Il soggetto ecologico di Edgar Morin

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Il soggetto ecologico di Edgar Morin
Indice
Prefazione: la vita del Metodo (Edgar Morin)
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Introduzione – Immaginazione ecologica
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Capitolo primo
Il Metodo: unire umanità e natura
33
Capitolo secondo
La logica del vivente: ordine, disordine, organizzazione
51
Capitolo terzo
Il soggetto vivente: un ego senza cervello
69
Capitolo quarto
Il soggetto autocosciente: Homo sapiens/demens
91
Capitolo quinto
Antropo-sociologia: la società vivente
111
Capitolo sesto
Antropo-sociologia: il regno delle idee
127
Capitolo settimo
Un soggetto per la società-mondo
139
Verso una conclusione – Scommettere sull’improbabile
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Bibliografia
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Introduzione – Immaginazione ecologica
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È nel contesto di tale svolta epistemologica e biografica che Morin
enuclea la nozione di soggetto vivente, al cuore di questo volume. Il tema
del soggetto, dobbiamo dire, caratterizza in vario modo l’intera, feconda,
opera moriniana. Ma non v’è dubbio, al contempo, che la sua attenzione
per questo tema cruciale diventi riflessione esplicita e metodica, teoria del
soggetto, solo in seguito alla svolta del Metodo. Possiamo anzi a buon titolo
ipotizzare che la nozione di soggetto, e di soggetto vivente, costituisca il
passo più originale e arrischiato dell’intera opera Il Metodo. Quello che più
s’allontana, come vedremo, dal perimetro dei saperi scientifici accreditati,
oltre che dal senso comune più consolidato. Quello che fa sentire Morin a un
tempo «più audace e più intimidito», come egli stesso scrive lucidamente:
Io devo, a ogni istante, chiedermi: ho controllato abbastanza le mie proiezioni? Ho verificato abbastanza le mie pulsioni? Mi sto inebriando e intossicando
con le mie stesse fermentazioni teoriche, oppure sono troppo timoroso, troppo
prudente, a proposito del soggetto, appunto? Perché è su questo capitolo del
soggetto che mi sento più audace e più intimidito, perché è qui che provo l’esaltazione della scoperta e l’insicurezza del no man’s land, il desiderio dell’elogio e
il timore del biasimo. (Morin, 1980 – trad. it. 2004, p. 353)
Il percorso di questo libro
Il lettore al quale si rivolge questo libro non è uno specialista, o non
primariamente, ma un curioso, uno studente, un «praticante» delle relazioni
educative e di cura della persona, che avverte l’urgenza di interrogarsi sulle
profonde inquietudini, sugli smarrimenti e sulle possibili scommesse esistenziali e culturali di questo nostro turbinoso presente. Non mi inoltrerò,
pertanto, nel confronto analitico tra l’argomentazione moriniana e la vasta
mole degli studi che essa richiama esplicitamente o evoca implicitamente
— studi biologici, psicologici, sociologici, antropologici, linguistici, filosofici, letterari e religiosi —, che per essere tenuti in conto adeguatamente
richiederebbero ben altra impresa.
Il libro si compone di sei capitoli, secondo un percorso argomentativo
che in breve può essere tratteggiato come segue.
1. Il primo capitolo, Il Metodo, propone in chiave biografica una sintetica
ricostruzione di quella profonda svolta epistemologica della fine degli
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Il soggetto ecologico di Edgar Morin
anni Sessanta, ora richiamata, dalla quale è scaturito il Morin che oggi
ci è più noto, nonché la nozione chiave di soggetto vivente.
2. Il secondo capitolo, La logica del vivente, affronta le nozioni basilari
dell’idea moriniana di sistema vivente, imperniata attorno alla nozione
di autonomia e alla dinamica ordine/disordine/organizzazione.
3. Il terzo capitolo, Il soggetto vivente, pone in luce le attività in senso lato
mentali attraverso le quali ogni essere vivente, senza bisogno di esserne
cosciente, produce e riproduce la propria qualità di soggetto.
4. Il quarto capitolo, Il soggetto autocosciente, affronta la peculiarità del
soggetto umano, imperniata intorno alla straordinaria complessità di
un cervello altamente indeterminato, e per questo altamente creativo.
5. Il quinto capitolo, Antropo-sociologia: la società vivente integra quello
precedente, discutendo l’intrinseca socialità del soggetto umano.
6. Il sesto capitolo, Antropo-sociologia: il regno delle idee, completa l’immagine moriniana del soggetto umano discutendo la nozione di noosfera,
ovvero la relativa autonomia delle idee che gli esseri umani producono
e riproducono senza posa.
7. Il settimo capitolo, Un soggetto per la società-mondo, porta l’attenzione
sulle sfide che la nostra soggettività di creature sapiens/demens incontra in
questo tempo di radicali incertezze, nel quale è in gioco la nascita incerta
e travagliata di quella forma dell’organizzazione vivente del tutto nuova
che chiamiamo società-mondo.
Ogni capitolo del libro, come si noterà, si apre con una citazione
dal volume Il paradigma perduto: che cos’è la natura umana?, pubblicato
da Morin nel 1973.1 Questa scelta è frutto di due motivazioni distinte,
per me intimamente unite. La prima è che quel libro può essere considerato il nitido manifesto programmatico dell’intero lavoro che Morin
avrebbe intrapreso successivamente con la vasta opera Il Metodo, sopra
ricordata. La seconda motivazione, più personale, è che questo mio libro
non sarebbe mai nato se non avessi ancora vivo in me un ricordo preciso: il ricordo dell’emozione con la quale, in quei lontani anni Settanta,
sfogliavo le pagine del Paradigma perduto, traendone un inatteso, vitale
Il titolo originale è Le paradigme perdu: la nature humaine. Per semplicità continuerò tuttavia a citare
il titolo dell’edizione italiana, sia per questo sia per gli altri volumi di Morin che risultino tradotti
(cioè quasi tutti quelli che riporterò).
1
Il Metodo: unire umanità e natura
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Estendere il dubbio cartesiano
L’enciclopedismo del Metodo si propone di mettere in movimento la
premessa immobile di quelle premesse separatiste che vigilano sulle frontiere
tra i saperi: ovvero, la persuasione cartesiana che tra corpo e mente, tra cuore
e ragione, tra innato e appreso, tra animale e umano, tra biologia e cultura,
tra soggetto e oggetto, si dia una separazione reale originaria. Una separazione, cioè, non creata dai nostri linguaggi abituali, acriticamente dualisti, ma
scolpita sulla dura roccia della realtà prima di ogni atto di conoscenza.
Per Morin, a questa persuasione di origine cartesiana, fattasi abitudine
di pensiero ampiamente condivisa e insieme organizzazione istituzionale
dei saperi, occorre applicare il criterio metodologico del dubbio sistematico.
Quel criterio basilare, cioè proprio di ogni conoscere che si voglia scientifico,
il cui primo e riconosciuto promotore fu lo stesso Cartesio. Quel criterio
razionale per il quale nessuna verità potrà mai considerarsi al riparo da
domande irriverenti e imbarazzanti.
È con lo stesso Cartesio, dunque, con il Cartesio del metodo come
interrogazione permanente, che si tratta di accompagnarci oltre il dualismo
di marca cartesiana sopra richiamato. Oltre la scontatezza della separazione
tra soggetto e oggetto, tra corpo e mente, tra cuore e ragione, tra biologia
e cultura, tra saperi scientifici e non scientifici; ma prima ancora, più in
generale, oltre la persuasione che la via della conoscenza sia la via delle
separazioni, delle disgiunzioni, delle parcellizzazioni specialistiche.
L’ambizione espressa da Cartesio nel suo Discorso sul metodo, e cioè
l’ambizione di fondare un modo di conoscere capace di «ben condurre la
ragione e cercare la verità nelle scienze», rimane dunque la medesima di
Morin. Quel che fa la differenza tra il Metodo di Cartesio e quello di Morin
è che quest’ultimo spinge il criterio del «ben condurre la ragione» anche al
di là della soglia cartesiana, estendendolo a ogni forma di conoscenza. Non
soltanto a quella conoscenza che procede dall’interno di premesse istituzionalizzate in scienze disciplinari, ma anche a quella conoscenza che si occupa
di analizzare come le conoscenze umane in generale — scientifiche e non,
disciplinari e non — si organizzano, si autoraffigurano, si rapportano tra di
loro, si suddividono storicamente compiti e competenze, e così via.
Il Metodo, per Morin, comporta l’interrogazione permanente sulle
basi stesse del nostro conoscere, ovvero un’incessante «conoscenza della
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Il soggetto ecologico di Edgar Morin
conoscenza», nell’accezione più ampia possibile del termine «conoscenza»,
non ristretta al solo territorio delle scienze:
La parola metodo può avere più significati. C’è anzitutto il senso cartesiano,
per il quale si tratta di un metodo «per ben condurre la ragione e cercare la verità
nelle scienze». È esattamente in questo senso che assumo la parola metodo, e in
più la estendo: si tratta di condurre la nostra ragione non soltanto nelle scienze,
ma in tutto ciò che concerne la conoscenza, ivi compresa la conoscenza della
conoscenza, e in tutto ciò che concerne le nostre relazioni con il mondo esterno,
con la vita, con la società, con noi stessi. (Morin, 1990b, pp. 256-257)
Il Metodo moriniano, mettendo in circolo i saperi, ambisce non a
stabilire fondamenti del conoscere immunizzati contro il dubbio, finalizzati
a produrre certezze, ma a mantenere aperta l’interrogazione sulle nostre
stesse certezze. È un dubbio che dubita di se stesso (Morin, 1977 – trad. it.
2001, p. 11): «Il dubbio cartesiano era certo di se stesso. Il nostro dubbio
dubita di se stesso».
La complessità come sfida
La stessa parola-maestra complessità, intorno alla quale gravita l’insieme
dell’impresa del Metodo, ci richiama anzitutto a quel «bisogno di connessione» ora menzionato. Un «bisogno» che la scienza cartesiana del «chiaro
e distinto» aveva escluso dal proprio statuto fondativo, subordinandolo a
un altro «bisogno storico»: il bisogno moderno di separare, parcellizzare,
semplificare, al fine di ottenere il controllo unilaterale sulle condizioni
fisiche, biologiche e sociali della nostra esistenza.
La parola complessità ci richiama al valore scientifico di numerose
nozioni che sono inseparabili da un autentico sapere delle connessioni:
nozioni come ambivalenza, indeterminatezza, incertezza, disordine, imprevedibilità, circolarità, singolarità irripetibile, mutua dipendenza di
osservatore e osservato, e altre ancora, che la scienza del «chiaro e distinto»
considerava pertinenti a forme del conoscere non scientifiche, come quelle
letterarie o religiose, o a saperi debolmente scientifici, com’erano ritenute
le scienze umane e sociali.
Queste nozioni, fa osservare Morin, sono entrate progressivamente a
pieno titolo, via via, lungo tutto il XX secolo, nei modelli scientifici di molte
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Il soggetto ecologico di Edgar Morin
vertiginosamente l’una nell’altra, la più elementare e la più complessa delle
creature scaturite dall’evoluzione del vivente: il batterio e l’uomo.
La chiave del batterio è nell’uomo, quella dell’uomo nel batterio. I progressi
della biologia ci hanno fatto scoprire che gli esseri unicellulari dispongono
fondamentalmente e in modo inequivoco della qualità di individui viventi.
Possiamo e dobbiamo aggiungere che essi dispongono ipso facto della qualità
di soggetti. (Morin, 1980 – trad. it. 2004, p. 235)
Immergendosi in questa spirale di rispecchiamento reciproco, Morin
si vincola a cercare un linguaggio che sappia raccontare unitariamente tanto
la differenza tra il batterio e l’essere umano quanto la loro somiglianza. Un
linguaggio che non costringa a raccontare la nascita della soggettività umana
come effetto di un qualche intervento extranaturale ad hoc, quale la volontà
divina evocata da Cartesio o altro ancora.
A questa mossa Morin perviene per mero rigore logico. Se la trova fra
le mani, potremmo dire, come una mossa obbligata, ovvia implicazione della
svolta «californiana» richiamata nel capitolo precedente. Ovvia implicazione,
cioè, del progetto di una scienza unitaria capace di dar conto del nostro
esser parte, in quanto esseri umani, insieme a tutte le altre creature viventi,
di un più vasto tutto ecologicamente interconnesso.
Già in Marx, osserva Morin, troviamo abbozzato questo progetto,
compendiato in una nota frase dell’Introduzione alla critica dell’economia
politica: «L’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia»
(Marx, 1857 – trad. it. 1969, p. 193).
La mossa moriniana è però più complessa di quella marxiana. Non
tanto perché, banalmente, sia più problematico riuscire a riconoscersi in un
batterio piuttosto che in una scimmia. Quanto perché la mossa moriniana
aggiunge a quella marxiana anche il suo inverso: non soltanto la comprensione
del vivente non umano (batterio, scimmia) attraverso quel che sappiamo
dell’uomo, ma anche viceversa. In un movimento che diviene così circolare,
o come dicevamo, di rispecchiamento reciproco:
Occorre quindi prolungare la formula marxiana sulla scimmia con la
proposizione contraria ma complementare, collegando ad anello entrambe le
proposizioni: la chiave dell’anatomia della scimmia è nell’anatomia dell’uomo
perché la chiave dell’anatomia dell’uomo è nell’anatomia della scimmia. (Morin,
1980 – trad. it. 2004, p. 235)
La logica del vivente: ordine, disordine, organizzazione
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Negli anni della maturità, peraltro, Marx avrebbe orientato la sua
formidabile ricerca lungo un percorso interessato a evidenziare le differenze
uomo-animale, più che non le relative analogie. Il seguente, celebre passo
del Capitale è in proposito quanto mai chiaro:
Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape
fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma
ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il
fatto che egli ha costruito la cel­letta nella sua testa prima di costruirla in cera.
(Marx, 1867 – trad. it. 1971, p. 212)
Per Morin, diversamente da quanto è sotteso a questo passo marxiano,
le differenze e le analogie tra noi e le altre creature viventi non vanno contrapposte, ma vanno comprese assieme. Attraverso un metodo che, come abbiamo
già ricordato, «riveli e non nasconda i legami, le articolazioni, le solidarietà, le
implicazioni, le connessioni, le interdipendenze, le complessità» (1977 – trad.
it. 2001, p. 11). Ed è appunto in questa prospettiva che Morin si trova sospinto
dal progetto stesso del Metodo in quella no man’s land, come egli stesso la definisce, nella quale non gli resta ormai che arrischiare la mossa più azzardata:
la mossa del soggetto vivente. O anche: del soggetto biologico. L’attribuzione,
in breve, della qualità di soggetto a ciascuna singola creatura vivente, inclusa la
più distante da noi, quale, esemplarmente, il batterio Escherichia coli:
Se uomo e scimmia sono allo stesso livello, c’è invece un abisso vertiginoso
tra Escherichia coli e Homo sapiens. Ma ci appare evidente che, dal punto di vista
concettuale, la chiave dell’individuo-soggetto batterico è nell’individuo-soggetto
umano; e ci appare evolutivamente logico che la chiave dell’individuo-soggetto
umano sia nell’individuo-soggetto batterico. Occorre quindi tentare di legare
queste due proposizioni in un anello produttore di conoscenza. (Morin, 1980
– trad. it. 2004, p. 235)
Con timore e tremore
Nel Paradigma perduto, dove sono poste le basi essenziali per quello
che sarà Il Metodo, la parola soggetto non è però neppure accennata. E ancora
nel primo volume del Metodo, dobbiamo dire, La natura della natura, uscito
quattro anni dopo, l’azzardo del soggetto biologico è sostanzialmente assente.
La pur nitida riflessione moriniana sulle complesse proprietà del vivente
Il soggetto vivente: un ego senza cervello
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quel che vediamo germogliare nell’impuro soggetto moriniano. Un soggetto
fatto di ordine e di disordine, di sublime e di effimero, di assoggettamento
a più vaste appartenenze e di imprevedibili slanci creativi.
Computo: le ragioni del soggetto vivente
Riconoscere in ogni creatura vivente, e non soltanto nell’essere umano,
un individuo-soggetto comporta che in ogni creatura vivente sia riconoscibile
una creatura a suo modo pensante. E naturalmente, per le creature viventi
non umane, ciò comporta che si riconoscano forme del pensare diverse dal
cogito propriamente umano. Diverse, cioè, da quelle del pensiero cosciente.
Ragioni del corpo, potremmo dire giocando con le parole di Pascal. E ancor
più estensivamente: ragioni dell’organizzazione vivente. Intelligenza vivente.
Ragioni che obbediscono a grammatiche differenti da quelle della ragione
umana cosciente. Non incompatibili, beninteso — come vedremo meglio
nel prossimo capitolo —, ma semplicemente, appunto, differenti. Irriducibili
a quelle che strutturano l’atto autocosciente del cogito. Sono le ragioni che
Morin, formulando un ulteriore, specifico principio esplicativo, riassume
nel termine computo. Un termine scopertamente ricavato, per assonanza
fonetica, dal confronto critico con il cartesiano cogito, e concettualmente
ispirato a quel variegato insieme di studi che gravita intorno al termine
computazione (computer science, cibernetica, informatica).
Nel suo significato più diffuso, il termine computazione indica il processo di elaborazione delle informazioni; un processo che per poter essere
tecnicamente affidabile richiede di funzionare in modo rigorosamente asoggettivo, ovvero di obbedire a regole di calcolo logico-formali anonime,
riproducibili anche artificialmente. Il termine moriniano computo riferisce
invece la nozione di intelligenza computazionale esclusivamente alle proprietà del vivente;3 in quell’accezione della parola vivente, discussa nel primo
Morin, come del resto anche von Fœrster, ricollega le sue riflessioni sul computo vivente alle intuizioni
anticipatrici di Jean Piaget sulle analogie tra l’organizzazione dei sistemi viventi e l’organizzazione dei
sistemi cognitivi (si vedano Ceruti, 1986; 1989). Inoltre, egli riprende quegli indirizzi della cognitive
science che, orientati in questa direzione piagetiana, hanno sostenuto il carattere pienamente conoscitivo
dei sistemi viventi (si vedano in particolare Maturana e Varela, 1972; 1980; 1985).
3
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Il soggetto ecologico di Edgar Morin
capitolo, che comporta la messa in valore dell’autonomia e della singolarità
di ciascun soggetto agente.4
Il termine latino computo, al quale ricorre Morin per sottolineare la
specificità della computazione vivente, così come abbiamo visto per altre
nozioni (autos, genos, phainon, ecc.), evoca una radice di senso lontana:
il latino computo, nato dall’unione del prefisso cum con il verbo puto.5 In
questa accezione, più ampia di quella meramente «artificialista», associata
al solo calcolo logico-matematico, il termine computo indica la capacità di
«considerare delle cose assieme», come ha scritto il grande cibernetico Heinz
von Fœrster (1981). Ovvero l’abilità, a pieno titolo intelligente, di tracciare
distinzioni, connettere, comparare, valutare, supporre e naturalmente, attimo
dopo attimo, decidere tra diverse alternative messe a confronto.
Il computare vivente, sottolineava già lo stesso von Fœrster, non potrebbe mai rispettare in pieno il «banale» requisito di prevedibilità che è delle
macchine artificiali.6 Queste ultime, per quanto elaborate possano essere,
sono costruite per risolvere i nostri problemi, e devono pertanto obbedire
a comandi perfettamente ripetibili, il cui referente siamo noi esseri umani;
mentre le creature viventi, dai batteri agli esseri umani, sono impegnate
momento per momento a cercare di risolvere i loro, di problemi:
Le macchine risolvono i nostri problemi e non i loro, diceva von Fœrster.
Il batterio computa per la sua organizzazione e per la sua produzione e per
la sua riproduzione; il batterio è un solving problems machine che tratta i suoi
problemi. (Morin, 1986 – trad. it. 2007, p. 43)
Analogamente, per Morin:
L’essere cellulare è un essere computante [...]; il più umile degli esseri cellulari
è capace di computare integralmente la propria organizzazione e parzialmente i
dati del suo ambiente esterno. (Morin, 1980 – trad. it. 2004, p. 186)
Cornelius Castoriadis (1990) osserva che l’idea moriniana di computo è anticipata, nel Seicento, da
Thomas Hobbes, che considerava il pensiero come capacità di calcolo (reckoning), incontrando in
questo, successivamente, il plauso di Gottfried Leibnitz.
5
Il verbo latino puto significa calcolare, contare, computare, stimare, giudicare, tenere, ritenere, pregiare,
considerare, ponderare, esaminare, pensare, credere.
6 «Una macchina banale [trivial] è caratterizzata da una relazione uno-a-uno tra il suo “input” (stimolo,
causa) e il suo “output” (risposta, effetto) [...]. Poiché questa relazione è determinata una volta per tutte,
si tratta di un sistema deterministico; e [...] prevedibile». (von Fœrster, 1981 – trad. it. 1987 p. 128).
Per von Fœrster, l’essere vivente è da considerare, per converso, «non banale» (non-trivial machine).
4
Antropo-sociologia: la società vivente
119
che a un primo sguardo possono ricordare il rapporto strettissimo esistente tra
cellule e organismo. Pensiamo, in particolare, alle forme societarie di tipo tribale, o fortemente comunitario, o totalitario; oppure a quei sottoinsiemi della
società — eserciti, manicomi, società segrete, conventi, ecc. — che assumono
caratteristiche totalizzanti, in cui la vita dei singoli individui è subordinata
all’osservanza rigorosa di norme sopraindividuali. Tuttavia, neppure queste
forme societarie sono riconducibili al modello «organicista» per le ragioni
che abbiamo riassunto sopra, e che vengono così esposte da Morin:
Come l’essere individuale, l’essere sociale è auto-eco-organizzatore; ma non
è riconducibile a una specie, ed è composto da individui. Mentre gli organismi
individuali sono costituiti da associazioni di cellule, le società sono costituite da
individui dotati di un sistema cerebrale o pseudo-cerebrale (come le formiche),
di un sistema di riproduzione sessuale, e di mezzi di locomozione che assicurano
una certa autonomia nello spazio. Ciò che differenzia le società dagli organismi
non è né la divisione del lavoro, né la specializzazione, né la gerarchia, né la
comunicazione delle informazioni, che sono presenti in entrambi, ma la complessità degli individui. Una società ha bisogno di individui evoluti. (Morin,
2001 – trad. it. 2002, p. 145)
Per Morin, gli «individui evoluti» di cui una società abbisogna per poter
vivere non sono mai riconducibili deterministicamente al tutto di cui sono
parte. Ogni società, scrive in Sociologia, emerge e riemerge senza posa dalle
fitte intercomunicazioni tra gli individui che la compongono:
La società è prodotta dalle interazioni tra gli individui, e non esisterebbe
senza di essi; e tuttavia retroagisce sugli individui stessi per produrli in quanto
individui umani, in quanto arreca loro la cultura, il linguaggio, i concetti,
l’educazione, la sicurezza, ecc. In altre parole, noi produciamo una società che
ci produce. Noi facciamo parte della società che fa parte di noi. Ecco il nodo
gordiano molto interessante, che un pensiero mutilante non può che fuggire.
Non solo noi siamo in un luogo particolare della società, ma anche la società,
in quanto totalità singolare, è in noi. (Morin, 1994c – trad. it. 1985, p. 98)
La libertà, la pietà, l’amore
Per comprendere la speciale natura del soggetto umano, non ci basta
dunque cogliere la complessa dialogica del singolo cervello/mente individuale.
Occorre anche coglierne il carattere intrinsecamente sociale:
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Il soggetto ecologico di Edgar Morin
reintegrare l’essere umano nella società che permette alla computazione del suo
cervello di svilupparsi in cogitazione, attraverso il linguaggio e i saperi in esso
immagazzinati. (Morin, 1986 – trad. it. 2007, p. 90)
La straordinaria libertà del soggetto sapiens/demens dai determinismi
genetici lo rende infatti al tempo stesso profondamente dipendente dal legame
sociale. Quella giovanilizzazione e quell’incompiutezza che ne fanno il più
creativo degli esseri viventi lo rendono al tempo stesso quanto mai bisognoso
di reciprocità e di interdipendenze. Quanto mai bisognoso di conferme e
ri­conferme sociali delle sue mappe della realtà, delle sue sensazioni, dei suoi
pensieri, financo delle sue percezioni più elementari.
Neppure la mera fisiologia del suo apparato cerebrale potrebbe semplicemente funzionare, se non fosse parte integrante di una più ampia comunità
intercerebrale; nodo di una più vasta rete comunicativa di cervelli/mente.
La nostra autonomia soggettiva e la nostra dipendenza sociale, lungi
dall’escludersi reciprocamente, sono indispensabili l’una all’altra. L’una
irriducibile all’altra, l’una bisognosa dell’altra, in «opposizione complementare»:
Il divenire-soggetto non può svilupparsi nell’esclusione di uno dei due termini della coppia individuo/società. Non può svilupparsi fuori dell’opposizione
complementare tra egocentrismo [...] e sociocentrismo. (Morin, 1980 – trad.
it. 2004, p. 357)
La condizione di singolarità irriducibile del soggetto, che in noi creature sapiens/demens giunge a toccare il limite della solitudine esistenziale più
estrema, è allo stesso tempo inguaribile aspirazione a compiersi attraverso la
relazione con gli altri. A rispecchiarsi senza posa nei propri simili. A dare vita
a un senso comune, fatto di credenze, rappresentazioni e narrazioni collettive.
A condividere intensamente con altri le proprie gioie e le proprie sofferenze,
le proprie speranze e le proprie disperazioni — condizione inscindibilmente
solitaire/solidaire, per dirla con Albert Camus.5
Molto a lungo, nella storia umana, la tensione oppositivo-complementare tra soggettività individuale e appartenenza sociale si è risolta con il
Così sì conclude il racconto di Camus Giona o l’artista al lavoro: «Guardava la tela, completamente
bianca, al centro della quale Giona aveva soltanto scritto, in piccolissimi caratteri, una parola che si
poteva decifrare, ma non si sapeva se bisognasse leggere solitaire o solidaire» (Camus, 1957 – trad. it.
2000, p. 1199).
5
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Il soggetto ecologico di Edgar Morin
e il divenire dei più vasti sistemi sociali e culturali con i quali coevolviamo,
all’interno dell’ancor più vasto ecosistema terrestre.
Società-mondo
La società-mondo che sta nascendo mette in relazione diretta una moltitudine crescente di persone di tutti i continenti, attraverso reti di scambio e
di comunicazione sempre più vaste, fitte e veloci. Le immette in uno spazio
planetario unificato privo di un centro organizzatore, nel quale si vanno
sfarinando certezze secolari e millenarie.
La vorticosa accelerazione dell’era planetaria inaugurata appena alcuni
secoli fa, dopo lunghi millenni di diaspore, di chiusure in piccole o grandi
comunità autoconfinate, sta mettendo al mondo un nuovo tipo di legame
sociale. Un tipo di società diverso da quelli che ci sono più familiari, territorialmente confinati e dotati di un centro organizzatore certo e stabile (Stato).
Noi soggetti della nascente società-mondo viviamo ormai stabilmente
in un orizzonte sempre più incerto e imprevedibile, in attesa ormai scontata
di mutamenti repentini e capricciosi nelle regole dei giochi, piccoli e grandi,
che stiamo giocando. Senza poter contare, come la piccola Alice, con la quale
ci è piaciuto iniziare questo cammino, sulla porticina magica che ci riporterà
prima o poi al rassicurante Paese della Certezza.
Ma questa nostra incertezza endemica non è soltanto l’effetto di un
declino, di un’involuzione, di un crollo minaccioso. Senza cessare di essere
anche tutto questo, la radicale incertezza in cui siamo trascinati è allo stesso
tempo il segno di un nuovo inizio che è già in noi e tra noi. Un nuovo inizio
per l’umanità, per la prima volta unificata in una sola, vasta società, che si va
realizzando attraverso le nostre stesse interazioni quotidiane più elementari.
Attraverso i nostri pensieri e le nostre emozioni, le nostre gioie e le nostre
sofferenze, le nostre disperazioni e le nostre speranze.
Ecologia dell’azione
Sapremo comprendere, per dirla con le parole di Elias Canetti poste
a epigrafe di questo libro, che «la terra è divenuta proprio un cuore e che
batterà [...] il bat­tito della terra di­venuta una cosa sola»?
Verso una conclusione
157
Non possiamo sapere la risposta. Sappiamo però che soltanto una
profonda conversione ecologica dei nostri saperi, dei nostri pensieri e delle
nostre sensibilità sarà in grado di favorire l’emergenza delle necessarie risorse
creative.
Soltanto la «messa in circolo» dei frammenti che il pensiero semplificatore e dualistico ha sistematicamente parcellizzato, separando i saperi naturalistici da quelli socioantropologici, immolando l’incerto, l’imprevedibile e
il singolare sull’altare del certo, del prevedibile e dell’universale, può aiutarci
a comprendere la portata del compito che l’affacciarsi della società-mondo
ci porta tra le mani. Il compito di ripensare il nostro divenire soggetti, per
la prima volta nella storia della specie, attraverso relazioni interpersonali,
sociali, ecologiche, che hanno come scenario quotidiano l’intero pianeta
Terra. Che già stanno facendo della Terra un’unica comunità di destino.
Soltanto una profonda conversione ecologica, allo stesso tempo, dei
nostri modi di agire e interagire, sarà in grado di portarci tra le mani nuove
modalità d’azione e d’interazione. Riconoscere la follia che si annida nella
logica del pilotaggio unilaterale sui mondi sociali e viventi di cui siamo parte,
che ancora permea di sé tanto senso comune tecnico-scientifico e tecnicopolitico, non è rinunciare a qualsiasi possibilità di azione e d’interazione. È
aprirsi, per Morin, a nuove possibilità, altrimenti invisibili: le possibilità del
doppio pilotaggio: «Seguire la natura che ci guida […], guidare la natura che
noi seguiamo». Nelle nostre relazioni con la natura, così come in ciascuna
altra delle relazioni interattive e simboliche che ci troviamo momento per
momento a «danzare»: io/altro, individuo/società, individuo/noosfera,
umanità/natura, civiltà/barbarie, certezza/incertezza…
La scommessa
Dovremo saperci educare, gli uni gli altri, a sapere che non elimineremo
l’incertezza dalle nostre vite, ma che è possibile riconoscerne le potenzialità
generative. Che è possibile coltivare una speranza che apprenda a essere amica
dell’incerto, dell’inatteso, dell’improbabile. Che ci aiuti a riconoscere nella
nostra profonda incertezza quotidiana i segni di possibili nuovi inizi già in
atto. E i segni antichi, insieme, della nostra incompiutezza creativa, di quella
antica «ferita originaria» dalla quale scaturiscono le nostre ottusità come le