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l`errore in psicologia
L’ERRORE IN PSICOLOGIA
Sommario: 1. Premessa – 2. L’errore dal punto di vista psicoanalitico – 3. Significato dell’errore in
Psicologia – 4. Il lapsus e gli “atti mancati” – 5. Neurobiologia dell’errore – 6. Le cause dell’errore – 7.
L’errore sul piano logico – 8. L’errore in ambito lavorativo – 9. Bibliografia.
1. PREMESSA
Si legge nel Dizionario di Psicologia di Galimberti: “(Per Errore s’intende un’azione che comporta)
un giudizio o valutazione che contravviene il criterio riconosciuto valido nel campo a cui il giudizio si
riferisce, oppure ai limiti di applicabilità del criterio stesso”.
L’errore è parte integrante della condotta umana: distinguere tra prestazione corretta ed errore
dipende unicamente da un processo valutativo, il dominio dell’errore è difatti quello del giudizio.
Gli esseri umani sbagliano spesso e volentieri.
Un oggetto fatto per esseri umani che non preveda la possibilità dell’errore è un oggetto
inutilizzabile.
Il riferimento al criterio di validità e di applicabilità fa si che il contrario dell’errore non sia la
verità, ma l’esattezza o correttezza.
Trarre inferenze non corrette da un enunciato in cui figuri implicitamente o esplicitamente un
nesso condizionale fra due eventi potrebbe indurre ad errore. Questo tipo di errori sono alla base di
molti atteggiamenti, comportamenti, giudizi, che sono rilevabili non solo nella vita quotidiana meno
controllata, ma anche in quel settore della nostra attività nel quale ci sforziamo di essere più rigorosi,
per esempio nella ricerca scientifica. Infatti è frequente imbattersi in affermazioni quali: “Secondo
l’ipotesi il fenomeno avrebbe dovuto attuarsi così e così; ciò è avvenuto, quindi l’ipotesi è verificata”. È
vero che certe fasi della ricerca scientifica non consentono altro mezzo per procedere nella conoscenza,
ma è altrettanto vero che un ragionamento scientifico di questa struttura può portare a conclusioni assai
pericolose, quelle di attribuire gli effetti ad una falsa certezza.
Gli individui tendono a ricordare i successi e a rimuovere i fallimenti, aumentando così, in modo
ingiustificabile, la loro eccessiva sicurezza.
Comportamenti considerati “errati”, “sbagliati”, come la tendenza a giocare d’azzardo ed
assumersi rischi inutili sono un tratto di base del comportamento umano, motivati dalla ricerca di
divertimento e di appagamento dell’ego.
2. L’ERRORE DAL PUNTO DI VISTA PSICOANALITICO
“Gli errori sono la conseguenza di pensieri rimossi” scriveva Freud riferendosi a quello che gli
era capitato. ‘Rimossi’ aveva il significato di fraudolentemente cacciati o mascherati, falsificati
intenzionalmente per buona creanza, opportunità o decenza borghese. Scrivendo L’interpretazione dei
sogni aveva voluto addolcire le spiegazioni, non essere troppo esplicito oppure, per non urtare
eccessivamente la sensibilità dei lettori del suo tempo, aveva soppresso o alterato qualche particolare
indiscreto e incisivo, consapevole che la realtà borghese avrebbe accolto male quell’altra realtà che
oniricamente (ma anche quotidianamente) viveva. “Orbene - continuava Freud - non è stato possibile
effettuare senza lasciare traccia alcuna la reticenza o deformazione di pensieri di cui conoscevo la
prosecuzione. Quel che volli sopprimere, spesso contro il mio volere si è imposto ugualmente,
manifestandosi in forma di errore da me non osservato”.
L’errore impone la verità scomoda delle profondità attraverso il lapsus che deturpa il discorso
ben preparato del politico o dell’accademico di fronte ai suoi illustri interlocutori, o quello che rende
umoristico il parlare del giornalista televisivo e che tanti programmi satirici sanno selezionare e
rimontare ad arte. Probabilmente è lo stesso scherzo che giocano i tic, quando deformano
grottescamente il viso, lo sguardo o i gesti di ogni tipo di persona e rendono giustizia soprattutto di
quelli che si compiacciono del proprio potere e del proprio apparire potenti.
3. SIGNIFICATO DELL ’ERRORE IN PSICOLOGIA
Popper ha ricordato che “impariamo dagli errori”, riprendendo non solo un luogo comune di
tutta la storia dell’umanità, ma una tradizione epistemologica che aveva fatto la sua strada in Francia nei
primi decenni del secolo, dove alla falsificazione viene dato un ruolo determinante per la validazione
delle teorie scientifiche. La verità che più si avvicina al nostro modo umano di rapportarci al reale,
consci della sua inesauribile e concreta molteplicità, non è, così, dogmaticamente imposta dall’alto, ma
falsificabile criticamente.
In psicologia l’errore rappresenta un momento costitutivo dell’apprendimento e si determina
tenendo conto dell’informazione di cui si dispone, che si valuta in base a un codice o a un sistema di
credenze in possesso del soggetto. Con questa limitazione dell’area dell’errore si è superata la posizione
del pensiero classico secondo cui vi sarebbe un dato neutro da offrire all’osservazione o, a livello di
cognizione, una percezione distinta dall’interpretazione. Sempre in ambito psicologico non si utilizza il
concetto di verità o di oggettività della conoscenza che si dichiari indipendente dalla soggettività,
essendo la soggettività l’”oggetto” del sapere psicologico.
La recente epistemologia in psicologia concepisce la verità come un processo di continua
rettifica dell’errore. Scrive G. Bachelard: “L’errore è una delle fasi della dialettica che bisogna
necessariamente attraversare. Esso dà origine a indagini più precise ed è l’elemento motore della
conoscenza”. E ancora: “Lo spirito scientifico è essenzialmente una rettifica del sapere, un ampliarsi dei
quadri della conoscenza. Esso giudica il proprio passato storico nel condannarlo. La sua struttura altro
non è che la coscienza degli errori storici. Dal punto di vista scientifico, si pensa al vero come ad una
rettifica storica d’un errore prolungato, si concepisce l’esperienza come rettifica dell’illusione comune e
primitiva. Tutta la vita intellettuale della scienza opera dialetticamente su questo differenziale della
conoscenza, al limite dell’ignoto. L’essenza stessa della riflessione consiste nel comprendere di non aver
capito”. Dal canto suo Popper liquida l’immagine di una conoscenza induttivistica che, fondata su base
empirica sicura, progredisce in modo lineare e cumulativo, espandendo il suo nucleo originario di verità,
e ad essa sostituisce quel modello di conoscenza e di razionalità che è esercizio critico della congettura
per la progressiva eliminazione degli errori: “La critica delle congetture è di importanza decisiva:
mettendo in evidenza i nostri errori, essa ci fa comprendere le difficoltà del problema che stiamo
cercando di risolvere. È in questo modo che prendiamo meglio conoscenza del problema e ci mettiamo
in grado di proporre soluzioni più avanzate: la stessa confutazione di una teoria - cioè, di qualsiasi serio
tentativo di soluzione del problema - è sempre un passo avanti, che ci porta più vicino alla verità. E
questo è il modo in cui possiamo imparare dagli errori. La nostra conoscenza si accresce nella misura in
cui impariamo dagli errori”. E ancora: “Evitare errori è un ideale meschino: se non osiamo affrontare
problemi che siano così difficili da rendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà allora sviluppo della
conoscenza. In effetti, è dalle nostre teorie più ardite, incluse quelle che sono erronee, che noi
impariamo di più. Nessuno può evitare di fare errori; la cosa più grande è imparare da essi”.
Nella psicologia del pensiero, la descrizione di un ragionamento di senso comune necessita di
implicazioni normative. È l’idealizzazione che attribuisce validità ai ragionamenti, che consente la
distinzione del ragionare rispetto allo ‘sragionare’, pur tenendo conto dei possibili errori. Quando si
isola il ‘patologico’ dal ‘normale’, ci si pone già sotto un’ottica idealizzante. Una psicologia descrittiva,
che non fosse anche normativa e valutativa, non assolverebbe la funzione propria di ogni disciplina
scientifica di avanzare spiegazioni e previsioni a proposito di un certo universo di oggetti
(normativamente) definiti attraverso gli strumenti concettuali e operativi ad essa inerenti.
“Eccezionalmente”, scriveva lo storico francese Marc Bloch, “il falso può dire il vero”. Dietro
questo apparente paradosso si nasconde una profonda verità della ricerca in scienze umane.
Questo vuol dire che le vie per la verità sono assai più tortuose e insidiose di quanto appaiano, e
che il cammino della vita reale, a conoscerlo bene, non può, né deve, evitare di fare i conti con quanto è
da sempre ritenuto moralmente riprovevole.
Gli errori non più intenzionali, questa volta, ma quelli inintenzionali: le falsificazioni
involontarie di quello che si vorrebbe dire, celano in sé un valore di verità che non appare, e che è
possibile trovare solo sulla base di una ricerca analitica, critica in senso lato, che può mostrarne la via.
Potrà così conoscersi non solo la causa materiale dell’errore, ma la sua ragion d’essere, la verità che
porta con sé in quanto errore.
Il delitto perfetto non esiste proprio in ragione della nostra umana complessità e molteplicità,
come non esiste il falso perfetto. Il falsario può infatti tener conto di tutte le variabili, di tutti i dettagli, e
magari, se informato di psicologia e di metodo storico, può applicare alla sua opera tutti i trucchi per
rendere plausibile la sua opera, ma non può prevedere il futuro, né può sapere cosa il tempo gli riserva
come interrogativi e nuove prospettive di indagine.
Se per la psicologia del ragionamento si vuole evitare il ruolo limitativo di proporre teorie
dell’errore, definito rispetto all’attribuzione di una competenza logica ideale, occorre che questa
disciplina precisi i criteri propri di idealizzazione al fine di salvaguardare la specificità dei suoi oggetti.
Questa ricerca difficile di autoidentificazione, che dovrebbe stabilire l’originalità del discorso della
psicologia rispetto ai pericoli di riduzionismo ad altre scienze, sembra attraversare tutto l’orizzonte delle
diverse teorie psicologiche.
Secondo Popper la teoria psicoanalitica è, al pari dell’astrologia, addirittura il prototipo di una
pseudo-scienza irrefutabile, giacché non regge al vaglio del criterio della falsificabilità, che per lui
rappresenta la cartina di tornasole della scientificità di una teoria, il marchio della sua legittimità
scientifica.
Nella teoria dei modelli mentali (TMM), o teoria computazionale del ragionamento, Johnson-Laird,
propone le caratteristiche della normale competenza inferenziale e le modalità in cui si determinano gli
errori. A suo parere il ragionamento “…non è un processo sintattico e formale; esso richiede invece che
i significati vengano compresi e le loro rappresentazioni mentali manipolate”. La comprensione del
discorso produce infatti un modello mentale, la cui struttura corrisponde alla struttura della situazione
descritta. Il modello che si è costituito potrebbe essere definito come una rappresentazione mentale
semianalogica di uno specifico stato di cose.
La TMM sarebbe un’alternativa alle teorie che ipotizzano l’esistenza di una logica mentale. Per
queste teorie il ragionamento consisterebbe nell’applicazione di regole di inferenza mentali alle
premesse e alla conclusione di un argomento: tali dimostrazioni implicite (nel caso del ragionamento
deduttivo) sarebbero analoghe alle dimostrazioni esplicite della logica elementare.
I modelli mentali descritti da Johnson-Laird sono invece strutture semantiche, che non
contengono variabili; in essi è anche possibile integrare l’informazione contenuta nelle premesse
utilizzando la conoscenza generale del mondo disponibile al soggetto. Nella TMM è previsto che le
persone facciano assunzioni arbitrarie allo scopo di costruire un modello, quando la comprensione e il
ragionamento si svolgano con dati incompleti. Dato che il modello mentale è modificabile in presenza
di nuove informazioni, la teoria è in grado di spiegare la ‘non-monotonicità’ del ragionamento di senso
comune: l’acquisizione di nuove informazioni può indurre cioè a ritrattare una conclusione (in contrasto
quindi con la proprietà di ‘monotonicità’ di un calcolo logico classico).
Per la TMM il ragionamento proposizionale, in cui vengono usati connettivi come “e”, “oppure”, “se..,
allora”, è utilizzato nella costruzione e valutazione di modelli mentali
La teoria, nel caso l’esecuzione del pensiero venga giudicata corretta in riferimento ad un
insieme di regole del tipo della sillogistica artistotelica, interpreta il ragionamento sillogistico. Il
sillogismo è una costruzione fortemente idealizzata, che permette di controllare la correttezza dei
ragionamenti di senso comune solo una volta che siano costretti dentro i suoi schemi, dopo che siano
stati privati delle loro caratteristiche costitutive semantiche e conversazionali. Sembrerebbe quindi che
la TMM si proponga non tanto di rispondere alla domanda come ragioniamo?, ma alla domanda ragioniamo
come dovremmo ragionare?.
I ricercatori hanno sviluppato una teoria per spiegare perché capita di dire “lo sapevo”, quando
in realtà non è così. Gli psicologi sono sempre stati affascinati da quella scorciatoia della mente definita
giudizio retrospettivo; è il modo in cui il ricordo delle nostre valutazioni cambia quando veniamo a
conoscenza del risultato della valutazione stessa.
Secondo i ricercatori quello che potrebbe causare il giudizio retrospettivo sarebbe un
meccanismo cognitivo che permetterebbe di liberare spazio nella nostra memoria eliminando
l’informazione non accurata e abbracciando la risposta esatta - una sorta di capacità della mente di
“fondere e di purgare” (merge and purge).
Nel modello proposto il giudizio retrospettivo ha luogo durante la “ricostruzione”, quando gli
individui tentano di ricostruire il loro giudizio precedente. L’idea è che qualsiasi feedback o
informazione esatta che viene ricevuta dopo aver condotto la prima analisi cambia la base di
conoscenza sottostante al giudizio originale causando una inclinazione verso la nuova informazione. E
più che pensare al fenomeno come a un errore della cognizione umana, come è sempre stato in passato,
i ricercatori ritengono che si tratti di un sottoprodotto di un meccanismo adattante.
Il giudizio retrospettivo permette di avere una memoria ben funzionante, in grado di
dimenticare quello di cui non si ha più bisogno, come per esempio una conoscenza antiquata, e di
aggiornare costantemente la conoscenza, aumentando l’accuratezza delle nostre deduzioni.
L’errore di giudizio retrospettivo, spesso conosciuto anche come l’effetto “lo sapevo fin
dall’inizio” o “determinismo strisciante”, porta a distorcere seriamente i giudizi.
Una volta che si venga a conoscenza di quale sarà il risultato, il ricordo di quello che si pensava
prima dell’accaduto viene alterato. Si inizia a pensare che in realtà era possibile sapere già ciò che
sarebbe accaduto, anche se in realtà non se ne era avuto sentore.
A. LE STRATEGIE DECISIONALI
Il “prendere una decisione” rappresenta uno dei comportamenti umani più frequenti nella
nostra vita quotidiana. Nonostante ciò è inverosimile pensare che questo sia un’attività semplice e
facilmente comprensibile da un punto di vista psicologico.
Il vocabolario della lingua italiana dà di “Decidere” le definizioni:
a) “pervenire a un giudizio definitivo ponendo fine a dubbi e incertezze preesistenti”
b) “stabilire dopo attenta analisi”.
Entrambe le definizioni presuppongono l’esistenza di una serie di strategie e di operazioni
mentali che il singolo individuo dovrebbe mettere in atto al fine di elaborare le informazioni in suo
possesso ed arrivare ad un risultato finale.
I processi mentali che permettono di vivere all’interno di una realtà sociale e di adattarsi di volta
in volta a sempre nuove situazioni, vengono definiti in psicologia “strategie decisionali”.
La strategia decisionale rappresenta una sequenza di operazioni mentali che possono essere
visualizzate con la produzione della forma “se” (condizione uno... condizione n), “poi” (azione uno...
azione n), “allora” (alternative e loro valutazione).
Le strategie decisionali sono operazioni cognitive e conative, cioè azioni sull’ambiente, usate per
trasformare lo stato iniziale di conoscenza in uno stato di conoscenza finale in cui il decisore considera
il problema decisionale come risolto (Payne, Bettman, Johnson).
Seguendo il modello del “Decisore Adattivo” proposto da Payne, Bettman e Johnson, si può
affermare che le persone usano, nella loro vita quotidiana, una vasta gamma di strategie decisionali, la
cui scelta dipende sia dalle caratteristiche sia dalla natura dei problemi decisionali di volta in volta
affrontati.
Di fatto, la realtà mostra come solo raramente le persone utilizzino strategie decisionali che
implicano l’elaborazione estensiva di tutte le informazioni rilevanti. In genere, infatti, vengono utilizzate
strategie decisionali più maneggevoli dal punto di vista dell’economia mentale, definite “euristiche”.
Le euristiche sono strategie decisionali semplificate che, se devono essere affrontati problemi
complessi (che implicano molte alternative), limitano l’ammontare delle informazioni processate e
semplificano la presa di decisione pur portando, talvolta, ad errori decisionali sostanziali.
Gli uomini possono disporre di un ampio spettro di euristiche per giungere alle loro decisioni.
La scelta è guidate dagli scopi contingenti, dalla complessità del problema e dalla quantità di
informazione disponibile.
Nella maggior parte dei casi, dunque, le persone sono chiamate ad effettuare una valutazione
della strategia decisionale da seguire che meglio risponde, nella situazione specifica, alle richieste del
compito, anche in relazione all’accuratezza cognitiva desiderata.
Da ciò deriva l’esistenza di una caratteristica fondamentale del nostro sistema cognitivo, cioè
una straordinaria flessibilità nell’utilizzo delle strategie decisionali a nostra disposizione.
Nel processo di decisione, considerato un’attività cognitiva complessa a capacità limitata, gli
obiettivi principali sono:
- Minimizzare il peso emotivo dovuto alla presenza di valori conflittuali fra le alternative
(Hogart),
- Raggiungere decisioni socialmente accettabili e giustificabili (Simonson, Tetlock),
- Prendere decisioni accurate che massimizzino i vantaggi, cioè l’utilità soggettiva ricavabile dal
decisore (Payne),
- Minimizzare lo sforzo cognitivo per acquisire ed elaborare le informazioni.
Come molte ricerche scientifiche hanno mostrato, le strategie che possono essere attivate nei
compiti di giudizio e di decisione sono strettamente vincolate dalla modalità con cui vengono percepiti,
organizzati, elaborati e recuperati gli stimoli. Nondimeno la strategia varia a seconda del numero di
alternative che devono essere considerate, oltre alla più volte dimostrata influenza di fattori individuali e
contestuali.
I parametri generali attraverso cui vengono solitamente descritte le diverse modalità decisionali
del singolo possono essere così descritti:
a) estensione, intesa come l’ammontare dell’elaborazione coinvolta;
b) tipo di valutazione, cioè se il processo di elaborazione è di tipo selettivo od omogeneo tra le
alternative;
c) tipo di processazione, basato sugli attributi delle singole alternative o sulle alternative considerate
in maniera olistica;
d) tipo di strategia utilizzata, se di tipo compensatorio (un valore positivo di un attributo può
andare a compensare un valore negativo di un altro attributo) o di tipo non-compensatorio.
Le caratteristiche psicologiche discusse fino a ora sono tutte basate, in un modo o nell’altro, sui
sentimenti e sulle emozioni.
Alcuni errori nei processi decisionali vengono causati da scorciatoie mentali che sono parte
integrante del modo in cui pensiamo: in questo modo si semplificano i compiti veramente difficili insiti
nell’esaminare le informazioni e dal processo decisionale.
Al fine di poter comprendere meglio questo tipo di valutazione, che in maniera del tutto
automatica viene messa in atto nella maggior parte delle decisioni assunte quotidianamente, è
opportuno fare una breve panoramica sulle strategie decisionali di cui si può disporre.
Ciascuna delle strategie decisionali sotto elencate rappresenta un metodo differente di
semplificare la presa di decisione, limitando l’ammontare delle informazioni da elaborare e/o facilitando
la modalità di trattamento dell’informazione stessa. A seconda del compito e della situazione
contingente vengono selezionati, in maniera automatica, modi di decidere diversi e spesso
complementari l’uno con l’altro; difficilmente sono adottate, in maniera stereotipata, sempre le
medesime strategie decisionali.
- Ancoraggio (dall’inglese anchoring). È il termine psicologico per una delle scorciatoie che la
mente usa nell’approccio di problemi complessi, selezionando il punto di riferimento iniziale (l’ancora)
e facendo piccoli cambiamenti non appena vengono ricevute ed elaborate informazioni aggiuntive.
Questa strategia riduce un problema complesso, (valutare tutte le informazioni come un tutto non
appena una nuova informazione viene ricevuta), al semplice compito di rivedere le conclusioni ogni
volta che un nuovo “pezzetto” di informazione viene aggiunto.
- Soddisfazione. Con questa strategia si prende in considerazione una sola alternativa per volta e
si comparano i valori di ciascun suo attributo con un prede finito valore di soglia, spesso definito come
livello di aspirazione. La singola alternativa viene scelta o rifiutata a seconda che tutti i suoi attributi
presentino valori sopra o sotto la soglia considerata.
- Lessicografia. Tale procedura determina l’attributo più importante ed esamina i valori di tutte
le alternative su quell’attributo, arrivando a selezionare l’alternativa con il valore più alto sull’attributo
medesimo.
- Eliminazione per aspetti. Questa strategia presuppone la iniziale determinazione dell’attributo
più importante, a cui segue la progressiva eliminazione delle alternative i cui attributi presentano valori
inferiori ad una certa soglia.
- Maggioranza delle dimensioni da confermare. Implica l’elaborazione di coppie di alternative: i
valori di ciascuna delle due alternative sono confrontati su ciascun attributo e le alternative con una
maggioranza di attributi vincenti viene mantenuta. Tale processo di confronto a coppie si ripete fino a
quando tutte le alternative sono state valutate, e l’alternativa “vincente” non è stata definita.
- Somma non ponderata. La scelta avviene semplicemente sommando i valori per ciascuna
alternativa su tutti gli attributi, ignorando qualunque tipo di informazione sull’importanza o sulla
probabilità di ciascun attributo.
- Somma ponderata. Questa strategia rappresenta un passo successivo alla precedente, dal
momento che nella scelta si considera l'importanza e/o il peso dei vari attributi rispetto al decisore.
- Casuale. La scelta avviene senza consultare alcuna informazione disponibile. È spesso
utilizzata in caso di pressione temporale o di elevata complessità del compito di decisione.
B. L’ERRORE DI RAPPRESENTAZIONE
Una scorciatoia che usa la mente per ridurre la complessità dei pensieri viene chiamata dagli
psicologi “errore di rappresentazione”. Si tratta di una supposizione che la mente compie secondo la
quale cose che condividono caratteristiche somiglianti sono abbastanza simili. Le classificazioni
vengono fatte basandosi su un numero limitato di qualità condivise.
Questo tipo di strategia è spesso implicata in errori. Un esempio di errore di rappresentazione
nel nostro modo di pensare è la tendenza a classificare le persone come “buone” o “cattive”, basandoci
su una breve lista di qualità. Quando lo facciamo, otteniamo più semplicità e velocità, ma a scapito della
comprensione di realtà più complesse della situazione in questione.
IL “SENNO DI POI ”, OVVERO L’ERRORE DI GIUDIZIO RETROSPETTIVO
L’“errore del giudizio retrospettivo” (hindsight bias) è la tendenza degli individui a credere,
falsamente, che sarebbero stati in grado di prevedere un evento correttamente, una volta che l’evento è
ormai noto.
L’errore di giudizio retrospettivo può presentarsi quando le persone che fanno una scelta o una
valutazione poi devono mettere in dubbio la valutazione stessa. Se, nel frattempo, gli fosse stato detto
quale sarebbe stato il giudizio giusto, il loro ricordo del loro giudizio sarebbe stato interpretato (o
distorto) alla luce della nuova informazione. È a causa del giudizio retrospettivo che ricordiamo date e
dati sbagliati, perché alla luce delle nuove esperienze adeguiamo il nostro ricordo e “facciamo una
media”.
Qualsiasi feedback o informazione corretta che una persona riceve, dopo avere formulato una
valutazione iniziale, aggiorna automaticamente la conoscenza alla base del giudizio iniziale.
Se una persona non riesce a ricordare il proprio giudizio iniziale, lo ricostruirà partendo dalle
conoscenze attuali. E quello che di solito sa al momento, non è l’informazione iniziale ma la versione
aggiornata di quello che sapeva all’inizio.
Una volta che si conosce il risultato, il ricordo di quello che si pensava prima dell’accaduto viene
alterato. Si penserà che in realtà ciò che sarebbe accaduto si sapeva già, anche se in realtà non se ne
aveva la minima idea.
Ci sono due paradigmi di base nella ricerca del “pregiudizio del senno di poi”: il progetto del
ricordo e il progetto ipotetico.
Il progetto del ricordo è quello che si riesce a ricordare di ciò che veramente si pensava, quello
ipotetico si riferisce alle previsioni del futuro. Il fatto di pensare che quello che è successo era in realtà
abbastanza prevedibile potrebbe fare rimpiangere amaramente di non aver preso la decisione giusta fin
dall’inizio.
Il desiderio di essere nel giusto cresce di conseguenza, e questo fenomeno può portare ad
modificare le valutazioni precedenti e spingere a superare i limiti che ci si era proposti inizialmente di
porsi.
I rafforzamenti analitici (hindsight bias) ci rendono più desiderosi di correggere i nostri errori
alla migliore occasione. Oltre all’hindsight bias in psicologia è conosciuto un altro fenomeno simile, il
“bias di conferma”. Bias è un termine inglese derivante dal latino bifax, bifacis (doppia faccia), usato in
psicologia nel significato specifico di interpretazione arbitraria, distorsione. È una caratteristica
individuale per la quale un soggetto attribuisce (o reagisce) in una maniera costantemente diversa da
quella che si potrebbe prevedere se si facesse esclusivamente riferimento alle leggi di funzionamento o
alle relazioni matematiche tra situazioni e comportamenti.
Il problema che pone l’errore di giudizio retrospettivo riguarda l’incapacità di ricordare le vere
premesse dalle quali eravamo partiti: le informazioni che acquisiamo vanno a modificare l’idea iniziale e
così non siamo più in grado di stabilire quali fossero stati i ragionamenti a priori.
L’errore di giudizio retrospettivo, quando porta a pensare che si era arrivati alla stessa
conclusione cui si è poi giunti, fa sopravvalutare la capacità di prevedere eventi futuri.
L’errore di giudizio retrospettivo è difficilmente dimostrabile a livello pratico, perché è la mente
stessa ad agire.
Secondo i ricercatori l’inclinazione al giudizio retrospettivo dovrebbe insinuarsi durante la
ricostruzione di un risultato. Vediamo quali sono i punti da cui partire:
a) se le persone non sono in grado di ricordare il loro giudizio originale, ricostruiranno il
giudizio basandosi su quello che sanno della situazione in questione.
b) i feedback sul risultato di un evento aggiornano automaticamente la conoscenza di una
persona di una determinata situazione (definiti copioni)
c) le persone ricostruiranno il loro giudizio originale usando i dati aggiornati più che la
conoscenza precedente.
Se un feedbak, perciò, non influenza direttamente il ricordo di una persona per la risposta
originale, è la conoscenza usata per ricostruire il responso che influisce indirettamente sul ricordo
aggiornato.
Il modello RAFT afferma che l’inclinazione al giudizio retrospettivo dovrebbe essere più forte
in situazioni ipotetiche perché gli individui tendono sempre a ricostruirne il risultato.
Secondo questo modello il cervello usa la stessa strategia chiamata fast and frugal (veloce e
semplice), o anche “take the best”, secondo cui il cervello tende a selezionare elementi cruciali e a
ignorare il resto. Ma non è detto che il resto sia di secondaria importanza.
Si è a lungo dibattuto, tra gli studiosi, se l’errore di giudizio retrospettivo sia dovuto a un difetto
della memoria o a una ricostruzione di storta della realtà.
L’approccio che riguarda un difetto della memoria sostiene che le informazioni del risultato
alterino la traccia della memoria per la valutazione iniziale, mentre la ricostruzione distorta della realtà
parte dal presupposto che gli individui che hanno dimenticato le loro valutazioni iniziali siano portati a
indovinare e, in presenza dell’informazione sul risultato, useranno questa informazione come ancora.
Il giudizio retrospettivo, alla luce degli studi più recenti, non sembrerebbe un errore della
cognizione umana, come si pensava in passato, ma un prodotto di un meccanismo di adattamento.
LA DEDUZIONE E L’INDUZIONE
L’attività cognitiva degli uomini è un’attività complessa, multidimensionale e di natura dinamica.
La deduzione rappresenta la funzione elementare che è maggiormente implicata, quando si sia rispetto
di quelle che sono le regole di logica formale, nel pensiero di tipo razionale ed in base alla quale, almeno
da un punto di vista teorico, è possibile comprendere e descrivere il processo di presa delle decisioni.
All’interno del processo di elaborazione delle informazioni esistono due importanti
componenti-funzioni del pensiero, che è opportuno conoscere e saper differenziare: la deduzione e
l’induzione.
In generale possiamo affermare che nella deduzione trova spazio quella parte della psicologia
del pensiero che si è occupata dello studio della organizzazione delle conoscenze, delle euristiche di
ragionamento e delle aspettative; mentre nello studio dell’induzione trova spazio la parte della
psicologia che ha affrontato lo studio della formazione dei concetti e dell’apprendimento. La psicologia
del giudizio e delle sue distorsioni valutative rappresenta uno spazio a parte all'interno di questo quadro
teorico, dal momento che in essa si riscontrano entrambe le suddette componenti fondamentali.
La deduzione è quel tipo di processazione di pensiero che permette, a partire da una conoscenza
organizzata già posseduta e presente a livello cognitivo, di assimilare un nuovo stimolo e di inserirlo
all’interno delle strutture informative già esistenti ed assemblate in memoria.
A tale scopo l’attività del sistema è diretta dall’applicazione degli schemi posseduti verso i dati in
ingresso (modalità top-down), e si orienta verso la definizione delle informazioni con alcuni ben precisi
scopi conoscitivi, identificabili anche come meccanismi di conoscenza, quali il dettaglio, la
discriminazione e l’analisi.
Il compito di una deduzione corretta è suddivisibile in tre momenti:
1. comprendere: si deve avere ben chiaro il punto di partenza della deduzione (premesse
espresse in forma verbale, ricordi, percezioni di una situazione),
2. generare una conclusione: si deve generare una conclusione provvisoria,
3. valutare la conclusione: si deve sottoporre a verifica logica e valutazione critica la conclusione
a cui si è pervenuti, al fine di stabilire se questa segue validamente dalle premesse di partenza.
La disciplina che maggiormente si è occupata e si occupa tutt’ora della validità delle deduzioni è
la logica, secondo la quale il solo modo per dimostrare che un argomento è valido sia derivarne una
dimostrazione formale in un calcolo logico.
Secondo la logica formale “una deduzione è valida se sono valide le premesse”, e ciò avviene a
prescindere da un singolo caso particolare, ma deriva da una premessa di ordine generale.
Non esiste, dunque, alcuna situazione, almeno dal punto di vista teorico, in cui da premesse vere
si arrivi ad una conclusione falsa, dal momento che esiste un sistema di regole ben definite in grado di
generare e controllare il pensiero “corretto e valido”.
Malgrado la capacità di trarre deduzioni valide, cioè solidamente fondate sulla logica formale, sia
motivo di razionalità, spesso accade che gli uomini mostrino un’intelligenza che si serve poco di tali
sistemi logico-formali nelle scelte quotidiane.
Nonostante la deduzione rappresenti la base del pensiero razionale, è l’induzione la componente
più utile all’uomo per comprendere la realtà circostante ed adattarsi in maniera dinamica alle richieste
ambientali in continuo divenire.
L’induzione è quella modalità di processazione dell’informazione di tipo bottom-up che tratta
unicamente lo stimolo in entrata, e cioè necessariamente informazione “nuova”.
Al fine di permettere al sistema cognitivo di accogliere questi nuovi dati altrimenti non trattabili,
il pensiero induttivo organizza i dati in forma di schemi e concetti nuovi per effetto del processo di
accomodamento della conoscenza.
L’induzione rappresenta, dunque, il motore dell’accrescimento delle informazioni, con specifici
meccanismi sotto stanti, automatici ed inconsci:
1. L’astrazione,
2. La sintesi,
3. La generalizzazione.
L’induzione ha luogo in tre momenti distinti:
a) Descrizione di un insieme di dati, proposizioni asserzioni verbali;
b) Formulazione di un'ipotesi che permetta di descrivere e comprendere nel miglior modo
possibile le informazioni iniziali in relazione ad uno sfondo di conoscenze generali;
c) Valutazione della conclusione a cui si è giunti, e conseguente eventuale sua modifica.
In base a quanto descritto fino ad ora possiamo definire, dunque, l’induzione come qualunque
processo di pensiero che generi una conclusione in grado di accrescere l’informazione semantica
contenuta nelle osservazioni o premesse iniziali.
L’induzione può anche essere considerata come la continua ricerca di un modello coerente con
l’osservazione e le conoscenze di fondo, ricerca che risulta essere comunque contenuta da particolari
vincoli. Tra questi i più importanti sono:
- La specificità . Consiste nella capacità del pensiero cognitivo di formarsi l’ipotesi che risulta
essere soddisfatta dal minor numero possibile di esempi di un concetto. Il sistema induttivo, infatti,
inizia con l’ipotesi più specifica per poi passare ad una ipotesi più generale ogni volta che si incontra un
esempio positivo estraneo all’ipotesi corrente.
- La disponibilità. Deriva dal meccanismo di recupero delle conoscenze pertinenti. Infatti, come
ben sappiamo dalla nostra comune esperienza, certe informazioni vengono in mente più facilmente di
altre e la disponibilità delle informazioni può, talvolta, distorcere il giudizio; tale distorsione è però
necessaria nella logica dell’induzione.
- La parsimonia. Si riferisce al numero minore di concetti più semplice, cioè con un numero
inferiore di combinazioni, ed è applicabile a domini dove la natura delle informazioni ha un carattere
prevalentemente combinatorio.
4. IL LAPSUS E GLI “ATTI MANCATI”
Nell’origine del lapsus è descritto il ruolo centrale della programmazione parallela (individuato e
presentato nella sua attualità ad esempio da Giusberti, Tabossi e Cavallero), della strutturazione della
associazione verbale, dei fattori di stress e ansia, di dissonanza cognitiva e/o emotiva, della volizione
conscia e inconscia, e dello spazio intersoggettivo stabilito dalle interazioni emotive tra i partecipanti
all’atto linguistico, ecc. È perciò evidente il ruolo di fattori scatenanti o facilitanti sia delle componenti
emotive sia delle condizioni dovute a fattori concomitanti quali memoria, attenzione, condizioni fisiche
e ambientati connesse con la fisiologia umana.
Ciò fa ritenere che nel lapsus si rivelino componenti psicogenetiche e fattori psico-biologici.
“Atti mancati” sono fenomeni cui tutti vanno soggetti. Ciò accade per esempio quando si vuol
dire una cosa e al suo posto se ne dice un’altra (lapsus verbale), o quando succede lo stesso nello
scrivere, sia che ci se ne renda conto o no; oppure quando si legge in un foglio stampato o in un
manoscritto qualcosa di diverso da quello che vi è scritto (lapsus di lettera); o, analogamente, quando si
ode in modo errato qualcosa che viene detto (lapsus di ascolto),
Un’altra serie di fenomeni di tal genere ha per base una “dimenticanza” temporanea; per
esempio, quando non si sa trovare un “nome”, che pure si conosce e si riconosce regolarmente, o
quando si dimentica di attuare un proposito, di cui più tardi ci si ricorda e che quindi si era dimenticato
solo per un determinato momento. In una terza serie viene meno questa condizione di temporaneità,
per esempio nello smarrire, quando qualcuno colloca un oggetto in un luogo qualunque e non riesce più
a ritrovarlo, o nel caso del tutto analogo del perdere.
A ciò si riconnettono determinati “errori”, nei quali compare nuovamente la temporaneità,
come quando per un certo periodo si crede qualcosa che pure, prima e dopo, si sa essere differente, e
una quantità di fenomeni simili dai nomi diversi. Tra queste manifestazioni, solo di rado una di esse,
come ad esempio la perdita di un oggetto, assume una certa importanza pratica. Per questo gli atti
mancati suscitano scarsa attenzione, provocano deboli affetti e così via.
Una persona che di solito sa parlare correttamente può incorrere in lapsus verbali: l) quando è
leggermente indisposta e affaticata; 2) quando è eccitata; 3) quando è assorbita eccessivamente da altre
cose.
Alcune persone sono abituate a riconoscere l’avvicinarsi dell’emicrania da questo loro
dimenticare i nomi propri. Anche quando si è eccitati si scambiano spesso le parole - nonché le cose: “si
prende una cosa per l’altra”. - La dimenticanza di propositi e tante altre azioni non intenzionali si
presentano quando si è distratti, ossia propriamente parlando, quando si è concentrati su qualcos’altro.
Si tratterebbe quindi, in tutti i casi, degli effetti di un disturbo dell’attenzione provocato da cause
organiche o da cause psichiche.
Andando ad approfondire le ricerche si scopre che queste azioni mancate e queste dimenticanze
si presentano anche in persone che non sono affaticate, distratte o eccitate, ma si trovano nel loro stato
normale da ogni punto di vista.
Vi sono un gran numero di azioni che vengono compiute del tutto automaticamente, con
scarsissima attenzione, e tuttavia con assoluta sicurezza.
Non si comprende perché l’eccitazione non aumenti piuttosto l’attenzione rivolta a ciò che si
intende fare con tanto interesse.
In concomitanza con gli atti mancati, inoltre, si verificano tanti piccoli fenomeni collaterali che
non si riescono a capire e che non ci sono resi più accessibili dalle spiegazioni finora prese in
considerazione. Se, per esempio, si dimentica temporaneamente un nome, ci si adira, si vorrebbe
assolutamente ricordarlo, e non si riesce a desistere da questo tentativo.
Perché chi è adirato riesce così raramente a volgere la sua attenzione, come tuttavia vorrebbe,
sulla parola che, come egli dice, gli sta “sulla punta della lingua” e che riconosce subito quando viene
pronunciata in sua presenza?
Qualcuno ha cercato di fornire spiegazioni degli atti mancati. Indisposizione e disturbo
circolatorio danno una giustificazione fisiologica della menomazione della funzione normale;
eccitamento, affaticamento, distrazione sono fattori di altro genere, che si potrebbero chiamare
psicofisiologici. Questi ultimi si lasciano facilmente tradurre in teoria. Sia l’affaticamento che la
distrazione, e forse anche l’eccitazione generale, provocano il ripartirsi dell’attenzione, il che può avere
come conseguenza che all’atto in questione si rivolga troppo poca attenzione. È allora particolarmente
facile che questo atto venga disturbato, eseguito in modo impreciso. Un lieve malessere o modificazioni
nell’afflusso di sangue all'organo nervoso centrale possono provocare lo stesso effetto poiché
influenzano in maniera analoga il fattore determinante, che è il ripartirsi dell’attenzione.
Queste azioni mancate e queste dimenticanze si presentano anche in persone che non sono
affaticate, distratte o eccitate, ma si trovano nel loro stato normale da ogni punto di vista, a meno che,
proprio in conseguenza dell’atto mancato, non si voglia attribuire a posteriori alle persone in questione
un’eccitazione che esse però non sono disposte ad ammettere. Le cose possono anche non essere così
semplici, tali cioè che l’esecuzione di un atto sia garantita dall’aumentare dell’attenzione rivoltagli e sia
compromessa dal diminuire della stessa. Vi è un gran numero di azioni che vengono compiute del tutto
automaticamente, con scarsissima attenzione, e tuttavia con assoluta sicurezza. Chi va a passeggio quasi
senza sapere dove sta andando, tiene tuttavia la direzione giusta e arriva alla meta senza perdersi.
Perlomeno, di regola, le cose vanno così. Il pianista esperto tocca i tasti giusti senza pensarci.
Naturalmente, una volta tanto può anche sbagliare, ma se l’automaticità di chi suona aumentasse il
rischio di sbagliare, proprio il virtuoso, per il quale suonare è diventato perfettamente automatico a
causa del grande esercizio, sarebbe esposto in massimo grado a questo rischio. Al contrario, noi
vediamo che molti compiti vengono eseguiti con particolare sicurezza allorché non sono oggetto di
un’attenzione particolarmente intensa, e che la disavventura dell’atto mancato tende a verificarsi proprio
quando si tiene in modo particolare a,una corretta esecuzione; quando dunque la necessaria attenzione
non è certamente stata sviata. Si può dire allora che esso è effetto della “eccitazione” ma non
comprendiamo perché l’eccitazione non aumenti piuttosto l’attenzione rivolta a ciò che si intende fare
con tanto interesse. Il fatto che qualcuno in un discorso importante o in una comunicazione orale dica
con un lapsus verbale il contrario di ciò che intende dire, è difficilmente spiegabile in base alla teoria
psicofisiologica o dell’attenzione.
Si verificano casi in cui gli atti mancati si moltiplicano, si concatenano, si sostituiscono tra loro.
Quando succede di commettere un lapsus verbale, e si potrebbe commetterlo in infiniti modi;
potrebbe accedere di dire una parola tra mille altre al posto di quella giusta, o deformare il termine in
innumerevoli modi. Ora, c’è un qualche cosa che in determinate circostanze, tra tutti i modi possibili,
induce a commettere il lapsus proprio in un certo modo, oppure ciò è affidato al caso, a una scelta
arbitraria, per cui a questo interrogativo non è possibile dare alcuna spiegazione ragionevole?
Due autori, Meringer e Mayer suddividono le deformazioni subite dal discorso a causa dei
lapsus in scambi, presonanze, risonanze, commistioni(contaminazioni)e rimpiazzamenti (sostituzioni).
La forma più comune, e anche la più vistosa, di lapsus verbale è tuttavia quella in cui si dice
l’esatto contrario di ciò che si intendeva dire.
Talvolta è possibile dare un senso al lapsus, ovvero l’effetto del lapsus in quanto tale ha forse il
diritto di essere considerato un atto psichico pienamente valido, perseguente un proprio fine,
espressione di un contenuto e di un significato.
Così sembra che talvolta l’atto mancato sia di per se stesso un’azione del tutto normale che si è
messa al posto di un’altra azione attesa o progettata.
È avvenuto ripetutamente che un poeta si sia servito del lapsus verbale o di un altro atto
mancato come mezzo di rappresentazione poetica. Questo fatto è sufficiente da solo a dimostrarci che
egli considera l’atto mancato, ad esempio il lapsus verbale, qualcosa che ha un senso, tant’è che lo
produce intenzionalmente. Non accade certo che il poeta commetta per caso un lapsus di scrittura e lo
lasci poi sussistere nel suo personaggio sotto forma di lapsus verbale. Con il lapsus, egli vuol farci
comprendere qualcosa e noi possiamo verificare di che cosa si tratti, forse un’allusione al fatto che il
personaggio in questione è distratto o affaticato o sta per avere un’emicrania. Naturalmente, non
intendiamo esagerare l’importanza dell’uso significativo del lapsus da parte del poeta.
È vero che i lapsus potrebbero essere privi di senso, essere cioè eventi psichici casuali, oppure
avere un senso solo in casi molto rari; e il poeta manterrebbe il diritto di spiritualizzarli, dotando li di
senso per servirsene secondo i suoi scopi.
Ma non ci sarebbe neanche da meravigliarsi se in fatto di lapsus avessimo da apprendere più dal
poeta che dal filologo o dallo psichiatra.
5. NEUROBIOLOGIA DELL ’ERRORE
Popper afferma che il metodo per prova ed errore “è fondamentalmente lo stesso adottato dagli
organismi viventi nel processo di adattamento”. Popper sostiene, infatti, che “dall’ameba a Einstein lo
sviluppo della conoscenza è sempre il medesimo: tentiamo di risolvere i nostri problemi, e di ottenere,
con un processo di eliminazione, qualcosa che appaia più adeguato nei nostri tentativi di soluzione”.
Partendo da queste posizioni, L. Lentini scrive che “si possono distinguere tre livelli di
adattamento: il livello genetico, il livello comportamentale e il livello della conoscenza oggettiva, come
ad esempio la formazione di una tesi scientifica. A tutti e tre i livelli i cambiamenti adattivi prendono
avvio da strutture ordinate (rispettivamente: la struttura genetica dell'organismo o genoma, il repertorio
innato di possibili forme di comportamento e le regole di comportamento tramandate dalla tradizione,
le teorie dominanti e i problemi aperti); tali strutture vengono trasmesse sempre per istruzione,
mediante il codice genetico o mediante la tradizione. A causa delle sfide a cui esse vengono sottoposte
si hanno, come risposta, dei mutamenti che hanno origine dentro la struttura e non sono dovuti a
istruzioni provenienti dall’ambiente; essi sono quindi sottoposti a selezione, che elimina i tentativi
insoddisfacenti, gli errori genetici e lascia sopravvivere soltanto quelli soddisfacenti, i quali vengono a loro
volta trasmessi per istruzione”.
6. LE CAUSE E I TIPI D ’ERRORE
Gli errori sono dovuti, talvolta, alla distanza tra il modello mentale di chi agisce e il mondo
reale, esterno, degli oggetti su cui si agisce. Le cause di errore degli esseri umani sono molte:
- spiegazioni fallaci,
- senso di impotenza,
- problemi nell’esecuzione o nell’interpretazione delle azioni,
- lapsus. I lapsus (dal latino: scivolata) corrispondono ad una mancata realizzazione di
un’intenzione chiara. Non sono dovuti a inesperienza o cattiva comprensione, ma a fenomeni
psicologici che prendono i sopravvento per vari motivi. Possiamo vederne di vari tipi:
Errori di cattura. Un’attività frequente prende il sopravvento su un’attività più rara, ma simile.
L’attività frequente cattura l’attività rara, anche se stiamo eseguendo l’altra:
Es.: cantare un motivetto familiare
Es.: andare in camera e mettersi a letto
Es.: accompagnare una persona in macchina e trovarsi a casa
Errori di descrizione. L’azione da eseguire è descrivibile in termini di intenzioni ed azioni in
maniera simile ad un compito più comune. Si tratta tipicamente di azioni corrette sull’oggetto sbagliato:
- Gettare panni sporchi nel WC
- Versare olio bicchiere, o salare una torta
- Riappendere il telefono sbagliato
Errori di attivazione (o indotti da dati irrilevanti). Azione da eseguire e gli input esterni entrano in
contrasto, per cui si attivano azioni incoerenti con le intenzioni, influenzate dagli input esterni.
- Aspetto qualcuno in ufficio, suona il telefono, rispondo e dico “Avanti”
- Debbo comunicare un totale ad un collega per telefono. Invece di fare il suo numero di
telefono, compongo la cifra che debbo comunicargli.
- Pensare così intensamente a non dire una cosa che si finisce per dirla.
Errori per cessata attivazione. Azione lunga e piena di sottotask può generare distrazioni sufficienti
a far perdere nozione del task originario.
- Dimentica parte dell’atto, magari lo scopo, perché siamo concentrati sulle intenzioni o
sull’azione in sé stessa.
- Necessario allora ripetere la sequenza di azioni che ci hanno portato a formare lo scopo. Es,:
Vado in un altra stanza per prendere un oggetto; arrivo nella stanza e non mi ricordo più cosa c’ero
venuto a fare.
Errori di modalità. Errore tecnologico, come dimenticarsi che gli stessi comandi hanno funzioni
diverse usati in modo diverso, es. oggetti con comandi simili per funzioni diverse.
Perché si sbaglia?
Minimizzazione: zittire il cane proprio la volta che c’è un ladro.
Razionalizzazione: fornire spiegazioni a posteriori razionalissime proprio perché sono a
posteriori.
Problemi di attenzione selettiva: il ragionamento conscio è concentrato, lento e seriale,
riduzionistico, possiamo non reagire con sufficiente velocità agli input; il ragionamento automatico è
veloce, olistico, associativo: nello sforzo di concentrarci nei fare qualcosa, perdiamo di vista le
conseguenze.
Pressione sociale ed economica: a volte la pressione sociale, il desiderio di non fare brutta figura,
i costi connessi con un cambiamento di programma, ci spingono a non fare cose che sarebbe saggio
fare.
7. L’ERRORE SUL PIANO LOGICO
Quando si cerchi di individuare il senso di un’operazione logica e le difficoltà che essa
comporta, a prescindere dal significato connesso agli usi linguistici e al contesto cognitivo e
motivazionale dell’individuo, è problematico isolare l’aspetto logico da quello più propriamente
semantico.
Per esemplificare queste difficoltà basta ricordare gli equivoci in cui si è incorsi in certi studi del
pensiero schizofrenico, attribuendo ad incapacità al ragionamento logico l’errato uso del sillogismo, più
propriamente riconducibile, come è stato dimostrato, ad una forma di dissociazione semantica (Von
Domarus, Arieti, Gottesman, Chapman Piro).
L’errore logico è strettamente connesso con la dissociazione semantica. La constatazione che è
difficile, se non impossibile, trovare una corrispondenza tra formule logiche ed espressioni verbali che
conservino lo stesso significato non deve condurre ad affermare che non c’è un possibile criterio di
correttezza logica negli usi linguistici; così come la constatazione che la percezione spesso non trova
corrispondenza in un suo correlato fisico non porta a negare l’errore percettivo. Nel pensiero
quotidiano esiste la consapevolezza di un ragionamento scorretto e la possibilità di rettificarlo senza
l’aiuto di una formalizzazione. Ad esempio, di fronte ad un’affermazione di questo tipo: “il tal cibo è
genuino, quindi non può far male” ci accorgiamo di trovarci di fronte ad una falsa generalizzazione,
derivata probabilmente da un ragionamento scorretto come questo: “gli alimenti non naturali sono
(spesso) nocivi; questo è genuino, quindi non fa male”. In un’operazione successiva possiamo
formalizzare questo ragionamento e utilizzare le regole del sillogismo o dell’implicazione materiale per
specificare i tipi di fallacia che vi ricorrono, il che può essere comodo in una ricerca sperimentale per
facilitare i confronti e la ricerca degli errori.
L’esempio citato rappresenta un errore molto frequente nel pensiero quotidiano, consistente nel
trarre inferenze non corrette da un enunciato in cui figuri implicitamente o esplicitamente un nesso
condizionale fra due eventi. Errori di questo genere sono alla base di molti nostri atteggiamenti,
comportamenti, giudizi, non solo nella vita quotidiana meno controllata, ma anche in quel settore della
nostra attività nel quale ci sforziamo di essere più rigorosi, per esempio nella ricerca scientifica. È vero
che certe fasi della ricerca scientifica non consentono altro mezzo per procedere nella conoscenza, ma è
altrettanto vero che un ragionamento scientifico di questa struttura può portare a conclusioni assai
pericolose, quelle di attribuire gli effetti ad una falsa certezza.
La difficoltà ad ottenere risposte del tipo “non si può sapere” è tipica della infanzia. Piaget
spiega il fenomeno con la impossibilità che incontra il pensiero nelle prime fasi di sviluppo a staccarsi
dal dato effettivo per passare ad una formulazione ipotetico-formale. Tuttavia è presente la stessa
difficoltà, sia pure in misura minore, anche in soggetti adulti, a una età cioè in cui l’individuo è capace di
comprendere ed utilizzare operazioni formali; indipendentemente dal contenuto significativo
dell’implicazione si osserva sempre la tendenza a sostituire ad un collegamento “debole”, come quello
dell’implicazione, un collegamento “forte”, come quello simmetrico dell’implicazione reciproca, che
identifica ragione sufficiente con ragione necessaria.
I due aspetti del problema, il passaggio dal determinato all’indeterminato e dal concreto-reale
all’astratto-ipotetico, trovano una matrice comune nella tematica degli Universi di discorso. Tra i vari
significati che i logici attribuiscono alla nozione di “universo di discorso”, hanno maggior rilievo quello
che fa riferimento a diversi piani di esperienza (la realtà fattuale contrapposta alla realtà ipotetica), e
quello, strettamente connesso all’altro, che sottintende un collegamento di contesti linguistici in una
relazione gerarchica: un universo di discorso può contenerne un altro nel senso che il primo è una
condizione per parlare del secondo.
La resistenza ad accedere all’indeterminato ci sembra riconducibile alla difficoltà che il pensiero
naturale incontra a porsi a un livello di discorso che non sia quello suggerito dalla domanda stessa.
- Nelle situazioni sperimentali si sono potute individuare di volta in volta alcune cause principali
della frequenza di errori. In alcuni casi la formulazione stessa dei termini del problema non consentiva
una risposta veramente intelligente; ma la difficoltà a inferire correttamente è apparsa rilevante quando
il soggetto è stato messo nelle condizioni di comprendere pienamente la situazione problematica.
- Il valore operativo dell’implicazione è direttamente connesso con il contesto cognitivo in cui si
inserisce l’enunciato. Quando l'enunciato è tale per cui le conoscenze precedenti siano nulle o
inutilizzabili, è possibile constatare che la forma sintattica non è indifferente.
La difficoltà maggiore incontrata dal pensiero naturale è quella di rimanere nell’indeterminato.
Forse perché per passare dal linguaggio al metalinguaggio è necessario un’atteggiamento conativo (uno
sforzo di pensiero). Quando l’operazione logica non può essere svolta nel contesto di discorso
proposto e richiede una critica di questo, le inferenze saranno spesso errate.
8. L’ERRORE IN AMBITO LAVORATIVO
Ogni attività di pensiero e azione è sottoposta alla fallibilità umana e quindi alla potenzialità di
errore. Quelli che appaiono come errori del singolo sono spesso, in realtà, il risultato della convergenza
di molte concause.
È comune reagire al verificarsi di un errore in ambito lavorativo cercando un colpevole da
punire, è spesso rilevabile, però, che l’errore avviene per convergenza di molti fattori, umani, tecnici ed
ambientali. Gli errori possono essere “attivi” quando hanno effetti immediati: spesso sono provocati da
operatori durante la loro attività di servizio, “latenti”, i più numerosi in un’organizzazione complessa,
quando sono originati da installazione scorretta di macchinari, scarsa manutenzione degli stessi,
decisioni inadeguate del management, organizzazione approssimativa.
Creare una cultura della sicurezza e sviluppare un sistema di raccolta di informazioni relative ad
eventi di pericolo, incidenti e quasi-incidenti nel campo lavorativo, utilizzare i dati per la prevenzione ed
il controllo di possibili errori, creare una cultura diversa nei lavoratori e nell’opinione pubblica, sono
criteri per realizzare un sistema idoneo a salvaguardare, garantire e recuperare la popolazione soggetta a
rischi per errori.
Esiste però una difficoltà dovuta all’ordinamento giuridico italiano, relativa al trattamento di
informazioni circa eventi in cui si siano verificati errori o violazioni di norme che hanno esposto a
rischio di danno persone o cose. Se è vero che l’acquisizione di questi dati consente di realizzare forme
di prevenzione, è anche vero che la magistratura, venendo a conoscenza dell’evento non può evitare di
procedere secondo il codice.
Un aspetto di particolare rilevanza in questo settore è l’esistenza di differenze individuali nella
produzione di errori, ovvero la possibilità che si verifichi una “propensione all’errore”.
Come già ricordato, Popper ha chiarito che “impariamo dagli errori”, riprendendo non solo un
luogo comune di tutta la storia dell’umanità, ma una tradizione-epistemologica che aveva fatto la sua
strada in Francia nei primi decenni del secolo. In questo contesto alla falsificazione viene dato un ruolo
determinante per la validazione delle teorie scientifiche: la verità che più si avvicina al modo umano di
rapportarsi al reale, nella consapevolezza della sua inesauribile e concreta molteplicità, è quella
falsificabile criticamente e non quella dogmaticamente imposta dall’alto.
Giuseppe Giunta
Psichiatra
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