Il soggetto ecologico di Edgar Morin
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Il soggetto ecologico di Edgar Morin
Indice Prefazione: la vita del Metodo (Edgar Morin) 7 Introduzione – Immaginazione ecologica 21 Capitolo primo Il Metodo: unire umanità e natura 33 Capitolo secondo La logica del vivente: ordine, disordine, organizzazione 51 Capitolo terzo Il soggetto vivente: un ego senza cervello 69 Capitolo quarto Il soggetto autocosciente: Homo sapiens/demens 91 Capitolo quinto Antropo-sociologia: la società vivente 111 Capitolo sesto Antropo-sociologia: il regno delle idee 127 Capitolo settimo Un soggetto per la società-mondo 139 Verso una conclusione – Scommettere sull’improbabile 151 Bibliografia 159 Introduzione – Immaginazione ecologica 29 È nel contesto di tale svolta epistemologica e biografica che Morin enuclea la nozione di soggetto vivente, al cuore di questo volume. Il tema del soggetto, dobbiamo dire, caratterizza in vario modo l’intera, feconda, opera moriniana. Ma non v’è dubbio, al contempo, che la sua attenzione per questo tema cruciale diventi riflessione esplicita e metodica, teoria del soggetto, solo in seguito alla svolta del Metodo. Possiamo anzi a buon titolo ipotizzare che la nozione di soggetto, e di soggetto vivente, costituisca il passo più originale e arrischiato dell’intera opera Il Metodo. Quello che più s’allontana, come vedremo, dal perimetro dei saperi scientifici accreditati, oltre che dal senso comune più consolidato. Quello che fa sentire Morin a un tempo «più audace e più intimidito», come egli stesso scrive lucidamente: Io devo, a ogni istante, chiedermi: ho controllato abbastanza le mie proiezioni? Ho verificato abbastanza le mie pulsioni? Mi sto inebriando e intossicando con le mie stesse fermentazioni teoriche, oppure sono troppo timoroso, troppo prudente, a proposito del soggetto, appunto? Perché è su questo capitolo del soggetto che mi sento più audace e più intimidito, perché è qui che provo l’esaltazione della scoperta e l’insicurezza del no man’s land, il desiderio dell’elogio e il timore del biasimo. (Morin, 1980 – trad. it. 2004, p. 353) Il percorso di questo libro Il lettore al quale si rivolge questo libro non è uno specialista, o non primariamente, ma un curioso, uno studente, un «praticante» delle relazioni educative e di cura della persona, che avverte l’urgenza di interrogarsi sulle profonde inquietudini, sugli smarrimenti e sulle possibili scommesse esistenziali e culturali di questo nostro turbinoso presente. Non mi inoltrerò, pertanto, nel confronto analitico tra l’argomentazione moriniana e la vasta mole degli studi che essa richiama esplicitamente o evoca implicitamente — studi biologici, psicologici, sociologici, antropologici, linguistici, filosofici, letterari e religiosi —, che per essere tenuti in conto adeguatamente richiederebbero ben altra impresa. Il libro si compone di sei capitoli, secondo un percorso argomentativo che in breve può essere tratteggiato come segue. 1. Il primo capitolo, Il Metodo, propone in chiave biografica una sintetica ricostruzione di quella profonda svolta epistemologica della fine degli 30 Il soggetto ecologico di Edgar Morin anni Sessanta, ora richiamata, dalla quale è scaturito il Morin che oggi ci è più noto, nonché la nozione chiave di soggetto vivente. 2. Il secondo capitolo, La logica del vivente, affronta le nozioni basilari dell’idea moriniana di sistema vivente, imperniata attorno alla nozione di autonomia e alla dinamica ordine/disordine/organizzazione. 3. Il terzo capitolo, Il soggetto vivente, pone in luce le attività in senso lato mentali attraverso le quali ogni essere vivente, senza bisogno di esserne cosciente, produce e riproduce la propria qualità di soggetto. 4. Il quarto capitolo, Il soggetto autocosciente, affronta la peculiarità del soggetto umano, imperniata intorno alla straordinaria complessità di un cervello altamente indeterminato, e per questo altamente creativo. 5. Il quinto capitolo, Antropo-sociologia: la società vivente integra quello precedente, discutendo l’intrinseca socialità del soggetto umano. 6. Il sesto capitolo, Antropo-sociologia: il regno delle idee, completa l’immagine moriniana del soggetto umano discutendo la nozione di noosfera, ovvero la relativa autonomia delle idee che gli esseri umani producono e riproducono senza posa. 7. Il settimo capitolo, Un soggetto per la società-mondo, porta l’attenzione sulle sfide che la nostra soggettività di creature sapiens/demens incontra in questo tempo di radicali incertezze, nel quale è in gioco la nascita incerta e travagliata di quella forma dell’organizzazione vivente del tutto nuova che chiamiamo società-mondo. Ogni capitolo del libro, come si noterà, si apre con una citazione dal volume Il paradigma perduto: che cos’è la natura umana?, pubblicato da Morin nel 1973.1 Questa scelta è frutto di due motivazioni distinte, per me intimamente unite. La prima è che quel libro può essere considerato il nitido manifesto programmatico dell’intero lavoro che Morin avrebbe intrapreso successivamente con la vasta opera Il Metodo, sopra ricordata. La seconda motivazione, più personale, è che questo mio libro non sarebbe mai nato se non avessi ancora vivo in me un ricordo preciso: il ricordo dell’emozione con la quale, in quei lontani anni Settanta, sfogliavo le pagine del Paradigma perduto, traendone un inatteso, vitale Il titolo originale è Le paradigme perdu: la nature humaine. Per semplicità continuerò tuttavia a citare il titolo dell’edizione italiana, sia per questo sia per gli altri volumi di Morin che risultino tradotti (cioè quasi tutti quelli che riporterò). 1 Il Metodo: unire umanità e natura 39 Estendere il dubbio cartesiano L’enciclopedismo del Metodo si propone di mettere in movimento la premessa immobile di quelle premesse separatiste che vigilano sulle frontiere tra i saperi: ovvero, la persuasione cartesiana che tra corpo e mente, tra cuore e ragione, tra innato e appreso, tra animale e umano, tra biologia e cultura, tra soggetto e oggetto, si dia una separazione reale originaria. Una separazione, cioè, non creata dai nostri linguaggi abituali, acriticamente dualisti, ma scolpita sulla dura roccia della realtà prima di ogni atto di conoscenza. Per Morin, a questa persuasione di origine cartesiana, fattasi abitudine di pensiero ampiamente condivisa e insieme organizzazione istituzionale dei saperi, occorre applicare il criterio metodologico del dubbio sistematico. Quel criterio basilare, cioè proprio di ogni conoscere che si voglia scientifico, il cui primo e riconosciuto promotore fu lo stesso Cartesio. Quel criterio razionale per il quale nessuna verità potrà mai considerarsi al riparo da domande irriverenti e imbarazzanti. È con lo stesso Cartesio, dunque, con il Cartesio del metodo come interrogazione permanente, che si tratta di accompagnarci oltre il dualismo di marca cartesiana sopra richiamato. Oltre la scontatezza della separazione tra soggetto e oggetto, tra corpo e mente, tra cuore e ragione, tra biologia e cultura, tra saperi scientifici e non scientifici; ma prima ancora, più in generale, oltre la persuasione che la via della conoscenza sia la via delle separazioni, delle disgiunzioni, delle parcellizzazioni specialistiche. L’ambizione espressa da Cartesio nel suo Discorso sul metodo, e cioè l’ambizione di fondare un modo di conoscere capace di «ben condurre la ragione e cercare la verità nelle scienze», rimane dunque la medesima di Morin. Quel che fa la differenza tra il Metodo di Cartesio e quello di Morin è che quest’ultimo spinge il criterio del «ben condurre la ragione» anche al di là della soglia cartesiana, estendendolo a ogni forma di conoscenza. Non soltanto a quella conoscenza che procede dall’interno di premesse istituzionalizzate in scienze disciplinari, ma anche a quella conoscenza che si occupa di analizzare come le conoscenze umane in generale — scientifiche e non, disciplinari e non — si organizzano, si autoraffigurano, si rapportano tra di loro, si suddividono storicamente compiti e competenze, e così via. Il Metodo, per Morin, comporta l’interrogazione permanente sulle basi stesse del nostro conoscere, ovvero un’incessante «conoscenza della 40 Il soggetto ecologico di Edgar Morin conoscenza», nell’accezione più ampia possibile del termine «conoscenza», non ristretta al solo territorio delle scienze: La parola metodo può avere più significati. C’è anzitutto il senso cartesiano, per il quale si tratta di un metodo «per ben condurre la ragione e cercare la verità nelle scienze». È esattamente in questo senso che assumo la parola metodo, e in più la estendo: si tratta di condurre la nostra ragione non soltanto nelle scienze, ma in tutto ciò che concerne la conoscenza, ivi compresa la conoscenza della conoscenza, e in tutto ciò che concerne le nostre relazioni con il mondo esterno, con la vita, con la società, con noi stessi. (Morin, 1990b, pp. 256-257) Il Metodo moriniano, mettendo in circolo i saperi, ambisce non a stabilire fondamenti del conoscere immunizzati contro il dubbio, finalizzati a produrre certezze, ma a mantenere aperta l’interrogazione sulle nostre stesse certezze. È un dubbio che dubita di se stesso (Morin, 1977 – trad. it. 2001, p. 11): «Il dubbio cartesiano era certo di se stesso. Il nostro dubbio dubita di se stesso». La complessità come sfida La stessa parola-maestra complessità, intorno alla quale gravita l’insieme dell’impresa del Metodo, ci richiama anzitutto a quel «bisogno di connessione» ora menzionato. Un «bisogno» che la scienza cartesiana del «chiaro e distinto» aveva escluso dal proprio statuto fondativo, subordinandolo a un altro «bisogno storico»: il bisogno moderno di separare, parcellizzare, semplificare, al fine di ottenere il controllo unilaterale sulle condizioni fisiche, biologiche e sociali della nostra esistenza. La parola complessità ci richiama al valore scientifico di numerose nozioni che sono inseparabili da un autentico sapere delle connessioni: nozioni come ambivalenza, indeterminatezza, incertezza, disordine, imprevedibilità, circolarità, singolarità irripetibile, mutua dipendenza di osservatore e osservato, e altre ancora, che la scienza del «chiaro e distinto» considerava pertinenti a forme del conoscere non scientifiche, come quelle letterarie o religiose, o a saperi debolmente scientifici, com’erano ritenute le scienze umane e sociali. Queste nozioni, fa osservare Morin, sono entrate progressivamente a pieno titolo, via via, lungo tutto il XX secolo, nei modelli scientifici di molte 52 Il soggetto ecologico di Edgar Morin vertiginosamente l’una nell’altra, la più elementare e la più complessa delle creature scaturite dall’evoluzione del vivente: il batterio e l’uomo. La chiave del batterio è nell’uomo, quella dell’uomo nel batterio. I progressi della biologia ci hanno fatto scoprire che gli esseri unicellulari dispongono fondamentalmente e in modo inequivoco della qualità di individui viventi. Possiamo e dobbiamo aggiungere che essi dispongono ipso facto della qualità di soggetti. (Morin, 1980 – trad. it. 2004, p. 235) Immergendosi in questa spirale di rispecchiamento reciproco, Morin si vincola a cercare un linguaggio che sappia raccontare unitariamente tanto la differenza tra il batterio e l’essere umano quanto la loro somiglianza. Un linguaggio che non costringa a raccontare la nascita della soggettività umana come effetto di un qualche intervento extranaturale ad hoc, quale la volontà divina evocata da Cartesio o altro ancora. A questa mossa Morin perviene per mero rigore logico. Se la trova fra le mani, potremmo dire, come una mossa obbligata, ovvia implicazione della svolta «californiana» richiamata nel capitolo precedente. Ovvia implicazione, cioè, del progetto di una scienza unitaria capace di dar conto del nostro esser parte, in quanto esseri umani, insieme a tutte le altre creature viventi, di un più vasto tutto ecologicamente interconnesso. Già in Marx, osserva Morin, troviamo abbozzato questo progetto, compendiato in una nota frase dell’Introduzione alla critica dell’economia politica: «L’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia» (Marx, 1857 – trad. it. 1969, p. 193). La mossa moriniana è però più complessa di quella marxiana. Non tanto perché, banalmente, sia più problematico riuscire a riconoscersi in un batterio piuttosto che in una scimmia. Quanto perché la mossa moriniana aggiunge a quella marxiana anche il suo inverso: non soltanto la comprensione del vivente non umano (batterio, scimmia) attraverso quel che sappiamo dell’uomo, ma anche viceversa. In un movimento che diviene così circolare, o come dicevamo, di rispecchiamento reciproco: Occorre quindi prolungare la formula marxiana sulla scimmia con la proposizione contraria ma complementare, collegando ad anello entrambe le proposizioni: la chiave dell’anatomia della scimmia è nell’anatomia dell’uomo perché la chiave dell’anatomia dell’uomo è nell’anatomia della scimmia. (Morin, 1980 – trad. it. 2004, p. 235) La logica del vivente: ordine, disordine, organizzazione 53 Negli anni della maturità, peraltro, Marx avrebbe orientato la sua formidabile ricerca lungo un percorso interessato a evidenziare le differenze uomo-animale, più che non le relative analogie. Il seguente, celebre passo del Capitale è in proposito quanto mai chiaro: Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. (Marx, 1867 – trad. it. 1971, p. 212) Per Morin, diversamente da quanto è sotteso a questo passo marxiano, le differenze e le analogie tra noi e le altre creature viventi non vanno contrapposte, ma vanno comprese assieme. Attraverso un metodo che, come abbiamo già ricordato, «riveli e non nasconda i legami, le articolazioni, le solidarietà, le implicazioni, le connessioni, le interdipendenze, le complessità» (1977 – trad. it. 2001, p. 11). Ed è appunto in questa prospettiva che Morin si trova sospinto dal progetto stesso del Metodo in quella no man’s land, come egli stesso la definisce, nella quale non gli resta ormai che arrischiare la mossa più azzardata: la mossa del soggetto vivente. O anche: del soggetto biologico. L’attribuzione, in breve, della qualità di soggetto a ciascuna singola creatura vivente, inclusa la più distante da noi, quale, esemplarmente, il batterio Escherichia coli: Se uomo e scimmia sono allo stesso livello, c’è invece un abisso vertiginoso tra Escherichia coli e Homo sapiens. Ma ci appare evidente che, dal punto di vista concettuale, la chiave dell’individuo-soggetto batterico è nell’individuo-soggetto umano; e ci appare evolutivamente logico che la chiave dell’individuo-soggetto umano sia nell’individuo-soggetto batterico. Occorre quindi tentare di legare queste due proposizioni in un anello produttore di conoscenza. (Morin, 1980 – trad. it. 2004, p. 235) Con timore e tremore Nel Paradigma perduto, dove sono poste le basi essenziali per quello che sarà Il Metodo, la parola soggetto non è però neppure accennata. E ancora nel primo volume del Metodo, dobbiamo dire, La natura della natura, uscito quattro anni dopo, l’azzardo del soggetto biologico è sostanzialmente assente. La pur nitida riflessione moriniana sulle complesse proprietà del vivente Il soggetto vivente: un ego senza cervello 73 quel che vediamo germogliare nell’impuro soggetto moriniano. Un soggetto fatto di ordine e di disordine, di sublime e di effimero, di assoggettamento a più vaste appartenenze e di imprevedibili slanci creativi. Computo: le ragioni del soggetto vivente Riconoscere in ogni creatura vivente, e non soltanto nell’essere umano, un individuo-soggetto comporta che in ogni creatura vivente sia riconoscibile una creatura a suo modo pensante. E naturalmente, per le creature viventi non umane, ciò comporta che si riconoscano forme del pensare diverse dal cogito propriamente umano. Diverse, cioè, da quelle del pensiero cosciente. Ragioni del corpo, potremmo dire giocando con le parole di Pascal. E ancor più estensivamente: ragioni dell’organizzazione vivente. Intelligenza vivente. Ragioni che obbediscono a grammatiche differenti da quelle della ragione umana cosciente. Non incompatibili, beninteso — come vedremo meglio nel prossimo capitolo —, ma semplicemente, appunto, differenti. Irriducibili a quelle che strutturano l’atto autocosciente del cogito. Sono le ragioni che Morin, formulando un ulteriore, specifico principio esplicativo, riassume nel termine computo. Un termine scopertamente ricavato, per assonanza fonetica, dal confronto critico con il cartesiano cogito, e concettualmente ispirato a quel variegato insieme di studi che gravita intorno al termine computazione (computer science, cibernetica, informatica). Nel suo significato più diffuso, il termine computazione indica il processo di elaborazione delle informazioni; un processo che per poter essere tecnicamente affidabile richiede di funzionare in modo rigorosamente asoggettivo, ovvero di obbedire a regole di calcolo logico-formali anonime, riproducibili anche artificialmente. Il termine moriniano computo riferisce invece la nozione di intelligenza computazionale esclusivamente alle proprietà del vivente;3 in quell’accezione della parola vivente, discussa nel primo Morin, come del resto anche von Fœrster, ricollega le sue riflessioni sul computo vivente alle intuizioni anticipatrici di Jean Piaget sulle analogie tra l’organizzazione dei sistemi viventi e l’organizzazione dei sistemi cognitivi (si vedano Ceruti, 1986; 1989). Inoltre, egli riprende quegli indirizzi della cognitive science che, orientati in questa direzione piagetiana, hanno sostenuto il carattere pienamente conoscitivo dei sistemi viventi (si vedano in particolare Maturana e Varela, 1972; 1980; 1985). 3 74 Il soggetto ecologico di Edgar Morin capitolo, che comporta la messa in valore dell’autonomia e della singolarità di ciascun soggetto agente.4 Il termine latino computo, al quale ricorre Morin per sottolineare la specificità della computazione vivente, così come abbiamo visto per altre nozioni (autos, genos, phainon, ecc.), evoca una radice di senso lontana: il latino computo, nato dall’unione del prefisso cum con il verbo puto.5 In questa accezione, più ampia di quella meramente «artificialista», associata al solo calcolo logico-matematico, il termine computo indica la capacità di «considerare delle cose assieme», come ha scritto il grande cibernetico Heinz von Fœrster (1981). Ovvero l’abilità, a pieno titolo intelligente, di tracciare distinzioni, connettere, comparare, valutare, supporre e naturalmente, attimo dopo attimo, decidere tra diverse alternative messe a confronto. Il computare vivente, sottolineava già lo stesso von Fœrster, non potrebbe mai rispettare in pieno il «banale» requisito di prevedibilità che è delle macchine artificiali.6 Queste ultime, per quanto elaborate possano essere, sono costruite per risolvere i nostri problemi, e devono pertanto obbedire a comandi perfettamente ripetibili, il cui referente siamo noi esseri umani; mentre le creature viventi, dai batteri agli esseri umani, sono impegnate momento per momento a cercare di risolvere i loro, di problemi: Le macchine risolvono i nostri problemi e non i loro, diceva von Fœrster. Il batterio computa per la sua organizzazione e per la sua produzione e per la sua riproduzione; il batterio è un solving problems machine che tratta i suoi problemi. (Morin, 1986 – trad. it. 2007, p. 43) Analogamente, per Morin: L’essere cellulare è un essere computante [...]; il più umile degli esseri cellulari è capace di computare integralmente la propria organizzazione e parzialmente i dati del suo ambiente esterno. (Morin, 1980 – trad. it. 2004, p. 186) Cornelius Castoriadis (1990) osserva che l’idea moriniana di computo è anticipata, nel Seicento, da Thomas Hobbes, che considerava il pensiero come capacità di calcolo (reckoning), incontrando in questo, successivamente, il plauso di Gottfried Leibnitz. 5 Il verbo latino puto significa calcolare, contare, computare, stimare, giudicare, tenere, ritenere, pregiare, considerare, ponderare, esaminare, pensare, credere. 6 «Una macchina banale [trivial] è caratterizzata da una relazione uno-a-uno tra il suo “input” (stimolo, causa) e il suo “output” (risposta, effetto) [...]. Poiché questa relazione è determinata una volta per tutte, si tratta di un sistema deterministico; e [...] prevedibile». (von Fœrster, 1981 – trad. it. 1987 p. 128). Per von Fœrster, l’essere vivente è da considerare, per converso, «non banale» (non-trivial machine). 4 Antropo-sociologia: la società vivente 119 che a un primo sguardo possono ricordare il rapporto strettissimo esistente tra cellule e organismo. Pensiamo, in particolare, alle forme societarie di tipo tribale, o fortemente comunitario, o totalitario; oppure a quei sottoinsiemi della società — eserciti, manicomi, società segrete, conventi, ecc. — che assumono caratteristiche totalizzanti, in cui la vita dei singoli individui è subordinata all’osservanza rigorosa di norme sopraindividuali. Tuttavia, neppure queste forme societarie sono riconducibili al modello «organicista» per le ragioni che abbiamo riassunto sopra, e che vengono così esposte da Morin: Come l’essere individuale, l’essere sociale è auto-eco-organizzatore; ma non è riconducibile a una specie, ed è composto da individui. Mentre gli organismi individuali sono costituiti da associazioni di cellule, le società sono costituite da individui dotati di un sistema cerebrale o pseudo-cerebrale (come le formiche), di un sistema di riproduzione sessuale, e di mezzi di locomozione che assicurano una certa autonomia nello spazio. Ciò che differenzia le società dagli organismi non è né la divisione del lavoro, né la specializzazione, né la gerarchia, né la comunicazione delle informazioni, che sono presenti in entrambi, ma la complessità degli individui. Una società ha bisogno di individui evoluti. (Morin, 2001 – trad. it. 2002, p. 145) Per Morin, gli «individui evoluti» di cui una società abbisogna per poter vivere non sono mai riconducibili deterministicamente al tutto di cui sono parte. Ogni società, scrive in Sociologia, emerge e riemerge senza posa dalle fitte intercomunicazioni tra gli individui che la compongono: La società è prodotta dalle interazioni tra gli individui, e non esisterebbe senza di essi; e tuttavia retroagisce sugli individui stessi per produrli in quanto individui umani, in quanto arreca loro la cultura, il linguaggio, i concetti, l’educazione, la sicurezza, ecc. In altre parole, noi produciamo una società che ci produce. Noi facciamo parte della società che fa parte di noi. Ecco il nodo gordiano molto interessante, che un pensiero mutilante non può che fuggire. Non solo noi siamo in un luogo particolare della società, ma anche la società, in quanto totalità singolare, è in noi. (Morin, 1994c – trad. it. 1985, p. 98) La libertà, la pietà, l’amore Per comprendere la speciale natura del soggetto umano, non ci basta dunque cogliere la complessa dialogica del singolo cervello/mente individuale. Occorre anche coglierne il carattere intrinsecamente sociale: 120 Il soggetto ecologico di Edgar Morin reintegrare l’essere umano nella società che permette alla computazione del suo cervello di svilupparsi in cogitazione, attraverso il linguaggio e i saperi in esso immagazzinati. (Morin, 1986 – trad. it. 2007, p. 90) La straordinaria libertà del soggetto sapiens/demens dai determinismi genetici lo rende infatti al tempo stesso profondamente dipendente dal legame sociale. Quella giovanilizzazione e quell’incompiutezza che ne fanno il più creativo degli esseri viventi lo rendono al tempo stesso quanto mai bisognoso di reciprocità e di interdipendenze. Quanto mai bisognoso di conferme e riconferme sociali delle sue mappe della realtà, delle sue sensazioni, dei suoi pensieri, financo delle sue percezioni più elementari. Neppure la mera fisiologia del suo apparato cerebrale potrebbe semplicemente funzionare, se non fosse parte integrante di una più ampia comunità intercerebrale; nodo di una più vasta rete comunicativa di cervelli/mente. La nostra autonomia soggettiva e la nostra dipendenza sociale, lungi dall’escludersi reciprocamente, sono indispensabili l’una all’altra. L’una irriducibile all’altra, l’una bisognosa dell’altra, in «opposizione complementare»: Il divenire-soggetto non può svilupparsi nell’esclusione di uno dei due termini della coppia individuo/società. Non può svilupparsi fuori dell’opposizione complementare tra egocentrismo [...] e sociocentrismo. (Morin, 1980 – trad. it. 2004, p. 357) La condizione di singolarità irriducibile del soggetto, che in noi creature sapiens/demens giunge a toccare il limite della solitudine esistenziale più estrema, è allo stesso tempo inguaribile aspirazione a compiersi attraverso la relazione con gli altri. A rispecchiarsi senza posa nei propri simili. A dare vita a un senso comune, fatto di credenze, rappresentazioni e narrazioni collettive. A condividere intensamente con altri le proprie gioie e le proprie sofferenze, le proprie speranze e le proprie disperazioni — condizione inscindibilmente solitaire/solidaire, per dirla con Albert Camus.5 Molto a lungo, nella storia umana, la tensione oppositivo-complementare tra soggettività individuale e appartenenza sociale si è risolta con il Così sì conclude il racconto di Camus Giona o l’artista al lavoro: «Guardava la tela, completamente bianca, al centro della quale Giona aveva soltanto scritto, in piccolissimi caratteri, una parola che si poteva decifrare, ma non si sapeva se bisognasse leggere solitaire o solidaire» (Camus, 1957 – trad. it. 2000, p. 1199). 5 156 Il soggetto ecologico di Edgar Morin e il divenire dei più vasti sistemi sociali e culturali con i quali coevolviamo, all’interno dell’ancor più vasto ecosistema terrestre. Società-mondo La società-mondo che sta nascendo mette in relazione diretta una moltitudine crescente di persone di tutti i continenti, attraverso reti di scambio e di comunicazione sempre più vaste, fitte e veloci. Le immette in uno spazio planetario unificato privo di un centro organizzatore, nel quale si vanno sfarinando certezze secolari e millenarie. La vorticosa accelerazione dell’era planetaria inaugurata appena alcuni secoli fa, dopo lunghi millenni di diaspore, di chiusure in piccole o grandi comunità autoconfinate, sta mettendo al mondo un nuovo tipo di legame sociale. Un tipo di società diverso da quelli che ci sono più familiari, territorialmente confinati e dotati di un centro organizzatore certo e stabile (Stato). Noi soggetti della nascente società-mondo viviamo ormai stabilmente in un orizzonte sempre più incerto e imprevedibile, in attesa ormai scontata di mutamenti repentini e capricciosi nelle regole dei giochi, piccoli e grandi, che stiamo giocando. Senza poter contare, come la piccola Alice, con la quale ci è piaciuto iniziare questo cammino, sulla porticina magica che ci riporterà prima o poi al rassicurante Paese della Certezza. Ma questa nostra incertezza endemica non è soltanto l’effetto di un declino, di un’involuzione, di un crollo minaccioso. Senza cessare di essere anche tutto questo, la radicale incertezza in cui siamo trascinati è allo stesso tempo il segno di un nuovo inizio che è già in noi e tra noi. Un nuovo inizio per l’umanità, per la prima volta unificata in una sola, vasta società, che si va realizzando attraverso le nostre stesse interazioni quotidiane più elementari. Attraverso i nostri pensieri e le nostre emozioni, le nostre gioie e le nostre sofferenze, le nostre disperazioni e le nostre speranze. Ecologia dell’azione Sapremo comprendere, per dirla con le parole di Elias Canetti poste a epigrafe di questo libro, che «la terra è divenuta proprio un cuore e che batterà [...] il battito della terra divenuta una cosa sola»? Verso una conclusione 157 Non possiamo sapere la risposta. Sappiamo però che soltanto una profonda conversione ecologica dei nostri saperi, dei nostri pensieri e delle nostre sensibilità sarà in grado di favorire l’emergenza delle necessarie risorse creative. Soltanto la «messa in circolo» dei frammenti che il pensiero semplificatore e dualistico ha sistematicamente parcellizzato, separando i saperi naturalistici da quelli socioantropologici, immolando l’incerto, l’imprevedibile e il singolare sull’altare del certo, del prevedibile e dell’universale, può aiutarci a comprendere la portata del compito che l’affacciarsi della società-mondo ci porta tra le mani. Il compito di ripensare il nostro divenire soggetti, per la prima volta nella storia della specie, attraverso relazioni interpersonali, sociali, ecologiche, che hanno come scenario quotidiano l’intero pianeta Terra. Che già stanno facendo della Terra un’unica comunità di destino. Soltanto una profonda conversione ecologica, allo stesso tempo, dei nostri modi di agire e interagire, sarà in grado di portarci tra le mani nuove modalità d’azione e d’interazione. Riconoscere la follia che si annida nella logica del pilotaggio unilaterale sui mondi sociali e viventi di cui siamo parte, che ancora permea di sé tanto senso comune tecnico-scientifico e tecnicopolitico, non è rinunciare a qualsiasi possibilità di azione e d’interazione. È aprirsi, per Morin, a nuove possibilità, altrimenti invisibili: le possibilità del doppio pilotaggio: «Seguire la natura che ci guida […], guidare la natura che noi seguiamo». Nelle nostre relazioni con la natura, così come in ciascuna altra delle relazioni interattive e simboliche che ci troviamo momento per momento a «danzare»: io/altro, individuo/società, individuo/noosfera, umanità/natura, civiltà/barbarie, certezza/incertezza… La scommessa Dovremo saperci educare, gli uni gli altri, a sapere che non elimineremo l’incertezza dalle nostre vite, ma che è possibile riconoscerne le potenzialità generative. Che è possibile coltivare una speranza che apprenda a essere amica dell’incerto, dell’inatteso, dell’improbabile. Che ci aiuti a riconoscere nella nostra profonda incertezza quotidiana i segni di possibili nuovi inizi già in atto. E i segni antichi, insieme, della nostra incompiutezza creativa, di quella antica «ferita originaria» dalla quale scaturiscono le nostre ottusità come le