contemporary city visions_visioni contemporanee

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contemporary city visions_visioni contemporanee
I
SGUARD
contemporary city visions_visioni contemporanee della città
Parole e immagini sulla città di Bologna
n°02 luglio 2009
PROJECT & COORDiNATiON
progetto e coordinamento
I
SGUARD
Maurizio Berlincioni
GRAPHiC DESiGN
grafica e impaginazione
Alfredo Ranieri
COTRiBUTORSi
Collaboratori
Manuela Assilli
Francesca Barichello
Anna Breda
Virginia Caldarella
Daniela Ciamarra
Antonella Cosola
Simone Cucuzza
Miguel Angel D’errico
Giorgia Dolfini
Caterina Faccia
Denise Ferrari
Erica Gomez
Daniela Guccini
Mozhde Nourmohammadi
Chiara Segreto
Giulua Serri
Zaira Stabile
Julia Tikhomirova
Lara Zibret
Finito di stampare
©Luglio 2009
La foto di copertina e di
Alfredo Ranieri.
La quarta di copertina è di
Maurizio Berlincioni.
Accademia di Belle
Arti
Bologna
SOMMARiO
05 Editoriale di Maurizio Berlincioni
di Francesca Barichello e Denise Ferrari
12 Contratto? No grazie
di Zaira Stabile e Antonella Cosola
15 Bologna la verde
di Daniela Ciamarra
20 L’altra immagine della città
di Anna Breda
26 We are not emo... anymore!
di Daniela Guccini
30 Tana Libera tutti...
di Chiara Segreto
34 L’asta di bicicletta
di Erica Gomez Rodriguez
38 Pa Kua
di Simone Cucuzza e Giulia Serri
42 Un’arte antica
di Virginia Caldarella
46 I never want to be different, I just want to be me!
di Lara Zibret
50 Il Cassero: l’importante è partecipare
di Giorgia Dolfini
54 Un porto sulla via
di Miguel Angel D’Errico
58 E’ davvero facile smettere di fumare
di Manuela Assilli
61 Un’amante straordinaria
di Caterina Faccia
64 C come calcio
di Mozhde Nourmohammadi
68 Il viaggio continua
di Julia Tikhomirova
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SGUARD
06 L’appassionata ricerca...
I
EDiTORiALE
di Maurizio Berlincioni
S
iamo finalmente giunti al secondo appuntamento della rivista SGUARDI, spazio di lavoro
per gli studenti del Corso di Fotografia e Comunicazione Sociale del Biennio di Specializzazione
in Fotografia dell’Accademia di Belle Arti di Bologna e francamente è difficile non provare un
senso di soddisfazione nel ritrovarsi oggi tra le mani il frutto del lavoro della nuova redazione
che quest’anno ha raggiunto il ragguardevole numero di 19 unità! Come già era stato detto
nell’editoriale del primo numero, questa pubblicazione “pensata come il contenitore naturale
del lavoro progettuale e sul campo degli studenti coinvolti, prende l’avvio con l’intento di
affrontare temi di interesse generale, con caratteristiche di notiziabilità giornalistica e con
riferimento costante alla città di Bologna, ai suoi spazi urbani, alle persone che la abitano, alle
situazioni che, per vari motivi, rendono questa città un importante centro culturale ad alto
tasso di vitalità e animato da un continuo desiderio di sfida e di confronto.” Un’altra città, spazi
urbani vicini e lontani, nuovi cittadini dal mondo, piccoli gioielli “verdi” nascosti nel cuore del
centro storico, modificazioni corporee e giovanissimi Emo, momenti di aggregazione nelle
iniziative del Cassero, il cuore pulsante dello stadio, la scienza al servizio dei grandi disabili, i
diversamente abiil e lo sport, i problemi del fumo e quelli che a Bologna cercano di smettere,
i giovani sempre alla ricerca di nuovi spazi e momenti di aggregazione, storie di immigrati
e creatività all’interno del Pilastro, la città e le sue biciclette nel giorno dell’asta, le mense
sociali, gli studenti e l’odissea dell’alloggio a Bologna ed infine la liuteria, una tradizione
molto importante per la città. Questi sono i temi affrontati dalla nuova squadra e i risultati
ottenuti sono decisamente interessanti. Il numero delle pagine è aumentato: dalle 48 della
prima uscita siamo adesso passati alle 76 del secondo numero e l’interesse nei confronti della
pubblicazione è certamente cresciuto. Colgo questa occasione per ringraziare tutti coloro che
a vario titolo hanno reso possibile la sua realizzazione. Come avevo già accennato all’inizio,
quest’anno il numero dei “redattori” è più che triplicato rispetto all’anno scorso e quindi,
dovendo fare i conti con un budget decisamente limitato (e per motivi oggettivi purtroppo non
modificabile) siamo stati costretti, per non mortificare l’impegno degli studenti, a privilegiare
il mantenimento della coerenza e dell’integrità dei singoli reportage rispetto a quello che
poteva essere il ritmo grafico dell’impaginazione se solo avessimo avuto un maggior numero
di pagine a disposizione e più ampi margini di manovra. I lettori ci vorranno per questo scusare
se il risultato potrà apparire graficamente “un pò affollato” nella successione senza troppo
respiro dei singoli lavori… non avevamo altra scelta!
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“L’APPASSIONATA RICERCA…”
testi e fotografie di Francesca Barichello e Denise Ferrari
Tante possono essere le motivazioni che
riguardano un fenomeno come quello
dell’immigrazione. A partire da quelle
di tipo economico, con la ricerca di migliori condizioni di vita, si passa a quelle
di tipo religioso e politico per sfuggire a
repressioni e dittature, e anche per motivi ideologici, sentimentali e quelli legati
all’istruzione e allo studio. Ma in parti-
colare quella che abbiamo riscontrato
essere la ragione principale per quanto
riguarda il trasferimento permanente o
temporaneo di gruppi di persone in un
paese diverso da quello di origine, negli
ultimi 10 anni, è senza dubbio la ricerca di
un lavoro. Dando uno sguardo alla città di
Bologna, ci siamo rese conto che una delle comunità straniere meglio integrata e
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con il più alto tasso di cittadini presenti in
città è quella Bengalese. Nel 1995 i bengalesi sfioravano i 100 residenti per poi
passare in soli 9 anni, a partire dai primi
anni novanta, a 1800 iscritti all’anagrafe
comunale. Ad oggi si contano all’ incirca
5000 cittadini con regolare permesso di
soggiorno il che equivale a porli come la
terza etnia rappresentata in città.
Il lavoro, la ricerca di un impiego dignitoso per sfuggire alle mancanze di un paese
che non offre opportunità adeguate agli
studi da loro frequentati, l’ ipotesi di una
qualità di vita migliore, sia da un punto di
vista economico che socio-ambientale e
la speranza di poter realizzare sogni e desideri spesso solo immaginati verso terre
lontane… ha portato molti giovani ragazzi ad allontanarsi dai loro paesi, dalla
loro cultura, dalla religione e dalle proprie
famiglie. Dopo aver chiacchierato con alcuni di loro, giovani dall’età comprese tra
i 22 e i 30 anni, abbiamo scoperto che
quasi tutti sono arrivati grazie all’appoggio di parenti o amici già qui residenti da
tempo e già decisamente ben integrati.
Sono famiglie per l’appunto arrivate nella
città di Bologna circa 20 anni fa e ad oggi
qui residenti con buoni lavori e una vita
soddisfacente.
Quello che sembra essere una costante
ridondante nelle loro parole è proprio
questa esigenza e il desiderio di trovare
un lavoro per poter guadagnare dei soldi che gli permettano di vivere una vita
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come ad oggi in Bangladesh sarebbe per
loro impossibile. Arrivati qui con questa
energia positiva, hanno ben presto iniziato il loro percorso verso l’integrazione
con usi, costumi e cultura di un paese che
non gli appartenevano. Hanno seguito
corsi di italiano organizzati dai Salesiani,
luogo all’interno del quale si sono conosciuti e hanno creato le prime amicizie.
A differenza dei loro parenti, arrivati qui in
nave come clandestini e completamente
soli, questi ultimi arrivati hanno trovato
molte porte aperte.
Questo non significa che piccole difficoltà di comprensione ed inserimento non
siano ancora presenti, ma probabilmente
anche gli stessi cittadini bolognesi si sono
ormai “abituati” a condividere spazi e vita
sociale con questi nuovi concittadini..
Non dev’ essere facile lasciare il proprio paese, i colori e gli odori abituati a
respirare, il paesaggio con il quale si è
cresciuti…i costumi, il cibo e soprattutto
gli affetti. Forse è proprio quest’ ultimo
aspetto, quello più sentimentale, comu-
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ne ad ognuno di noi, a creare malinconia
negli sguardi di questi ragazzi.
Taher Abu, che in lingua Bangla significa
sacro, ha 22 anni, proviene da Comilla ed
è qui da un anno e sei mesi. Vive con lo
zio e la sua famiglia di sei persone.
Ha lavorato per sei mesi per un’azienda
come metalmeccanico e oggi è disoccupato. Non ha problemi con gli italiani, si è
sempre sentito ben accetto e gioca a calcio con la squadra del Corticella. Ma tutto
questo non ha comunque cambiato il suo
obbiettivo principale: guadagnare soldi a
sufficienza che gli permettano di tornare in Bangladesh, sposare la sua ragazza
Shushmita e ritornare qui con lei.
Mentre ci parlava della sua vita non abbiamo potuto fare a meno di scorgere
dietro a quel giovane sguardo vivo e speranzoso un velo di tristezza e solitudine.
Uscire con il cugino coetaneo e con altri
ragazzi bengalesi, pur dovendo rientrare
presto la sera, nel rispetto di alcune regole presenti nella loro religione musulmana, non è sufficiente a cancellare i loro
sentimenti per le persone lontane.
Così avviene anche per Faroque Hossain, (giudicare,dividere), un ragazzo di
28 anni proveniente da Dhaka. E’ qui da
due anni e nonostante una forte nostalgia iniziale,ad oggi è felice di vivere nel
nostro paese e qui vuole restare perché
si sente più libero e con maggiori possibilità di lavoro. Laureato in matematica,
non avendo trovato lavoro nel suo settore aveva inizialmente pensato di trasferirsi a Londra ma la morte del padre l’ha
costretto, anche per motivi economici a
raggiungere la sorella ed il cognato già
qui da 15 anni. Appena arrivato ha lavorato per sei mesi distribuendo la rivista
“City” e da 8 mesi lavora presso una fab-
brica per 1000 euro al mese.
La libertà di cui qui riescono a godere,
anche se non direttamente legata all’indipendenza economica, è senza dubbio
molto superioriore per ciò che riguarda il
divertimento.
La religione Islamica vieta infatti l’assunzione di alcool e di carne d’origine suina e li obbliga a rientrare presto la sera
per rispetto verso le loro famiglie, forse
è per questo che alcuni di loro ormai da
tempo non seguono più con stretta osservanza le leggi del corano e assumono
con maggior frequenza atteggiamenti
occidentali. Anche per quanto riguarda
il lato amoroso nelle due culture le cose
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sono decisamente diverse. I Bengalesi faticano molto ad entrare in sintonia con i
modi di fare delle ragazze italiane perché
sono abituati a lunghi corteggiamenti e
promesse di fidanzamento e successivo
matrimonio già decisi in giovane età.
Esiste poi chi qui ha trovato “il proprio
posto nel mondo”. Bhuiyan H.M.Nazmul
Haque, (generazione),per gli amici Naushad, di 29 anni, ormai qui da due anni,
laureato in filosofia, ha trovato lavoro in
una cartoleria in Via Petroni perché il titolare del negozio è del suo paese.
Vive al Pilastro con la famiglia di sua sorella e tutto di qui sembra piacergli. La casa
ed il quartiere in cui vive, il cibo, il clima
e il suo lavoro. E’ sposato da quattro anni
ma sua moglie vive in Bangladesh perché non ha ancora ottenuto il nulla osta,
per averlo è infatti necessario un reddito
annuo pari a 7.400 euro. Dopo un inizio
difficile che solo dopo otto mesi l’aveva
riportato nel suo paese per la mancanza
di un lavoro, oggi ha finalmente raggiunto il suo scopo: un’ impiego sicuro, amici
bengalesi e italiani e una famiglia attorno
a se che speriamo presto possa completarsi.
La ricerca della felicità, del proprio spazio
nel mondo, la speranza di migliorarsi e
migliorare la propria vita è un percorso
lungo e travagliato. Spesso percorriamo
sentieri sbagliati e più e più volte cambiamo le nostre rotte, la strada da percorrere, sperando di imboccare quella giusta,
quella che ci farà stare meglio, che ci donerà serenità e gratificazione…con la volontà e la speranza di alzarci ogni giorno
con il sorriso, pronti ad iniziare così una
nuova giornata. I motivi che ci spingono
sono molti, ma al di là degli aspetti economico-lavorativi, crediamo che siano
gli affetti, l’amore di cui ognuno di noi ha
bisogno, per poter veramente far restare
una persona in un luogo e farla sentire a
casa propria. La scoperta, la novità e la
gioia non sono le stesse se non si possono
condividere con qualcuno che si ama…
ed è per questo che chi, pur venendo da
un paese lontano, ha trovato qui l’amore,
forse ha realmente coronato e concluso
la sua “ricerca”.
Amin Ruhul Kazi, 30 anni, di B.Baria è ormai qui in Italia da 7 anni e quindi a tutti
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gli effetti adesso è un vero e proprio “cittadino bolognese”. Per integrarsi nel nostro paese e sopravvivere ha fatto qualsiasi lavoro: lavapiatti, cuoco, cameriere,
barista… ma la sua indubbia capacità di
adattamento, la sua disponibilità ed apertura verso una società che non conosceva
e ben diversa dalla sua, il suo sorriso contagioso e la voglia di fare, l’hanno portato
ben presto a farsi amare da chiunque lo
incrociasse, conoscesse o anche solo ci
lavorasse assieme.
Carattere e spirito positivi, pronto a non
arrendersi mai neppure di fronte alle difficoltà e come nel suo caso, completamente solo in un paese a lui sconosciuto, sono
forse queste le caratteristiche per potercela fare. Averlo conosciuto ha portato
nelle nostre vite qualcosa in più, qualcosa
di nuovo che prima avevamo solo letto in
libri o visto nei documentari.
Ogni volta che sali le scale di casa, profumi
di spezie esotiche arrivano alle tue narici
portando con sé le immagini e i colori di
terre lontane…nuovi sapori, nuove usanze… mangiare il riso con le mani, con un
rituale da rispettare nell’ordine delle portate. Ascoltare le storie che si celano dietro ogni atteggiamento che noi interpretiamo con la nostra mentalità occidentale
e che invece per loro sono spesso legate
ad esempi e storie delle vite animali, leggende, quasi magici rituali.
Allora tutto diventa uno scambio, una
crescita che si fa insieme e che ad orecchi
curiosi ed intelligenti può solo aggiungere invece che togliere. Amin ha saputo amare e farsi amare ed è per questo,
che proprio nel nostro paese ha trovato
l’Amore. Circa un anno fa ha conosciuto
Paola, una ragazza di Reggio Emilia con la
quale il 24 Aprile di quest’anno si è spostato. Una semplice cerimonia in comune
alla presenza dei suoi amici più cari, ha
coronato la loro storia d’amore e legalizzato una relazione che già porta con sé il
frutto del loro amore… aspettano, infatti,
una bimba che presto verrà al mondo.
Dopo aver vissuto in squallidi buchi e
monolocali, aver condiviso piccoli spazi, stenti e difficoltà con amici e/o sconosciuti, aver lottato per il permesso di
soggiorno, per un lavoro in regola, per
la possibilità di avere una vita dignitosa,
regolare e serena qui in Italia… finalmente egli ha trovato tutto questo assieme
all’amore. Oggi egli vive in centro, è sposato, ha un lavoro e ben presto diventerà
padre. Continuerà così una storia che ha
inizio circa 20 anni fa, quando i primi nuclei familiari provenienti dal Bangladesh
si stabilirono nel nostro paese portando
qualcosa di nuovo e diverso nella nostra
società e nella nostra cultura.
“Perché la vita è così. Procediamo a piccoli passi. Rialziamo la testa
e torniamo ad affrontare il volto feroce e sorridente del mondo.
Pensiamo. Agiamo. Sentiamo. Diamo il nostro piccolo contributo
alle maree del bene e del male che inondano e prosciugano la terra.
Trasciniamo le nostre croci ammantate d’ombra nella speranza di una
nuova notte. Lanciamo i nostri cuori coraggiosi nelle promesse di un
nuovo giorno. Con amore:l’appassionata ricerca di una realtà diversa
dalla nostra. Con struggimento:il puro, ineffabile anelito di essere
salvati. Poiché fino a quando il destino ce lo consente, continuiamo
a vivere.”
Gregory David Roberts, “Shantaram”
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CONTRATTO? NO GRAZIE
LASCIATE OGNI SPERANZA
Ogni anno migliaia di studenti decidono
di proseguire gli studi lontano dalla propria famiglia con tante difficoltà.
Prima tra tutte c’è la ricerca della “casa
perfetta” che è quasi impossibile e purtroppo le strutture pubbliche sono insufficienti. Ci si imbatte così in una giungla
immobiliare fatta di contratti irregolari,
subaffitti e prezzi esorbitanti.
Sono, ovviamente, gli studenti fuori sede
a pagare le conseguenze di questa situazione che rappresenta un vero e proprio
business per i proprietari più furbi!
Le città più care d’Italia sono Milano,
Roma, Firenze e Bologna dove il costo
di una stanza varia da 300 a 500 euro al
mese, spese escluse. A Bologna un posto
letto in camera doppia è mediamente
230 euro, in camera singola 390 euro e
dulcis in fundo: posto letto con divano
letto in cucina a soli 170 euro. I prezzi
logicamente variano se si sceglie di abitare in un sottoscala o in una ex cantina
con “vista asfalto”. La cosa peggiore è che
molto spesso le condizioni degli alloggi
non sono tanto confortevoli, i prezzi sono
più alti di quanto si possa immaginare,
per case che non sono nemmeno degne
di essere chiamate case e i contratti di locazione sono spesso inesistenti o irregolari. Nel 2008, con il contributo delle fiamme gialle, sono state scoperte due donne
bolognesi (madre e figlia) che affittavano
un centinaio di immobili (per la maggior
parte in nero) a studenti e immigrati.
Un altro problema è che una buona parte delle abitazioni sono state costruite nei
primi anni ’50 e spesso gli impianti non
sono a norma. Come si può dimenticare
il caso della studentessa molisana morta
nel 2007 per le esalazioni di monossido
di carbonio di uno scaldabagno. Per far
fronte a questo disagio, anche la sinistra
universitaria ha organizzato in passato
cortei e manifestazioni per protestare
contro le condizioni delle case in affitto
a studenti, attraversando la città con lo
slogan: “ BOLOGNA LA ROSSA AFFITTA IN
NERO”.
L’Arstud (Azienda Regionale per il Diritto
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O VOI CH’ ENTRATE ...
Franco: “290 euro senza contratto per una
doppia con la muffa sulle pareti. La casa è
molto vecchia e tenuta male. Gli infissi non si
chiudono, c'è muffa ovunque e i mobili sono
fatiscenti. Tra un pò andrò via”.
Angela: “In 3 anni ho cambiato 4 case. Dove
sono ora pago un pò di più, 380 euro in singola spese escluse, ma la casa è stata ristrutturata di recente. L'unica pecca: il contratto non
proprio regolare”.
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allo Studio Universitario) mette a disposizione ogni anno un certo numero di borse di studio e posti alloggio in studentati
che, naturalmente, riescono a soddisfare
solo in parte la richiesta degli studenti
fuori-sede. In particolare l’ER.GO, (Azienda Regionale per il Diritto agli Studi Superiori), offre alloggi nelle 44 residenze
presenti sul territorio nazionale. L’accesso avviene tramite una graduatoria che
presuppone requisiti sia economici che
di merito, ma non tutti gli studentati offrono gli stessi servizi. Lo studente deve
spesso accontentarsi di vivere lontano
dalla propria struttura universitaria, in
una camera con bagno e cucina in comune e lavanderia a pagamento. Di fronte
a questa situazione alcuni studenti optano per studentati privati, che, a prezzi
leggermente superiori, offrono servizi
migliori, in cambio però di regole più rigide. Si diventa una vera e propria famiglia
dove ci si preoccupa del comportamento, dei bisogni e della sicurezza comune.
Si organizzano incontri per confrontarsi
e periodiche prove anti incendio in regola con le vigenti norme comunitarie. A
tal proposito è assolutamente vietato in
qualsiasi struttura fumare nelle camere e
introdurre elettrodomestici.
Intervistando i fuori-sede che popolano
il centro universitario bolognese è emerso che solo una minoranza può permettersi una stanza tutta per sé, mentre gli
altri sono costretti a dividere la camera
con una o più persone. E’ abbastanza diffuso anche il problema delle discriminazioni. Spesso ci si ritrova la porta chiusa
in faccia per aver “ingenuamente” dichiarato di frequentare facoltà artistiche, di
essere un papa boy o amanti di Maria De
Filippi.
Lucio: “Nello studentato privato l’atmosfera è molto accogliente e non ho limitazioni
di orari. Ci sono degli incontri facoltativi
come quello dei vespri ( mercoledì sera,
ogni settimana) o le messe stabilite prefestive). Obbligatorio, invece, è il colloquio
a fine anno, dove si valutano gli esami
sostenuti, il comportamento e in base a
questo si ha una eventuale riconferma del
posto letto”.
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Andrea: “Io abito in una casa molto carina
e il mio proprietario è una persona squisita.
E' un pò fuori il centro universitario, ma in
singola spendo 300 euro con tutte le spese
incluse!”
laria: “370 euro per una singola spaziosa, l’uminosa e carina perchè l’ho arredata
io. La casa in generale però è tenuta male:
impianto elettrico non a norma, servizi igienici in pessime condizioni, infissi vecchi che
non si chiudono e senza contratto. L’unico
punto a favore?
E’ in centro”.
L’unico modo per porre fine a questa
odissea potrebbe essere un intervento
pubblico sulla questione degli alloggi
studenteschi e una moltiplicazione dei
posti alloggio in studentati per calmierare il mercato privato e ricondurlo a livelli
di accettabilità. Con questi affitti proibitivi il diritto allo studio diventa un lusso
da ricchi e chi non ha possibilità economiche è costretto a rinunciare.
Antonio: “No comment. Vivo in una casa
che per andare in bagno devo attraversare il pianerottolo del palazzo ed entrare in
un altro appartamento. Quanti sacrifici per
spendere solo 180 euro!”
Marika: “ Io spendo 267 euro in doppia spese escluse, non molto lontano dalla mia
facoltà. Ho un contratto regolare e la casa
non è messa tanto male, solo che ci entrano
a mala pena 2 letti, 1 armadio a 3 ante e 1
sola scrivania”.
Paola: “ La ricerca di un posto letto è stata difficile. Per giorni ho raccolto numeri di
telefono e visitato molte case prima di fare
la scelta definitiva. Molto spesso però, ho
trovato stanze in condizioni che non corrispondevano agli annunci accattivanti”.
Francesca: “La vita in studentato pone alcune limitazioni, ad esempio non poter ospitare nessuno, ma in compenso ci sono delle agevolazioni:
lavanderia a 1 euro e internet gratuito!
Per gli assegnatari di borsa di studio la spesa è
davvero minima rispetto ai prezzi di mercato.
Ad ogni modo, con piccolo aumento, chiunque
può far domanda per un posto letto in queste
strutture”.
Testo e Fotografie di
Antonella Cosola e Zaira Stabile
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BOLOGNA
LA VERDE
foto e testo di Daniela Ciamarra
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Nella prima pagina e in questa giardini in via Castiglione. Accanto particolare di Cocos Nucifera.
Avere un giardino a Bologna non è cosa
da molti, soprattutto se vivi in centro.
O meglio, avere un giardino a Bologna se
vivi in centro equivale a non condividere
questa fortuna con chi, passeggiando per
le vie cittadine, ignora del tutto che dietro
quei portoni, quelle mura, si nascondono
edere, prati, alberi, scoiattoli, statue dei
sette nani. Ma basta osservare una foto di
Bologna dall’alto su Google Maps per capire che il verde c’è, e neanche poco. Modificando il proprio punto di vista cambia
anche la percezione che si ha della città
e con questa anche la consapevolezza di
vivere in un posto che si crede di conoscere ma si scopre pieno di angoli sconosciuti e nascosti. Tanto più sconosciuti
e nascosti quanto più sono gli spazi che
vanno sotto l’etichetta di “proprietà privata”. Decido quindi di scoprirne alcuni,
e mi ritrovo spesso con il naso infilato tra
le sbarre dei cancelli nell’impossibilità di
inoltrarmi in queste piccole “giungle” cittadine. A volte trovo qualcuno a cui chiedere se posso entrare a fare qualche foto,
alcuni dicono sì, altri no, ma anche quelli
che dicono sì non sembrano esattamente
felici. Concludo quindi che i giardini nelle
case del centro esistono, semplicemente non è così facile riuscire a vederli in
quanto ad esclusivo uso e consumo, anche solo strettamente visivo, dei legittimi
proprietari.
Girovagando alla ricerca di frammenti fotografici mi sono ritrovata a percorrere
tutta Bologna, da via Santo Stefano a via
San Vitale, via Castiglione fino a via Bat-
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tisti, zone ad alto tasso di verde, quindi
non circoscritte ma disseminate per tutto
il centro.
L’idea del giardino è antica quasi quanto
l’uomo. Esiste praticamente da sempre,
già nell’antico Egitto veniva isolato dal
resto per assumere la connotazione di un
“dentro” rassicurante, regolare, ordinato,
rigoglioso, caratterizzato dall’armonia
dei colori, dalla disposizione matematica e dalla combinazione delle forme. Le
mura perimetrali, allora come oggi, impedivano indiscrezioni esterne e definivano
un ambiente intimo privato, riparato e
separato dal resto del mondo.
La cura del giardino come ideale prosecuzione dell’abitazione ha prodotto in
ogni epoca e cultura una sua particolare
concezione, tanto da poter affermare che
accanto alla Storia dell’Arte ufficiale si è
creata una vera e propria Storia dell’Arte
del Giardino. Così fino ai giorni nostri troviamo il giardino greco, islamico, giapponese, polacco, inglese nonché
tipologie di giardino come riflesso di
correnti filosofiche come quello romantico, illuminista, pittoresco fino al vivace
dibattito dell’800 tra giardino formale ed
informale.
Periodo buio fu il Medioevo.
Navigando su internet scopro l’esistenza
della figura professionale del landscape
designer e di numerosi siti che si occupano della sua attività. Il suo lavoro
consiste nella progettazione di giardini
attraverso l’utilizzo di elementi sia naturali che artificiali. Provo a leggere alcune
descrizioni, mi sembrano molto dettagliate, forse troppo, alla fine mi chiedo
che fine faccia la meravigliosa casualità
della natura.
Così chi vuole un proprio angolo di Para-
diso Terrestre potrà ottenerlo ad esempio
inserendo nell’ingresso sul lato sinistro
Hedera Helix e rosai arbustivi tappezzanti, con aggiunta di ghiaietto. Nel giardino
Buxus Sempervirens forgiato a sfera, Agapanthus Umbellatus, Lavandula Officinalis, nel lato ingresso interno Acer Japonica in varietà, con una pavimentazione di
passaggio fra prato e ghiaietto. E magari
un cancello centrale con arco e rosai con
quinta di Hedera Helix ad altezza non
simmetrica sui lati del cancello, con alberatura in affaccio al retro abitazione a
portamento colonnare. Come rinunciare
poi ad alberature a filare in Olea Europea
alterante a Acer Campestre con file in
lavanda e macchie arboree con Populus
Nigra Piramidalis?
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C’è davvero da sbizzarrirsi.
A chi come me non ha la fortuna di avere
un giardino non rimane che scorgere furtivamente attraverso spiragli di portoni
aperti o tristi sbarre pennellate di verde
proprietà privata e poi magari fare un salto ai Giardini Margherita o alla meglio sui
colli bolognesi per godersi una piccola
porzione di Madre Natura.
Sopra vista dall interno di un cortile in via
Battisti. Sotto giardino in Strada Maggiore.
Nella pagina accanto in ordine dall’alto a sinistra giardino in via Santo Stefano, Hedera
Helix su via Santo Stefano e due particolari
di un giardino in via San Vitale.
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L’altra immagine della città
Testo e fotografia di Anna Breda
Bologna:
quali e quante sono le immagini della
città che non conosciamo?
Perchè è alcuni posti sono difficili da scoprire?
L’organicità del tessuto urbano si
interrompe, la continuità dei percorsi
viene disturbata, la fruibilità degli spazi
diventa difficile e la lettura del paesaggio
inquietante. Ci troviamo così di fronte a
nuove immagini della città, degli scorci
e dettagli mai notati prima che sfiorano,
senza intersecare, i nostri percorsi abituali.
La città ha così perso la sua riconoscibilità,
la sua immagine è deformata, dilatata
e spesso incomprensibile. L’equilibrio
complesso dello spazio urbano è
venuto a mancare creando dei luoghi
non classificabili, degli errori o forse
dei semi per nuove interpretazioni dello
spazio dentro la città. Possiamo utilizzare
molti strumenti di analisi per formulare
ipotesi e teorie che spieghino il crearsi
di queste problematicità o mutazioni.
Ciononostante, in questa sede ci
limiteremo ad un’analisi visivo-percettiva
più che socio-antropologica o storica.
L’identità visiva di ogni città, paese o
luogo con la sua peculiare complessità
può essere considerato come la somma
di tutte le immagini percepite da ogni
singolo fruitore. Quest’immagine che
ci viene restituita, nonostante la sua
ricchezza e complessità, è generata da
una semplice combinazione di elementi
in equilibrio e dialogo reciproco. La città
non è soltanto oggetto di percezione
per migliaia di persone profondamente
diverse per carattere e categoria sociale,
ma anche il prodotto di innumerevoli
operatori che per motivi specifici ne
mutano costantemente la struttura.
Se analizziamo il tessuto urbano dal
punto di vista visivo-percettivo possiamo
riassumerlo in pochi elementi quali:
percorsi, barriere, riferimenti, aree e nodi.
Attraverso questi elementi il visitatore
percepisce la città e si muove al suo
interno.
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“I layer si sovrappongono senza alcuna logica”
La città è un insieme di layer che
si possono distinguere tra loro per
importanza, destinazione d’uso e
velocità di percorribilità. All’interno della
città si attivano dei flussi che mettono in
realazione i diversi livelli ed elementi tra
loro, creando una gerarchia d’importanza
e una caratterizzazione dei luoghi.
Se l’equilibrio tra gli elementi e negli elementi stessi viene e mancare si creano
delle disfunzioni nei flussi, degli errori,
dei luoghi non identificabili che rompono
la continuità percettiva e funzionale
della città. In questo modo la città perde
riconoscibilità e gli elementi si intersecano tra loro senza alcuna logica resituendo
così immagini insolite e curiose che potrebbero essere frutto di fotomontaggi.
Possiamo definire queste nuove immagini delle “anti-cartoline” non per la
Il tessuto urbano non è che una combinazione di elementi: percorsi,
barriere, riferimenti, aree, margini e nodi.
“Posso stare qui?”
“Come posso arrivare dall’altro lato”
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loro bruttezza o perchè non ritraggano
anch’esse la città ma perchè non sono
immagini attraverso le quali siamo abituati ad identificare e riconoscere la città
stessa. Chiunque potrebbe riconoscere
Bologna attraverso l’immagine delle “Due
Torri” o del portico di via Saragozza, sono
infatti i punti di riferimento della città.
Quando l’equilibrio viene meno la percezione di stranezza e la mancanza di identità è immediata. Gli interrogativi che ci
poniamo sono sempre gli stessi “Posso
stare qui?” o “Come posso arrivare dall’altro lato” o ancora “Mi devo essere perso
da qui non si va da nessuna parte”. Rimaniamo quindi disorientati o addirittura
impauriti, non riconosciamo più nello
spazio ne una funzione ne un’identità,
il luogo diventa quindi un “non luogo”.
Lo spazio urbano è caratterizzato dal
movimento, da flussi e cambi di velocità; laddove questo movimento s’arresta
senza motivo alcuno oppure quando
non è possibile individuare un riferimento nasce un “punto d’errore”, il sistema si
inceppa. Proprio come se sullo schermo
del nostro computer apparisse la scritta
“FATAL ERROR”.
vuoti urbani :
Queste disfunzioni spesso generate da un errata interazione tra gli
elementi, ad esempio tra un percorso come potrebbe essere la tangenziale
ed un area-quartiere.
22
l’immagine della città è deformata
Non riconosciamo più nello spazio ne una
funzione ne un’identità, il luogo diventa quindi
“UN NON LUOGO”.
In tutte le città si creano bene o male
questi spazi spesso generati da un errata
interazione tra gli elementi; ad esempio
tra un percorso come potrebbe essere
la tangenziale ed un area-quartiere o tra
un limite come la ferrovia ed un percorso
pedonale.
I flussi vengono naturalmente deviati
per schivare gli errori, i quali spesso,
in questo modo crescendo inglobano
l’area circostante sempre più isolata dai
flussi. Si creano così dei vuoti, degli spazi
di dilatazione nel tessuto urbano che
alterano gli equilibri delle aree cicostanti.
Bibliografia:
Kevin Lynch, L’immagine della città,
marsilio editore
L.Altavelli e R.Ottaviani, Il sublime urbano
- Architettura e New Media,
gruppo mancosu editore
23
L’errore diventa un’entità isolata che
vive spesso di micro-flussi estranei
alla città, così con il tempo gli “spazi
errore” possono acquisire un’identità
indipendente avviando un processo
naturale di riappropriazione del
suolo urbano. A questo punto
se la nuova funzione è utile alle
aree confinanti riattiva il flusso e
rivitalizza l’area eliminando in parte
l’errore, se invece è nociva accuisce la
problematicità e rallenta e disperde i
flussi circostanti.
Possiamo così concludere che per
risanare e ricucire il tessuto urbano
laddove ci sono degli errori di
flusso parziali o totali bisognerebbe
ridefinire un’identità funzionale
o meglio indurla in modo da non
snaturare gli equilibri delle identità
circostanti.
Non ci rimane che suggerire delle
soluzioni o appoggiare e rafforzare
i processi positivi spontanei ed
intervenire radicalmente quanto il
processo innescato è ulteriormente
distruttivo.
Bologna & Public Art:
24
sperimentazioni per ricostruire attraverso l’arte
[...] “Suggerire delle soluzioni o appoggiare e rafforzare i processi positivi spontanei.”
l’identità dei luoghi
L’arte urbana rappresenta tentativi non
definiti di usare e vedere lo spazio della
città, in costante ridefinizione. Cerca di
produrre nuovi valori in spazi “sofferenti”
dove manca qualunque legame con
un disegno urbano riconosciuto ed
accettato. Le trasformazioni urbane
in questi luoghi avvengono spesso
“dal basso” attraverso una sorta di
ricostruzione di un patrimonio culturale
collettivo. La public art non si limita ad
interpretare uno spazio dato, più o meno
modificabile, ma anche uno spazio in
continua evoluzione, sperimenta una
formula con cui costruire attraverso l’arte
l’identità dei luoghi senza memoria e
proiettarli verso il futuro.
Tra arte urbana e architettura alla ricerca di un’identità
25
We are not emo… anymore!
“Un articolo sugli “emo”? ma chi sono?”
Ecco la domanda più frequente che mi
veniva posta quando dicevo di voler scrivere un articolo su questo nuovo trend
adolescenziale.
Non ho intenzione di appesantire il tutto con una ricostruzione storica del movimento. Spendo quindi solo qualche riga
per chiarire le idee a tutte quelle persone
che di emo non hanno mai sentito parlare.
L’evoluzione dell’ Emo Way of Life
Il termine emo nasce negli anni ottanta a Washington DC per distinguere un
genere musicale che pone le sue radici
nel punk e nell’hardcore, rivendicando,
però, l’aspetto melodico e compositivo
delle canzoni. Il testo acquista rilevanza
e spesso parla di sofferenze sentimentali
(da qui appunto emotional).
26
Negli anni novanta l’ emocore (che fa
riferimento alla commistione di sonorità
hardcore, punk ed emo) attirò l’attenzione delle major, che non si fecero scappare
i gruppi più talentuosi. Alcune di queste
band, malgrado le ingenti somme di denaro offerte, rimasero fedeli alle etichette
indipendenti ed iniziarono ad usare l’appellativo “emo” come dispregiativo per
additare l’inflessione commerciale di altri
musicisti. Il successo di questo genere
sfuma alla fine del decennio scorso.
Da cinque anni a questa parte si è tornati a parlare di emo, ma questa volta
la musica conta poco o niente. La moda
esplosa tra i teenager di tutto il mondo,
che ha viaggiato velocissima anche grazie al web, si baserebbe solo su un eccentrità e una esasperata voglia d’apparire.
Almeno questo è quello che dicono le
fonti d’informazione.
Il quotidiano La Repubblica dedica
due pagine di descrizione minuziosa al
fenomeno riemerso negli ultimi anni. Il
“fenomeno”, “l’ondata”, questi i termini
usati dalle varie testate. Il Times è uno dei
primi ad occuparsi del “caso” nel 2005,
pubblicando una lunga inchiesta della
giornalista Michele Kirsch. I telegiornali
allarmano le famiglie con servizi su quella che definiscono una setta portatrice di
cattive ideologie. Daria Bignardi spende
un’intera puntata del suo programma trasmesso su la7, Le invasioni barbariche , a
cercare di descrivere la comunità emo.
Su Youtube impazzano video, creati da
altri giovanissimi, che fanno il verso agli
emo. I coetanei loro imitatori riconoscono questi “paranoici” ragazzi in un coro lamentoso: “Io sono emo, mi taglio le vene
e sono depresso”. Negli Stati Uniti è nato
un telefilm animato che ha come protagonisti dei supereroi che nella vita di tutti
i giorni sono ragazzi emo.
Come riconoscerere un emo
Il profilo comportamentale di qualsiasi
emo, secondo i media, può essere contraddistinto da un pessimo stato d’animo (depressione e misoginia) e da una
spiccata sensibilità. Riconoscere un emo
d.o.c. dall’abbigliamento è senza dubbio
più facile: jeans neri a sigaretta, cinture
borchiate e maglie scure con stampe che
nella maggior parte dei casi raffigurano
teschi o cuori.
Avrei potuto scrivere pagine e pagine sugli emo dopo aver letto, ascoltato,
guardato tutto il materiale informativo
che circola in rete, ma prima di affidarmi
alle notizie “confezionate” ho voluto parlare con dei ragazzi, qui nel capoluogo
emiliano.
Bologna infatti vanta una massiccia presenza di “giovani alternativi”, rintracciabili
soprattutto nei week-end lungo i viali alberati del parco della Mantagnola.
27
Confessioni di un ex-emo
Incontro per strada un gruppo di adolescenti, li squadro. Pantaloni stretti, ciuffo
da un lato, trucco pesante. Eccoli, sono gli
emo. Mi fermo impacciata e gli chiedo di
posare per una foto, sono molto disponibili, mi danno anche i numeri di telefono
e dicono che per l’intervista non ci sono
problemi.
Mi sono documentata a fondo, ho
Cammy: “in realtà le persone più grandi non capiscono quello che
pensiamo. Siamo adolescenti! Anche loro ci saranno passati, no?”
tato per giorni la loro musica, ma non è
stato sufficiente. Quando mi son trovata
davanti questi adolescenti frizzanti quasi
non potevo credere che ne sapessero più
di me.
L’intervista parte con ordine, i ragazzi
in semicerchio di fronte a me mi dicono
i loro soprannomi, l’età (tra i 14 e i 15
anni) e rispondono intimiditi alle prime
domande.
La musica ascoltata da questi sei adolescenti non corrisponde al fenomeno
delle teenage-band che imperversa sui
canali musicali. “La musica di Mtv non la
seguo tanto, mi sembra ripetitiva” Heyd,
14 anni, di bologna. Di band come i Dari
e i Finley dicono disgustati che sono fatte
a tavolino, “sono quelle canzoni che dopo
un po’ ti stancano!”. Alla mia domanda sui
Tokio Hotel rispondono: “Prima li ascoltavo, adesso preferisco altra musica”.
I gruppi che riscuotono consensi unanimi sono i Bring Me the Horizon (americani,
genere death-core), i Suicide Silence (metal-core) e gli Escape the Fate che fanno
emo-core. Questi ultimi “Non sono molto
conosciuti perché non suonano musica
commerciale, sono della Epitaph, un’etichetta indipendente”, precisa Heyd.
“L’anno scorso mi definivo
emo, poi ho detto basta!”
28
Mery ascolta i Bullet for My Valentine e i
My Chemical Romance. Questi li conosco,
sono presenti in molti articoli che ho letto per documentarmi e vengono classificati dai giornalisti musicali come gruppi
emo.
Più vado avanti con le domande e più mi
convinco che questi ragazzi a prima vista
potrebbero appartenere alla cosiddetta
“categoria emo”, ma poi approfondendo alcuni aspetti si capisce che ognuno
di loro sta intraprendendo un percorso
diverso, per conoscersi, per accettarsi e
farsi accettare, come qualunque quattordicenne.
La situazione di appartenenza ad un
gruppo piuttosto che ad un altro è la motivazione principale che spinge i ragazzi
ad assomigliare l’uno a l’altro. Le diverse “bande metropolitane” si dichiarano
guerra per strada, a scuola, al cinema.
Cammy:“Io sono stata al cinema sabato
ed è stata una cosa atroce perché era pieno di truzzi!...Non so perché ci sia tanto
odio tra noi, forse perché siamo troppo
diversi.”
Heyd: “Perché loro ci ritengono sfigati e
noi riteniamo sfigati loro”.
Cammy: “Un nostro amico è stato picchiato da alcuni truzzi solo perché non
gli ha dato una sigaretta”.
Ma non ci sono solo i truzzi, esistono
vere e proprie micro-società differenziate
soprattutto da ideologie musicali.
Cammy: “Ci sono gli alternative (quelli
un po’ figli dei fiori), i fighetti, i maragli, i
metallari, i punk…”
Tutti difendono il loro modo di essere
proiettando un immagine ben identificabile del gruppo, consegnando una visione più larga per avere maggior rispettabilità e credibilità. Ma poi alla fine questo
non impone di socializzare solo con “individui simili”.
Will: “I fighetti io li rispetto, si vestono
bene e basta, possono ascoltare benissimo anche il rock”.
Helli: “Io non ho problemi con i truzzi,
ho molti amici che lo sono…però alcuni
sono indecenti!”
Quando chiedo loro se si definiscono
emo rispondono con fastidio. Forse una
domanda posta troppo spesso.
Dice Cammy: “Non mi piace definirmi,
perché appena ti definisci c’è qualcuno
che ti dice che sei poser”.
I ragazzi mi spiegano che il “poser” è
“come uno che posa per delle fotografie, in quel momento non è se stesso”. A
quanto ho capito poser si diventa nella
fase di passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Si inizia ad uscire, a farsi notare
dagli altri attirando l’attenzione. È una
recita, un atteggiamento eccessivo, colorato, carnevalesco. “Perché si vuole appartenere ad un gruppo, ad una massa”
aggiunge Cammy. Hope dice: “Alla fine
tutti siamo stati poser prima di diventare
così”.
Tutti e sei i miei intervistati concordano
sul fatto che l’anno scorso erano “fissati
con l’emo”.
Heyd: “io l’anno scorso volevo essere
emo e basta e mi tagliavo”. Mi dicono
quasi tutti la stessa cosa: “ero emo”, per
fortuna ora non più, penso io.
E c’è chi ancora prima di diventare emo
voleva essere truzzo.
Heyd: “Ho iniziato ad ascoltare musica
house perché volevo essere figo, poi ho
capito che non faceva per me e son ritornato così”.
Una continua ricerca per trovare la propria identità, per crescere ed accettarsi.
Ora questi ragazzi dicono di non voler essere più etichettati, anche perché forse gli
emo non esistono più. Come ogni altra
moda anche questa è sfumata, lasciando
qualche traccia di trucco pesante, piccole
cicatrici e ciuffi sui freschi volti di questi
ragazzini.
La bisessualità che la Bignardi esaminava come nuova e preoccupante tendenza
è solo una trovata “chi dice di essere bisessuale o lo fa per fare il figo o è omosessuale e non vuole ammetterlo” risponde
Heyd sulla questione.
Michele Kirsch sul Times si preoccupava per l’umore dei giovani emo. La forte
sovraesposizione mediatica di questo
angoscioso modo di comportarsi avrebbe indotto al suicidio due ragazzine nel
nord Europa, ma attribuire la morte delle
due ai testi delle canzoni piuttosto che ai
pensieri romantico-decadenti che appaiono sui blog non mi sembra plausibile.
“Non solo gli emo si tagliano” precisa
Cammy, non solo gli emo soffrono e hanno dei problemi, concludo io.
L’adolescenza è un periodo complicato,
bisogna cercare di capire senza cadere in
pesanti cliché.
Helli: “io sono abbastanza felice. Non è
che adori la mia vita, perché poi sono un
adolescente, ma sono felice”
Heyd: “anche se penso che la mia vita
non è un granché cerco di cogliere quello
che c’è di bello”
Cammy: “in realtà le persone più grandi non capiscono quello che pensiamo.
Siamo adolescenti! Anche loro ci saranno
passati, no?”
Foto e testo Daniela Guccini
Musica Emo :
dal 1985 al 1994
Rites of Spring
Embrace
Fugazi
dal 1994 al 2000
Get Up Kids
Sunny Day Real Estate
Weezer
dal 2000 ad oggi
A Static Lullaby
My Chemical Romance
Letteratura
Leslie Simon, Trevor Kelley, Everybody Hurts, An Essential Guide to Emo
Culture.
Steve Emond, Emo Boy Volume 1, Nobody
Cares About Anything Anyway, So Why Don’t We All Just Die?
Andy Greenwald, Nothing Feels Good, Punk Rock, Teenagers, and Emo.
Cinema
Closed Space , Igor Vorskla, 2008.
Emo Pill, Anthony Spadaccini, 2006.
Ashes and Sand, Bob Blagden, 2003.
29
Tana libera tutti . . .
Bologna.
In seguito alle ordinanze comunali
definite antidegrado, i principali luoghi
di aggregazione sono stati riempiti dalle
forze dell’ordine.
Gli studenti di Bologna sono costretti a
giocare a guardie e ladri.
Un ordine che vuole il vuoto, desidera il
deserto e lo chiama sicurezza.
Piazza Verdi, situata nel cuore del
quartiere universitario, è diventata
scenario di scontri continui tra la polizia
ed i ragazzi.
Il 20 maggio, i tafferugli si sono
trasformati in una vera rivolta contro le
forze dell’ordine. La polizia in assetto
antisommossa tentava di sgomberare gli
studenti accusati di bivacco. Una piazza
piena di universitari che chiacchieravano
seduti all’ombra dei primi soli estivi.
Come spesso accade qualcuno si è
alzato lamentando l’ingiustizia dello
sgombero. A tali rimostranze la polizia
ha risposto portando in commissariato il
giovane. Altri studenti si sono avvicinati
chiedendo spiegazioni. Così sono partite
le prime manganellate ricambiate dal
lancio di bottiglie della folla ormai in
sommossa.
A Bologna viene sottratto il suolo
pubblico, negato l’attraversamento
urbano con allarmismi sulla sicurezza
dei quartieri, false soluzioni che servono
solo a spendere i soldi dei contribuenti;
telecamere a circuito chiuso per le strade
e sugli autobus, immobili e silenziosi
testimoni del nulla, e l’ ultima delirante
decisione di avallare le ronde di privati
cittadini, quali expoliziotti ed esponenti
di fazioni razziste e violente dell’estrema
destra. Perché la paura è la migliore arma
con la quale instupidire il “civis”, la paura
rende dipendenti dagli organi di potere.
E non basta la debole risposta della
sinistra con le ronde del sorriso.
Apparati arcaici pre-democratici, quali
sono le ronde, non devono e non possono
essere re-investiti di tale considerata
legittimità, mettere toppe pericolose
a problemi del tessuto sociale urbano
serve solo a rincoglionire, e fare quindi
così la vera violenza. Perché la violenza è
30
segno di sé stessa, vuole mostrare solo
il suo segno e basta. Non risolve, non si
pone il problema di cosa viene dopo, si
preoccupa solo dell’orma che il pugno
lascia nell’istante che si schianta.
Libera spazi, condividi saperi.
E’ con questo motto che da una piega
dell’Onda bolognese è nato Bartleby.
Occupare per liberare. In via Capo di
Lucca 30, a pochi passi da Piazza Verdi,
era da tempo abbandonata una sede
dell’Alma Mater Studiorum, un antico
mulino completamente ristrutturato,
un labirinto di stanze che i ragazzi
hanno occupato per riaprirlo al sapere
condiviso.
Autoformazione
universitaria
che
passa anche attraverso l’arte, la musica,
ogni campo del sapere espanso. E se
le strade sono murate dalla polizia, le
mura accoglienti di Bartleby liberano
attraversamenti
metropolitani,
intrecci tra breaker, professori, writers,
dottorandi, fotografi, scrittori...
Una forza liquida, che non si abbarbica
La Vedetta, Bartleby, via capo di lucca 30.
31
in luogo fisico. E’ nel periodo successivo
allo sgombero di via Capo di Lucca
che la potenza esplosiva di Bartleby
è deflagrata per Bologna, inondando
persino la barricata via Zamboni.
Reclame The Street, una notte di folla
e musica, in cui la piazza crocevia è
rimasta popolata solo da qualche
desolata camionetta. Mentre tutti e
tutte occupavano in festa pochi metri
più avanti l’intera via. Folla come un
insieme a pieno volume, non massa
informe, ma forma d’Onda.
A Bologna la strada si contrae ed
espande, si riafferma, si riappropria dei
propri contenuti, si sporca ed ibrida con
attraversamenti cui era stata privata.
Le porte del comunale riaperte, quelle
voci diffuse da un megafono sulla
piazza, vomitate senza volti, si sono
riprese la loro identità moltiplicandola.
E’ dalla collaborazione dell’orchestra
del comunale con l’Onda e poi con
Bartleby, che le porte del teatro sono
state spalancate in una serie di iniziative
che non solo hanno portato i ragazzi in
teatro con “Colazione a Concerto”, ma
anche i tanti concerti tra comunale e
conservatorio, in luoghi altri, nuovi sia
per gli interpreti che per il pubblico.
Come ad esempio le aule occupate del
“38”, la mansarda di Capo di Lucca, via
Zamboni occupata.
La strada si rivendica, come nel caso
delle manifestazioni “Io non ho paura”,
organizzate dal TPO e da Bartleby. Evento
giunto alla seconda prova il 2 giugno in
piazza S.Francesco.
E’ la pratica quotidiana dei luoghi che
crea sicurezza, la presenza in piazza della
manifestazione ha bloccato il giro delle
ronde per le strade del Pratello.
Il laboratorio di Hip Hop Arena 051 ha
dato il via alla prima edizione dell’evento.
Una pratica nata dalla strada, dal ritmo
delle bombolette dei writers, torna alla
strada, anzi alla piazza. E’ disciplina per i
giovani ballerini di break ed i gruppi che
si sono susseguiti in freemike per parte
della serata.
L’Arena 051 è composta da gruppi
precedentemente già esistenti che si
ibridano e collaborano per progetti
comuni. Già da 2 anni al TPO la strada
ha trovato luogo di dimora, al comune
32
Reclame the street, Bartleby occupa via
Zamboni,Bologna.
accordo di “No Mama”, i ragazzi si
esibiscono senza insulti, conservando
nei testi un forte impatto verbale, “non ci
piacciono i tipi ingioiellati di mtv”. Sono
ragazzi, come Angio, che frequentano
medicina, o che già lavorano come Bazzo.
Si esibiscono insieme nei contest, nelle
strade alle quali hanno piegato un tetto,
scenario coperto.
Punto di partenza e di apertura.
L’innaturale silenziatore attuato dall’ormai
vecchia amministrazione comunale, è
stato sottoposto a sgombero.
E’ un nascondino che abbiamo deciso di
rompere, a viso scoperto, senza paura di
guardie e ladri.
Testo e foto di Chiara Segreto
33
34
L’ asta di biciclette
35
Foto e testo di Erica Gómez Rodríguez
A Bologna le biciclette che si vedono
avranno più di 30 anni ma continuano a
passare di mano in mano. Le domande
che mi pongo sono: che storia avranno
queste bici? Quanti proprietari diversi le
avranno guidate per le strade di Bologna?
Esse hanno storie e identità precise e noi
studenti fuori sede siamo parte integrante
e protagonisti di queste...anche se in fondo
credo sia solo la città la vera padrona.
Con lo slogan “per lo stesso prezzo,
meglio usata che rubata!”, si è tenuta la
XVI edizione dell’asta di biciclette che si è
svolta giovedì 16 Aprile in Piazza Puntoni.
Quattro messaggi accompagnano la
campagna: “rifiuta qualunque offerta di
biciclette rubate”, ”segnala alle autorità
chi vende bici rubate”. Questa proposta
di sensibilizzazione sociale è il risultato
ottenuto dopo un concorso pubblico
nel quale si richiedeva di suggerire
delle idee per la vendita legale delle
36
biciclette. L’obbiettivo dell’iniziativa è
quello di combattere il mercato nero
creatosi a causa della ricettazione e furto
delle bici. Sostenuto e patrocinato dalle
Associazioni Studentesche, l’Altra Babele
e Terzo Millennio assieme al Comune di
Bologna, al quartiere San Vitale, Università
di Bologna e con la concessione speciale
delle Ferrovie dello Stato che renderanno
disponibili le bici abbandonate nelle zone
della stazione. Gli organizzatori invitano
tutti i partecipanti all’asta a presentarsi
con cartelli dagli slogan spiritosi, vestiti
ed oggetti eccentrici e spiritosi per
attirare l’attenzione del battitore d’asta
e rendere la piazza un teatro di colori e
situazione per un pomeriggio speciale.
Quello che ha attirato la mia attenzione
ispirandomi a scrivere questo articolo,
è stato vedere quella moltitudine di
persone di diverse età, tentare qualsiasi
mezzo e travestimento per accaparrarsi
una bici in modo da poter correre
liberamente per le vie della città.
“per lo
stesso
prezzo,
meglio
usata
che
rubata!”
37
pa kua
di Simone Cucuzza e Giulia Serri
L
a nostra giornata comincia, così: 40
gradi o giù di li, da tempo ci domandavamo
come fosse lavorare con dei ragazzi
diversamente abili...con tanta curiosità
e qualche diffidenza arriviamo al centro.
Ci accoglie una atmosfera tranquilla e
rilassata, tra chiacchiere, sorrisi e un altro
caffè. Roberto è già pronto. Impaziente
si allaccia la cintura della divisa con la
serietà di un maestro di arti marziali.
Finalmente ha inizio l’allenamento...
“Quel giorno anche il maestro mi aveva confessato
che era sul punto di collassare dal caldo. Eppure non
ha mollato nessuno.”
“Sono tutti proiettati verso l’idea di
diventare degli sportivi. Alcuni di loro
non hanno mai praticato sport, e non lo
avrebbero probabilmente apprezzato
se non ci fosse stata la spinta del gioco.
Come disse un maestro itinerante che
ci è venuto a trovare da Madrid, Lairton
Telles: “nel nostro caso non si tratta di
lotte, ma come di cuccioli che giocano”. Mi
ha molto colpito perché è proprio quello
38
che andavamo cercando: un percorso
che porti a una maggior conoscenza e
consapevolezza del proprio corpo e degli
altri attraverso un allenamento in comune.
Non è la marzialità che ci interessa, ma
che accrescano la propria disinvoltura nei
confronti dei “compagni d’arme”.”
Vincenzo Baldari, educatore sociale, ci
parla della sua esperienza di lavoro con
i ragazzi diversamente abili, che dura
ormai da diversi anni.
“Su ogni ragazzo c’è un progetto differente.
Per alcuni, ad esempio, il problema era solo
di socializzazione, nel senso che avevano
un approccio remissivo col mondo: erano
piuttosto permalosi, freddi, timidi o pigri.
Sono tutti migliorati da molti punti di vista.
Alcuni ragazzi hanno messo a profitto l’idea
di fare sport e di entrare in confidenza con i
propri limiti e le proprie caratteristiche. Una
ragazza, Federica, che fino a quest’estate
aveva bisogno di ausili, come la sedia a
rotelle, ora cammina, si allena con noi. Su
altri ragazzi invece i risultati sono di tipo
mentale, ma altrettanto vicini al miracolo.
Alcuni avevano forme di permalosità che
impedivano loro di socializzare: come
difesa si allontanavano dal prossimo.
Attraverso la vicinanza dell’altro, durante
l’allenamento, queste paure sono state
superate.”
Effettivamente l’atmosfera è tranquilla e
divertente, tutti si impegnano nonostante
l’afa. La cosa più bella è vedere i ragazzi
mentre si allenano: si impegnano a fondo,
a volte sono restii a tentare, ma alla fine
ci riescono. Quando si tratta di provare a
cadere, sembra di vederli giocare.
“E’ comunque previsto che si cada, abbiamo
un materassone alto 10 centimetri per
muoversi in sicurezza. Si cade si ride e
ci si rialza. Cadere non è un motivo per
drammatizzare. Questa è la prima forma di
attività sportiva che fanno. La parte iniziale
della lezione prevede un riscaldamento, la
possibilità di sciogliere i muscoli come una
normale lezione di stretching, poi si fanno
le tecniche. Anche quei primi esercizi sono
una novità per loro. In una vita che passa tra
la casa e le istituzioni è ben raro che si possa
fare dell’attività fisica: lì ci si sfoga. Si cade,
si ride, ci si rincorre, e poi alla fine si fanno
le ammucchiate tutti insieme sul tatami!
E’ un modo per giocare ed è una cosa che
serve a lavorare tutti insieme in allegria.
Le nostre lezioni non sono improntate alla
marzialità, sono improntate più che altro
al divertimento. La marzialità diventa un
pretesto. Così funziona: è interessante,
stimolante e diventa una scusa per fare
dell’attività fisica.”
Vincenzo risponde alle nostre domande:
Come si pongono i ragazzi in confronto
a te?
“Sono infinitamente più sciolti e molto
più consci delle proprie possibilità. Prima
quando ti dicevano “No, io questa cosa
non la posso fare, non la voglio fare” finiva
lì, era inutile insistere. Ora hanno molta
più fiducia, credono di più in me. Hanno
sempre dei limiti, ma puoi provare a
convincerli, a stimolarli, non si bloccano al
“non posso”. “Non posso” non è più l’ultima
parola. L’incremento della fiducia non è
solo nei miei confronti, ma anche tra loro:
è bello vedere che fanno molto squadra, si
aiutano.”
Da quando avete iniziato ad allenarvi?
“Abbiamo cominciato nel settembre del
2007, ora stiamo per concludere il secondo
anno. Anche quest’anno chiuderemo con
una forma di manifestazione pubblica
all’aperto in occasione della festa di
Arboreto “Arboreto in Fiore” che si svolgerà
il 19 Giugno…fra i tavoli con le piadine
correremo anche noi in kimono!”
Parlaci del Pa Kua, perché avete scelto di
praticare proprio questa disciplina tra le
arti marziali?
“Pa Kua è una disciplina che lavora
sull’individuo e, se ammette l’esistenza di
un nemico, questo nemico è soltanto il
proprio limite. Non c’è la velleità di andar
"Lungo il percorso che si proietta verso l’apprendimento delle arti marziali, stiamo conseguendo
delle tappe intermedie che sono le cose più interessanti. In realtà non ci interessa arrivare al
punto zeta della preparazione perché tutti i punti intermedi sono degli obbiettivi."
39
fuori e mostrarsi superiori nel campo della
lotta, ciò che importa è superare le proprie
barriere. In un paio d’anni di allenamento
i ragazzi hanno effettivamente superato
i propri limiti sia mentali, sia fisici. Pa Kua
non va commisurando le cinture o i gradi
in relazione a quanto si è imparato delle
tecniche insegnate o come ci si comporta
in relazione agli altri, piuttosto a quali
sono i progressi rispetto al tuo punto di
partenza. Per passare di grado in Pa Kua
ci sono maestri che vengono da altre
palestre, spesso molto lontane, per fare
le valutazioni. Anche i nostri ragazzi sono
passati di grado. Hanno anche conseguito
degli elementi di merito supplementari
simboleggiati da strisce nella cintura del
colore successivo: hanno tutti una cintura
gialla con strisce arancioni, ora possono
allenarsi su tecniche più avanzate. A noi
non interessa conseguire cinture. Ma il
conseguirla è un po’ un premio al lavoro
dei ragazzi.”
E’ la prima volta che viene svolta questa
attività con i ragazzi?
Come riuscite a portare avanti questo
progetto?
“Ci voleva un gran coraggio per tentare un
esperimento del genere. Esistono già delle
prove con il Tai Chi, una disciplina molto
più morbida che non prevede contatti, e
si pratica anche in età avanzata. Nel Pa
Kua si lavora anche sul corpo degli altri e
questo porta i ragazzi a sciogliersi molto. In
Italia è la prima volta che si prova a fare arti
marziali con i ragazzi diversamente abili.
L’associazione Pa Kua ci ha molto seguito.
Dalla sede di Firenze sono spesso venuti
a trovarci, sia i maestri che gli studenti.
Abbiamo fatto anche delle gite portando
i ragazzi nella grande palestra di Firenze e
sono stati accolti con molto affetto. Tutti
I maestri itineranti coinvolti a Firenze di
solito passano a Bologna a trovarci.”
“Il progetto è stato per il primo anno
sperimentale, i risultati sono stati positivi
e quindi molto apprezzato. Il secondo
anno abbiamo tentato di avere dei
finanziamenti dalla provincia e dalla
regione. E’ stato valutato come programma
innovativo, siamo arrivati decimi su sette
progetti finanziati. Abbiamo concorso
con Emergency, Save The Children, delle
associazioni molto più grandi della nostra,
è quindi quasi una soddisfazione già il fatto
di essersi piazzati. Ci riproveremo l’anno
prossimo. Siamo finanziati dalla nostra
stessa cooperativa, Cadiai, che seppur in
economia ci permette di andare avanti per
la gioia dei ragazzi.”
Siamo arrivati alla fine della lezione. Il Pa
Kua inizia e finisce con un saluto. Il saluto
40
è un concetto fondamentale per tutte
le arti marziali in quanto espressione
della cortesia e del rispetto, attraverso
il quale ci si predispone correttamente
all’allenamento. Questo è lo spirito delle
arti marziali, l’umiltà: la prima lotta che
bisogna vincere è quella contro la propria
presunzione.
DUELLANTI
Roberto ha 47 anni e una forma di downismo piuttosto lieve. Era impensabile
che alla sua età una persona iniziasse
un percorso di arti marziali, ma il nostro obbiettivo non è quello di formare
guerrieri quanto di far socializzare. Roberto ha preso molto seriamente questa
attività: per esempio, Se noi perdiamo
troppo tempo a prendere il caffè quando arriviamo, lui va subito in palestra a
cambiarsi.
Federica (32 anni) ha una diagnosi particolare: oltre
a un ha
ritardo
mentale non
Federica
(32 anni)
una diagnosi
parmolto accentuato,
forti mentale
probleminon
di
ticolare:
oltre a un ha
ritardo
equilibrio
nel muoversi
gambe.
molto
accentuato,
ha fortisulle
problemi
di
Ora cammina,
sta cominciando
a correequilibrio
nel muoversi
sulle gambe.
Ora
re e fa l’allenamento
dei calci.
Abbiamo
cammina,
sta cominciando
a correre
e fa
cominciato a dei
lavorare
a terra con
lei,
l’allenamento
calci. Abbiamo
cominin modo
tale che
non con
potesse
ciato
a lavorare
a terra
lei, incadere.
modo
Adesso
molto
più sciolta
e lavora
tale
che ènon
potesse
cadere.
Adessoinè
piedi come
tutti gli
altri. Pare
checome
anni
molto
più sciolta
e lavora
in piedi
di fisioterapia
non
raggiunto
tutti
gli altri. Pare
cheabbiano
anni di fisioterapia
questi
risultati.
Quindi è questi
una cosa
di cui
non
abbiano
raggiunto
risultati.
siamo particolarmente
fieri.
Quindi
è una cosa di cui
siamo particolarmente fieri.
Vincenzo Baldari, educatore sociale.
Manuela (30 anni circa) ha una forma
Manuela (30 anni circa) ha una forma di
di downismo medio-grave che le comdownismo medio-grave che le comporporta una serie di problemi sia a camta una serie di problemi sia a camminare
minare che a comunicare. Fabrizio dice
che a comunicare. Fabrizio dice spesso
spesso che, in rapporto al miglioramenche, in rapporto al miglioramento indito individuale, Manuela già per come
viduale, Manuela già per come è meriè meriterebbe la cintura nera. Ha fatto
terebbe la cintura nera. Ha fatto grandi
grandi progressi. E’ interessante notaprogressi. E’ interessante notare che perre che persone normodotate spesso
sone normodotate spesso non riescono
non riescono a flettersi fino a toccare la
a flettersi fino a toccare la punta dei piepunta dei piedi, lei invece ci riesce trandi, lei invece ci riesce tranquillamente.
quillamente. Manuela aveva bisogno di
Manuela aveva bisogno di appoggio
appoggio per salire sul pulmino, menper salire sul pulmino, mentre ora non le
tre ora non le serve nulla: si arrampica
serve nulla: si arrampica come un gatto!
come un gatto!
Fabrizio Rossini, istruttore di Pa Kua.
41
Un’arte antica
Da sempre gli strumenti ad arco hanno la
caratteristica di suscitare profonde emozioni.
Il loro suono fa vibrare l’aria come
nessun’altro strumento, trasmettendo
sensazioni intense e coinvolgenti.
Quando si ha la fortuna di entrare per
la prima volta in una liuteria ci si ritrova
rapiti e immersi in una dimensione irreale intrisa di odori, suoni e colori dai toni
caldi, risulta impossibile non rimanerne
affascinati.
Sagome di violini, ponticelli da rifilare,
violoncelli da riverniciare.. un mondo ricco di suggestioni e sensazioni fermo in un
tempo altro.
Bologna ha una storia molto particolare
per quanto riguarda l’arte della liuteria,
ricca di esponenti di rilievo, come i maestri
Raffaele Fiorini (15/7/1828 - 18/10/1898)
e Otello Bignami (6/8/1914 - 1/12/1989).
Bignami iniziò la sua attività di liutaio
verso la metà degli anni 40, studiando
e praticando per anni l’arte del restauro
del legno, e grazie ai suoi studi e alle sue
ricerche raffinate riuscì ad elaborare uno
stile molto personale e particolare, come
le vernici e un modello di violino a suo
nome, che lo fecero entrare a pieno titolo
nella liuteria di prestigio.
I principali riconoscimenti alla sua arte
vennero subito dalla Mostra Internazionale di Cremona del 1949, dal primo premio al 3º Concorso Nazionale di Liuteria
della Accademia di Santa Cecilia a Roma
nel 1956 e dal Concorso Wieniawski di
Poznań del 1957 con medaglia d’oro e
premio speciale quale “miglior liutaio
d’Italia”
La bottega dove svolgeva la sua attività
si trovava in origine in via Guerrazzi n.10,
ma attualmente è stata ricostruita minuziosamente all’interno del Palazzo Aldini
Sanguinetti, dove ha sede il Museo della
Musica, ed è aperta al pubblico.
42
La tradizione liutaia bolognese è ricca di esponenti di
rilievo come il Maestro Raffaele Fiorini, fondatore della
Scuola di Liuteria Artistica
nel 1860 e il Maestro Otello
Bignami
La Bottega di Bruno Stefanini in via delle Belle Arti
Luogo dove riscoprire un’arte antica che vive ancora
oggi grazie all’abilità dei
liutai professionisti
Verso la fine degli anni ‘70, per assicurare
la continuità della tradizione, gli venne
chiesto di insegnare presso La Scuola di
Liuteria Artistica Bolognese, fondata intorno al 1860 proprio da Raffaele Fiorini .
Bignami trasmise grande esperienza ai
suoi allievi nel corso della sua carriera,
diventando un esponente di prestigio
all’interno della scuola, e preparando
questi giovani a introdursi nell’ambito artigianale.
Adesso, dopo tanti anni, sono proprio
loro a continuare la tradizione del grande
maestro.
Alcuni dei più noti sono Roberto Regazzi,
Bruno Stefanini, Alessandro Urso ed Ezia
di Labio.
Col tempo ognuno ha sviluppato stili di-
versi affermandosi nel campo della liuteria con successo, aprendo una bottega e
ricevendo riconoscimenti sia in Italia che
all’estero.
Roberto Regazzi è stato presidente della
“Associazione Europea Maestri Liutai e
Archettai”, membro della “Violin Society
of America”, socio fondatore e presidente del “Gruppo Liuteria Bolognese” e
membro del direttivo della “Associazione
Liutaria Italiana” nel Gruppo “Liutai e Archettai professionisti”, di cui è stato anche
vicepresidente.
Bruno Stefanini fu assistente del Maestro
Otello Bignami, ha uno stile decisamente
ricercato ed è attualmente molto richiesto, soprattutto in America.
Alessandro Urso porta avanti un progetto
chiamato “Leuterius” realizzato in collaborazione con il musicista ed etnomusicologo Fabio Tricomi.
Ha aperto una bottega dov’è si possibile
trovare antichi strumenti ad arco e a corde provenienti da tutta Europa. Musicisti
loro stessi, si esibiscono con un repertorio
che spazia dalla musica classica a quella
popolare.
Ezia Di Labio ha invece creato, insieme
43
all’architetto Mauro Bellei, una collezione
di “Violini d’autore”: 16 violini, una viola
e un violoncello lasciati alla libera interpretazione di artisti di varia estrazione
Alcuni di questi sono i poeti Tonino Guerra e Roberto Roversi, il cantautore Giovanni Lindo Ferretti e il fotografo Gianni
Berengo Gardin.
Personalità diverse che contribuiscono a
La bottega del Maestro
Otello Bignami, ricostruita
fedelmente all’interno del
Palazzo Sanguinetti per il
Museo Della Musica in Strada Maggiore 34
creare uno stile ricco di sfumature per la
liuteria bolognese.
Attualmente, però, il settore artigianato
sta subendo un declino sia per quanto
riguarda la richiesta e la realizzazione di
strumenti ad arco sia per la continuità del
mestiere che si prospetta per il futuro.
Il concetto di “bottega”, infatti, non corrisponde più ai vecchi canoni, gli artigiani difficilmente scelgono di prendere uno
o più ragazzi come apprendisti personali.
Questo perchè da qualche tempo, con
l’entrata in vigore della nuova normativa
per la formazione degli apprendisti, l’iter
da seguire per l’assunzione è complicato,
implica dei costi, ed è obbligatorio fare diversi passaggi burocratici come ad esempio la copertura assicurativa e la trafila
delle visite mediche.
Ciò rappresenta un grosso ostacolo per
una tradizione così antica come la liuteria. Se l’arte di chi adesso è attivo nel campo non verrà trasmessa a qualcuno che
intenda lavorare con la stessa passione,
questa tradizione sarà destinata ad interrompersi.
E con essa, anche l’arte del maestro Otello Bignami e la Scuola di Liuteria Artistica
Bolognese.
Alcuni dettagli della bottega del Maestro Bignami:
le sagome dei violini da lui
costruiti, il banchetto dove
avveniva la lavorazione e i
materiali da lui utilizzati
44
L’arte della liuteria è da sempre una passione che si tramanda da generazioni.
Bologna ha la fortuna di possedere persone che portano avanti con grande impegno questa
tradizione.
Alessandro Urso è uno di questi. Maestro liutaio e professore di violino, esperto nella costruzione e nel restauro di strumenti ad arco.
In queste foto possiamo vedere la sua bottega “Leuterius” in via Rialto 19/C ricca di strumenti
antichi e provenienti da diverse parti del mondo.
Foto e articolo di Virginia Caldarella
45
I never want to be different, I just want to be me!
Bodymodification;
moda o altro?!
Da quando sono arrivata a
Bologna, una delle prime
cose che ho notato sono
stati i tanti ragazzi con
delle modificazioni corporali, perlopiú tatuaggi
e piercing. Avendo interesse per queste pratiche
non potevo non notarle, e
parlarne.
Negli ultimi anni sia il piercing che il tatuaggio sono diventati quasi una moda,
ma cosa c’é dietro alla decisione di farsi
fare un segno permanente sulla pelle? Mi
incuriosiva il fatto di sapere da altre persone le motivazioni dei tattoo, del piercing
o di altre modificazioni. purtroppo non
ho ricevuto molte risposte dai giovani
con cui ho parlato. Girando per Bologna,
sono andata a far visita ai due principali
piercing studio, il BodyBag e ZacBodyart.
Al BodyBag, mi hanno confermato, come
già immaginavo, che la maggior parte
dei loro clienti sono ragazzi che vogliono
farsi fare un piercing; ovviamente sono
rigorosamente acompagnati dai genitori essendo minorenni (la legge vieta di
eseguire piercing e/o tatuaggi su persone mi¬norenni). I piercing piú “ricercati”
dai giovani sono il “labret”, specialmente
quello al lato del labbro inferione, i “monroe”, “eyebrow” e “navel”, con l’arrivo della
bella sta gione. Ci sono però anche tante
persone che cercano anche interventi un
po’ piú estremi, come ad esempio il piercing ai genitali.
Da ZacBodyart invece mi sono fermata un
pó di piú. Mi sono fatta una bella chiacchierata con il piercer che lavora nello
studio. Questa volta la conversazione era
basata piú sul cambiamento di clientela
col passare degli anni, di come la gente
adesso “osi” molto meno che negli anni
46
passati, i movimenti degli’anni ‘80 e ‘90
da cui sono “rinati” i piercing moderni e
naturalmente tutti quelli degli inizi.
Tornando al fatto che non ho avuto troppo
successo con i ragazzi, ho deciso di seguire il consiglio che mi aveva dato una mia
compagna di corso, e cioé di fare un’intervista a me stessa! A questo proposito
ringrazio una futura antropologa, nonché carissima amica, Cristiana Amadei,
che sta scrivendo la tesi in antropologia
e mi ha datto il suo questionario da compilare. In questo modo è diventato molto
piú facile esprimermi , e quindi spero che
questa lettura si riveli interessante anche
per gli altri. Il questionario si trova su internet ed é assolutamente anonimo, ed è
proprio per questo motivo che la gente
risponde molto piú volentieri cosí.
Alcune tipologie di piercing
Labret: Foro al labbro, sia al centro
che al lato del labbro
Monroe: Foro al lato del labbro
superiore
Navel: Ombelico
Eyebrow: Sopracciglio
Bridge: Foro alla parte alta della
pina nasale
Tounge: Lingua
Nape(surface-piercing): Piercing
che vengono eseguiti su svariate
parti del corpo, esempio Napecollo
Che la „confessione“ abbia inizio.
Nome: Lara Zibret (il nome l’ho messo io
di proposito).
Etá: 25 anni
Cittá: tra Bologna e la Croazia
Quali sono le tue modificazioni?
Piercing: vertical labret, bridge, tongue,
nape, microdermal; Scarificazioni (cutting/branding): cutting, tre fiori di ciliegio
sulla schiena e due tatuaggi.
A che etá hai fatto la tua prima modificazione? Qual’é stata? Come hai maturato
quasta scelta?
Il primo vero piercing l’ho fatto a sedici
anni. Lo chiamo vero, perché i fori con la
pistola spara-orecchini non li considero
nemmeno. Fin da bambina mi mettevo il
filo di ferro a forma di orecchini al naso e
sul labbro, quindi credo che il primo foro
sia stata un scelta abbastanza cosciente.
Quando modifichi il tuo corpo, quali sono
le motivazioni?
Mi piace la sensazione che da. L’istante
del foro, l’adrenalina che si prova mentre
si fa, non escludo il lato estetico, mi piace
averli addosso. Ogni singola modificazione sul mio corpo mi ricorda un’esperienza
vissuta, é quasi come un diario aperto a
tutti peró scritto in una lingua assolutamente incomprensibile, di cui solo io
conosco il significato. Alla fine, quando li
faccio mi sento bene con me stessa, e credo sia questa la cosa piú importante.
Hai mai fatto una sospensione? Come descriveresti l’esperienza?
Si, ne ho fatte due fino a adesso. Vedere
il proprio corpo superare dei limiti che
pensiamo di avere, sensazioni che si mescolano ogni 5 secondi dalla paura piú
totale all’adrenalina e all’euforia, il dolore
che diventa piacere, tranquillitá... sensazioni che non saprei descrivere.
Hai mai avuto giudizi negativi per le tue
modificazioni? Da chi?
Si, certo. Dalla maggior parte delle persone che non sanno niente in materia.
47
Come giudichi chi reagisce negativamente?
Non li giudico, a dire il vero non ci faccio
piú neanche tanto caso ai giudizi degli altri... non mi interessano, tutto qua!
La scarificazione, o scarification
in inglese é una pratica di
modificazione corporale tornata in
voga nel XX secolo. Si divide in 2
pratiche: il “cutting” e il “branding”.
Il cutting coniste nell’incidere
o tagliare la pelle, secondo un
disegno preciso precedentemente
stampato.
Il branding consiste nel marchiare
a fuoco la pelle usando delle
barrette di metello incandescenti
(oggi viene usato anche il
cauterizatore).
Breve storia della modificazione corporale
attraverso i secoli
Circa 60.000 a.C. - Gli aborigeni australiani,
probabilmente il popolo piú antico sopravvissuto sino ai giorni nostri, si dipingono il corpo,
provocano cicatrici, incidono la parte inferiore
del pene e allungano le labbra vaginali.
7.000 a.C. - L’allungamento del cranio è giá
praticato nella Gerico neolitica, uno dei primi
insediamenti urbani della storia.
4.200 a.C. - Le mummie di due donne nubiane
mostrano una serie di linee e tatuaggi sull’addome, perforazioni delle narici, delle labbra,
dei genitali e dei lobi e l’allungamento di questi. Potrebbero risalire piú o meno a cinquemila anni fa.
2.000 a.C. - Sulla mummia di una sacerdotessa
egiziana della dea Hator, risalente al periodo
dell’Undicesima Dinastia, sono visibili dei tauaggi.
1.900 a.C. - Le divinitá antropomorfe dell’area
culturale del Mediteraneo orientale, dell’Europa dell’est e del vicino Oriente, mostrano segni che potrebbero essere tatuaggi e pitture
corporee.
450 a.C. - Sui visi di alcune statuette di terracotta giapponesi sono presenti dei tatuaggi.
Erodoto riporta che gli esponenti della classe
aristocratica della Tracia erano tatuati, cosí
come le personalitá piú eminenti dell’antica
Grecia, in relazione alla professione e alla loro
posizione sociale.
400 a.C. - I Maya, come diverse popolazioni
africane, si limavano i denti anteriori rendendoli simili a quelli degli animali.
200 a.C. - In India si conosce la chirurgia plastica: un naso distrutto puó essere ricostruito sovrapponendo diversi stratti di pelle. In Grecia
gli schiavi vengono marchiati a fuoco.
IV secolo d.C. - Soldati romani chiamano Picti
(dipinti) i guerrierri gallici, che combattono
nudi e ricoperti di tatuaggi “oripilanti”. I centurioni, dimostrano la loro virilitá perforandosi i
capezzoli e inserendovi dei gioielli.
550 d.C. - In Giappone gli appartenenti alle
classi inferiori (macellai, boia, persone del circo ed altri) si distinguono per i tatuaggi sulle
braccia.
720 d.C. - In Giappone si ricorre ai tatuaggi sul
viso (per esempio scrivendo la parola “traditore”), per marchiare i delinquenti. Gli aristo-
cratici, invece, si fanno praticare piccolissimi
tribú di nativi americani.
tatuaggi intorno agli occhi.
1960 - 1980 - Gli hippies, gli Hell’s Angels e i
XIII secolo - In Giappone il tatuaggio non vie-
punk, si fanno praticare tatuaggi piú o meno
ne piú considerato una pratica riservata alle
estesi, spesso per esprimere la loro ribellio-
classi inferiori, ma assume il ruolo di arte raf-
ne nei confronti delle norme sociali correnti.
finata. Il “Black code” prescrive che gli schiavi
Contemporanemente, nelle comunity gay si
neri vengano marchiati a fuoco sul petto. Fino
afferma il piercing, specialmente tra i leather-
a quest’epoca gli artigiani di tutta Europa era-
men (dall’inglese “uomini che vestono in pel-
no riconoscibili, in assenza di diplomi scritti,
le” negli ambienti sado-maso) o i tribe di San
grazie ai tatuaggi che ne certificavano la pro-
Francisco.
fessione.
1970 - I punk, oltre a fare abbondante uso
XIX secolo - Dopo essere stati importati dal-
di tatuaggi, adottano pratiche tribali quali i
la Cina verso la metá del secolo precedente
piercing e la colorazione dei capelli, ispirata a
tramite una sorta di albo a fumetti, i tatuaggi
quella dei guerrieri papua; anche anche l’uso
artistici su tutto il corpo tipici del Giappone
dei capelli alla moicana fa parte del loro stile.
raggiungono l’apice della loro qualitá.
1977 - Fakir Musafar conia il termine “Modern
1852 - In Francia l’introduzione delle registra-
Primitives” e introduce l’uso dei concetti, e dal
zioni scritte in ambito investigativo, sostitu-
linguaggio spiritual-tribe tra le fila di coloro
isce l’usanza della polizia di marchiare i ladri
che praticano piercing e altre forme di modifi-
con un giglio tatuato sulla spalla destra.
cazioni corporali
1870 - In Giappone i tatuaggi vengono messi
1989 - Viene publicato il volume “Tatuaggi
al bando dall’imperatore Meiji: questo divieto
Corpo Spirito” di V. Vale e A. Juno, cui si deve
é rimasto in vigore fino al 1945.
la divulgazione su larga scala del tatuaggio
1882 - L’arte giapponese del tatuaggio rag-
neo tribale, cosi come la nuova popolaritá di
giunge l’Inghilterra vittoriana attraverso
pratiche quali il piercing, il branding, la scarifi-
l’opera di maestri come Sutherland Mac Do-
cazione (intesa come cutting), presente in piú
nald, che annovera tra i suoi clienti anche di-
delle volte in un contesto piú o meno pubbli-
versi monarchi. Sulla scia di questo consenso,
co o/e rituale.
molti esperti di tatuaggi cinesi e giapponesi
In Inghilterra l’immediato tentativo di mettere
si trasferiscono in Europa e negli Stati Uniti,
al bando il libro per oscenitá lo rende ancora
dove trovano anche aprendisti locali. La po-
piú famoso.
polaritá delle decorazioni è incrementata dal
1990 - Fakir Musafar scarificato e ornato di
successo delle esibizioni di persone tatuate
innumerevoli piercing fa uno spettacolo che
nei luna park.
consiste in una specie di convegno tribale sel-
1891 - Invenzione della macchinetta elettrica
vaggio, dove il divertimento si combina con
per tatuaggi
temi come la politica, il sesso e i diritti umani.
1939-1945 - In Germania i nazisti tatuano i
Con il “Lollapalooza Tour” , il cosí detto “rina-
prigionieri dei campi di sterminio con un nu-
scimento tribale” ha ottenuto la sua definitiva
mero sul braccio. I membri delle SS, invece, si
consacrazione.
facevano tatuare il gruppo sanguigno all’interno dell’avambraccio sinistro, per facilitare il
lavoro dei medici in caso di necessitá. Sull’onda dei proclami hitleriani per una razza pura,
alcuni genitori riscoprono le pratiche di rimodellamento del cranio, per ottenere nei bambini una testa dalla forma alta e allungata.
1945 - In Giappone il tatuaggio torna ad essere di nouvo legale.
1950 - Nelle subculture giovanilli, come quelle dei rockers e dei teddy boys, i tatuaggi riscontrano un grande successo. Tra i membri
delle bande di strada newyorkesi fanno la loro
comparsa le capigliature in stile mohicano,
inspirate a quelle tradizionali dell’omonima
48
Foto e testi di Lara Zibret
49
IL CASSERO: L’ IMPORTANTE E’ PARTECIPARE
fotografie e testi di Giorgia Dolfini
Per chi pur vivendo a Bologna ancora
non lo sapesse, il Cassero è molto di più
del circolo di ritrovo omosessuale della
città. Il motivo per cui tutti dovrebbero averne coscienza è che si tratta dello
stesso che spinge ogni anno migliaia di
studenti e lavoratori a sostare in questa
città: Bologna è libertina per antonomasia (o forse ormai solo per tradizione) e
qui niente è chiuso in se stesso.
Con questo voglio dire che un tempo,
magari, fino all’ultima generazione di
gay che potevano immaginarsi solo nascosti o iperesibizionisti nelle nottate al
Kynky di via Zamboni o al Joy di Piazza
Minghetti (era il ’77), tutto quello che si
sognava per il futuro era l’istituzione di
un luogo dove ritrovarsi. Poi, negli anni
immediatamente successivi, quelli delle
rivendicazioni, con in testa Mario Mieli e
il suo libero dire che l’omoerotismo era
una scelta possibile per tutti, anche le
In alto: un gruppo di ragazzi durante una delle serate, di fronte all’insegna del Cassero.
In basso: a destra Franco Grillini, membro onorario del Cassero e di Arcigay, intento a fotografare altri soci del circolo.
50
Alcune coppie al Cassero.
speranze si amplificano enormemente. Il
tutto culmina nel 1982 con l’assegnazione del “cassero” (cioè la parte sopraelevata della fortificazione) di via Saragozza
al circolo di cultura omosessuale da parte
dell’allora sindaco Zangheri, nonostante
le inutili istanze dei cattolici che avevano
pittorescamente usato il ritrovamento di
un’antica lapide al cassero per dire che si
trattava di un luogo di culto mariano (e la
Madonna in questione era quella di San
Luca!) che non poteva per questo essere
profanato.
Fortuna ha voluto che il movimento gay
avesse alla guida rappresentanti con un
ben più radicato senso della comunità:
attivi cioè nella realizzazione di effettivi
spazi di ritrovo, di relazione, di quotidianità per persone che slegate dal movimento erano sottoposte ad un’oppressione
imperante e capillare. Tra questi non può
essere dimenticato Samuel Pinto (meglio
noto come la Lola Puñales) che durante
un viaggio a Stoccolma registra mentalmente la struttura delle organizzazioni
gay locali; ci sono sedi in cui, ac
51
Hard Ton si esibisce sul palco esterno del Cassero in occasione della “festa elettorale “ per la
candidatura di Bruno Pompa, il 2 giugno scorso.
canto all’attività politica, ci si incontra per
bere, discutere, guardare film: insomma,
per vivere insieme. Di anni ne sono passati, da allora. Il Cassero dal 2003 ha anche
cambiato sede, trasferendosi nell’attuale
“Salara” di via Don Minzoni, nell’ottica
di aprirsi e svilupparsi in uno spazio più
ampio e fornire servizi più diversificati. E
sono tanti. Il Cassero dispone di un centro di documentazione che è il maggiore
archivio a tematica gay e lesbica presente
in Italia, con oltre 7000 unità tra libri e riviste, una sezione video e una fotografica, consultabili dal pubblico (tutto!) tutti
i giorni della settimana eccetto la domenica. Una rivista bimestrale e un sito internet aggiornato in tempo reale in cui ci
si può informare sulle attività giornaliere
e gli incontri programmati. Ogni due settimane, la domenica, c’è LiberaMente,
un progetto per discutere di tematiche
LGBT in cui si parla della sfera personale
e di quella pubblica affrontando i diritti
negati e possibili e l’omosessualità nella
storia passata e recente. Più votato alla
condivisione “estetica” è il gruppo di lettura di Arcilesbica che organizza letture
collettive di poesie e romanzi, talvolta
52
in occasione di cene con l’accompagnamento musicale. Memori del passato e
attivi nel presente, si collocano invece
uno sportello legale gratuito e un servizio di ascolto e comunicazione che prende il nome di “Telefono amico gay” e viene gestito da volontari per dare supporto
psicologico e informazioni sulla vita gay
locale. Il Cassero vuole parlare alla città:
esiste un progetto scuola, dal momento
che il periodo adolescenziale è quello in
cui il pregiudizio può creare più danni al
corretto sviluppo personale. E se il Cassero si propone bene, la città risponde, verrebbe da dire a proposito dell’ arcinoto
“Gender Bender”, festival internazionale
che presenta al pubblico gli immaginari
prodotti dalla cultura contemporanea
legati alle nuove rappresentazioni del
corpo, delle identità di genere e di orientamento sessuale. Promosso dal Cassero
in collaborazione con la pregiatissima
cineteca Lumière, il Gender Bender (che
quest’anno si terrà dal 3 all’8 novembre
p.v. ) è perfettamente in linea con le altre realtà europee e quando si vive in un
Paese costituzionalmente arretrato e non
solo dal punto di vista economico come
il nostro, simili realtà elevano la mente e
ci fanno sentire un po’ meno alieni…Ma
torniamo leggeri, per un po’; il Cassero
è anche esplosivo, disinibito, sfrenato
e colorato come l’immaginario collettivo lo vuole. Basta capitare, in un primo
venerdì del mese qualunque, alla serata
“Feed the Bears”. Loro, i “Wonderbears”,
si presentano così: “Grossi! Pelosi! Extraordinari!”. Nelle pagine di questo articolo
vedrete Hard Ton, degno rappresentante
e animatore di queste e altre nottate. Oppure presentatevi ad una serata “burlesque” dedicata agli spettacoli delle “drag
queen”. In ogni caso, almeno per la metà
della settimana, il groundfloor del Cassero è discoteca che propone di volta in
volta musica commercial, house, electrohouse, indie-rock, brit-pop e tutto il resto.
Ma ciò che conta di più, ed è quello che
intendevo dire all’inizio, sta tutto in un
esempio piccolo piccolo: se si consulta
lo “Zero” nell’edizione bolognese, quel libretto mensile che indica gli avvenimenti
più significativi da trovare in città giorno
per giorno e divisi per categorie in cultu-
ra, musica e notte, ci si accorge che le serate del Cassero sono segnalate sempre
almeno due volte ogni settimana. Se è
vero che lo Zero è un catalizzatore di forze e le “forze” da incanalare vuole che ci
siano tutte, omosessuali compresi, è vero
anche che il Cassero è aperto a tutti, e il
flusso costante di frequentatori lo dimostra.
Parlare del Cassero, nonostante tutto,
dovrebbe voler dire parlare delle persone; ma lo stesso Beppe Ramina, tra i
fondatori del Cassero, scrive che proprio
perché è fatta dalle persone la storia del
Cassero è scritta sull’acqua ed è difficile
da registrare, fotografare e finire chiusa
in un libro o in qualcos’altro (soprattutto
per chi quella storia l’ha vissuta dall’inter-
no). Allora è divertente ricordare che un
giovane Grillini, a Cassero appena nato,
era solito fare la macchietta del vecchio
bigotto bolognese e ritrovarlo poi oggi,
pressoché onnipresente ad ogni evento
organizzato dal Cassero con lo stesso spirito divertito di allora. In realtà la vita del
movimento è un po’ quella di tutti coloro
che ci lavorano o lo frequentano; il consiglio per tutti è quello di partecipare per
perdere un po’ lo spirito nostalgico che
eleva sempre il meglio ai tempi che furono, (per chi è affetto da questa sindrome),
o per guardare da vicino una realtà interessante e con l’occasione, specialmente
di questi tempi, di formarsi una coscienza
civile più ampia.
In alto: parte dello staff del Cassero in posa
di fronte al banchetto da loro organizzato
per la “festa elettorale”.
A sinistra: Bruno Pompa, direttore artistico
e candidato del Cassero alle elezioni del 6/7
giugno, con Hard Ton sullo sfondo; a destra
Bruno Pompa in giacca bianca per il discorso elettorale.
53
UN PORTO SULLA VIA
B
ologna è un capoluogo pieno di
energia, c’è tanta vita per le strade, la
gente passeggia, fa festa e si riunisce per
le vie della città. Ma c’è anche tanta gente
che proprio vive per strada, che ci dorme
sotto i portici, in piazza, nei parchi, nei
giardini, in biblioteca etc.. Molte persone sono senza fissa dimora, non trovano
un posto in dormitorio, o proprio non lo
cercano, facendo così della metropoli la
propria casa.
È una realtà che si vede ogni giorno, a cui
di solito non si presta attenzione o non
si fa uno sforzo per capire. Uno dei punti
caldi in cui ci sono tanti indigenti è la stazione centrale. Proprio in questa zona si
trova il centro diurno dell’ASP di via del
Porto, una cooperativa che per conto del
Comune cerca di aiutare queste persone,
andando contro l’incomprensione e la
marginalità.
Arrivo al centro alle 10:30 quando è ancora chiuso, mi ricevono gli assistenti
Massimo e Massimiliano. Nel centro gli
assistenti sono anche educatori, trattano l’utenza con metodologia, cercano di
analizzare i problemi e di agire su di essi.
C’è un’implicazione umana ed emotiva
nel loro lavoro, però è necessario avere un distacco per trattare i problemi in
modo razionale, cercando comunque di
trasmettere passione in ogni occasione.
L’idea è dell’operatore pari che coindivide
l’esperienza con l’utente. Massimiliano
mi parla del fascino e della soddisfazione
dell’aiutare chi ha bisogno, anche se purtroppo i risultati sono rari, piccoli e brevi.
Si tratta di proporre agli utenti un modo
diverso di vivere la città, di offrire loro un
momento di normalità. Si cercano piccoli
successi, pratici.
Tra l’utenza la costante è maschile, circa il
90%, e l’età varia dai venti ai sessant’anni,
con una media che va dai quaranta ai cinquanta. Persone senza fissa dimora, con
un basso livello culturale che di solito
54
soffrono di danni fisici, psicologici, emotivi e sociali. Problematiche croniche che
vanno dalla tossicodipendenza all’alcolismo. Non molti esponenti delle denominate “nuove povertà”. Ogni tanto ci sono
problemi. In passato si sono vissuti momenti di tensione, risse ed incontri con i
vicini del quartiere che si lamentano per
il degrado della zona. In questi casi gli assistenti cercano di fare mediazione, però
fuori la porta della mensa la responsabilità è delle forze dell’ordine.
Nel centro sono attivi vari laboratori, gli
utenti che partecipano alle attività ricevono in cambio una borsa di lavoro di
centocinquanta euro al mese per due ore
al giorno. Il periodo concesso è di 6 mesi
e tutti devono essere già tesserati nella
mensa del centro.
Al mattino dalle 11 alle 13 si fa laboratorio
artistico. Si creano maschere per la commedia dell’arte in collaborazione con una
compagnia teatrale, realizate con cuoio
e carta pesta. A volte gli utenti vengono
anche invitati a teatro per vedere il proprio lavoro in scena. È gratificante creare
qualcosa di utile e ottenere un riconoscimento per questo.
“Non si finisce mai di imparare” mi dice
Aurelio, responsabile del laboratoro da
cinque anni. Lavora tranquillo come un
55
artigiano che conosce il proprio mestiere, anche se ha un braccio ammalato da
qualche giorno. Racconta che al pomeriggio ripara le bici, mentre da istruzioni
per le maschere ai suoi compagni Cosimo
e Giuseppe. Loro non sono originari di
Bologna e risiedono nello stesso dormitorio.
Alle 12 apre la mensa. L’accesso è riservato alle le persone tesserate, devono
essere in trattamento e residenti a Bologna. Ogni giorno vengono serviti in media cinquantacinque pasti, non cucinati
direttamente nel luogo ma riscaldati, gli
utenti possono restare a mangiare nei ta-
voli della mensa o portare via. Dalle ore
13 alle 17:30 l’accesso è aperto a tutti,
anche per i non tesserati che non potrebbero accedere al pranzo. Parliamo di
un totale di quasi cento utenti al giorno
che trovano almeno un pasto, un caffe, o
semplicemente un momento ed un luogo tranquillo per vedere la TV, giocare a
carte, o dormire un pò.
Al pomeriggio inizia il laboratorio di informatica. Internet è un mezzo di comunicazione che serve a inviare un messaggio al
resto delle società.Tutti collaborano per
creare il sito “Asfalto”, il blog delle persone senza fissa dimora.
Gli utenti imparano ad usare internet,
come Sandro, che comunica con sua figlia di otto anni attraverso la posta elettronica. La rete gli serve per restarle vicino perchè lei vive a Milano con la madre.
Lui ha trentacinque anni, è siciliano e vive
a Bologna da quattro. Ha girato l’Europa
per dieci anni prima di stabilirsi in Emilia. Adesso stà per compiere il suo sesto
mese di borsa di lavoro. Dopo il laboratorio va in centro a chiedere l’elemosina.
È ospitato a casa di amici e collabora con
le spese.
Intanto Simone cerca immagini della Resistenza Antifascista per il blog. Ha un
tatuaggio sul pugno destro con la scritta
“ACAB” (all cops are bastards) e mi raccon-
Parliamo di un totale di quasi cento
utenti al giorno che trovano almeno
un pasto, un caffe, o semplicemente
un attimo ed un luogo tranquillo per
vedere la TV, giocare a carte, o dormire
un pò. Si tratta di proporgli un modo
diverso di vivere la città, di offrirgli un
momento di normalità, cercano piccoli
successi a livello pratico.
56
ta che è il titolo di un brano di una band
skinhead degli anni ‘80.
Insieme stanno preparando un video in
commemorazione dei partigiani. Hanno
filmato una gita in museo e ora leggono
poesie davanti alla telecamera. Francesco si occupa del montaggio del video,
è un ragazzo di Forlì, ed è a Bologna da
due anni e mezzo. Ha ventun anni ed è
nella droga da quattro. È un punkabestia,
sempre in giro con il suo cane, senza domicilio fisso anche se ora spesso dorme e
fa la doccia a casa della sua fidanzata che
studia nell’università. Mi racconta che sta
pensando di cambiare aria, forse va in
Spagna.
57
Mirco piange. Ha perso da poco il suo
amico e compagno di asfalto, Max. La
sua è una storia di strada, di dipendenza
e di degrado totale. Pensa anche lui alla
morte, a prendere questa scorciatoia per
finire con la sofferenza. La loro è pure una
vita nella resistenza.
Grazie agli assistenti e agli utenti del centro
diurno per la sua accessibiltà ed ospitalità.
Fotografia e testo: Miguel Angel D’Errico.
E’ DAVVERO FACILE SMETTERE DI FUMARE?
Io vi direi che è molto facile, come altri ex
fumatori felici. Ma alcuni invece trovano
questo percorso difficile perche devono
investire tempo, pazienza e impegno per
elaborare il distacco definitivo dalla sigaretta.
Nella mia esperienza ho cercato di vivere
serenamente questo percorso, cercando di dare meno valore alla sigaretta,
togliendole tutta quella carica emotiva
e quel significato che le attribuiamo ma
che in realtà non le appartiene.
inala tramite la sigaretta e psicologica
legata ai rito della sigaretta e ai bisogni
psicologici.
Per smettere di fumare e liberarsi in
modo definitivo dal fumo, la motivazione
è essenziale, ma a volte non basta e va
aiutata a crescere.
E’ importante desiderare smettere di fu-
mare. Nella maggioranza dei casi quando pongo la domanda: “Qual è il motivo
che ti ha spinto a smettere?” riemerge
sempre un fattore comune a tutti i fumatori: prevenire malattie future e alleviare
i danni che il fumo ha già causato (tosse
persistente, fatica a respirare, bronchite
cronica ecc…).
MA C’OSE’ CHE CI FA TEMERE TANTO IL
DISTACCO DALLA SIGARETTA?
La nicotina è la “droga perfetta” perché
induce dipendenza, ma è socialmente e
legalmente accettata e adatta a molti usi:
placare l’ansia, combattere lo stress, ci
aiuta a tirarci su e a essere più produttivi.
Quasi tutti i fumatori sono consapevoli
dei danni del fumo, ma non sanno comunque rinunciare a questo “vizio”. Che
piaccia o no, il fumatore ha una doppia
dipendenza: fisica legata alla nicotina che
Sede del corso antifumo presso il Centro di Ricerca dell’ Istituto Ortopedico Rizzoli
58
Nel suo percorso di disintossicazione dalla nicotina, il fumatore può trovare utile
confrontarsi con altri, come ad esempio
uno psicoterapeuta o un gruppo di sostegno psicologico.
A questo proposito mi sono recata presso il Centro di Educazione alla Salute dell’
Istituto Rizzoli di Bologna, qui mi ha ricevuto la dottoressa Manuela Monti che
mi ha spiegato le fasi dei corsi e come
funzionano i trattamenti per la disintossicazione del fumo di tabacco. I corsi
sono basati su approccio integrato, in cui
vengono combinati tecniche cognitivocomportamentali, applicate in un sitting
di gruppo di sostegno (di tipo aperto), al
supporto farmacologico per ridurre l’intensità dei sintomi astinenziali (può trattarsi di sostitutivi nicotinici come cerotti
oppure di veri e propri farmaci, nel qual
caso la prescrizione viene definita insieme al proprio medico di famiglia oppure
allo specialista da cui si è eventualmente
seguiti).
E’ previsto un colloquio iniziale e una
frequenza di gruppo, articolata in una
fase intensiva di due mesi e in una fase
post-intensiva, in cui vari incontri di mantenimento sono distribuiti nei successivi
10 mesi. Nella fase intensiva, gli incontri
di gruppo hanno cadenza settimanale.
Complessivamente il corso dura un anno.
Il gruppo ha un funzionamento aperto,
prevedendo l’inserimento ogni quattro
settimane dei nuovi partecipanti: 8-10
per ogni gruppo, questo ha il vantaggio
di offrire ai partecipanti disponibilità e
supporto costante, in qualsiasi momento
del percorso di disassuefazione. Nei primi incontri, si applica la tecnica del fumo
programmato, finalizzato alla riduzione
graduale del numero di sigarette fumate, per mezzo di “compiti a casa” di automonitoraggio attraverso il diario delle
sigarette fumate. Al quarto incontro, i fumatori che risultano astinenti da almeno
24 ore possono procedere con l’utilizzo
di sostitutivi nicotinici (i cerotti, le gomme da masticare ...). Dal quinto all’ ottavo incontro si lavora sul mantenimento
dell’astensione con l’obbiettivo primario
di prevenire la ricaduta. Al nono incontro
vengono inseriti i pazienti di un nuovogruppo e il programma viene ripreso, va-
Nelle due foto in alto alcuni dei componenti del gruppo antifumo del Centro di Educazione alla
Salute degli Istituti Rizzoli di Bologna durante lo svolgimento del corso tenuto dalla dott.ssa
Manuela Monti
lorizzando l’esperienza dei partecipanti
che hanno già smesso e sono in fase di
mantenimento (Monti, 2008).
LA PSICOLOGIA DEL FUMATORE
Cosa ci fa cascare nella trappola del fumo?
Le migliaia di persone che già lo fanno.
Tutti noi pensiamo di essere padroni del
nostro percorso esistenziale, ma in realtà
il 99% di quello che siamo è un prodotto
della società nella quale siamo cresciuti,
perfino il nostro essere diversi tende ad
essere preordinato.
Fumare è la trappola più diabolica che
l’uomo con l’aiuto della natura, sia riuscito a congegniare. Il lavaggio del cervello
è il maggior ostacolo che spesso il fumatore si trova ad affrontare. La società,
i famigliari, gli amici rafforzano la nostra
dipendenza ancor più della nicotina stessa (Carr’s 2005).
Si diventa fumatori nella maggior parte
dei casi prima dei 18 anni, quasi sempre
per rispondere ad un bisogno di sicurezza e per emulare gli adulti, con la con-
59
vinzione che grazie al fumo sarà più
facile gestire le situazioni di difficoltà,
insormontabili per gli adolescenti, che
devono ancora sviluppare un senso di
identità, imparare ad accettare se stessi
e gli altri.
Oggi a distanza di anni dall’avvento del
consumo di massa di sigarette, la società incomincia a vedere il fumo in modo
diverso, non più come un qualcosa di
intrigante anche nel cinema e nella televisione, si cerca sempre più spesso di
evitare la sponsorizzazione delle sigarette.
Non potendo più sponsorizzare apertamente le sigarette, i pubblicitari trovano
comunque modi alternativi per farci recepire il messaggio.
Speriamo che funzioni anche l’altra pubblicità, quella che ci può aiutare a smettere, quella che vediamo tutti i giorni è
che abbiamo sempre sotto gli occhi: nei
pacchetti di sigarette, negli sponsor, nei
libri, in internet e in tutte le persone che
ci raccontano la loro esperienza con la disintossicazione dal fumo.
Basta cercare le scuse più banali per
continuare a fumare!
“E POI UNA SIGARETTA MI HA FREGATO”
Questa frase l’ho sentita durante il corso
per smettere di fumare al Rizzoli, la signora G racconta di una sua precedente esperienza, nella quale a causa di un’unica
sigaretta ricade nella trappola del fumo.
Molti hanno la convinzione di controllare un’unica sigaretta, uno dei maggiori
inganni a cui può andare incontro un ex
fumatore che crede o vuole credere di
poter controllare un’unica sigaretta. Nei
racconti degli ex fumatori emerge spesso
questo elemento: un’ occasione sociale,
divertente o difficile può mettere in pericolo il nostro tentativo di smettere.
Spesso sono proprio i fumatori a farci ricadere nella trappola, infatti l’ex fumatore in alcuni casi, tende a invidiare il fumatore nonostante gli svantaggi del fumo
siano ovvi e numerosi.
“Ma il lavaggio del cervello che ci ha indotto a fumare la prima sigaretta è in agguato e può farci ricadere nella trappola”
(Carr’s 2005).
Ringrazio i partecipanti del gruppo di
sostegno e la dottoressa Monti che mi
hanno aiutato a scrivere quest’articolo
parlandomi della loro esperienza.
Manuela Assilli
Bibliografia:
Monti, M. (2008) in AA. VV.: “Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale” Trento: edizioni Erickson.
Carr’s, A. (2005) “E’ facile smettere di fumare se sai
come farlo” Milano edizioni Ewi.
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UN’ AMANTE STRAORDINARIA
Un’ esperienza di malattia e di vita
Testo e fotografie di Caterina Faccia
Oggi si parla molto di handicap e di malattia e tutti sembrano sentirsi parte
di un grande talk show dove è in obbligo esprimere una opinione su cosa è
bene o male per chi soffre queste esperienze. Personalmente credo che ascoltare la loro voce sia la cosa migliore.
Fabrizio è un uomo di 50 anni, alto e
robusto, ha un passato sportivo e ne
va fiero, un giorno vent’anni fa, inspiegabilmente durante un allenamento,
un movimento particolare gli provoca la
distorsione del rachide cervicale, gli parte così l’arteria basilare
e Fabrizio cade a terra privo di sensi.
Ricoverato d’urgenza al Pronto Soccorso
la sua forte fibra reagisce e la sua immediata ripresa nasconde la reale gravità del
male a medici incauti e superficiali che,
tranquillizzandolo, lo rimandano a casa.
Il giorno dopo Fabrizio è in coma. Questa
volta il suo stato è evidente. Al capezzale
accorre la giovane moglie disperata. Sono
giorni di angoscia, durante i quali speranza e terrore si susseguono con lo stesso
ritmo con cui lo assalgono le febbri neurologiche. Poi il verdetto inesorabile “Signora ci dispiace, non c’è più nulla da fare”.
Sopra Fabrizio con la moglie e la nipotina. Sotto Fabrizio all’età di 27 anni.
Fabrizio è dato per morto e solo la
sua fisioterapista si rende conto che
non è così. Lui ora ha presente quel
momento, ricorda che avevano già
mandato a prendere i suoi vestiti.
Paralisi totale. Può muovere solo gli occhi e, proprio con gli occhi la logopedista
gli insegnerà a parlare, ma il cammino
verso una nuova vita deve fare i conti
con l’atteggiamento interiore, Fabrizio
non è più padrone del proprio corpo,
ma la mente è vivissima e lucida, come
vivere ora? Come tornare dalla moglie?
No, Fabrizio non vuole più vederla la
propria moglie, inconsciamente difende
la propria dignità, accetta solo le cure di
una sorella. Ci vorrà tempo e pazienza
perché Vita, la compagna della sua esistenza, possa tornare a stargli accanto.
Oggi Fabrizio e Vita, mi accolgono nella loro bella casa studiata per le esigenze speciali del marito. Ho chiesto loro
61
di raccontare l’esperienza straordinaria
che hanno vissuto e stanno vivendo
tutt’ora e di poter fare delle foto. E’ una
bella giornata, Fabrizio chiede di fare
una passeggiata verso il vicino Centro
Commerciale, con loro c’è la giovane
nuora e la piccola nipote di sei mesi.
Mentre andiamo pongo le mie domande a Fabrizio e lui dalla sua carrozzella
mi risponde con un sistema particolare,
indicando le lettere con gli occhi, Vita a
volte interviene, a lei bastano solo due
lettere per capire immediatamente la parola, c’è una intesa incredibile tra i due.
” E’ vero” Sorride Vita mentre accarezza
il suo Fabri “Oggi abbiamo una armonia e un legame di coppia più profondo
di quando ci siamo sposati, è frutto della nostra storia, di quello che abbiamo
perduto e di quello che abbiamo trovato. La gente forse fa fatica a capire, ma
Fabri ha tante piccole attenzioni per
Sopra fabrizio con la nipote al supermercato. Sotto Fabrizio nel parco del centro diurno.
me, nella sua situazione potrebbe essere molto egoista, tanti lo sono, invece
si preoccupa costantemente che io stia
bene e possa fare quello che desidero, ad esempio accetta senza lagnarsi il
Centro Diurno che odia, solo perché io
possa lavorare o fare un po’ di vacanza.”
Quando hanno dimesso Fabrizio nessuno dei familiare pensava che quella giovane e spensierata ragazza se lo sarebbe
portato a casa, tutti credevano che lo
avrebbe messo in un istituto. Invece lei
aveva nel frattempo trovato una incredibile forza che niente avrebbe potuto
spezzare, non la morte della amatissima
madre avvenuta proprio in quei giorni,
non il trasloco verso una casa adatta, per
fare tutto da sola, non il crescere il loro
bambino senza l’aiuto attivo del marito.
Scopro così che i due si erano sposati
giovanissimi, molto innamorati e come
tanti giovani, pieni di voglia di vivere e giocare. Il problema di fondo era
come divertirsi, bei momenti ma un po’
superficiali e così anche gli amici che,
dopo la disgrazia, si sono tutti rapidamente dileguati… se non hai una solida struttura di fondo il dolore fa paura.
Ma il dolore è davvero parte della vita ,
lo psicologo Viktor Emmanuel Frankl lo
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considera uno dei grandi cinque ineludibili significati dell’ esistenza assieme
alla nascita, la morte, il lavoro, l’amore.
Il racconto continua “Durante la malattia
qualcuno ci ha avvicinati alla trascendenza. Noi eravamo lontani le mille e
miglia e avevamo fatto battezzare nostro figlio solo per tradizione, Fabri poi
non ne voleva assolutamente sapere,
gli sembravano solo gesti e parole fintamente consolatori, per non dire dei preti, che per lui erano come il fumo negli
occhi . Io invece mi ero già lasciata catturare dalla bellezza del sentirmi amata
e soprattutto sostenuta da un Padre .
Un giorno mi sono imposta: io spingevo la carrozzella, io decidevo il percorso,
così l’ho portato di forza nella cappella
dell’ospedale. Fabri si è incantato davanti alla statua di Gesù e si è sciolto in un
pianto inarrestabile, nessuna psicoterapia sarebbe stata così potente, quell’incontro gli ha ridato la voglia di lottare.
Mi vengono in mente quelle conversio
Sopra Fabrizio con la nipote in un centro commerciale.Sotto Fabrizio con la moglie, il figlio,la
nuora e la nopote.
63
ni improvvise di intellettuali atei come
Paul Claudel o di Max Jacob. Certo la
fede non cancella il dolore, ma gli dà un
significato e soprattutto una speranza”.
Fabrizio mi dice che nella fede trova la forza di andare avanti, scherza dicendomi di
avere un’amante bellissima di nome Maria.
Gli chiedo se è felice, mi risponde che
lo è solo in parte. E’ felice di esistere e la
sua esperienza gli ha fatto scoprire nuove realtà . Oggi prova sentimenti e interessi che probabilmente non avrebbe
mai potuto conoscere diversamente.
Mi trafigge con gli occhi quando sillabando nel suo modo speciale afferma di possedere la forza e la gioia di
esistere , di avere accanto a sè persone
che ama e che lo amano e nuovi amici che non hanno paura della sofferenza
Ma c’ è anche tutta una parte di dolore che nasce dal non essere libero, dal
non poter disporre di sé, non avere la
possibilità di progettare spazi lontani
come un tempo, lui però non dispera “ Chissà …tutto è possibile…ti dirò
la Speranza non mi abbandona mai!”
64
APPENA SENTIAMO QUESTA PAROLA IN
QUALSIASI MOMENTO E IN QUALSIASI
POSTO , RICORDIAMO 22 PERSONE
CHE CORRONO PER CATTURARE SOLO
PALLA!
UNA
... SI ,
SOLO UNA PALLA!CHI
SONO QUESTE 22 PERSONE?
SONO RAGAZZI CHE FANNO
SPORT?
SONO PERSONE CHE SI CIBANO DI
QUESTO MESTIERE?
O SONO 22 SANTI CHE POSSONO PORTARE AVANTI IL DESTINO
DI UN
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PAESE?
Appena sentiamo questa parola in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo , ricordiamo 22 persone che corrono solo per
impadronirsi di una palla! ... si ,solo una palla!
Chi sono queste 22 persone?
- sono ragazzi che fanno sport?
- sono persone che si cibano di questo
mestiere?
- o sono 22 santi che possono portare
avanti il destino di un paese?
Quando ero bambina guardavo mia
mamma che era incantata... guardava gli
uomini piccoli nella scatola magica che
correvano per prendere una palla, e io da
piccola stupida, di solito le chiedevo “perche non danno ad ognuno di loro una palla”?
Bello vivere nel mondo dei bambini ...pieno di palle!
Da piccola “il fanatismo”di mia madre per
il calcio riempiva tutta la casa di un odore
di cibo bruciato, e da grande quasi sento
odore di sangue crudo che proviene da
quella stessa scatola,ormai non è più magica...troppo risse,non si gioca più.
“Cos’è questo sentimento che ti fa gridare?”
Ancora più ridicolo è il fatto che “la politica” si mischi con le palle! Il calcio è un
potente mezzo di distrazione per il po-
polo usata dalla politica, in un quasi tutti i paesi, per cui le partite sono seguite
molto più assiduamente dei processi per
corruzione dei governanti.
Che differenza c’è tra le “sedie rosse” e
le altre sedie allo stadio? Chi si siede sul
quelle “rosse”? Il calcio è un sport del popolo; il popolo si unisce in un solo colore;
allora perche ci sono diversi colori? Per
essere un buon tifoso di calcio quali caratteristiche devi possedere più di tutto?
- Essere un amante del calcio?
- Essere un ammiratore facoltoso?
- Oppure essere un uomo che ha il poterer di sedersi sulla sedia “rossa”?
Quante domande ci sono nei nostri cervelli che non riescono mai ad avere una
risposta?
T I F O S O
L’etimologia di “tifoso”, nel significato di
chi fa il tifo per una squadra o un atleta, è
controversa. La parola è entrata nei nostri
dizionari nel 1929.
La derivazione più probabile è che la voce
sia legata alla nota malattia, che si manifesta in febbri improvvise e può portare
alla morte. Il “tifo” è infatti contagioso, e
anche la passione per una squadra lo è:
il “tifoso” ha febbri altalenanti e anche
quello che sta allo stadio può infiammarsi nel suo ardore. Quando il tifo sportivo
diventa una della tante nuove malattie di
dipendenza,il caso si fa grave: ed ecco la
stupidità e la morte di qualsiasi barlume
d’intelligenza.
Quanti soldi si nascondono dietro a una
partita? Possiamo cominciare con quelli
che tagliano il prato, le pulizie del campo, i venditori dei biglietti, i ragazzi che
fanno gli striscioni, i commercianti delle
magliette, la polizia di guardia, i fotografi,
i ragazzi pieni di fumogeni nascosti nelle
mutande, i gelatai ambulanti, i giornalisti, gli scommettitori, quelli che fanno la
radiocronaca e la telecronaca e che urlano sempre. E alla fine la gente...la gente
che grida per tutti e 90 i minuti. Che noia
guardare il calcio in casa seduti sul divano con una confezione di patatine che
neanche ti fa compagnia!
Invece allo stadio... quante sedie... quante
gente... quante parol... cce.
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Perche la gente si permette di urlare e
ascoltare certi termini che vanno moltro
oltre le parolacce?
Questo comportamento mi fa ingrandire
il punto interrogativo per definire la libertà. (riformulare).
L’arbitro, questo angelo tra i demoni che
con il suo strumento fischia... e parte il
delirio. I primi 20 minuti ti senti un pò
spaesata, ma dopo parti anche tu.
Quanto è bello sfogarsi con tutta la tua
forza , urli ... urli ...urli... davanti a mille e
mille persone che a loro volta ti rispondono, anzi urlano tanto anche loro.
Lì non hanno più importanza i colori delle sedie, le persone si uniscono con un
gesto naturale, come l’onda del mare , e
sembra che abbiano tutti un potere “imbattibile”
Holaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
- Questo è entusiasmo
- Questo è colore
- Questo è lo stadio
Viva lo sport.
Testo e foto di
Mozhde Nourmohammadi
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Il viaggio continua
testo e fotografie di Julia Tikhomirova
La zona Pilastro del Quartiere San Donato, area situata nella periferia della città,
è caratterizzata da una forte presenza di
edilizia popolare e da un’alta concentrazione di residenti stranieri.
I numerosi indicatori di forte disagio sociale (denunce penali a carico di minori,
micro criminalità, consumo e spaccio di
sostanze stupefacenti) oltre a fenomeni
come l’abbandono scolastico, hanno determinato la necessità di operare concretamente nei confronti degli adolescenti,
ai quali il territorio non offriva alcuna
risposta educativa, formativa e di socializzazione. Per rispondere ad un preciso
bisogno riscontrato nel territorio nell’anno 2003 è nato un progetto rivolto agli
adolescenti e ai giovani adulti residenti al
Pilastro. Il gruppo a cui fu data la denominazione di “Katun” (la Giostra) iniziò la
propria attività con l’apertura del centro
per tre pomeriggi la settimana e la presenza di due educatori professionali.
Il progetto cerca di rispecchiare la complessità del quartiere, dove si trovano a
convivere diverse comunità, coinvolgendo ragazzi provenienti da contesti differenti. I giovani partecipanti sono per lo
più rom originari della ex Yugoslavia e
dell’Albania, i quali, in seguito alla dismissione dei campi-sosta agli inizi del 2000,
vivono attualmente nelle case popolari.
Ci sono comunque anche italiani ed africani dal Maghreb e dal Congo.
68
Nella pagina accanto e qui sopra: il Pilastro, quartiere residenziale nella periferia nord-est, fu
progettato negli 60 per soddisfare la grande richiesta di alloggi popolari per le ondate di immigrati
meridionali
I componenti del gruppo sono tutti a
forte rischio di esclusione sociale sia per
l’appartenenza etnica, sia per le loro condizioni economiche. Il progetto “Katun”
quindi punta non solo a contrastare
questo fenomeno ma a far assumere al
gruppo un ruolo di spinta nella creazione di relazioni positive nell’intera area del
Pilastro e non solo. Tra le varie metodologie proposte l’arte svolge un ruolo fondamentale. Basti pensare al progetto Icaro,
realizzato nello Spazio Giovani della Ausl
con la produzione di un musical sui temi
dell’affettività, rappresentato sia all’ex
69
“Tirò” che al circolo “La Fattoria”.
Sull’onda di quell’esperienza il gruppo,
che ha assunto per volere dei ragazzi
stessi il nome di “Katun Party”, ha iniziato
a provare regolarmente una volta alla settimana, prima al “Centro Anni Verdi” del
Pilastro e poi al “Vag61”. Fra gli obiettivi
dell’ associazione vi è quello dell’organizzazione di uno spettacolo incentrato sui
temi della cittadinanza attiva e partecipata (la cui prima prova ufficiale è stata al
teatro del centro giovanile “Barrios” di Milano), e la creazione di varie animazioni e
feste. Il percorso di crescita e di au
tonomia del gruppo verrà documentato
in un diario, di prossima pubblicazione,
elaborato collettivamente e costituito da
testi scritti ed immagini.
Dal diario di “Katun Party”: “Ci siamo,
oggi inauguriamo la sede. Forse potevamo
aspettare qualche giorno in più, forse potrebbero venire più persone… Ma è troppo
tempo ormai che stiamo aspettando…
anni. Un educatore incontra un gruppo di
ragazzetti rom di un quartiere di periferia,
li perde di vista per anni, li ritrova cresciuti,
altri progetti, altra gente a lavorarci, stesso
gruppo. Mi avevano fatto un’impressione
bella forte quando erano piccoli, scatenati, uniti, adrenalinici, fantasiosi, non sono
cambiati molto. Quindi il gruppo Katun,
quindi i soggiorni estivi, i conflitti, le prove,
i primi spettacoli… La bella notizia: “Il progetto è passato! Il viaggio continua...!”
Sotto: Pilastro, 2009. A fianco: “Katun Party”, le
prove dello spettacolo, scritto dai ragazzi, che
ha come soggetto la vita di un clandestino.
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71
72
La cena etnica di
autofinanziamento, organizzata dal
gruppo “Katun”
al centro sociale
“Vag61”, quartiere
San Donato
73
Accademia di Belle Arti di Bologna
Realizzato dagli Studenti del corso di Fotografia del Biennio Specialistico di Fotografia
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