché
i miei "informatori" hanno vissuto l’epoca fascista resto fedele alla cornice storica che trovo peraltro
divertente: mi riferisco a quegli anni Trenta dove un fascismo tronfio e molto borghese aveva
trasformato l’Italia in un palcoscenico da operetta mentre ancora lontani erano gli anni delle brutture»
Ho portato il dramma del Paese
nell’operetta del mio villaggio
SECONDA LETTURA
Vizi e virtù di personaggi riuniti attorno a un ramo del lago di Como
FEDERICA DI LUCA
P
er i personaggi di Olive comprese, che di Andrea Vitali è il nuovo romanzo edito da Garzanti, la lacustre Bellano si tinge di giallo. Chi ha ucciso la vedova Fioravanti? E i piccioni di Bellano sono davvero innocue bestiole? Dove si trova, insomma, «l’arma mortale» che il pervicace maresciallo Maccadò non esita a frugare fra le quotidiane esistenze dei laghè?
Perché, qui si racconta di vite private e certo consuete, ma non banali, le quali poi, compiutamente, si compongono, pezzi musivi perfetti, in vicende d’istintiva e giocosa ironia, rivelando dell’autore bellanese l’ennesima prova
di perizia narrativa, per storie senza respiro da non sembrare di invenzione,
tanto sono ben congegnate da scorrere veloci fra le righe. L’autore della Figlia del podestà riconferma il culto innato del fatto, l’attitudine a raccontare la vita, conducendo, spontaneo, lo sguardo oltre la superficie e scrutare,
ardito, una profondità che, lungi dal cedere a derive esistenzialiste, è resa,
altresì, con agile schiettezza, in pagine sapidissime di vicende a catena, dalla fine psicologia.
Così Andrea Vitali narra vizi e virtù di personaggi strettamente legati al suo
lago, soffermandosi, anche, sugli aspetti più morbosi, per concedere poi il
disincanto di uno scorcio felliniano: nella provincia comasca, ancora priva
delle lividure della guerra, ma già amaramente presentita dagli echi belligeranti del nazionalismo franchista, vediamo sfilare, certo, la solita perpetua,
il podestà ma anche balordi di amara malinconia.
I «vitelloni», Ludovico Navacchi, il Risto, il Chiarabotti, il Valenza, perdigiorno dalle vite dissipate e illividite dalla noia, autori di bravate e di un mare di guai, destinati a perdersi in quel clima d’acquario, verso il quale il Chirabotti, spedito, dritto, al fronte dall’autore dei suoi giorni, deciderà di non
fare più ritorno e in cui il Navacchi, dopo il soggiorno a Roma, stenterà a riconoscersi.
Come dire: signori, questa è la vita, sebbene Vitali concede di farne conoscenza tramite pagine ilari e talora propriamente comiche da risultare nel
complesso, assai godibili.
Ma leggere Olive comprese significa anche fare la conoscenza di una morbida magia: vedere davvero le nubi piovane sullo specchio del lago, distinguere, spumose, le scie d’acqua dei battelli, fino ad avvertire - poiché è questa è anche la loro storia - i miagolii dei gatti del paese.
Gatti piagnucolanti e ingombranti, gatti affranti per i quali si reclama il diritto a partecipare a un funerale, gatti accostati a donne svanite, come la Dilenia Settembrelli, eccentriche, come la Sofistrà, domestica sacerdotessa, alle prese con strani misteri, davvero indispensabile alla quiete di casa Settembrelli, ma anche donne tenere come la Filzina che al momento opportuno saprà dimostrarsi forte.
Ma questa è anche la storia di Bellano, e del suo autore le cui storie germinano su un lago lombardo, come già nel passato, senza fare paragoni, su un
lago lombardo presero vita racconti di Chiara e pagine di Hemingway, sebbene Vitali persegua una strada del tutto autonoma.
FLAVIO SANTI. Un romanzo metastorico di torbidi e orrori
Mostri della terra e della mente
È
una sera d’aprile di fine SetteVIVE A MESSINA. INSEGNA
cento. In una taverna palermitaLETTERATURA ITALIANA ALna capita un avventore d’ecceL’UNIVERSITÀ. "NELLE STOzione: J. W. Goethe, appena giunto
RIE DEGLI ALTRI" (RUBBETTIper mare da Napoli. Da più di dieci
NO, 2006)
anni sta lavorando al Faust, ma si sente «come in letargo, senza idee». ScoGIUSEPPE AMOROSO
prirà in Sicilia la vera esistenza del
Male «nella carne più terribile e osce- cose, indifferenti, hanno sempre la
stessa pigrizia.
na, quella della vita reale».
Al suo tavolo si avvicina un uomo Un «baratro» inghiotte la famiglia nomisterioso, con una strana luce negli biliare. Adamo uccide ferocemente il
padre Lucifero e
occhi e una cicaviene rinchiuso
trice sul volto. Al
poeta racconta,
Recensioni in manicomio.
Federico, sconin un toscano
FLAVIO SANTI
volto, cerca di ricorretto ma scre"L’eterna notte
trovare un po’ di
ziato da una forte
dei Bosconero"
serenità, ma si
inflessione sicipp. 227, euro 16
imbatte «solo in
liana, la storia dei
Rizzoli, 2006
sogni, incubi,
fratelli Adamo e
fatti spiacevoli,
Federico, ultimi
discendenti della famiglia baronale miraggi». Malato, torturato da amnedei Bosconero. E si snoda una sinistra sie e tremendi dolori di testa, cade
vicenda di follia, orrende morti e cupe spesso nella narcolessia, vivendo così
dannazioni, disordini del mondo che «in bilico tra il mondo dei vivi e quelesplode nel suo buio, mentre fuori le lo delle ombre».
Con L’eterna notte dei Bosconero Flavio Santi scrive un torbido racconto di
mostri della terra e della mente, in
una rappresentazione ambigua, smemorante e che, tuttavia, appare il termometro di una dizione severa e sapienziale, onirica e anche critica
(esemplari le pagine sulle misere condizioni degli oppressi e, in genere, sui
costumi isolani del tempo), millimetrica nel misurare il concreto e visionaria nel farlo sparire nei sortilegi del
febbrile cosmo.
Di conseguenza, pur privilegiando gli
orrori e le magie, l’autore domina gli
scarti più imprecisabili, commenta le
parole di quell’«Omero redivivo» che
va schiudendo un nebuloso teatro dell’assurdo, in cui recita la più perversa
anima degli uomini e l’infuocata Sicilia d’agosto mostra un insolito paesaggio di neve.
Macabre scoperte di cadaveri decomposti, messinscene infernali, una «piovra» che svolazza sopra i tetti della civiltà che «solo un malato può desiderare», una «cosa simile alla rovina»,
odio e amore che stanno «come un
groviglio di serpi in letargo», fosche
leggende, manipoli di uomini acquattati in un dipinto, incarnazioni cicliche
di demoni e vampiri si susseguono in
un romanzo spaziato dallo «spettacolo» delle dicerie all’«appuntamento
con una cometa».
Si fronteggiano due diverse concezioni del mondo: una nordica, razionale e l’altra mediterranea, «disposta a
venire a patti con il destino e le forme
invisibili», innervandosi in una delirante processione di volti: Nervetta,
che si muove «come una farfalla»; lo
scolopio Telamonio e il servo Barcellona; un abate, nemico dell’umanità, e
un medico con una «voglia elettrica di
capire», e le inesauribili, negative figure di un viaggio verso il male, la
morte, che se può richiamare
l’Horcynus darrighiano, vira, però,
verso sagome sataniche. Ed è una
«nuova scintilla per il Faust». Nell’affannosa dispersione del tempo tutto è vero e tutto è falso: e se fosse «falsa» anche la luna?
sopra o sotto le righe, è una componente importante nella mia vita. Non
che io sia folle, non più di tanto o di
tanti, ma la passione per la psichiatria,
il suo studio, è un retaggio che ho dai
tempi dell’università. Ci gioco, scrivendo, traducendola in grottesco, ma
nella realtà, in quella professionale, è
un elemento con cui fare i conti quasi
quotidianamente. La follia nelle mie
storie è una follia estrosa, molto simile alla fantasia di chi, per viverla degnamente, si inventa la vita.
Come l’entomologo osserva i suoi
insetti e li ama, così lei osserva il popolo del lago e lo mette in scena.
Quali sono le reazioni dei suoi concittadini?
Perlopiù positive una volta venuto
meno finalmente il vezzo di voler riconoscere a tutti i costi questo o quello, come se i miei non fossero romanzi ma spaccati di cronaca dei tempi andati. Non manca chi li guarda con sufficienza e chi con aperta ostilità: a costoro posso solo suggerire di non acquistarli.
Olive comprese è ancora un romanzo ambientato durante gli anni del
fascismo e precisamente in quegli
anni Trenta che vede come una «stagione d’elezione» e costituiscono il
pabulum di quasi tutti i suoi romanzi. Perché la scelta di questo particolare periodo storico?
È una scelta che si impone quando l’aneddoto che scatena la storia riguarda
quel periodo storico. Poiché i miei
«informatori» hanno vissuto quell’epoca resto fedele alla cornice storica
che trovo peraltro divertente: mi riferisco a quegli anni Trenta dove un fascismo tronfio e molto borghese aveva trasformato l’Italia in un palcoscenico da operetta mentre ancora lontani erano gli anni delle brutture.
Lei, prima che scrittore è anche medico condotto a Bellano, che è poi anche il suo paese natale. Viene fatto di
dedurre che molti personaggi del romanzo siano in parte autobiografici.
Cerco di stare alla larga dalla biografia
e dall’autobiografia soprattutto, anche
se non posso negare che spesso i miei
personaggi sono la somma di varie osservazioni fatte sul campo, la piazza, il
mondo dell’ambulatorio e altri osservatori che sono il mio bacino d’utenza
dove trovo il materiale per costruire
questo o quel personaggio. Circa l’autobiografia a volte ci casco e in Olive
comprese il cacciatore guercio mi assomiglia da quando anch’io ho scoperto di avere un occhio destro parecchio
invecchiato, ciò che è successo proprio
durante un esercizio di mira.
Fra moeurs de province e storia patria lei rivela vizi e pregi del nostro
modo d’essere italiani. Ma gli italiani, a guardarli dallo speciale punto
di osservazione che è la remota e paradigmatica Bellano, non sono proprio cambiati?
Non lo so, non credo, mi auguro di no,
auspico che resti un popolo dotato di
fantasia, capace di arrangiarsi e assolutamente non cattivo.
Mi è parso che i suoi personaggi siano uomini di amara malinconia, e
forse solo un’evasione dal microcosmo di Bellano è in grado di scalfirla.
È il Navacchi che trova pace e serenità
in quel di Roma. Il Risto si accasa a
Bellano e lì trascorrerà il resto della
sua vita. La malinconia, per chi abita
sul lago, è un’esperienza assolutamente non inusuale. Si sogna spesso di
evadere, di abbattere i confini del piccolo, migrare verso un altrove dove
sogniamo di essere più felici: ma un
vero laghè, dopo due tre giorni di lontananza, comincia ad avvertire ancora
la malinconia, quella del lago lontano,
e deve ritornare.
I personaggi femminili, la Sofistrà,
soprattutto Dilenia Settembrelli, vivono in un «mondo altro», spesso
estraneo alla comprensione dei più,
che una costante presenza felina finisce con il sottolineare.
Le donne vivono un altro spesso difficile da capire e spiegare. Più fantasioso anche, ed è questo che fa invidia
agli uomini.
Lei è accostato a Piero Chiara e Mario Soldati.
Ho debiti con Chiara e Soldati e molti altri autori, tanti italiani del passato
e contemporanei. Ma ciascuno batte
una propria strada particolare.
Che cosa bolle nella sua pentola?
Una storia di ladri, ambientata negli
anni Cinquanta già sostanzialmente
pronta mentre il lavoro in corso è una
nuova storia con cornice anni Trenta
relativa alla sparizione di un discreto
numero di antiche monete d’oro zecchino. La prima si intitola "Guardia e
ladro", la seconda "Galeotto fu il collier": titoli provvisori, ma non troppo.
[Parte dell’intervista è di Federica
Di Luca]
P
revale l’amore nel romanzo
di Giancarlo Marinelli, Ti
lascio il meglio di me, premio Campiello 2006. È capace di vincere la distanza
ed il tempo questo amore lucreziano
che percorre tutti gli esseri viventi, in
una continuità che nemmeno la morte
può spezzare. E se qualcuno si è distratto, ci sono sempre gli omini del
bosco, geni buoni che raccolgono in
un sacchetto tutti gli sguardi che hanno incrociato durante la giornata e che
vogliono tenere con sé.
Dunque, se non moriamo, è anche
«perché qualcuno che nemmeno conosciamo ci ricorda». Tanto più, allora, se è una scelta d’amore. È il segreto del quinto cerchio questa eternità
d’amore? Nel buio in cui precipita
Sebastiano dopo la perdita della figlia, una follia creativa lo spinge a ricostruire l’immagine di lei attraverso
il suo lavoro di architetto. Invece
Francesco vuole costruire una culla di
legno - il suo tappeto volante per raggiungere il padre nel cielo? - per realizzare un desiderio di lui, che ha scolpito solo lapidi.
Camilla lotta per accettare il bambino
che porta in grembo, da quando è iniziato il disamore per l’uomo che di
quel bambino non sa cosa farsene:
perché dare alla luce un bambino è un
po’ come dare alla luce una seconda
volta l’uomo amato. Lo sa bene Giuliana, la madre che indossa un sorriso
«sopra a un grido sopra la morte».
Lei attende Sebastiano nella casa dove centuplica l’immagine di lui, perché il marito è la persona che ha amato al di sopra di tutti, e Minerva ne è
stata il segno più grande.
Anche Cedric ha il segno del padre sul
viso, una lunga cicatrice inferta col
coltello, che si sforza di giustificare
come l’ultima carezza paterna. In un
microcosmo compreso tra Ferrara e la
foce dell’Adige agiscono personaggi
che sembrano creati dalla fantasia popolare, con il mistero e la magia che si
impastano alla nebbia. Su un secondo
piano temporale, come se fosse figlio
della fiaba, si staglia sul bosco Ombra
Gigante, legato all’infanzia di due
amici e poi ai loro figli, in un crudele
disegno del fato. Su tutta la storia domina un indefinito loro, come una volontà suprema mai svelata.
Ombra è come il bosco, fa paura perché non si può controllare, e lo segna
il pregiudizio, ma è il detentore del
mistero del quinto cerchio, la sua firma tracciata con carboni spenti. Figure minime ma ben delineate si intrecciano con le storie più grandi, la pietas
del narratore per ognuna di loro. Anche per le stelle cadenti, perché sono
meteoriti che muoiono. Figurine divertenti come le zitelle Malfatti, o la
lettrice di A. Christie, anziane dalla
fantasia fervida che si improvvisano
detective e aprono di notte i cimiteri, e
accendono fuochi e scagliano sale.
Un sabba di streghe sembra sciogliere le lotte interiori come si scioglie la
LIDIA GUALDONI
L
S t los
Nella foto Giancarlo Marinelli, autore per Bompiani
di Ti lascio il meglio di me
GIANCARLO MARINELLI . Una esasperatissima storia di affetti e
travolgimenti con mille implicazioni e corde dell’animo tirate fino allo
spasimo. «Volevo scrivere la storia d’amore più grande, la più estrema, la
più indelebile, la più inscalfibile che la mia fantasia potesse immaginare»
IL LIBRO
GIANCARLO
MARINELLI
"Ti lascio il meglio
di me"
pp. 362, euro 17
Bompiani, 2006
Tornare al passato
per ricominciare
Sebastiano e la moglie Giuliana perdono la figlia in un incidente. Lui si separa e torna nel
paese natale, dove prova a ricominciare. Grazie a Ombra
Gigante, l’amico d’infanzia.
L’innocenza sradicata
e l’elegia della bellezza
VIVE A LUCCA. CURA UNA RUBRICA SETTIMANALE DI CRITICA
LETTERARIA SULLA CRONACA
DI LUCCA DE "LA NAZIONE"
MARISA CECCHETTI
nebbia lungo il fiume, mentre una
campana suona da sola, e l’Adige sputa forme immonde, e in una grotta
Ombra Gigante tiene la soluzione del
mistero e dell’amore.
Romanzo di grande spessore, intessuto con sapienza, carico di valori simbolici, dalle molteplici possibilità di
lettura, con rimandi a grandi nomi della letteratura, Ti lascio il meglio di me
si sviluppa con un ritmo teso, sostenuto da un linguaggio capace di trasfigurare la realtà, di esplodere, di fondersi
con la musica, in una frequente «ossessione di poesia». Perché la morte, e soprattutto quella di un figlio, non si può
elaborare se non attraverso parole di
poesia, che la accarezzino e la raccontino al cuore in modo gentile. Stilos ha
intervistato Marinelli.
La Pietà ritorna nel suo romanzo, a
cominciare da quella di E. Max, per
proseguire con l’immagine di Sebastiano inginocchiato di fronte alla
figlia, di Flavio di fronte al figlio, di
Giuliana, di Sabrine, chine su Sebastiano stesso: queste immagini, che
riportano calore e tenerezza alle
mani degli uomini, nella loro universalità di significato, assumono il
valore di una richiesta urgente d’amore nella società attuale?
Assolutamente sì. Le mani degli uomini sono sempre più simili a lame,
come dice Cedric; le lingue degli uomini sono sempre più simili a lame,
persino le loro parole hanno la freddezza e l’assurdità unifunzionale di
una lama; esistono solo per tagliare,
per decostruire, per rompere. Le mani
del mio architetto e di tutti i protagonisti di questo libro sono invece mani
che cercano, che costruiscono, che intrecciano. Che salvano.
La storia si intreccia intorno a Minerva, la luce degli occhi del padre,
oltraggiata nel momento della sua
fine. Ma altri bimbi di questa storia
hanno subito violenza: si è proposto anche un obiettivo di denuncia
etico-sociale?
Non ho mai creduto alla letteratura
capace di «eticizzare» l’individuo;
per questo rifiuto la letteratura neorealista, così come il cinema o l’arte che
si pongono il fine (che poi è quello
predicato da Marx) non tanto di interpretare il mondo quanto di cambiarlo.
È indubbio però che questa sistemati-
ca violazione (anche nelle piccole cose: per esempio nei treni o negli aeroporti, che io frequento abitualmente, il
pianto prolungato di un bambino getta nella nevrosi più totale tutti i presenti…), questa rimozione dell’innocenza (una rimozione che, non a caso,
passa anche per il tentativo criminale,
beduino, piccolo borghese, di togliere dai muri e dall’immaginario collettivo l’innocenza suprema; quella di
Gesù Cristo), questa infame e, purtroppo tutta al maschile, tendenza a
«uccidere», a «mangiare» i bambini,
mi abbia portato a costruire un’elegia
nei confronti di un mondo sempre più
in pericolo, quasi in via di estinzione…
Pinocchio, fiaba per bambini, è stato ritenuto adatto agli adulti. Il suo
romanzo per adulti sembra scritto
per tranquillizzare i bambini, o l’eterno bambino che è in noi, perché,
nonostante il dramma, lascia una
serena accettazione della vita e della sua fine, a dimostrazione di grande maturità ed equilibrio interiore:
quanto conta la fede in tutto questo?
Conta pesantemente, come può contare un tormento, un «limio» incessante
dell’anima, un quesito che ti «starla»
il cervello e i sensi; non sono cattolico
ma mi ritengo irrimediabilmente, dolentemente cristiano: ho fede in chi
MARCO FRANZOSO. L’imprevedibile vita di una donna
a forte attenzione ai particolari,
la capacità di rappresentazione
delle figure umane e la precisione con cui viene descritto l’ambiente
in cui i personaggi si muovono costituiscono gli elementi portanti di Tu pitoli successivi più che adolescente non sai cos’è l’amore, l’ultimo ro- sono naturalmente diverse, così come
manzo di Marco Franzoso, già autore è diversa la consapevolezza della prodi Westwood dee-jay, da cui è stato pria condizione umana, delle conventratto uno spettacolo teatrale e di Edi- zioni acquisite a tal punto da rendere
sol-M. Water Solubile. La storia di accettabile ogni fuga dalla realtà e
Elisabetta, una donna apparentemen- delle lacerazioni che il passato ha late senza problemi, ma in preda ad un sciato. Alla fine non rimane che l’illudolore esistenziale che la porta ad ab- sione di aver ritrovato nella normalità
bandonare il marito e il figlio per tor- di gesti e di rapporti un senso plausibinare a vivere nella casa dove è nata, dà le alla propria esistenza. Stilos ha inl’opportunità a Franzoso di mettere tervistato l’autore.
in luce una serie di atteggiamenti che «Tu non sai cos’è l’amore»: a chi si
sono alla base di un difficile rapporto rivolge l’affermazione, così diretta,
con il mondo. Proprio quando, infatti, del titolo?
potrebbe ragionevolmente aspirare a L’idea era di parlare direttamente al
vivere una vita di
lettore. Volevo
agi e tranquillità,
titolo che, in
I n t e r v i s t e un
ecco che Elisabetta
qualche modo,
percepisce come
lo «tirasse denMARCO FRANZOSO
un abisso di lucitro»
subito.
"Tu non sai cos’è
dità e di solitudine
Qualcosa che
l’amore"
che la separa dagli
gli
dicesse:
pp. 222, euro 15
altri. Una coscien«Sto parlando
Marsilio, 2006
za, questa, vissuta
proprio a te».
a volte come una
Credo che la
condanna, un prezzo di sofferenza da maggior parte delle donne possa dipagare per sopravvivere.
re di condividere il malessere esiL’alternarsi di passato e presente e di stenziale della protagonista. Quali
voci narranti diverse offre una molte- sono, però, gli elementi che lo rendoplicità di prospettive e di valutazioni no di tale intensità da produrre le
che aiutano a ricostruire l’interiorità conseguenze che lei ha descritto?
dei personaggi e la loro dimensione C’è una predisposizione quasi gepsicologica. Le risposte date alla pre- netica, o è dovuta alle circostanze,
carietà della situazione che si è venu- alle esperienze, all’ambiente famita a creare da ciascuno dei tre protago- liare e sociale in genere?
nisti - Elisabetta, il marito Paolo e il fi- Io volevo parlare di una donna la cui
glio Domenico, che ritroviamo nei ca- vita, ad uno sguardo superficiale, fos-
Se c’è un eccesso d’amore
se in qualche modo invidiabile: la famiglia è sana, ha un bel bambino, un
marito che la ama, non ha grossi problemi economici, né preoccupazioni
di salute. Una donna normale, cui la
vita avesse dato la possibilità di essere davvero felice. Eppure… eppure
c’è qualcosa che anche così non funziona. Non conosco in profondità, e
non credo che sia possibile conoscere
la causa «medica» di questo malessere. Eppure, ad un certo punto questo
malessere, senza preavviso viene in
superficie e travolge tutto. Che sia per
eccesso di amore? O per una sensibilità che semplicemente il mondo in cui
viviamo non è più in grado di tollerare? Non so. È davvero una forma di
malessere, oppure un modo mascherato di manifestare un’estrema lucidità
che tutto coinvolge.
Elisabetta lascia, qualche tempo, il
marito e il figlio, ma alla fine si impone di «tornare normale» e di fare,
come tutti, una vita normale. Come
può generarsi una forza d’animo di
questo genere?
Quando lei decide di farlo, decide
semplicemente di ritornare in apparenza allo stato precedente. Il suo non
è un ritorno sincero e vissuto. È il desiderio di ricoprire tutto con uno strato di apparenza. Come fanno gli altri.
C’è, nella scena del tentato stupro che lei descrive in modo toccante - il
tentativo di Elisabetta come di annientare se stessa: «Io dovevo rimanere immobile e mimetizzarmi. Non
L’ A U T O R E
Una narrazione
diversificata
Nato nel 1965
vive e lavora a
Padova. Ha
pubblicato nel
1995 La guardia per Transeuropa, nel
1996 per Einaudi (con
Giulio Mozzi) L’immigrazione
e nel 1998 Westwood dee-jay
per Baldini & Castoldi. Nel
1999 sono usciti i racconti Una
gravidanza serena sulla rivista
"Lo straniero" e Seghe proustiane in "Sconfinare".
dovevo più esistere». Non è, in
realtà, ciò che ha fatto anche in seguito, tornando in famiglia?
Credo di sì. È come se «tornare normale» in questo mondo significasse
semplicemente annullarsi e annullare
la propria sensibilità. È come se il
mondo in cui viviamo non tollerasse
solo questo: la sensibilità. E di questo
avesse paura. L’Occidente ha paura
dell’individuo. Della persona. Lo spaventa perché scardina dalle profondità le proprie radici.
Nella seconda parte del romanzo,
sconfigge la morte, morendo con
quella dignità utile a dare un senso deciso e definitivo ai giorni che ha trascorso; ho fede nel mistero degli incontri, delle passeggiate; ho fede nelle mani delle creature, nel viso di un
bambino stravolto dalla fame in Africa, così come in quello del bimbo di
Milano che gioca alla guerra con la
Playstation; ho fede nella speranza
«disperata» che esista tra gli uomini
un seme di bellezza che resiste, che
non ha paura, che non cede.
Se Minerva è l’angelo che deve trovare pace, il piccolo Francesco rimane un perno della storia, raccogliendo gli obiettivi del padre scomparso, riallacciando legami ingiustamente recisi dal pregiudizio e dal
tempo: i bambini sono portatori di
grandi potenzialità d’amore, capaci di cambiare il mondo sbagliato
degli adulti?
I bambini ci insegnano la perfezione,
attraverso i loro capricci; ogni capriccio di un bambino ha a che fare con
l’esigenza di materializzare l’impossibile, l’invisibile; perché, a differenza
dell’adulto, il bambino si rende conto
che le regole sono sbagliate, che le cose, così come sono, non hanno alcuna
vicinanza con la bellezza; per questo
si «incapricciano», si inventano compagni immaginari, si ribellano all’esistente; se fossimo in grado di interpretare e di soddisfare i capricci dei bambini, aggiungeremmo un tassello di
armonia a ciò che abbiamo reso disarmonico, deforme, involuto. A ciò che
abbiamo reso scandalo.
Il padre che ha conosciuto la morte,
rasenta la pazzia e torna lentamente in sé attraverso gesti di amore per
gli altri. Ha pensato a qualche parallelismo tra lui e il Salvatore vero
e proprio?
Di più; c’è una sorta di identificazione, quasi di «concorrenza» tra i due.
Addirittura Caleri vuole terminare ciò
che Cristo - a suo parere - non è stato
in grado di fare. Inutile dire quanto
Caleri sia Giancarlo Marinelli, e quanto il Cristo di Caleri sia ingombrante,
ossessivo, adorato ed invidiato in
egual misura da e per chi scrive.
«Le tombe, se le sai ascoltare, ti parlano come le conchiglie» dice Minerva al padre. È la foscoliana illusione della «corrispondenza d’amorosi sensi» che fa accettare la fine?
Magari Foscolo si ribalterà nella tomba, certo è che se i «pecoroni» (mi si
passi la maligna, tracotante, disperata
battuta…), che votavano al Campiello, avessero letto in questa chiave il
mio libro, avrei vinto a man bassa.
A quale genere letterario pensa che
appartenga il suo romanzo?
Non so se la storia d’amore si possa
considerare di un genere letterario.
Ma è quello che io volevo raccontare,
che sempre è mia urgenza di raccontare. Una storia d’amore; in questo caso
la più grande, la più estrema, la più indelebile, la più inscalfibile che la mia
fantasia potesse immaginare.
ritroviamo Domenico, dopo qualche anno, alle prese con problemi di
vario genere - gli studi interrotti, il
lavoro precario, la ricerca di emozioni forti grazie al sesso ed alla droga… Anche Paolo ha condotto un’esistenza in solitudine e con difficoltà
economiche. È come se Elisabetta,
con i suoi problemi, fosse stata da
ostacolo alla felicità di altri. Ma chi
ha cercato di capirla veramente e di
aiutarla, nel corso degli anni? Oppure sarebbe comunque stato impossibile per lei trovare una vera via
d’uscita?
Non so. Io credo che tutti abbiano in
qualche modo cercato di comprenderla. Ma credo che nessuno, tanto
meno lei stessa avesse gli strumenti
per farlo. Probabilmente, qui il problema non è più nemmeno quello di aiutare. Il problema è che siamo diventati estranei a noi stessi.
Nonostante il passato, lei concede
una nuova possibilità sia a Paolo sia
a Domenico: la ritrovata serenità familiare, dalla quale però è stata
esclusa Elisabetta. Perché questo
lieto fine «parziale»?
Non so se è una possibilità. Non credo. È un finale doppio, come è doppio
tutto quello che succede nel libro. È
come se i sentimenti non fossero in
grado di farsi ingabbiare dalle definizioni e dalle razionalizzazioni. Non so
se ricostruire una famiglia con degli
estranei significhi proprio «ricostruire
una famiglia». La famiglia la si costruisce con i familiari, con le persone
che conosciamo bene. Il resto è fatto
solo di surrogati. E di surrogati, di sogni a metà, di desideri massificati, di
vite che sempre di più coincidono con
le «carriere» è fatto questo nostro
mondo.
pagina
7
Finisterre
autori
italiani
ARNALDO COLASANTI
ROMANZI E RAGAZZE
Scopro all’improvviso che la
scrivania è invasa da romanzi di
ragazze. Isabella Santacroce con
Zoo (Fazi) ha scritto il suo grande libro. Stavolta ha ragione lei:
«ogni spigolo di luce acceca».
Niente è morboso e niente sa di
pietà. La sua scrittura è come
una sfera di vetro frantumata da
uno spillone di ruggine. È estate,
scrive, «la luce cade su di noi
come neve gonfia d’aria». Il dolore viene preso e stretto fra le dita. Viene consumato dalle unghie che incancreniscono: è tanto feroce, confessa, da diventare
«ridicolo». Anche Francesca
D’Aloja con Il sogno cattivo
(Mondadori) ci rivela un mondo.
La vita (il senso di colpa di Penelope, l’odore indimenticabile di
Margherita, il carcere, il tradimento, le follie del corpo, una
generazione di cuori serrati), la
narrazione dell’esistenza, insomma, è per la D’Aloja la fatica furiosa per difendere quel campo
vuoto, ciò che un giorno avremmo chiamato l’anima e che oggi,
almeno in queste pagine, percepiamo come una bestia, come la
sconfitta: la tenerezza rabbrividita di una spiritualità che scruta i
buchi del reale. Ci sono poi ragazze en plein air.
Azzurra Carpo è andata in
Amazzonia, ha percorso la «carretera interoceánica», ha visto
l’orrore di certi gringos (le piantagioni, il narcotraffico) e la povertà degli indios, quelli senza
nemmeno le canoe, con un pugno di patate abbrustolite sotto il
sole bianco del primo giorno
della creazione. In Amazzonia
(Feltrinelli Traveller) narra di vita e di morte. Ma con un fare
dolce, persino pudico, quasi che
il nodo del bene e del male andasse sfiorato senza ansia, con
una timidezza che, alla fine, regala alla vicenda di documenti e
di cronache il respiro di un romanzo d’altri tempi.
I libri stanno ammassati. In genere, lo sguardo delle scrittrici
italiane sembra più intenso, meno claustrofobico, come dire più
fantasioso e vitale di tanti colleghi narratori. Un gioiellino
emerge da un esordio quasi in
sordina. Manola Aramini (non
so l’età, credo giovanissima, cittadina di Alessandria) scrive con
Clotilde voleva le ali (L’Autore
Libri Firenze) un romanzo intelligente e profondo. La narratrice lavora col pastello. Costruisce la sua storia a piccoli tratti.
Colora le immagini e i personaggi e poi ne cancella i contorni, la pasta interiore, così che la
tela si trasforma in una carta leggerissima. Una narratrice di poco talento avrebbe giocato tutto
con la tinta dozzinale del sentimentale. L’Aramini no: la maniera del suo racconto è quella
semplicità perfetta che nasconde
(ma perché include) la cucitura
di molteplici piani prospettici,
la tridimensionalità sfumata della memoria in cui il racconto si
fa romanzo. Clotilde (come in
tanti romanzi di ragazze italiane)
è una nonna, è la donna che parla alla nipote. Clotilde racconta
una lunga storia, dove il dolore,
la povertà, le illusioni diventano
all’improvviso (e qui è la magia
del suo carillon) i segni di un
autoritratto, la fotografia di un
paese (l’Italia) nel suo essere e
non essere ancora un paese moderno. «Rimasi sola, racconta
Clotilde, divenni un uomo, ma
ero anche una moglie per curare
un marito ammalato di cancro e
una madre per crescere i figli».
Coraggio, pazienza: una saggezza istintiva che imperla le parole, le fa sentire autentiche. E poi
quello che interessa di più: Manola Aramini ha saputo nascondere in uno scrigno di famiglia
un romanzo familiare dal respiro di mille pagine. Con un esile
gioco di luci la sua memoria è
diventata musica.
S t los
nuovi
autori
pagina
8
SILVIO MUCCINO - CARLA VANGELISTA
Diogene
Il tema da cui è nato il libro è stata la paura. La paura di esporsi, di vivere
con serenità o almeno senza nascondimenti e maschere i rapporti
umani. Come due persone di diversa età riescono a mettersi in gioco
SOSSIO GIAMETTA
RAGIONE DI RENSI
Giuseppe Rensi è, tra i filosofi,
colui che più si è avvicinato al
fondamento della morale, al termine di una ricerca bimillenaria
rimasta senza esito. Egli si è
sempre occupato del problema
morale; ma soprattutto se ne occupa in questo libro incompiuto,
prefato e curato da Aniello Montano, La morale come pazzia
(Mattia & Fortunato Editori, pp.
176, euro 15). Qui Rensi si distingue anzitutto per la sua impostazione del problema.
Seguendo Spinoza e Schopenhauer, non si affanna a ricercare princìpi universali, imperativi e modelli da imporre all’agire, ma muove dall’osservazione
delle azioni e dei comportamenti effettivi per comprenderne le
radici e le motivazioni concrete.
Ma già qui c’è uno sfasamento.
Egli sostiene infatti l’isostenia
dei contrari, cioè la pari legittimazione dei comportamenti più
contrastanti, non sul piano della
passione, dell’occasione, del carattere e del luogo e tempo storico, come sarebbe stato giusto e
come fa Spinoza, ma sul piano
della ragione.
Per lui «è sempre la ragione che
trionfa». «È un errore - dice - ritenere che… chi cede al vizio
senta in sé un conflitto tra la ragione e la passione e vegga la
prima sconfitta dalla seconda».
Dopo, per la vera morale, fa il discorso contrario. Ma basterebbe
qui, per non dargli ragione, il lamento di Ovidio: «video meliora
proboque, deteriora sequor», vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio. Vero è invece che
«l’atto trae sempre dalla nostra
ragione le sue giustificazioni, si
crea après coup la sua impeccabile logica».
Il secondo merito è la confutazione di tutte le morali utilitarie,
che in questo libro è particolarmente sviluppata in relazione a
Bentham e Mill. Essa è basata
sull’impossibilità di stabilire oggettivamente che cosa sia utile,
faccia piacere e dia felicità. Il
terzo e più grande merito è quello di affermare una morale pura,
scevra di edonismo e utilitarismo, frutto di una virtù non insegnabile e non apprendibile, ma
dono di natura. Essa è data a pochi, come furore divino (thèia
manìa). La morale, nota Rensi,
«si manifesta come obbedienza a
qualcosa che è esterno a noi e ci
trascende».
Se non ci fosse eteronomia, rincara, non ci sarebbero neanche i
conflitti spirituali. E parla di trascendenza, negando l’autonomia
della morale e di tutte le attività
spirituali, rivendicata dal pensiero moderno per liberarsi, dice,
dalla sudditanza dalla cultura
medioevale. Nel libro antiumanistico e anti-antropocentrico La
trascendenza, afferma l’esistenza
di una ragione universale di cui
ogni «Io» è un frammento. Essa
è «la Corrente cosmica che, come Bene e come Male, traversa
perennemente il Mondo e costituisce la vera ed unica sostanza
profonda di ogni coscienza personale».
Con ciò Rensi si avvicina al massimo alla verità, per afferrare la
quale sarebbe bastato introiettare nell’uomo ciò che egli considera esterno, e ridurre alla specie
ciò che egli vede come universale, concepire insomma la morale
come frutto della forza di gravità
interna che la specie esercita sui
suoi membri, sempre in tensione
tra forza centripeta e forza centrifuga. La madre che rinuncia ai
divertimenti per curare il bambino obbedisce alla prima, cioè ai
bisogni fondamentali della specie, la madre che non cura il
bambino per divertirsi, come
nella canzone Balocchi e profumi, obbedisce alla seconda. C’è
una scala in questo senso, sempre purtroppo completa, che va
dal santo al criminale.
Istruzioni
sulla vita
delle
anime
C
iò che più di tutto colpisce
incontrando Silvio Muccino e Carla Vangelista, è
l’allegria, lo slancio appassionato con cui ne parlano. Lei sceneggiatrice di grande
esperienza, lui attore e sceneggiatore
giovanissimo e tra i più amati dal pubblico italiano: si incontrano su un divano, nella bella casa romana di Carla,
nel cuore del quartiere Trieste, e parlano d’amore. Si interrogano a vicenda,
«frugano», come dice Silvio in un lampo dei suoi occhi-fari, nella vita vissuta. Inventano una storia, cioè - nel senso dell’etimo - la tirano fuori, la portano allo scoperto. Così nascono Sasha e
Nicole, lui ventenne, lei quarantenne:
da una amorosa inchiesta. Silvio e Carla raccontano Sasha e Nicole come se
parlassero dei loro vicini di casa. Come
se descrivessero amici di vecchia data,
ricostruendone a memoria tic, gesti,
sospiri. È curioso vederli così emozionati, tutti e due: Muccino che rivive
con entusiasmo, con foga quasi, il «bagno di emozione» della scrittura; Vangelista che ne ripercorre le fasi, attenta
e luminosa. Si intendono con uno
sguardo, e non hanno smesso di dialogare, neppure a libro finito. Tengono
aperte le finestre, entra l’ultima luce di
settembre; i rumori della città si mescolano alla musica che viene da un’altra
stanza. Stanno in ascolto, forse sono
pronti a raccontarsi e a raccontare ancora. Forse non hanno mai smesso.
Stilos li ha intervistati.
Ciò che sorprende è che l’incontro
tra voi due, Carla e Silvio, ha generato non solo l’incontro dei due protagonisti, Nicole e Sasha, ma anche
l’incontro con la forma romanzo.
Venite entrambi dal cinema e avete
consuetudine con le tecniche della
sceneggiatura. La necessità del libro, quindi, da dove nasce?
SILVIO MUCCINO: Nel mio caso,
posso dire che una parte importante
l’ha giocata il caso. Ho approfittato di
un momento molto impegnato della
mia vita, in cui mi era impossibile
scrivere un film, per concentrarmi sulla voce di un personaggio con la sua
storia da raccontare, il giovane Sasha
appunto. L’ho ascoltata a lungo, questa voce, e mi è venuto quindi naturale provare a trasferirla su carta, scrivendo in prosa. Pagina dopo pagina,
mi accorgevo con sorpresa che potevo
muovermi in uno spazio più ampio di
quello a cui ero abituato. La scrittura è
stata un vero bagno di libertà, senza i
ritmi, i tempi stretti del cinema. Nessuno poteva più dirmi, come accade
su un set, «taglia», «qui non va bene,
riprova», «qui dobbiamo metterci un
Ritorno
C al paese
A sparito
T
A
L
O
G
O
VANGELISTA
Sceneggiatrice
e amante dei golf
Carla Vangelista è nata a Roma nel 1954, dove vive. Lavora
da anni come sceneggiatrice,
ha collaborato con grandi registi tra i quali Gabriele Salvatores, ha curato i dialoghi di fiction di successo. «Come il personaggio Nicole - si legge nella
quarta di copertina di Parlami
d’amore -, ha la fissazione dei
golf di cachemire neri». Parlami d’amore è il suo primo romanzo.
VIVE A ROMA. TRA L’ALTRO
"HO SOGNATO UNA STAZIONE" (LATERZA) CON DACIA
MARAINI. IMMINENTE "COME UN’ISOLA" (PERRONE)
IL LIBRO
SILVIO MUCCINO
CARLA VANGELISTA
"Parlami d’amore"
pp. 401, euro 16
Rizzoli, 2006
PAOLO DI PAOLO
colpo di scena». Per una volta, finalmente, di colpi di scena c’erano solo i
miei, quelli interiori. Potevo parlare
senza maschera, senza la solita parte
dell’adolescente in cui cominciavo a
sentirmi un po’ stretto. Scrivendo, ho
fatto luce su una zona di me stesso rimasta al buio per troppo tempo.
CARLAVANGELISTA: Ricordo che
anni fa, quando ero alle prime armi
come sceneggiatrice, uno dei rimproveri che più di frequente mi venivano
rivolti era legato all’eccessiva letterarietà della mia prosa. Lavorando a
questo libro, ho come riconquistato
una attitudine, una predisposizione
che avevo tenuto in un angolo. Qui
potevo concentrarmi sui monologhi
senza il timore di spendere un aggettivo di troppo; potevo ricostruire la voce interiore dei personaggi con più
agio. Potevo stare anche un’ora a farli parlare, a inseguire le curve strette
dei loro ragionamenti. E la complessità del personaggio di Nicole non sarebbe stato facile spiegarla con il cronometro alla mano, soltanto con le
quattro battute di un film. Voleva più
spazio, Nicole; e un po’ anch’io.
In questo romanzo sembra che la
trama spinga lo stile, lo preceda. La
lingua dei personaggi non è un artificio, ma uno sfogo, anche brutale. E
voi sembrate averlo registrato così
com’è, così come l’avete «sentito».
VANGELISTA: Nicole e Sasha sono
due personaggi abituati al silenzio.
Qui dovevamo dare loro voce, farli
parlare. Nel momento in cui le loro vite si incontrano, anzi entrano in collisione, qualcosa esplode. Anche linguisticamente. Hanno bisogno di raccontarsi, di gridare, di esporsi insomma. Devono buttare fuori tutto ciò che
avevano taciuto troppo a lungo. Devono svelarsi. È così che la scrittura rapida, magmatica di questo romanzo finisce col diventare un’esigenza della
trama, del suo sviluppo.
MUCCINO: Potrei dire che, avvicinandomi a questa storia e all’idea di
questo romanzo, mi sono sentito in
dovere di fare una scelta quasi «etica».
Ho un sacro rispetto per la letteratura
e per gli scrittori. Perciò io, da nonscrittore, volevo chiarire prima di tutto a me stesso (e quindi al lettore) il
punto di partenza. C’era un solo modo
per raccontare il mio personaggio: la
MAURO CORONA
"I fantasmi di pietra"
pp. 279, euro 17
Mondadori, 2006
Un paese perduto chiamato Erto, un paese che non c’è
più, il paese di Mauro Corona. Che vi ambienta una sorta di novella Spoon River; penetrando infatti tra le case
abbandonate dal giorno del disastro del Vajont, lo scrittore interroga casali diroccati e camini spenti, strade deserte, piante inselvatichite: da ogni cosa emergono voci
che raccontano antiche storie di uomini e di spettri, di
amore e di odio, di persone scomparse e di sortilegi.
Se ci si innamora
di una matusa
Un libro in pieno stile Muccino: amore tenero, tribolato e
soprattutto pulito. Una storia
d’amore che canta l’amore
giovanile come specchio di una
generazione che asseconda i
buoni sentimenti. Un ragazzo
si innamora di una donna matura e vive l’esperienza nei
modi di una educazione sentimentale del nostro tempo.
prima persona. Una prima persona
che è il risultato di una immersione
profonda nelle emozioni. Il coinvolgimento emotivo che investivo nella
scrittura ha avuto qualcosa di straziante, di snervante. Il «lusso» di non
essere scrittore, di non «fare» lo scrittore, mi ha consentito di tradurre il
sentimento nella rapidità con cui viene percepito. L’io di Sasha coglie ciò
che vuole cogliere, o gli càpita di cogliere, e lo vive a capofitto, non se ne
distanzia. Così anch’io, scrivendo, ho
evitato mediazioni. Ho evitato che la
materia si raffreddasse, e l’ho proposta
agli occhi del lettore con una immediatezza che magari lascia tramortiti,
ma che sentivo necessaria.
Naturali, prese dalla vita, le voci di
Nicole e Sasha. Quanto avete impiegato a dominarle, a sentirle autonome?
MUCCINO: Pochissimo. Ci ha forse
aiutato anche la scelta di lavorare essenzialmente in luoghi distinti. L’obiettivo era che queste voci interagissero, comunicassero tra loro anche a
distanza. E così è stato. Da attore e da
sceneggiatore, la prima cosa che sento, quasi a pelle, dei personaggi è naturalmente la voce. Qui il problema
era incanalare la voce, il suo impeto,
in una struttura narrativa: trovare un
«modo» di raccontare. Senza dubbio il
confronto con Carla, che secondo me
è straordinaria nella costruzione dei
dialoghi, mi ha aiutato molto. E poi
c’è stato il mio istinto, di cui ho voluto qui avvalermi e fidarmi.
L’Iran
in bianco
e nero
VANGELISTA: Mi rendo conto che
alle voci dei nostri personaggi potrebbe essere mossa più di una obiezione
stilistica. Ma bisogna tenere presente
che Silvio e io abbiamo scelto fin dall’inizio una formula precisa: quella
del «diario», della interiorizzazione
diaristica. Per me, che ho venerato alcuni autori americani straordinariamente abili nei dialoghi, capaci di restituire su pagina una naturalezza sorprendente, la sfida era quella di lasciarmi condurre verso la lingua dai
personaggi stessi. Nessuno di noi
quando esce di casa e si fa male a un
piede esclamerebbe «Accidenti, quel
piccolo eppure appuntito sassolino
grigio si è infilato nella scarpa!», ma
esploderebbe in un «Porca miseria,
che dolore!», o qualcosa del genere. In
questo senso, mi pare che la scrittura
debba essere anche un esercizio di fedeltà. Alla vita, soprattutto.
Di là dal dato strettamente autobiografico, che non mi pare essenziale,
è interessante capire, più in generale, come è stato rielaborato e ripensato in questa storia il vostro vissuto.
VANGELISTA: Sicuramente entrambi abbiamo prestato molto di noi a
questo romanzo. E d’altra parte come
sarebbe possibile scrivere di qualcosa
che non abbiamo neanche sfiorato?
Mi sento piuttosto lontana da una forma onanistica dello scrivere, da una
letteratura che nasce dalla letteratura.
Chi scrive (nel cinema, nel giornalismo, nella letteratura) dovrebbe - almeno in teoria - essere animato da
una multiforme curiosità per quanto
gli accade intorno. Io parto da questo.
E mi cibo di memoria, mia e altrui. Ci
sono esperienze, che magari ho vissuto o a cui ho assistito anni fa, che sono
tornate in modo anche inatteso nella
scrittura. Insomma arrivi all’ultima
pagina e ti accorgi che hai lasciato di
te nel libro molto più di quanto avevi
ipotizzato. Non è questione di autobiografia, o non solo. È un furto gentile e a volte inconsapevole: rubi. Rubi alla vita. Ma solo così puoi mettere
un po’ di verità in quello che scrivi.
MUCCINO: L’urgenza, il calore, l’intensità che si avvertono nelle pagine di
Parlami d’amore derivano, come diceva Carla, da un innegabile utilizzo,
ripensamento, del proprio vissuto. Per
quanto riguarda me, ho prestato a Sasha parecchie emozioni, spaesamenti,
contraddizioni che mi appartengono.
Non in maniera fedele, però. Tutto stati d’animo, angosce, paure - viene
riletto metaforicamente. Forse l’intero libro è una metafora. Pensa per
esempio a come l’asma, problema che
conosco bene, è vissuto da Sasha: si
MARCELLA CROCE
"Oltre il chador"
pp. 218, euro 19,50
Medusa, 2006
L’Iran è oggi il paese di cui si parla di più al mondo e
non solo per gli ultimi eventi. Naturale quindi l’esigenza
di conoscerlo un po’ più da vicino e apprezzabilissime le
testimonianze di chi è stato sul campo e ha visto e osservato. Come Marcella Croce, che ha insegnato due anni
all’università di Isfahan e ha potuto avere una visione diretta di un certo modo di vivere, di alcune caratteristiche
essenziali di quella splendida cultura.
Gesti
nell’arte
greca
sente, di volta in volta, malato tra i sani e sano tra i malati. Non è forse una
estensione metaforica del dato concreto, dell’esperienza reale?
L’ipotesi di raccontare una storia
d’amore tra un giovane e una donna adulta come è nata? Quale è stata la scintilla?
VANGELISTA: L’idea è nata proprio
su questo divano. Da quando ci siamo
conosciuti, io e Silvio abbiamo cominciato a fare chiacchierate lunghissime. E il tema attorno a cui ci è venuto naturale interrogarci è stata la paura. La paura di esporsi, di vivere con
serenità o almeno senza nascondimenti e maschere i rapporti umani. Abbiamo pensato, quasi all’unisono, che sarebbe stato interessante, stimolante,
raccontare una storia in cui due persone, per ragioni diverse, fanno fatica a
esporsi, a mettersi in gioco. L’uno,
Sasha, non ha il coraggio di correre incontro alle esperienze, non l’ha mai
fatto. Nicole invece sì, ma si è scottata, ha avuto paura e, facendo un passo
indietro rispetto a se stessa, si è chiusa. Perché la sua esistenza subisse una
svolta, o quantomeno una scossa, dovevano accadere molte cose. La fine
di un matrimonio, il rapporto tormentato con una persona più giovane che
entra inaspettatamente nella sua vita…
MUCCINO: Io forse mi ricordo
com’è andata! Durante le conversazioni appassionate di cui diceva Carla,
ci siamo messi un po’a frugare ciascuno nella vita dell’altro; e il nucleo della storia - questo innamoramento
complicato tra Sasha e Nicole - è nato
anche dall’enorme fascinazione da me
provata verso il vissuto di Carla. Restavo incantato a sentirla raccontare
gli anni Settanta, la diversa libertà di
vivere le emozioni senza troppe reticenze e pudori. Tutto insomma è partito da lì, da lunghe chiacchierate fra
amici. Poi il libro è stata un’idea di
Carla. Le ho fatto leggere alcune pagine in cui davo voce a Sasha, senza una
direzione precisa. Lei ne è rimasta
colpita, mi ha spinto a proseguire. Così è nato Parlami d’amore.
Il vostro romanzo è anche una fotografia attendibile di questa «età del
provvisorio»: niente è stabile, sicuro. È così che lo sentite questo tempo?
MUCCINO: Ciò che abbiamo capito,
parlando tra noi e poi scrivendo, o
meglio abbiamo «sentito» (arrendendoci di fronte a un’evidenza), è il fatto che esistano delle anime (si può
usare ancora questa parola o è bandiSEGUE A PAGINA 9
CLAUDIO FRANZONI
"Tirannia dello sguardo"
pp. 289, euro 25
Einaudi, 2006
Questo saggio nasce dalla convinzione, solo in apparenza
scontata, che i fatti stilistici siano a loro volta fatti storici
e, dunque, fatti sociali. E allora ecco che l’attenzione
punta sull’arte greca sulla cui semplicità e nobiltà di
winckelmanniana memoria tutti, o quasi, sembrano essere d’accordo, anche per stabilire la perenne superiorità atemporale dell’arte classica. Ma era veramente così
«atemporale» l’arte greca? Era così "ideale"?
S t los
nuovi
autori
pagina
In questa pagina e nella precedente Silvio Muccino e
Carla Vangelista, autori per Rizzoli di Parlami d’amore,
fotografati da Stefano Cristiano Montesi
SILVIO MUCCINO - CARLA VANGELISTA
Un ventenne e una donna matura reduci da tare personali avviano un
processo di disvelamento reciproco, che postula un’istanza di liberazione.
Come vivere un incontro generazionale in una società centrifuga
MUCCINO
Autore di film
noto come attore
Silvio Muccino è nato a Roma
nel 1982. Ha esordito nel cinema nel 1999 con Come te nessuno mai del fratello Gabriele.
Del 2002 è Ricordati di me. Nel
2003 scrive e interpreta Che
ne sarà di noi, diretto da Giovanni Veronesi, con cui lavora
anche in un episodio di Manuale d’amore (2005). Il suo ultimo film, scritto e interpretato
con Carlo Verdone, è Il mio miglior nemico.
SEGUE DA PAGINA 8
ta?) prima che delle persone. Il modo
in cui comunicano due anime, nonostante l’età, le rughe, le differenze di
qualunque genere, è un canale privilegiato. Ecco, quello di Sasha e Nicole è
un canale privilegiato. E lo è perché in
qualche modo sono entrambi «vivi».
Il loro cuore batte ancora, batte forte,
anche se soffocato dalla paura. E questa paura mi sembra il segno distintivo dell’epoca in cui siamo immersi.
Chi, come Sasha e me, è nato negli anni ottanta, è cresciuto assediato dalle
paure. Siamo cresciuti con addosso
l’ombra del rischio. Perfino su una
notte d’amore poteva gravare un gigantesco timore, l’Aids. Ci siamo
chiesti allora dove e come potesse
aprirsi la strada di una reazione a tanta paura, interna ed esterna. E ci siamo
accorti che c’era bisogno di una passione vera, impetuosa. C’era bisogno
dei sentimenti. Oggi l’apparenza, e il
sesso soprattutto, vengono usati come
deterrente per i sentimenti (nel romanzo, il personaggio di Benedetta è
eloquente in questo senso). Noi volevamo ripartire da lì. Dalla difficoltà di
superare paure, diffidenze, differenze.
La distanza generazionale tra Sasha e
Nicole, in questo sforzo, c’entra fino a
un certo punto. D’altra parte, non è così strano che un ventenne oggi provi
attrazione per una quarantenne (basta
guardarsi intorno!). Ma se ci fossimo
limitati a raccontare la storia di un
prurito, di una semplice relazione sessuale, sarebbe stato tutto molto più
scontato.
VANGELISTA: È verissimo, l’aspetto generazionale non è decisivo. Decisivo è il nostro rifiuto di credere, di accettare che le emozioni, qualunque
forma abbiano, vadano castigate.
Sembra che ci si debba vergognare di
ridere, di piangere; è poco chic, poco
intellettuale. Al bando sfumature, al
bando i colori troppo accesi. Una maschera grigia per ogni occasione: o
quella dell’ipersensibile o quella del
«duro» a tutti i costi. E invece siamo
fatti di sei miliardi di parti, e sarebbe
giusto farle vedere tutte, comunicarle,
comunicarcele.
Che cosa imparano i personaggi?
VANGELISTA: C’è una contaminazione continua tra i due. E parte nel
momento in cui Nicole, chiusa in una
prigione emotiva, incontra il ragazzo
Sasha e comincia a spronarlo: «Vivi»,
gli dice, «tu devi vivere». Ma c’è qualcosa di ipocrita, almeno all’inizio, nella sua volontà di scuoterlo. Nicole non
ha il coraggio di guardarsi allo specchio perché sa che quel «Vivi» dovrebbe gridarlo a se stessa. Troppo
comodo e rassicurante stare su un balcone a guardare. È quando capisce di
non poter continuare così che Nicole
torna a imparare qualcosa, da Sasha e
dalla vita. Torna a sentirsi viva.
MUCCINO: Questa è la parte più filosofica. Poi c’è la parte più concreta,
che mi diverte tantissimo. E riguarda
ciò che hanno imparato non solo i
personaggi, ma di riflesso anche gli
autori, l’uno dall’altro. Da Carla ho
capito, una volta di più, quanto conta
giocare, nell’amicizia, nell’amore. Il
99% delle ragazze che ho incontrato
hanno dimenticato cosa significhi giocare. Vivono i rapporti in modo serio
se non perfino serioso. E il gioco, il divertimento, l’osare? Tanto meno ti
vergogni di ciò che provi tanto più
riesci a comunicarlo. Mettendoti in
gioco, giocando. Scrivere è stato anche questo. Nei film finisci per essere
sempre un po’ una marionetta, puoi
prendere le distanze, dire: sì, ma quello è Orfeo; sì, ma quello è Tommaso;
io che c’entro? Qui la maschera dovevo toglierla.
La confusione tra sentimento e sentimentalismo potrebbe suscitare
qualche accusa al romanzo. Come
rispondereste?
VANGELISTA: Che la letteratura
molto spesso viene confusa con la razionalità spinta all’eccesso. «Adesso
vi faccio vedere quanto sono riuscito a
distaccarmi», sembrano dire certi
scrittori di professione. Perché forse
hanno disimparato a esprimere i sentimenti.
Il lieto fine, per fortuna, non arriva
liscio e immediato. C’è ancora qualche curva stretta, in cui gli stereotipi sulla coppia ventenne-quarantenne tornano in bocca agli stessi personaggi. Avoi, Silvio e Carla, che effetto fanno?
MUCCINO: A me sembrano stereotipi estremamente comodi. Se tutto fosse stato ridotto, come dicevo prima,
alla pulsione sessuale, forse nessuno
troverebbe da ridire. Ma qui etichettare fa comodo, è come distogliere lo
sguardo da qualcosa che ci spaventa.
Per scrivere Parlami d’amore bisognava anche isolarsi un po’, dimenticare le voci del coro, il dito puntato
contro. In una società che divora e
trasforma i ruoli, fare questo salto senza rete (amarsi, comunque e nonostante) diventa più complicato. Se gli
stereotipi sulla coppia ventenne-quarantenne, nella crisi finale, rispuntano
tra i pensieri di Nicole, è perché, per
una volta ancora, lei si nasconde, usa
una maschera per troppo timore di
perdersi. Mi piace l’idea che finalmente sia Sasha a strapparle quella
maschera dal viso. E d’altra parte mi
pare che quello della maschera sia
uno dei fili più robusti della narrazione. Maschere che lentamente cadono, una a una, dal volto dei personaggi.
VANGELISTA: Siamo crocefissi dagli stereotipi. E questo libro per me è
stato anche un atto di ribellione agli
stereotipi. Se avessimo riscritto Lolita, qualcuno avrebbe avuto da ridire?
Qui non ci sono eroi né anti-eroi. E
forse per questo i personaggi fanno
Il gioco di
maschere
da lasciare
cadere
più paura. Perché tenerli a distanza
è più difficile.
VANGELISTA: Sì, è vero, Sasha e
Nicole fanno paura. Portano avanti in
modo anche prepotente e violento degli aspetti che ci appartengono, lati in
ombra. Alzi la mano chi non ha mai
avuto paura, chi non si è mai chiuso in
sé stesso! Credo che anche la loro libertà, la libertà di Sasha e Nicole, possa far paura. La libertà che conquistano, e grazie a cui si accorgono che è
possibile non essere più schiavi delle
proprie insicurezze. Essere insomma
liberissimi all’interno di una profonda
umanità, e quindi imperfezione, e
quindi con una serie di carichi che
non ti limitano nel momento in cui dici: «bene, dato tutto questo, io vivo comunque».
MUCCINO: Nel libro faccio dire a
Sasha che tra Brando e Dean preferisce Dean. Sembra una scelta sciocca,
una frase buttata lì, invece a me sembra un po’ una dichiarazione di poetica. Non credo, non ho mai creduto
nell’eroe, e non riuscirei a interpretarlo come non riuscirei a interpretare un
antieroe al cento per cento. Io credo
nelle falle. Trovo meraviglioso e inquietante al tempo stesso l’essere
LA RECENSIONE
Ecco la nuova educazione sentimentale dopo Flaubert
F
acciamo conto che Madame Arnoux non abbia
aspettato di invecchiare per confessare il suo amore a Frédéric. Facciamo conto che, coi capelli ancora lucidi, Madame abbia cominciato di buon grado a
impartire al giovanotto le scrupolose lezioni di una (utilissima) «educazione sentimentale». Potremmo partire
da qui, da Flaubert per capire qualcosa di Parlami d’amore, di cui s’è parlato come evento mediatico più che
come libro. E d’altra parte non potrebbe forse Muccino,
se avesse voglia di un film in costume, indossare i panni del nostro Frédéric Moreau? Sarebbe divertente vederlo alle prese con questo amore non vissuto per una donna più grande di lui, distante come una stella; sarebbe divertente, e istruttivo, vedere come un ragazzo che ha
compiuto vent’anni nel 2002, possa mettersi nei panni di
uno che li compiva attorno al 1848. Molto è cambiato,
certo. Ma un certo smarrimento, una certa consistente incertezza a proposito del futuro, sembra in tono con
l’«età del provvisorio».
La nuova «educazione sentimentale» di Muccino e Vangelista, tuttavia, ha poco della passione contemplativa di
Frédéric per Mme Arnoux: qui i due protagonisti cambiano abiti, voce, intenti. Al pari dei loro trisavoli, hanno molto da dire e da fare, ma, a differenza dei loro trisavoli, alla buon’ora lo fanno. La storia, d’altronde, con
tutto il sacro rispetto per Flaubert, è questa: un ventenne
che, assieme ai silenzi, ha mandato giù parecchie sconfitte, si innamora di una donna matura e un po’ indifesa
che lo scuote, lo sprona a vivere. E lei che fa? Aspetta,
osserva. Almeno all’inizio, gioca a fare la maestra.
«Guarda, Frédéric», gli dice. Anzi: «guarda, Sasha»
(ché siamo nel 2006!), è così che si ama, che si deve
amare qualcuno. È così che si corteggia. È così che si
parla. Non ha con sé lavagne e gessetti, Mme Arnoux,
cioè Nicole (siamo nel 2006!), ma si diverte a fare la
maestrina. Anzi, protegge sE stessa infilando i panni di
cattedratica del sentimento. E lui, il ragazzo Sasha, che
tra Marlon Brando e James Dean vorrebbe preferire
(imitare) Dean, ascolta. Impara. Segue le «istruzioni
per l’uso di Benedetta», la ragazzina complicata e appena sessuomane di cui è innamorato, che Nicole generosamente gli fornisce. Si accorge, però e infine, che aiutare Benedetta a vomitare, chiudendo festini lievemente squallidi, non è proprio il massimo. Allora alza gli occhi (dovrebbe averli celesti e magnetici come quelli di
Muccino) e si accorge di quelli intensi (e un po’spaventati) di Nicole, che ha la grazia gentile di Carla Vangelista.
Che succede poi? Succede che i due, Sasha e Nicole, siano assediati dai «ma», dai «però». Sono soffocati dalle
insicurezze che loro stessi si confezionano addosso accuratamente. E allora non c’è più educazione sentimentale che tenga: allora bisogna buttarsi a capofitto nell’esperienza. Provare a incontrarsi davvero. Le curve e i
dossi non mancano, certo; i pregiudizi sulla coppia ventenne-quarantenne stanno in agguato anche tra i loro
stessi pensieri. Per superare gli inghippi, devono entrambi tentare di non vergognarsi più, di loro stessi e delle
paure che gli spezzano il fiato. Così arriva l’amore: con
un bellissimo corpo a corpo raccontato da Vangelista facendo saltare i ponti verbali come in un attentato (benevolo) alla sintassi; come se volesse dire: ma qui c’è solo il corpo, qui c’è solo la saliva, il desiderio; e allora che
c’entra la grammatica? Così Sasha impara a non auto-distruggersi, a non auto-mortificarsi a ogni passo. Sgolandosi e facendo esplodere un non-detto tenuto sotto vuoto troppo a lungo. Parla, Sasha - e vive; parla d’amore.
Muccino e Vangelista hanno scritto un romanzo strano,
elastico, ribollente, in cui entrano i detriti della vita, in cui
l’urgenza della trama precede lo stile. O meglio, l’urgenza della trama decide lo stile, che non è un parlato artificioso, costruito sul tavolo anatomico, ma è preso in prestito, anzi strappato alla vita che scorre giù in strada. Non
c’è pretesa di letterarietà, dunque. C’è invece una zona
di confine (tra letteratura e racconto orale, diario, cinema) in cui la vicenda si installa e i personaggi abitano con
disinvoltura. Piacerà questo slancio che non prevede mediazioni; piaceranno questi «personaggi-corpo» che imparano a ridere e piangere ad alta voce, e a pronunciare
i sentimenti senza lasciare che si raffreddino. Piaceranno perché, come i loro autori, vanno spiegando che le ricette precise, i vademecum filosofici, le teorie di cui manuali cartacei e televisivi abbondano, durano un tempo
corto e inutile. Quello in cui si indossa la maschera dei
sé stessi che vorremmo essere. Poi, i minuti della recita
scadono - e ci vuole perfino un po’di coraggio: anche per
il vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro. Ci vuole un po’
di coraggio anche per non averlo, il coraggio - ecco.
Parlami d’amore farà storcere qualche naso (qualcuno,
anzi, l’ha già storto), ma forse ingiustamente: perché non
ha preteso di irrompere in qualche fortificata cittadella
letteraria. Sta fuori dalla porta, beatamente; e catalizza
reazioni emotive, invita all’immedesimazione, ad avventurarsi in qualche salubre ingenuità e imprudenza - come
un diario, un blog, come una doppia lettera d’amore.
P. D. P.
umano quando incarna il bene e il male, quando mescola l’ombra alla luce.
Pensa alla più grande maschera del cinema italiano, Alberto Sordi: ha compiuto una piccola, anzi enorme rivoluzione. È come se, attraverso i suoi
personaggi, avesse messo in tavola
tutte le carte della vita, dicendo: basta,
adesso niente più eroi e niente più antieroi. Adesso conta l’essere umano,
con le sue miserie, le sue debolezze, le
sue meschinità, con le sue improvvise
e inattese grandezze. Mi piace insomma quel cinema e quella letteratura
che sanno stringere sempre più la
macchina sull’io delle persone, che
sanno farcele sentire intime, vicine
perché contraddittorie e «fallate» come noi.
Gli scrittori, alla fine di un libro, dicono spesso di sentirti «svuotati».
Voi?
VANGELISTA: Quando ho finito
questo libro, non mi sono sentita per
niente svuotata. Mi sono sentita un
po’triste, semmai, perché abbandonavo una storia e dei personaggi che mi
hanno tenuto compagnia a lungo. Insomma la nostalgia di Nicole e Sasha
c’è, e con essa la voglia di raccontare
ancora (questo non deve suonare come una minaccia, perché chissà quando e se accadrà). So per certo che Nicole e Sasha non usciranno mai più da
me, per il semplice fatto che scrivendo questo libro io sono riuscita a fare
pace con diversi lati del mio carattere,
ho capito alcune cose importanti di
me, di come sono davvero. Nicole è
entrata dentro di me o io sono entrata
dentro Nicole, e sarà quasi impossibile dimenticarla, dimenticarci.
MUCCINO: Io credo che Sasha mi
sia stato concretamente utile a superare certe difficoltà. Credo sia stato lui a
farmi smettere di fumare, per esempio. Una ragazza che ha scritto al nostro forum (www.24sette.it/muccino_vangelista) qualche giorno fa, dopo avermi raccontato la sua esperienza con l’asma, mi ha domandato, quasi brutalmente: «Ma ti sei mai chiesto
se vuoi davvero guarire?». È in realtà
una domanda che molti asmatici non
si pongono, perché con l’asma ci cresci e instauri uno strano rapporto: ti
serve, un po’ ti fa male e un po’ no.
Quella domanda mi ha fatto da pungolo anche durante la scrittura. Assieme
a molte, moltissime altre. Sasha e Nicole abitano dentro di me e io non mi
sono liberato di loro, né ho intenzione
di farlo. Anzi, ci sono tanti aspetti di
loro che vorrei ancora poter esplorare.
Tante domande a cui vorrei provare a
rispondere.
Le reazioni dei lettori che impressione vi hanno fatto?
MUCCINO: Il rapporto coi lettori è
completamente diverso da quello con
gli spettatori di un film. Attraverso il
forum, che abbiamo voluto fortemente, dialoghiamo con chi ci racconta di
essere stato letteralmente travolto da
questa storia. Ma anche con chi non ne
accetta alcuni aspetti, o la rifiuta del
tutto. Questa interazione quotidiana
ci dà parecchie soddisfazioni, ma soprattutto ci serve a capire come le
emozioni di Sasha e Nicole abbiano
fatto breccia.
VANGELISTA: Molti ci chiedono se
scriveremo un seguito. Ce lo chiedono
come se aspettassero la seconda fase
di una terapia di gruppo. Perché forse
Parlami d’amore è anche questo.
9
S C A F F A L E
BEPPE SAVIA, Un solitario
amore, pp. 229, euro 17,50,
Fandango 2006
Beppe Savia è ritenuto da un numero crescente di esaminatori un
«classico» autentico, la sua poesia
essendo considerata centrale nella
ricerca del secondo Novecento.
Osta a una maggiore conoscenza il
fatto che i suoi libri sono introvabili come le riviste sulle quali pubblicava. In Solitario amore Savia si
conferma poeta di talento pur avendo avuto una carriera consumatasi
in pochi anni.
PIER CARLO BONTEMPELLI,
L’intelligence delle SS e la cultura tedesca, pp. 271, euro 18, Castelvecchi 2006
La ricerca del contatto tra il potere
latente delle SS e la cultura tadesca.
L’autore ci parla di giovani intellettuali preparati e desiderosi di espandere la loro conoscenza. Diversa
invece la strategia ufficiale del Nazionalsocialismo propenso a collaborare con l’università e la ricerca
scientifica. Senonché i giovani intellettuali puntano a cambiare la disciplina loro tramandata. L’intento è
di ripristinare una conoscenza tedesca agli antipodi del sapere universale «tedesco». Ciò contrasta con le
mire dei gerarchi nazisti come
Goebbels che credono nella propaganda delle masse.
STEFANO CAMMELLI, Ombre cinesi, pp. 256, euro 16,50,
Einaudi 2006
L’Occidente da sempre cerca di carpire alla Cina il segreto della sua
evoluzione in espansione pacifica e
virtuosa. Da parte sua la Cina, molto riservata e guardinga, non ha mai
accettato questa intromissione per
cui ha fatto intendere all’Occidente
ciò che non era vero. Ha creato, per
la curiosità occidentale, una terra di
immense ricchezze con una buona
amministrazione aperta alla cristianità, interessata solo al denaro e misteriosa. In realtà c’è un’altra Cina
da scoprire e come disse Henry Kissinger, «i misteri della Cina scompaiono in un solo modo, studiando».
GINO TASCA, Isaia greco, pp.
123, euro 13, Pendragon 2006
Il rapporto che intercorre tra il temutissimo critico letterario Isaia
Greco ed il suo uomo di fiducia, segretario tuttofare, maggiordomo e
allievo schiavizzato. Ma quando
Isaia si ammala è costretto a dipendere da quell’uomo: non può farne
a meno perché è l’unico che capisce
il suo linguaggio biascicato e poco
chiaro per chiunque. L’unico capace di ispezionare il labirinto dei
pensieri più intimi del suo padrone:
una relazione nella quale s’intrecciano la sottomissione ormai liberata ed il potere represso di colui che
ha sempre comandato.
BRUNELLA SCHISA, La donna in nero, pp. 229, euro 15,
Garzanti 2006
Manet è un famoso pittore francese
i cui nudi femminili attraggono e
scandalizzano Parigi. Nella sua vita appare Berthe, ventisettenne ribelle che cerca un suo spazio nel
mondo artistico maschile. Il legame
tra i due dura quindici anni e Manet
ne è ossessionato. La ritrae sempre
vestita di nero. Nel bel mezzo di
dissensi politici, mette in evidenza
un travolgente rapporto a due con
l’enfasi di una grande intesa d’amore fatta di corpi ed immagini, luce e
colore, parole ed emozione. Da ciò
rileva lo spirito di un artista tormentato ed immortale in rapporto a
una donna romantica nella sua liberalità considerata adesso la più
grande pittrice dell’Ottocento.
GIOVANNI BATTISTA GUIZZETTI, Terri Schiavo e l’umano
nascosto, pref. Adriano Pessina,
pp. 102, euro 9, Editrice Fiorentina 2006
Terri Schiavo, che qualcuno avrebbe voluto ancora in vita, è una donna in stato vegetativo, condannata a
morte per disidratazione. Ci si chiede cosa sia lo stato vegetativo e di
quali cure ed assistenza necessita.
L’autore, dopo dieci anni, vuole dare le risposte a tali domande parlando di una dignità e un valore che sopravvivono nel tempo.
10
VIVE FRA VIGEVANO E MILA-
S t los
IL LIBRO/1
NO.
AUTRICE DI ROMANZI, È
STUDIOSA DI DANTE. "LA DIVINA COMMEDIA" (BOMPIANI PER LA SCUOLA, 2006)
ANTONIO
INCORVAIA
ALESSANDRO
RIMASSA
"Generazione mille
euro"
pp. 168, euro 9,50
Rizzoli, 2006
BIANCA GARAVELLI
I
n una Milano che non è più «da
bere», ma che somiglia piuttosto
a una gigantesca macchina mangiasoldi, si svolgono le avventure di Claudio, junior account del
marketing di una multinazionale, un
ragazzo di ventisette anni che viene
dalla provincia, dove ha una mamma
affettuosa che per amor suo sta imparando a usare gli sms, e che ha un
unico assillante obiettivo: far quadrare il suo bilancio mensile con i mille
euro del suo stipendio.
Cerca invano di sentirsi all’altezza
della sua direttrice, femme fatale, che
lo tiranneggia e ne sfrutta le buone
idee senza riconoscerne il merito;
compie viaggi di lavoro dei quali avrà
il rimborso spese in cronico ritardo; si
muove tra i fantasmi di una città che
relega ai barboni il ruolo di saggi e che
ospita il primo corteo di protesta degli
stagisti.
Così in Generazione mille euro Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa
rivelano i segreti di una posizione lavorativa dal nome promettente (junior account appunto), ma la cui realtà
non corrisponde affatto ad apparenze
e aspettative, né in termini di retribuzione né di stabilità né di progressione
di carriera. Raccontando l’allegra disperazione di Claudio e dei suoi tre
conviventi, tutti, tranne uno figlio di
papà ricco, alle prese con le sue stesse
difficoltà in una città in cui i prezzi sono alle stelle (ma non altrettanto gli
stipendi), il duo Incorvaia-Rimassa
entra nel novero degli autori italiani
che stanno denunciando questo pericoloso squilibrio, da Bajani a Nove.
Stilos ha intervistato i due autori.
Come può un libro nascere da un
blog? E questa nascita è casuale o
voluta?
INCORVAIA: Nel nostro caso il libro
è arrivato in libreria dopo essere stato
distribuito gratuitamente sul web attraverso il sito www.generazione1000.com per tre mesi, dal 13 dicembre 2005 al 13 marzo 2006, come
ebook vero e proprio, senza altro
obiettivo se non quello di dar voce alla generazione dei ragazzi con un lavoro precario e senza stabilità sociale
nel modo più immediato possibile.
Scegliere internet come strumento di
distribuzione, quindi, è stata un’idea
intenzionale, motivata dalle enormi
potenzialità di comunicazione e aggregazione proprie di questo supporto
(e in Italia ancora largamente inesplorate). Il fatto che poi dal web sia approdato in libreria è stata invece una
conseguenza del tutto casuale ed inattesa, determinata dal repentino passaparola che si era creato intorno al nostro progetto e che ha portato alcune
case editrici ad interessarsene e a proporci la pubblicazione. Il blog è nato
proprio nel momento in cui il romanzo è approdato in libreria, per dare un
seguito originale e interattivo alle avventure dei quattro protagonisti in modo che la lettura non si esaurisse all’ultima pagina del libro ma proseguisse
quotidianamente, evolvendosi in un
mix tra fiction e realtà che mantiene
fedelmente lo spirito iniziale del racconto.
RIMASSA: In verità noi abbiamo
scritto un romanzo e utilizzato - volutamente - il web come mezzo di distribuzione. Abbiamo creato un sito ad
hoc, www.generazione1000.com, e
abbiamo messo in download gratuito
il libro in formato pdf. Infatti, non
avendo contatti diretti con nessun editore e volendo arrivare a questa generazione velocemente e direttamente,
abbiamo pensato fosse il metodo più
rapido, economico ed efficace per raggiungere il nostro obiettivo. I quasi
24.000 download in soli 90 giorni dimostrano che anche in Italia il web è
diventato uno strumento di comunicazione libero, indipendente e vincente.
Il libro nasce quindi dalla volontà
di «scoperchiare una pentola» che
già bolliva da qualche tempo sulla
piaga del precariato: come mai è un
romanzo e non un saggio?
INCORVAIA: Perché il saggio viene
visto sempre come una sorta di «manuale per addetti ai lavori», privo di
quella forza evocativa ed emotiva che
noi intendevamo invece portare alla
luce. Pubblicazioni di saggistica sul
tema del precariato erano già state
stampate, ma erano rimaste esperienze isolate e confinate ad una utilità più
statistica che pratica. Per noi era importante evidenziare il lato umano, le
intime complessità e la portata generazionale di quello che non è semplice-
IL LIBRO/2
MICHELA MURGIA
"Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria"
pp. 124, euro 10
Isbn, 2006
Storie di comune
sopraffazione
Nel primo romanzo Claudio,
junior account con contratto
co.co.pro a 1028 euro al mese,
divide affitto e spese con altri
tre coetanei nella sua stessa
condizione precaria. Nel secondo romanzo una giovane telefonista a tempo determinato rivela i soprusi e lo stato di mobbing che la logica del suo lavoro
di sopraffazione e condizionamento mentale determina.
ANTONIO INCORVAIA - ALESSANDRO RIMASSA . Confessioni, sudore
e lacrime di due giovani «lavoratori» frutto della logica della flessibilità.
Un libro nato su Internet, diventato un blog scaricato 24 mila volte e
arrivato sulla carta stampata come un manifesto generazionale
La giornata precaria
di un junior account
MICHELA MURGIA
Telefoniste di call center, preda della voracità del sistema
C
amilla, una giovane donna
combattiva ma con qualche
problema economico, si trova
a lavorare in un call-center di una
grande, imprecisata, città. Subito, si
accorge di non essere semplicemente stata costretta a ripiegare su di un
lavoro precario e poco gratificante,
ma di essere entrata in un meccanismo capace di stritolare. È costretta a
dichiarare alla capufficio, soprannominata subito «Hermann», le proprie
motivazioni, che dovrebbero non solo averla spinta a intraprendere quell’attività ma anche ad accollarsi un
carico sempre maggiore di turni di lavoro, sempre più massacranti e frustranti. E tutto perché deve riuscire a
raggiungere un certo numero di appuntamenti con altrettanti potenziali
acquirenti di una sorta di aspirapolvere. Appuntamenti che un venditoresqualo (è proprio «Shark» il soprannome con cui lo chiama) è pronto a
trasformare in trappole che creano
falsi bisogni ai malcapitati clienti.
Con un impianto a metà fra diario e
resoconto di guerra, brevi capitoli dai
titoli incisivi e un’ambientazione
claustrofobica, tutta rigorosamente
dentro il mondo opprimente e cieco
dell’ufficio delle telefoniste, Il mondo
deve sapere. Romanzo tragicomico
di una telefonista precaria è una storia ironica e dirompente, con cui Michela Murgia denuncia lo squallido
volto di una società che in sostanza
sta tradendo se stessa. Non è solo il
racconto delle ingiustizie che deve
subire una telefonista con contratto a
tempo determinato, ma della tragica
voracità del sistema, che non esita a
sacrificare qualunque valore. Stilos
l’ha intervistata.
Il romanzo nasce da un’esperienza autobiografica?
Tra le molte cose che ho fatto in vita mia c’è anche una breve esperienza come telefonista e sicuramente per scrivere Il mondo deve sapere
mi ci sono molto più che ispirata.
Pur omettendo nomi e riferimenti
che permettessero di risalire con precisione alle persone reali, le situazioni descritte nel libro e l’intero racconto fanno riferimento a cose che
mi sono realmente accadute durante
quel breve periodo lavorativo. Il libro tuttavia è autobiografico in senso lato, perché il racconto è tutto incentrato sull’esperienza; ho cercato
di non inserire nel testo alcun dato
esplicito che permettesse di sapere
direttamente qualcosa di me. Non è
tanto la storia della persona che volevo raccontare, quanto la descrizione di un mondo, che era surreale a
prescindere da chi lo osservava.
Suppongo che qualcosa di chi scriveva sia trasparso comunque, ma
non si tratta di un processo cercato.
Ma hai affrontato il lavoro nel call
center per poter poi scrivere questa storia?
Come moltissime altre persone, ho
affrontato quel lavoro perché non
ne avevo un altro migliore a disposizione. Mi ci sono trovata dentro e
l’ho raccontato, ma non c’era alcun
intento di reportage sotto copertura,
diversamente ci sarebbe forse da dubitare della veridicità del racconto. Il
modo in cui quello che ho scritto ha
finito poi per diventare un libro è rocambolesco più di una eventuale
azione da infiltrata, perché quello
che è stato edito è comparso prima
testualmente in un blog privato, un
angolo catartico che credevo solo
mio e della persona per cui lo scrivevo, la Silvia della dedica. Non c’era
la minima intenzione di diventare la
paladina di nessuno e, se devo essere sincera, non c’è nemmeno adesso.
Quando scrivevo il blog non era lo
sfruttamento dei lavoratori il tema
che pensavo di descrivere; mi interessava raccontare un determinato
atteggiamento di approccio alla persona che prescinde da qualunque
rapporto lavorativo e che può sorgere anche nelle relazioni familiari, tra
amici o tra persone che condividono
un qualunque interesse. La manipolazione che in quel call center veniva assunta come modus operandi
era duplice e per questo ancora più
oscura: i datori di lavoro manipolavano i dipendenti per far loro ottenere i risultati, i dipendenti a loro volta manipolavano i potenziali clienti
per indurli a bisogni che non avevano e far loro dare risposte positive.
Un circolo vizioso che mi allibiva e
che ho ribattezzato «puttanesimo»,
riferendomi all’uso costante di attribuire una funzionalità anche all’atto
più gratuito e naturale, a stabilire un
prezzo per ogni azione, escludendo
ogni gratuità. Il tema dello sfruttamento professionale è solo il casus
belli da cui si origina un discorso più
ampio. Non a caso un sacerdote,
presentando il mio libro a un incontro recente, stabilì addirittura un parallelismo tra i metodi di coercizione
da me stigmatizzati e le tecniche
missionarie di una certa chiesa di
qualche decennio fa; segno evidente che quella pratica comportamentale va ben oltre gli ambiti lavorativi
e potenzialmente - se assunta come
accettabile - può applicarsi persino
in contesti insospettabili. Per sfruttare le telefoniste la ditta cercava sin
da subito di impostare i rapporti su
un piano che esulasse dalla prestazione professionale, assumendo
quante più informazioni possibili
sulle motivazioni personali della
persona per svolgere quel lavoro.
Le informazioni venivano poi usate
come forma di pressione psicologica, identificando in esse degli obiettivi equivalenti che, se raggiunti, determinavano il successo. Se invece
gli obiettivi non venivano raggiunti,
si stabiliva una proporzione diretta
tra il traguardo professionale e quello personale: se non raggiungi l’obiettivo, sei un perdente anche nella
vita. Questo meccanismo, se pure
mi resti il dubbio che non sia nemmeno legale, soprattutto non è etico.
B. G.
Nella foto sopra Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa,
autori per Rizzoli di Generazione mille euro. In basso Michela Murgia, che da Isbn ha pubblicato Il mondo deve sapere
mente un argomento, ma un problema
che coinvolge 3 milioni e 600 mila
persone, dando voce a sogni, speranze, frustrazioni e sensazioni, elementi che non sarebbe stato possibile raccontare con la stessa fedeltà e immediatezza attraverso un saggio.
RIMASSA: Abbiamo avuto l’idea
leggendo, sul quotidiano spagnolo "El
Pais", un’inchiesta che raccontava
questa generazione e coniava il termine «milleurista»: da qui abbiamo ritenuto che l’idea del romanzo potesse
meglio rappresentare questa generazione che, altrimenti, è solo un agglomerato di numeri, dati, cifre. Noi abbiamo dato spazio al lato emozionale,
intimo, personale. Non siamo numeri
ma donne e uomini, ragazze e ragazzi,
esseri umani con realtà tra loro differenti ma accomunati dal vivere in perenne incertezza e difficoltà. Quella
che abbiamo raccontato è una generazione precaria non solo da un punto di
vista economico, ma, di riflesso, anche sociale.
Qual è l’identikit di un «praticante
seriale», che poi è il vostro protagonista Claudio, junior account in una
multinazionale con sede anche a Milano?
INCORVAIA: Senza voler essere in
alcun modo autoreferenziale, penso
di poter rispondere a questa domanda
citando la mia diretta esperienza personale... Mi sono laureato in architettura nel 2000, proprio in coincidenza
con le prime riforme - introdotte dall’allora ministro Treu - sul mondo del
lavoro, che iniziavano a sollevare anche in Italia il dibattito sull’importanza della «flessibilità». Concetto che a
me affascinò da subito, non solo per
predisposizione personale alla versatilità ma anche perché ritenevo che una
laurea in architettura potesse essere
facilmente spendibile, da questo punto di vista, in tutti i settori della creatività e della comunicazione. Così ho lavorato (sempre in stage o in
co.co.pro.) come grafico pubblicitario,
come web editor, come project manager, come illustratore, come art director, come giornalista e come autore tv,
accumulando esperienze - per l’appunto - da «praticante seriale», dal
momento che in nessuno di questi casi la mia attività si è poi evoluta in un
contratto e in una posizione stabile e
duratura. Perché «ma insomma, tu cos’è che vuoi fare nella vita?» e perché
«beh, ok: sai fare un po’ di tutto, ma
alla fine non sai fare tutto di niente». Il
«praticante seriale» dunque è una persona di 25/35 anni, con una laurea in
tasca costata sacrifici economici e
non, mille (legittime) aspettative per il
proprio futuro e la voglia di mettersi
alla prova senza riserve, parcheggiato
dentro un sistema che lo imbottiglia in questo caso, e solo in questo, a tempo indeterminato - in una serie di esperienze a coriandolo che gli richiedono
dinamismo e responsabilità senza offrirgli nulla in cambio.
RIMASSA: Un giovane sui 25/35 anni, con una laurea in tasca e tante
aspettative. Soprattutto con la voglia
di fare e le capacità per emergere. Ma
con un contratto a progetto, se non in
nero. Con un lavoro dignitoso se non
addirittura «intellettuale». Con tante
responsabilità ma con poche certezze.
Con molti compiti ma pochi euro. Un
giovane che non si piange addosso
ma, anzi, giorno dopo giorno si rimbocca le maniche per emergere sul lavoro e per mettere insieme soldi e idee
per arrivare alla fine del mese.
Ora che avete avuto successo, pensate che il romanzo avrà un seguito?
INCORVAIA: L’idea del seguito del
romanzo - inteso come proseguimento delle avventure dei suoi protagonisti - sta trovando sin dalla sua uscita
attuazione nel blog, in cui Claudio,
Rossella, Alessio e Matteo portano a
turno commenti, emozioni e testimonianze legate in modo molto stretto all’attualità contingente. Le loro strade
hanno preso direzioni spesso imprevedibili rispetto a quelle tratteggiate nel
libro, e non solo: spesso sono i lettori
stessi ad influire sul plot suggerendo
soluzioni o proponendo eventi e dinamiche. Sotto il profilo strettamente
letterario invece, non ci sarà un Generazione mille euro 2 per due motivi: il
primo - di natura creativa - è che i sequel finiscono il più delle volte con il
rovinare la magia (e l’unicità) dei prodotti originali, nascendo come prodotti in provetta anziché seguendo
un’autentica ispirazione; il secondo di natura sociale - è che ci piacerebbe
che il seguito della storia venisse scritto da chi ha il potere concreto per
cambiare le cose, legislativamente e
culturalmente. L’idea che, fra un anno,
la situazione sia ancora tale da rendere potenzialmente attuale un sequel
francamente inizia a spaventarci molto.
Eccebombo
autori
italiani
pagina
AURELIO GRIMALDI
IL MIGLIORE CAMILLERI
Sono rimasto felicemente sorpreso alla lettura di un’intervista ad
Andrea Camilleri, nella quale il
famoso e apprezzato scrittore siciliano giudicava quali suoi migliori romanzi proprio i due che
io considero i suoi più riusciti: Il
birraio di Preston (1995) e La
concessione del telefono (1998).
Di fronte ad uno scrittore così
prolifico è inevitabile una dispersione anche dei giudizi. Ne ho
tratto l’auspicio che proprio queste due opere «possano» essere
effettivamente tra le migliori della incessante produzione dello
scrittore portoempedoclino. Nella diatriba ancora in corso sulla
possibile tenuta estetica di Camilleri mi sono schierato tra gli
«a favore». La fluente e inarrestabile narratività può secondo me
garantire al nostro autore una «resistenza» notevole. Fino a prova
contraria, avere una storia da raccontare, e saperlo adeguatamente fare, resta un merito indiscutibile. Sul «come» raccontare, resto convinto che lo stile pseudoagrigentino di Camilleri non sia il
suo atout più prezioso. Ma nemmeno un punto debole squalificante. Nella somma del tutto, Camilleri resta un autore da seguire
e da studiare.
La concessione del telefono
(1998) racconta l’intricata ma appassionante vicenda dell’intrepido Filippo Genuardi, siciliano
bello, astuto, gran viveur, che nel
lontano 1892 chiede l’autorizzazione all’istallo a casa propria di
uno dei primissimi apparecchi
telefonici. Tutto qui? Macché.
Attorno a questa benedetta concessione de telefono si apre una
contorta ma eccitante vicenda
dove Camilleri ha buon gioco ad
offrire i suoi soliti prediletti temi:
la Sicilia della mafia, dell’onore,
del sesso, dell’inganno. Filippo è
un uomo sensualissimo. Ha sposato la figlia del più ricco del
paese che tiene a bada con prestazioni sessuali indimenticabili.
Ma attorno a lui si crea un orrendo gioco di equivoci ed errori
che porta il povero Filippo, pressato dal suocero, dal boss locale,
dalla rivalità cittadina tra carabinieri e polizia, in un giro paradossale, comico, infine tragico.
Camilleri racconta il tutto con un
sistema più volte adioperato.
Astenendosi dal ruolo di scrittore-narrante, la vicenda viene raccontata attraverso sezioni alternate di «cose scritte» (fonti e documenti, registrati con un mimetismo scrittorio a volte perfetto) e
«cose dette»: dialoghi puri, senza
mezza didascalia! L’impresa, non
facile, riesce perfettamente. Ed è
una doppia impresa: non è semplice, con queste autolimitazioni
di scrittura, mantenere un livello
di ritmo nrrativo così vivace. Né
è facile mantenere, di fronte a tale susseguirsi di eventi, una credibilità strutturale. Ma Camilleri
vince autorevolmente la sua
scommessa. Qualche volta eccede nella commedia, per esempio
nella caratterizzazione del paranoico prefetto napoletano Marascianno. Ma anche qui non mancano delle perle. Ecco una sua irresistibile lettera al Questore:
«Per quanto attiene alla mia
drammatica vicenda famigliare
potrei, se Voi foste non bergamasco ma napoletano come me,
riassuntavela scrivendoVi di seguito cinque numeri (59, 17, 66,
37, 89) e Voi avreste chiara e immediata visione dell’accaduto».
La Sicilia di Camilleri è un pianeta speciale. L’onore trionfa ma
gli adulteri si moltiplicano. La
mafia vince perché nello Stato i
Cretini trionfano sugli Onesti e
persino sui Disonesti. La sensualità presiede la vita quotidiana
ma porta alla perdizione. Ma senza questo pianeta Sicilia non ci
sarebbe questo Camilleri!
Andrea Camilleri, La concessione del telefono (Sellerio 1998)
S t los
autori
italiani
pagina
Nella foto Valeria Di Napoli che con lo pseudonimo di Pulsatilla ha pubblicato da Castelvecchi
La ballata delle prugne secche
P
er quanto oramai lo sappiano praticamente tutti, è utile ricordare che la Pulsatilla
è una pianta. Solo in un secondo tempo diviene lo
pseudonimo di Valeria Di Napoli,
venticinquenne foggiana che poco prima dell’estate fa il suo esordio in narrativa con La ballata delle prugne
secche, producendo un botto secco
nelle patrie lettere. L’ultima manchette pubblicitaria recita «la ragazza del
secolo nuovo». Poi, più in piccolo,
«prima ristampa, 40.000 copie». Precisiamo, le copie sono quelle stampate e distribuite. Il venduto ha altri numeri, bastanti comunque a fare di Pulsatilla un fenomeno editoriale di rilievo nell’asfittico panorama librario italiano. Il successo del libro sta tutto
nella cattiveria che la pianta Pulsatilla trasporterebbe in Pulsatilla-Valeria,
secondo la sua omeopata.
Questo ad accettare la vulgata. In
realtà il successo risiede nella grande
capacità dell’autrice di operare su materiale autobiografico - non per nulla il
sottotitolo del libro recita "bio-novel"
- con un occhio cui non sfugge l’assurdità delle situazioni, la loro costante
piega tragicomica. La De Napoli vi
aggiunge inoltre il suo essere istintiva,
senza peli sulla lingua al limite dell’autolesionismo, proprio come molti
suoi conterranei, e il dono di saper
mediare fra questi aspetti.
A leggere La ballata delle prugne secche con la mente il meno legata all’idea di nuova generazione di scrittrici
da blog, di giovane neofemminismo
arrabbiato, di nuova reductio della
donna a oggetto, di cabaret travestito
da confessione romanzata, o qualsiasi altra etichetta le sia stata appiccicata sopra in questi mesi, gli elementi di
cui si diceva prima sono perfettamente visibili e ne fondano lo stile e l’intento. Stile che ha inoltre dalla sua
una notevolissima capacità ritmica e
percussiva nella costruzione delle frasi cui si aggiunge una sfrenata passione per il racconto. La tradizione, se così vogliamo definirla, cui si rifà la Di
Napoli non è allora quella moderna
(anche se un tantino sembra ammiccarvi), ma quella orale: il «cunto», la
narrazione di fatti anche minimi di
vita quotidiana, ancora profondamente viva in buona parte d’Italia. Ma se
guardiamo più attentamente in un libro sui generis come questo si incrociano forme disparate e postmoderne
ma convergenti quali il diario e il blog,
che di quello è l’ultima versione, migliorata in ciò, che il piacere di raccontarsi deve avvenire in pubblico; e possibilmente con un gusto nuovo, dissacratorio, sarcastico, disincantato e irridente. Con la forza dei 25 anni e la vocazione a vedere nel mondo i soli lati
comici e paradossali. Ed ecco come
nasce un fenomeno quale Pulsatilla,
cui non per caso sta arridendo maggiore successo sul web che non in libreria: perché per fare funzionare
«macchine» narrative del genere, è
necessaria l’interazione mentre nel libro quel che troviamo è soprattutto
icasticità. Stilos ha intervistato l’autrice.
Visto che alcuni l’hanno riconosciuta erroneamente come una delle firme di "Grazia", mentre altri la continuano a dichiarare attiva nel campo della pubblicità, quale lavoro
svolge adesso e come lo concilia con
l’impegno di scrittrice?
Dopo l’uscita del libro, diversi giornali (quotidiani, settimanali, mensili,
"Grazia" incluso) mi hanno proposto
delle collaborazioni. Due o tre pezzi
sono già usciti, è un lavoro che mi diverte. Spero di potermi mantenere così e dedicare il resto del tempo al prossimo libro.
Per il suo La ballata delle prugne secche ha sempre rifiutato di essere paragonata ai cosiddetti romanzi
«chick-lit», perché quelli sono storie di fantasia. Al contrario il suo libro è una «bio-novel», una biografia romanzata, scritto con tutta la
sincerità possibile. Non le sembra
però che in alcuni passaggi la Balla-
Paradiso
C di Dante
A in prosa
T
A
L
O
G
O
PULSATILLA . Un esordio fulminante di un’autrice pugliese dotata di
humour e di gusto del disincanto. Porta il nome di una pianta che
induce cattiveria ma il suo «bio-novel» sprizza ottimismo e buonismo.
L’ultima prova generazionalista che conquista la platea giovane
Alla base del mio caos
ci sono i miei genitori
VIVE
BOLOGNA E LAVORA
HA IDEATO
L’ANTOLOGIA "RESISTENZA60" (FERNANDEL, 2005)
IL LIBRO
A
NELLL’EDITORIA.
PULSATILLA
"La ballata delle prugne secche"
pp. 167, euro 10
Castelvecchi, 2006
SERGIO ROTINO
ta sia pericolosamente tangente con
Bridge Jones e compagnia?
Bridget Jones e compagnia hanno
avuto successo perché sono romanzi
verosimili, cioè ricalcano la realtà con
una buona approssimazione. La storia
di Bridget Jones, seppure falsa, è credibile. La mia, essendo vera, anche.
Credo che questo rappresenti il limite
che voglio superare. Sarebbe interessante misurarmi con una storia incredibile, o perlomeno peculiare. Vedremo. Non ho ancora avuto un attimo
per pensarci, né per riperendere la
penna in mano.
La sua visione disincantata degli avvenimenti che narra nel libro, il suo
dipingere senza traccia di retorica
certi spaccati della nostra società e
dell’umanità che la anima, una volta sarebbe stata definita tragicomica. Voglio dire, sente che La ballata
starebbe meglio vicino a Fantozzi
che alle scrittrici «chick-lit»? In
questo caso, non pensa di rischiare
l’incasellamento fra i comici che
oramai invadono le librerie oltre
che la televisione?
Qualcuno ha avuto la bontà - e l’ardire - di paragonarmi a Jonathan Swift,
Erica Jong, Louis-Ferdinand Céline,
per via delle fughe, dell’ironia, della
spudoratezza e quant’altro. Non lo so,
non ci capisco molto di critica letteraria. Secondo me La ballata è tanto
lontana da Céline quanto da Fantozzi.
Il personaggio di Fantozzi è un perdente, un reietto, un condannato. Sulla testa di Pulsatilla aleggiano nuvole
di sfiga fantozziana solo di rado. In linea di massima sono una che avuto
LUCIANO CORONA
"Paradiso di Dante"
pp. 190, euro 13
Fermento, 2006
Prosegue la «riscrittura interpretativa in prosa e per tutti» di Dante da parte di Luciano Corona che completa la
trilogia dantesca, dopo "Inferno" e "Purgatorio". Anche
per la terza cantica Corona permette di accedere alla
complessità del "Paradiso" in maniera comprensibile,
benché il tono elevato dei temi venga mantenuto dall’inizio del viaggio del poeta sino alla visione finale nella quale l’essere umano viene assorbito dimentico di sé.
Storia del centro
di un ombelico
Un esordio che non nasconde
la sua natura profondamente
autobiografica, anche se non
del tutto. Perché punte di finzionalità ci sono, questo è sicuro. Un libro che narra con
grande vivacità e acutezza il
centro dell’ombelico di una ragazza, Pulsatilla, come ce ne
sono tantissime attorno a noi.
E Pulsatilla non si piange addosso, no. Sferra pugni e calci
ridendo in faccia a ogni possibile «sfiga» le capiti, a ogni situazione non proprio riuscita,
a un mondo di imbecilli e saputelli, di rintronati e di esseri
inutili. Questo è, fra le altre cose, La ballata delle prugne secche. Libro in cui vi è una sola
donna, Pulsatilla. Tutti gli altri
personaggi sono uomini, e non
ci fanno mai una bellissima figura. Il libro, che è difficile
chiamare romanzo per le continue digressioni autodiegetiche e l’assenza di una vera e
propria fabula, è stato ritenuto
uno dei principali casi editoriali del 2006. Uno di quei casi
rari, vedi Melissa P. o Lara
Cardella, che inopinatamente
avvengono in Italia.
Discorso
sulla
Lucania
abbastanza culo, come tutti non mancano di ripetermi.
Per quale motivo ha deciso di utilizzare uno pseudonimo - al di là che
esso richiami una pianta officinale
sinonimo di una sua presunta cattiveria e il relativo blog da lei tenuto
- e non il suo vero nome per questo
esordio? Non si accentua il divario
fra il versante biografico della Ballata e quello romanzesco che lei vorrebbe invece rendere invisibile?
Mentre io correggevo le bozze, qualcuno limava i dettagli della copertina,
incluso il nome da mettere in alto.
Tutto l’involucro che riveste il mio romanzo, titolo a parte, è stato deciso da
altri. Non ricordo di essermi posta il
problema del nome, non avevo di certo contemplato la prospettiva del caso
editoriale, tutto è accaduto molto rapidamente, e credo che sia andato tutto
come doveva andare.
Lei dice di non avere molto tempo
da dedicare alla lettura, e che lo stile adottato per scrivere sul blog e poi
nel libro è assolutamente, totalmente originato dal suo bisogno fisico di
scrivere. Poi però, cita autori e testi
non certo di basso profilo, e usa una
scrittura a mio avviso matura, estremamente smaliziata, scevra dalle
pecche riscontrabili in un qualsivoglia esordiente. Delle due l’una, o lei
è un genio oppure sta dando di che
vivere al personaggio Pulsatilla.
Mia madre insegna lettere e il gusto
per i vocaboli eruditi devo averlo ereditato quindi da lei. Invece mio padre
è un uomo privo di filo logico, da lui
ho imparato a fare insalate con le parole che imparavo. A cinque anni dissi alla mia maestra d’asilo che la mia
cameretta era «un mare magnum di
cose», e la maestra diede di gomito alla sua collega perché non sapeva cosa
fosse il «mare magnum». Io assorbo,
ritengo e rilascio: un mio amico mi
chiamava «Valeria Sponge», la spu-
ANDREA DI CONSOLI
"Una lucida passione,
intervista a Filippo
Bubbico"
pp. 127, euro 10
Avagliano, 2006
Lunga intervista-conversazione tra un lucano e un lucano: Andrea Di Consoli nato a Bruxelles da genitori lucani e Filippo Bubbico, ex presidente della Regione Basilicata e attuale sottosegretario allo Sviluppo economico,
anche lui lucano di Matera. Una sorta di inchiesta ragionata tra due interlocutori che parlano, ancora e consapevolmente, dei nodi cruciali e dei problemi del Mezzogiorno. E grande vittima e grande imputata la Basilicata.
Ghibellini
e guelfi
in Sicilia
gna. Comincio tre libri alla settimana
e ne finisco uno ogni tre mesi, sono
curiosa, irrequieta e mi annoio facilmente, ma ho una memoria di ferro e
la perversione antropologica di origliare i discorsi degli altri. Non so se
sono un genio, ma è come se ogni
volta una fatina mi allungasse un sacchetto con la parola giusta.
Quanto hanno influito sul suo bisogno di mettere su carta, di narrare
le esperienze (sue e di Pulsatilla)
quei genitori descritti nel libro come
progressisti, buonisti ma assolutamente distonici, incapaci di organizzare la loro vita e quella della figlia?
C’entrano qualcosa, ma non so bene
in che modo. La frase celebre e abusata di Nietszche, «Bisogna avere un
caos dentro di sé per generare una
stella danzante», è veritiera: se non
avessi avuto un grande caos addosso,
avrei trovato più tempo per fare l’analisi dei dettagli, forse avrei fatto l’ingegnere o l’impiegata al catasto, ma mi
sarei persa il lato affascinante, emotivo, narrativo della realtà. Alla base
del mio caos ci sono indubbiamente i
miei genitori.
Mi sembra che, almeno in parte,
La ballata mutui la costruzione del
blog, cioè sia diviso in compartimenti quasi stagno. Trova che questa impressione corrisponda a quello che aveva in mente? Per questo si
avvicina alla forma diaristica?
Non credo che La ballata somigli a un
diario, né a un blog. Mantiene lo stile
del mio sito, che poi è il mio stile. I
compartimenti stagno ricordano secondo me la schermata del computer,
sono «finestre» che si aprono e si
chiudono sulla vita. Io sono una fuggiasca, saltabecco, sono per mia indole inadatta alla continuità; il mio libro
risente di questo stato d’animo, ma
non mi dispiace.
Nel libro si sente invece immediato
il suo piacere per la narrazione, che
scivola a volte sul crinale della
chiacchiera (a mio avviso, uno dei
principii della narrazione). Quanto
di questo piacere fa parte di un suo
corredo genetico e quanto l’ha aiutata a svilupparlo il lavoro di copy
nelle agenzie di pubblicità?
Immagino sia parte nel mio corredo
genetico. Il pubblicitario non chiacchiera, è spinto alla sintesi, infatti il
mondo della pubblicità mi stava stretto, avevo bisogno di spazi per il galoppo. L’offerta di pubblicare un libro è
stata un’opportunità per farlo, come il
blog d’altronde.
Ma ha un metodo per quello che
scrive? Voglio dire, prende appunti, costruisce una specie di canovaccio o va di getto direttamente su
computer, come a rimettere sulla
pagina il pensiero, la situazione che
ha elaborato a mente?
Di getto, a seconda della superficie
che ho a disposizione: computer, quaderno, bloc notes, le pagine bianche in
coda ai libri che porto in borsa, qualsiasi supporto va bene. Il computer lo
prediligo, perché non restano le cancellature.
Ogni giorno, quanto tempo dedica
alla scrittura che non coincide con
necessità lavorative, bensì con il bisogno di misurarsi con la pagina,
cartacea o elettronica?
La disciplina non è il mio forte. Scrivo solo quando e quanto mi va. È un
difetto che devo emendare.
Come è arrivata a organizzare il
materiale attorno a un’idea di romanzo? Ho notato che in parte lo
ha ripreso dal suo blog.
Il romanzo in nuce era un catalogo di
relazioni sentimentali fallimentari e
bizzarre, intorno al quale poi si è strutturato il resto della biografia. Comunque, il materiale tratto dal blog rappresenta solo una piccola parte del libro,
contrariamente a quanto si mormora
in giro.
Quanto c’è nel libro di cucina editoriale utile a dargli una struttura il
più vicina alla narrazione?
Di cucina editoriale c’è poco. Gli interventi dell’editor sono stati minimi.
MARCELLO AMICO
"Il guelfo ghibellino"
pp. 114, euro 10
Intilla, 2006
Il guelfo-ghibellino attorno al quale Marcello Amico costruisce il suo romanzo non è una contraddizione in termini, ma è sicuramente esistito. Nei quattro quadri che
formano la narrazione di Amico, l’esule esiliato, il cavaliere senza macchia, una donna arrogantissima e l’ultimo cavaliere, tutti tormentati dall’idea di essere fedeli
alla Chiesa e all’Impero, sono guelfi-ghibellini. Amico risale al 200 siciliano attraverso un’attenta ricerca.
11
S C A F F A L E
LINO BOLOGNA, L’assassino
non è un angelo, pp. 174, euro
174, Contatto 2006
Si ispira ad un fatto vero la detective story di Bologna, medico con la
passione del poliziesco. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in Val di
Magra, vengono ritrovati due cadaveri in una stanza d’albergo chiusa
all’interno. Solo una finestra a strapiombo sul mare avrebbe potuto
permettere all’assassino di fuggire.
Le cose si complicano quando appare un terzo cadavere. Ma il professor Dondi, medico legale, non
crede agli angeli.
STEFANO LORENZETTI, Dizionario del buon senso, Frediano Sessi (cura), pp. 241, euro 15,
Marsilio 2006
Lorenzetti è irritato dagli applausi ai
funerali, i farmaci che costano qualche miliardo al chilo, Ivrea con le
battaglie delle arance ecc. Ma ciò
che lo irrita maggiormene sono i
giornalisti con le loro frasi fatte, le
reticenze e l’approssimazione. Per
questo ha lasciato la vicedirezione
di un quotidiano nazionale dopo
venticinque anni passati a coordinare il lavoro dei colleghi definendola «relazioni pericolose». Lui osserva le contraddizioni di un paese nevrotico per la mancanza del buon
senso. Continua le interviste alla
gente comune. Dal suo osservatorio
privato prosegue in un moralismo
sempre smussato dall’arguzia. Stefano Lorenzetti ha vinto il premio
Saint Vincent dopo aver lavorato
per diversi giornali e pubblicato
svariati lavori.
CARMELO ALIBERTI, Itaca Ithaca, pp. 87, euro 10, Il Convivio 2006
Approdo poetico, tra sogno e visione, tra echi classici e rimandi all’attualità, il dramma lirico per voce sola di Aliberti, poeta, narratore
e critico letterario messinese. I versi di Itaca continuano un lungo discorso poetico iniziato con Il pianto del poeta, pregno di simbolismi e
di significati sacrali colti dal poeta
lungo il viaggio odissiaco della poesia, da Omero a Dante, da Mallarmé a Kavafis e Cattafi. Il poemetto è tradotto in inglese da Nino
Famà ed Ennio Rao. Prefazione di
Francesco Puccio, postfazione di
Angelo Manitta.
ROSSANA DEDOLA, La valigia delle Indie e altri bagagli,
pp.231, euro 20, Mondadori
2006
Negli anni Sessanta l’India è stata
molto visitata da giovani occidentali che ancora oggi vi ritornano ricchi
della visuale più ampia e sulla scorta di un vasto bagaglio di narrazioni da parte di poeti e scrittori. L’India ha mostrato un’identità diversa
dall’Occidente ed ha compiuto sforzi per capire il mondo dal quale
provenivano giovani incapaci più di
viverci.
DIEGO ABATANTUONO, Eccezzziunale!, pp. 110, euro 10,
Mondadori 2006
In queste pagine fluisce la comicità
di Diego Abatantuono col suo cavallo di battaglia del «Terrunciello»
dal cervello «eccezzziunale, veramente eccezzziunale!». Un animale strano, portentoso nell’amplesso
col suo spopozionato sesso. Dice di
essere milanese ma ha un marcato
accento del Sud che lo fa ruspante e
rustico. Libro pieno di vocaboli coniati apposta per lui, a volte incomprensibili ma di forte ilarità. Si parla anche di calcio ma nel modo più
paradossale.
SALVATORE VECA, Le cose
della vita, pp. 283, euro 9,80, Bur
2006
Ci sono cose nella vita considerate
utili per poter vivere: i cosidetti
«mestieri della vita». Praticamente
sono le armi che ci consentono il vivere, l’abitare, l’amare l’invecchiare, che determinano la pace, il dolore, la solitudine. Tramite la filosofia
ci spogliamo di passioni, emozioni,
identità e da tutte le cose inafferrabili che offuscano il nostro modo di
vivere. Veca suggerisce dodici ritratti di colleghi ed amici, da Vilfredo Pareto a Marco Mondadori, che
si sono espressi in modo decisivo
per descrivere le cose della vita.
on una meritoria opera di
riscoperta e di nuova traduzione cominciata nel
2005 con Le colpe dei padri, continuata nel 2006
con È tempo di uccidere e ora con Otto milioni di modi per morire, la casa
editrice romana Fanucci sta via via ripubblicando tutti i titoli di Lawrence
Block, maestro americano della crimestory. Stilos lo ha intervistato.
I suoi libri - e Otto milioni di modi
per morire non fa eccezione - fanno
venir voglia di partire per New York
subito dopo averli letti: cosa prova
nei confronti di questa città e quali
pensa siano le caratteristiche che la
rendono così letterariamente adatta
all’hard boiled, ma non solo?
New York da molto tempo è casa mia.
Ma io ho sempre avuto una fortissima
attrazione per questa città, anche quando non ci vivevo. Per me è la città più
eccitante che esista. È una città sempre
stimolante.
Credo che sia
questo il motivo per cui così
tanta gente si
sente tanto attratta. C’è però
un’altra ragione per cui ambiento le mie
storie a New
York, e credo
che sia lo stesso motivo per
cui è così tremendamente
adatta a fare da
sfondo ai libri.
Quando tu descrivi la città, non è come se tu stessi
descrivendo l’ambiente di Marte; la
gente la conosce già, perché ne ha già
visto una buona parte nei tantissimi
film e serie televisive che vi sono stati ambientati. Quindi il lettore ha già
una disposizione mentale che è aperta
alla città. Per quanto mi riguarda, sono
tantissimi gli ambienti di New York
che ho descritto; e c’è tanta gente che
negli anni mi ha detto di essere andata a cercare questi posti. È buffo, perché alcuni posti sono immaginari, me
li sono inventati di sana pianta. Molti
però, quasi tutti, sono veri, e vengono
ritrovati. Altri ancora erano veri, ma
essendo i miei libri stati scritti molti
anni fa, magari non ci sono più, hanno
chiuso. Lo stesso bar dove andava
Scudder, cioè il bar di Armstrong, è
stato chiuso un paio di anni fa. Ma il
proprietario, il vero Armstrong, diceva
di aver spesso ricevuto le visite di comitive di turisti che erano andate a
trovarlo, a bere nel suo locale: spesso
gli chiedevano dove si sedeva Scudder, altre volte gli chiedevano di fare
una foto assieme a loro. È bella questa
cosa.
Eppure nel libro New York viene anche definita «la città del menefreghismo» e dei suoi abitanti si dice che
«guardano dall’altra parte quando
la città uccide i loro amici» - tra l’al-
tro in un bellissimo paragone con La
collina dei conigli di Richard
Adams…
Infatti è anche questo, New York. Ma
in verità sull’argomento si può parlare
di una visione del mondo più ampia.
Certamente New York fagocita i suoi
abitanti e in qualche modo li rende indifferenti, ma è la vita moderna in generale che ha questo effetto sulle persone. È un problema comune a tutte le
grandi metropoli.
Il libro ha ventitré anni, ma non li
dimostra; quantomeno davanti ai
nostri occhi da europei risulta attuale. È diverso
per un lettore
americano?
Beh, è una domanda molto
difficile; certo,
per esempio se
penso alle modalità di investigazione, ora
con le intercettazioni telefoniche, con il
dna, è tutto più
facile di quando indagava
Scudder, specialmente nei
primi
libri.
Però, tutto sommato, questi sono dettagli. Come persona, come uomo, credo che Scudder sia attuale. E anche
l’ambientazione credo lo sia. A conforto di quanto dico, c’è il fatto che il libro
è tuttora in catalogo, e continua a vendere bene. Immagino che la gente lo
trovi dunque al passo coi tempi.
Da Otto milioni di modi per morire è
stato tratto un film (introvabile in
Italia). Ha partecipato in qualche
modo alla riduzione cinematografica? Cosa ha provato quando l’ha visto per la prima volta?
No, non ho partecipato in alcun modo.
Non mi hanno chiesto di partecipare
alla stesura della sceneggiatura. Cosa
ho provato, vedendolo, sapendo che
era tratto dal mio libro… beh, le racconto un aneddoto indicativo: una volta un giornalista chiese a James M.
Cain che cosa provasse pensando a
ciò che Hollywood aveva fatto ai suoi
libri. Lui rispose «Hollywood non ha
fatto niente ai miei libri, guardi, sono
tutti lì allineati sullo scaffale». Credo
di dover considerare il film come «altro» dal libro, quindi. Ma per tornare
alla domanda: sono sincero, il film
non mi è piaciuto molto. Anzi, posso
dire che è stato un fallimento sotto
tutti i punti di vista. L’unica cosa che
posso dire mi sia piaciuta è stata l’interpretazione di Jeff Bridges nei panni
MADDALENA BONACCORSO
NARRATIVA NOIR
TANTI SITI ITALIANI SULLA
VIVE E LAVORA A MILANO.
COLLABORA CON DUE IMPOR-
di Matthew Scudder e quella di Andy
Garcia nei panni di Chance. Loro hanno recitato molto bene, ma il resto del
film è stato veramente un disastro. Poi
mi è anche capitato di parlarne, con
Jeff Bridges; mi ha confessato di essere lui stesso rimasto deluso dal film.
Mi ha detto che lui aveva svolto un lavoro molto meticoloso per prepararsi
ed era convinto di aver fatto un buon
lavoro; ma il problema era stato che la
produzione aveva deciso di allontanare il regista originario, proprio alla
fine del film, e di assegnarlo a un altro.
Scrive anche sceneggiature?
No, non scrivo molte sceneggiature.
Ne ho scritto una per un film chiamato "Keller", su questo personaggio,
ma non ne è stato ancora fatto niente.
A proposito del personaggio di Keller, vuole parlarcene?
Keller è un personaggio che mi paice
molto… è comparso, finora, in tre libri. "Hit man", Hit list" e "Hit parade";
quest’ultimo è molto recente. È un sicario a pagamento, un assassino che
uccide per soldi. Non avrei mai pensato di scrivere un libro sull’argomento,
figuriamoci una serie… ma così va la
vita. Keller è nato come protagonista
di una short-story, era la storia di questo sicario che da New York si reca
nell’Oregon perché ha avuto incarico
di uccidere una persona che rientra
nel programma di protezione dei testimoni. Però Keller finisce per entrare in
confidenza con la vittima, la conosce e
inizia ad avere dubbi sulla propria attività, pensa addirittura che non sia
giusto ucciderla, pensa di cambiare
vita. Cerca anche casa in Oregon. Ma
un bel giorno si alza, ritorna in sé, uccide la persona che doveva uccidere e
se ne torna a casa. Pensavo che Keller
sarebbe finito così, con quella storia.
Sono passati un paio d’anni senza che
scrivessi nulla su di lui. Però mi sono
reso conto che continuavo a pensarci,
a questo personaggio. Ho pensato che
magari potevo fargli fare un programma di psicoterapia; e quindi ho scritto
una storia in cui raccontavo questo
programma, e poi una cosa tira l’altra,
insomma continuavo a scrivere storie
su di lui; mi sono reso conto che stavo
scrivendo una specie di romanzo a rate. Quindi ho raggruppato le prime
dieci storie e ne ho fatto un romanzo,
che è "Hit man". E poi da lì è venuto il
resto.
Lei ha creato diversi personaggi seriali, tutti diversi tra loro e tutti
ugualmente convincenti. Sembra
impossibile che siano usciti dalla
stessa penna. Riesce sempre senza
problemi a farli convivere dentro di
sé?
Sì, riesco e sono sempre riuscito a
mantenere separata nella mia creatività
personaggi così diversi e a far progredire le loro storie senza problemi. So-
È nell’hard boiled del detective
Matthew Scudder che il talento di Block ha trovato la sua
ispirazione. È di nuovo tempo
di indagare per Matthew
Scudder: ex poliziotto con una
bambina uccisa per sbaglio
sulla coscienza, e ora detective
privato con gravi problemi di
alcoolismo. Sempre alle prese
con le luci scintillanti e le anime perse di New York. Una
prostituta viene trovata uccisa
in una camera d’albergo. Era
giovane e bellissima e stava
cercando di cambiare vita. Ma
non ha fatto in tempo, e ora il
suo protettore, il fascinoso e
enigmatico Chance, accusato
dell’omicidio ma con un alibi
di ferro, ingaggia il detective
Scudder affinché trovi il colpevole. Un libro scritto nel 1982
dal quale nel 1986 è stato tratto un film, con la sceneggiatura di Oliver Stone.
Prostituta uccisa
colpevole cercasi
LAWRENCE BLOCK
"Otto milioni di modi
per morire"
Trad. Ornella Ranieri
Davide, Nello Giugliano
pp. 384, euro 15
Fanucci, 2006
LAWRENCE BLOCK
Nella Grande Mela
del cinema d’essai
Giallo sofisticato ambientato
in una New York che ispira più
sogni anziché paura. Dove un
libraio sui generis, Bernie
Rodhenbarr, può trovare cittadinanza vestendo anche i panni del ladro, una sindrome che
non lo abbandona mai, e quelli
dell’investigatore. C’è un mistero da risolvere: un cadavere
che aspetta di conoscere il suo
amicida. Riluce la New York
del cinema d’essai e in bianco e
nero.
Ritorna Bernie Rhodenbarr,
libraio con il vizio inguaribile
del furto ma sempre tentato
dal piacere dell’onestà. Per pagare l’affitto della libreria si
decide a commettere uno scasso, che gli riserva sorprese:
non solo una rara raccolta di
figurine di baseball ma anche
un cadavere. Finisce naturalmente per essere il primo sospettato e deve impegnarsi in
una nuova inchiesta che valga
a salvare se stesso.
Il titolo fa riferimento allo stato di derelizioni di New York
dove, dietro un convincente
apparato perbenista, si nascondono ignominie e aberrazioni. Una donna viene uccisa
e il marito eredita ricche sostanze. Matthew Scudder indaga sulla morte finché scopre, rimanendone sconvolto,
una videocassetta in cui si vedono un uomo e una donna
torturare e uccidere un ragazzino.
LAWRENCE BLOCK
"Il ladro che credeva
di essere Bogart"
Trad. Alfredo Colitto
pp. 287, euro 9,50
Hobby&Work, 1999
IL LADRO CHE CREDEVA...
Uno scassinatore
ben poco fortunato
LAWRENCE BLOCK
"Il ladro che rubava
figurine"
pp. 280, euro 9,50
Hobby & Work,
2000
IL LADRO CHE RUBAVA...
l primo libro con protagonista Matthew Scudder viene pubblicato negli Stati Uniti nel 1976, con il titolo "The sins of the father". Block non ha ancora
quarant’anni, ma la carriera che ha alle spalle è già notevole. Con questo romanzo e con la nascita di Matt Scudder lo scrittore americano entra nel gotha
dei migliori story-teller dei tempi moderni: la critica e i lettori lo capiscono al
volo e percepiscono immediatamente di trovarsi davanti a qualcosa di nuovo
e stupefacente. Il romanzo ottiene subito un incredibile successo.
A tutt’oggi Block continua a scrivere di Matthew Scudder: la serie negli Stati
Uniti è già arrivata al quindicesimo volume - proprio di recente è uscito "All the
flowers are dying" - e non tradisce segno di stanchezza né di ripetitività. In Italia, dopo una serie di titoli pubblicati negli anni Settanta sotto l’etichetta dei
Gialli Mondadori, e dopo un lunghissimo periodo di inspiegabile oblìo, l’opera di ripubblicazione è appena iniziata. Matthew Scudder è probabilmente il personaggio seriale maggiormente riuscito nel panorama mondiale della crimestory. Ex poliziotto in forza al New York Police Department, e adesso detective privato senza licenza, lavora in modo anomalo, più che altro indaga per far
favori agli amici. Problematico e affascinante; ricolmo di dubbi, schiacciato dall’alcoolismo, onesto fino al midollo.
Riunisce le caratteristiche migliori dei grandi detective americani; da Sam Spade, indimenticato protagonista della serie creata da Dashiell Hammett, del quale possiede la forza di carattere e la tenacia, fino al moderno e metropolitano
Harry Bosh di Michael Connelly, passando per Travis McGee, di John D.Mac
Donald, con il quale ha in comune astuzia e accortezza. Matthew Scudder rende omaggio con ogni respiro alla sua città, che è poi l’amatissima città dove vive Block, New York «state of mind», le sue anime perse, le strade bagnate. Una
città notturna, agitata, popolata da fantasmi ma che attira e cattura il lettore con
un’invisibile calamita.
Otto milioni di modi per morire è stato scritto e pubblicato negli Stati Uniti nel
1983 e bisogna sottolineare che è il quinto episodio della serie americana. Qui
Matthew Scudder, detective
privato, indaga su una serie di
omicidi che colpiscono i membri di una riservatissima associazione chiamata «Club dei
31», cittadini degni di stima
che si incontrano una volta
l’anno. Agli inizi nessuno pensa a un serial killer mirato ma
le indagini si indirizzano presto in questa direzione fino a
precisarsi in una spietata e
sorprendente caccia all’uomo
tutta newyorkese.
Caccia spietata
a un serial killer
LAWRENCE BLOCK
Trad. Stefano Negrini
"Una lunga linea di
morte"
pp. 316, euro 9,50
Hobby & Work, 2001
UNA LUNGA LINEA DI MORTE
Una giovane bella prostituta
viene trovata morta nell’appartamento che divideva con
un un uomo accusato del delitto e spinto a togliersi la vita in
carcere per protestare la sua
innocenza. Il padre della ragazza incarica Matt Scudder
allo scopo di capire chi fosse
stata davvero sua figlia. Le indagini si muovono in una New
York allucinata, fatta di bar
aperti nottetempo e di individui catafratti.
Morte misteriosa
di una prostituta
LAWRENCE BLOCK
"Le colpe dei padri"
pp. 176, euro 13
Fanucci, 2005
LE COLPE DEI PADRI
da noi tuttavia esce come terzo, dopo Le colpe dei padri e È tempo di uccidere,
la cui prima pubblicazione risale al 1976. "Eight way millions to die", questo
il titolo originale, è sicuramente un libro topico nell’andamento della storia del
detective, perché in esso, per la prima volta, Matthew Scudder ammette il suo
alcoolismo e ne prende intimamente coscienza. Lo troviamo difatti, nelle prime pagine, appena uscito dall’ospedale; con una condanna che grava su di lui.
L’alcoolismo lo ucciderà in pochi anni, se non riesce a smettere, subito. E lo troviamo, nell’ultima pagina, in lacrime, davanti al gruppo degli Alcoolisti anonimi. E tutto il romanzo è una lenta e continua presa di coscienza di quanto questo problema influisca sulla sua vita e sul suo lavoro. Non è lo scontato eroe
americano che fa della dipendenza dal bourbon una forza: Scudder è un uomo
come tanti, che nella bottiglia cerca solo la forza di resistere alla solitudine e al
rimorso. È un personaggio che evolve, invecchia assieme al suo creatore, e man
mano che passano i giorni e che la realtà cambia sotto i suoi occhi, anch’egli modifica se stesso e il suo modo di agire. Questa caratteristica, fondamentale, contribuisce a renderlo un personaggio vivo, ben radicato nel suo tempo ma, nonostante questo, attuale anche a vent’anni di distanza.
Lo stile narrativo è disarmante nella sua semplicità. Lawrence Block non è scrittore che debba ricorrere a trucchi, la storia erompe naturalmente dalle pagine
del libro con estrema pulizia e con un ritmo e una suspense che non concedono tregua. È un artigiano della scrittura che sfugge alla catalogazioni, e la sua
abilità appare in modo inequivocabile semplicemente osservando come tutte le
differenti componenti del plot narrativo convergano come un basso continuo,
alla fine, in un unico, elettrizzante, insieme. Penetrante come una stilettatata.
Nessuna parte è in sopravvento, nessun dettaglio è di troppo, nessun aggettivo
è forzato. Tutto è essenziale e angosciante come in un quadro di Edward Hopper, tutto è dramma, tutto è incomunicabilità. Vita di New York, sempre e comunque.
M. B.
Scudder, l’americano pieno di vizi e virtù
I
L’aberrazione
non ha confini
LAWRENCE BLOCK
"La perdizione"
Trad. S. Negrini
pp. 249, euro 15,49
Mondadori, 1992
LA PERDIZIONE
no sempre riuscito a mantenere le diverse attitudini dei diversi personaggi
contemporaneamente e a tenere ben
separate le loro voci. Anzi, le dirò di
più: un altro dei miei personaggi si
chiama Evan Tanner. Avevo scritto
sette storie con lui protagonista quando, molti anni fa, diciamo circa venticinque, smisi di scrivere storie su questo personaggio. Qualche anno fa decisi di scrivere un nuovo episodio della serie, l’ottavo. E quando mi accinsi
a scriverlo, nel momento esatto in cui
mi misi davanti al computer per scriverlo, non ebbi nessun problema a farlo, e quindi a immedesimarmi nuovamente nel personaggio di Tanner che
tanti anni prima avevo abbandonato.
Ho stupito per prima me stesso; perché, le dico la verità, anche io pensavo
che magari all’inizio avrei avuto qualche problema a ricatturare la voce,
l’essenza di Tanner. E a maggior ragione per il fatto che quei libri li scrivevo
in prima persona. Invece, per fortuna,
non è accaduto. Ho iniziato a scrivere
e ho scoperto che in questo quarto di
secolo Tanner semplicemente era rimasto nascosto in qualche cellula del
mio cervello, e quando gli ho dato
l’occasione per farlo ha ricominciato a
parlare. Stava solo aspettando la possibilità di farlo
Matthew Scudder e il ladro gentiluomo Bernie Rhodenbarr si muovono entrambi a New York. Non le
viene mai voglia di scambiare un po’
le loro caratteristiche, o di farli incontrare?
No, di scambiare un po’ le loro carat-
Lawrence Block nasce a Buffalo, nell’Ohio, nel 1938. Da molti anni vive a New York. Nella
sua carriera ormai quarantennale ha vinto tutto ciò che è
possibile vincere: l’Edgar
Award gli è stato conferito per
ben tre volte. Ha ricevuto inoltre due volte il Maltese Falcon
Award, il Nero Wolfe Award e
cinque volte lo Shamus Award.
Anche la Francia ha riconosciuto il suo genio, proclamandolo «Grand maître du roman
noir». È stato tradotto in Europa fin dai primissimi anni Sessanta. Il suo romanzo Mona
già nel 1962 entrò a far parte
della prestigiosissima "Série
Noire" di Marcel Duhamel. È
sempre stato uno scrittore
estremamente prolifico: ha iniziato a scrivere da giovanissimo e tra le sue opere, oltre i
numerosi romanzi, vanno ricordati molti ottimi racconti e
saggi. Si è mosso ininterrottamente e con estrema agilità tra
i vari ambienti della letteratura di genere, sempre a suo agio
tra la spy story, il thriller, il
giallo classico fino all’hardboiled, la branca più forte e
metropolitana del poliziesco.
Scrive da giovane
grande prolificità
L’ A U T O R E
13
pagina
Un ricattatore dei bassifondi
di New York fa la fine che si
merita: ucciso e gettato nel fiume. Prima di morire ha avuto
il tempo di lasciare a Matt
Scudder un fascicolo con tre
storie e tre nomi di persone
che stava ricattando. Il detective privato, ex poliziotto, avvia
indagini che lo portano in un
mondo inesplorato e pericoloso, nel cuore nero di una New
York che fa da perfetta quinta
a un intreccio di malaffare.
Così finiscono
i ricattatori
LAWRENCE BLOCK
"È tempo di uccidere"
Trad. Ornella Ranieri
Davide
pp. 176, euro 13
Fanucci, 2006
È TEMPO DI UCCIDERE
za, ottime recensioni… e quindi ho
capito che era la mia strada. E adesso
mi identificano così tanto con i polizieschi che se anche scrivessi un libro
di cucina, beh, i librai lo metterebbero comunque nella sezione dei gialli!
Dopo l’11 settembre lei ha scritto
"Small town", un libro interamente su New York, ancora inedito in
Italia. Vuole parlarcene?
In verità per molti anni ho avuto in
mente di scrivere una storia che avesse per protagonista New York vista
dagli occhi di diversi personaggi. E
che avesse dentro di sé quanti più elementi di questa grande città un libro
potesse contenere. Io in verità avevo
già iniziato questa storia, e quando è
arrivato l’11 Settembre ero già a buon
punto. Naturalmente, appena è successo quello che è successo la mia disperazione era totale. Ho pensato che
non sarei mai più riuscito a riprendere in mano quelle pagine, che non sarei più andato
avanti con la
narrazione.
Però man mano che il tempo passava ho
capito che forse avrei potuto
affrontare la
questione in
maniera diversa. Che proprio quelle pagine che avevo
scritto, una
volta sistemate e parzialmente riscritte,
potessero essere l’ossatura di un libro ambientato
nell’immediato domani delle torri gemelle. Che potessero essere testimonianza e speranza. Credo che il libro
sia proprio questo, e spero che "Small
town" venga presto pubblicato da Fanucci.
Lei ha scritto anche dei manuali di
scrittura: che consiglio darebbe a
chi volesse scrivere un thriller?
Sicuramente di scrivere la storia come
viene in mente e non pensando a un
pubblico immaginario. Non pensate a
compiacere, a piacere. Scrivete la storia che vorreste leggere.
C’è una citazione di Edgar Lawrence Doctorow, che lei riporta spesso:
«Scrivere un romanzo è come guidare nella notte». Le piace molto?
Sì, mi piace moltissimo questa citazione. Scrivere un romanzo è come
guidare di notte, è veramente così.
Non puoi vedere molto, vedi soltanto
lì dove le luci della tua macchina si
spingono, e oltre non vedi niente.
Però puoi continuare a viaggiare tutta la notte e attraversare l’intero paese.
Il che significa che quando inizi a scrivere un romanzo non è detto che tu ce
lo debba avere tutto in mente, puoi cominciare a scriverlo comunque. E poi
sarà una sorpresa anche per te, quello
che succederà.
[Trad. Seba Pezzani]
so che arrivati alla fine di qualche
mio libro si siano detti «Posso fare di
meglio»! Riguardo all’ispirazione,
certamente, mi fa piacere, e credo sia
un fatto abbastanza naturale per ogni
scrittore incorporare elementi degli
autori che legge. Non necessariamente in maniera consapevole e volontaria. Io stesso, sicuramente, nel tempo
ho preso tratti di altri scrittori; scrittori che ho letto in gioventù, magari.
Quali scrittori ha amato particolarmente?
Ah, guardi… io ho amato molto Dashiell Hammett. E poi Raymond
Chandler, Cornell Woolrich, Fredrick
Brown, Ed Mc Bain. E anche scrittori non di genere, come John O’ Hara,
per esempio.
Aproposito di Cornell Woolrich: lei
ha completato un suo libro, Dentro
la notte. Può parlarci di questa esperienza?
L’ho fatto molti anni fa, una ventina,
credo. Cornell
Woolrich il romanzo l’aveva
finito. Solo
che era incompleto, nel senso che mancavano una trentina di pagine
all’inizio,
un’altra trentina più avanti,
e soprattutto
c’erano molte
discrepanze.
Per cui il mio
lavoro è stato
quello di colmare i vuoti e
di dare organicità al testo. Ho dovuto
risolvere dei problemi: per esempio
nel capitolo 8 c’è un tizio che muore
e ricompare nel capitolo 12. Per cui io
ho avuto la responsabilità di far sì
che questo libro potesse essere stampato e presentato al pubblico. Però
alla fine rimane in tutto e per tutto un
libro di Cornell Woolrich.
Lei ha cominciato a scrivere giovanissimo, negli anni ’50. Era già consapevole del suo talento?
No, diciamo che allora non ero consapevole di avere avuto in dono il talento della scrittura. Ho deciso che volevo diventare uno scrittore e ho cominciato a scrivere a 15, 16 anni e già
qualche anno dopo ero un professionista. Non ho mai sentito un talento particolare per la scrittura, piuttosto il desiderio fortissimo di scrivere, questo sì.
Restando in argomento: ha sempre
desiderato scrivere polizieschi o arrivarci è stato un caso?
All’inizio non ho deciso a mente fredda che mi sarei occupato di polizieschi; ho provato a scrivere diversi generi, di versi tipi di romanzi. Però con
il passare del tempo mi sono reso
conto che l’idea che più mi intrigava,
che più mi interessava era proprio
quella di scrivere dei gialli, dei polizieschi. La prima crime story che ho
scritto ha avuto un’ottima accoglien-
teristiche, no, finora non me ne è mai
venuta voglia. In fondo credo che
Scudder e Rhodenbarr vadano abbastanza bene così, e non abbiano bisogno di modificare i propri tratti o di
scambiarsi alcune particolarità. Per
quanto riguarda il farli incontrare…
beh, alcuni lettori me lo hanno anche
chiesto esplicitamente. Ma non credo
che lo farò mai; vivono in due universi troppo diversi. È vero, tutti e due vivono in una città chiamata New York.
Ma la New York di Scudder è buia, è
molto dark, quella di Rhodenbarr è
luminosa, gioiosa.
Però, nonostante la sua problematicità, Scudder possiede un particolare umorismo…
Sì, è vero, e la maggior parte dell’umorismo è contenuta secondo me nei dialoghi, nelle conversazioni che Scudder
ha con i vari personaggi. Credo che
questo rispecchi ciò che succede nella
vita reale. Perché alla fine, soprattutto
nell’ambito delle forze di polizia, questo umorismo c’è sempre. È un po’una
sorta di scudo contro le durezze della
vita. Il poliziotto deve averlo per poter
misurarsi con gli orrori che si trova di
fronte.
Mi è molto piaciuta l’idea del
«racket della protezione celeste».
Scudder è ossessionato dal devolvere soldi alle chiese…
Ah, sì, questa storia del «racket della
protezione celeste» incuriosisce molto
i miei lettori. Sinceramente, non so
come mi sia venuta l’idea. Ma c’è solo nei primi libri della serie; e poi c’è
un punto, anche se non ricordo bene
dove con esattezza, in cui lui smette di
farlo. Alcuni dicono che Scudder
smette di dare soldi alla chiesa quando
diventa sobrio…
Ha mai commesso qualche errore,
magari poi scovato dai suoi lettori?
Beh, oggi nell’epoca dell’e-mail, è
molto più facile per un lettore contattare direttamente l’autore di quanto
non lo fosse una volta. Per cui non appena io commetto un errore (ma questo vale anche per molti altri scrittori)
tantissimi lettori me lo fanno subito
notare. L’errore più comune che mi capitava, soprattutto prima, di commettere, era quasi sempre legato a imperfezioni e a inesattezze sul tema delle armi. Pare che ci sia molta gente interessata alle armi più di quanto non lo sia
io, quindi non appena sbaglio qualcosa me lo fanno subito notare. Al punto
che ultimamente mi invento delle marche assurde di armi; così posso spararle grosse, dire quello che voglio senza
che nessuno abbia il diritto di farmelo
notare.
I suoi libri contengono molti dettagli
tecnici su armi, procedure di polizia, etc etc. Ha qualcuno che l’aiuta,
che le fornisce consulenza?
Devo dire che non c’è nessuno che mi
aiuta a svolgere il lavoro di ricerca né
io sono un autore che compie molte ricerche. Per cui le informazioni che suffragano i miei libri sono quelle informazioni che ho acquisito nel tempo,
semplicemente guardandomi intorno.
In Italia negli ultimi anni c’è stata
un’enorme rinascita della letteratura poliziesca in tutte le sue varie accezioni. Questa rinascita è stata naturalmente seguita da innumerevoli dibattiti sulla validità della letteratura cosiddetta di genere e sulla sua
dignità. Lei cosa ne pensa?
In effetti anche negli Stati Uniti negli
ultimi anni l’attenzione dei critici nei
confronti del genere della crime story
è cresciuta notevolmente. Questo forse perché la cosiddetta letteratura di
serie A ha perso di vista un po’ il concetto base dello scrivere, cioè la storia.
Che è invece un elemento trainante
della letteratura di genere. Questo non
significa che automaticamente tutta la
letteratura di genere sia positiva e
quella di serie A sia negativa. Ci possono certamente essere delle ottime
storie di genere che possono essere
messe sul piano della migliore letteratura, e ce ne possono essere altre pessime. Così come ci sono determinate
storie scritte con un tono letterariamente alto che poi non raccontano
niente. Vorrei anche dire un’altra cosa: dei giovani scrittori americani dell’ultima generazione ce ne sono diversi, forse tra i più interessanti, che hanno scritto indiscutibilmente delle storie poliziesche, anche se non vengono
commercializzate come tali. Il giallo,
l’indagine, a volte si nascondono tra
le pieghe della scrittura…
Molti scrittori di crime-story sia
americani che italiani, per esempio,
hanno tratto ispirazione dai suoi libri e altri hanno proprio dichiarato di aver iniziato a scrivere dopo
aver letto lei. Questa cosa le fa piacere?
Beh, sì, è vero che molti scrittori dichiarano di aver iniziato a scrivere
dopo aver letto qualcosa di mio. Pen-
della crime story sminuiscono le presunzioni maschili. Da Hammett in poi, scaturisce la «scuola dei duri», letteralmente hard boiled, che indica l’uovo sodo,
compatto e consistente in bocca. Vi si cimenteranno firme leggendarie, poi rivalutate dal cinema. Si prenda, Horace McCoy, ricordato per Non si uccidono
così anche i cavalli, sulle estenuanti gare di ballo nel periodo della Depressione, ma anche per Il sudario non ha tasche, accorata e inesorabile tragedia di un
cronista deciso a pubblicare le verità più scomode, a scanso delle pressioni per
metterlo a tacere.
La scuola dei duri trova il suo cantore ufficiale in Raymond Chandler, nato a
Chicago ma educato in Inghilterra. Al suo ritorno in patria, l’uomo affronta una
serie di impieghi deludenti senza rinunciare alle sue predilezioni letterarie, raffinatissime, che vanno da Shakespeare a Proust. Finché a tarda età esordisce su
"Black Mask" con racconti che elevano lo stile di Hammett a livelli eccelsi. L’investigatore Philip Marlowe, diversamente da Continental Op, pontifica di
continuo sulla realtà. E i suoi pensieri sono elaborati e complessi, romantici e
amari, non certo concisi. Il grande sonno, Addio mia amata, Finestra sul vuoto,
Il lungo addio sono classici da tempo non confinati al giallo. Con Chandler, inoltra, si precisa il percorso di questa narrativa, direttamente parallela all’involuzione del modello americano, che corrompe la politica e devasta il territorio.
Non a caso, gli autori interessati guardano molto all’Europa. Ross McDonald,
un fedele imitatore di Chandler, inventa Lew Archer, detective privato di Los
Angeles dal piglio decisamente proustiano. Perfino Elmore Leonard, ispiratore di Quentin Tarantino, conferisce ai suoi libri un retrogusto letterario derivato dal Vecchio Mondo. Quanto a Lawrence Block, il più illustre dei «duri» contemporanei, gli si ascrivono notoriamente preferenze culturali europee. La terra da cui partirono i Padri Fondatori costituisce per i giallisti americani la speranza di un ordine civile dettato dai valori e dalla Storia, che confluiscono nell’idea comunitaria di Stato, contrapposto all’arbitrio del privato. Peccato che,
invece, da questo lato dell’Atlantico esista una deriva all’americana.
Enzo Verrengia
el giallo americano, la gente «uccide per solide ragioni», come scrive
Raymond Chandler. Le origini del filone risalgono agli anni Venti, quando le edicole e gli empori degli Stati Uniti iniziano a traboccare di riviste popolari stampate su carta di scarsa qualità, ricavata dalla polpa del legno,
e per questo dette «pulp magazines». Su quelle pagine appaiono racconti di genere, dalla fantascienza all’avventura, dall’horror al sentimentale. Ma i preferiti appartengono proprio al giallo. Un periodico, soprattutto, la vince tra tutti.
È "Black Mask", maschera nera, che inonda i lettori di racconti sensazionali, da
divorare. Una tendenza che si accentua sotto la direzione del capitano T.
Shaw, che raccomanda ai suoi autori: «Quando avete dei dubbi su un personaggio, fatelo sparare». A prenderlo più sul serio è un ex investigatore privato della Pinkerton Agency, l’organizzazione privata di vigilanti cui viene accreditata la cattura di Jesse James. Il segugio riciclatosi scrittore perché affetto da tubercolosi, e quindi ormai inadatto ai lavori pesanti, si chiama Dashiell Hammett.
È un comunista, che in realtà ha deciso di smetterla con la Pinkerton dopo aver
visto i colleghi pestare degli operai in sciopero. Una cosa è dare la caccia ai criminali, altra ridursi a braccio violento del capitale. Così Hammett dà subito ai
suoi scritti l’impronta decisiva della crime story. Questa deve rappresentare il
marcio della società americana, fondata per definizione sul potere dei soldi e sull’anarchia del più forte. Il protagonista fisso di Hammett è Continental Op, un
investigatore privato senza nome, che narra in prima persona. Il suo caso più
rappresentativo è ripulire dalla corruzione e dallo strapotere una cittadina dal
nome indicativo: Personville, deformato in Poisonville, città del veleno. Il romanzo si intitola in italiano Piombo e sangue. Continental Op riesce nel suo intento mettendo contro le due bande che si disputano il territorio. È la tecnica dell’Arlecchino servitore di due padroni, ripresa da Akira Kurosawa in Yoijmbo la
sfida del samurai e con più efficacia da Sergio Leone in Per un pugno di dollari.
La scrittura di Hammett fa da esempio. Frasi secche e significative, ironia, caratteri definiti in sintesi, colpi di scena, passaggi perfetti attraverso i risvolti della vicenda, femminilità sensuale e sfuggente ma mai riduttiva, anzi, le donne
In principio fu Dashiell Hammett
N
LA CRIME STORY. Una epopea lettraria tutta made in Usa
«Scrivere un romanzo è come guidare di notte. Non puoi vedere molto, vedi
soltanto lì dove le luci della tua macchina si spingono, e oltre non vedi niente.
Però puoi continuare a viaggiare tutta la notte e attraversare l’intero paese»
Evan Tarner, Keller, Bernie Rhodenbarr, Scudder: protagonisti di più titoli
che scompaiono e riappaiono anche a distanza di molti anni. Tutti cittadini
della Grande Mela, una metropoli nella quale però non si incontrano mai
IL LIBRO
LO SCRITTORE DI NEW YORK
IL PERSONAGGIO. Profilo di un detective che incarna lo spirito degli Usa
S t los
LO SCRITTORE DI NEW YORK
primo
piano
L’impulso
a creare
personaggi
seriali
e maledetti
C
12
pagina
S t los
autori
stranieri
pagina
14
«
I
mparai presto ad alzare gli
occhi / verso il cielo». Inizia così una delle poesie di
Lawrence Ferlinghetti, appena tradotte da Massimo
Bacigalupo e da lui pubblicate con
Interlinea in un volumetto appena
uscito, Il lume non spento. Ferlinghetti è tornato in Italia, dopo una notevole presenza l’anno passato con l’amico e grande poeta Jack Hirschman,
per ritirare due premi: il «Lerici-Pea
per l’opera poetica», di cui si è celebrato quest’anno il decennale, e il
«Lerici Città di Pace e di Poesia». Il
volume, che Bacigalupo presenta in
quarta di copertina con la discreta definizione di «raccolta curiosa», offre
in fatto una buona introduzione all’opera ormai molto vasta di Ferlinghetti.
Se la misura in genere piuttosto breve
dei componimenti non rende giustizia
alla dimensione diegetica del suo verso - quella per cui l’autore è forse più
noto e di cui lo stesso Bacigalupo aveva collazionato ampia testimonianza
in Poesie. Questi sono i miei fiumi.
Antologia personale 1955-1993
(Newton & Compton, 1996) - quest’ultimo volume riunisce intatti i temi
che attraversano 50 anni di impegno
intellettuale e civile. Massimo Bacigalupo li riassume così nella densa introduzione: «La denuncia dell’alienazione, la ricerca di una serenità individuale in una vita il più possibile spoglia e
naturale, la passione per le belle donne e in genere la felicità della vita
amorosa, la scoperta della letteratura,
la venerazione dei maestri e amici per
cui Ferlinghetti ha scritto elegie (Kerouac, Ginsberg, persino l’intrattabile
Corso, anche lui italo-americano)».
Nel complesso, la raccolta conferma
la longevità di un poeta che ha attraversato la seconda metà del Novecento e ha fatto ingresso nel nuovo secolo mostrando una coerenza degna di
lode. A 87 anni, portati benissimo, è
una miniera di ricordi e persone conosciute.
Anche per questo, approfittando della
consegna dei premi, in un ambiente
oltretutto sommamente poetico come
Lerici, è un’occasione rara chiacchierare con un poeta benissimo sopravvissuto al suo mito. Basta sentire il vigore con cui legge, o dice, le sue poesie: una voce ferma e stentorea che
raccontava il dramma dell’11 settembre con versi in cui la tragedia si mescolava a un’ironia forse non dimentica delle sue origini. Ferlinghetti è bresciano per parte di padre, ma la madre
era sefardita. E giusto da qui inizia la
chiacchierata con Stilos.
Lei ha una gran voce. Considera se
stesso solo un poeta o anche un cantante?
Oh, grazie, man. No, non sono un
cantante. Ho letto le mie poesie accompagnato da gruppi jazz, dagli anni Cinquanta fino a oggi, ma non ho
mai cantato. Forse la voce viene da
mio padre. Era battitore d’asta, lui sì
che aveva voce.
La sua immagine è quella del poeta
sempre e comunque contro l’establishment. Che cosa pensa dell’attuale presidenza americana?
Bush e la sua gang di terroristi hanno
trovato un buon pretesto coll’11 settembre.
In che senso, scusi?
E lei me lo domanda? Hanno usato
quello per iniziare la terza guerra
mondiale, nel senso che fanno la guerra al terzo mondo.
Lei non vede quindi un pericolo nel
terrorismo arabo, nei vari fondamentalismi di cui si parla in questi
anni e di cui si vedono gli effetti?
Io di sicuro non la vedo come il presiSEIA MONTANELLI
J
Interviste
LAWRENCE
FERLINGHETTI
"Il lume non spento"
pp 100, euro 10
Interlinea, 2006
LAWRENCE FERLINGHETTI . L’avversione
all’attuale politica Usa e le sue radici italiane oltre che le passioni come quella per Pasolini; i
poeti statunitensi e la concezione della poesia
Anch’io come Pasolini
non vedo più lucciole
VIVE
A
SANREMO. CONSU-
LENTE EDITORIALE, SCRIVE SU
"IL GIORNALE"
DEI LIBRI"
E
"L’INDICE
GIOVANNI CHOUKHADARIAN
dente Bush. Ha fatto una guerra contro l’Iraq, ma non sapeva neppure dove stesse l’Iraq sulla cartina geografica. La sua ignoranza sulla cultura e le
questioni del vicino Oriente, ma direi
anche dell’Oriente in genere, è completa.
Lei è stato poeta laureato a San
Francisco, di quella città è forse il
più importante simbolo culturale,
ma è nato a New York. Quando si
trasferì là, e per quali ragioni?
eh, intanto io sono stato a Parigi, dopo
la guerra. Ero veterano di guerra e il
governo ci passava 60 dollari al mese
per studiare all’estero: per quel tempo
erano molti. Sono stato alla Sorbona,
per approfondire i miei studi francesi,
ho tradotto Prévert e a Parigi ho scritto il mio romanzo, che si chiama
"Her". In Italia, lo ha tradotto l’editore Einaudi e adesso, a Roma, minimumfax [Lei, minimumfax, pp. 125,
euro 9,30].
E New York?
Nel ’51, Karl Malden mi disse «Go
west, man» e io ci sono andato. Avevo
trentadue anni e non mi pento di quella scelta, ma sia chiaro che rimango un
uomo dell’Est, un viso pallido. All’Est potrei tornare in ogni momento della mia vita, anche adesso.
In ogni caso, lei sta a North Beach,
che è il quartiere italiano di San
Francisco.
Quando ci sono arrivato, più di cinquant’anni fa, c’erano molti italiani di
seconda generazione. La lingua parlata si chiamava norbicése.
Sarebbe?
Per dire «cortile» non dicevano
«backyard», come in inglese, ma
«becchiardo». Ora le cose sono cambiate, i figli di italiani sono morti e i nipoti o pronipoti sono americani a tutti gli effetti.
Ed è vero che nel suo quartiere ha
fatto mettere nomi di poeti alle vie?
Sì. C’è una Kerouac Road, una Mark
Twain Alley...
È stato o è in contatto con gli italiani d’America?
Quando decisi di fare l’editore, il mio
primo socio era John Martin. Il nome
non dirà niente, ma lui era figlio di
Carlo Tresca, grande figura di anarchico, ucciso senza che neppure oggi se
ne conoscano davvero le cause a New
York nel ’43. Qualche anno fa ho
scritto una poesia che si chiama "Old
italians are dying". Non solo perché
vedo i funerali che si celebrano nella
chiesa dei Santi Pietro e Paolo, ma anche perché, come dicevo, le radici italiane degli immigrati vanno perdendosi col passare degli anni.
Lei ha tradotto Pasolini, Poesie romane. Perché lui e non un altro poeta, magari maggiore?
Perché secondo me Pasolini è il più
importante poeta italiano del Dopoguerra. E non parlo soltanto del poeta
ma anche dell’intellettuale, del saggista. Il Partito comunista del suo tempo
non lo accettò, ma Pasolini criticava il
capitalismo usando gli strumenti di
Marx. Ora, io credo che l’attacco al
capitalismo portato da Marx sia attuale ancora ai nostri giorni.
E legge ancora poesia italiana?
A San Francisco ricevo cumuli di manoscritti da poeti italiani inediti. Credo che non ci sia mai stato periodo in
cui l’Italia abbia avuto tanti poeti: e
molti sono buoni. Alcuni li pubblico
io, altri li affido ad Angelo Bertoli, che
dirige City Lights Italia, a Firenze. A
Lerici ho conosciuto Graziella Colotto [vincitrice del premio per la poesia
inedita, ndr] e mi sembra molto interessante.
Ma perché un poeta, giovane ma già
affermato com’era lei, decide di fare l’editore e di pubblicare suoi coetanei, come per esempio Allen Ginsberg?
Oh, Ginsberg era un amico. Ci si divertiva, con lui. Aveva l’abitudine di
innamorarsi soltanto di uomini eterosessuali.
E di usare sostanze psicotrope.
No, questo non è vero. Chi usava le
droghe erano altri: Timothy Leary, per
esempio, o Aldous Huxley. "The
doors of perception" è un grande libro.
Poesia beat non vuol dire droga, lo nego.
Si diceva della City Lights.
In ogni modo, la casa editrice nasce
dalla libreria che si chiama allo stesso
modo, City Lights. La mia idea è che
la poesia debba andare al popolo, e
Nella foto Lawrence Ferlinghetti che da Interlinea ha
pubblicato Il lume non spento
quindi la libreria era ed è specializzata in tascabili, e anche la casa editrice
che ne è nata.
Lei ha avuto il talento di scoprire
poeti importanti, ma quello era un
tempo fortunato, per la poesia americana.
Sì e no. Attorno alla metà degli anni
Cinquanta, a San Francisco, comincia
quella che si chiama oggi «American
Renaissance». Oltre a Ginsberg, ho
pubblicato Kenneth Patchen, Kenneth
Rexroth, Dianne Di Prima, e il mio
grande amico italiano Gregorio Nunzio Corso. Parlavamo una lingua comune ma soprattutto sembrava a noi
tutti che la poesia americana stesse
invecchiando male, fosse troppo legata all’accademia.
Che però lei ha frequentato, laureandosi alla Columbia University.
Sì ma, come dicevo prima, ho sempre
creduto che la poesia dovesse essere
popolare. Anche per questo, i poeti
della mia generazione hanno cominciato a fare letture pubbliche dei loro
versi.
La critica ha parlato di poesia bardica, in effetti.
È una definizione, sì. Ma noi avevamo
il jazz, e del jazz soprattutto l’improvvisazione. In questo eravamo nuovi:
scrivevamo una poesia fondata appunto sull’improvvisazione e il ritmo.
La poesia americana degli anni Cinquanta, sia beat o no, di chi è figlia
o nipote?
A me piacevano molto i grandi francesi: Apollinaire su tutti, ma ovviamente anche Baudelaire e Rimbaud. Ho
letto e amato molto Ezra Pound e T. S.
Eliot. E poi, naturalmente, i grandi
romantici inglesi: Wordsworth, Blake,
Byron e Shelley. I romantici inglesi
erano beat prima del tempo.
È per questo che nella sua poesia si
rintracciano molte citazioni?
No, io non ho mai citato: ho soltanto
rubato molto. «A lume non spento» è
una parafrasi della prima raccolta di
Pound, che a sua volta però citava
Dante. Ma poi vorrei precisare anche
una cosa, riguardo alla poesia beat. Io,
Lawrence Ferlinghetti, non sono né
sono mai stato un beat. Mi considero
l’ultimo dei bohémien. A Parigi, dopo
la guerra, era giusto da bohémien che
vivevo e ho già spiegato che le mie influenze principali sono francesi.
Dante a parte, nella sua poesia ci sono altri furti italiani, vero?
Mah, in qualche modo. Si chiama in
fatto "Are there still not fireflies" e si
rifà a quel famoso articolo di Pasolini
in cui si lamentava che, con la sparizione delle lucciole, sarebbe iniziata
un’era spaventosa. Pasolini non aveva
torto.
Perché, anche lei non ne vede più?
Non tante, se devo dire il vero.
Non vedrà lucciole, ma lei in Italia è
tornato di recente.
Sì, è vero. Son passato l’anno scorso
da Chiari, in provincia di Brescia, e ho
ritrovato la casa in cui abitava mio
padre. A vent’anni, nel 1892, era emigrato come tanti altri italiani in America. Entro nel portone con il mio cameraman e un inquilino, sbirciandoci
dalla finestra, ci urla «parassiti». Poi
ne esce un altro e grida qualcosa come
«cuu...» Adesso non ricordo. Un altro,
nel frattempo, aveva chiamato i carabinieri, che ci portano in comando.
Stiamo lì mezz’ora, fino a che non telefona il mio gallerista di Verona e
spiega chi siamo e perché siamo lì.
Avventuroso, ma almeno a lieto fine.
Lei ha scritto, in "A coney island of
my mind", che stava aspettando il ritorno dello stupore. Sono passati cinquant’anni: lo ha visto, lo stupore?
No, io non l’ho visto. Ma ora beviamo, che dice?
JAIME BAYLY. La Lima di oggi in un romanzo moderno
aime Bayly, presentatore televisivo prima a Lima e poi a Miami,
brillante giornalista e scrittore
molto amato nel mondo, è uno degli
esponenti di spicco del nuovo corso
della letteratura sudamericana (con Bayly racconta la borghesia ricca e biMario Mendoza, Roberto Bolaño e il gotta della capitale peruviana, pronta
suo maestro Mario Vargas Llosa, al- a colpire chiunque si mostri diverso e
meno negli ultimi anni) che ha rifiuta- abbia il coraggio di vivere la propria
to il realismo magico e il mito della vita sfidando le convenzioni, ma soterra del bon saprattutto traccia
vage in cui reapercorso
Recensioni un
lizzare le vecprofondamente
chie utopie di
personale
in cui
JAIME BAYLY
stampo euro"L’uragano ha il tuo nome" segue i suoi perpeo, per racconsonaggi,
tutti
Trad. A. Morino, A. Torsello
tare finalmente
connotati da
pp. 532, euro 16
la modernità e
esperienze
autoSellerio, 2006
recuperare l’abiografiche, nelspetto più caratteristico dell’America la scoperta e soprattutto nell’accettaLatina: il mestizaje, l’ibridismo, la zione della propria sessualità.
mistura di popoli e culture. Con i suoi Nell’ultimo libro dal bellissimo titolo
nove romanzi - l’esordio avviene nel L’uragano ha il tuo nome (El huracán
1994 con "No se lo digas a nadie" lleva tu nombre, 2004), Bayly conclu(Non dirlo a nessuno, Sellerio 2003) - de il ciclo iniziato dieci anni prima e
La borghesia ricca è pure bigotta
racconta la storia di Gabriel Barrios,
giovane conduttore televisivo, con
aspirazioni letterarie, fortemente diviso tra i condizionamenti che gli vengono dalla società omofoba e razzista
in cui è cresciuto e il desiderio di vivere apertamente la proprio omosessualità.
A complicare le cose arriva come un
uragano l’amore tenero e sconvolgente per la bellissima Sofia, che definisce «una droga buona che mi fa ridere», e gli offre una vita lontana da
quella Lima opprimente e polverosa
che odia tanto e la prospettiva di ricominciare negli Stati Uniti, di abbandonare il lavoro in televisione che lo degrada e lo umilia, di iniziare a pensare seriamente alla sua carriera di scrittore. Gabriel decide di partire con lei,
ma lentamente si accorge che pur
amandola, la loro vita insieme sarebbe una menzogna, significherebbe
continuare a fingere e reprimere i suoi
veri desideri, accettando di soccombere alla stessa asfittica ipocrisia che
lo spinge a fuggire da Lima.
Così il romanzo descrive la profonda
crisi del protagonista costantemente in
bilico tra emozioni distinte e contrapposte, in preda allo smarrimento di
chi è in cerca della propria identità e
che è destinato a perdersi prima di ritrovarsi. Tra Lima, Miami e Washington, passando per Madrid e Parigi,
Gabriel compie anche un lungo viaggio dentro se stesso per scoprirsi di
volta in volta egoista, infantile, fragile, ambizioso. Nemmeno l’amore può
imporsi sulla volontà e gli istinti più
profondi e soprattutto mai può cambiare la natura di chi ne è oggetto,
sembra sostenere il libro. Anche se
poi la tesi verrà smentita dalla nascita
di una bimba che dice Gabriel «mi
educherà all’amore».
La narrazione tutta in prima persona,
segue il flusso di pensieri di Gabriel e
i pochi dialoghi sono riportati in corsivo e diluiti nel testo. Il lettore ha così
la sensazione di entrare direttamente
nella coscienza del giovane, crudelmente esposta ed esibita sulla pagina.
La scrittura quasi febbrile restituisce
un senso di urgenza, il dissidio interiore del protagonista, la sua corsa disperata verso qualcosa, il bisogno di riconoscersi e di appropriarsi della propria
identità.
E se a volte è il fastidio a dominare la
S C A F F A L E
MICHAEL CRICHTON, In caso di necessità, trad. Dianella
Selvatico Estense, pp. 310, euro
8,50, Garzanti 2006
L’intera comunità di medici conosce e sa del medico cinese Arthur
Lee che pratica aborti ma non per
lucro bensì per convinzione morale.
Ma un giorno muore una ragazza
per aborto mormorando il nome del
medico cinese che viene arrestato.
Interviene un amico di Lee, John
Berry, che conduce un’indagine inflessibile che lo porta ad una verità
sconvolgente. Crichton è autore
della serie televisiva "E.R. Medici
in prima linea".
DANIEL WELZER-LANG,
Maschi e altri maschi, trad. Sergio Arecco, pp. 273, euro 15, Einaudi 2006
Oggi le donne sono cambiate, ma
dobbiamo dire lo stesso degli uomini? Sono cambiati in modo poco
chiaro. Sappiamo della conquista
del mondo gay, ma in che modo si
sta proponendo l’uomo nell’universo dei queer, dei trans, dei bisessuali e dei «professionisti» maschili
del sesso? In che modo l’uomo si
sta reinventando nel «dominio del
mondo maschile« tanto studiato dai
sociologi? L’autore espone quindici anni di studi compiuti in svariati
ambienti: nelle strade di periferia,
nelle violenze delle carceri. Ha
scritto un libro senza veli perché
aiuti a conoscere gli innumerevoli
lati del genere maschile. Affrontando senza reticenze il tema dell’omosessualità.
DANIELLE STEEL, Un angelo
che torna, trad. Grazia Maria
Griffini, pp. 311, euro 17, Sperling & Kupfer 2006
La madre Alice ed il figlio Johnny
sono inseparabili, un legame unico.
Per Alice, suo figlio è tutto quello
che possa esserci di bello al mondo,
ma i suoi diciassette anni vengono
spezzati da un incidente. Una morte inaccettabile che lacera il cuore
della madre. Ma accade qualcosa di
insolito e piacevole perché Alice
avverte la presenza di Johnny, invisibile per gli altri, che le tiene compagnia ed il loro bene è più forte di
quando era vivo; è ritornato per una
missione che lui stesso non comprende: forse per placare la pena
della madre e dei suoi familiari e
anche della fidanzata perché continui la sua vita. Un dramma vissuto
dalla stessa autrice che vuole comunicare una dottrina di speranza e
coraggio.
SARA GRAN, La voce dentro,
trad. Eva Kampmann, pp. 165,
euro 13, Longanesi 2006
Niente di spiacevole nella vita dell’architetto trentaduenne Amanda,
sposata all’uomo perfetto. Ma ad un
tratto la sua esistenza cambia sconvolgendole la vita. Dentro la sua
testa picchiettano delle strane voci
che la stimolano a rubare facendole assumere un comportamendo
violento contro il marito con il quale le liti sono sempre più aspre. Una
voce le dice che lei è la seconda
moglie di Adamo, l’essenza dello
spirito femminile. Gli specialisti
non sono competenti e così neppure gli esorcisti o guaritori.
lettura, un sentimento di rivolta per la
costante indecisione di Gabriel, per
la sua incapacità di mettersi seriamente in gioco, per l’estenuante rincorrersi di pentimenti e rimorsi e per l’eccesso di ripetizioni, alla fine è chiaro che
l’intento di Bayly è proprio quello di
non nascondere nulla del suo protagonista, di far partecipare il lettore del
suo dramma, perché possa comprenderlo e giungere con lui alle sue stesse conclusioni, riassunte in una frase
(in epigrafe al libro) di Roberto Bolaño: «L’amore non porta mai niente
di buono. L’amore porta sempre qualcosa di meglio».
L’uragano ha il tuo nome però è anche un atto d’amore verso la letteratura e un’implicita dichiarazione programmatica da parte di Bayly che
sembra sostenere che scrivere è una
terapia, un modo per esorcizzare i propri fantasmi, uno strumento per entrare in contatto con il proprio io più
profondo e conoscersi per poter vivere più consapevolmente la propria esistenza.
S t los
Nella foto Tim Parks, autore per Il Saggiatore di
Il silenzio di Cleaver
S
iamo sinceri: gli istrioni ci
sono simpatici. Possiamo
dire di loro tutto il male possibile: che sono egocentrici
ed egoisti, inaffidabili, falsi
ed esagerati; che arraffano tutto quello che possono della vita, persone e
cose; che, se per un cortocircuito si
spengono le luci dei riflettori, si afflosciano, diventano ombre, perdono voce e potere; che in definitiva sono dei
buffoni. Tutto vero, eppure sia che si
chiamino Falstaff, Barney o Harold
Cleaver, come il protagonista dell’ultimo romanzo di Tim Parks, anche se
non li prendiamo sul serio e diffidiamo di loro, continuiamo a sentire la loro voce dopo aver riposto il libro sullo scaffale. Il silenzio di Cleaver comincia con una partenza: ci viene detto che nell’autunno del 2004 Harold
Cleaver prese un aereo diretto da Londra a Milano Malpensa e forse al lettore italiano non è subito chiaro quanto
sia allusivo il cognome del personaggio, in quanto il verbo to cleave significa nello stesso tempo «fendere, tagliare» e «unirsi a qualcosa». Perché
Cleaver, giornalista di successo, dà
un taglio netto alla sua vita poco dopo
aver fatto una inchiodante intervista al
presidente degli Stati Uniti e aver letto l’autobiografia romanzata scritta
da suo figlio che lo dipinge in maniera spietata come la personificazione
«dell’ambizione, dell’appetito e dell’avidità». E però vedremo che Cleaver, nell’eremitaggio sulle montagne
dell’Alto Adige, si aggrappa ai ricordi,
sostituisce un’esistenza con un’altra in
questa fame di vita che è parte di lui,
quanto l’ingordigia di cibo, di donne,
di successo.
Dell’aspetto di Harold Cleaver non
sappiamo molto: è sovrappeso (e ci
pare giusto che lo sia, ingombrante in
tutti i sensi) ed è calvo, ama i colori
sgargianti, tipo camicie viola con cravatta giallo limone o viceversa. Della
sua famiglia apprendiamo a poco a
poco: dei quattro figli ne restano tre,
perché è morta la gemella del ragazzo
che ha scritto il libro accusatore, e
Cleaver non può divorziare dalla loro
madre per il semplice fatto che non
l’ha mai sposata. E poi c’è una sfilza
di amanti, sempre più giovani con il
passare degli anni. Cleaver ha mollato tutto dunque, è partito senza dire
niente, ha intenzione di non leggere
neppure un rigo (si è dimenticato gli
occhiali), di non scrivere (non ha penne e tantomeno il pc), di non parlare
con nessuno (non ha con sé il ricarica
cellulare). E affitta una casa a 1800
metri, senza elettricità né acqua corrente, con gabinetto esterno. Per stare
da solo, pensare, riflettere. Ma, se immaginava di trovare il silenzio, si è
sbagliato, perché «la mente era più
fragorosa di tutto ciò che aveva rifiutato. La mente era assordante. La mente era la cascata nel cuore del bosco».
Succede così poco e scorrono così veloci le pagine del romanzo di Tim
Parks, è l’avventura della mente di
Cleaver che ci trascina, gigione straordinario che monologa di continuo, anche quando in realtà dialoga con il figlio, ribattendo nella sua mente a
quanto questi ha scritto nel romanzo
per cui è candidato al Booker Prize. È
come se leggessimo due romanzi, due
punti di vista diversi sullo stesso personaggio: Cleaver commenta e interpreta frase dopo frase il libro del figlio.
È tutto vero, gli aforismi riportati sono
veri, lui ha proprio detto quelle parole,
ma come è possibile che lo faccia
sembrare un simile mostro? Lo stile di
Parks è quanto mai intrigante e stimolante, passando di continuo dall’uso
della terza a quello della prima persona, inserendo frasi in tedesco quando
il personaggio dialoga con la famiglia Stolberg da cui ha preso in affitto
la casa. E questa è tutta un’altra storia,
quella che Cleaver costruisce nella
sua fantasia o che in parte gli viene
detta, per quanto lui possa capirla (e
questo giustifica l’uso del tedesco,
con effetti a volte molto buffi), del
vecchio nazista che aveva cercato l’isolamento come lui e della ragazza
Scontro
C tra
A gemelli
T
A
L
O
G
O
TIM PARKS . «Quando Cleaver lascia tutte le cose che lo fanno essere quello che
è, cerca di ricostruire in Alto Adige un rapporto che rifletta quelli che lo hanno
reso come egli è. C’è un elemento di commedia: incapace di lasciar stare le
persone che ha abbandonato, continua a pensare e a parlare a loro»
Rifiutare tutto il mondo
e accettare solo se stessi
VIVE
A
MILANO,
IL LIBRO
DOVE HA
SVOLTO PER ANNI ATTIVIÀ DI
INSEGNANTE.
SCRIVE
ANCHE
TIM PARKS
"Il silenzio di Cleaver"
Trad. Giovanna Granato
pp. 284, euro 16
Il Saggiatore, 2006
SU UNA RIVISTA ON LINE
MARILIA PICCONE
morta nel dirupo e dell’altra che partorisce una bambina senza padre. Perché
questa è la maniera di Cleaver di amare la vita, di interessarsi agli altri- egocentrico ma irresistibile. Stilos ha intervistato lo scrittore inglese che vive
in Italia dal 1981.
Nei suoi ultimi libri sceglie sempre
un solo personaggio gigantesco a
dominare la scena. Viene da pensare ai drammi di Christopher Marlowe.
È un gran complimento… ma è meglio
stare alla larga dai paragoni. È vero che
gli ultimi miei libri pubblicati in Italia
hanno un personaggio centrale dominante. Perché sono dei libri sull’essere
chiuso in una coscienza ossessiva e
c’è una forte sensazione che questa
mente esista e sia caratterizzata dalle
persone che gli sono intorno. Cleaver è
stato fatto dai suoi figli, dal mondo dei
media londinese, ed esiste in relazione
a loro. Quando, all’inizio, lascia tutte le
cose che lo fanno essere quello che è, il
suo senso di identità è messo sotto
stress e cerca di ricostruire in Alto Adige qualche tipo di rapporto che vagamente rifletta quelli che lo hanno reso
come egli è. C’è un elemento di commedia: è incapace di lasciar stare le
persone che ha abbandonato, continua
a pensare e a parlare a loro.
E sembra anche che il suo interesse
sia rivolto alla mezza età, a quell’epoca nella vita quando si incominciano a tirare le somme.
Non sono certo che mi piaccia che
questo romanzo venga definito come
un romanzo sulla crisi di mezza età,
perché qualcuno come Cleaver è al di
là della crisi di mezza età, Cleaver ha
avuto la crisi di mezza età una decina
di anni fa. È arrivato ad un punto più
estremo di rifiuto. C’è un momento in
cui un uomo diventa consapevole del-
JUAN MARSÉ
"Canzone d’amore al
Lolita’s Club"
Trad. Hado Lyiria
pp. 272, euro 17
Frassinelli, 2006
Due gemelli molto diversi, Raul e Valentìn, ancora piccoli abbandonati dalla madre per prostituirsi. Raul è un
poliziotto focoso dalla mano pesante, viene sospeso e decide di ritornare nella sua casa di Castel Fedels, ma lui il
caos se lo porta dentro ed ovunque. Quando scopre che il
fratello Valentìn lavora nel locale Lolita’s Club come
cuoco tuttofare e i clienti comprano le ragazze, va su tutte le furie e rompe il legame tra Valentìn e Milena.
La solitudine
di un casolare
Il giornalista Harold Cleaver
decide di lasciare tutto, Inghilterra, lavoro, famiglia, cellulare, computer, e parte per l’Alto
Adige. Suo figlio ha appena
avuto grande successo pubblicando un libro dissacrante su
di lui che termina con la sua
morte fittizia. Nella solitudine
di un casolare che ha affittato,
Cleaver pensa, ricorda, tira le
somme della sua vita.
la traiettoria della vita e del fatto che
non c’è più molto tempo per cambiarla. E Cleaver ha raggiunto quel punto.
Mi interessa quel punto di esaurimento in cui diventa impossibile continuare a comportarsi come al solito e
penso che questo libro, con l’intensità
del pensiero e della scrittura, crei la
sensazione di un’ansia frenetica, di
qualcuno che cerca di risolvere per
sempre dei problemi. Il libro crea una
sorta di catarsi di esaurimento nel personaggio, nello scrittore e nel lettore.
E alla fine si ha l’idea di essere arrivati ad un termine perché tutto è stato
sviscerato.
All’improvviso Harold Cleaver decide di «staccare», di abbandonare
tutto: che cosa c’è dietro questa decisione?
All’inizio Cleaver non sa il perché di
questa decisione radicale. È ovvio che
il libro del figlio serve da catalizzatore. Il figlio lo ha attaccato nello spazio
pubblico e non in quello privato, e
Non c’è
l’isola
perfetta
quello pubblico è il dominio di Cleaver e il figlio lo distrugge. Ma, mentre
il libro procede, c’è una specie di desiderio di morte dietro la sua partenza,
un desiderio non tanto di morire quanto di non essere. Dietro la cultura occidentale, dietro il consumismo, dietro
la frenetica organizzazione della sicurezza, ci sono dei lati oscuri, il desiderio che tutto finisca. Il desiderio di
morte è molto forte, io penso, nella
cristianità.
Harold Cleaver parte per l’Alto
Adige: è una scelta dovuta al fatto
che è un luogo che lei conosce bene?
O perché aveva bisogno di un luogo
abbastanza strano da farlo sentire
in esilio e tuttavia non troppo strano per permettergli di continuare a
giocare il suo ruolo?
Quando si scrive un libro come questo
non si fa una scelta ampia, si sceglie
un posto che si conosce di persona.
L’Alto Adige è interessante perché è
rimasto di cultura di fondo tedesca e
austriaca dentro l’Italia. In Inghilterra
poche persone sanno dell’Alto Adige.
Era un luogo emblematico. Era il posto giusto per Cleaver. Lui dice che è
andato là perché, quando ha chiesto
indicazioni all’agenzia di viaggio per
una località sciistica dove nessuno lo
riconoscesse, lo hanno indirizzato là.
C’è poi un gioco di parole sul nome
della casa, «Rosenkranzhof»: lo ha
inventato apposta?
In Alto Adige ci sono parecchie case
chiamate «Rosenkranzhof» e mi interessava il motivo del rosario, Rosenkranz, che si addice all’ossessione di
Cleaver che cerca di calmarsi con la ripetizione di certe formule. E per un
pubblico di lettori inglesi il nome Rosenkranz avrebbe richiamato la famosa frase di Shakespeare quando Amleto annuncia la morte di Rosenkranz e
Guildenstern. Tutti sanno che il padre
di Amleto è stato ucciso e Amleto
vuole uccidere il suo patrigno. Il nome
si presta a parecchi giochi. Cleaver
non conosce bene la Germania e non
conosce affatto l’Alto Adige, non afferra il significato del rosario, ma il
nome accende una lampadina nella
LORRAINE FOUCHET
"Il battello del mattino"
Trad. Doriana
Comerlati
pp. 324, euro 14,50
Garzanti, 2006
Eva ha una violenta lite con il padre, noto avvocato, che
subisce un incidente riportando delle ferite. Lei vuole
cambiare vita lasciando Parigi e stabilendosi in un’isola
della costa britannica. Con lei c’è una magrebina, un
ebanista ed un medico in crisi. Lei non sa che non c’è isola perfetta, che il bene diventa il male e viceversa, che il
destino è mutevole, che l’ira non porta a nulla, che essere
nel giusto non significa avere ragione.
L’amore
è da
curare
sua mente perché suo figlio ha usato
quella frase famosa per descrivere la
morte di suo padre nel libro, e quindi
gli fa pensare alla sua propria morte
nel libro del figlio.
Non siamo certi se pensare a Cleaver come a un fallito perché non ha
prodotto il suo capolavoro o se il suo
fallimento sia nel non riconoscere i
suoi limiti…
C’è un po’ di commedia nel libro intorno a questa faccenda del «capolavoro». Quello che suggerisco è che la
sola idea di capolavoro è impensabile
nel mondo dei media, a meno che non
pensiamo che l’intervista di Cleaver
con il presidente americano sia un capolavoro. I media non permettono capolavori. Un capolavoro significa
un’opera d’arte ed è impensabile perché richiede lunga riflessione e nessuno fa lunghe riflessioni nei media:
non hanno tempo di pensare.
C’è molto da dire contro Cleaver e
tuttavia è tremendamente divertente, ricco di humour e non possiamo
fare a meno di trovarlo simpatico.
Perché ci piace Cleaver?
Cleaver ci piace per la sua energia, per
il suo humour, l’onestà della sua autodistruzione e poi anche perché non è
più un vincente. È più facile amare
una persona che non è vincente. Lo incontriamo quando ha preso una decisione coraggiosa: per un uomo nella
sua posizione staccarsi completamente da tutto è ancora più coraggioso
che per chiunque altro. E poi ci piace
perché non pretende mai di essere
buono. Viviamo in un mondo in cui
tutti non fanno che ripetere agli altri
quanto sono buoni.
E a lei piace Cleaver?
La parola «piacere» non è abbastanza
per il mio coinvolgimento con un personaggio come Cleaver. Finché Cleaver rimane un fenomeno sulla pagina,
sì, mi è piaciuto crearlo, mi piace come funziona la sua mente. Quello che
fai con questi personaggi è dare loro
molta della tua energia, così il lettore
capisce che c’è della simpatia, ma a
volte si può anche creare una vita così criticabile che il lettore può restare
confuso se debba o no provare simpatia per il personaggio. E ci sono dei
lettori che hanno odiato Cleaver, soprattutto le donne.
Se il titolo del libro del figlio è "All’ombra di mio padre", dobbiamo
dire che Alex è una pallida ombra
del padre e alla fine sembra ricalcare le sue orme. È una forma di assoluzione della vita del padre, una sorta di comprensione più ampia?
Fino ad un certo punto. Mi piace il
personaggio di Alex: è difficile crescere con un padre così, che occupa ogni
spazio sulla mappa e non ne lascia
per lui. In più è difficile perdere una
sorella gemella, come è successo ad
Alex. E poi c’è stato un dramma nella sua vita- non riveliamo la trama, solo che tecnicamente mi serviva per
alleviare la storia di Cleaver. Il problema era come finire il libro: poteva essere una fine noiosa, Cleaver torna in
patria o muore. La storia del figlio
può cambiare la nostra visione del libro, cambia il bisogno del lettore per
un finale forte.
Il monologo interiore che ha usato
negli ultimi libri è lo stile che le si
addice di più?
Non mi piace molto il monologo interiore. Le parole «monologo interiore»
sono state usate per descrivere questo
libro, ma in realtà il libro è ufficialmente in terza persona, a volte in prima persona, non c’è un punto di vista
preciso, quella che abbiamo è una sensazione di frammentazione mentale,
l’idea che c’è meno controllo della
mente e dei suoi movimenti rispetto a
quello che si ha nel monologo interiore. Il monologo interiore di Joyce non
mi ha mai soddisfatto perché in realtà
dimostra il controllo mentale dell’autore stesso. Joyce cerca di trasformare
in linguaggio quelle cose che la mente non trasforma in linguaggio. Perde
così quella mi pare essere la maggiore caratteristica della mente che è il costante parlare a se stessa.
FRANÇOIS LELORD
"I segreti dell’amore"
Trad. Valeria Galassi
pp. 280, euro 16,60
Corbaccio, 2006
Il professor Cormoran è uno strano scienziato che riesce
a trovare in una molecola la cura per le pene d’amore;
purtroppo scompare con la sua scoperta. Una multinazionale farmaceutica incarica il giovane psichiatra Hectore di ritrovare Cormoran e qui ha inizio un’autentica
avventura tra massaggiatrici cambogiane, hotel di Shangai, spie e farabutti, mentre lui stesso è pedinato da persone misteriose. Il sogno di Hectore è di trovare la cura.
pagina
15
Capoverso
autori
stranieri
IDOLINA LANDOLFI
ELENA SALIBRA, VERS.ES, PP.
66, EURO 11,50, DIABASIS
«Un diario dal passo sincopato»,
definisce Paolo Ruffilli questo libro, nella sua postfazione. Ed è
difatti una sorta di rassegna di luoghi e tematiche cari, il calettarsi
della memoria nei passati giorni
(«e così a me s’aggrumano i giorni»), il ritrovare, nel discreto ma
altamente significante ambiente
quotidiano, tracce simboliche del
sé, che vi si riverbera coi suoi infiniti volti. Sono poesie sempre dedicate, anche quando non esplicitamente, e che insomma presuppongono un interlocutore: e sia il
bambino appena nato, «morbido
gomitolo / di sogni», o i paesaggi
scomparsi, disperatamente evocati, una Ortigia (la sua terra natale)
stravolta dalla feroce modernità
("La casa rosa" e in genere l’intera prima sezione della raccolta,
"Stanze e madrigali", è dedicata alla Sicilia), che resiste caparbia nei
suoi angoli più segreti, in una lotta silenziosa contro l’oblio di ciò
che era. Bella, e molto indicativa,
nella poesia "Per un quadro non
ancora iniziato", l’immagine delle
due barche «rimpiattate al largo / a
rimbalzare nell’acqua dell’ingorgo». Una vena di profonda malinconia attraversa questo mondo inquieto, preda del vento e delle onde, come le barche, e le gomene, le
reti, e le vele sbattute in lunghissima agonia; quasi una schiera di
anime in pena che sorgano e parlino da ogni cosa, raccontando la loro storia di sogni perduti, di «stanchezza dei giorni», di «attesa del
tempo». Un senso forte di provvisorietà tiene queste intime figurazioni, di transito verso un non mai
definito altrove.
GUIDO BALDASSARRI, VIAGGIO IN
AUTOSTRADA, PP. 108, EURO 10,
SCIASCIA
Narrazione poetica per frammenti, suddivisa in due sezioni, "Il
viaggio", "Le soste", su uno dei
temi classici dell’«esplorazione»:
esterna ed interna, naturalmente:
«Una laica via crucis, dove il
viandante incontra […] l’altro da
sé e, in qualche modo, se stesso».
Figure e paesaggi scorti un istante, in rapide «epifanie» (è termine
d’autore), ragazze per strada,
donne abbandonate al respiro del
mare (l’acqua, le acque, così importanti nel volume), pescatori
intenti al lavoro; e paesaggi che si
accendono di simboli, regioni immaginate, quelle fantastiche delle
leggende del mare, i Sargassi coi
loro miraggi, le Fate morgane.
Viaggio per fermare il tempo, e ripercorrerlo semmai a ritroso, fino
ai propri giovani anni; per scorrazzare liberi in questa dimensione sovra tutte fittizia. Viaggio, infine e anche, tra i propri numi letterari, i poeti amati, la Achmatova, la Dickinson, Rimbaud.
NUOVA POESIA AMERICANA - LOS
ANGELES, A CURA DI LUIGI BALLERINI E PAUL VANGELISTI (TESTO A
FRONTE), PP. 385, EURO 9,40,
MONDADORI
Diciotto poeti di Los Angeles a
comporre la prima tappa di un attraversamento della poesia americana. Una mappatura che parte
appunto dalla costa occidentale,
da una Los Angeles considerata
come luogo della mente, luogo
estremo, convulso, intricato. Le
voci appartengono a generazioni
diverse, e sono diversissime esse
stesse, dagli afroamericani Will
Alexander e Wanda Coleman, da
Rae Armantrout, Michael Davidson a Jack Hirschman e a
Stuart Z. Perkoff, da Jerome
Rothenberg a John Thomas. Voci che, «lungi dal formare un insieme coerente, producono l’effetto di una rinuncia, quasi che
l’idea di una storia comune e di
una identità culturale, non sia
neppure, a queste latitudini, desiderabile» scrivono i curatori.
pagina
16
S t los
autori
stranieri
A
vvincente e sorprendente il nuovo romanzo di Joanne Harris, la scrittrice inglese nota per Chocolat, tradotto in tutto il mondo e da cui nel 2001 è stato tratto l’omonimo film. A Chocolat hanno fatto seguito
nunmerosi romanzi ed ora arriva La scuola dei desideri, in cui dipinge il mondo della scuola. La Harris, infatti, che
è francese per parte materna e inglese per l’altra metà paterna, prima di dedicarsi completamente alla scrittura, è stata un’insegnante particolarmente attenta ad osservare, ovviamente in maniera interessata per quel che poi avrebbe scritto, il caotico mondo della
scuola, un universo di rapporti complessi, uno specchio d’acqua
sotto il quale ribollono illusioni, conflitti, manie, ossessioni,
complessi di inferiorità, sensi di colpa e, ancora, meschinità, inganni, imposture, millanterie. Un mondo che la scrittrice tende a
riprodurre fedelmente con una minuziosità da miniatura e con un
raffinato culto del dettaglio (che la curatissima traduzione italiana rende appieno), calandovi una storia inventata, ma paurosamente vicina alla realtà. Una storia in cui i desideri, i segreti turbamenti, la pena di non essere quel che si vorrebbe, degli adolescenti, fanno il paio con la fragilità e l’insicurezza, così pericolosa per i giovani, degli adulti.
Giovani e adulti si incontrano e si scontrano, convivono e si respingono nel cuore arrogante della St. Osvald’s Grammar school
for boys, un esclusivo collegio maschile nel nord dell’Inghilterra, che vanta una tradizione di eccellenza accademica, ma che registra i cambiamenti che le nuove tecnologie apportano anche ad
una scuola così gelosa della sua fama. E un adolescente e un adulto sono le due voci narranti del romanzo, una storia «estrema» di
ricerca dell’identità; Snyde, per il quale St. Osvald è la «scuola dei
desideri», il sogno-ossessione di tutta la sua giovane vita, è un
adolescente inquieto che vede in quell’istituto austero e vecchio
che abbisogna di riparazioni urgenti prima che il terreno su cui
sorge venga venduto come edificabile, tutto ciò che desidera per
affermare se stesso, per sentire che esiste e che è visibile. Ma è irraggiungibile per chi è figlio del portiere del college; a Snyde,
creatura solitaria, un po’goffa in compagnia, «invisibile» a scuola, studente della Sannybank, la scuola popolare locale, l’accesso a quel mondo è vietato.
Ma, ancora bambino, decide di non farsi intimidire dalla proibizione ben evidente in un cartello che incombe come la minaccia
ringhiosa di un bullo delle scuola. La tentazione di entrare in quel
luogo in cui polvere e odore di stantio sembrano spalmarsi su tutto, persino sulla giacche blu e i pantaloni grigi della divisa degli
studenti, mentre i topi prosperano nei suoi vecchi locali, è troppo
forte. Quegli odori sono per Snyde il profumo di ciò che non può
avere e quei pantaloni e quelle giacche sono il glamour di giovani di una razza diversa, dorati non solo dalla luce del sole ma da
qualcosa di meno tangibile, un’aura speciale che li ricopre di una
patina misteriosa. Snyde è convinto che quello è il posto cui appartiene davvero, lì la sua sicurezza, lì la sua casa. E così sfida l’ordine, entra di nascosto a St. Osvald ed impara a conoscerne tutti
gli angoli, ma si rende subito conto che lì lui è un corpo estraneo;
consapevole dei suoi jeans sporchi, delle scarpe da ginnastica consumate, della faccia emaciata e dei capelli flosci. In qualche modo è inferiore, volgare: una spia, un piccolo essere spregevole, sudicio.
Invisibile o no è così che lo avrebbero visto sempre. È solo un
Sunnybanker, quello è il marchio terribile che si porta addosso.
Comincia così la sua rabbia, che di giorno in giorno gli divampa
dentro come un’ulcera e alimenta il germe della rivolta che cova
nel chiuso di una vita familiare inesistente e di una solitudine devastante. Snyde dunque dichiara guerra a St. Osvald; se St.
Osvald non lo vuole se la prenderà lui e nulla, nessuno, potrà fermarlo. Di rabbia in rabbia, di invidia in invidia, di ossessione in
ossessione, Snyde, prima adolescente, poi giovane docente procederà con il suo fardello di scomode verità psicologiche verso il
suo scopo, con un incredibile colpo di scena finale. Stilos ha intervistato l’autrice giunta in Italia per la promozione del suo libro.
Il mondo della scuola e i suoi segreti. Perché ha scelto questo
argomento?
Ho insegnato per vari anni in passato e sono sette anni che non insegno più. Era tempo, dunque, che mi fermassi a riflettere sulla
scuola. Nei miei libri precedenti ho esplorato molto le esperienze dirette e indirette familiari e le esperienze francesi, giacché io
sono francese per parte di madre. Con questo romanzo ho realizzato quel che avevo in mente di fare da tempo, di scrivere l’esperienza straordinaria e importante della scuola.
Allontanarsi dai temi che hanno caratterizzato gli ultimi suoi
romanzi è stata una scelta dettata da esigenze narrative o risponde ad una sua ricerca letteraria?
Non volevo allontanarmi dai temi trattati né rinnegarli. Del resto
questa storia è stata pensata già al tempo di Chocolat. Io ho una
scrittura rapida, ma una gestazione molto lunga delle storie. Devono sedimentare dentro di me, fino a quando giunge incontenibile il bisogno di raccontarle. Dunque non è stato strategico cambiare ambientazione e argomento. Era solo arrivato il momento
che aspettavo da sette anni.
L’incipit del romanzo non lascia dubbi con la parola «omicidio» in primo piano. Eppure il suo non sembra un thriller.
Ma se invece lo è, che tipo di thriller è?
Ha detto bene, il mio non è un thriller. Non ho avuto nessuna intenzione di scriverlo. Ma se proprio dobbiamo chiamarlo così o
può sembrare tale, allora chiamiamolo thriller psicologico, un «thriller» alla Wilkie Collins, alla Sherlock Holmes. Anche se, in
realtà, non ci sono delitti o assassini da scoprire, né indagini condotte da qualcuno. Ma ci sono piuttosto colpe e ossessioni che
possono condurre anche al delitto.
Da cosa nascono le sue incursioni in un collegio esclusivo come St. Osvald?
Ho insegnato sia in una scuola statale mista, sia in una scuola privata per maschi per dodici anni. Insegnavo francese, tedesco e anche latino e dunque è a questo che mi sono ispirata per rappresentare i due mondi opposti delle due scuole del romanzo. Sunnybunk Park è la scuola pubblica, dove tutto è popolare, St. Osvald
Una gita
C non
A ortodossa
T
A
L
O
G
O
THOMAS RAUCAT
"L’onorevole gita in
campagna"
Trad. Graziella Cillario
pp. 188, euro 9,50
Einaudi, 2006
Nel 1922 un piccolo industriale di Tokio trova molto
strano che uno studioso europeo inviti una giovane nipponica a fare una gita in campagna. Si offre di accompagnarli mentre informa alcuni suoi conoscenti. Lui ha un
piano molto semplice ma sorgono ostacoli e le stesse persone coinvolte vivono i preparativi con emozione ciascuno a modo proprio. La rigida etica nipponica si rivela un
ostacolo insormontabile per l’«onorevole» gita.
JOANNE HARRIS . «Ho insegnato per
vari anni e ho voluto reralizzare quel che
avevo in mente di fare da tempo: scrivere
l’esperienza straordinaria della scuola»
Le colpe
hanno
una vita
IL LIBRO
JOANNE HARRIS
"La scuola
dei desideri"
Trad. Laura Grandi,
pp. 445, euro 16,50,
Garzanti, 2006
La scuola
inglese
dei segreti
C’è una scuola esclusiva, il St. Osvald College che rappresenta per Snyde, adolescente inquieto e di modesta
estrazione sociale, un miraggio irraggiungibile. Davanti
all’esclusivo istituto, di cui suo padre è il portiere, un
cartello in vista proibisce l’ingresso. Ed è quel limite che
spinge Snyde a visitare spesso la scuola che gli è vietata e
che lo porterà da adulto ad entrarci da docente. Per insegnarvi, per osservare e per mettere a punto un diabolico piano di distruzione di quell’autorità che lo ha respinto.
Senso vietato
di Massimo Onofri
SCRIVERE INSIEME
Wu Minchia
Uter Blisset
L’ultimo
uomo
sulla luna
ANDREW SMITH
"Polvere di luna"
Trad. Irene Piccinini
pp. 385, euro 17,
Cairo, 2006
Tra il 1969 ed il 1972, dodici uomini furono mandati sulla luna e tutti ne rimasero segnati. Poi mai più un uomo
ha compiuto un allunaggio. Di quegli uomini
moonwalkers solo nove sono ancora in vita. Ciò è riportato dal giornalista Andrew Smith mentre intervista, nel
1999, l’astronauta Charlie Duke; ma l’intervista viene
interrotta per un triste comunicato che annunzia la morte dell’astronauta Pete Conrade.
Nella foto Joanne Harris, autrice per Garzanti di La
scuola dei desideri
è un altro mondo ed io li ho immaginati pensando alle scuole in
cui ho insegnato. Il mio è un romanzo di finzione ma immaginato su basi reali.
E come mai un collegio inglese e non uno francese?
Non ho mai insegnato in una scuola francese e a me non piace raccontare di ciò che non vedo e non so. Immagino poi che lì ci sia
un sistema scolastico diverso che non avrei potuto raccontare. I
luoghi stessi del mio romanzo si ispirano agli stessi luoghi scolastici da me frequentati. La torre campanaria della St. Osvald, topi compresi, è la stessa della mia Lizcamp School, ma altri ambienti invece sono del St. Catherine’s College di Cambridge in cui
mi sono laureata.
Lei descrive i rapporti complessi che vi sono all’interno della scuola tra insegnanti, colleghi, alunni, genitori. Oltre la
scuola, qual è stato il suo osservatorio?
Da studentessa e da docente la scuola è un mondo in cui ho abitato tutta la vita. I miei genitori erano entrambi professori, io sono stata alunna e poi insegnante, adesso seguo mia figlia e incontro madri che hanno i figli a scuola. Da figlia, da madre, da allieva, da amica ho avuto e ho modo di entrare all’interno dei rapporti umani di quel mondo, a volte complessi e stratificati come è normale che sia di ogni luogo di lavoro.
Il suo romanzo porta alla luce un mondo di fragilità e di equilibrio precario dell’istituzione scuola. Crede che sia inevitabile che in ogni luogo di lavoro, soprattutto se chiuso ed esclusivo, possano esserci dei segreti?
Credo che sia inevitabile che vi siano segreti perché vi sono le esperienze umane. E credo sia anche inevitabile che questi «segreti»
vengano fuori perché si lavora gomito a gomito. Quando si tratta di
un luogo chiuso ed esclusivo come un collegio magari tardano ad
essere scoperti, salvo a detonare improvvisamente prima o poi.
Nel suo romanzo i misteri della psiche umana vanno scoprendosi via via che si avanza nella lettura alla pari dei misteri
della vecchia struttura di St. Osvald.
È vero. Il fatto è che St. Osvald è trattato come un personaggio a
sé, e siccome ha molti anni d’età ha più segreti di altri personaggi. Bisogna addentrarvisi per conoscerli, allo stesso modo in cui
bisogna procedere nei misteri della psiche umana. Diciamo che il
procedere parallelo dei misteri di due interiorità, di un luogo e dell’anima, è proprio del romanzo gotico, con la sua totale affinità tra
luogo e personaggio. Se pensiamo a un romanzo come Cime tempestose pensiamo ad un luogo che ha una sua personalità proprio
come i personaggi.
Oltre che i luoghi da lei citati c’è stato qualche altro luogo che
ha suggestionato il suo racconto?
Ci sono tante esperienze personali che influiscono su una storia,
tante immagini, tante suggestioni. Io ricordo in particolare, come
suggestione che è ritornata in questo libro, il fatto di essere salita in cima al duomo di Milano e di aver guardato da lassù il mondo sottostante. Una visione da vertigini.
Ossessioni e vendetta sono il mantra di Snyde, una delle due
voci narranti, che anno dopo anno porta a compimento il suo
piano. Quale trauma provoca il suo modo di essere?
È un trauma che risale all’infanzia e che all’inizio nasce come invidia e rabbia, poi come desiderio crescente per qualcosa che non
avrà mai, desiderio che assume forme ossessive, deviate, malate.
St. Osvald rappresenta un mondo da cui Snyde è escluso, ciò che
non potrà avere per differenze sociali ed economiche. Possedere
intelligenza non basta a Snyde, che non demorde e si nutre del gusto della vendetta giorno per giorno, fino al punto in cui non può
rinunciare, non può più tornare indietro.
È un divieto, un ordine, l’autorità che mette in moto le azioni trasgressive di Snyde. Lo dichiara nell’affermazione iniziale di voler dichiarare guerra a St. Osvald. Ma perché dichiarare guerra ad una scuola?
È una guerra perché non si tratta solo del divieto di oltrepassare
dei confini, come quelli segnalati davanti all’austero edificio di St.
Osvald. È una guerra di classe sociale, è una guerra di ambizione contro un nemico dalle tante forme che si configura in St.
Osvald. Ma è anche e soprattutto una guerra per la propria identità, una guerra che Snyde conduce con la sua stessa persona, una
lotta che non finisce perché il finale del romanzo rimane aperto.
Nella galleria dei personaggi che presenta molti sono bizzarri e maniacali. Ma il confronto ben presto si riduce al personaggio principale e al professore Straitley, l’altra voce narrante. Due personaggi opposti che, però, in qualche modo sembrano incontrarsi.
Sono diversi perché l’uno giovane, l’altro anziano e per il fatto che
uno sta al di qua della barriera sociale e l’altro al di là. Li divide
St. Osvald. Ma curiosamente è proprio St. Osvald in un certo senso ad unirli. Sì, i due si assomigliano perché hanno in comune la
cultura accademica, latino compreso, intelligenza, attitudine all’attenzione, una buona dose di ironia, e ci tengono all’insegnamento e all’istituzione di St. Osvald, anche se Snyde per distruggerli
e Straitley per salvarli.
Il personaggio di Snyde racchiude un mistero che aleggia da
subito nel romanzo. Ma chi è veramente?
In realtà a tutti noi capita, se vediamo una cosa o una persona che
sta al suo posto, di non vederla affatto. Non ci interroghiamo per
chiederci chi sia, se sia in un modo o in un altro. La nostra reazione visiva è spesso pigra. Uno dei problemi di Snyde infatti è proprio quello di essere invisibile, insignificante. La sua è una guerra per diventare visibile, una guerra per un’identità che è in bilico tra complessi e paure. Quanto al fatto che riusciva da adolescente ad entrare e circolare per St. Osvald e poi da giovane docente ad inserirsi nell’esclusivo collegio per portare a termine il
suo piano, non c’è da farsi nessuna meraviglia. A me è capitato
personalmente di trovare studenti che non facevano parte della
scuola, per non parlare di un episodio che in Inghilterra ha fatto
scalpore e che è diventato un fatto di cronaca: un giovane pedofilo si è finto studente per stare vicino ai ragazzi. È riuscito ad ingannare tutti per più di un anno, prima di essere scoperto. E così
capita a tutti noi: perché mai dovremmo pensare che quella persona che c’è davanti sia diversa da quello che sembra?
La realtà
vince
la finzione
GLORIA GOLDREICH
"A cena con Anna
Karenina"
Trad. Rita Gatti
pp. 307, euro 9,90,
Newton Compton,2006
Sei signore molto amiche si incontrano per parlare di letteratura. In apparenza tutto bene; commentano Tolstoj
incontrando metaforicamente Anna Karenina. Parlano
di sogni e di paure mentre consumano cibi raffinati. Ad
un tratto Cynthia rompe il suo perbenismo comunicando la sua separazione dal marito, un affermato regista,
senza dare spiegazione ma spingendo ciascuna di esse a
dare uno sguardo più approfondito alla loro vita.
S C A F F A L E
TIMOTHY TAYLOR, Come
l’uomo incontrò la morte, trad.
Francesca De Lillis, pp. 315, euro 9,90, Newton Compton 2006
L’archeologo Taylor studia la reazione umana di fronte alla morte.
Iniziando dalla preistoria, la concezione della parola anima è stata difficile per capire che l’anima siamo
noi che sopravviviamo anche dopo
la morte. Tale idea dell’anima è nata forse prima della scrittura e dopo
il linguaggio. L’archologia si prefissa di invocare i morti indagando
così i rituali, i corpi rinvenuti ed i
sarcofaghi monumentali. L’autore
affronta argomenti come il vampirismo, il cannibalismo e la mummificazione; ma in ogni campo suo scopo principale è l’esame delle testimonianze dell’incontro dei nostri
antenati con la morte.
NICOLE KRAUSS, Un uomo
sulla soglia, trad. Federica Oddera, pp. 286, euro 15, Guanda
2006
Samson Green è come se non fosse
mai esistito; non ha più ricordi perché un tumore al cervello gli ha tolto la memoria. Ora è solo. Non può
rimpiangere la vita di prima perché
non la ricorda. Segue inevitabilmente il divorzio dalla moglie Anna che aveva tanto collaborato al recupero della memoria. Deve inventarsi un passato che riempia il suo
cervello, perciò accetta di essere
sottoposto alle cure di un carismatico che sembra restituirgli i sogni ma
che invece lo sottoporrà ad una dolorosa rinascita riportandolo a rivivere la via del ritorno. Scopo dell’autrice è mostrare la difficoltà di
vivere e di rivivere, il distacco sottile del presente dal passato, della
solitudine e della memoria che è
un importante contenitore del cuore in cui ciascuno si ripara costruendosi la propria individualità.
M. RAYMOND, Tre frati ribelli,
trad. Luigi Ragazzoni, pp. 294,
euro 17, S. Paolo 2006
Durante le crociate emergono tre
eroi spirituali che creano il monacheismo circense applicando le regole di S. Benedetto: S. Roberto
fedele pur ribelle, l’umile sant’Alberigo e santo Stefano Harding, leale e razionale. Sono questi i padri
dei «monaci bianchi» circensi e
trappisti. Le loro vite sono narrate in
un romanzo che vuole mettere in
evidenza la missione dei monaci
detti anche «silenziosi» e che
tutt’oggi - a più di un millennio tengono alta la memoria dei loro
fondatori. M. Raymond, monaco
trappista, ha riscosso successo e
consensi in Europa e negli Stati
Uniti affermandosi come scrittore
con L’uomo che si vendicò di Dio.
LYNDA LA PLANTE, Oltre
ogni sospetto, trad. Matteo Curtoni e Maura Parolini, pp. 475,
euro 16,50, Garzanti 2006
Negli ultimi dodici anni sono state
uccise cinque donne, prostitute e
drogate, molto diverse dalla giovane diciassettenne Melissa, bella e
dolce. Questo omicidio non sembra
collegato agli altri e l’ispettore
Langton, per incastrare l’assassino,
si fa aiutare da Anna Travis con il
suo gruppo. Anna però è ambiziosa
e vuole andare oltre il suo ruolo
mentre per i colleghi è ancora inesperta. Lynda La Plante propone un
affascinante personaggio che sa aggirarsi con abilità nelle situazioni
più difficili ed oscure.
UZODINMA IWEALA, Bestie
senza una patria, trad. Alessandra Montrucchio, pp. 127, euro
9,50, Einaudi 2006
Prima nei villaggi si viveva una vita pacata, fatta di tante cose piccole
e piacevoli come il giocare, mangiare, l’amicizia, andare a scuola
la mattina e in chesa la domenica. Il
sorriso è di tutti e i padri raccontano
la loro vita ai figli. Agu ed il suo migliore amico Dike non avrebbero
mai immaginato un totale cambiamento con la brutale guerra che costringe ad uccidere per non essere
uccisi. Il ricordo di ciò che era prima dà la forza di continuare a vivere perché obbedire agli uomini-belva è atroce. Iweala racconta la storia di un bambino costretto a crescere perdendo l’nnocenza per l’atrocità degli adulti.
S t los
I
mmaginate di essere bambini e
di dover convivere con una madre che vi sgrida dicendo: «Un
giorno verrà qualcuno a uccidermi e allora ti dispiacerà» oppure «Un bel giorno ti sveglierai e io
non ci sarò più. Scomparsa. Aspetta e
vedrai». Forse un bambino non dà
molto peso a simili minacce, ma immaginate di scoprire, una volta adulti,
che quelle parole non solo esprimevano un timore fondato, ma che tutti i
comportamenti apparentemente legati ad una forma di follia o di ossessione altro non sono stati che le conseguenze del fatto che vostra madre è
stata una spia inglese durante la Seconda guerra mondiale: tutto ciò che
sapete o, meglio, che credevate di sapere di lei, del suo passato, persino il
suo nome, non è che una costruzione
basata su bugie. Solo in questo modo
potrete immedesimarvi in Ruth Gilmartin, la giovane inglese, protagonista dell’ultimo romanzo di William
Boyd, Inquietudine, quando, nell’afosa estate del 1976 si vede consegnare
dalla madre Sally un raccoglitore con
varie dozzine di pagine. Il titolo: "Storia di Eva Delektorskaja". «Io sono
Eva Delektorskaja» spiega Sally ad
una Ruth incredula. Ma come conciliare l’immagine di una tranquilla vedova che vive nel minuscolo villaggio
di Middle Ashton, con l’esule della rivoluzione russa del 1917, per metà
russa e per metà inglese, addestrata e
assoldata da un’agenzia di spionaggio
britannica durante la guerra, una donna che ha dovuto mentire, cambiare
identità e case sicure, e che solo ora,
temendo di essere stata scoperta, ha
deciso di consegnare la sua storia alla
figlia? Ruth, già alle prese con una
precaria vita da madre single, deve
fare i conti con il passato di Sally/Eva
e decidere se crederle o dubitare delle
compromettenti informazioni contenute nelle memorie che, di volta in
volta, le vengono consegnate, segreti
di cui persino il padre era sempre rimasto all’oscuro.
Che cosa è successo a Eva? Come
mai si chiama Sally? Perché ora ha di
nuovo tanta paura? E, soprattutto, che
cosa vuole dalla figlia? Per il lettore
come per Ruth, una cosa per volta: solo così, «ogni domanda avrà la sua risposta». Come spiega lo stesso autore
nelle "Note sul contesto storico di Inquietudine", questo è un romanzo di
fantasia, basato però su fatti reali, anche se poco conosciuti, della storia
inglese. Essi fanno riferimento all’obiettivo di Churcill di convincere gli
Stati Uniti ad entrare in guerra. Nel
1941 Roosevelt, pur propenso ad aiutare l’Inghilterra, incontrò la resistenza di un’opinione pubblica decisamente sfavorevole all’idea di combattere nuovamente in Europa. La
campagna di persuasione che il governo britannico decise allora di mettere
in atto fu affidata ad un’agenzia con
sede a New York, la Bsc - British Security Coordination - che in poco tempo divenne una vasta organizzazione
capace di manipolare notizie e intimidire gli oppositori in seno al Congresso, in modo da persuadere gli americani a cambiare idea: un piano occulto
fra i più ambiziosi, efficaci e rischiosi
della storia recente, anche se non è
possibile sapere fino a che punto l’operato della Bsc avrebbe potuto condizionare gli Stati Uniti, poiché con l’attacco di Pearl Harbor il sogno di Churchill si realizzò definitivamente.
In questo contesto si svolge dunque la
storia narrata da Eva - l’addestramento, le missioni, il tradimento, la fuga…
- cui si alternano i capitoli dedicati agli
episodi di vita privata e pubblica narrati da Ruth. Fra tutte naturalmente
prevale la sensazione di inquietudine
evocata dal titolo, che ha accompagnato per più di quarant’anni Eva,
non solo durante la sua attività come
spia, ma anche quando poteva ormai
essere certa di non correre più alcun
pericolo. Quella stessa inquietudine
che si insinua spesso fra le pieghe di
tante vite ordinarie, diventando malessere esistenziale, e che, a ben vedere,
molti di noi condividono con Eva, pur
non essendo agenti segreti. Stilos ha
intervistato William Boyd
Com’è nata l’idea di Inquietudine?
L’idea viene dal mio precedente romanzo, Ogni cuore umano, perché il
personaggio principale era stato per un
breve periodo una spia. Facendo ricerche per quei capitoli, mi sono incuriosito circa la psicologia delle spie e le
caratteristiche che dovrebbero possedere. Una domanda - non so perché mi è rimasta in testa: che cosa si prova a scoprire che uno dei genitori
mente e che tutto quello che si credeva di sapere di questa persona è un artificio? E un secondo dopo ho pensato: qualcuno scopre che suo padre è
stato una spia? No! Sarebbe molto
IL LIBRO
WILLIAM BOYD
"Inquietudine"
Trad. Vincenzo
Mingiardi
pp. 352, euro 17
Neri Pozza, 2006
Dalla prima linea
all’ultimo villaggio
Ruth Gilmartin va a trovare la
madre in un lontano villaggio
dell’Inghilterra e viene accolta
sull’uscio da una donna su una
sedia a rotelle che appena in
casa si alza e dà luogo ad
un’altra stranezza: consegna
alla figlia un memoriale perché sappia. Sappia cosa? Che
lei è stata una spia inglese negli
Stati Uniti durante la guerra
mondiale. Il memoriale è un
romanzo nel romanzo: la storia di una donna in prima linea che poi diviene una quieta
signora della provincia inglese.
WILLIAM BOYD . L’originale storia delle spie inglesi negli Stati Uniti prima
di Pearl Harbor. Hanno una missione: agire per convincere l’opinione
pubblica americana ad accettare di entrare in guerra. Una donna si distingue
tra le altre e lascia scritta la sua vicenda in un memoriale destinato alla figlia
Se tra la madre e la figlia
metti una spia in mezzo
VIVE A MILANO DOVE SVOLGE ATTIVITÀ DI INSEGNANTE.
DIRIGE LA SEZIONE LETTERARIA DI UN PORTALE WEB
LIDIA GUALDONI
più interessante scoprire che la madre
è stata una spia. Questa è stata l’idea
iniziale del romanzo, la straordinaria
storia delle spie inglesi negli Stati Uniti prima di Pearl Harbor. Essere stati
spie in Germania, in Francia o in Russia, d’accordo… Ma la storia delle
spie in America: questo è un vero regalo per un romanzo, è fantastico!
Credo di essere stato il primo scrittore ad interessarsi a questo argomento,
un poco imbarazzante per noi... Conosce il sito Wikipedia? Chi fa una ricerca digitando la sigla Bsc, ottiene subito come risultato "Restless", Inquietudine, il mio romanzo. Non ce ne sono
altri. Ecco dunque l’idea iniziale: la
mia curiosità per le spie e quella domanda. Adesso però che ho scritto Inquietudine, se rivedo a posteriori il
mio lavoro, mi accorgo che l’interesse per chi ha cambiato identità o per
chi ha perso la propria identità c’è
sempre stato: è presente in almeno tre
o quattro romanzi e ci sarà in quello
che sto scrivendo. Perciò è qualcosa
che mi intriga, o che mi ossessione,
anche se non so spiegare perché.
Nel romanzo si alternano capitoli
dove la voce narrante in prima persona è Ruth, la figlia, a quelli dove a
raccontare, in terza persona, è Eva,
la madre: perché questa scelta?
Ci sono diverse ragioni, alcune delle
quali prettamente legate a tecniche di
scrittura. Innanzitutto, due personaggi
che si esprimono in prima persona
possono creare confusione, mentre le
due voci narranti diverse mi hanno
aiutato a tenere distinte le due storie,
in modo immediato e semplice. Inoltre, ho voluto creare una differenza fra
Come
C evitare
A i Narcisi
T
A
L
O
G
O
gli stili delle due protagoniste. La voce di Ruth è più complessa, quella di
Eva più chiara, semplice, narrativa.
Infine, Ruth si può considerare il vero
io narrante del romanzo, perché è a lei
che Eva consegna i capitoli della sua
storia, in modo che li legga. E c’è
un’indicazione - ad un certo punto
Eva dice a proposito del memoriale:
«Continuo ad aggiungere, cancellare,
riscrivere. Cerco di renderlo più leggibile. Voglio che sia coerente. Se vuoi
puoi sistemarlo un po’: tu scrivi molto meglio di me» - che lascia intendere come, forse, Ruth abbia epurato la
storia della madre. Il fatto che sia alla
terza persona la rende comunque più
oggettiva.
È stato difficile esprimere il punto di
vista femminile delle due protagoniste, madre e figlia?
Mi è capitato spesso nei miei primi
racconti, negli anni Settanta, di esprimere il punto di vista femminile. Nel
mio secondo romanzo, "An Ice-cream
War", ci sono diverse voci, due delle
quali femminili ed anche nel mio
"Brazzaville Beach" la protagonista è
una giovane scienziata criminologa.
Esprimerlo non solo è facile, ma possiede anche una certa attrattiva. Perché
scrivere un romanzo, per me, significa liberare l’immaginazione, andare in
luoghi diversi, vivere situazioni ed essere persone che non posso essere.
Non sono uno scrittore autobiografico, non mi interessa attingere alle mie
esperienze come materiale. E quale
modo migliore di liberare l’immaginazione, se non cambiare sesso e poter vedere il mondo attraverso gli occhi di una donna? È molto stimolante
per me, è come mettermi in discussione. Mi ci vuole così tanto tempo per
terminare un romanzo, tre o quattro
anni, e se sono stimolato, eccitato e incuriosito da ciò che sto scrivendo, ho
la speranza che anche il lettore lo sarà.
Questo rende i miei libri qualcosa che
la gente non si aspetta, qualcosa di
nuovo, di diverso, uno shock, a volte.
UMBERTO
TELFENER
"Ho sposato un
Narciso"
pp. 231, euro 9
Castelvecchi, 2006
Narciso è l’uomo sempre affascinante e desiderato, intelligente dai gesti raffinati, grande seduttore; ma qualche volta può essere anche depresso
ed incerto in alcune situazioni. Lui vuole piacere
alle donne e alle donne chiede di aiutarlo a piacersi; ma si trova ad un tratto spiazzato se è una
donna a chiedere aiuto a lui perché il Narciso è
troppo preso di sé e non può permettersi dubbi.
Ritorno
di troppa
fiamma
pagina
Nella foto William Boyd, autore per Neri Pozza di
Inquietudine
Ho scritto diversi romanzi con protagoniste femminili, ma non mi preoccupo del genere, del loro sesso. Penso
solo alla loro personalità ed al carattere. Perciò, se mai i miei personaggi
femminili si ritrovassero in una situazione che sembra sollevare una questione legata a politiche sessiste e al
genere femminile, la ignoro, penso
semplicemente a ciò che ci si aspetta
che loro facciano, senza chiedermi se
una donna pensa e agisce così o se un
uomo pensa e si comporta in un altro
modo. Questo, immagino, fa sì che le
lettrici credano nei miei personaggi,
perché sono vivi, intensi. Possiedono
caratteri complessi, possono scegliere
fra varie possibilità, anche se a volte si
contraddicono, ma questo fa di loro
persone vere, che «escono» dalle pagine.
Ma crede che ci sia una qualche differenza fra l’essere una spia donna
e una spia uomo?
È davvero una buona domanda… Ci
sono state molte spie donna durante la
Seconda guerra mondiale, ma penso
che per essere una buona spia occorra
disumanizzare se stessi, perché ci trova a vivere in un mondo dove non si
può aver fiducia in nessuno, dove occorre diffidare di tutto e di tutti: da
questo può dipendere la vita stessa. È
necessario non lasciarsi sopraffare
dall’emotività - la simpatia, il disgusto, l’amicizia, i buoni sentimenti… , ed essere sempre all’erta. In questo
senso credo non ci siano differenze fra
una spia donna ed una spia uomo. Del
resto fino all’anno scorso, a capo dei
servizi segreti britannici c’era una
donna. Forse l’unica differenza è che
ci sono sempre stati più uomini rispetto alle donne.
L’operato della Bsc negli Stati Uniti è stato tenuto a lungo nascosto,
ma lei, nel romanzo sembra comunque assolvere i mezzi utilizzati dagli
inglesi in quella circostanza. È così?
Credo non avessero scelta. Se c’era
una possibilità che il sogno di Chur-
ELLIOT
PERLMAN
"Sette tipi
di ambiguità"
pp. 698, euro 19,50
Guanda, 2006
Il destino rimette sulla strada di Simon Heywood,
insegnante disoccupato, Anna che è stata una sua
vecchia fiamma e della quale è sempre innamorato. Decide di rapirle il figlio. Si entra così in una
vicenda complessa narrata a sette voci come cerchi di acqua formati dal lancio di un sasso. Simon
conoscerà il carcere e le accuse di pedofilia. Attorno a lui si fa terra bruciata.
chill - vedere gli Stati Uniti a fianco
della Gran Bretagna -, si realizzasse,
questa occasione doveva essere colta.
L’unica alternativa era la pace. In un
certo senso abbiamo una giustificazione. Noi inglesi ci siamo sempre illusi
di avere un rapporto privilegiato con
gli Stati Uniti, ma non è così. Gli Stati Uniti si sono sempre occupati di ciò
che è «al di fuori», solo quando hanno
avuto un loro personale tornaconto. E
così facciamo noi, così fanno tutti gli
altri stati. Questo significa fare politica estera: chiedersi, ciascuno, che cosa è bene per il proprio paese, per gli
Stati Uniti, per la Gran Bretagna, per
la Francia o per l’Italia. E questo è stato fatto all’epoca da chi lavorava nella Bsc, perché convinto che gli Stati
Uniti trattino noi inglesi in un modo
speciale e diverso da tutti gli altri, anche se non è vero. Credo perciò che
sia di estremo interesse il fatto che i
britannici nel 1941 fossero politicamente molto pragmatici, tanto da inviare in America un alto numero di
spie in modo che gli americani cambiassero la loro opinione. Avevamo
forse tremila agenti in America. Propaganda filobritanniaca, manipolazione di informazioni, sporchi trucchi…
È un argomento molto complesso per
noi: credo che in un certo senso fosse
sbagliato, più che sbagliato, questo
comportamento, ma in situazioni disperate occorre essere cinici. Il piano
stava avendo successo, anche se non
sappiamo che cosa sarebbe accaduto
in seguito, visto che l’attacco giapponese a Pearl Harbor ha dato una mano
agli inglesi. Ora la situazione si è un
poco capovolta: Bush ha portato come
alleato nella guerra in Iraq Tony Blair,
anche se non tutti gli inglesi hanno approvato.
La guerra, manipolazione di informazioni, spionaggio e controspionaggio, agenti segreti e, sullo sfondo,
il problema dell’integrazione razziale… Il suo romanzo può essere
letto anche in chiave moderna?
Nel romanzo prevale l’idea della manipolazione delle informazioni. L’Inghilterra ha provocato un vorticare di
informazioni false, cosa che si è estesa un po’ ovunque nel corso degli anni, in Russia, ad esempio. Normalmente, però, le false notizie venivano
create dai governi per la propria popolazione e la novità è costituita dal fatto che, in questo caso, sono state manipolate informazioni da passare ad uno
stato estero. È stato abbastanza straordinario il tentativo di far cambiare l’opinione ad un’altra popolazione, non
alla propria. Ci sono lezioni da imparare. Certo nel 1940-41 la gente credeva a quello che leggeva sui giornali,
che sentiva alla radio o al cinema molto più di quanto lo faccia ora, e Internet
ha cambiato il nostro modo di cercare
e trovare informazioni. Non c’è più bisogno che i governi mandino spie all’estero con questo obiettivo, anche
perché possiamo essere tutti spiati attraverso il telefono cellulare e la Rete… Non si è più parlato di spie e di
doppio gioco dalla fine della guerra
fredda. La nostra prossima generazione di spie sarà forse costituita da giovani pakistani infiltrati nelle fila di Al
Qaeda per sventare i loro attentati.
In definitiva, però, l’inquietudine di
cui lei parla, a partire dal titolo, è
una condizione esistenziale o è dovuta alle circostanze in cui si è trovata a vivere Eva?
Certamente in un caso di identità perduta, o nascosta, come quello di Eva,
l’inquietudine diventa una condizione
necessaria: in questo caso si diventa
ansiosi anche per qualcuno che sta arrivando a bussare alla porta. Ma credo
che l’inquietudine che caratterizza la
vita una spia sia condivisa da tutto il
genere umano, soprattutto quando si
arriva ad una certa età e ci si chiede
«quanto tempo mi rimane da vivere?». È una sensazione di incertezza,
di timore che ci assale, dovuta alla
nostra mortalità, al senso di precarietà. «Come potrò vivere il resto della mia vita?» è una domanda senza risposta, visto che non sappiamo quando moriremo: forse domani, forse tra
trent’anni… A questo proposito, oltre
alla bellissima citazione iniziale tratta
da Proust, c’è, nel finale, la situazione
in cui Ruth scopre che Eva sta ancora
cercando qualcuno che la spia dal bosco, nonostante possa ormai considerarsi tranquilla e al sicuro. In quel momento Ruth capisce che non lo sarebbe mai stata, che avrebbe sempre scrutato il bosco in attesa, convinta che
prima o poi qualcuno sarebbe venuto
a portarla via: «All’improvviso pensai
che in fondo è quello che facciamo
tutti, ciò che ci rende tutti uguali: è la
condizione di noi mortali, di noi esseri umani. Un giorno verrà qualcuno a
portarci via, e non occorre essere una
spia per sapere che cosa si prova».
17
Trovarobe
autori
stranieri
GIULIO MOZZI
LA CINA LIBRAIA
Sono stato a Pechino. In diciassette giorni ho visto tutto quello
che il bravo turista deve vedere:
Città Proibita, Palazzo d’Estate,
Tempio del Cielo, Grande Muraglia, e così via. Ho anche molto
girato (a piedi) per strade e circonvallazioni e svincoli di questa
smisurata città, godendomi la vista di un traffico spaventoso, di
quartieri antichi (i famosi hutong)
rasi al suolo, di deliri architettonici quali non ne avevo visti mai
(enormi edifici a forma di torta
nuziale, di estintore, di arco voltaico, di dolceforno, di juke-box,
di abbazia di Westminster, di Colosseo Quadrato eccetera).
Naturalmente ho ficcato il naso in
qualche libreria. E, confesso,
nemmeno il gigantismo di Pechino mi aveva preparato a quello
che ho visto. A Wangfujing, nel
viale che è un po’il Corso Buenos
Aires della «Pechino da bere»,
c’è la libreria più grande e più
bella che abbia mai vista. Cinque
o sei piani, non ricordo più, forse
sette; un’esposizione fatta benissimo, chiara e intuitiva (con cartelli anche in inglese); e una folla
entusiasmante. Tra l’altro i pechinesi hanno la buona abitudine
(visto che i soldi circolanti sono
ancora pochi) di leggersi i libri da
cima a fondo in libreria, prima di
decidere se acquistarli. Così, attorno al banco delle novità di narrativa c’è una cortina di lettori
che se ne stanno tranquilli, in piedi, a leggere pagine su pagine.
Nel loro reparto i bambini stanno
seduti in terra, o sdraiati, e si sfogliano (da soli o con la mamma) i
loro bei libretti (piuttosto belli,
in genere, quelli di produzione
nazionale; e molto di tradotto o
importato dall’Occidente), senza
porsi il minimo problema. Se un
bambino facesse così, in Italia,
sarebbe il genitore, prima ancora
che il libraio, a intervenire:
«Guardare e non toccare!». No,
no: in quella libreria si tocca tutto.
Le cose che mi hanno definitivamente commossa sono due. Una
è il piano quarto (credo), interamente dedicato a libri di disegno,
acquerello e calligrafia. Questo
mi ha data l’idea di quanto disegno acquerello e calligrafia siano
ancora importanti nella Cina
d’oggi. Senza contare che poi, all’ultimo piano, c’è un altro settore dove si comprano pennelli, carta, cartoncini, quaderni, inchiostri
e calamai. Girando per quel corpaccione devastato e immenso
che è oggi Pechino, ho fatto questo pensiero: «I nostri antichi, i
Greci e i Romani, hanno scelti
per le loro arti maggiori i materiali più solidi: il marmo, il bronzo.
I Cinesi, invece, hanno scelti i
più labili: il legno» (i palazzi imperiali sono quasi tutti in legno),
«la carta, il giardino. Per questo è
stato così facile, per il regime comunista prima e per il regime
consumista oggi, distruggere e
cancellare il passato». Non so se
il pensiero sia storicamente sensato, ma mi è venuto così. L’altra
cosa commovente l’ho vista nel
piano dedicato alle pubblicazioni
tecniche e scientifiche (il terzo, se
non ricordo male): dieci metri di
parete tutti pieni di fascicoli di
norme tecniche. Se qualche ingegnere edile o meccanico o idraulico legge Stilos, credo che capirà
la mia commozione. Ho lavorato
sette anni, in un’altra vita, in una
libreria tecnico-scientifica, ed
eravamo così fieri dei nostri tre
scaffali di norme tecniche: c’era
gente che veniva a Padova da
Udine, da Brescia, da Bologna,
per attingere al nostro scaffale. E
qui: dieci metri di parete! Ecco
con cosa si distrugge la cultura
della carta, del legno e del giardino: con dieci metri di parete tutti
pieni di norme tecniche!
(Lo so, dovevo riferirvi la fine di
un dialoghetto. Ma il jet-lag mi ha
incasinato. Facciamo la prossima volta).
18
I
l nome della purezza è Tocqueville, la purezza della democrazia s’intende. La limpidezza di
idee illuminate sull’equilibrio
dei poteri, l’esempio dell’America fanno di Alexis de Tocqueville
l’analista politico e lo storico che più
abbia incarnato in sé i valori della democrazia e li abbia trasmessi a generazioni di docenti, studiosi e studenti riverberandosi fino a noi. Tocqueville è
un riferimento certo del pensiero liberale e un modello citato tutte le volte
che la democrazia è scivolata o stia
scivolando verso forme di decadenza.
Lievi, gravi o gravissime che siano,
bisogna sempre partire da lui. Lo fa quasi con l’umiltà di un apprendista anche John Lukacs in un’opera provocatoria appena apparsa in Italia, Democrazia e populismo, che muove appunto dalla lezione del grande francese.
Esule ungherese, come molti altri sviluppatosi negli Stati Uniti, 82 anni,
Lukacs ci ha insegnato come Churchill, per quanto visionario, avesse
ben chiari gli assetti dell’Europa e soprattutto quanto fragile sarebbe stato il
comunismo. Per contrappasso ci ha
spiegato anche che Hitler non era così matto come ce lo siamo dipinto.
Pericoloso sì, ma non politicamente
instabile come Stalin.
Davvero il professore ha detto queste
cose? Certo, sono nei suoi libri più famosi, così non è una sorpresa che seppure con i toni caustici a lui cari - ci
spieghi soavemente in un libro che a
tratti sembra perfino disinteressarsene
come l’America di Bush - «uno che si
diverte a interpretare il ruolo del soldato» - stia man mano cancellando la
sua democrazia in nome di un piatto e
insidiosissimo populismo. Anche se
Washington è in buona compagnia.
Stilos ha intervistato Lukacs.
Come se l’immagina un Tocqueville oggi? Se improvvisamente il
grande pensatore ricomparisse come giudicherebbe lo spettacolo del
mondo?
Sarebbe molto sorpreso delle circostanze materiali del mondo e sicuramente non avrebbe mai potuto aspettarsi un simile sviluppo materiale e
tecnologico. Ma se restringiamo lo
spazio alla politica, alla società e al
modo in cui le persone pensano, non
sarebbe molto sorpreso.
La storia della democratizzazione
del mondo è pressoché inseparabile dall’americanizzazione del pianeta. Eppure le tentazioni di presidenti americani, da Wilson a Bush, sono proseguite anche contro l’evidenza del fatto che l’affermazione
«rendere il mondo sicuro per la democrazia» ha comportato e comporta conseguenze imprevedibili e
certo non democratiche.
Il problema non è rendere il mondo sicuro per la democrazia ma semmai
l’opposto: come rendere sicura la democrazia per il mondo.
Dunque dove sbaglia l’America?
È una questione complessa e difficile.
Tanto per cominciare il popolo americano e il governo non sono la stessa
cosa. Il governo americano sbaglia
perché porta all’estremo la rappresentazione che ha di se stesso e cioè l’idea
che gli Stati Uniti hanno la missione di
democratizzare il mondo. Questo è
un errore profondo, qualcosa che i
fondatori del Paese non hanno mai
pensato. È piuttosto il frutto di un
complicato sviluppo della politica,
della pubblicità, della retorica americana che è divenuta universale solamente nel Novecento. Infatti va avanti da un secolo ed è un’idea pericolosissima non solo per il mondo globalizzato ma per l’America stessa.
La democrazia è il governo del popolo o è il governo in nome del popolo?
Democrazia è il governo in nome del
popolo; ma ciò dipende dalle circostanze. Può essere vero e qualche volta è abbastanza vero che chi parla in
nome del popolo nel modo in cui lo
sostiene rappresenta effettivamente
ciò che il popolo vuole, ma la storia e il Novecento lo ha tragicamente confermato - dice che in molte circostanze non è vero. Per questo la cosidetta
politica democratica è astratta perché
in realtà non il popolo decide, non
parla, anzi se parla, parla sempre meno, sicché tra il popolo e la verità c’è
sempre molta distanza.
E i media e la pubblicità come
l’hanno cambiata? Che fisionomia
hanno oggi le elezioni politiche?
Trascurerei i media, che possono piacere o non piacere ma non hanno
un’influenza diretta. Perlomeno non
quanto la pubblicità e più in generale
la propaganda che è un problema differente e difficile perché contraddice
l’idea stessa di democrazia. Mi piace
ripeterlo: l’origine dell’idea democra-
S t los
autori
stranieri
JOHN LUKACS . Lo spettro sempre più incombente di una maggioranza
spesso artificiale che invoca democrazia nel nome del popolo, e mentre lo
dice vende un falso. Perché il populismo sta diventando una tendenza
politica a sé, subordina tutto a una astratta e strumentale sovranità popolare
Il culto del populismo
ecco la nuova religione
VIVE
A
GENOVA. GIÀ
IL LIBRO
CAPO
CULTURA DEL "SECOLO XIX",
SI OCCUPA DELLA PROMOZIO-
JOHN LUKACS
"Democrazia
e populismo"
Trad. Giovanni Ferrara Degli Uberti
pp. 230, euro 17,60
Longanesi, 2006
NE DI EVENTI CULTURALI
SERGIO BUONADONNA
tica è che le decisioni politiche siano
prese in nome del popolo. Il culto della popolarità invece può avere due
facce: può essere un bene ma può essere anche male perché - ammettiamolo - anche il popolo può sbagliare
le sue scelte. Un monarca può essere
buono o no, un’aristocrazia pure e il
popolo pure. Ma la pubblicità introduce un altro elemento: la pressione indotta, psicologica, economica, strumentale. In America le elezioni non
sono più elezioni di popolo e basate
sulla popolarità dei candidati, ma vere e proprie gare di pubblicità. Manipolate e spesso false.
Come in Italia, più o meno, dove negli ultimi dodici anni sono comparsi in politica personaggi che hanno
segnato un cambiamento profondo
dell’uso della politica, spesso svuotandola dall’interno puntando so-
Come si arriva
alla demagogia
Tenendo sempre presente la lezione di Tocqueville, i cambiamenti che la democrazia nel
mondo, e soprattutto negli
Usa, sta subendo diventando
sempre più una forma di demagogia.
prattutto sulla chiave populista.
Io questo non lo so, di sicuro lo sa meglio lei perché sfortunatamente io non
so molto dell’Italia, anche perché in
questi ultimi anni i giornali e le televisioni americani si occupano molto
meno di quel che passa in Europa ri-
spetto a mezzo secolo fa.
Professore, naturalmente lei dissimula, ma diciamo che la sua nonrisposta è molto eloquente. Cambiamo argomento. Come sono cambiati in questo inizio di secolo i nomi
della politica? Gli «ismi» come liberalismo e conservatorismo, nazismo
e comunismo, nazionalismo e socialismo, hanno ancora un senso?
Questa è una domanda che mi piace.
Io sono stato sempre scettico sugli
«ismi». Prendiamo per esempio il comunismo. Come io vedo Stalin, egli
durante gli ultimi vent’anni della sua
vita non è più un fedele comunista.
Era uno statista nazionalista russo che
usava il comunismo quando gli faceva comodo, ma era secondario per lui.
Ed ecco come si tradiscono le idee
della politica e come basta un cattivo
interprete per cambiare senso al liberalismo, al conservatorismo, a seconda delle idee che si dice di voler propugnare. E sicuramente oggi liberalismo e conservatorismo hanno proprio
cambiato senso.
Destra e sinistra hanno perso i loro
connotati? Lei ha sostenuto che la
destra ha fondato la sua forza sull’odio, la sinistra sulla paura. Lo
SECONDA LETTURA
Democrazia sempre più vulnerabile di fronte alla demagogia
GIAN PAOLO SERINO
P
er John Lukacs, tra i maggiori storici contemporanei, è possibile che «la democrazia occidentale, così come l’abbiamo conosciuta, abbia già cominciato a seguire un deriva simile a quella della Germania nazista, dove la demagogia populista s’impadronì del potere, prese il controllo dei media e così pilotò le elezioni che la legittimarono». Se a molti il parallelismo può
sembrare azzardato non si pensi di trovarsi di fronte ad
un libro catastrofico o un libro dove le tesi siano esposte
in nome del radicalismo storico più sfrontato: Lukacs
con estrema semplicità e incredibile chiarezza delinea le
coordinate di una società, la nostra, dove i media, la pubblicità e la propaganda hanno alimentato una nuova
forma di populismo.
Quello che terrorizzava Albert Camus ne La caduta
(«Quando tutti saremo colpevoli allora sarà la democrazia»), quello che ha descritto Thoreau nel suo Walden
(«In un mondo che continua a progredire nessuno progredisce veramente») e quello che ha profetizzato Alexis
De Tocqueville ne La democrazia in America trovano in
questo saggio il loro punto d’incontro.
Lukacs ci racconta il nostro presente: il trionfo della civiltà delle immagini su quella della parola, le competizioni elettorali ridotte a gare pubblicitarie nel nome di
una democrazia sempre più vulnerabile alle sirene della demagogia. Le tesi di Lukacs non sono certo delle novità: da Guy Debord a Neil Postman, da Noam Chomsky
a Jean Baudrillard sono moltissimi i sociologi che ci hanno raccontato, spesso con un anticipo ai limiti delle visionarietà (si pensi solo al genio anticipatore di Debord e
della sua Società dello spettacolo), il nostro «mondo
nuovo». Lukacs però, si è detto, riesce a farlo con un linguaggio chiaro e istantaneo: parole che mirano dritte all’orologeria delle nostra coscienza e riescono a scardinarla senza violentarla.
Leggendo questo libro tutto appare evidente: tassello dopo tassello riusciamo a ricostruire un mosaico che non ha
le coordinate da incubo di un libro di Philip Dick solo
perché ci è familiare, solo perché, vivendolo ogni giorno, lo assorbiamo come si potrebbe fare con un film. E
l’incubo maggiore sta proprio in questo: la consapevolezza della nostra impotenza di fronte ad un ingranaggio
sociale che è talmente semplice da apparirci ormai indecifrabile.
Nella foto John Lukacs, autore per Longanesi di
Democrazia e populismo
pensa ancora?
Non più perché i confini non sono
netti come in passato, però sono sentimenti che rimangono nei movimenti
estremisti. Di fatto destra e sinistra
come li conosciamo oggi hanno rinunciato a questa dicotomia radicale,
però hanno perso molto meno le loro
identità politiche.
Il paradigma letterario di Stendhal,
che lei giudica nel libro come un microcosmo degli antichi regimi totalitari, oggi è solo un simulacro d’autore di fronte a un mondo sempre
più ignorante e consumista, dunque
privo di valori?
Stendhal era un grande scrittore così
come lo furono Victor Hugo e Dumas
che seppero leggere il passaggio tra la
vecchia destra aristocratica, i regni e i
ducati autoritari, i conservatori e le
loro polizie e la rivoluzione francese.
Questo era il paradigma e anche la forza d’attrazione che tempi e idee nuovi esercitarono allora. La domanda
tornò a porsi dopo la Seconda guerra
mondiale in Francia e negli Stati Uniti, ma chi vide in essa una sorta di riproposizione del marxismo e dei rivoluzionari russi dell’Ottocento, sbagliava. La storia più recente ci dice che sono tornati a vincere i nazionalismi e
che il socialismo reale è stato cancellato.
Al di là del giudizio storico sui dittatori del XX secolo (da Hitler a Stalin), che significato ha e che ruolo
può ancora avere saper parlare alle masse?
È una domanda che mi faccio spesso,
ma non ho ancora trovato la giusta risposta. Molti analisti, per esempio,
hanno detto e scritto che nell’epoca
della televisione Hitler non avrebbe
avuto successo. È possibile, ma non
ne sono così sicuro.
Quando lei parla di fraintendimento del liberalismo che cosa intende
dire? Che cosa è stato travisato,
quali trionfi e quali illusioni?
Certo il liberalismo ha vinto perché
non c’è più la schiavitù, il Novecento
ha sancito l’emancipazione femminile ed il suffragio popolare. Eppure il liberalismo è in declino perché avrebbe
dovuto estendere la giustizia e invece
non sembra essere proprio così. Viviamo in un mondo in cui la propaganda
dei media conta molto più della giustizia e della verità, che a questo punto
mi sembrano latitanti.
Secondo lei l’Occidente scivola nel
populismo. È una deriva inarrestabile oppure è il frutto del prevalere
del sentimento popolare sulla razionalità?
Non ho scritto che il populismo vincerà, ma segnalo il pericolo del culto
del populismo, del culto di una maggioranza spesso artificiale che invoca
democrazia nel nome del popolo, e
mentre lo dice vende un falso. Perché il
populismo sta diventando una tendenza politica a sé, un metodo che ignora
i diritti delle minoranze e degli individui; subordina quasi tutto a una astratta e strumentale sovranità popolare.
Per questo lei pensa che le donne saranno la grazia salvatrice, saranno
loro a liberarci da stupidità e populismo?
No. Parlo delle donne nel capitolo su
odio e paura e dico che l’odio è più
forte della paura. Perché l’odio unisce
le masse e in questo senso non c’è
grande differenza fra donne e uomini.
Una donna può rispettare un uomo
che odia ma non un uomo che ha paura perché rivela debolezza. C’è una
forza spirituale umana che le donne
possiedono: l’amore che possono naturalmente offrire agli individui. Viene dalla loro struttura mentale e spirituale. In questo senso l’amore è non
solo moralmente ma funzionalmente
importante, perché non è l’amore di se
stesso ma verso un altro individuo.
Le donne hanno questa forza e tale rimarrà fino alla fine della storia umana.
Parlare di scontro di civiltà come ha
fatto Huntington è una follia alla luce degli eventi più recenti: dall’Iraq
al Libano; dalle minacce dell’Iran
agli Hezbollah fino al discorso del
Papa sulla natura di Dio che gli islamici hanno letto come una condanna e una minaccia al fondamentalismo?
Huntington non mi impressiona. Dice
cose ovvie che conosciamo e sulle
quali non credo sia necessario soffermarsi ulteriormente. Il problema di
Huntington è che la sua posizione non
è autentica. Certo che c’è uno scontro
in atto, la guerra in Iraq, il conflitto in
Libano, le incomprensioni tra Chiesa
cattolica e Islamismo e comunque
l’offensiva religiosa islamista ma questo non significa che in tutti i sensi due
civiltà si affrontino. Significa che ci
sono molti ostacoli da superare e questo è compito della politica più che
della religione.
Altro
pagina
WALTER PEDULLÀ
IL RITORNO DI MALERBA
Non tocca a me recensire il nuovo romanzo di Luigi Malerba
(Fantasmi romani, Mondadori).
Di passaggio perciò mi limiterò a
qualche telegrafica impressione
di lettura. Riceverlo e leggerlo è
stato un tutt’uno: cinque ore dopo
averlo iniziato, l’ho finito. È una
constatazione ma potrebbe essere un giudizio. Da sempre Malerba è narratore di vigorosa trazione dinamica, trama seducente, e
prosa scorrevole che è frutto di
tenace lavoro di lima e di calcolo.
Lo confermano i cinque romanzi
degli ultimi dieci anni, dove vince una geometria narrativa che
sta mettendo ordine, ancorché
paradossale, nel caos che un giorno fu affidato all’informale. È il
«ritorno all’ordine» di Malerba?
Quanto quello di tanti autori canonici delle avanguardie storiche, da Palazzeschi a Bontempelli, da Savinio a Campanile, da
Marinetti a Zavattini, che dopo
aver tentato col «classicismo di
domani» approdarono al «classicismo di oggi».
Non fu restaurazione, non lo è
quella di Malerba. Non è questione di bellezza, «funzionavano» meglio le opere che avevano
una direzione che non si cerca
più, perché non si sa dove si sta
andando. Forse questa fase della
narrativa di Malerba domani funzionerà di più, ma per ora debbo
accontentarmi: il suo linguaggio
è una sonda efficace dentro il nostro modo di vivere. È questo il
realismo dell’avanguardia? Col
passare del tempo il romanziere è
diventato più «romanzesco», con
evidente soddisfazione dei lettori che lo seguono da quando si è
imposto come uno dei più originali e complessi narratori degli
anni Sessanta.
Non vorrei che si dimenticasse
cosa rappresentano nella letteratura del secondo Novecento i racconti «contadini» dell’opera di
esordio (nella Scoperta dell’alfabeto l’elementare si fa carico di
tutto, e la terra è la Terra). O la
storia di un uomo da nulla che
per esistere deve inventarsi una
vita fuori del comune (nel Serpente, che non è solo il capolavoro di Malerba ma che è tout court
un capolavoro, il venditore di
francobolli crea il canto muto e il
coito come miscela di sinfonie:
l’arte serve a qualcosa). O l’esilarante giallo «edipico» (in Salto
mortale l’investigatore è il colpevole) che è il migliore esempio di
informale nella nostra narrativa.
Malerba non è solo questo. È anche quello dei racconti di Testa
d’argento (un mosaico di dissennatezze esemplari del nostro tempo) e del romanzo Il protagonista
(storia di un organo sessuale maschile che è alla febbrile ma vana
- d’amore si parla ma non si fa ricerca della compagna e che si
riduce a corteggiare il proprio
corpo, il suo posteriore). Il romanzo parla del romanzo e dell’ambizione di trovare il lettore
ideale, quello che si identifica
con l’autore in omologia col personaggio che, scoraggiato dall’impossibilità di trovare l’anima gemella, si riduce, ovviamente solo col desiderio, in se stesso.
Sempre più spesso i personaggi
di Malerba, come nel dormiveglia si sogna di sognare, si comportano come se fossero, non nella realtà, bensì in un romanzo. Il
linguaggio dei cortigiani di Bisanzio nel Fuoco greco è più incisivo di un coltello: nella civilissima corte bizantina che è la vita
contemporanea un dialogo di sottile maldicenza uccide in modo
più efferato di una spada. La cifra
stilistica di Malerba continua il
massacro che un giorno fu comico e ora è tragico. E la sua narrativa continua a fare il vuoto dove
una cultura fa il pieno sublimando il tornaconto personale dentro
una civiltà che può essere felice
solo perché non s’è accorta d’essere formata di fantasmi.
S t los
pagina
Illustrazione di René Magritte: "Le Grand Siècle", 1954,
Gelsenkirchen, Städtisches Museum
Q
uel momento alla fine
era arrivato. Doveva ricominciare a camminare
da solo. Un po’ ogni
giorno, aiutandosi con
quelle due stampelle a treppiede. Gli
sembrava di avere davanti una vita
nuova. Era una bella cosa, avrebbe
dovuto essere contento.
Verso le sette di sera s’infilò il cappotto e un passo dopo l’altro uscì sul pianerottolo. Quando entrò nell’ascensore si sentiva già stanco. Poteva fare
tutto con molta tranquillità, sua moglie
non era ancora tornata. Scese a piano
terra. Sorretto dalle stampelle uscì dal
palazzo, uno dei tanti costruiti in quella periferia estrema che confinava con
la campagna.
Si fermò un attimo a riprendere fiato e
guardò il punto dove aveva deciso di
arrivare, il grande viale dove il traffico scorreva continuo e veloce. Da casa sua dovevano essere almeno un
centinaio di metri, forse anche centocinquanta. La sua nuova vita stava
per cominciare.
Fra lui e il viale c’era un enorme slargo con dei giardinetti comunali e uno
stradone dove non passava quasi nessuno. I lampioni erano altissimi, con la
lampadine gialle. Nell’aria fredda stagnava una nebbiolina appiccicosa. In
lontananza si vedevano le luci di un
centro commerciale, forse il più grande della regione. Fece un sospiro e cominciò a mandare avanti un piede dopo l’altro, lungo il vialetto condominiale. Si sentiva emozionato, ma anche un po’ teso.
«Non deve assolutamente cadere»
aveva detto il fisioterapista. Quella
specie di mago era riuscito a rimetterlo in piedi in pochi mesi. Un miracolo. Dopo l’incidente, lui si era convinto che non avrebbe mai più potuto
camminare. Anche sua moglie e tutti i
suoi parenti ne erano convinti, anche
se avevano sempre recitato la commedia. Ma i loro sguardi parlavano più
delle loro parole. In fondo avevano ragione.
Sperare era difficile. Nemmeno a
vent’anni sarebbe stato facile rimettersi da un incidente del genere, e lui ne
aveva quasi sessanta. Un camioncino
era passato col rosso e aveva preso in
pieno la sua macchina. Non si ricordava nient’altro. A un certo punto aveva
aperto gli occhi e aveva visto una parete bianca. Non riusciva a muoversi.
Non capiva cosa stesse succedendo.
Poi aveva visto apparire una faccia
sconosciuta.
«Mi sente?» aveva chiesto una voce.
Lui era riuscito a dire di sì e lo sconosciuto sembrava soddisfatto. Poi più
nulla.
Quando aveva ripreso conoscenza,
fuori c’era il sole. Si sentiva così debole che non riusciva nemmeno a parlare. Nei giorni successivi, un po’ alla
volta, gli raccontarono com’era andata la faccenda. Era arrivato in ospedale clinicamente morto, ma i medici
non si erano arresi e lo avevano ripreso per i capelli. Era stato in coma
qualche settimana, e aveva subito diverse operazioni alla colonna vertebrale e alle gambe.
«Camminerò?» aveva chiesto lui una
mattina. Il medico gli aveva detto con
franchezza che era ancora presto per
sapere se sarebbe guarito completamente o se invece…
Uscì dal giardino condominiale e proseguì sul marciapiede in direzione del
viale. L’aria puzzava di macchine e il
freddo entrava sotto i vestiti, ma lui
doveva soltanto camminare fino a quel
lampione laggiù. Dopo più di un anno
adesso poteva di nuovo stare in piedi
da solo. Era davvero come rinascere.
Aveva piovuto da poco, e per terra
era ancora bagnato. Guardò il cielo.
Era coperto senza speranza. Se avesse
ricominciato a piovere si sarebbe inzuppato fino alle ossa. Una tartaruga
sarebbe stata più veloce di lui.
I primi tempi in ospedale erano stati
duri. Non aveva forze, e doveva essere assistito di continuo. Sua moglie faceva il possibile, ma non poteva certo
smettere di andare a lavorare. Lui si ritrovava spesso da solo, a guardare il
soffitto. Pensava, ricordava il passato,
immaginava il suo futuro su una carrozzella. E a volte piangeva. Quando
aveva bisogno di fare pipì suonava il
campanello. Per ogni minima cosa dipendeva dalle infermiere, e la più vecchia poteva essere sua figlia. Questa
cosa lo faceva sentire molto male. Lui
era abituato a cavarsela da solo, a
camminare sulle sue gambe, a decidere. Quella condizione era troppo umiliante. Ma non poteva farci nulla, il
suo corpo non rispondeva. E poi gli
mancavano le forze. L’unica cosa che
poteva fare era sperare di riavere presto le sue gambe. Era pieno di cicatrici, ma le operazioni erano andate bene. Guardava il soffitto e pensava alla
Fece un sospiro e cominciò a mandare avanti un piede dopo l’altro, lungo il
vialetto condominiale. Si sentiva emozionato, ma anche un po’ teso. «Non
deve assolutamente cadere» aveva detto il fisioterapista. Quella specie di
mago era riuscito a rimetterlo in piedi in pochi mesi. Un miracolo
Le stampelle servono
ad attraversare la vita
MARCO VICHI
VIVE A FIRENZE. HA CREATO
LA SERIE DI POLIZIESCHI DEL
COMMISSARIO BORDELLI CHE
ESCONO DA GUANDA
sua vita di prima, al suo impiego nell’amministrazione pubblica che gli
aveva sempre dato molte soddisfazioni, alle cenette di sua moglie mangiate davanti alla partita, alle passeggiate estive sul bagnasciuga, alle domeniche pomeriggio passate a bere e a giocare a carte a casa di suo cognato carabiniere. E piangeva. Non molto, solo qualche lacrima. Non arrivava mai
a singhiozzare, non era da lui.
Facendo molta attenzione scese dal
marciapiede. Gli sembrò una grande
conquista, la prova concreta che finalmente poteva camminare senza l’aiuto di nessuno. Era cominciata davvero una nuova vita, e sarebbe stata diversa da quella di prima, più bella.
Essere scampato alla morte gli faceva
vedere la vita in un modo tutto diverso. Dopo quell’incidente alcune cose
per lui avevano perso di valore, e altre
invece...
Mattone su mattone avrebbe costruito
la sua guarigione, la sua nuova vita.
Prima o poi avrebbe potuto di nuovo
camminare, saltare, nuotare, correre.
Doveva solo metterci tutta la sua volontà, ogni giorno, fino alla fine. Sentì
una scintilla di euforia nello stomaco,
che svanì subito. Non aveva senso
esaltarsi. Non in quel momento. Ora
non aveva altro da fare che attraversare quello stradone deserto e salire sull’altro marciapiede. Poi quel lampione
laggiù. Il resto sarebbe arrivato dopo,
un po’ alla volta, mattone su mattone.
Ci voleva tenacia e pazienza. Ma gli
faceva bene avere una direzione precisa da seguire, un traguardo così importante davanti agli occhi. Aveva
qualcosa di eroico.
Il rombo continuo del traffico gli dava
fastidio, lo distraeva dai suoi pensieri.
Il viale era ancora lontano per le sue
gambe, ma con calma ci sarebbe arrivato. La strada era un po’ in salita, e
Vampiro
C e pure
A conte
T
A
L
O
G
O
questo rendeva tutto più difficile. Si
sentiva un po’ spaesato, frastornato,
come se tutto intorno a lui fosse nuovo e si muovesse a una velocità accelerata. Ma era normale, per uno che
non usciva di casa da più di un anno.
Per mesi aveva immaginato quel giorno speciale, lo aveva desiderato più di
ogni altra cosa… e adesso che lo viveva si sentiva soltanto un po’ strano.
Era arrivato a un passo dalla morte,
avrebbe potuto morire, non esistere
più. In quel momento avrebbe potuto
essere in un cimitero, con un mazzo di
fiori appassiti davanti alla sua fotografia. Invece era ancora lì, come un resuscitato. Aveva davanti una nuova vita,
avrebbe ritrovato le sue gambe e tutto
sarebbe stato diverso. Più bello.
Era arrivato appena a metà del tragitto, e aveva già voglia di tornare indietro. Si sentiva sfinito. Ma se cominciava a fare così ci avrebbe messo molto
più tempo a guarire. Il fisioterapista
era stato chiaro. Per guarire più in
fretta ci voleva la forza della volontà.
Doveva arrivare fino a quel lampione
sul viale, a costo di metterci tutta la
notte.
Una delle infermiere era molto carina.
Aveva dei modi un po’ sbrigativi, ma
in fondo era gentile. Si chiamava Maria. Quando lui suonava per orinare
sperava sempre che non arrivasse la
bella Maria, con i suoi capelli neri e
quegli occhi lucenti come sassi bagnati. Non voleva che fosse proprio lei
a mettergli il pappagallo sotto il sedere. Si vergognava. E quando arrivava
proprio Maria, lui allora le chiedeva
un bicchier d’acqua o di mettere un
po’ di musica. Poi aspettava un quarto d’ora e suonava di nuovo, sperando
che arrivasse un’altra infermiera. E
se invece arrivava Maria…
Il clacson di un camion lo fece sobbalzare. Non aveva suonato a lui, ma era
un suono a cui non era più abituato. Si
fermò un minuto a riprendere fiato,
poi ricominciò la scalata verso il viale. Il lampione era laggiù che lo aspet-
ALESSIA
ROCCHI
"Anghelos"
pp. 430, euro 18,
Rizzoli, 2006
Noir medioevale per il libro d’esordio della giovane Rocchi, laureata in Lettere alla Sapienza di
Roma. A Benevento, nell’anno del Signore 999, il
servo Raphael incontra una creatura orrenda, il
vampiro conte Nikeforos, discendente della temutissima Stirpe degli Anghelos, fuggito dall’isola di
Thera per non cadere vittima dell’ambizioso vescovo Alexandros.
Il jazz
made
in Usa
tava, alto come una torre. A parte la fatica era bello camminare, più bello di
qualunque altra cosa. Ancora qualche
mese di pazienza, poi avrebbe ripreso
a vivere normalmente. Sarebbe tornato a lavorare nel suo ufficio, avrebbe
guidato la macchina, avrebbe fatto il
bagno in mare e tutte le altre cose che
fanno le persone normali. Be’, forse
non sarebbe stata una nuova vita in
tutti i sensi, ma lui si sentiva comunque un uomo nuovo, un resuscitato.
Era andato fino all’aldilà e poi era tornato indietro. Doveva solo godersi
quel regalo, scartarlo con calma e assaporarlo come un dolce.
In ospedale era migliorato in fretta, e
dopo qualche mese aveva cominciato
la rieducazione funzionale. I primi
tempi a letto, poi attaccato a qualche
attrezzo. Dopo altri sette mesi il medico aveva detto che era arrivato il momento di camminare da solo.
«Dal mese prossimo per lei comincia
una nuova vita» aveva detto. E lui
aveva pensato: Non vedrò più Maria.
Maria gli piaceva. Non poco, molto. A
un certo punto aveva cominciato a
pensare di essersi innamorato, e si era
sentito in colpa verso sua moglie. Ma
era inutile farsi il sangue amaro. Per
Maria sentiva quello che sentiva, non
poteva farci nulla. Un giorno si era fatto coraggio e gliel’aveva detto.
«Signorina Maria, penso di essermi
innamorato di lei.»
«Non si preoccupi, nella sua situazione può succedere» aveva detto lei con
un sorriso da infermiera, e se n’era andata. Lui non le aveva detto più niente.
Era arrivato a una ventina di metri dal
grande viale pieno di macchine. Sotto
quei lampioni altissimi con la luce
gialla le macchine sembravano tutte
grigie. Non le aveva mai viste in quel
modo, le macchine. Passavano veloci
come topi.
A un tratto pensò a se stesso prima
dell’incidente, e gli sembrò di guardare da lontano la vita di un altro. Ripassò a mente una sua giornata di allora,
GIAN CARLO
RONCAGLIA
"Il jazz e il suo
mondo"
pp. 510, euro 16,
Einaudi, 2006
È impossibile comprendere il mondo fantastico
del jazz se non si fa riferimento agli sviluppi della
memorabile storia americana con i suoi conflitti
sociali e la sua capacità di essere un misto di linguaggi e sperimentazioni. Solo il mondo del jazz
riesce in questa impresa esprimendo l’America
con il suo ritmo frenetico e al contempo sentimentale e trascinante.
se la fece scorrere in mente come un
documentario… la sveglia alle sette,
la barba, la colazione col caffè che sapeva di bruciato, il bacio stanco a sua
moglie, la prima sigaretta, la macchina, i semafori, le code, l’ufficio con i
colleghi, i pettegolezzi, le invidie…
all’improvviso capì che quel lavoro
nell’amministrazione comunale non
gli aveva mai dato nessuna soddisfazione, a parte il cinque del mese quando gli consegnavano la busta paga.
Lo sentì come avrebbe sentito un calcio nello stomaco. E le cenette davanti alla partita erano sempre state rovinate da quella rompicoglioni di sua
moglie, che non lo lasciava in pace
nemmeno quando c’era un rigore. E
suo cognato, carabiniere in pensione,
era uno che capiva poco di tutto ma
voleva sempre dire la sua, alzava la
voce e blaterava contro i negri e i comunisti. E dalle vacanze al mare tornava sempre con un malessere che
non aveva mai avuto il coraggio di
ammettere…
Preso dai ricordi, senza rendersene
conto era arrivato alla sua meta. Si
fermò sull’immenso marciapiede del
viale, appoggiandosi bene alle stampelle. Alzò gli occhi. Venti metri sopra
di lui, la luce gialla del lampione brillava dietro un velo leggero di nebbia.
L’aria era più calda per via delle macchine, ma era irrespirabile. Aveva sbagliato tutto, ora lo vedeva con chiarezza. La sua vita era stata un errore dietro l’altro. Se n’era accorto troppo tardi. Avrebbe dovuto fare l’archeologo,
andare in giro per il mondo a scavare
buche per cercare ossicini fossili e
cocci. O magari avrebbe potuto essere un medico che accorreva nelle zone
di guerra, per curare feriti e bambini.
Gli sarebbe piaciuto aver fatto qualcosa di grande, che lasciasse un segno, e
invece non era nemmeno riuscito a fare un figlio. Era affondato lentamente
in quella vita noiosa, ci si era abituato
come a un brutto quadro appeso nell’ingresso. Si voltò verso sinistra. In
mezzo a quella nebbiolina le luci del
centro commerciale erano quasi belle.
Lo conosceva bene, quel mostro luminoso. Fino a un anno prima ci andava
a fare la spesa tutti i sabati pomeriggio. Ci andava sempre da solo. Preferiva così. Spingeva il carrello e guardava le donne che gli passavano accanto. A ognuna dedicava un pensiero.
Era uno dei suoi angoli segreti, un’avventura a cui non avrebbe potuto rinunciare. Il sabato era il giorno dei sogni. L’incidente era successo proprio
un sabato, mentre tornava dal centro
commerciale con la macchina carica
di sacchetti. Le ventate tiepide delle
macchine in corsa gli arrivavano in
faccia e gli alzavano i capelli sulla testa. Guardò il marciapiede di fronte, e
gli sembrò lontanissimo. Sarebbe davvero riuscito ad arrivarci, un giorno?
La strada che portava alla guarigione
era lunga e faticosa. Doveva metterci
tutta la sua volontà, se lo diceva di
continuo. Ma in fondo a quella strada
cosa avrebbe trovato? Qual era lo scopo di tutta quella fatica? Davvero la
sua vita sarebbe cambiata? O sarebbe
stato tutto come prima? La sveglia alle sette, la barba, la colazione col caffè
bruciato, la prima sigaretta, i colleghi… la stessa identica vita di prima,
per sempre…
Scosse il capo. Trovarsi dentro a quella vita senza rendersene conto poteva
capirlo, ma vederla in faccia e scegliere di continuare a viverla… Ma in
fondo quali speranze aveva di poterla
davvero cambiare? A cinquantanove
anni? E in che modo? Che senso aveva? Accanirsi a camminare e camminare ogni giorno con quelle stampelle
a treppiede, mesi e mesi su e giù nella strada davanti a casa per guarire in
fretta e tornare a fare le stesse cose di
prima, quelle cose che ora non gli piacevano più, che forse non gli erano
mai piaciute, stare in un ufficio polveroso con gente stupida a fare un lavoro inutile, il sabato spingere un carrello guardando le donne degli altri e
tornare a casa da una donna che non
amava più da vent’anni… ormai la
sua vita era quella, non aveva la possibilità di cambiare più nulla. Non
avrebbe nemmeno saputo da che parte cominciare… e se anche ci avesse
provato non sarebbe servito a niente.
Di lontano vide i fari di un camion, un
grosso Tir con le lucine rosse tutte intorno alla cabina. In mezzo a quelle
macchine grigie sembrava una muraglia prodigiosa, un idolo fra i pigmei.
Capì in quel momento che poteva fare una cosa importante, la prima della
sua vita.
«Chissà se Maria lo verrà a sapere»
pensò. Aspettò che il camion fosse
molto vicino e con un salto si buttò
sotto le ruote.
© Vichi per Stilos, "Mattone su mattone", 2006
19
Occidente
narrazioni
inedite
WALTER PEDULLÀ
RITORNO A SANAH
1955. Roma. Avere ventiquattro
anni ma essere già baciato in
fronte dalla fortuna di ricevere libri da recensire; o da catturarvi
suggestioni per quella letteratura
camuffata da giornalismo in cui
andava cimentandosi senza vergogna. Gli arriva in cordiale
omaggio (così la dedica) da Ettore Rossi luminare dell’Istituto
per l’Oriente un tomo inquietante già nel titolo: "Documenti sulle origini e gli sviluppi della questione araba". Ma ogni riluttanza
si dissipa subito alle prime righe
del primo capitolo. Un attacco
eccitante da romanzo di avventure per giovinetti (quale di fronte
ai libri rimane ancora): «Era il dicembre del 1880 quando un’associazione segreta araba affiggeva nottetempo sui muri delle
città di Beirut, Tripoli e Damasco
bianchi manifesti con i versi di
Jbrahim al-Yazigi: "Con la spada
si possono raggiungere mete lontane / Ma piuttosto salute e pace
siano a voi nobili arabi / E benefichino le nubi il vostro paese"».
1995. Alessandia d’Egitto. Nella hall dell’Hotel Marriot dove
Lawrence Durrell scriveva i suoi
Quartetti, la mia guida-interprete colta e raffinata suggerisce un
incipit destabilizzante per il mio
film-tv sullo scrittore. «Il sultano
che distrusse nel 1215 la biblioteca di Alessandria così sosteneva l’inutilità dei libri: O questi
libri dicono la stessa cosa del
Corano, allora sono inutili; o dicono cose diverse ed allora sono
ugualmente da distruggere. Credo che quella egiziana mentisse
per giocare con me all’occidentale evoluta».
2000. Sanah. Il mafray nelle case degli yemeniti è un rifugio
tutto maschile dove l’uomo arabo si procura la sofficità della vita spargendo tappeti e cuscini,
tappeti su tappeti, cuscini su cuscini. Scompaiono così scabrose
superfici in calce e pietra di pavimenti e pareti. È una bolla d’aria, il mafray, dove si galleggia
sulla realtà: il soverchiare del
trascendente sulla razionalità è
nella psicologia di ogni mussulmano. Si masticano erbe rasserenanti, si libera il pensiero o lo si
raggomitola nel fondo della coscienza per srotolarlo come un
tappetino di preghiera disteso
verso la Mecca; ci si assopisce o
si chiacchiera (mai si discute) si
calcolano guadagni e perdite negli affari come si raccontassero
storielle piccanti (infatti ridono
coprendosi la bocca); qualche
volta si parla del tempo come
nei club inglesi; ci si rivolta sul
fianco, ci si puntella con un gomito, si rutta con soddisfazione.
È tutto così dedicato al corpo, ad
una fisicità senza angoli. Sarebbe il mafray acconcio alla fisicità
del fare l’amore, se da secoli non
fosse severamente off limits alle
donne. È in questi luoghi morbidi ed alieni dagli scontri dialettici (forse per questo l’esclusione
delle donne, doppio richiamo alla piacevolezza ed alla cruda
realtà della vita: vir post coitum
triste) che i rifugiati nel soporifero mafray e il cristiano d’Occidente ammesso gentilmente si
chiedono senza dirselo: Dialogo
e/o guerra di religione? Ho visto
il letto di pietra su cui dormiva
Francesco nei romitori toscani, il
sasso- giaciglio di Antonio nello
speco di Lisbona. Quello di Giovanni a Patmos stupisce e suscita incredulità nei ragionieri che
fanno del turismo spirituale tra
monasteri ortodossi e la misogina enclave del monte Athos. Tutto qui. Interrogare sempre le carte: ad esempio il mimetismo di
Montesquieu nelle Lettere persiane funziona. La scrittura camuffata, appunto. Un europeo
che per esprimere saggezza indossa comodi e rigonfi indumenti arabi.
P
report
er Robin edizioni in libreria
Salvatore Savignano con Un
posto sotto terra (pp. 240, euro
12), un noir mediterraneo e surreale ambientato in Irpinia con
i defunti che si ribellano e un finale horror. E Raffaele Castelli con Il pacco di
Durante (pp. 96, euro 10), una storia che
contiene sin dal titolo l’oggetto del contendere, appunto un pacco, dei protagonisti dell’avventura. Del romano Giorgio
Pochetti Angeli (pp. 144, euro10), una
raccolta di storie familiari che rasentano il
paradosso e il surreale. E quindi Alberto
Davanzo con Il fiume scomparso (pp.
204, euro 12), una storia di ritorni e di memorie sullo sfondo del paesaggio piemontese e del Piave.
Di Sonzogno Il sogno strappato (pp. 630,
euro 18,50) di Barbara & Stephanie
Keating, le autrici di La figlia francese,
che stavolta raccontano una storia di passioni femminili, tra gli anni Sessanta e
Settanta, ambientata tra il continente africano e quello europeo. È invece un thriller la cui principale cifra stilistica è l’angoscia Occhi vuoti (pp. 432, euro 18,50),
ambientato al Polo Nord, di Juris Jurjevics. Torna Matilde Asensi con L’origine
perduta (pp. 486, euro 19), l’autrice di
L’ultimo Catone, un thriller che mescola
storia, leggenda, avventura, matematica,
magia, genetica.
Castelvecchi propone Controformazione
(pp. 256, euro 15), di Massimo Veneziani, un saggio, con prefazione di
Carlo Lucarelli, sulla stampa alternativa e il giornalismo d’inchiesta dagli anni Sessanta a oggi. Tokyo underground
(pp. 250, euro 18) di Gabriele Rossetti si
addentra nei meandri allucinanti dell’erotismo giapponese contemporaneo, della
vita privata e dell’underground. Flavio
Mazzini in E adesso chi lo dice a mamma
(pp. 216, euro 12) presenta racconti e
confessioni degli omosessuali e del coming out. E quindi di Henry Miller Insomnia (pp. 120, euro 10), una lunga lettera sul conflitto tra passione e ragione,
una storia d’amore tra un settantenne e la
sua giovane musa.
Franco Angeli editore propone come novità La fabbrica del libro, bollettino semestrale di storia dell’editoria in Italia
SILVANA MAURI
"Ritratto di una scrittrice
involontaria"
pp. 291, euro 15
Nottetempo, 2006
MASSIMO CARLOTTO
MASSIMO CARLOTTO
"La terra
della mia anima"
pp. 160, euro 12
Edizioni e/o, 2006
PIETRO NEGRI SCAGLIONE
PIETRO NEGRI
SCAGLIONE
"Questioni private"
pp. 289, euro 21
Einaudi, 2006
JOSEPH CAMPBELL
’ALA AL-ASWANI
"Palazzo Yacoubian"
Trad. Bianca Longhi
pp. 216, euro 12,80
Feltrinelli, 2006
JOSEPH CAMPBELL
"L’eroe dai mille volti"
Trad. Franca Piazza
pp.394, euro 14
Guanda, 2000
NUOVI TITOLI
PROSSIMAMENTE
che presenta in questo numero, tra le altre
cose, il carteggio Sciascia-Bompiani. E
inoltre Un rapporto difficile. Romania e
Stati Uniti nel periodo interbellico (pp.
192, euro 18) di Giuseppe Motta, docente di Storia dell’Europa orientale all’università di Bergamo, che analizza il fascismo rumeno oggetto dell’attenzione del
Dipartimento di Stato americano.
Per Baldini Castoldi Dalai in libreria l’ungherese Andràs Nagy con Il caso BangJensen (pp. 432, euro 18) che ripercorre la
rivoluzione ungherese, la sanguinosa rappresaglia del regime di Kàdàr, il ruolo
della diplomazia sovietica, dell’Onu e la
morte misteriosa del diplomatico danese
Bang-Jensen. E ancora Guido Gozzano e
i Crepuscolari con Felicità e i Crepuscolari (pp. 392, euro 10,50), antologia in cui
sono raccolti dieci poeti crepuscolari, da
Gozzano a Govoni, da Corazzini a Martini. E quindi uno dei massimi esponenti
della letteratura indiana, pubblicato per la
prima volta in Italia, Vaikom Muhammad Basheer, con Mio nonno aveva un
elefante (pp. 168, euro 17,50), breve romanzo di formazione con Pattoumma,
protagonista femminile
Di Avagliano sono presenti in libreria Gli
ultimi figli (pp. 200, euro 14) di Silvia Bonucci, storia familiare di tre generazioni a
confronto, attraverso le quali si leggono i
RITROVATO IL DIARIO INEDITO DI CLEMENTE REBORA
La scoperta, a cinquant’anni dalla morte del poeta, di un diario inedito è avvenuta a Stresa. Nel Diario intimo pubblicato da Interlinea confessioni sulla massoneria e sulla giovinezza, giudizi su D’Annunzio vate della guerra, ricordi della guerra tra sogni e visioni di fede. Rebora nacque a Milano nel 1885 e morì a Stresa nel
1957: fu vociano e fece la guerra per poi scegliere il silenzio e il sacerdozio.
libraio
’ALA AL-ASWANI
SERGEJ DOVLATOV
EMANUEL CARNEVALI
"Racconti di un uomo
che ha fretta"
Trad. Maria Pia Carnevali
pp. 200, euro 15
Fazi, 2005
GEORGE STEINER
"Linguaggio e silenzio"
Trad. Ruggero Bianchi
pp. 330, euro 15
Garzanti, 2006
le scelte del
GEORGE STEINER
MICHAEL J. GELB
"Il genio che c’è in te"
pp. 352, euro 19
Il Saggiatore, 2006
SERGEJ DOVLATOV
"La marcia dei solitari"
Trad. L. Salmon
pp. 230, euro 10
Sellerio, 2006
JOE SACCO
JOE SACCO
"Gorazde. Area protetta"
Trad. Daniele Brolli
pp. 227, euro 16,50
Mondadori, 2006
CARLA BENEDETTI
critico
SILVANA MAURI
EMANUEL CARNEVALI
MICHAEL J. GELB
AMARTYA SEN
"Identità e violenza"
Trad. Fabio Galiberti
pp. XII-219, euro 12
Laterza, 2006
LIBRERIA PISANTI
Corso Umberto I 38/40
Napoli
www.libreriapisanti.it
[email protected]
le scelte del
PAOLO MASTROIANNI
"Altrove"
pp. 106, euro 12
Effigie, 2006
PATRICK SUSKIND
"Il profumo"
Trad. Giovanna Agabio
pp. 272, euro 17,60
Longanesi, 2006
CORMAC MCCARTHY
CORMAC McCARTHY
"Non è un paese
per vecchi"
Trad. Martina Testa
pp. 251, euro 17
Einaudi, 2006
JASON BURKE
JASON BURKE
"Al Qaeda"
Trad. Bruno Amato
pp. 248, euro 16
Feltrinelli, 2004
cambiamenti dell’Italia degli ultimi cinquant’anni. E Olimpo (pp. 190, euro
12,50), terzo romanzo del poeta Umberto Piersanti, che ambienta una singolare
storia d’amore e di emozioni tra Montefeltro e la montagna degli dèi. Franco
Scaglia, già autore del Custode dell’acqua, torna con Il viaggio di Gesù (pp. 120,
euro 6), affascinante viaggio nei luoghi e
sulla tracce di Gesù.
Marcos y Marcos propone Ring
Lardner, autore di Tagliando i capelli
(pp. 224, euro 14,50), miti, pettegolezzi e
vizi made in Usa agli inizi del Novecento. E ancora La fiaba dell’ultimo pensiero
(pp. 512, euro 18) di Edgar Hilsenrath,
titolo lieve per la storia di uno sterminio,
quello del popolo armeno nel 1915.
Pendragon propone come autori Anna
Luisa Pignatelli con Buio (pp. 204, euro
129), viaggio alla scoperta della realtà
rurale toscana e dei suoi abitanti visti con
gli occhi di un personaggio ombroso come il buio, il soprannome che porta. Di
Gino Tasca è Isaia Greco (pp. 123, euro
13), breve romanzo focalizzato sul personaggio principale, Isaia Greco, un temuto critico letterario che ammalatosi improvvisamente lascia una sorta di testamento spirituale. Un divertente manuale
di psicologia è Come riconoscere l’altra
metà della mela evitando il bruco (pp.
272, euro 12), dello psicoterapeuta Angelo Bona, per la prevenzione e la cura delle fregature sentimentali. E quindi cinque
saggi sul pensiero e la fortuna di Machiavelli in Machiavelli e i suoi interpreti
(pp. 164, euro 16), di Luca D’Ascia.
Per FBE edizioni in libreria Bollywood
(pp. 112, euro 15), viaggio alla scoperta
dei segreti della leggendaria città del cinema indiano, di Pierre Polomé e Virginie
Broquet. The Blues Highway (pp. 320,
euro 21) di Richard Knight è una guida
turistico-musicale, un manuale pratico
per chi vuole conoscere i luoghi della
musica moderna mondiale. E quindi di
Susan Marg Matrimoni Vip a Las Vegas
(pp. 240, euro 12), tutto sul mito dei matrimoni nella città del Nevada dalla nascita del centro mondiale del gioco alle nozze leggendarie. E ancora In viaggio da sola e in compagnia (pp. 288, euro 13),
racconti di viaggio di Martha Gellhorn.
GIANCARLO DE CATALDO
autore
ENRICO CALAMAI
"Nessun asilo politico"
pp. 212, euro 6,80
Feltrinelli, 2006
PAOLO MASTROIANNI
AMARTYA SEN
PATRICK SUSKIND
KHALED HOSSEINI
"Il cacciatore di aquiloni"
Trad. Isabella Vaj
pp. 394, euro 17,50
Piemme, 2004
le scelte dell’
ENRICO CALAMAI
GIOVANNI MARIA
BELLU
"I fantasmi
di Portopalo"
pp. 252, euro 8.40
Mondadori, 2006
FEDERICO RAMPINI
"L’impero di Cindia"
pp. 371, euro 15
Mondadori, 2006
narrativa straniera
narrativa italiana
GIOVANNI MARIA BELLU
ROBERTO SAVIANO
"Gomorra"
pp. 331, euro 15,50
Mondadori, 2006
FEDERICO RAMPINI
KHALED HOSSEINI
saggistica straniera
saggistica italiana
ROBERTO SAVIANO
EDOARDO ALBINATI
FILIPPO TIMI
"Tuttalpiù muoio"
pp. 454, euro 17,50
Fandango, 2006
WALTER VELTRONI
"La scoperta dell’alba"
pp. 150, euro 16
Rizzoli, 2006
narrativa straniera
narrativa italiana
ALBINATI & TIMI
PIETRO INGRAO
"Volevo la luna"
pp. 371, euro 18,50
Einaudi, 2006
WALTER VELTRONI
saggistica straniera
saggistica italiana
PIETRO INGRAO
GIANRICO CAROFIGLIO
"Ragionevoli dubbi"
pp. 320, euro 12
Sellerio, 2006
narrativa straniera
narrativa italiana
GIANRICO CAROFIGLIO
saggistica italiana
20
S t los
saggistica straniera
osservatorio
librario
pagina
S t los
schede
libri
C
i sono libri che sembrano rappresentare i cattivi costumi con
lo scopo di emendarli, ma che
finiscono per scadere nel moralismo,
generati come sono, più che dai cattivi costumi, da esigenze di facciata di
una società annaspante tra edonismo e
ipocrisia, nemica della verità e della
memoria, non estranea a facili assoluzioni.
Ci sono altri libri che invece dei cattivi costumi sono il risultato: nel senso
che contro di essi si levano, a dissiparne la nebbia di reiterate imposture.
Libri che, tra dubbi e contraddizioni,
fantasia e realtà, illuminano scenari attesi e irrealizzati, in cui sono disseminati dialoghi morali e tracce di vita
che trapassano le generazioni. Libri
come Romolo il Grande, una pièce
scritta nel 1948 da un Dürrenmatt ancora ventisettenne, in cui si prefigurano già i principali temi e percorsi della notevolissima produzione (da La visita della vecchia signora a I fisici, da
Il giudice e il suo boia a Giustizia) del
grande scrittore e drammaturgo: il limaccioso rapporto individuo-potere,
la giustizia ridotta a squallida farsa, la
deriva dell’uomo in un mondo incancrenito e stravolto...
Siamo nel 476 d.C.: l’impero romano
è ormai allo sfascio, e i germani di
Odoacre calano inesorabilmente su
Roma. Romolo Augustolo, l’ultimo
imperatore romano d’Occidente
(adulto e disincantato, ben diverso dal
quattordicenne personaggio storico
che subì l’enorme peso di quei tragici
eventi), si è inspiegabilmente ritirato
nella sua villa di campagna: dove
svende i busti dei grandi romani del
passato, si dedica all’agricoltura, ma
soprattutto alleva polli (e a ciascuna
gallina arriva ad attribuire il nome di
imperatori e alti dignitari; una la chiama addirittura Odoacre).
21
ALMANACCO
FRIEDRICH DÜRRENMATT
Deviazioni dalla realtà da prendere con serietà filosofica: come fece Romolo
Romolo resta inamovibile davanti alle ripetute e drammatiche sollecitazioni di ministri e familiari: Giulia (la
moglie), Rea (la figlia), Emiliano
(promesso sposo di Rea), che lo supplica di permettere il matrimonio di
Rea con Cesare Rupf, ricchissimo fabbricante di calzoni, disposto, in cambio, a salvare le finanze dell’impero.
Al ministro degli interni, sconvolto
dall’assurda indolenza, quell’«allevatore di pollame incoronato» aveva risposto: «Non sono le notizie a sconvolgere il mondo. Sono i fatti, e quelli non possiamo cambiarli perché son
già accaduti quando le notizie arrivano».
E resta serafico, Romolo, anche quando i suoi funzionari (compreso Emiliano), esasperati, stanno per ucciderlo. Uno scenario surreale e grottesco,
dunque. Una ricercata deviazione dalla realtà; e di questa forzatura Dürrenmatt avvisa il lettore fin dal sottotitolo: "Una commedia storica, che non si
attiene alla storia, in quattro atti", come a portarlo per mano fino all’epigrafe: «Il grande stratagemma di considerare piccole deviazioni dalla realtà
come la realtà stessa (su cui si basa tutto il calcolo differenziale) è al tempo
stesso il fondamento per la nostra spiritosa considerazione su dove si andrebbe di solito a finire se trattassimo
Tutto il calcio spasimo per spasimo
NICK HORNBY (cura)
"Il mio anno preferito"
Trad. Massimo Bocciola, Giovanni Garbellini,
Giuliana Zeuli
pp. 245, euro 14,50
Guanda, 2006
NANNI BALESTRINI
Lettere come figure e non come segni
Se è vero che il materiale originario
della poesia non è la parola, ma la lettera, come ha detto Kurt Schwitters,
pittore, scultore e scrittore tedesco che
si è mosso nel campo dell’espressionismo e del dada, allora l’attività poetica di Balestrini usa la lettera. La lettera, dunque la poesia, come corpo, come «sussulto grafico» il cui segno
scritto non è semplice notazione fonetica ma trascrizione visiva che intende
incidere profondamente lo stesso corpo del testo. Si tratta evidentemente
dell’esigenza di chi ha «dovuto» uscire gradualmente dal modello tradizionale del libro e ha fatto sì che le lettere e le parole che fino ad un certo momento avevano funzionato come segni, cominciassero poi a funzionare
come figure, sempre più complesse.
Come corpi, appunto, visti e trascritti
visivamente in logogrammi, icone
grafiche, segni tipografici composti e
ricombinati in tavole e collage, o disposti in stele, in pilastri e mappe.
Combinazioni «sconcertanti» secondo
Umberto Eco, che insieme con Paolo
Fabbri, Toni Negri, Paolo Ottonieri,
Paul Virilio, Reinhard Sauer, Franco
Purini, Renato Barilli, Manuela Gandini, Gillo Dorfles, Edoardo Sanguineti, Achille Bonito Oliva, ha dato
una sua lettura dell’opera di Balestrini; tagli e dissezioni e di nuovo ricombinazioni labirintiche delle materie che manifestano quella «filosofia
del montaggio» che Balestrini intende
praticare, affinché la poesia si faccia
NANNI BALESTRINI
"Con gli occhi del linguaggio"
pp. 173, euro 25
Derive Approdi, 2006
spazio e forma. Perché nel suo lavoro,
come osserva Bonito Oliva, «l’opera
diventa quel luogo heideggeriano che
non si contempla frontalmente come
una vecchia scultura, ma il campo di
riserva di un linguaggio capace di
creare una dimora effettiva in cui lo
spettatore possa fluttuare e respirare». Si è che Balestrini ritiene che di
testi se ne siano scritti fin troppi e che
quindi bisogna tagliare. Tagliare, recidere (il contrario, insomma, del «non
recidere forbice» montaliano), per
nuovamente sovrapporre, incollare e
ricomporre in una «pagina» morfologicamente e cromaticamente rinnovata. «Il muro delle parole» dice Paul
Virilio nei versi dedicati a Balestrini, o
le parole come muro, «muraglie di
parole« (così Ottonieri) che diventano
pietra nel senso reale del termine e si
fanno stele e obelisco, «torri babeliche
e colonne traiane che narrano la nostra
storia in una fisiologica frammentazione verbale» (Gandini). Un approdo
«monumentale», quello del Balestrini
delle stele, che non ha nulla di celebrativo, ma che testimonia concretamente il monumento al verbo.
Patrizia Danzè
JAVIER SIERRA
Il mistero millenario di Napoleone
Il 12 agosto del 1799 Napoleone
sbarca in Egitto per indebolire il dominio degli inglesi. Ma perché spiegare forze imponenti e portarsi dietro un seguito di archeologi, astronomi, ingegneri? Napoleone ha un segreto, ipotizza Sierra, e la sua missione riguarda un mistero millenario.
FRIEDRICH
DÜRRENMATT
"Romolo il Grande"
Trad. Aloisio Rendi
pp. 145, euro 11
Marcos y Marcos, 2006
la deviazione con serietà filosofica».
Parole illuminanti che il drammaturgo
svizzero prende in prestito da Georg
Lichtenberg, celebre scienziato e scrittore tedesco del Settecento, cultore significativo dell’aforistica moderna,
raffinato indagatore dell’animo umano.
E così Dürrenmatt si diverte a mostrarci gli spiritosi sviluppi della sua
deviazione, al tempo stesso cesellando
quadri di meccanica precisione e
obiettività, attraverso una scrittura
già asciutta, essenziale, felicemente
GRAZIA DELEDDA
"Come solitudine"
pp. 345, euro 24, 50
Donzelli, 2006
Novelle rare
della Deledda
di carica umana
Q
NICK HORNBY
Storie in cui la passione per il calcio
si sposa con quella della scrittura,
racconti legati da tuttei gli aspetti
che il calcio assume: attaccamento,
esaltazione, fanatismo, sofferenza,
sacrificio. Sia che si tratti della squadra del cuore sia che si racconti l’epopea degli incontri mondiali.
pagina
JAVIER SIERRA
"Il segreto egizio
di Napoleone"
Trad. Claudia Marinelli
pp. 250, euro 17
Tropea, 2006
uando, nel gennaio 1921, D. H. Lawrence visitò la Sardegna proveniente dal buen retiro di Taormina, dopo aver visitato Cagliari dove «terra
e mare sembrano finire entrambi», si diresse con un trenino verso Nuoro, la città di Grazia Deledda, lì dove «la vita è così primitiva, così pagana, così straordinariamente barbara e semi-selvaggia. Eppure è vita umana». Il grande scrittore inglese cercava nelle brughiere «cespugliose» della Barbagia, descritta mirabilmente in Mare e Sardegna, quei «sentieri del tempo» di cui la Sardegna rappresentava una isola fertile, sede del «genio consapevole» di cui la Deledda era testimone e straordinaria voce universale. Il riferimento diretto alla
scrittrice da parte di un intellettuale e letterato di razza come Lawrence - che curerà la traduzione inglese di romanzi quali La madre e Canne al vento, così come avrebbe fatto con le opere di Verga - ci fa comprendere come l’arte narrativa «mediterranea» della Deledda stava penetrando nel mondo culturale europeo, segno di una consacrazione internazionale che sarebbe arrivata col premio
Nobel assegnato nel 1926, dieci anni prima della morte, avvenuta nel Ferragosto del 1936.
Due date che quest’anno celebrano il loro anniversario in un silenzio assordante del mondo letterario italiano che non ha sempre compreso appieno e valorizzato l’opera della scrittrice sarda. Una grandezza che continua ad attraversarci nella sua grazia e nella sua forza prepotente, come è possibile constatare immergendoci nelle «storie e novelle di un’isola» raccolte in Come solitudine, l’antologia curata dalla poetessa Antonella Anedda. Un crogiolo di tracce narrative che scavano nei tormenti familiari ("Battesimi"), di bozzetti storici (il medioevo de "Il sigillo d’amore"), di fabule (il delizioso "Sotto il
pino"), di parabole come "La grazia", esempio vivido del rapporto
con la giustizia e con le istituzioni
del popolo sardo.
Una cinquantina di rare novelle che
mostrano le sfaccettature poliedriche dell’animus deleddiano e del
suo affascinante, personale, elevato
sincretismo letterario che riesce,
con descrizioni sorprendenti e poetiche, ad inglobare un’incredibile
forza naturalistica velata di slanci
romantici, di elementi freudiani e
d’annunziani, di spiritualità luminosa e tormentata, di agonia biblica e
misericordia cristiana.
Ovunque vibra una carica umana
senza confini, con la Terra che guarda il cielo e cielo che rispecchia i limiti della Terra. Come i dipinti di Giuseppe Biasi, le parole della scrittrice creano uomini e donne scavati da limiti e da desideri, da paure e da deliri: un’umanità appesa come i rami di mirto, corposa e spugnosa come il sughero e colorata come gli asfodeli. C’è la religione genuina che vuole trasformare il peccato in redenzione e miracolo ("Il voto"), c’è «l’ebbrezza selvaggia» della morte, c’è la
pietas del «vecchio selvaggio in adorazione della luna».
C’è soprattutto il genio femminile - orgoglio e grazia insieme - vestita di donna-amazzone, capace di non arrendersi alla prepotenza maschile ("Serra"), fervida nell’attesa tormentata ed epifanica, come l’Ilaria dagli occhi «ardenti» di
"Dramma".
Leggendo questi racconti è possibile comprendere come la produzione di questa autrice classica e moderna sia una miniera per chi ama la grande letteratura,
e per chi vuole assorbire angoli, scorci, tradizioni, usi, miti della Sardegna di ieri. Isola-continente così carica di orizzonti e lambita sempre da quella «memoria sciamanica» che - rileva la Anedda - si coniuga magistralmente alla solitudine così selvatica e così umana cantata dalla «grande madre» Grazia Deledda.
Sergio Di Giacomo
GIULIANO DEGO
allusiva. A cominciare da Romolo:
giudice inflessibile e spietato boia (armato delle «branche della verità» e
delle «zanne della giustizia») di un
impero marcio, opprimente e sanguinario (sorto «sull’ecatombe di vittime
massacrate nelle guerre per la maggior
gloria di Roma, o sbranate dalle belve
perché Roma si divertisse»), mordace
dissacratore di augusti miti, acuto investigatore di umane miserie, depositario di un sottile tormento morale.
Nessuno sfugge ai dardi dell’imperatore, neanche Emiliano: che, dalla crosta dell’onore militare umiliato, affiora quale «vittima del potere tante volte disonorata e offesa». E non va meglio agli altri personaggi, ballonzolanti su una scacchiera in disfacimento che assomiglia non poco al mondo
attuale.
Un mondo assai greve, dove il potere
e il piacere spesso si coniugano con la
convenienza e la ferocia, dove tanti
uomini brancolano nel buio di avvenimenti scellerati, in una sorta di grottesco labirinto in cui persino le guerre
sono giustificate, sotto l’ombra inquietante di spregiudicate tirannie
economiche.
Non smette mai di sollecitare la nostra
coscienza, Dürrenmatt, con questa difficile («difficile proprio perché sembra facile») e abile sotie, quest’im-
probabile vaudeville «da porre tra il
comico Theo Lingen e G. B. Shaw»
(così chiosa lo scrittore nell’opportuna nota finale; felicemente contagiato
proprio dal brio, dal gusto del paradosso, dalla beffarda ironia del miglior
Shaw, anche lui autore di un vivace
scherzo sull’imperialismo britannico,
L’uomo del destino).
Questa buffoneria che - come il gidiano "Les caves du Vatican" - si muta in
rivelazione, dopo aver verificato le
conseguenze delle proprie deviazioni:
soprattutto nel senso dell’accostarsi
il più possibile alle verità dell’esperienza umana, nel complicato rapporto tra realtà e verità, apparenza e sostanza, bene e male.
E se Lafcadio è il tragico e irrisolto
eroe dell’atto gratuito, se dai Sotterranei non si esce, Romolo (che Dürrenmatt gradualmente disvela come «spiritoso, rilassato, umano, eppure in fondo un uomo che […] mira alla morte») viene giustiziato dal mondo.
Ne ammiriamo la tragedia e la grandezza proprio attraverso la commedia
della sua fine: l’imperatore va in pensione, alle dipendenze di Odoacre, ma
«ha la ragionevolezza e la saggezza di
accettare anche questo destino». Insieme al suo alter ego: un Odoacre anche
lui appassionato di polli, che aveva
creduto, come Romolo, di poter liquidare il proprio mondo, sfiancato
com’era dal potere e dalle continue
campagne di conquista, e prefigurandone l’oscuro futuro.
E invece i due hanno davanti soltanto
i tragici rottami del presente, dei quali non possono assolutamente disfarsi.
È questo il conto, piuttosto salato, di
uno scrittore ancora giovane, ma già
ben fornito di una straordinaria e profetica visionarietà, oltre che di una salutare, necessaria irriverenza.
Giuseppe Giglio
GARTH NIX
L’attacco finale di un negromante
Lotta tra il Bene e il Male in Ancelterra e nell’Antico Reame: schiere di
non morti hanno invaso i due paesi
agli ordini del negromante Hedge
che lavora per liberare Orannis il
Distruttore dalla sua millenaria prigionia. Ma se ciò dovesse accadere
la terra precipiterebbe nell’oscurità.
GARTH NIX
"Abhorsen"
Trad. Fabrizia Villari
Gerli
pp. 372, euro 18,60
Nord, 2006
GIOVANNI MARTINI
Momenti quotidiani di esistenze bruciate
Giovanni Martini firma otto racconti
quasi perfetti. Otto racconti ambientati a Roma che non vivono di collocazione geografica, ma dei personaggi
che li abitano. Otto short stories che
descrivono situazioni complicate e a
volte semplicissime e ruotano intorno
alla presenza, all’individuo, all’esserci. L’estrema varietà dei temi trattati
convive nello stesso spazio, sostenuta
dalla qualità della scrittura. Tema centrale dei racconti altro non è che la volontà di riproporre momenti quotidiani, a volte cruciali, di esistenze bruciate. Protagonisti delle storie di questo
autore (che, come spiega la quarta di
copertina, vuole mantenere la sua
identità nascosta e comunica con la
casa editrice unicamente attraverso email) sono persone instabili che hanno
paura di rubare lo spazio vitale altrui e
di essere private del proprio, individui
sconfitti che non vogliono rassegnarsi.
Artefici sono giovani, vecchi, adulti,
bambini, che camminano, che vanno
avanti per la loro strada, correndo o
procedendo lentamente verso un futuro incerto, che a tratti diventa facilmente intuibile. Il volume propone
dei testi fortemente coesi che trovano
nella ricerca del dettaglio e del particolare, in molti casi essenziali per la
fluidità e la resa realistica della narrazione, un naturale elemento aggiunto.
Da evidenziare senza dubbio "Morte
del pittore", racconto posto quasi a
chiudere il libro, che bilancia qual-
GIOVANNI MARTINI
"La nostra presenza"
pp. 108, euro 12
Fazi, 2006
che caduta di stile de "I dolori riproduttivi". Protagonista è un ragazzo,
un nipote, che non si fa scrupolo di
vendere oggetti e quadri, di depredare
la casa di famiglia per alimentare una
vita fatta di invenzione, di parole.
Centrale nel racconto è l’opposizione
fra l’inventore e il falsario, fra lo sperimentatore che si contrappone necessariamente all’uomo cui è sufficiente
frequentare vie già conosciute. Impossibile non associare il pioniere delle lettere e contenuti, il nipote senza
scrupoli, al giovane (vecchio?) autore
del volume. Difficile non cogliere una
profonda critica verso il mondo delle
lettere italiane, portato a disprezzare
racconti più o meno lunghi e short
stories.
Martini firma con questo esordio otto
scorci di vita dalla forte personalità.
Otto storie pronte a mostrare il coraggio di un autore che ha la forza di
sperimentare tagli narrativi di solito
poco apprezzati in Italia, ma che non
ha il coraggio di apparire in pubblico.
Che si tratti dell’ennesima trovata
pubblicitaria? Sarebbe un peccato vista la validità del testo.
Flavia Piccinni
ADRIANO PROSPERI
Serial killer anche nella Roma di Nerone Infanticidio, secondo antiche abitudini
Ambientato nella Britannia romana
e nella corrotta Roma neroniana, il
giallo storico di Dego inizia nel 59 d.
C. con una regina frustata a sangue e
le due giovani figlie stuprate. Dell’atto si vendica la principessa Seren
che intreccia la sua vita con Nerone
e un serial killer dell’antichità.
GIULIANO DEGO
"Seren la Celta"
pp. 333, euro 10,20
Bur Rizzoli, 2006
La storia lontana di un infanticidio
avvenuto a Bologna nel 1709, ma
che pone problemi moralmente inquietanti quanto mai attuali se si
pensa che l’infanticidio, inteso come
soppressione dei neonati indesiderati, è un fatto che accompagna la storia della specie umana.
ADRIANO PROSPERI
"Dare l’anima"
pp. 373, euro 24
Einaudi, 2006
pagina
22
P
iovono libri, si potrebbe dire parafrasando la celebre poesia di Eliot: e una
parte rilevante di questo diluvio bibliografico s’addensa attorno al corpo
mastodontico di quel caro estinto che è l’istituzione scolastica. Piovono
saggi che documentano limiti ed arretratezze dell’italico modello rispetto a quello europeo, spinti dal tentativo vano di dipanare la massa contraddittoria delle
nuove disposizioni legislative emanate da questo o quel nuovo reggente della
Pubblica(?) Istruzione. Sia detto inter nos: questi provvedimenti sembrano costituire un perfetto esempio di eterogenesi dei fini: emanati infatti con la speranza di migliorare la condizione di una istituzione in cronico stato comatoso,
ne accelerano precocemente la fine. Ma piovono anche i romanzi sulla scuola,
attraversati dal cinismo corrosivo ed acre tipico di chi, essendone «prigioniero», considera l’istituzione ontologicamente irriformabile: un Titanic che non
consente alcuna salvezza per i passeggeri: personale docente e non docente,
alunni, famiglie…
Piovono poi i romanzi scritti da chi è riuscito a fuggire dalla fortezza Bastiani
e allora, guardando à rebours i propri anni di carriera, si concede volentieri il
lusso dell’autocelebrazione per aver così brillantemente assolto, con piglio tra
il romantico ed il donchisciottesco, «un-ruolo-di-centrale-importanza-per-lacrescita-della-società-tutta». È piovuto recentemente anche questo Scusi, prof:
ho sbagliato romanzo di Alessandro Banda. Chi scrive aveva molto apprezzato l’autore nel suo esordio del 2001 Dolcezze del rancore (Einaudi), ma questo
suo quarto romanzo mi sembra opera deludente sotto tanti punti di vista: a partire dal titolo, ammiccante ad un gergo tra il paragiovanilistico e la gag demenzial-televisiva.
Nel romanzo veniamo proiettati in un luogo della nostra penisola, chiamato Tragedistan, ma facilmente identificabile, come si evince da indizi e suggerimenti disseminati a piene mani, nel Trentino-Alto Adige; siamo in una scuola superiore, il palcoscenico su cui agiscono caricature di professori la cui personalità pare assimilabile, per fissità stereotipica, a certe maschere della commedia
dell’arte. Ma quasi tutto in questo libro appare scontato e sostanzialmente deja
S
S t los
schede
libri
ALMANACCO
Alessandro Banda /
Marco Palladini
La galleria
di caricature
e stereotipi
lù: il preside (anzi, no: oggi sono gratificati del titolo di Dirigenti Scolastici) che,
come accade nella stragrande maggioranza dei libri dedicati alla scuola, si barcamena tra la rigida applicazione di assurde norme burocratiche e la zavorra di
una crassa ignoranza; i docenti che appaiono alla stregua macchiette più che
personaggi, privi di ogni spessore e
iamo da qualche anno abituati
alla periodica comparsa di libri
da cui si alzano dolorose lamentazione sul triste destino della scuola
italiana: pagine per lo più satiriche
(ma non sempre), talora intelligenti, talaltra sospettosamente rancorose (soprattutto se le biografie degli autori
svelano il tentativo frustrato di lasciare i lidi scolastici per approdare alle
sponde dell’agognata accademia). È
un piacere scoprire nel libro di Alessandro Banda, che pure va a collocarsi nel sottogenere del pamphlet scolastico, uno scatto che lo distingue (e decisamente lo salva). Prima di tutto perché degli stessi libri che lo hanno preceduto nel genere sa prendersi gioco (o
meglio, di quello che viene definito il
«paradosso della puttana», vissuto dai
professori che si scagliano con i loro
scritti contro la scuola che «a ben vedere, gli dà da mangiare, a questi ingrati»), così come della figura dell’insegnante costretto per sopravvivere ad
alternare i suoi grigi panni di docente
con quelli, non molto più allegri, di
scrittore dalle basse tirature (e così lo
scherzo con la propria autobiografia il personaggio in questione si chiama
con scoperta allusione Dan Baha - libera da ogni sospetto lo sguardo critico sulla realtà scolastica di una persona, l’autore, «informata sui fatti»). In
secondo luogo, perché la satira degli
aspetti degenerati della scuola, dominata da sigle tanto ridicole quanto sospettosamente vuote di senso (non sarà
facile, per i non addetti ai lavori, distinguere tra le vere e le inventate) e da
un’ansia burocratica che spegne negli
insegnanti ogni motivazione ed entusiasmo, si intreccia con la difesa delle
parole della letteratura.
Nella scuola di un misterioso Tragedistan, un paese in cui si parlano molte
lingue, per il quale il resto del mondo
non conta nulla, la cui cultura (e non
solo) è fortemente influenzata da quella italiana, si promuove l’attualizzazione dei classici della letteratura, cioè
la loro riscrittura in chiave moderna
che li renda appetibili ai giovani lettori. A fare le spese di tale mostruosa
(ma non così inedita) operazione, nell’ordine, I Promessi Sposi, Le ultime
lettere di Jacopo Ortis, La Vita Nova.
Il colpo d’ala di Banda sta nella rappresentazione (a cui avrebbe forse anche potuto destinare un più ampio
Un bel gioco
di riconoscimenti
dal classico
U
scrizione del paesaggio si alternano ad
un rovinismo di vedute, come nel racconto "Stilicone o il cambio della
guardia", storia del tramonto dell’Impero romano, disastroso passaggio
epocale di un’era in cui la tribalità
dell’orda si oppone all’ordinamento
iussivoo.
In "Eleusi, vicino casa mia" è sempre il
tema dell’altro che ritorna nelle vesti
del doppio, l’ignoto nemico celato in
noi stessi, cui si ricorre per metafore
ideologiche, patologiche, poetiche. In
una didimea interpretazione dell’autore/attore, il racconto vira nella pura lirica, inserendo assonanze versificatorie
(«l’inferno è infermo») o termini provenienti da discipline specialistiche, in
un calderone che mescola e serve un
cocktail di neologismi capace di rendere insieme la visionarietà del passato e
l’epopea della contemporaneità.
Scisso tra «farfalla e verme immondo» il poeta esemplifica un dettato
scapigliato ancora in auge: che la scrittura è limitante rappresentazione, superata dalla visione elettronica e reiterata dei media. La società dello spettacolo riesce ad inglobare a sua immagine e somiglianza la realtà, rendendone
Il registro
della ballata
politica
na raccolta di racconti piuttosto eterogenea, che fatica a stare dentro un unico contenitore,
perché deborda costantemente dai generi e dai canoni attraversati. Una poliedrica rivisitazione della tradizione,
di molti immaginari collettivi, come
quello cinematografico, teatrale, della
storia del pensiero filosofico e delle
trasformazioni sociali. Nel racconto
"Ventimila tigri" l’atmosfera sospesa
da Deserto dei tartari si sublima in un
linguaggio quasi da «parnassianesimo sperimentale». Le forti influenze
di raffinati autori francesi, da Gautier
a Rachilde, da L’Isle-Adame a Baudelaire, si sposano con metafore immaginifiche dell’impero tecnocratico e
postumano, strabordando direttamente nella fantascienza.
Non è un caso che autori come L’IsleAdame abbiano scritto opere molto
vicine a tale immaginario futurista,
ma Palladini è capace di alternare questo sofisticato registro con la ballata
politica, in uno stile semplicistico-dialettale o populista, a volte carnale, in
una sorta di materialismo scolpito nella voluttà del fraseggio. Il gusto dell’esotismo e dell’archeologico e la de-
ALESSANDRO BANDA
"Scusi, prof, ho sbagliato
romanzo"
pp. 192, euro 13
Guanda, 2006
spazio) della reazione degli studenti
che, obbligati a leggere tali forzate riscritture, si fanno carbonari della parola e, di nascosto, acquistano le edizioni originali, possibilmente non commentate, di sicuro prive di apparati
didattici, pronti a riconoscere nella
«classicità» di queste opere il loro essere autenticamente moderne (con
qualche,
ragionevole,
dubbio
sull’Ortis: critici severi, ritengono l’attualizzazione del romanzo foscoliano
la parodia di una parodia).
Nell’esercizio delle tre rielaborazioni
Banda si diverte con eleganza: soprattutto nella riscrittura dei Promessi
Sposi in cui, più che nei due casi successivi, il gioco si realizza non solo
nell’attualizzazione (fra Cristoforo/Friar Laurence diventa un ex-ultras), a cui si aggiunge l’enfatizzazione (don Rodrigo/Rodriguez è peren-
manifesta solo l’oscena rappresentazione. Così, come essa ha il suo fondale scenografico che le permette di sopravvivere al suo disfacimento, anche l’uomo cerca il suo «doppio-fondo», nella "Musica del boia", la risonanza è con l’orrore che ci caratteriz-
L’AUTORE. Nato a Bolzano nel
1963. Nel 1992 ha conseguito il
dottorato di ricerca in Filologia
italiana. Dal 1993 insegna nelle
scuole superiori. Ha pubblicato i
racconti Dolcezze del rancore (Einaudi, 2001) e i romanzi La verità
sul caso Caffa (Guanda, 2003) e La
città dove le donne dicono di no
(Guanda,2005).
MARCO PALLADINI
"Il comunismo era un
romanzo fantastico"
pp. 172, euro 17
Zona, 2006
za come bestie esperte nell’invidia
dell’altro e nell’arte della guerra.
Il teatro è ancora il palcoscenico per
queste tarantole impazzite di personaggi, come il vuoto Dj-Profeta del
racconto "Stanotte ho fatto ballare
dio", icona demiurgica di una genera-
L’AUTORE. È autore di teatro di ricerca, performer scenico-poetico.
Come critico e giornalista ha collaborato con quotidiani, agenzie di
stampa, magazine e periodici. Ha curato e allestito performance, spettacoli, manifestazioni culturali, convegni, in varie località d’Italia. Numerosi suoi testi per il teatro (tra i quali Salomè: memorie di una inco-sciente, Me Dea, Justine - Il vizio della virtù, Mammolo - Il sogno del santo calciatore e Pithagora Iperboreo) sono stati rappresentati con successo. Ha
pubblicato i volumi in versi Et ego in movimento (’87), Autopia (’91),
Ovunque a Novunque (’95), Fabrika Poiesis (’99) e i testi teatrali Destinazione Sade (trilogia, ’96) e il dramma Serial Killer (’99). Sotto il titolo Gli
angeli ribelli e l’Età Oscura, Marco Palladini ha realizzato un mix di due
suoi recenti lavori: il cd poetico-musicale Trans Kerouac Road (Editrice
Zona) e la performance teatrale Poesie per un tempo di guerra.
credibilità narrativa, ognuno con gravi problemi comportamentali e sociali: la
Classicista Demodè, la Pseudo intellettuale, la Maniaco-depressiva, la Brutta
e Stronza, la Sgallettata, il Maniaco-Sessuale, il Fanatico Teorizzante, il Matto Vero… e battezzati con nomi che forse dovrebbero far sorridere: Pippetti, Toboso, Malgorzata Zebitowska, Sacer, etc…
L’unico che si salva, l’unico che ha qualche caratteristica e consistenza umana
è (guarda te il caso!) un docente dall’assonante nome di Dan Baha: che sia un
alter ego dell’autore questo unico sano in un mondo di pazzi? In questa scuola, alle prese come tutte le scuole italiane con quella che sembra l’emergenza
didattica n.1, ovverosia il problema del rifiuto della lettura da parte degli alunni (quando invece si sa che nella società degli adulti le cose vanno molto meglio…), si decide di sperimentare una grande novità: la riscrittura di tre classici (I Promessi sposi, l’Ortis e la Vita nova) con i quali gli studenti devono obbligatoriamente «confrontarsi» nel corso della loro carriera scolastica.
Su 184 pagine totali del libro, la riscrittura ex-novo di questi tre testi, perseguìta attraverso una indigeribile risciacquatura degli stereotipi più vieti di certa ultramoderna letteratura di serie B, ne occupa quasi la metà: è forse il momento
meno riuscito del libro, tanto che si prova addirittura nostalgia per l’Ortis, quello vero. Questo è poi anche quello che succede ai malcapitati studenti dell’istituto perché, più o meno come accadeva ne L’attimo fuggente, anche qui essi decidono di non tenere in alcun conto gli insegnamenti dei cattivi maestri e dedicarsi, in modo cospiratorio e carbonaro, alla lettura dei testi originali. Così come nel film facevano i giovani membri della cospirativa Dead Poets Society ,
qui gli studenti del Tragedistan si troveranno a compulsare avidamente gli originali, a scambiarsi, da spacciatori della Cultura, questo o quell’incipit, questa
o quella frase.
A proposito di mancanza di originalità: ma nell’ultima pagina, senza alcun riferimento alla fonte, c’è o no una riproduzione pressoché assoluta di una famosa asserzione tratta da Le città invisibili di Calvino?
Linnio Accorroni
nemente alle prese col problema di
una castità forzata) e spesso il rovesciamento (Lucia/Lucy è una disinvolta ragazza dai molti amanti), ma
soprattutto nella contaminazione: i
professori tragedistani rimescolano le
carte (strizzata d’occhio all’ormai irrinunciabile postmoderno), e così nella
presentazione di Lucia utilizzano la
descrizione di Gertrude, mentre scrivono della vigna di Renzo si ricordano del giardino (luogo di morte) del
Leopardi dello Zibaldone, e nei loro
esercizi citano la Pastrufazio gaddiana, i ragazzi di vita di Pasolini, i diavoli danteschi, il nitrito di pascoliana
memoria... ma il lettore potrà continuare nel gioco dei riconoscimenti per il quale è richiesta una buona cultura scolastica - fino ad arrivare all’ultima pagina dove ritroverà l’invito
che suggella Le città invisibili: quello
a cercare nell’inferno in cui ci troviamo a vivere (a lavorare/studiare) ciò
che inferno non è. Banda è bravo a disegnare con brevi colpi di penna il
clima della sala professori o dell’Aula Magna in cui si svolgono le assemblee collegiali (e solo i lettori-insegnanti sanno che taluni episodi che il
lettore comune attribuirà alla fantasia
sfrenata dello scrittore satirico non
sono che drammatico esempio del più
oggettivo realismo narrativo). La sua
è scrittura dal ritmo veloce, che riproduce con divertimento i molteplici toni dei personaggi dei classici rifatti
(che parlano sempre in prima persona:
quasi che i docenti del Tragedistan ritengano il narratore esterno una complicazione per le menti dei loro allievi)
e le voci, spesso sgradevoli, dei professori tragedistani: molti dialoghi,
frasi brevi e incalzanti, talora una convincente sentenziosa levità.
P.S. A rassicurazione di studenti, genitori e futuri insegnanti: nella scuola
italiana, in qualche caso, e voglio credere non raro, le misteriose sigle della burocrazia vengono neutralizzate
da docenti che, continuando a credere
in ciò che insegnano, riescono ad assolvere al dovere di educare, per dirla
con Edgar Morin, alla complessità
dell’esistere; docenti che piace pensare arruolati tra quei «fanti perduti della letteratura» a cui l’autore, con
un’ultima citazione (dal Fermo e Lucia), dedica il libro.
Anna Longoni
zione che ha sostituito il suono al senso, ma che è anche capace di ritornare alla contraddizione attraverso una
esperienza totalizzante di sradicamento dalla realtà e dalla storia.
Siamo di fronte ad un atto manipolatorio, quello di combinare assonanze
col corpo, che inscena nel suo vorticoso implodersi l’alienazione solipsistica di questa gioventù della technocrazia musicale. Convince, l’assoluta
precisione in cui un padre «si cala»
nell’acido di un figlio, anche quando
questo si manifesta come totale assenza di comunicazione. Il racconto
"La Banda dei Quattro" è costruito
attraverso un incrocio di mail - espediente di per sé abbastanza impoetico
- ma capace, nelle mani dell’autore, di
rendere evidente il vuoto di comprensione, da parte delle ultime generazioni, della nostra situazione politica e sociale. È infatti un uomo senza lingua il
cattivo maestro che cerca una interlocutrice in una giovane no-global dell’area cattolica.
Le precise indagini psicologiche di
questi racconti ne costituiscono il lato
meno pregnante, rispetto alle analisi
che i protagonisti fanno della realtà.
Sono attanti di un discorso collettivo
interrotto, frammenti di quel romanzo
fantastico che era il comunismo. Può
essere anche la metafora del futuro
che viene da lontano, del ritorno al
passato, a spiegare un tempo storico
ormai privo di prospettive, in cui l’unica via d’uscita sembra essere un rivolgimento a schemi arcaici come
l’Esodo, che nel racconto "Fuoco
freddo" raccoglie la speranza di un
nuovo ver sacrum di questa umanità
così poco umana. Intere pagine cariche di descrizioni fantasmagoriche e
allucinate, ora vicine a Burroughs ora
vicine a Bukowski, si susseguono
ininterrottamente da un racconto all’altro. Il senso più profondo di queste
speculazioni narrative sta nel porsi
continuo delle domande, nelle risposte
mai scontate di una verità (rivoluzionaria) fatta a scomparti. La vita diviene performance collettiva, teatro dell’assurdo, grand guignol, crudeltà in
iper-offerta. Un evoluzionismo regressivo in cui, per tornare alla scoperta
della Ragione, si deve «bruciare Sade» ("Metastasi di Sade"), portando
l’illuminismo al paradosso.
Chiara Cretella
S t los
schede
libri
Così muoiono
gli intellettuali
in questa Italia
GOFFREDO FOFI
"Da pochi a pochi. Appunti
di sopravvivenza"
pp. 151, euro 12
Elèuthera, 2006
23
ALMANACCO
Goffredo Fofi /
Gianni Oliva / Andrea Piva /
Bruno Remaury
C
hi ne ha viste e fatte tante (in senso buono, s’intende) nella sua vita, come ne ha viste e fatte un vero intellettuale militante come Goffredo Fofi, non può, tirando le somme di cinquant’anni di impegno, suonare nacchere di felicità. Il fardello di storia che pesa sulle spalle conduce a un discreto pessimismo, anzi alla certezza che l’Italia è un paese vistosamente cambiato in peggio e decisamente bisognoso, dunque, di una terapia d’urto. Fofi non
è un economista, bensì un antropologo nel senso più lato del termine, uscito dalla «scuola», dalla collaborazione e dall’amicizia con Capitini, Carlo Levi, Dolci, Rossi-Doria, e molti altri protagonisti del rinnovamento nazionale, convinti realizzatori del pensiero-azione. Il discorso di Fofi, il suo zelo morale, va diritto al cuore delle trasformazioni. Problema massimo: come e in chi individuare delle minoranze, quei neanche tanto simbolici «pochi» di questo suo ultimo
libro (o diario in pubblico) che s’intitola Da pochi a pochi. Appunti di sopravvivenza, da assimilare come compagni di strada scampati alla catastrofe della
globalizzazione, ovvero dell’americanizzazione?
Come convincere costoro, nella loro posizione moralmente invidiabile di «lucidamente perdenti», a costruire o ricostruire spazi di lotta per combattere il «Superpresente», la grande macchina del «consumo-consenso», che miscela diabolicamente insieme aromi democratici e proteine di pubblicità, piegando al
non-pensiero e alla non-azione eserciti sterminati di «Pinocchi», di burattini, asserviti o rassegnati alla rassicurante mediocrità del tutto-compreso trinitario stipendio-vacanze-tv? E dire che c’era stato un periodo della storia italiana, davvero notevole per crescita di benessere e per gusto della modernità, identificato da Fofi nel ventennio tra il 1943 e il 1963, lo stesso periodo su cui hanno indagato con molta empatia storiografica studiosi come Silvio Lanaro e Guido
Crainz, molto apprezzati da Fofi. Un periodo, quello, in cui l’Italia avrebbe potuto diventare migliore, mantenendo alto il profilo di dignità che s’era assicurato con lo scatto della Resistenza e con l’entusiasmo della ricostruzione, mai
rischiando di diventare, come ricorda Fofi, «mediana o mediocre», secondo una
definizione di Levi.
Il ’68, il terrorismo, gli scandali, lo spoil-system, il bonapartismo craxiano e berlusconiano hanno rapidamente affossato tutto, trascinando in questo rovinoso
precipizio anche gli intellettuali. «Paradossalmente - scrive l’autore - gli intellettuali sono morti come categoria di possibile riferimento […] proprio quando sono dilagati, quando il loro numero è diventato legione, quando il "sistema"
ha puntato tutto sulla "cultura", sulla "comunicazione"». È una crisi che riguarda anche soggetti apparentemente inattaccabili come il volontariato, il servizio
civile, il terzo settore, per motivi diversi e complessi ripiegati anch’essi nel «particulare». «Da pochi a pochi»: sembra di riudire in sottofondo la voce di un irriducibile Gobetti, stretto tra guerra e dittatura, eppure determinato a indicare
una strada. Fofi, nel «piccolo» e nel «marginale» in cui si riconosce, non si stanca di richiamare di nuovo e sempre all’impegno: «Dovremmo ricominciare dai
singoli e da piccole minoranze frantumate ma attive, da formiche pazienti e asini testardi a ridefinirci come membri coscienti e operosi di un villaggio, di un
territorio, di una Nazione, di uno Stato, di un Pianeta, nella persuasione dei nostri doveri più che in quella dei diritti, e semmai a partire dai diritti degli altri e
della natura e del futuro».
Sergio D’Amaro
L’AUTORE. Fofi è nato a Gubbio nel 1937. Il suo ultimo libro è uscito
nel 2004 da Mondadori: Totò. Storia di un buffone serissimo. Il suo nome
è soprattutto legato ad alcune riviste da lui fondate: "Linea d’ombra",
"La terra vista dalla luna" e "Lo Straniero", l’unica in vita.
pagina
Bellezza, salute
e giovinezza
Ecco la donna
A
BRUNO REMAURY
"Il gentil sesso debole"
pp. 285, euro 21,50
Meltemi, 2006
ffascinante studio sui rapporti controversi tra mass media e corpo femminile. Partendo dalla premessa di una visione dell’altro più estesa, in quanto non facente parte dell’universo di riferimento studiato, l’antropologo
Remaury ci spiega le ragioni di un mercato e di una sofferenza della donna, attraverso i messaggi promozionali che ad essa si rivolgono, i quali hanno sostituito quella precettistica antica che si rivolgeva alla sua educazione morale e fisica.
Mediante una ricognizione nel mondo della pubblicità, della comunicazione, della cosmetologia e delle scienze sociali, l’autore individua precipuamente l’onnipervasività dell’immagine femminile in una specifica strategia di conservazione patriarcale da parte del discorso dominante. Non è infatti vero, come molti si
ostinano oggi a dichiarare, che l’acquisita libertà di scelta da parte delle donne
le abbia liberate dalla morsa della plasmazione ad uso del pensiero maschile: «Più
le pratiche corporali si diversificano più causano una marcata dipendenza dai modelli tradizionali, un’incarnazione in profondità di quei discorsi (…) più la donna moltiplica e diversifica i suoi saperi e le sue pratiche meno riesce a liberarsi
delle rappresentazioni sottese a entrambi». Confondendo l’idioletto femminile
con il discorso dominante si soggiace ad un colossale inganno: quello della presunta libertà di scelta. Le devianze dal modello, se non soggette e riconducibili
ad altrettanti canoni, generano l’esclusione dalla norma, anche quando essa viene intesa come «il grado zero della mostruosità».
Ricollegandosi al testo di Rosi Braidotti, Madri mostri macchine (Manifestolibri 2005) si potrebbe leggere il saggio di Remaury come una prima introduzione al canone della norma, così come il testo della Braidotti ne individuava gli archetipi nella teratologia e nella deformazione. La norma comunicativa si riassume nella triade bellezza, salute, giovinezza, cui si aggiunge la supremazia del modello della giovane bianca e occidentale. Il corpo femminile esce da questa indagine in una pericolosa prospettiva di «maturità»: esso è cioè inteso in senso positivista come via via perfezionabile di pari passo con la presunta civilizzazione
derivata dalla tecnocrazia. I metodi invasivi, ma altamente democratici, della bellezza alla portata di tutti, sono quelli offerti dalla cosmetologia e dalla chirurgia
estetica. L’operazione invasiva di asportazione, ricomposizione, rimodellamento dell’identità non fanno che dichiarare l’assoluta soggezione della donna, preda di una pratica manipolatoria sempre più sotterranea, astuta ed ineludibile. In
questo percorso il linguaggio della persuasione estetica appare alienante nella sua
pretesa prescrittiva di apparente e semplicistico benessere, in cui il soggetto è
chiamato, come in molti slogan pubblicitari, a ridurre l’essere al solo corpo.
Chiara Cretella
Dolori di un
professore
derelitto
ANDREA PIVA
"Apocalisse da camera"
pp. 205, euro 13,80
Einaudi, 2006
L
e cinque parti che compongono Apocalisse da camera, esordio letterario
di Andrea Piva (salernitano, nato nel ’71) sono segmentate in rapidi paragrafi di non più di tre pagine, brevi flash narrativi che nonostante la brevità del racconto riescono a dare respiro all’intera narrazione senza soffocarla
o appesantirla. In mezzo a questo flusso spezzato si dipana la storia di Ugo Cenci, assistente universitario di filosofia del diritto all’università di Bari con un debole per le belle studentesse.
Studente svogliato, laureato senza grandi ambizioni, dopo la laurea in Giurisprudenza s’è installato sotto l’ala protettiva del professor Frappelle, amico di lungo corso di suo padre, che lo che ha accolto nelle file dei suoi scherani da cattedra fidando più sui lunghi anni di amicizia col genitore che sul curriculum dell’assistente. Cocainomane saltuario ma tenace, alcolizzato e imbattibile ingurgitatore di pillole e farmaci, Ugo Cenci ha trasformato la sua altrettanto imbattibile ossessione per le donne in un redditizio scambio di favori: esami in cambio di sesso. Un mercato sano e fiorente nelle università italiane, che Piva racconta con la giusta dose di distanziamento ironico, necessaria per non cadere
nella stigmatizzazione vuota e moralistica di un male che per alcuni, studenti
e professori, sembra essere solo un accidente necessario e tutto sommato indolore. Un mercato - è la scena d’apertura del romanzo - destinato, sembra, allo
smantellamento, visto che tra i banchi si fa sempre più insistente il chiacchiericcio intorno al dottor Cenci e ai suoi rapporti con le studentesse.
Nell’unica giornata in cui Piva ambienta il suo romanzo, Ugo sembra allora fermare il flusso impazzito del presente nel quale è immerso e ritornare in qualche modo indietro: agli anni in cui viveva con i genitori, ai momenti felici dell’adolescenza, all’incontro di anni prima (che si sarebbe potuto trasformare in
amore ma che invece scivola verso uno scioglimento terribile e grottesco) con
Giulia. Sarà la concatenazione suicida di alcol, hascisc e cocaina e scaraventarlo di nuovo nel suo presente assurdo, in un delirio paranoico finale che si concluderà in un modo che è giusto lasciare alla scoperta del lettore.
È un’epica di agghiacciante normalità, quella che racconta Piva. Già un altro
esordio, Ad avere occhi per vedere (minimum fax) di Leonardo Pica Ciamarra, aveva dispiegato sotto gli occhi dei lettori l’orrore che si cela spesso nei corridoi dei dipartimenti universitari. In Apocalisse da camera quello sguardo è come attenuato, soffuso, più sfumato, lambisce con maggiore leggerezza quei territori, stemperandoli in un disincanto che sembra posarsi, come la neve nel famoso racconto di Joyce, «su tutto, sui vivi e i morti». Perché qui l’orribile protagonista non è il personaggio peggiore del libro. Gli gravitano attorno - messi come sullo sfondo eppure vivi e sbozzati a tutto tondo, piccole correnti carsiche che scorrono sotto la crosta del romanzo restando sempre presenti e forti - docenti cinici e disillusi, genitori che hanno tirato in barca i remi dell’intelletto per dedicarsi a lunghe sessioni di consumo televisivo, sceneggiatori folli
convinti che il futuro delle fiction sia la scrittura di serial che hanno come protagonista un pastore tedesco che risolve casi di omicidio.
L’Apocalisse di Piva, raccontata con una scrittura sinuosa, che si snoda per mezzo di lunghi giri di frasi assemblate con un lessico ora volutamente basso ora
raffinatamente alto, è anche, o soprattutto, la storia di una personale evasione,
un tentativo di segare le sbarre, annodare le lenzuola sul moncherino metallico e fuggire, calandosi con velocità, senza preoccuparsi troppo di segarsi i palmi delle mani, da quel carcere chiamato vita.
Piero Sorrentino
L’AUTORE. Fratello di Alessandro, regista di Lacapagira, film del quale Andrea ha scritto la sceneggiatura, è autore anche di testi per la radio.
Ha sceneggiato anche il film Mio cognato.
sguardi
e riguardi
pagina
24
V
O
C
I
PREMIO GANDOVERE
RICONOSCIMENTO
A "CAMEO" DI CROVI
La 25a edizione del Premio Gandovere (fondato da Maria Corti) è stata vinta da Raffaele Crovi con il romanzo Cameo (Mondadori). La giuria che ha assegnato il premio, presieduta da Elena Loewenthal, è formata da Giorgio Barberi Squarotti,
Giovanni Giudici, Folco Portinari,
Vittorio Spinazzola e Armando Torno.
PREMIO DESSÌ
DE MARCHI E ABATE
TRA I FINALISTI
La giuria del Premio Giuseppe Dessì, composta da Silvio Ramat (presidente), Massimo Murgia, Dimitri
Pibiri, Anna Dolfi, Marcello Fois,
Duilio Caocci, Idolina Landolfi,
Gianni Filippini, Laura Pariani,
Leandro Muoni, Aldo Forbice, Massimo Onofri, ha premiato il 30 settembre, a Villacidro, i finalisti della
XXI edizione 2006: per la sezione
narrativa Cesare De Marchi con La
furia del mondo, Feltrinelli; Carmine Abate con Il mosaico del tempo
grande, Mondadori; Domenico Seminerio con Il cammello e la corda,
Sellerio. Per la sezione poesia Giancarlo Pontiggia con Bosco del
tempo, Guanda; Mariangela Gualteri con Senza polvere senza peso, Einaudi; Francesco Permurian con Il
teatro della neve, L’Obliquo.
URBINO
LE GIORNATE
DELLA TRADUZIONE
Dal 20 al 22 ottobre all’università di
Urbino si svolge la quarta edizione
delle Giornate della traduzione letteraria. Professionisti dell’editoria,
scrittori, traduttori, giornalisti e intellettuali si alterneranno in seminari e
dibattiti. Ospite sarà Susan Bassnett,
illustre studiosa di teoria della traduzione e direttrice del Centre for Translation and Comparative Cultural
Studies dell’università di Warwick
(GB). Il convegno è curato da Stefano Arduini e dalla traduttrice Ilide
Carmignani.
Il 19 settembre a Torino, nell’ambito
del ciclo Grinzane da Nobel «Incontri
a Palazzo Reale», Josè Saramago ha
tenuto una lectio magistralis sul tema
"Difesa e elogio di Cassandra". Eccone il testo.
C
assandra è a Torino, va in
giro per le strade, parla
con le persone e dice «Il
mondo non sta bene» e
pensa che il problema
non è che gli abitanti non le credono
ma che non fanno niente. Perché? O
perché non credono di poter fare o
perché non hanno la possibilità di farlo o perché non lo vogliono fare. Cassandra parla ai giovani, perché i giovani sono vittime del peggiore degli inganni. Cassandra infatti dice a loro, ai
giovani, di affrontare il problema. «Se
voglio uccidere il dragone» dice «gli
taglio la testa, non gli limo le unghie
dei piedi perché ricrescono».
Forse gli scrittori sono come Cassandra, in quanto osservatori del mondo e
interpreti di ciò che accade e che potrà
accadere. E proprio uno scrittore, Umberto Eco, ha affermato «Ho paura
del futuro per i miei nipoti», gli stessi
nipoti cui Cassandra vaticinava il futuro davanti ai sepolcri degli avi senza
essere creduta. Mi ha colpito molto
questa cosa, mi hanno colpito queste
parole e mi sono chiesto perché un uomo come Eco ha paura del futuro.
Io ho fama di provocatore, ma non sono un provocatore gratuito. Semplicemente dico quello che penso e poi sto
a vedere le reazioni. Sono uno scrittore, ma sono prima di ogni cosa un cittadino. E che cosa può fare un cittadino, oltre a lavorare, studiare, procreare? C’è una cosa importante, può fare
la politica. Parlare di politica significa
parlare di democrazia. Ma noi abbiamo un simulacro di democrazia. Viviamo in un posto dove si può parlare
di tutto, ma c’è solo un argomento
che non viene mai discusso, la democrazia. Scommetto la testa che non
c’è mai stato un posto al mondo dove
le persone si sono riunite per parlare
della democrazia, come se fosse una
cosa che non si poteva toccare. Democrazia e potere sono due cose che non
si possono toccare. E oggi il potere
non è solo dei governi, anzi il potere è
economico: sono le multinazionali, le
grandi imprese, sono le banche a governare davvero. I governi non fanno
altro che eseguire ordini che arrivano
dall’alto.
Dunque, io sono un provocatore, ma
sono uno scrittore, anzi sono provocatore perché sono uno scrittore. Ad uno
S t los
Nella foto busto di Cassandra di Max Klinger (18571920)
Una cassandra in veste di provocatore: come
dev’essere ogni scrittore. Il quale è anche un
cittadino che fa politica e persegue la felicità. Ma i
popoli si odiano perché hanno ognuno un loro Dio
Diventare atei
e avere la pace
VIVE A LISBONA. È PREMIO
NOBEL. ULTIMI TITOLI "LE INTERMITTENZE DELLA MORTE"
(EINAUDI) E "SAGGIO SULLA
LUCIDITÀ" (EINAUDI)
scrittore si chiede di parlare di letteratura. Ma credo che non si possa parlare «della letteratura», ma «di letteratura». Di solito alle presentazioni letterarie io non parlo dei miei libri, o,
meglio, parlo per dieci minuti dei miei
libri e per gli altri cinquanta del mondo. Dunque parlo del mondo. Dove
voglio arrivare? Forse per l’età che ho
mi segue un sentimento di urgenza, la
sensazione di non avere più tempo.
Appena nato, la speranza di vita nel
mio villaggio era di trentatré anni.
Oggi ne ho ottantatré. In tutto questo
tempo ci sono stati
grandi miglioramenti, ma stiamo
lasciando una scia
di distruzione che
lascerà il segno. Il
pianeta sta subendo grandi cambiamenti e rovine, il
fiume vicino al
mio
villaggio
adesso è una fogna, peggio delle
fogne di Roma. Lo
sappiamo, ne siamo tutti consapevoli, ma sembra
che non interessi a
nessuno. Ma siamo noi gli artefici
della nostra felicità
o credete che alle
multinazionali interessi la nostra felicità? Noi abbia-
JOSÈ SARAMAGO
mo due possibilità: dire la verità o denunciare la menzogna. Se si aprono
diversi giornali, vediamo che ognuno
dà una versione differente dei fatti,
tutti hanno ragioni a sostegno della
propria tesi, e noi non possiamo capire dove sta la verità. E forse denunciare la menzogna diventa molto difficile. Ma è quello che dovrebbe fare lo
scrittore, che dovrebbe fare ognuno di
noi. In ogni intervista mi viene chiesto
«Qual è il ruolo dello scrittore oggi?».
Certo, credo e dico che il ruolo dello
scrittore è scrivere. Non è un ruolo
specifico, egli è un cittadino come gli
altri. L’intervento di un intellettuale è
come quello di un qualsiasi altro cittadino, come il medico; il medico è un
cittadino come l’intellettuale lo è. Però
l’intellettuale si
chiede come risolvere i problemi.
Ovviamente non
ha risposte, ma
credo che se tutti
cominciassero ad
avere una vita più
democratica in
tutti gli ambienti
della società, famiglia, lavoro,
medici, ingegneri,
e tutti gli altri lavoratori, forse, e
sottolineo forse,
qualcosa potrebbe
cambiare. Ma oggi quello che vedo
è una divisione
dei popoli, della
gente. Una volta
si credeva che la
religione fosse il
collante delle so-
cietà, delle comunità. In realtà le religioni non sono mai servite ad avvicinare i popoli. Il mondo sarebbe molto
più pacifico se tutti fossimo atei. Che
l’immaginazione di una trascendenza
si sia trasformata in odio, violenza,
intolleranza, è assurdo. Se c’è un dio è
uno, non sono due o tre. Perché per la
differenza di opinioni, perché alcuni
decidono di riposare la domenica, altri
il venerdì, allora ci ammazziamo?
Ammazzare in nome di Dio è rendere
Dio un assassino. Ma forse ammazzare è proprio dell’uomo. Lo abbiamo
fatto fin dall’inizio, un animale capace
di torturare il proprio simile è solo
l’uomo. Scriviamo La Divina Commedia e torturiamo il nostro prossimo.
Dipingiamo la Cappella Sistina e torturiamo il nostro prossimo. C’è qualcosa di sbagliato nel nostro spirito,
forse siamo tutti malati. E cerchiamo,
parliamo di Dio. Ma chiediamoci perché Dio avrebbe creato l’universo. Per
un capriccio? Io ho una teoria, una tesi, più che altro, diciamo «creazionista».
Perché Dio ha creato l’universo? Io
credo che Dio l’abbia creato perché il
suo obiettivo era creare l’uomo e quindi voleva dargli una casa. Poi però
l’uomo si è comportato talmente male che Dio è arrivato a dire «Se non
faccio qualcosa questi mi rovinano
tutto l’universo». E così ci ha rinchiusi tutti su questo pianeta, una specie di
prigione. Una «prigione» in cui gli
uomini hanno creato a loro volta grandi cose, grandi civiltà. Ci sono popoli
che hanno vissuto un grande passato,
e ci sono state grandi civiltà, quella
portoghese, quella greca, quella romana, per dirne solo alcune. I portoghesi erano pochissimi e hanno conquistato mezzo mondo. E che fine
hanno fatto queste grandi civiltà? Ci
sono generazioni della decadenza che
nuotano nella decadenza. Lo vediamo,
lo viviamo, ma forse la peggior cosa
che potrebbe succedere è accorgersi
che non meritiamo di vivere. E non
meritare di vivere è la peggior cosa
che può capitare. Io ho 83 anni, sono
anziano, spero di poter vivere ancora
qualche anno con la mia Pilar, ma
spero di poter uscire da questa vita dicendo «Le cose sono migliorate». Vorrei chiudere questo incontro con una
frase: «Non cambieremo la vita, se
non cambieremo vita». E per cambiare vita intendo dire che bisogna cambiare il nostro stile di vita, difendere i
diritti umani. Che fine faranno i diritti umani? Nel corso del XXI secolo o
assisteremo al trionfo dei diritti umani, o li accompagneremo al cimitero.
V
O
C
I
BAGLIORI D’AUTUNNO
ZOLA A PERUGIA
UNA RETROSPETTIVA
Un ciclo d’incontri su Emile Zola è
in programma a Perugia dal 24 al
31 ottobre 2006. L’iniziativa si chiama «Bagliori d’autore» e nelle giornate di studio dedicate allo scrittore
francese riguarderà vari aspetti della sua produzione e in particolare il
ciclo dei Rougon Macquart. Vi
prenderanno parte Simone Casucci,
Mario Coletti, Giuseppe Panella,
Giovanni Paoletti, traduttore e studioso di letteratura francese che
presenterà il romanzo "Sua eccellenza Eugène Rougon", tradotto per
la prima volta in italiano, Massimo
Sestili. Ad animare gli incontri la
Compagnia dell’aurora.
BOLOGNA
EVANGELISTI PRESENTA
STEFANO DI LAURO
Il 13 ottobre alle 18 alla libreria
Trame di Bologna Valerio Evangelisti presenta il libro di Stefano Di
Lauro Operè (Besa). Nel suo primo
romanzo, tra noir, scienza e poesia,
Di Lauro (regista e autore teatrale)
ripercorre le tracce del mito di Orfeo ed Euridice di cui scopre, celato in un doppio fondo, un finale segreto, inatteso, inaudito.
FESTIVALA TORINO
«IMPUTATO, ALZATEVI»
PROCESSO ALLA STORIA
La storia e i suoi processi saranno i
protagonisti della seconda edizione
del Festival Storia di Torino «Imputato, alzatevi», dedicato al processo
nei secoli, che si svolgerà dal 18 al
22 ottobre tra Torino, Saluzzo e Savigliano. Dal «Processo a Gesù»,
cui seguirà giorno a Savigliano la
lectio magistralis di Adriano Prosperi sul tema «Grazia e Giustizia
nella storia» al «Processo a Socrate,
ovvero i limiti della democrazia». E
ancora altri processi: «Processi ai
partigiani», «La fabbrica dei profumi», «I due processi Rosselli», i
«Processi all’Areopago: Frine»,
«L’Inquisizione, un tribunale della
fede: valdesi e inquisitori».