Sergio Manghi

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Sergio Manghi
Documentaria
4° Salone di idee, progetti e servizi per la scuola
Modena, 3 settembre 2003
DISABITUARSI
LA CONOSCENZA ORDINARIA NELLA SOCIETÀ
DELL’INFORMAZIONE COERENTE
SCOMMETTERE SULL’IMPROBABILE
DUE O TRE COSE A PROPOSITO DI EDGAR MORIN
SERGIO MANGHI
Disabituarsi.
La conoscenza ordinaria
nella società dell’informazione incoerente
Sergio Manghi
L’evoluzione di un individuo è data essenzialmente
dalle parole alle quali si disabitua.
Elias Canetti
1. Il tema
Il processo di civilizzazione, per dirla con Norbert Elias, ha caricato via via l’”individuo” di
sempre maggiori compiti di autodeterminazione, occultando simultaneamente la fitta rete
di interazioni sociali attraverso la quale quotidianamente ci riproduciamo in quanto
“individui”. Nel corso degli ultimi decenni questo processo si è venuto traducendo in un
progressivo trasferimento di rischi e incertezze dal collettivo all’individuale: sta a ciascuno
di noi sapersi mantenere prestante, non-disoccupato, socializzante, previdente, flessibile,
creativo, e così via. Dipende da te!, ci ripetono mille voci quotidianamente – soluzioni
biografiche per problemi sistemici, secondo la nota formula di Ulrich Beck (2000).
La nostra esperienza quotidiana è sempre più costruita attraverso la partecipazione a reti
informative, comunicative e di produzione simbolica altamente complesse e in continua
trasformazione, nelle quali ciò che l’epoca moderna ha chiamato “biografia individuale”
appare a molti sempre più come una zavorra che come una risorsa. Le mille voci che
senza posa, diverse e contraddittorie, ripetono all’“individuo” l’ingiunzione Dipende da te!,
permeano i nostri filtri percettivi e autopercettivi in forme talmente invasive da minare
ormai nel profondo, non soltanto l’unità di quella biografia – accentuandone la molteplicità
– ma anche la sua coerenza – la connessione di senso tra le molteplici “voci” che la
costituiscono.
Il significato del predicato conoscere, a lungo incardinato su di un soggetto
spontaneamente pensato come coerente e unitario, è al centro di tensioni e torsioni del
tutto inedite per la nostra specie, come scrive Alberto Melucci nel suo ultimo,
appassionato volume:
siamo davanti a un salto qualitativo della nostra specie, la quale per la prima volta ha
fatto delle sue capacità simboliche e comunicative la condizione della propria
sopravvivenza (2000, p. 131; corsivi miei)
E proprio da questo “monito” di Melucci (nel quale il termine “sopravvivenza”, data la
peculiare attenzione dell’autore per le trame biologiche dell’avventura umana, va
considerato in tutto il suo spessore), vorrei prendere spunto per queste mie brevi
riflessioni. Le quali verteranno sulla natura del cambiamento nelle nostre epistemologie
quotidiane, chiamate in causa dal “salto qualitativo” in atto. Più precisamente, mi
propongo di sottolineare alcune interessanti convergenze, nell’analisi di tale
cambiamento, tra le riflessioni di Zygmunt Bauman, di Gregory Bateson, e dello stesso
Alberto Melucci.
2. Il croquet di Alice
In questa nostra società dell’informazione, che va rapidamente “liquefacendo” le coerenze
e le certezze della modernità “solida”, sostiene notoriamente Bauman (2002a), gli attori
sociali si trovano ingaggiati volenti o nolenti in contesti comunicativi che spiazzano di
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continuo i loro modi di conoscere abituali. Così si esprime il Nostro, in particolare, in un
recente saggio dedicato ai problemi dell’educazione nell’epoca “postmoderna”:
si ha la sensazione che vengano giocati molti giochi contemporaneamente, e che durante
il gioco cambino le regole di ciascuno (2002b, p. 159).
A questo genere di “giochi”, in cui le regole non possono essere date per scontate, ma
devono essere di continuo ri-costruite insieme al gioco stesso, Bateson ha consacrato,
altrettanto notoriamente, molto della sua riflessione di scienziato sociale
evoluzionisticamente orientato. In questo tipo di “giochi”, scrive Bateson nell’esemplificarli
con la celebre partita a croquet di Alice (porcospini come palle, un fenicottero come
mazza, e la Regina di cuori, non dimentichiamolo, che minaccia di tagliar teste a più non
posso), la comunicazione è altamente “ingarbugliata”:
ogni cosa è talmente ingarbugliata che nessuno ha la minima idea di ciò che
potrebbe accadere (2000, p. 61).
La convergenza tra Bauman e Bateson qui segnalata, peraltro, non è accidentale. E’
proprio con Bateson, infatti, che Bauman si va confrontando, nel saggio da cui è tratta la
citazione su riportata. Più esattamente, Bauman ci sta suggerendo di cogliere in Bateson
un precursore originale e fecondo delle svolte epistemologiche che la precarizzazione
“postmoderna” dell’esperienza rende oggi ineludibili e urgenti. L’antropologo inglese, già
nella prima metà degli anni 60, avrebbe formulato categorie concettuali in grado di aiutarci
a districare i nostri attuali grovigli epistemologici e comunicativi.
L’attenzione di Bauman si appunta sulla teoria batesoniana dei livelli di apprendimento
(Bateson, 2000), e in particolare su uno dei “livelli” in questione: l’Apprendimento 3, da
Bauman ribattezzato “apprendimento terziario”. Tale livello configurerebbe una modalità
dei processi di cambiamento epistemologico rimasta fino ai nostri giorni sostanzialmente
marginale, nella storia della specie umana, destinata invece a venir esaltata dalle sfide
della “postmodernità”.
3. Disabituarsi
Nella teoria batesoniana, i tre livelli di apprendimento in questione (A1, A2, A3;
prescindendo qui, per brevità, dall’A-zero, pure incluso nella teoria) sono così riassumibili
telegraficamente: nell’A1 è in gioco il buon uso delle nostre abituali categorie di pensiero
(per esempio, l’adeguata classificazione di un’informazione); nell’A2 entra in campo anche
il riconoscimento e l’acquisizione di nuove e diverse categorie e abitudini epistemologiche,
non comprese in quelle che ci orientano più spontaneamente; nell’A3 fa la sua comparsa
una “posta” assai più ardua e complessa: la capacità di relativizzare in ogni momento le
categorie più spontanee di pensiero che pure si stanno vitalmente impiegando, e di
mantenere pertanto connesse tra loro, in tal modo, categorie anche fortemente
eterogenee, alternative e divergenti – anche le più dolorosamemte divergenti (nel
linguaggio di Bateson: doppiovincolanti: cfr. Zoletto, 2001).
Bauman descrive l’A3, in breve, così:
il soggetto […] acquisisce le competenze per modificare l’insieme di alternative che ha appreso ad
attendersi e a padroneggiare (2002b, 158).
E aggiunge poi, chiarendo in che senso tali competenze costituiscano oggi un requisito
“adattativo” indispensabile:
l’“apprendimento terziario” – l’apprendimento a violare la conformità alle regole, a liberarsi
dalle abitudini e a prevenire la loro formazione, a ricostruire le esperienze frammentarie in
modelli precedentemente sconosciuti e nel contempo a considerare accettabili tutti i
modelli solo “fino a nuovo avviso” – lungi dall’essere una distorsione del processo
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educativo e una deviazione dal suo vero obiettivo, acquisisce un valore adattativo sommo
e diventa rapidamente un elemento centrale dell’indispensabile “equipaggiamento alla
vita” (ivi, p. 159)
La “liquida” epoca contemporanea richiede, come nessun’altra epoca storica, che le
persone siano in grado di non fissarsi sull’acquisizione di abitudini di pensiero da
incorporare stabilmente, dotate di una “struttura coesa e coerente”:
Agli esseri umani postmoderni è negato il lusso di presupporre, come il personaggio
shakespeariano, che ci sia ‘del metodo in questa pazzia’. Se si aspettano di scoprire una
struttura coesa e coerente nella congerie di eventi contingenti, vanno incontro a costosi
errori e dolorose frustrazioni; se le abitudini acquisite nel corso dell’addestramento li
spingono a cercare strutture coese e coerenti e a legare le proprie azioni a alla loro
identificazione, sono veramente nei guai […]. Il successo nella vita (e dunque la
razionalità) di uomini e donne postmoderni dipende dalla velocità con cui riescono a
sbarazzarsi di vecchie abitudini piuttosto che da quella con cui ne acquisiscono di nuove
(ivi, pp. 159-160).
Apprendere a disabituarsi diventa insomma altrettanto “adattativo”, se non di più,
dell’apprendere abitudini “adattative”.
Tuttavia, è doveroso osservare a questo punto, il fatto che il nostro tempo renda sempre
più necessario lo sviluppo di modalità di “apprendimento terziario”, non ne rende per ciò
stesso semplice lo sviluppo. Tutt’altro. I processi di “liberazione dalla tirannia
dell’abitudine”, come li chiama Bateson, sono tutt’altro che semplici da formalizzare. E
persino, secondo lo stesso Bateson, costitutivamente imprevedibili nelle loro concrete
possibilità di “riuscita”. In essi, scrive, si gioca un tipo di cambiamento epistemologico
difficile e raro […]. C’è anche da attendersi che sarà difficile per gli studiosi, che sono
solo esseri umani, immaginare o descrivere questo processo. Tuttavia si pretende che di
quando in quando qualcosa del genere accada in psicoterapia, nelle conversioni religiose
e in altre sequenze in cui avviene una profonda riorganizzazione del carattere (2000, p.
348).
Non solo: i cambiamenti personali innescati da questi processi comportano anche rischi
elevati per l’integrità mentale di chi vi è coinvolto. L’A3, scrive ancora Bateson,
può essere pericoloso, e alcuni cadono lungo il margine della strada. A costoro spesso la
psichiatria attribuisce la qualifica di psicopatici, e molti di essi si trovano inibiti nell’uso dei
pronomi di prima persona (ivi, p. 353).
4. Tra Scilla e Cariddi
Bauman compie invero una lettura per certi aspetti imprecisa dell’A3 batesoniano, come
processo che Bateson avrebbe considerato di per sé patogeno, in quanto incompatibile
con il nostro genoma:
Della nostra epoca […], possiamo dire che eleva al rango di norma quello che Bateson
[…] poteva ancora considerare, o piuttosto adombrare, come anormalità: una condizione
in contrasto con le doti ereditate e innate della specie umana e patologica dal punto di
vista della natura umana (Bauman, 2002b, p. 159)
Per Bateson, come evidenzia del resto la citazione sopra riportata, le cose non stanno
propriamente così: il verificarsi, attraverso gli incontri di cui è fatta la nostra vita, di
esperienze “in cui avviene una profonda riorganizzazione del carattere” non è affatto di
per sé “anormale”, per Bateson, né “in contrasto con le doti ereditate e innate della specie
umana. È semmai difficile, rischioso, spesso doloroso. Soprattutto, nessuna
formalizzazione concettuale e progettuale potrebbe rendere pre-vedibile la “riuscita” della
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“profonda riorganizzazione del carattere” – ovvero l’esclusione, o la minimizzazione, del
rischio di “cadere lungo la strada”. Interpretata in chiave batesoniana, la navigazione
“postmoderna” nel groviglio sempre più “liquido” dei vincoli e delle opportunità non
comporta soltanto lo Scilla delle “dolorose fustrazioni” che vengono dalla fiducia illusoria
in “strutture coese e corenti”. Essa comporta anche, e allo stesso tempo, il pericolo
opposto: la Cariddi delle “dolorose fustrazioni” che vengono dalla fiducia, non meno
illusoria, nella liquefazione “liberatoria” di ogni coesione, di ogni vincolo e di ogni
coerenza, celebrata da certi recenti “postmodernismi” (cfr. Gergen, 1992) – e ancor prima,
già negli anni 70, dall’elogio “antiedipico” del pensiero incoerente, letteralmente “schizoparanoide” (Deleuze, Guattari, 1975). Le “dolorose frustrazioni” vengono certamente
dall’eccesso di rigore, per dirla con Bateson, ma anche, nella stessa misura, dall’eccesso
di immaginazione:
[rigore e immaginazione] sono i due grandi poli del processo mentale, letali entrambi se
presi da soli. Il rigore da solo è la morte per paralisi, ma l’immaginazione da sola è la
pazzìa (1984, p. 287).
L’imprecisione interpretativa di Bauman qui posta in rilievo non intacca peraltro la
pregnanza delle sue argomentazioni e neppure la pertinenza ad esse della nozione
batesoniana di apprendimento.
D’altra parte, com’è noto, la riflessione del sociologo polacco non rientra certo nel novero
degli elogi “postmodernisti” dell’incoerenza, né di quanti vedono le sfide in atto alle nostre
abitudini di apprendimento come appuntamenti indolori e privi di incognite anche
minacciose. Gli aggettivi impiegati nella citazione che segue non lasciano equivoci in
proposito:
Nate in funzione di una differente specie di realtà, esse [le istituzioni e le filosofie
educative, ndr] trovano sempre più difficile assorbire, inglobare e contenere i
cambiamenti senza una completa revisione delle cornici concettuali che impiegano, e tale
revisione, come ci insegna Thomas Kuhn, è la più sconvolgente e mortale delle sfide che
il pensiero può trovarsi ad affrontare (Bauman, 2002b, p. 162; corsivo mio).
Tanto per Bauman quanto per Bateson (così come per Melucci), sia pure con accenti
diversi, siamo sulla soglia di una mutazione epistemologica epocale, i cui esiti rimangono
tuttavia rischiosi e incerti.
Il contributo di Bateson alla riflessione baumaniana (e melucciana, e nostra) su questa
sfida epocale va nella direzione di arricchire questa stessa riflessione, non in quanto
enfatizza i rischi che l’esperienza dell’A3 porta costitutivamente con sé, ma in quanto,
ancor prima, abbozza una formalizzazione razionale del peculiare tipo di cambiamento
epistemologico che corrisponde a tale esperienza.
5. Elogio dell’inconsapevolezza
La formalizzazione del cambiamento corrispondente all’A3, osserva Bateson, è secondo
alcuni semplicemente impossibile: “del tutto al di là della portata del linguaggio”. Egli cita
in proposito l’“ammonimento” che viene dai buddisti Zen, dai mistici occidentali e da
“alcuni psichiatri”, aggiungendo tuttavia subito dopo: “nonostante questo ammonimento,
voglio cominciare a fare qualche riflessione su come (logicamente) devono stare le cose”
(2000, p. 348). Ciò che rende difficile tale formalizzazione, in particolare (e per dirla in
breve), è il requisito “logico” dell’inconsapevolezza del cambiamento in atto da parte del
soggetto coinvolto in esso. Tale cambiamento avviene attraverso le “pascaliane” raisons
du coeur – non, dunque, per scelta “modernamente” deliberata. Sorprendendo per
primo/a – in caso di “riuscita” – colui/colei che da questi processi è attraversato/a.
Fra le storie che Bateson amava raccontare, per evocare questo requisito “logico” c’è la
Leggenda del vecchio marinaio, di Samuel T. Coleridge. Il vecchio marinaio, si ricorderà,
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ha ucciso l’albatros che seguiva la rotta della nave, e da quel giorno la nave e il mare
tutt’intorno si sono trasformati in un inferno. Il solo sopravvissuto è il vecchio marinaio,
con l’albatros ucciso appeso al collo, e terribili serpi luminescenti tutt’intorno alla nave.
Anche il suo destino sembra segnato. Imprevedibilmente, tuttavia, accade qualcosa.
Qualcosa che gli salverà la vita, e che gli permetterà di raccontare, fattosi “più triste e più
saggio”, l’intera avventura. Il qualcosa che accade non è che, a furia di arrovellarsi, il
vecchio marinaio trova la soluzione del problema e la applica con “moderna”
determinazione. Quel che accade è che, senza rendersene conto, egli prende a trovare
ammirevoli quelle creature fino a un attimo prima solo mostruose, e cioè a riconoscersi
riflessivamente in esse, in quanto parte danzante della medesima danza comunicativa,
insieme bellissima e terribile. Queste le parole di Coleridge:
Oh felici creature viventi! Nessuna lingua
Saprebbe proclamarne la bellezza:
una fontana d’amore mi sgorgò dal cuore,
e inconsapevole io le benedissi.
L’inconsapevolezza in questione con l’A3 non è pertanto un difetto ineliminabile: è un
requisito logicamente indispensabile. La “dolorosa frustrazione” del vecchio marinaio –
iperbole efficace, per molti versi, della condizione in cui ci sta ingabbiando la nostra
inerziale fede “moderna” nel controllo e nell’autocontrollo pianificati – non incontrerebbe
possibilità di cambiamento senza l’intervento inatteso di competenze conoscitive
largamente inconsapevoli – raisons du coeur, que la raison ne connait pas.
6. Socio-logica
Requisito logico, abbiamo detto dell’inconsapevolezza. Ma la logica in questione non è
qui, va sottolineato, mera proceduralità formale e atemporale (se così fosse, potremmo
formalizzare senza troppe difficoltà un A4, un A5, e così via, virtualmente all’infinito). La
logica in questione è eco-logica. Logica della relazione vivente, dell’interconnessione
coevolutiva tra più esseri viventi (e pertanto ineludibilmente finita: per poter concepire un
A4 dovremmo mettere in conto una mutazione genetica ad hoc). Venendo dalla metafora
di Coleridge, attraverso l’ecologia della mente batesoniana, al mondo delle nostre gesta
quotidiane, la logica in questione è logica della relazione sociale, della comunicazione, del
con-esserci. Socio-logica. Quel che accade nel corso dell’A3 (così come del resto in ogni
processo di apprendimento umano), non accade dentro i confini della mente individuale,
ma nella “logica” emozionale, sociale e simbolica che connette più individui-in-relazione.
L’A3 è un processo morfogenetico nel corso del quale ha luogo, senza che nessuno
l’abbia pianificato, insieme a un profondo cambiamento nei modi di pensare e di pensarsi,
un profondo cambiamento della relazione sé-altri – ivi inclusi, come nella metafora di
Coleridge, gli “altri” più terrificanti (il Nemico). L’A3 è in altri termini un processo
intimamente sociale. Non solo nel senso che implica il riconoscimento riconoscente
dell’esser parte, per il meglio e per il peggio, di contesti relazionali più grandi. Ma anche
nel senso che la sua eventuale “riuscita”, così come il suo eventuale “fallimento”, è in ogni
caso il risultato di processi di interdipendenza e di dense dinamiche comunicative.
Nessuno “ce la può fare” da solo. L’A3 rimane un processo costitutivamente sociale,
naturalmente, anche se gli individui coinvolti nel processo non se ne rendono conto, come
accade quando i linguaggi abituali delle loro narrazioni portano loro tra le mani storie fatte
unicamente di piani di autodeterminazione “riusciti” oppure “falliti”. Come accade, cioè,
quando le nostre narrazioni seguono i canoni di quel tipo di’“individualismo” moderno che
fa tutt’uno con il misconoscimento della fitta rete di interazioni sociali attraverso la quale
soltanto ci è dato diventare e ridiventare, quotidianamente, “individui”.
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7. “Ambivalenza vissuta”
Il nostro elogio dell’inconsapevolezza non va confuso in alcun modo con una resa
“irrazionalistica” della ragione. Esso allude piuttosto alla possibilità di coltivare quel
metodo che Bateson chiama “descrizione doppia” (1984, pp. 279-280). E cioè quella
forma “strabica”, paradossale, di conoscenza che coltiva a un tempo, sapendone la
reciproca irriducibilità, coscienza e inconsapevolezza. Ragioni della ragione e ragioni del
cuore. Curiosità per il mondo in cui viviamo e sensibilità verso il nostro esserne parte
emozionata/emozionante. Perseveranza nello sperimentare nuove idee, credendoci fino
in fondo, e non-attaccamento a quelle stesse idee come verità definitive. Sapersi abituare
e disabituare. E anche: scommessa sulle nostre potenzialità di individui, al di là
dell’ingabbiamento nelle illusorie certezze “moderne”, e scommessa sul nostro intimo e
indissolubile esser parte di contesti umani e viventi in ogni caso più grandi di ogni
individualità. Alberto Melucci, nel saggio che qui abbiamo citato, evoca la possibilità di
una condizione del conoscere e dell’agire analogamente “doppia” attraverso la nozione di
“ambivalenza vissuta”. Dove l’aggettivo “vissuta” intende segnare una differenza rilevante
rispetto a quell’ambivalenza “sbandierata”, mera esibizione estetizzante d’incertezza
esistenziale, che caratterizza varie correnti culturali “postmoderniste” del nostro tempo:
Una sorta di estetismo postmoderno, favorito dall’assimilazione del gergo psicologico
banalizzato, sbandiera la natura duplice di tutte le cose, magari orecchiando filosofie
orientali come quella cinese, che si basa proprio sull’opposizione di forze contrarie per
spiegare la dinamica energetica del cosmo e della vita umana al suo interno. Il risultato di
questo estetismo è la sospensione dell’azione, il rinvio permanente delle decisioni,
l’elevazione dell’incertezza a criterio morale (2000, p. 122).
L’ambivalenza cui si riferisce Melucci è una condizione difficile, a rigore impossibile da
tradurre coerentemente in azione. Per la semplice ragione che “ogni volta che agiamo ci
troviamo già collocati su un polo del dilemma”; in ogni momento, sulla “parte visibile della
nostra azione” si proietta il “lato oscuro” del “polo assente”: “quella parte di oscurità e di
irriducibilità che caratterizza sempre le nostre relazioni” (ivi, pp. 122-123). E’ questa
difficile ambivalenza, che si affaccia sulla soglia dell’A3. Soglia inesplorata, carica a un
tempo di promesse e di insidie. Dove anche gli angeli, per evocare un poeta caro a
Bateson, Alexander Pope, esiterebbero. Più che comprensibile, pertanto, che su questa
soglia spaesante molti di noi (e insieme molta parte di ciascuno di noi) si ritraggano,
tornando a scommettere su solide speranze moderniste o deviando per fluide leggerezze
postmoderniste. Non potrebbe essere diversamente, se davvero “siamo davanti a un salto
qualitativo della nostra specie, la quale per la prima volta ha fatto delle sue capacità
simboliche e comunicative la condizione della propria sopravvivenza”. Le convergenze qui
evidenziate tra le riflessioni di Bauman, di Bateson e di Melucci vogliono essere un
piccolo contributo all’esplorazione di questo “salto qualitativo” da parte di questi nostri
maestri e di tutti noi. In tale esplorazione, che ci s’impone di considerare ancora agli inizi,
e sempre ancora agli inizi, a noi scienziati sociali tocca una responsabilità di prima
grandezza, alla quale non ci è dato sottrarci.
Bibliografia
Bateson, G. (1984), Mente e natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano.
Bateson, G. (2000), “Le categorie logiche dell’apprendimento e della comunicazione”, in Id., Verso
un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, pp. 324-356.
Bauman, Z. (2002a), Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari.
Bauman, Z. (2002b), “L’istruzione nella società postmoderna”, in Id., La società individualizzata, Il
Mulino, Bologna, pp. 157-176.
Beck, U. (2000), La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma.
Deleuze, G., Guattari, F. (1975), L’anti-Edipo, Einaudi, Torino.
Gergen, K.J. (1992), The Satured Self, Basic Books, New York.
Melucci, A. (2000), Culture in gioco. Differenze per convivere, Bompiani, Milano.
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Zoletto, D. (2001), Pensiero e scrittura del doppio legame, Edizioni Università di Trieste, Trieste.
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Scommettere sull’improbabile.
Due o tre cose a proposito di Edgar Morin
Sergio Manghi
Sono molto grato ai promotori del convegno, per avermi coinvolto in questa iniziativa, e
sono felice di partecipare a questa avventura, avventura della ricerca su temi oggi vitali;
che emergono dall’intervista ad Edgar Morin, poiché l’incontro con Edgar Morin ha
sempre un po’ dell’avventura.
Cercherò, in breve, di proporvi qualche tratto di cornice biografica e concettuale in cui
inquadrare le idee e i temi toccati da Morin nell’intervista. Naturalmente, i tratti che
suggerirò saranno molto personali. Sono tratti che dicono, inevitabilmente, del rapporto
che a me è toccato di intrattenere con le idee e con la persona di Morin, e del rapporto
che ora stiamo concretamente intrattenendo tra di noi.
Questo non solo è inevitabile. Di più: questa caratteristica del processo mentale, il suo
essere insieme generativo e dialogico, per dirla con due parole care a Morin, è il solo
modo di conoscere che a noi creature umane è dato praticare, nel bene come nel male,
che lo vogliamo o no. Anche il vostro ascolto dell’intervista ha avuto questo duplice
carattere: ciascuno di voi ne ha tratto in ogni caso, generativamente, idee differenti; e
queste idee saranno in ogni caso il frutto di un’interazione comunicativa complessa, alla
quale tutti avremo co-operato dialogicament e: voi stessi, Morin, il sottoscritto – e altri
ancora, naturalmente.
Ma veniamo ai tratti di cornice che vorrei invitarvi a tener presente: li riassumerò in due
capitoletti, per comodità: uno biografico e uno etico-epistemologico.
La vita come opera, l’opera come vita
Anzitutto vorrei evidenziare una caratteristica peculiare, straordinaria, di Morin: l’intimo
intrecciarsi, e il mutuo specificarsi, dell’opera e della vita di Edgar Morin; la costante e
appassionata partecipazione, insieme come uomo e come studioso, inseparabilmente,
alle vicende che hanno segnato la vita della nostra società, del mondo in cui viviamo,
dell’immaginario che siamo venuti costruendo nel corso del XX secolo e in questo
vorticoso passaggio al nuovo millennio.
Qualche fotogramma, tra i molti possibili.
Morin compirà 82 anni tra pochi mesi (è nato a Parigi nel 1921). Ha interrotto gli studi
universitari per entrare nella Resistenza, ed è in questa importante esperienza che ha
preso il cognome con il quale è oggi noto. La vicenda vale la pena di essere raccontata
perché dice molto delle idee che Morin è venuto sviluppando nel corso di tutta la sua vita.
Fino alla Resistenza, Morin si chiamava Edgar David Nahoum, cognome di origine
ebraica, verosimilmente marrana. All’entrata in clandestinità, scelse come nome di
battaglia Manin, ispirandosi alla figura del patriota veneziano (il che dice fra l’altro della
sua attenzione alla vita culturale italiana: nella sua multiforme identità personale, l’essere
italiano ha un ruolo di primo piano). Senonché, la persona che doveva presentarlo ai
compagni di clandestinità, per un banale fraintendimento, lo presentò come “Morin”, ed
egli decise di mantenere quel nome “sbagliato”. Anzi, in seguito lo ufficializzò, e sul suo
passaporto si legge infatti: Edgar David Nahoum, dit Morin.
Qualche altro fotogramma.
Nel 1945 si precipita a Berlino su un’auto di fortuna per assistere all’arrivo liberatore
dell’Armata Rossa. Il suo primo libro s’intitola Allemagne am zéro (1946), ovvero
Germania anno zero: titolo che verrà ripreso da Rossellini per un suo celebre film. Ma è
soprattutto l’Homme et la mort, del 1951, a porre le basi antropo-sociologiche, e più in
generale transdisciplinari, della sua opera complessiva.
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Negli anni ’50 è già in dissenso con il partito comunista, e da questo dissenso trarrà un
bellissimo libro, intitolato Autocritique (1959), nel quale indaga sulle ragioni profonde per
le quali le idee mettono radice in noi a livelli talmente profondi da indurci a compiere
azioni ignobili con la migliore delle intenzioni. Fonda e dirige la rivista Arguments (19571963), vivace sede di riflessioni politiche e culturali di grande influenza in Francia e non
solo.
La sua attenzione agli intellettuali del dissenso, nell’Est Europeo che sembrava allora del
tutto improbabile scalfire, fu fin da allora costante e attiva. Con alcuni di loro strinse
un’amicizia fraterna. Del resto, la persona che lo reclutò nelle file comuniste, negli anni
Trenta, Jacques-Francis Rolland, ricorda che fin da allora non si trattaneva dal porre
domande dcisamente inopportune, per esempio sulla veridicità delle accuse nei
tristemente celebri processi di Mosca.
Altrettanto costante e attiva fu l’attenzione all’avvento impetuoso della cultura di massa, e
in particolare al cinema (Le Cinéma ou l’homme imaginaire, 1956, Les stars, 1957). Molti
non sanno che un suo volume, L’industrie culturelle, figura tra le opere che hanno dato
origine all’attuale sociologia delle comunicazioni di massa. Ma molte altre furono le
riflessioni sociologiche di quegli anni e successive (L’esprit du temps, 1962, La rumeur
d’Orléans, 1969, Sociologie, 1984, e altro ancora).
Nel fatidico sessantotto è il primo a scrivere un saggio, quasi in tempo reale, come si dice
oggi, sulle lotte studentesche (Mai 68: la brèche).
Gli anni Settanta sono gli anni della presa di coscienza ecologica, a partire in particolare
da Le paraddgme perdu (1973). La partecipazione attiva a iniziative pionieristiche di
ripensamento transdisciplinare dei saperi (Il Groupe des dix, a Parigi, con Henri Laborit e
vari altri, in realtà, via via, ben oltre i dieci) e un lungo soggiorno di studio nella California
dei laboratori sull’organizzazione ecologica e sistemica del vivente fanno da levatrice a
quella profonda svolta epistemologica che sul finire del decennio e nel passaggio agli anni
Ottanta prenderà il nome di complessità – da noi Sfida della complessità (titolo di un
volume curato da Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, che ha avuto numerose riedizioni). E’
la svolta che darà luogo all’opera, diciamo pure monumentale, essendo composta di 5
vasti “tomi”, intitolata “cartesianamente” La méthode (meritoriamente edita in forma
integrale, in Italia, dall’editore Raffaello Cortina). Il primo volume (La nature de la nature) è
del 1977. L’ultimo, intitolato L’identité humaine, uscito nel 2001, è il primo dei due di cui si
comporrà, a lavoro ultimato, il quinto tomo: L’humanité de l’humanité.
Ma gli anni Ottanta, poi gli anni Novanta, sono anche gli anni della formazione
dell’Europa, del crollo del muro di Berlino, della caduta dell’impero sovietico, e di tutti
quegli avvenimenti recenti che conosciamo troppo bene per doverli elencare. Basti qui
ricordare che in questi anni Morin non ha cessato di accorrere, magari su mezzi di
trasporto meno di fortuna di quelli giovanili, in vari luoghi “caldi” del pianeta, dall’America
latina alla Cina, traendone puntualmente lucide riflessioni: saggi sull’Europa, sulla Terrapatria, sull’URSS di Gorbaciov, sulla guerra fratricida nell’ex Jugoslavia, sulla cosiddetta
globalizzazione, e altri ancora che sarebbe troppo lungo elencare. Alcuni tra questi saggi:
Pour sortir du XX siècle (1981), Penser l’Europe (1987), L’Europa nell’era planetaria
(1991, con Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti), Terre Patrie (1993), Les fratricides (1996),
Politique de civilisation (1997, con Sami Nair).
Ricordiamo ancora soltanto uno dei suoi impegni più recenti, : l’attenzione alla riforma dei
processi educativi, per il duplice incarico, da parte dell’Unesco e del Ministero francese
dell’Educazione, dal quale uscirà la suggestiva trilogia composta da: La tête bien faite
(1999), Relier les connaissances (1999) e Les sept savoirs nécessaires à l’éducations du
futur (2000).
Questo, dunque, è Edgar Morin. Questo e, naturalmente, molto altro, che mi auguro di
aver lasciato almeno vagamente intravedere. E’ questa intensa esperienza del nostro
presente storico che si è vista ed ascoltata nell’intervista. Un’esperienza tradottasi peraltro
in numerose pubblicazioni autobiografiche e “diaristiche” che solo per brevità tralascio qui
9
di citare (si veda, fra le altre la Mes démons, del 1994, che richiama non a caso nel titolo
un tema dostoijevskiano).1
Edgar Morin è questo sentimento generoso e profondo della storia, e della storia come
luogo vivo e palpitante della nostra vita quotidiana, come luogo in cui s’intrecciano le
nostre “solidarietà concrete”, un’espressione che ci rimanda immediatamente alla
complessità dei saperi e delle emozioni che sanno connettersi nelle diverse vicende.
E’ la riflessione partecipe e appassionata sul ventesimo secolo e sulla difficile alba del
ventunesimo, che è condensata nell’appello alla riforma radicale dei nostri modi di
pensare, intesa come condizione vitale. Come condizione essenziale per non lasciarci
trascinare “nel circolo vizioso infernale che sta diventando planetario”.
Il pensiero dell’improbabile
Il secondo tratto su cui vorrei richiamare l’attenzione è di carattere insieme epistemologico
ed etico. E’ il tratto che Morin affida alla parola “improbabile”. Morin insiste, più
precisamente, sull’importanza di apprendere a “scommettere sull’improbabile”, come
punto-cardine per la riforma dei nostri modi di pensare e di educare. L’espressione è
ispirata a Blaise Pascal, uno dei riferimenti più costanti della sua vita intellettuale, e più
esattamente al significato che ha la scommessa, notoriamente, nella riflessione di Pascal.
Apprendere a scommettere sull’improbabile è sempre più, secondo Morin, un requisito
indispensabile per sopravvivere creativamente in un mondo fatto ormai di incertezze
radicali, di ambivalenze insormontabili e spesso tragiche, di trasformazioni sempre più
repentine e imprevedibili.
Puntare le nostre carte, ovvero le nostre speranze, all’opposto, su ciò che il calcolo più
ragionevole delle probabilità annuncia come “realistico”, sostiene Morin, è concorrere,
fosse pure con la migliore delle intenzioni, alla deriva della degradazione del pensiero e
della convivenza umana.
Gli scritti di Morin sono popolati di esemplificazioni storiche e naturalistiche di questo
“principio” epistemologico, in positivo come in negativo. Nell’intervista troviamo l’esempio,
in positivo, della sconfitta del nazismo, sulla quale fino a Pearl Harbour e all’entrata in
guerrra degli Stati Uniti nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato.
Oggi, per venire al tema della riforma dell’educazione, appare ai più irrealistico, e
irrimediabilmente démodé, attardarsi, come fa Morin, negli appelli all’integrazione dei
saperi contro la deriva degli specialismi incomunicanti, o ancora all’estetica qualitativa
delle connessioni contro la marcia trionfale delle misurazioni quantitative, e al perder
tempo nell’ascolto della complessità delle nostre interazioni comunicative contro le
scorciatoie illusoriamente realistiche della scomposizione dei problemi in segmenti ritenuti
controllabili, uno per uno, dai saperi esperti.
In questo nostro presente, nel quale, dice Morin nell’intervista, “andiamo o verso una
situazione catastrofica o verso una metamorfosi molto difficile” – in questo nostro
presente, che Morin chiama da tempo l’età del ferro dell’era planetaria, apprendere a
saper scommettere sull’irrealistico, sull’invisibile e sull’improbabile, diventa letteralmente
una sfida di sopravvivenza.
La sfida, se è consentita una quasi-battuta, richiama alla mente la scena di quel film, un
legal thriller americano, nella quale l’avvocato, alias Gene Hackman, chiede ai suoi
collaboratori, più o meno: “quante probabilità abbiamo di farcela se puntiamo su questa
ipotesi?”. Risposta: “Una su cento”. E l’avvocato: “Puntiamo su quella”.
Se la posta in gioco è di questo ordine d’improbabilità, è evidente che la questione di
come riformare i nostri modi di pensare non può essere di portata solo intellettuale. Non
può che essere anche di portata esistenziale, etica, o come si dice nel linguaggio
1
Le opere di Morin sono state edite quasi tutte in italiano, principalmente dagli editori
Feltrinelli, Cortina e Meltemi (ma si vedano anche Sperling & Kupfler, Bompiani, Edizioni
Lavoro, Lubrina, Moretti & Vitali).
10
religioso, spirituale. Non è un caso, del resto, che Morin, pur non essendo quel che si dice
un credente, quanto meno nel senso usuale della parola, insista ripetutamente,
accoratamente, in numerose sue opere, sulla natura religiosa della riforma invocata. Di
quel re-ligare le coscienze e le conoscenze che dà il titolo, fra l’altro, a uno dei suoi libri
più recenti che abbiamo ricordato.
La scommessa moriniana sull’improbabile è un crocevia nel quale possono fecondarsi
reciprocamente, di nuovo dialogicamente, il pensiero laico, purtroppo ancora intriso di
bigottismo razionalistico, e l’esperienza più autenticamente religiosa, che coltiva la
scommessa sull’improbabile attraverso la nozione di “miracolo”.
Consentitemi dunque, per concludere, di citare qui una frase che riprendo da un articolo
sulla guerra irachena e sulla pace possibile, pubblicato di recente sull’Osservatore
Romano. E’ del cardinale Carlo Maria Martini, oggi, come sappiamo, a Gerusalemme, e
contiene, l’una vicina all’altra, le parole “miracoloso” e “improbabile”:
Una pace seria e duratura, laddove persistono ragioni gravi di conflitto, ha sempre un po’
del “miracolo”, dell’improbabile, del “dono dall’alto”.
Questo testo è stato presentato dal Prof. Manghi al convegno di REGGIO Emilia “Progettare
futuri” e precedeva, commentandola, la visione della video-intervista ad Edgar Morin.
Previa autorizzazione dell’autore, è stato modificato il testo eliminando i riferimenti che
erano specifici del contesto dell’iniziativa di Reggio Emilia.
11
Scommettere sull’improbabile.
Due o tre cose a proposito di Edgar Morin
Sergio Manghi
Sono molto grato ai promotori del convegno, per avermi coinvolto in questa iniziativa, e
sono felice di partecipare a questa avventura, avventura della ricerca su temi oggi vitali;
che emergono dall’intervista ad Edgar Morin, poiché l’incontro con Edgar Morin ha
sempre un po’ dell’avventura.
Cercherò, in breve, di proporvi qualche tratto di cornice biografica e concettuale in cui
inquadrare le idee e i temi toccati da Morin nell’intervista. Naturalmente, i tratti che
suggerirò saranno molto personali. Sono tratti che dicono, inevitabilmente, del rapporto
che a me è toccato di intrattenere con le idee e con la persona di Morin, e del rapporto
che ora stiamo concretamente intrattenendo tra di noi.
Questo non solo è inevitabile. Di più: questa caratteristica del processo mentale, il suo
essere insieme generativo e dialogico, per dirla con due parole care a Morin, è il solo
modo di conoscere che a noi creature umane è dato praticare, nel bene come nel male,
che lo vogliamo o no. Anche il vostro ascolto dell’intervista ha avuto questo duplice
carattere: ciascuno di voi ne ha tratto in ogni caso, generativamente, idee differenti; e
queste idee saranno in ogni caso il frutto di un’interazione comunicativa complessa, alla
quale tutti avremo co-operato dialogicament e: voi stessi, Morin, il sottoscritto – e altri
ancora, naturalmente.
Ma veniamo ai tratti di cornice che vorrei invitarvi a tener presente: li riassumerò in due
capitoletti, per comodità: uno biografico e uno etico-epistemologico.
La vita come opera, l’opera come vita
Anzitutto vorrei evidenziare una caratteristica peculiare, straordinaria, di Morin: l’intimo
intrecciarsi, e il mutuo specificarsi, dell’opera e della vita di Edgar Morin; la costante e
appassionata partecipazione, insieme come uomo e come studioso, inseparabilmente,
alle vicende che hanno segnato la vita della nostra società, del mondo in cui viviamo,
dell’immaginario che siamo venuti costruendo nel corso del XX secolo e in questo
vorticoso passaggio al nuovo millennio.
Qualche fotogramma, tra i molti possibili.
Morin compirà 82 anni tra pochi mesi (è nato a Parigi nel 1921). Ha interrotto gli studi
universitari per entrare nella Resistenza, ed è in questa importante esperienza che ha
preso il cognome con il quale è oggi noto. La vicenda vale la pena di essere raccontata
perché dice molto delle idee che Morin è venuto sviluppando nel corso di tutta la sua vita.
Fino alla Resistenza, Morin si chiamava Edgar David Nahoum, cognome di origine
ebraica, verosimilmente marrana. All’entrata in clandestinità, scelse come nome di
battaglia Manin, ispirandosi alla figura del patriota veneziano (il che dice fra l’altro della
sua attenzione alla vita culturale italiana: nella sua multiforme identità personale, l’essere
italiano ha un ruolo di primo piano). Senonché, la persona che doveva presentarlo ai
compagni di clandestinità, per un banale fraintendimento, lo presentò come “Morin”, ed
egli decise di mantenere quel nome “sbagliato”. Anzi, in seguito lo ufficializzò, e sul suo
passaporto si legge infatti: Edgar David Nahoum, dit Morin.
Qualche altro fotogramma.
Nel 1945 si precipita a Berlino su un’auto di fortuna per assistere all’arrivo liberatore
dell’Armata Rossa. Il suo primo libro s’intitola Allemagne am zéro (1946), ovvero
Germania anno zero: titolo che verrà ripreso da Rossellini per un suo celebre film. Ma è
soprattutto l’Homme et la mort, del 1951, a porre le basi antropo-sociologiche, e più in
generale transdisciplinari, della sua opera complessiva.
1
Negli anni ’50 è già in dissenso con il partito comunista, e da questo dissenso trarrà un
bellissimo libro, intitolato Autocritique (1959), nel quale indaga sulle ragioni profonde per
le quali le idee mettono radice in noi a livelli talmente profondi da indurci a compiere
azioni ignobili con la migliore delle intenzioni. Fonda e dirige la rivista Arguments (19571963), vivace sede di riflessioni politiche e culturali di grande influenza in Francia e non
solo.
La sua attenzione agli intellettuali del dissenso, nell’Est Europeo che sembrava allora del
tutto improbabile scalfire, fu fin da allora costante e attiva. Con alcuni di loro strinse
un’amicizia fraterna. Del resto, la persona che lo reclutò nelle file comuniste, negli anni
Trenta, Jacques-Francis Rolland, ricorda che fin da allora non si trattaneva dal porre
domande dcisamente inopportune, per esempio sulla veridicità delle accuse nei
tristemente celebri processi di Mosca.
Altrettanto costante e attiva fu l’attenzione all’avvento impetuoso della cultura di massa, e
in particolare al cinema (Le Cinéma ou l’homme imaginaire, 1956, Les stars, 1957). Molti
non sanno che un suo volume, L’industrie culturelle, figura tra le opere che hanno dato
origine all’attuale sociologia delle comunicazioni di massa. Ma molte altre furono le
riflessioni sociologiche di quegli anni e successive (L’esprit du temps, 1962, La rumeur
d’Orléans, 1969, Sociologie, 1984, e altro ancora).
Nel fatidico sessantotto è il primo a scrivere un saggio, quasi in tempo reale, come si dice
oggi, sulle lotte studentesche (Mai 68: la brèche).
Gli anni Settanta sono gli anni della presa di coscienza ecologica, a partire in particolare
da Le paraddgme perdu (1973). La partecipazione attiva a iniziative pionieristiche di
ripensamento transdisciplinare dei saperi (Il Groupe des dix, a Parigi, con Henri Laborit e
vari altri, in realtà, via via, ben oltre i dieci) e un lungo soggiorno di studio nella California
dei laboratori sull’organizzazione ecologica e sistemica del vivente fanno da levatrice a
quella profonda svolta epistemologica che sul finire del decennio e nel passaggio agli anni
Ottanta prenderà il nome di complessità – da noi Sfida della complessità (titolo di un
volume curato da Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, che ha avuto numerose riedizioni). E’
la svolta che darà luogo all’opera, diciamo pure monumentale, essendo composta di 5
vasti “tomi”, intitolata “cartesianamente” La méthode (meritoriamente edita in forma
integrale, in Italia, dall’editore Raffaello Cortina). Il primo volume (La nature de la nature) è
del 1977. L’ultimo, intitolato L’identité humaine, uscito nel 2001, è il primo dei due di cui si
comporrà, a lavoro ultimato, il quinto tomo: L’humanité de l’humanité.
Ma gli anni Ottanta, poi gli anni Novanta, sono anche gli anni della formazione
dell’Europa, del crollo del muro di Berlino, della caduta dell’impero sovietico, e di tutti
quegli avvenimenti recenti che conosciamo troppo bene per doverli elencare. Basti qui
ricordare che in questi anni Morin non ha cessato di accorrere, magari su mezzi di
trasporto meno di fortuna di quelli giovanili, in vari luoghi “caldi” del pianeta, dall’America
latina alla Cina, traendone puntualmente lucide riflessioni: saggi sull’Europa, sulla Terrapatria, sull’URSS di Gorbaciov, sulla guerra fratricida nell’ex Jugoslavia, sulla cosiddetta
globalizzazione, e altri ancora che sarebbe troppo lungo elencare. Alcuni tra questi saggi:
Pour sortir du XX siècle (1981), Penser l’Europe (1987), L’Europa nell’era planetaria
(1991, con Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti), Terre Patrie (1993), Les fratricides (1996),
Politique de civilisation (1997, con Sami Nair).
Ricordiamo ancora soltanto uno dei suoi impegni più recenti, : l’attenzione alla riforma dei
processi educativi, per il duplice incarico, da parte dell’Unesco e del Ministero francese
dell’Educazione, dal quale uscirà la suggestiva trilogia composta da: La tête bien faite
(1999), Relier les connaissances (1999) e Les sept savoirs nécessaires à l’éducations du
futur (2000).
Questo, dunque, è Edgar Morin. Questo e, naturalmente, molto altro, che mi auguro di
aver lasciato almeno vagamente intravedere. E’ questa intensa esperienza del nostro
presente storico che si è vista ed ascoltata nell’intervista. Un’esperienza tradottasi peraltro
in numerose pubblicazioni autobiografiche e “diaristiche” che solo per brevità tralascio qui
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di citare (si veda, fra le altre la Mes démons, del 1994, che richiama non a caso nel titolo
un tema dostoijevskiano).1
Edgar Morin è questo sentimento generoso e profondo della storia, e della storia come
luogo vivo e palpitante della nostra vita quotidiana, come luogo in cui s’intrecciano le
nostre “solidarietà concrete”, un’espressione che ci rimanda immediatamente alla
complessità dei saperi e delle emozioni che sanno connettersi nelle diverse vicende.
E’ la riflessione partecipe e appassionata sul ventesimo secolo e sulla difficile alba del
ventunesimo, che è condensata nell’appello alla riforma radicale dei nostri modi di
pensare, intesa come condizione vitale. Come condizione essenziale per non lasciarci
trascinare “nel circolo vizioso infernale che sta diventando planetario”.
Il pensiero dell’improbabile
Il secondo tratto su cui vorrei richiamare l’attenzione è di carattere insieme epistemologico
ed etico. E’ il tratto che Morin affida alla parola “improbabile”. Morin insiste, più
precisamente, sull’importanza di apprendere a “scommettere sull’improbabile”, come
punto-cardine per la riforma dei nostri modi di pensare e di educare. L’espressione è
ispirata a Blaise Pascal, uno dei riferimenti più costanti della sua vita intellettuale, e più
esattamente al significato che ha la scommessa, notoriamente, nella riflessione di Pascal.
Apprendere a scommettere sull’improbabile è sempre più, secondo Morin, un requisito
indispensabile per sopravvivere creativamente in un mondo fatto ormai di incertezze
radicali, di ambivalenze insormontabili e spesso tragiche, di trasformazioni sempre più
repentine e imprevedibili.
Puntare le nostre carte, ovvero le nostre speranze, all’opposto, su ciò che il calcolo più
ragionevole delle probabilità annuncia come “realistico”, sostiene Morin, è concorrere,
fosse pure con la migliore delle intenzioni, alla deriva della degradazione del pensiero e
della convivenza umana.
Gli scritti di Morin sono popolati di esemplificazioni storiche e naturalistiche di questo
“principio” epistemologico, in positivo come in negativo. Nell’intervista troviamo l’esempio,
in positivo, della sconfitta del nazismo, sulla quale fino a Pearl Harbour e all’entrata in
guerrra degli Stati Uniti nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato.
Oggi, per venire al tema della riforma dell’educazione, appare ai più irrealistico, e
irrimediabilmente démodé, attardarsi, come fa Morin, negli appelli all’integrazione dei
saperi contro la deriva degli specialismi incomunicanti, o ancora all’estetica qualitativa
delle connessioni contro la marcia trionfale delle misurazioni quantitative, e al perder
tempo nell’ascolto della complessità delle nostre interazioni comunicative contro le
scorciatoie illusoriamente realistiche della scomposizione dei problemi in segmenti ritenuti
controllabili, uno per uno, dai saperi esperti.
In questo nostro presente, nel quale, dice Morin nell’intervista, “andiamo o verso una
situazione catastrofica o verso una metamorfosi molto difficile” – in questo nostro
presente, che Morin chiama da tempo l’età del ferro dell’era planetaria, apprendere a
saper scommettere sull’irrealistico, sull’invisibile e sull’improbabile, diventa letteralmente
una sfida di sopravvivenza.
La sfida, se è consentita una quasi-battuta, richiama alla mente la scena di quel film, un
legal thriller americano, nella quale l’avvocato, alias Gene Hackman, chiede ai suoi
collaboratori, più o meno: “quante probabilità abbiamo di farcela se puntiamo su questa
ipotesi?”. Risposta: “Una su cento”. E l’avvocato: “Puntiamo su quella”.
Se la posta in gioco è di questo ordine d’improbabilità, è evidente che la questione di
come riformare i nostri modi di pensare non può essere di portata solo intellettuale. Non
può che essere anche di portata esistenziale, etica, o come si dice nel linguaggio
1
Le opere di Morin sono state edite quasi tutte in italiano, principalmente dagli editori
Feltrinelli, Cortina e Meltemi (ma si vedano anche Sperling & Kupfler, Bompiani, Edizioni
Lavoro, Lubrina, Moretti & Vitali).
3
religioso, spirituale. Non è un caso, del resto, che Morin, pur non essendo quel che si dice
un credente, quanto meno nel senso usuale della parola, insista ripetutamente,
accoratamente, in numerose sue opere, sulla natura religiosa della riforma invocata. Di
quel re-ligare le coscienze e le conoscenze che dà il titolo, fra l’altro, a uno dei suoi libri
più recenti che abbiamo ricordato.
La scommessa moriniana sull’improbabile è un crocevia nel quale possono fecondarsi
reciprocamente, di nuovo dialogicamente, il pensiero laico, purtroppo ancora intriso di
bigottismo razionalistico, e l’esperienza più autenticamente religiosa, che coltiva la
scommessa sull’improbabile attraverso la nozione di “miracolo”.
Consentitemi dunque, per concludere, di citare qui una frase che riprendo da un articolo
sulla guerra irachena e sulla pace possibile, pubblicato di recente sull’Osservatore
Romano. E’ del cardinale Carlo Maria Martini, oggi, come sappiamo, a Gerusalemme, e
contiene, l’una vicina all’altra, le parole “miracoloso” e “improbabile”:
Una pace seria e duratura, laddove persistono ragioni gravi di conflitto, ha sempre un po’
del “miracolo”, dell’improbabile, del “dono dall’alto”.
Questo testo è stato presentato dal Prof. Manghi al convegno di REGGIO Emilia “Progettare
futuri” e precedeva, commentandola, la visione della video-intervista ad Edgar Morin.
Previa autorizzazione dell’autore, è stato modificato il testo eliminando i riferimenti che
erano specifici del contesto dell’iniziativa di Reggio Emilia.
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