Pagine 01 - 72 (2011 completo) - Associazione Augusta

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Pagine 01 - 72 (2011 completo) - Associazione Augusta
Augusta
Sommario
2011
EMILIANO JANUTOLO BARLET
Una scuola per due valli. Le scuole tecniche
della Valle Cervo e i loro allievi della Valle
del Lys: storia, testimonianze e relazioni.
2
CESARE RAVAZZI
Tremila anni di storia del clima in Valle d’Aosta.
La registrazione dell’anfiteatro
del ghiacciaio del Lys.
16
DONATELLA MARTINET
Tourrison tra prati e pascoli.
20
MICHELE MUSSO
Il toponimo Ruassi nel Vallone di San Grato:
traccia linguistica e d’uso del suolo.
27
BARBARA RONCO Margitisch
con introduzione di Elena Landi
«Tutti italiani?», wir hen antcheede: «Sì!».
«Tutti italiani?», noi abbiamo risposto: «Sì!».
34
Membres
Michele Musso
Luigi Busso
BATTISTA BECCARIA
Processo alla strega Yona Ronco
di Issime (1461).
39
Photo de couverture
Issime, 6 gennaio 2011
Villaggio del Méttelti, Vallone di San Grato. Sullo sfondo il
monte chiamato ‘dan Torre‘ sopra l’alpeggio di Éischemblattu.
Foto di Sebastiano Ronco.
JOLANDA STÉVENIN
La cappella di Chincheré.
51
MARCO ANGSTER
Scrivere tra i walser. Perché una nuova grafia?
55
La photo de la quatrième de couverture,
Issime, 16 gennaio 2011
Capre al pascolo verso il Vallone di Tourrison lungo la mulattiera chiamata ‘leiden Tritt‘ nei pressi di Pera Pioana. Sullo
sfondo nascosta fra gli alberi la cima Wéiss Wéib.
Foto di Sebastiano Ronco.
VITTORIO DE LA PIERRE
Prima ascensione nel massiccio
del Monte Rosa (1778).
59
TIZIANA FRAGNO
La collezione gressonara di Loria in occasione
del cinquantenario dell’Unità d’Italia.
62
ANNA MARIA PIOLETTI
La cultura walser va a scuola: esperimenti
di insegnamento nella scuola primaria.
64
ROLANDO BALESTRONI
Il fuso piantato su una tomba del cimitero.
66
WILLY MONTERIN
Gressoney-La-Trinité
Osservatorio meteorologico di D’Ejola
(m 1850 s.l.m.).
68
IMELDA RONCO Hantsch
Gottsch ergans vür d’lljaubu sieli.
Dio lo applichi ai defunti.
70
COMITé de RÉDACTION
Président
Ugo Busso
Directeur responsable
Elena Landi
Coordinateur de rédaction
Michele Musso
Autres photos: Emiliano Janutolo Barlet, Cesare Ravazzi, Donatella Martinet, Michele Musso, Sara Ronco, Sebastiano Ronco, Edmondo Ronco†, Vittorio De
La Pierre, Rolando Balestroni, Willy Monterin.
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Augusta: Rivista annuale di storia, lingua e cultura alpina
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Amministrazione e Redazione: loc. Capoluogo, 2 - 11020 - Issime (Ao)
Michele Musso
Oratorio dei Schützersch al villaggio di Gran Pra. 72
Stampa: Tipografia Valdostana, C.so P. Lorenzo, 5 - 11100 Aosta
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A U G U S T A
Una scuola per due valli
Le scuole tecniche della Valle Cervo e i loro allievi della Valle del Lys:
storia, testimonianze e relazioni
Emiliano Janutolo Barlet
Introduzione
M
i è rimasto ben vivo un ricordo: stavo
salendo lungo la mulattiera che dal lago
della Vecchia conduce al Colle omonimo, l’aria frizzante, il cielo azzurro, i
colori delle pendici e gli anfratti della
montagna si alternavano tra zone in ombra, bluastre, con
altre dorate dal primo sole; poi, giungendo al colle che si
apriva come un grande U sull’incognito, accelero il passo
e scopro un altro panorama, un altro mondo di valloni,
cime, ghiacciai e sul fondo una lunga striscia verde di
prati disseminati di case. Era il mio primo incontro con
l’altra valle, quella del Lys, che da allora mi ha sempre
affascinato; ciò che si collega con questo luogo mi interessa e la scoperta della presenza di allievi valdostani in
Valle Cervo è stato il punto di partenza di questa ricerca.
Il 2011 presenta una serie di anniversari che sono singolari e che suscitano curiosità : oltre ai 150 anni della
nascita della nazione italiana (non estranea al nostro ar-
gomento), ricorrono anche i 150 anni della fondazione
della Scuola Tecnica di Campiglia Cervo, inoltre si ricordano i 100 anni della prima presenza di allievi valdostani:
Freppaz Riccardo, Jaccond Giulio, Tousco Luigi e Tousco
Emilio; infine, i 50 anni della presenza dell’ultimo allievo
valdostano nella Scuola di Rosazza, che purtroppo si avviava a chiudere. Queste ricorrenze prestano lo spunto
per ripercorrere gli eventi storici ed indicare quali condizioni stimolarono prima e permisero poi, la costituzione
di due scuole tecniche professionali per le costruzioni
edili e stradali. Tali realtà marcarono e rivoluzionarono
la vita sociale della Alta Valle Cervo, promuovendo la formazione di tecnici idonei a lavorare e anche a dirigere i
cantieri delle nuove infrastrutture italiane (oltre che all’estero); la loro affermazione professionale e, di riflesso, il
miglioramento della loro situazione economica contribuì,
unitamente al successo delle imprese edili valligiane, a
sviluppare una certa agiatezza. La validità delle scuole e
la fama che ne conseguiva stimolarono così l’iscrizione di
allievi anche esterni alla valle, biellesi delle valli vicine,
1.
Alta Valle Cervo vista dal Poggio Bruera: sull’asse della valle in primo piano il campanile di Campiglia Cervo, segue l’abitato
di Rosazza e in fondo Piedicavallo; alla sinistra il Santuario di San Giovanni; sullo sfondo le montagne al confine valdostano.
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poi anche canavesani, vercellesi e valsesiani, e non ultimi
una sessantina di valdostani. Ad alcune di queste persone
mi sono rivolto per conoscere quale è stata la loro storia
lavorativa e comprendere se la scuola ha inciso sul loro
futuro e quali opportunità ha offerto loro.
Le premesse storiche alla formazione
delle scuole in Valle Cervo
I valichi verso la valle del Lys e la Valsesia e le vie pedonali, in quota verso le aree limitrofe biellesi, nonché lungo
l’asse centrale della valle, favorirono il popolamento del
territorio, a partire almeno dall’alto medioevo, di genti
di origine eterogenea, probabilmente anche di walser e
franco-provenzali valdostani, attratte anche dall’importante mercato di Andorno fin dal 1200, essendo per loro
il più vicino o il più comodo per gli scambi e la vendita dei
loro prodotti.
Lo sfruttamento dei pascoli alpini, del legname dei boschi
utilizzato per le carbonaie, e specialmente delle cave di
sienite, una roccia intrusiva simile al granito e ottima per
essere lavorata, o di gneiss e micascisti utili alle costruzioni, spinse un numero crescente di persone a scegliere
di vivere in Alta Valle Cervo: erano già 2000 gli abitanti
nel 1700, quando si formò la Comunità di Valle staccatasi
da quella di Andorno, e ben 6000 alla fine del 1800, al momento della ”epoca d’oro” per le imprese valligiane operanti nel mondo intero. Un numero enorme per l’esiguità del territorio, solo 73 km quadrati, ma comprendente
una considerevole aliquota di popolazione attiva maschile
che da sempre doveva emigrare per esercitare il proprio
mestiere, cioè contemporaneamente le due professioni di
scalpellino e muratore della pietra, in grado quindi di preparare la pietra e poi di disporla in muratura, per costruire
strade, forti e costruzioni edili. In effetti, la forte specializzazione della professione degli uomini nacque a seguito
dell’esigenza di creare i terrazzamenti per lo sfruttamento
del territorio e il tracciamento della viabilità necessaria ai
collegamenti, in presenza di una buona pietra locale.
Questo piccolo mondo è caratterizzato da un’originale
identità culturale dovuta alle difficoltà ambientali montane unite alle esperienze accumulate nel vivere in contrade sconosciute e diverse per lingua, usi e costumi. Gli
abitanti, detti “valit” cioè quelli della valle, la chiamano
“La Bürsch”, un antico toponimo che assume il significato di piccola patria, il luogo dove rifugiarsi, la casa nel significato inglese di home. Una certa analogia esiste dunque con la Valle del Lys, sia per la professione che per la
conseguente emigrazione. Una componente importante
della forza lavoro si dedicava all’edilizia, a Issime come a
Fontainemore e a Lillianes, in particolare erano conosciuti ed apprezzati i muratori di Gaby e a detta di alcuni, i migliori erano quelli di Niel, come d’altronde scrive Jolanda
Stévenin: ”la mémoire collective affirme que les Gabistres
ont toujours été maçons”.
Quindi, in Valle Cervo anche se una parte degli uomini
rimaneva a lavorare nelle cave, la parte maggiore emigrava: li troviamo già attivi nei grandi cantieri della Certosa
di Pavia, del duomo di Milano, della cittadella di Torino.
Nel 1585 un documento del Duca di Savoia riferiva che
gli uomini “vanno a costruire et murare case per lo spazio di nove mesi all’anno”, parteciparono alla difesa delle
terre sabaude, costruirono ponti e strade militari e fortificazioni a Bard, Exilles e Fenestrelle. In seguito, contribuirono alla realizzazione, sotto Napoleone, delle strade
del Moncenisio e del Sempione. Durante la restaurazione
sabauda, ritornarono a costruire nei forti di Bard e anche
in Maurienne nei forti dell’Esseillon: queste grandi opere
permisero un salto di qualità alle imprese valligiane ormai ben strutturate ed in grado di stipulare contratti di
discreta importanza. L’avvento di uno stato nazionale moderno e la prospettiva di un futuro di grandiose infrastrutture viarie e ferroviarie esigevano però un miglioramento
professionale delle maestranze. Sotto lo stimolo del conte
Camillo Benso di Cavour e col sostegno di Quintino Sella,
che si rendevano ben conto della mancanza di una istruzione tecnico-professionale intermedia idonea a creare
anche la figura del tecnico moderno, sorse qui l’idea di
creare ciò che fino ad allora mancava: una scuola di carattere tecnico-pratico.
La fondazione della scuola
A Campiglia Cervo nel 1861 alcuni valligiani posero le
basi per la creazione di una scuola diurna che potesse
fornire appunto quell’insegnamento a carattere tecnicopratico nel campo delle costruzioni edili e civili. Tale
scuola era indirizzata a quei giovani che, nei mesi invernali di sospensione forzata del lavoro all’esterno dovuto
al clima, volevano, con lo studio, intraprendere un cambio di attività: da scalpellino e muratore ad assistente
edile e capocantiere e successivamente magari anche
imprenditore. L’anno dopo si formalizzò la nascita della Società delle Scuole Tecniche che vedeva Presidente
l’Ing. Alessandro Mazzuchetti e nel 1863 supportata da
soci fondatori e sottoscrittori di quote societarie; anche i
comuni versarono un contributo di sostegno che integrò
quello del benefattore Cristiano Antonio Vanni, il quale
già aveva contribuito alla realizzazione dell’edificio delle
Scuole Elementari e che permisero l’ampliamento dello
stesso fabbricato per ospitare la Scuola Tecnica Professionale (F.2a). Il terreno dato a disposizione dalla Parrocchia era quello dell’antico cimitero trasferito in altra sede
nel 1853. Così nello stesso anno scolastico 1862-63 si aprì
il Primo Corso con 38 allievi.
A Rosazza nel 1869 fu fondata un’analoga Scuola Tecnica sotto forma di società, sostenuta con la sottoscrizione delle azioni anche da parte di Federico Rosazza, che
ne divenne il Presidente; la sede rimase sempre ubicata
nell’edificio comunale della Scuola Elementare di Rosazza (F.2b) e subito si iniziò l’attività didattica col nome di
Scuole Tecniche professionali Sociali.
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La vita della scuola
2a.
Le due realtà scolastiche
di Campiglia e Rosazza,
separate
planimetricamente da pochi chilometri, concorrenti ma simili
per programmi didattici
e finalità, articolavano su
cinque corsi la formazione
degli allievi; si basavano su
uno Statuto e su un Regolamento interno, più volte
modificato e migliorato
durante il secolo di attività
delle scuole stesse.
I programmi delle materie
di insegnamento (F.3) nei
primi anni privilegiavano
la matematica, l’algebra e
la geometria a cui seguivano i logaritmi e la trigonometria, necessari alla
risoluzione dei problemi
topografici. Per l’aspetto
grafico si iniziava col disegno ornamentale e geometrico e su queste basi si Edifici sede delproseguiva con il disegno le Scuole Tecniarchitettonico, in seguito che Professionapoi con il disegno delle coli di Campiglia
struzioni e topografico. La
Cervo (a) e
calligrafia del primo corso
di Rosazza (b).
era utile sia per il disegno
che per redigere il computo metrico, la computisteria e la contabilità finanziaria e dei lavori. Lo studio delle costruzioni civili si completava con la statica utile per le macchine
di cantiere, la voltimetria, le costruzioni stradali e ferroviarie, la resistenza dei materiali
ed il cemento armato. Una parte delle lezioni
era anche dedicata alle applicazioni pratiche,
quali il tracciamento delle fondazioni di un
edificio, l’uso degli strumenti topografici e lo
studio di un progetto stradale e di un canale. I programmi, nel tempo, subirono delle
variazioni con l’ampliamento delle materie
insegnate inserendo ad esempio l’italiano ed
anche l’inglese.
Le lezioni si svolgevano d’inverno nel periodo d’interruzione dei lavori edili nei cantieri, dal 3 novembre al 31 marzo a Campiglia Cervo e dal 15 novembre
al 15 marzo a Rosazza, tutti i giorni feriali, mattino e pomeriggio per sei ore giornaliere e pochissimi giorni di
vacanza. Ogni anno a dicembre, febbraio e marzo veniva
redatta una pagella dei voti, debitamente controfirmata
dal genitore ed in chiusura l’esito finale; ai più meritevoli
2b.
veniva assegnato un primo e secondo premio. Al termine
del quinto corso l’allievo, se superava le prove speciali
d’esame e quella finale, riceveva un Attestato di Licenza.
A Rosazza, contemporaneamente alla Licenza, forse perché consci del fatto che la Licenza di una scuola privata
non aveva l’ufficialità di un qualsiasi diploma o attestato
rilasciato da un organo dello Stato, ci si faceva rilasciare
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Tabella del programma
delle materie
di insegnamento
di Campiglia Cervo.
3.
Attestato
del conferimento
del primo Premio e
di una borsa di studio
a Yon Franco,
uno degli insegnanti
della Scuola Tecnica
di Gaby. f
4.
dall’INAPLI un attestato di superamento degli esami del
Corso biennale di idoneità al corso di qualificazione per
mastri muratori e costruttori stradali, dopo aver precedentemente superato un corso triennale per muratori. Su
proposta della Scuola gli allievi più meritevoli ricevevano
un Premio unitamente ad una borsa di studio promossa
anche da Enti Pubblici.
Gli insegnanti erano spesso ex-allievi che, dopo una lunga esperienza lavorativa di cantiere a volte all’estero, rientravano in paese e continuavano la loro attività trasmettendo il loro sapere ai giovani; a volte erano geometri o
ingegneri che insegnavano contemporaneamente alla
loro attività lavorativa.
L’evoluzione della scuola
Le due scuole ottennero riconoscimenti e premi anche
da Enti governativi e dalle giurie delle esposizioni e delle
mostre didattiche a cui partecipavano, fino agli anni venti i successi portarono il numero degli allievi a superare
costantemente il centinaio a Campiglia Cervo e cinquanta a Rosazza. Nella lunga storia delle scuole si contano
a Campiglia Cervo in totale 10.000 iscritti sommando il
numero degli allievi di tutti i corsi per tutti gli anni; a Rosazza, meno numerosi, sono comunque 3.300; coloro che
ottennero la licenza finale furono ben 1600 a Campiglia
Cervo e 500 a Rosazza.
Gli allievi dell’Alta Valle provenienti da Rosazza, Montesinaro e Piedicavallo si iscrivevano a Rosazza (fino al 1906
queste tre borgate componevano il Comune di Piedica— 5 —
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5.
Foto di gruppo della classe del Quinto Corso a Campiglia Cervo nel 1939, quando l’allievo Martiner Bot Pietro (che ha fornito
l’immagine) ottenne la Licenza; presenti gli insegnanti: Geom. Maciotta di S. Paolo Cervo, Geom. Rosazza di Rosazza e Ing. Catella
di Chiavazza.
vallo), mentre quelli di Campiglia Cervo, San Paolo Cervo e Quittengo andavano a Campiglia Cervo; tutti gli altri,
provenienti da fuori come i valdostani, necessariamente
dovevano trovare alloggio in zona.
Da registrare la presenza in Piedicavallo di un’analoga
Scuola denominata ”Scuole Tecniche Sociali di Piedicavallo”, alla quale erano certamente iscritti Freppaz Sabino al Primo Corso nel 1915-16 e Lazier Edoardo al Primo
Corso nel 1921-22, in quanto esistono ancora i loro quaderni rilegati con copertina scura e caratteri d’oro (F.6);
interessante il fatto che fossero firmati all’ultima pagina
dall’insegnante e timbrati col timbro della Società Operaia di Piedicavallo. Questa scuola era stata una iniziativa
della Società stessa, fondata nel 1872, il cui atto costitutivo dichiarava di promuovere la fraternità, l’istruzione,
l’educazione e il soccorso mutuo tra gli associati. I corsi,
pare, iniziarono quasi subito dopo la fondazione nel 1876
ed andarono avanti fino al 1936; le lezioni si tenevano nel
salone della Società Operaia a Piedicavallo e si svolgevano sui primi due anni, per cui troviamo Lazier Edoardo
iscritto a Campiglia Cervo al Terzo Corso nel 1923-24.
Con la riduzione del numero degli allievi, si decise l’accorpamento della scuola di Rosazza in quella di Campiglia
Cervo e nell’anno 1962-63 l’Ente prese il nome di “Scuole
Tecniche Professionali Edili e Stradali di Campiglia Cervo e Rosazza”; la scuola cessò di funzionare nel 1975.
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6.
Copertina del quaderno di Freppaz Sabino
iscritto nel 1915 al primo anno a Piedicavallo.
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7.
Una pagina del quaderno di Voltimetria del 1895 circa, di Ion Titapiccolo Giovanni di Piedicavallo, allievo delle Scuole di Rosazza,
3° corso; non si possedevano libri ma, sotto dettatura dell’insegnante, si scriveva in un quaderno di brutta e alla sera si ricopiava
in bella copia con i disegni (da suo nipote Ion Jean Pierre nato a Piedicavallo e residente in Francia).
La componente valdostana nella scuola
Non meraviglia quindi che alcuni, cercando una scuola
di specializzazione, avessero
scelto quelle della Valle Cervo, cosa che però comportava un onere per le famiglie
riguardo vitto e alloggio.
Un primo gruppo di quattro
allievi di Gaby iscritto al 3°
Corso a Campiglia Cervo
nell’anno 1911, fu inserito a
quel livello probabilmente
perché possedeva i requisiti
di preparazione, oltre all’età
più elevata, tra 19 e 25 anni;
i ragazzi frequentarono regolarmente i successivi due
anni fino alla Licenza. (… e
qui si potrebbe ipotizzare
che prima fossero stati iscritti alle Scuole Tecniche Sociali di Piedicavallo per i primi
due Corsi, ma non esistono le prove documentarie!).
Dopo la prima guerra mondiale nel 1920, ‘21, ‘22, ‘23 un
altro gruppo frequentò più anni fino ad ottenere la Licen-
Esempio di
Disegno Architettonico
dell’allievo Lazier Giulio.
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8.
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9.
Particolare di un disegno a china ed acquerello di Girod Eligio.
10.
za e successivamente un altro ancora di quattro allievi
nel 1932, ’34, ‘35 sempre a Campiglia Cervo; si notano
tra questi i fratelli Tousco Luigi, Emilio e Augusto, figli
di Giosuè, tutti di professione falegname. L’esempio dei
fratelli Tousco non è un caso isolato, in quanto più tardi
troviamo anche i fratelli Praz Dario e Armando, Tousco
Graziano e Bruno, Stevenin PierGianni e Marco, Brunero Bruno e Stefano Olmo e ancora Tousco Fortunato
e Silvio. In piena guerra nel 1942, questa volta registrati
a Rosazza, altri quattro allievi in tre anni ottennero la
Licenza; tra questi Yon Franco, Tousco Fabiano Fortunato e Stevenin Ugo che, terminata la scuola nel 1945,
assunsero in anni differenti l’incarico di insegnante alla
Sezione distaccata di Gaby ma dipendente dalla Scuola
di Rosazza, presso la quale comunque gli allievi dovevano presentarsi agli esami; in seguito insegnò un altro
ex-allievo, Freppaz Giovanni. La Sezione della scuola
tecnica era sistemata a Yair desout e poi in casa di un
insegnante, in frazione Moulin.
Quindi, dall’immediato dopoguerra fino all’inizio degli
anni ’60, circa trenta valdostani frequentarono prima la
sezione distaccata di Gaby per poi continuare a Rosazza, in minor parte a Campiglia Cervo, per l’ultimo anno.
In quel periodo, dopo le scuole elementari, non esisteva
la possibilità di continuare gli studi e si doveva scendere in città. La scuola di Gaby servì in un certo senso
a rallentare l’emigrazione delle famiglie che partivano
sia per il lavoro che per iscrivere i figli alle scuole superiori, oltre al fatto che si evitavano così gli oneri della
permanenza in Valle Cervo.
In cinquanta anni di presenza degli allievi valdostani
nelle scuole della Valle Cervo, pur con la problematica
e il disagio dei viaggi e della vita fuori casa in pensione,
emerge dalle registrazioni che la grande maggioranza
ha frequentato con successo superando il quarto corso e più di metà ha conseguito
la Licenza al termine degli studi.
Dalle testimonianze, anche della
Valle Cervo, risulta inoltre che
molti allievi hanno ottenuto il Primo o Secondo Premio, un riconoscimento annualmente registrato
in pagella ai migliori studenti.
Le testimonianze
degli allievi
Per comprendere appunto l’importanza dell’esperienza scolastica nella vita professionale sono
Particolare di Disegno di Costruzione dell’allievo Girod Eligio, 3°
corso dell’anno 1959, sono rappresentati gli strumenti utilizzati e a
margine i commenti tecnici.
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stati invitati alcuni ex-allievi a fornire la loro testimonianza, un commento al funzionamento interno della scuola e,
più in generale, della vita in Valle Cervo.
Stevenin Othmar riferisce dei primi passi della scuola
di Gaby nel 1945 dove aveva frequentato i corsi solo per
un anno, ottenendo poi all’esame a Rosazza la promozione del 1° e 2° corso con l’insegnante Tancredi Rosazza
nel 1945; gli insegnanti di Gaby, ex-allievi, erano molto
giovani ed appena in possesso della Licenza ma motivati
e preparati; ciò che gli è rimasto e coltiva tuttora è la passione per la matematica e l’algebra grazie alla quale ha
proseguito fino ad ottenere il diploma di geometra.
Bastrentaz Anselmo iniziò dieci anni più tardi nel 1955
sempre a Gaby, ci si doveva portare la legna da casa per
il riscaldamento dell’aula; dopo il 4° corso, ancora a Gaby
con i medesimi insegnanti, andò a Rosazza a frequentare regolarmente l’ultimo anno con l’insegnante Tancredi
Rosazza, un’istituzione in quella scuola; abitava presso
la “Fina”, un bell’inverno anche dedicato ai balli ed alle
feste. Conserva tutti i suoi quaderni di scuola, la preparazione ricevuta gli è servita per il suo lavoro, da assistente
di cantiere in Svizzera per due anni e poi a Châtillon come
Capocantoniere.
Praz Dario compagno di scuola del precedente a Gaby,
ha avuto un’esperienza di scuola identica, pure a Rosazza
dove era in pensione con altri da Ceria Delfina ed era la
bella vita; le ragazze venivano a cercarli, andavano a ballare al “Mologna” a Piedicavallo, insomma, la joie de vivre. Si ricorda ancora quando, dopo Natale, per rientrare
in Valle Cervo, i genitori lo accompagnarono nella neve
fino al Colle della Mologna e attesero di vederlo scendere
a valle. La scuola gli ha dato molto, le materie preferite
erano costruzioni, disegno e il tracciamento delle curve
stradali; ha ottenuto da privatista il diploma di geometra
su queste basi. Unico neo, a parere suo, il fatto che non si
utilizzassero i libri, gli insegnanti dettavano le lezioni, si
compilava un bel quaderno rilegato ma si perdeva troppo
tempo. Il progetto stradale era sviluppato da tutta la classe che partecipava prima al rilievo topografico e dopo alla
stesura delle tavole. Ad Arvier nel 1962, quando si aprì
una scuola simile alle scuole di Rosazza e Campiglia su
indicazione del deputato Corrado Gex, Dario Praz divenne l’insegnante di teoria in quella scuola, a testimoniare
la validità della preparazione ricevuta.
Praz Armando, fratello del precedente iniziò nel 1948
e come gli altri frequentò l’ultimo anno a Rosazza; la sua
materia preferita era la topografia e gli strumenti topografici che sono stati poi i compagni della sua vita lavorativa, a tracciare linee elettriche per l’Enel.
Girod Eligio, uno degli ultimi a iscriversi alla scuola di
Gaby, dalla sua casa di Praz Sup. di Issime, andava a seguire le lezioni in bicicletta anche quando nevicava; era
portato per lo studio e suo padre, che era già nell’edilizia, l’aveva indirizzato nello stesso settore. Aveva avuto
Tousco Fortunato come insegnante, piuttosto severo; a
Rosazza conobbe Tancredi Rosazza, tosto, ma poi bravo
all’esame. La scuola gli ha permesso di migliorare l’italiano che alle elementari non aveva assimilato sufficientemente, ma la materia più bella era disegno con una passione particolare per il disegno a mano libera.
Per topografia e strade gli studenti avevano rilevato e progettato una carrozzabile che partiva dal cimitero di Gaby
e saliva la montagna. Come artigiano edile, l’interessato
ha avuto l’occasione di applicare le nozioni apprese; una
volta si trovò a rifiutare l’esecuzione di una scala perché il
progetto non era applicabile; il lavoro fu affidato ad un altro, ma alla fine lo richiamarono ammettendo l’errore pur
di risolvere il problema. Un’altra sua passione sono state
le pietre, è stato anche scalpellino. Dai suoi disegni, che
conserva con cura, traspare un’indubbia dote artistica.
Brunero Olmo, dopo una negativa esperienza in un collegio di Ivrea, dove risiedeva per frequentare una scuola
commerciale cittadina, frequentò un anno a Gaby la sezione distaccata quando era insegnante Yon Franco per
poi trasferirsi alla scuola di Campiglia. La scuola non gli
ha lasciato molti ricordi forse perché la specializzazione edile non era il suo forte, aveva maggiore attitudine
per il settore commerciale. Era in pensione assieme ad
altri otto studenti in una villetta dell’Hotel Asmara della
famiglia Maciotta a San Paolo Cervo e successivamente
a Campiglia centro; la padrona, la signora Mariuccia Scagliotti, spostatasi poi all’Albergo Mologna di Piedicavallo,
era molto gentile e cordiale, un ambiente piacevole quello della Valle Cervo. Dalla famiglia Maciotta emerge che
gli studenti valdostani si comportarono sempre educatamente, avevano una sala perché potessero fare i compiti
e l’insegnante Mario Albertazzi, verso sera sulla strada
del ritorno a casa sua, passava a controllare i lavori svolti.
Lazier Giulio, dopo un periodo di lavoro nei cantieri, a
ben 23 anni iniziò la scuola: ha frequentato solo due anni le
scuole tecniche, il 2° corso a Rosazza con Tancredi Rosazza e Mario Mosca insegnanti e poi il 3° corso a Gaby con
Tousco Fortunato. La materia preferita era costruzioni e
disegno e la preparazione ricevuta è stata utile per l’attività di impresario edile, costruì la Casa dei Fratelli Cristiani
di Biella ad Antagnod. In seguito partecipò a un corso alla
Regione per coadiutore tecnico superando brillantemente
l’esame finale e ottenendo l’assunzione come assistente
edile dei lavori regionali, dove lavorò per 24 anni fino alla
pensione. Conserva con cura i suoi disegni ed i quaderni,
pregevoli per la cura e la precisione dei lavori.
Stevenin Ugo era un compagno di scuola degli insegnanti Yon Franco e Tousco Fortunato della Sezione di
Gaby; abitava nel periodo scolastico a Rosazza presso
la signora Ginesia, una donna molto brava, e aveva fatto amicizia con suo figlio Davidino, oltre a lui quell’anno
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pure la sorella Olimpia era a Rosazza e frequentava un
corso di cucito tenuto dalle suore. Nell’ultimo anno di
guerra ’44-’45 si era trasferito con altri studenti in una
vecchia casa di Tancredi Rosazza, una notte furono portati via dai tedeschi perché avevano lasciata accesa la luce
delle scale e ciò poteva essere un segnale per i partigiani;
ci volle tutto il peso del podestà per convincere che loro
erano solo studenti. A Rosazza si andava anche al cinema,
ricavato in un grosso locale dove giungevano anche le ragazze di Piedicavallo. Aveva conosciuto anche la Pierina
del “Ponte”, luogo dove le donne di Niel scambiavano il
burro con la farina. I suoi compagni di scuola locali erano Ion Clio, Ion Ermann di Piedicavallo e anche Ottino
Elmo, che ne parla come di un vecchio amico, ma i più
bravi erano Yon Franco che prendeva il primo premio e
lui, il secondo. Per la sua attività lavorativa dopo un inizio
come imprenditore edile a Gaby e poi assistente a Ivrea,
divenne usciere e custode del Palazzo del turismo ad Aosta fino alla pensione, ma la scuola servì parecchio; i suoi
disegni li conserva nella casa di Niel.
11.
12.
d Particolare di Disegno Architettonico della
scuola di Gaby del 1949 dell’allievo Lazier Giulio.
Freppaz Giovanni dopo le buone elementari a
Gaby, frequentò la scuola di Gaby ma andava a passare l’esame a Rosazza e poi a Campiglia; qui viveva
all’Asmara dalla famiglia Maciotta. A Natale rientrò a
Gaby passando dal Colle della Mologna perché non
c’era neve. Le scuole della Valle Cervo erano valide
ma la migliore era quella di Campiglia per la quale
occorrevano due anni di avviamento per iscriversi;
la Valle Cervo in quel tempo era più evoluta della
Valle del Lys. Terminata la scuola, divenne pure per
un breve periodo insegnante alla Scuola Tecnica di
Gaby. Riferisce che anche a Gaby nel 1886 fu fondata una Scuola Superiore con atto del notaio Perron
con 45 iscritti.
g Pagina del quaderno di Costruzione
dell’allievo Lazier Giulio, 3° corso del 1949.
— 10 —
A U G U S T A
Tavola di
Disegno Architettonico
di Stevenin Marco.
13.
Stevenin Amato riferisce
che la scuola tecnica era l’unica che si poteva frequentare in zona dopo le elementari, in alternativa ai lavori
della campagna. Ebbe al primo e secondo anno Freppaz
Giovanni come insegnante,
al terzo e quarto Fortunato
Tousco; abitava a Rosazza
al quinto anno, con Tancredi insegnante che si faceva
rispettare ma era in gamba.
La signora Areta Mosca, una
vedova molto brava, gli dava
alloggio e vitto. Le sue materie preferite sono state disegno e topografia, all’esame
dell’Inapli ottenne 9/10. In
seguito partecipò al concorso di elettricista all’Enel e
lavorò 32 anni nelle centrali
della valle del Lys.
Stevenin PierGianni si iscrisse al sesto anno delle elementari, ma dopo solo due mesi passò alle scuole tecniche di Gaby con insegnante Tousco Fortunato, suo zio, e
continuò fino al quarto anno compreso, ma non frequentò il quinto perché occorreva trasferirsi in Valle Cervo.
L’insegnamento ricevuto gli servì specialmente per la
parte pratica che fu fondamentale, quando nel ’56, con il
compagno Praz Armando, lavorò quattro anni per la SIP
al rilevamento da Gressoney a Zuino (Gaby) delle nuove linee per le centrali idroelettriche. Ogni anno andava
a Rosazza per superare gli esami con l’insegnante Tancredi Rosazza. Tra gli studenti circolava una filastrocca
che doveva rappresentare il funzionamento della scuola:
”Tancredi comanda - Tousco obbedisce - e lo scolaro patisce – e chissà quando la finisce!”. Dal 1960 cambiò attività per quella di idraulico, prima da apprendista e poi
dipendente; in seguito si mise in proprio e dopo 20 anni
passò ai figli la ditta. Oltre ai propri disegni e quaderni ne
custodisce alcuni del fratello Marco (F.13).
sero i cantieri e gli proposero di andare negli uffici, se
ne andò in Rhodesia con l’Impresit come assistente alla
costruzione della diga di Kariba. Si ricorda ancora che il 4
dicembre 1958, la Festa di Santa Barbara a Niel, era stato
il giorno che l’impresa chiuse l’invaso della diga. In seguito ritornò a fare l’assistente ad Ivrea e l’imprenditore
edile fino al ’79. Successivamente fu titolare di una ditta
produttrice di tubi di polietilene che ha sede ora a Pont
Saint Martin, gestita dai nipoti.
Tousco Mauro dopo i primi tre anni a Gaby frequentò il
quarto a Rosazza e il quinto a Campiglia. Andava spesso
alla Locanda Monte Bo del Ponte Pinchiolo tenuta dalla
“Pierina”, qui lavorava una ragazza di Gaby. A Campiglia
gli allievi avevano rilevato un tratto della “Panoramica Zegna”. Il nonno e il padre erano muratori, l’edilizia l’aveva
nel sangue come tutti quelli di Gaby e in particolare a
Niel, il suo paese; fece l’assistente edile ai cantieri dell’Olivetti e quando, per ristrutturazioni del personale, chiu-
Collé Luigino riporta che si era iscritto nell’anno scolastico 1961/1962 presso l’Istituto Professionale Regionale di Gaby appena aperto, situato nell’edificio del Municipio, quindi non più dipendente da Rosazza ma autonomo. Gli insegnanti erano ancora Tousco Fortunato,
con il segretario comunale Biava Giuseppe e il Geom.
Charles Aurelio; le materie erano quelle insegnate nelle scuole tecniche della Valle Cervo con l’aggiunta del
francese ed i corsi si articolavano in cinque anni di stu-
Linty Augusto viene ricordato dalla moglie Rosanna
Laurent che riferisce quanto suo marito le raccontava
della scuola tecnica: la prima volta con suo padre andò
a Campiglia da Gressoney in bicicletta; erano tempi di
guerra, lui era sistemato in una trattoria che forniva anche l’alloggio; con il suo compagno Debernardi di BiellaChiavazza dovette nascondersi in un sottotetto per evitare i militari che li stavano cercando. In casa custodisce
ancora i quaderni (F.14) ed alcuni disegni.
— 11 —
A U G U S T A
Pagina del quaderno di topografia
di Linty Augusto, V Corso 1944-45.
14.
Le relazioni tra le due valli
dio; le lezioni iniziavano il 1° novembre e terminavano il
1° maggio circa, benché alcuni alla fine di aprile già non
frequentassero più per portare il bestiame a pascolare
nei prati. La scuola durò una decina di anni e si esaurì
per mancanza di allievi, ma ai primi anni era frequentata
dai ragazzi di Issime, una decina, cinque o sei di Fontainemore, alcuni di Gaby e due di Gressoney. Scendeva a
piedi sulla neve o quando si poteva in bicicletta, le sue
materie preferite erano costruzione e francese, in italiano tutti avevano qualche problema, specialmente per
coloro che in casa parlavano solo il titsch o il töitschu
prima di frequentare le elementari. Gli allievi costruirono anche una casetta al di là del ponte vecchio a schiena d’asino. Come esercitazione pratica fece tanti disegni architettonici su richiesta dell’insegnante Charles.
Terminata la scuola ebbe la possibilità di lavorare per
conto della Regione come assistente contrario nei cantieri ma avrebbe dovuto trasferirsi ad Aosta, preferì fare
l’imbianchino a Gressoney, dove si erano aperti molti
cantieri edili.
Dalle testimonianze degli ex-allievi emerge un’immagine dell’Alta Valle Cervo così come allora
l’hanno vissuta con occhi giovani ma anche come,
all’epoca, era considerata dalla collettività valdostana, ammirata per la capacità imprenditoriale e
la ricchezza, l’istruzione e la modernità, invidiata,
quasi, dal mondo contadino locale che ne coglieva
la differenza tutte le volte che la gente veniva in
Valle Cervo.
I rapporti tra le popolazioni della Valle del Cervo
e la Valle del Lys esistevano già fin dall’antichità.
Le borgate più settentrionali, Piedicavallo, Montesinaro e Rosazza furono quelle maggiormente a
contatto con le popolazioni della Vallesa e Valsesia.
Chi si recava al mercato d’Andorno, carico dei prodotti da vendere, impiegava una giornata per passare la montagna, il giorno successivo si recava al
mercato e ritornava alle borgate, il terzo giorno rientrava a casa carico dei beni acquistati ripassando
i colli; presso quelle località si rifocillava e dormiva
la notte. Oggi li definiremmo tappe del viaggio: le
soste naturalmente favorivano l’intrecciarsi delle
relazioni tra le popolazioni. Analogamente e prima
della creazione della viabilità moderna, coloro che
dalla Valle Cervo si recavano in Francia a lavorare
attraversavano i colli a piedi, facendo tappa nei villaggi valdostani.
I documenti scritti seguenti riportano fatti circostanziati e precisi, utili per evidenziare le relazioni
avvenute.
In occasione di una lite intentata dalla Comunità
di Andorno Cacciorna nel 1468 contro i valligiani per lo
sfruttamento dei pascoli dell’alta valle Cervo, compaiono
anche i testi Bartolomeo De Bernardo di Issime, Giacomo de Valcio (Valz, tipico cognome di Piedicavallo) e Antonio Valleguerra della Vallesa (Valleise) che raccontano,
dimostrando di conoscere bene la valle Cervo, di come
tutti loro frequentassero la valle d’estate per il pascolo del
loro bestiame e ciò succedeva da anni, anche da parte di
altra gente della Vallesa.
Interessanti, presso gli archivi notarili valdostani, le registrazioni dei contratti che testimoniano l’intervento nella Valle del Lys dei muratori e scalpellini della Valle del
Cervo.
Un documento datato 20/3/1710 riferisce di un lavoro
di costruzione in una casa di Cristan Lorentz a Mettie
(Gressoney Saint Jean) assegnato ai fratelli ” Jean Baptiste e Bernard Zannutol (Janutolo) du lieu de Pied Caval
en Valdandour”.
In un altro documento coetaneo, un testo del 1757, a seguito della grave inondazione del 14 ottobre 1755 che di-
— 12 —
A U G U S T A
15.
Vista del
ponte a più
arcate di
Lillianes.
strusse i ponti, si assegna a “Guillaume de feu Jean Baptiste Peraldo de la paroisse de Piedecaval” la preparazione e
il taglio delle pietre e in particolare quelle alte sedici once,
larghe otto once e dello spessore di tre once necessarie
per la grande e piccola arcata del ponte di Lillianes (F.15)
e con la forma di quelle che compongono l’altra arcata
che esiste ancora, così indica il documento. Così pure nel
1793 al “tailleur de pierres Antonio Peraldo fu Giovanni
Lorenzo de Pied de Cheval” a Lillianes riceve “la tâche des
réparations à faire au dit Ru de Boureil”. Sempre alla fine
del 1700 troviamo altri di Piedicavallo a lavorare in Valle
d’Aosta: Giacomo e Giovanni Battista Rosazza, Jean Francesia, Carlo e Antonio Janutolo definiti mastro- muratori
o tagliapietre.
Nel 1782 troviamo un altro “maître mâçon” di Piedicavallo, Giovanni Battista Prario, a firmare un contratto presso
il notaio Alby, riguardante l’opera di un canale di 100 metri e largo 19 metri da scavare nel letto del torrente per
conto della Comunità di Issime.
Ancora nel 1872 e l’anno successivo, lo scalpellino Bernardo Peraldo sempre di Piedicavallo riceve l’incarico da
parte del parroco di Gaby, di ricostruire muri, bordure e
tetti danneggiati dall’alluvione del 17 agosto 1868 al santuario di Voury di Gaby. Nel 1874 lo scalpellino Ottino
di Piedicavallo prepara i cinque gradini esterni al grande
portale di ingresso.
Risulta ancora che la strada Pont Saint Martin – Gresso-
ney Saint Jean in vari tratti fu costruita da diverse imprese, tutte di Piedicavallo, Janutolo-Gianot Antonio, ZorioManuelin Eugenio e Janutolo-Gambet Pietro consociati
nei lavori dal 1890 al 1893. Il ponte Trenta (F.16) al confine tra Gaby e Gressoney Saint Jean porta sulla spalletta a
valle la data 1894. Questi dati sono stati ripresi dal testo di
Remo Valz Blin citato in bibliografia, ma i documenti probabilmente depositati nell’archivio comunale sono andati
distrutti con l’alluvione del 2000. L’intero percorso carrozzabile fino a Gressoney fu inaugurato nel luglio 1900
dalla regina Margherita.
A miglioramento della viabilità pedonale e con finanziamento privato, nella seconda metà dell’800 furono realizzate due mulattiere che uniscono Piedicavallo con il Comune di Gaby: quella che passa dal Colle della Vecchia da
paese a paese, voluta e a sue spese eseguita dal senatore
Federico Rosazza nel 1887; l’altra passante per il Colle
della Mologna Piccola fino al villaggio di Niel finanziata
dal C.A.I., dal Comune di Piedicavallo e da facoltosi benefattori quali il Cav. Squindo ed i fratelli Menabrea di Gressoney. Contemporaneamente venne migliorato anche il
sentiero che transita dal Colle della Mologna Grande e
conduce, tramite il Colle di Lazoney, al vallone di Loo e
quindi a Gressoney o al Maccagno in Valsesia. Federico
Rosazza realizzò, di nuovo a sue spese, la mulattiera che
da Rosazza conduce al Colle Gragliasca, permettendo il
collegamento con Fontainemore.
— 13 —
A U G U S T A
16.
Vista dal
lato di Gaby
del ponte
Trenta.
Federico Rosazza fece scolpire lungo le strade delle immagini e scritture di carattere morale o che si riferivano alle
leggende locali. Al Colle della Vecchia sul lato valdostano
si trova incisa una bella immagine riproducente l’incontro
di due donne, figlie delle due valli, che si abbracciano chiamandosi sorelle: un bell’invito alla fratellanza dei popoli e
testimonianza dei buoni rapporti esistenti; in alto le scritte
“guten tag” e “buon giorno” sottolineano la differenza della lingua parlata. Un simbolo delle relazioni amichevoli che
potrebbe essere maggiormente messo in valore.
Per ultimo è rimasta abbozzata a livello progettuale con
numerose varianti, voluta ma anche combattuta, la grandiosa idea del cosiddetto “tunnel della Mologna”, cioè un
collegamento tra Piedicavallo e Gaby tramite galleria. Dai
tempi di Quintino Sella con una relazione del 1864, e più
tardi a diverse riprese nel 1928, nel 1948 e in date più
recenti, con l’interessamento della parte valdostana, si
studiò la realizzazione di una via che aprisse un passaggio rapido verso Biella e Milano. Nel 1951 si prospettò
un nuovo progetto con una galleria che aveva una doppia
funzione: quella stradale e quella di acquedotto dell’acqua del torrente Lys convogliata nel biellese ad utilizzo
delle fabbriche tessili. Non ebbe seguito pare per l’opposizione di alcuni notabili locali. Gli abitanti di Gaby e
di Piedicavallo ne parlano ancora, alcuni con rammarico:
una occasione mancata per l’apertura a nord della Valle
Cervo e verso la pianura padana della valle di Gressoney,
anche se oggi ci si rende conto degli enormi costi di realizzazione e di sistemazione di tutto l’asse viario della
valle fino a Biella.
Negli ultimi anni, con lo svilupparsi del turismo montano
e con l’esperienza dei vari GTA, francese, piemontese e
delle nazioni alpine, ha preso forma un tracciato escursionistico alpino denominato “Via Alpina” che attraversa
8 paesi d’Europa con 5 itinerari, 350 posti tappa e 5000
Km di sentieri. Il tracciato “blu” prevede il collegamento
Gressoney Saint Jean - Piedicavallo e Piedicavallo - Issime, transitando rispettivamente dal Colle della Mologna
Grande e dal Colle della Vecchia: ecco riconfermati e
pubblicizzati due storici percorsi utilizzati delle popolazioni passate ed ora testimonianza della vitalità delle relazioni tra le due valli.
L’elenco degli allievi valdostani
L’elenco ordinato per anno della prima iscrizione degli
allievi di origine valdostana è stato compilato riportando
la trascrizione originale; può contenere qualche inesattezza o qualche errore dovuto alla grafia e all’aspetto burocratico della registrazione nonché alla ricerca dei dati e
riguarda gli allievi di Rosazza e Campiglia Cervo.
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A U G U S T A
Anno
COGNOMENOME
1° iscrizione
Anno
1° iscrizione
COGNOME NOME
1911/12
FreppazRiccardo
1911/12
JaccondGiulio
1911/12
Tusco Luigi
1911/12
Tusco
Emilio
1920/21 Praz
Fausto
1920/21 TouscoAugusto
1922/23
Busso Emilio
1923/24
GlavinazCesare
1923/24
Lazier
Edoardo
1932/33
Jacond Emilio
1934/35
TorrassoRoosevelt
1935/36
FreppazAttilio
1935/36
SteveninAttilio
1942/43 LintyAugusto
1942/43 Yon
Franco
1942/43
SteveninUgo
1942/43 Tousco Fortunato
1945/46
Jaccond Livio
1945/46 Lazier Modesto
1945/46 Praz Luigi
1945/46 TouscoGraziano
1945/46 TouscoRenzo
1945/46
SteveninOthmar
1947/48
BruneroOlmo
1947/48 RopeleBruno
1947/48
Tousco Bruno
1948/49
BastrentazErminio
1948/49
Billia
Nello
1948/49
Del Favero
Ercole
1948/49
Freppaz Giovanni
1948/49 LazierGiulio
1948/49
1948/49
1948/49
1948/49
1948/49
1948/49
1948/49
1949/50
1949/50
1949/50
1949/50
1949/50
1949/50
1950/51
1952/53
1952/53
1953/54
1955/56
1955/56
1955/56
1955/56
1957/58
1958/59
1958/59
1958/59
1958/59
1959/60
1959/60
1959/60
1960/61
Lazier Onorato
Praz
Armando
SteveninAlbino
Tousco Mauro
GlavinazDelfino
Yon
Guido
Bieler
Mario
Busso
Bruno
BastrentazEzio
BastrentazOscar
Laurent Riccardo
Stevenin Rinaldo
Tousco Silvio
Ion Giancarlo
SteveninMarco
Stevenin PierGiovanni
SteveninAmato
BastrentazAnselmo
DandresClaudio
LazierFerdinando
Praz
Dario
Lazier Elio
Bordet Rinaldo
Girod
Eligio
Trentaz Gianpiero
VercellinRenato
Brunero
Bruno
ChincheréCarlo
Yon
Luigi
BastrentazGiocondo
RINGRAZIAMENTI
BIBLIOGRAFIA
Ringrazio tutti coloro che ho contattato e che con simpatia e benevolenza hanno permesso la realizzazione di
questo articolo e mi spiace se, nel riportare la loro testimonianza, non ho espresso compiutamente il loro
pensiero; mi scuso anche con coloro che non ho potuto
contattare. La preparazione di questo articolo mi ha dato
l’occasione di incontrare gli ex-allievi ed è stato per me
un enorme piacere potermi relazionare con delle persone
valide e di grande cultura e serietà; da valët ho apprezzato molto che i valdostani abbiano un positivo ricordo del
soggiorno e quasi un’ammirazione verso la Valle Cervo,
mentre viceversa gli studenti hanno lasciato una ottima
impressione agli abitanti valligiani.
Ringrazio anche quelli che gentilmente hanno fornito il
materiale utile alla ricerca ed in particolare la signora
Nadia Rosazza Cilin e l’Arch. Gianni Valz Blin per i documenti delle scuole. Inoltre ringrazio l’Arch. Claudine Remacle per aver dato l’incipit al lavoro, fornendo alcuni documenti e sollecitandomi alla realizzazione dell’articolo.
Falletti, Girelli, 2010, La Valle Cervo Itinerari geologici
in Piemonte. Arpa Piemonte Centro regionale per le ricerche territoriali e geologiche.
Orlandoni, Bruno, 1998, Artigiani ed artisti in Valle d’Aosta dal secolo XIII all’epoca napoleonica. Priuli e Verlucca Ed., Ivrea
Stévenin, Jolanda, 1993, Les traces du passé. Musumeci
Editeur, Aosta
Stévenin, Jolanda, 2008, Notre-Dame des grâces. Tipografia Valdostana, Aosta
Valz Blin, Remo, 1959, Memorie sull’alta valle d’Andorno.
Libreria Vittorio Giovannacci, Biella.
Valz Blin, Gianni, 2005, “Capi mastri all’insegna di Sella e Cavour”. In: Rivista Biellese Aprile 2005. Pag 57-66.
Biella.
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A U G U S T A
Tremila anni di storia del clima in Valle d’Aosta
La registrazione dell’anfiteatro
del ghiacciaio del Lys
Cesare Ravazzi1
Introduzione:
il ghiacciaio del Lys e il suo anfiteatro
È
noto a tutti che i ghiacciai sono molto sensibili
alle variazioni del clima, e che i ghiacciai alpini sono entrati in una fase di formidabile ritiro
negli ultimi 30 anni, che rappresenta una delle
evidenze più convincenti del riscaldamento climatico in corso. Peraltro il regresso dei ghiacciai alpini era
già iniziato fin dalla seconda metà del XIX secolo, solo che
con gli anni 1980-90 questa tendenza si è accentuata. Intorno al 1815-1821 e al 1850-1860 quasi tutti i ghiacciai alpini si
trovavano in una fase di massima avanzata - le ultime culminazioni della cosiddetta “Piccola Età Glaciale” - e accumulavano alla loro fronte cordoni morenici che spesso hanno formato un anfiteatro - come nel caso del Ghiacciaio del Lys,
uno dei maggiori ghiacciai del versante italiano delle Alpi,
nell’alta Valle di Gressoney (Monte Rosa, Valle d’Aosta).
L’anfiteatro glaciale del Ghiacciaio del Lys (Figura 1) è uno
dei più pregevoli nell’arco alpino, perché ciascuna delle ultime fasi di stazionamento glaciale della “Piccola Età Glaciale” (anni 1821, 1860) e del XX secolo (anno 1922, vedi
Monterin, 1932; Cerutti, 1985; Strada, 1988) è scandita da
un ben definito cordone morenico, nonché da differenze
nella struttura della vegetazione e del suolo. L’anfiteatro
del ghiacciaio del Lys rappresenta un esempio saliente
dell’evoluzione naturale negli ultimi 150 anni, e perciò è un
versatile campo di esercitazione di studenti e studiosi che
vogliono comprendere i meccanismi di formazione dei depositi glaciali e la risposta degli ecosistemi alle oscillazioni
dei ghiacciai. Infine, come descritto nella presente nota,
questo anfiteatro fornisce indicazioni sulla storia del clima
e l’influenza delle variazioni climatiche sulle popolazioni
preistoriche e protostoriche della Valle d’Aosta.
Figura 1: L’anfiteatro del Ghiacciaio del Lys fotografato negli
anni ’70 e schema dei principali
cordoni morenici. L’area in grigio è quella occupata dal ghiacciaio alla culminazione del
1821. È indicata l’età delle principali morene (in base a Strada,
1988). Con i pallini rossi sono
posizionati: 1) Un suolo fossile
individuato nella morena laterale sinistra, che separa i depositi glaciali più recenti (ultimo
millennio) da quelli più antichi,
più vecchi di 2000 anni. Questa
scoperta stabilisce che le morene dell’anfiteatro del Lys non si
sono formate durante una sola
fase di massima avanzata, bensì in più fasi successive (Strumia, 1997); 2) Le trincee aperte
nel 1996 nel pascolo dell’Alpe
Courtlys, vedi Figure 2 e 3.
Ricercatore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto per la Dinamica dei Processi Ambientali, sezione di Milano.
Laboratorio di Palinologia e Paleoecologia. Via Pasubio 5, 24044 Dalmine (Bergamo)
[email protected]. - www.disat.unimib.it/palinologia
1
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A U G U S T A
Le trincee aperte all’Alpe Courtlys
Durante una di queste “campagne naturalistiche” organizzate dall’Università di Milano negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, sotto la guida del Prof. Giuseppe Orombelli,
è però emerso un dato insolito, nell’area frontale dell’anfiteatro, laddove la morena “napoleonica” fronteggia un
antico alpeggio - l’Alpe Courtlys. Il ghiacciaio, avanzando,
rischiò di cancellare il pascolo nella prima metà del XIX
secolo, come documentato da mappe catastali dell’epoca.
Ebbene, scavando trincee nel punto più esterno della morena ottocentesca, a contatto con quello che resta oggi
del pascolo del Courtlys (punto rosso indicato con Trincee Lys 1996 in Figura 1), gli studenti hanno individuato
una singolare successione di depositi (Figura 2) che poi,
ad un’analisi sedimentologica, pollinica e radiocarbonica, si sono rivelati cruciali per ricostruire la storia del
ghiacciaio durante gli ultimi 3 millenni, ben prima delle
testimonianze della Piccola Età Glaciale. Uno studio preliminare di queste trincee è stato presentato dieci anni
fa al convegno “Past Global Changes” di Aix-en-Provence
(Ravazzi et alii, 2001) e ne riassumeremo qui i risultati
principali. È bene però chiarire che i dati del Courtlys,
per la loro importanza negli studi sulla storia del clima e
del popolamento umano delle alte valli Aostane, meritano
un progetto più ampio di ricerca.
Confrontando la foto della trincea in Figura 2 con lo
schema riportato in Figura 3 è possibile seguire la storia dell’Alpe Courtlys negli ultimi 3000 anni. Dal basso,
appoggiati sopra il substrato roccioso, si trovano suoli
podzolici, evoluti al di sotto di antiche foreste di conifere
che ricoprivano l’area prima dell’apertura dell’alpeggio. I
blocchi rocciosi visibili in basso nella trincea di Figura 2,
e rappresentati dal livello grigio sopra i suoli in Figura 3,
sono inglobati in un deposito glaciale, che documenta un
momento in cui il Ghiacciaio del Lys avanzò fino alla trincea, e quindi all’esterno della morena del 1821. A seguito
di questa antica avanzata, sul posto si formò un laghetto
Figura 2: Una delle trincee aperte nel 1996 nel pascolo
dell’Alpe Courtlys, che evidenzia, dal basso: depositi glaciali
(blocchi sfaccettati e striati), ricoperti da torbe grigio-scure
e quindi da una successione di sabbie laminate grigio-chiare. Alla base della trincea, al di sotto dei depositi glaciali,
sono stati rinvenuti suoli forestali di tipo podzolico (questi
ultimi non visibili nell’immagine).
Figura 3: Schema delle trincee aperte all’Alpe Courtlys e posizione delle età radiocarboniche ottenute sulle torbe sepolte. In
questo schema le date sono indicate in anni BP (BP = Before Present, che significa “prima dell’anno 1950”) e non sono calibrate
(calibrate = corrette in anni calendario). Le età calendario sono presentate nel testo.
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A U G U S T A
di modestissima profondità, presto occupato da una torbiera. I livelli più antichi di questa torbiera sono stati datati con il radiocarbonio 2.735 ± 90 anni 14C BP; risalgono,
cioè, al nono-decimo secolo avanti Cristo. Il ghiacciaio si
ritirò dall’Alpe Courtlys 20-50 anni prima della formazione della torbiera, quindi il ritiro iniziò sempre durante
questi due secoli, all’inizio dell’Età del Ferro. Inoltre, il
ghiacciaio non distrusse i suoli forestali sottostanti, segno che il ghiaccio era praticamente fermo sul posto, e
non si spinse oltre verso valle (vedi trincea Lys 96/14 in
Figura 3). La torbiera si sviluppò per quasi duemila anni,
ma nell’XI secolo dopo Cristo fu sepolta da sabbie laminate, che presentano uno spessore di oltre 60 cm (livelli
più chiari in Figura 2). Poiché sul posto non confluiscono
corsi d’acqua in grado di trasportare e selezionare sabbie,
si ritiene che il seppellimento sia provocato dai depositi
di un piccolo torrente che fuoriusciva direttamente dal
ghiacciaio, cioè uno “scaricatore glaciale” che lambiva il
fianco sinistro (orientale) del ghiacciaio. In base a questi
dati si può desumere che, intorno all’XI secolo dopo Cristo, il ghiacciaio si portò nuovamente in prossimità del
sito studiato. L’analisi del polline fossile contenuto nelle
torbe ha confermato a grandi linee la cronologia ottenuta
con il radiocarbonio ed ha aggiunto informazioni sulla vegetazione. Nella prima età del Ferro la zona era circondata da foreste di abete bianco; le foreste arretrarono nella
seconda età del Ferro, finché, in età tardo romana, l’abete
bianco scomparve. Oggi è presente solo nel settore inferiore della vallata di Gressoney. Inoltre, l’analisi pollinica ha stabilito che nell’XI secolo dopo Cristo il pascolo
dell’Alpe Courtlys non era ancora stato aperto.
La fase fredda dell’antica Età del Ferro
e l’avanzata glaciale del Lys: prima degli
insediamenti protostorici documentati
a Saint Martin de Corléans di Aosta
La fase di avanzata del ghiacciaio del Lys intorno all’VIII-IX
secolo a.C. (prima età del Ferro) trova confronti sia nelle
Alpi Italiane che in quelle svizzere. In pratica, quasi tutti i
ghiacciai maggiori delle Alpi che sono stati studiati hanno
rivelato una fase di avanzata nella prima parte dell’età del
Ferro, anche se persistono alcuni dubbi sulla sua durata.
Infatti, qualche autore propone una lunga fase fredda tra
il IX e il VI secolo a.C., mentre altri la restringono all’VIII
Figura 4: Ricostruzione delle oscillazioni del Ghiacciaio dell’Aletsch (Alpi Bernesi) negli ultimi 3500 anni, secondo Holzhauser
et alii (2005). Le fasi di ritiro (in rosso) e di avanzata (in blu) sono rappresentate dalla distanza rispettivamente negativa e positiva dalla posizione che il Ghiacciaio dell’Aletsch occupava nell’anno 1980. È indicata l’estensione cronologica dell’Età del Bronzo
Recente, del Bronzo Finale e dell’Età del Ferro sul versante italiano delle Alpi Occidentali (Mollo Mezzena, 1997). Si noti che,
diversamente, a nord delle Alpi, l’Età del Bronzo si estende oltre il limite cronologico indicato in figura.
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A U G U S T A
secolo a.C. Nella figura 4 è rappresentata la ricostruzione
proposta da Holzhauser et alii (2005) per la storia del più
grande dei ghiacciai alpini negli ultimi 3000 anni: il ghiacciaio dell’Aletsch nelle Alpi Bernesi. Dopo una fase di ritiro (mediamente calda) precedente al primo millennio a.C.
(tarda età del Bronzo), il ghiacciaio dell’Aletsch avanzò e
culminò tra il VII e il VI secolo a.C. Queste età sembrano
un poco più recenti di quelle trovate al Lys; nel dettaglio
la cronologia richiede ulteriore approfondimento. Comunque, tanto nelle Alpi come in Pianura Padana e anche in
Europa Centrale, la prima età del Ferro è considerata una
fase fredda e piovosa, con alluvioni, importanti variazioni
di tracciato del Po e un aumento di umidità nelle torbiere
dell’Europa atlantica (Van Geel & Renssen, 1998).
È importante approfondire l’influenza che queste oscillazioni del clima ebbero sulle popolazioni preistoriche
e protostoriche della Valle d’Aosta e delle regioni alpine circostanti. In proposito si può ricordare lo studio di
Tinner et alii (2003) che, considerando l’abbondanza di
polline fossile di cereali e altri indicatori di attività agricole sul versante nord e sud delle Alpi, suggeriscono due
fasi di intensificazione dell’uso del territorio nella tarda
età del Bronzo (1450-1250 anni a.C.) e nella media età
del Ferro (650 - 450 anni a.C.). Queste fasi di accresciuta
attività rurale e pastorale sono separate da un momento negativo per le popolazioni alpine, che cade proprio
tra la fine dell’Età del Bronzo Recente e la media età del
Ferro. Queste interazioni tra clima e uso del suolo sono
in accordo con alcune evidenze polliniche di una espansione degli insediamenti rurali sui fondovalle della Valle
del Rodano (Sion) e della Dora (Aosta - Saint Martin de
Corléans) intorno al VI secolo a.C. (Wick in Curdy et alii,
2009; Pini e Ravazzi lavoro inedito). Uno studio approfondito di questo problema, tuttavia, non è disponibile.
Un progetto per una storia del clima
e dell’ambiente dell’uomo in Valle d’Aosta
negli ultimi 17.000 anni
Se consideriamo la ricchezza di ghiacciai, torbiere, ambiti archeologici della Valle d’Aosta, appare evidente che
uno studio, anche limitato ai più significativi archivi naturali e antropici potrebbe portare nuove conoscenze non
soltanto sul problema della fase fredda dell’età del Ferro
e delle prime società rurali alpine, ma su numerose tappe
della storia dell’ambiente e dell’uomo nella vallata dalla
fine dell’ultima glaciazione, all’incirca durante gli ultimi
17 mila anni. Nell’anfiteatro del Ghiacciaio del Lys, sono
stati riconosciuti 3 ordini di morene antiche non studiate,
in alcuni casi associate a torbiere e depositi organici. Un
patrimonio che per vari aspetti è unico e specifico, ma
che richiede uno studio paziente e complesso e quindi
una progettazione attenta. Da ultimo, questi studi possono contribuire a comprendere meglio le manifestazioni
regionali del cambiamento climatico in atto, perché gli
effetti di una oscillazione del clima sono diversi e talora
opposti in aree adiacenti, soprattutto nelle regioni montuose caratterizzate da grandi variazioni di quota, continentalità, piovosità e circolazione delle masse d’aria.
Bibliografia citata
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Monte Rosa. Geografia Fisica Dinamica Quaternaria, 8,
124-136.
Curdy P., Paccolat O., Wick L., 2009. Les premiers vignerons du Valais. Archäologie Schweiz, vol. 32, 2-19.
Holzhauser, H., Magny, M., Zumbühl, H.J. 2005. Glacier
and lake-level variations in west-central Europe over the
last 3500 years. The Holocene, 15 (6), 789-801.
Mollo Mezzena R., 1997. L’Età del Bronzo e l’Età del
Ferro in Valle d’Aosta. Istituto Italiano di Preistoria e
Protostoria, Atti della XXXI Riunione Scientifica. La valle
d’Aosta nel quadro della Preistoria e Protostoria dell’arco
alpino centro-occidentale. Firenze. pp.139-223.
Monterin U., 1932. Le variazioni secolari del clima del
Gran S. Bernardo: 1818-1931 e le oscillazioni del Ghiacciaio del Lys al Monte Rosa: 1789-1931. Bollettino del Comitato Glaciologico Italiano, vol. 12, 59-184.
Pini R., Ravazzi C., 2010. Studio pollinico e micromorfologico per la realizzazione del Parco Archeologico nell’Area Megalitica di Via Saint Martin de Corléans (Aosta).
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e Cultura. Dipartimento Soprintendenza per i Beni e le
Attività Culturali. Direzione Restauro e valorizzazione.
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Ravazzi, C., Pelfini, M., Orombelli, G., Carton, A., Baroni, C. 2001. The maximum neoglacial advance of 3 major
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Civico Scienze Naturali Brescia “Natura Bresciana”, vol.
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morena del Ghiacciaio del Lys. Il Quaternario, vol. 10(2),
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Van Geel B., Renssen H., 1998. Abrupt Climate Change
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(Issar S., Brown N., eds), Water, Environment and Society in Times of Climatic Change, 21-41.
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A U G U S T A
Tourrison tra prati e pascoli
Donatella Martinet
Il vallone di Tourrison – Türrudschun Gumbu di Issime presenta una toponomastica prettamente franco-provenzale, anche se nel corso degli ultimi quattro secoli è stato utilizzato sia da famiglie franco-provenzali, sia da famiglie
walser. L’adattamento alla fonetica, la traduzione o la neoformazione dei toponimi nei rispettivi idiomi è legato al gruppo
etnico al quale la famiglia appartiene; per esempio, Bruna Stévenin ved. Busso, dice Cóoulèt invece di Gollet; Guardja
invece di Guardschu; Quiva invece di Kieivu; Brengëtti invece di Brengeti; Uhquiei invece di Urkei; Fountoani invece
di Brunni; Djénévréira invece di Dschénévri; mantenendo la forma franco-provenzale originaria. Il vallone è stato negli
ultimi cinquant’anni frequentato solo da famiglie di origine alemanna.
Gli alpeggi utilizzati nel corso del XIX (seconda metà) e del XX secolo sono stati essenzialmente cinque, suddivisi fra
tre famiglie, Stévenin di Gaby, Consol (Stoffultsch) e Ronco (Pétéretsch) di Issime.
La famiglia Stévenin soprannominata Pitòt Djon, era del Gaby frazione di Issime (oggi comune autonomo), aveva proprietà nel fondovalle del Gaby, di Issime e nei valloni laterali di Bourinnes e di Tourrison. Erano quattro fratelli figli
di Jean Joseph Stévenin (*1772†1849), citato da Jean Jacques Christillin, nel famoso libro sulle leggende della Valle
del Lys, come mercante intraprendente in Piemonte e in Savoia. Ciascuno dei quattro fratelli possedeva un alpeggio,
rispettivamente Jean Pierre (*1812†1895), detto Pierinass, i cui discendenti stabilitisi ad Issime saranno chiamati
prima Pierinsch, poi Amédésch, nel Vallone di Tourrison tre tramudi, Tourrison di sotto, Pioani (quest’ultimo oggi di
proprietà Tousco-Glavina di Gaby già Stévenin) e La Mianda, Joseph Victor (*1815†1888), i cui discendenti saranno
chiamati ad Issime Vitorsch, nel Vallone di Bourinnes tre tramudi, Pioanu, Trusi e Galm, Jean Joseph (*1822†1915),
i cui discendenti per gli issimesi saranno Dschosesch, nel Vallone di Bourinnes due tramudi, Mühnu e Meerwi, e infine
Jean Pantaleon (*1833†1910), che essendo l’ultimo dei fratelli fu soprannominato Janet (Dschannetsch per gli issimesi), dando il soprannome Janit (quelli di Jean) ai discendenti, nel Vallone di Tourrison tre tramudi, Tourrison di sotto,
Fountoani, e Lei Nir. (Informazioni raccolte da Jean Tousco *1929†2010 di Gaby, e integrate con ricerche d’archivio).
La famiglia Pétéretsch (Ronco) saliva agli alpeggi di Tschavaneui (Tschannavellji) di mezzo, Tschavaneui di sopra, Töivi, Krédémì, Nawun Goavenu, e Lejet.
La famiglia Stoffultsch (Consol) saliva agli alpeggi di Krechtaz, Tschavaneui di sotto, Tourrison di sopra, Lei Kier e
Krecht.
La famiglia di Giuseppe Consol Stoffultsch, detto “dar Fruttir” figlio di Jean Roch (*1851†1902), del fu Jean Baptiste
(*1821†1902), e Marie Ronco Pétéretsch, utilizzava gli alpeggi del Léjunh (mayen), Torriti, Krédémì, Nawun Goavunu,
Töivi, e Lejet (oggi di proprietà di Flavio Consol). Alcuni alpeggi appartenevano allo zio materno di Giuseppe Consol,
Pétéretsch Jean, scapolo, che li lasciò in eredità ad alcuni dei nipoti, in tutto undici.
Un altro ramo dei Consol era chiamato Péjetsch. Gli ultimi discendenti, che vissero nel XIX secolo, erano cinque fratelli
Mathieu, Pierre (Piru), Marie Jacobée, Marie Antoinette Rose, e Jean-Joseph (prete). Vivevano al villaggio di Chincheré (Tschéntschiri), si dice che possedessero una montagna nel Vallone di Tourrison e che la loro proprietà si estendesse
dal villaggio fino alla cima del Vallone (Col du Loup), senza soluzione di continuo, un’unica striscia di territorio con
i diversi tramudi. I Péjetsch fecero ricostruire, nel 1870, la cappella al villaggio di Chincheré, mentre l’altro ramo dei
Consol, quella di Seingle. Questi due villaggi si trovano nel fondovalle di Issime, ai piedi del Vallone di Tourrison.
Le famiglie dei Dandres, Geors e Trenta avevano solo proprietà al mayen del Biolley, e i Linty Rowersch al Léjunh.
Michele Musso
I
Valdostani sono un popolo di transumanti.
Da epoche remote, forse dalla preistoria,
stante i ritrovamenti di luoghi di frequentazione rinvenuti in quota a Vétan di SaintPierre, alla base della Tantanné a La Magdeleine e ai piedi della Cime Noire a Pontey.
Storicamente, sussistono due tipi principali di spostamen-
ti dall’abitazione stanziale abituale: quello verso il basso
per coltivare i vigneti e quello verso l’alto per condurre
gli armenti ai pascoli estivi.
In genere, ci si sposta con la famiglia e il bestiame per
la coltivazione della vigna soprattutto nel periodo tardo
invernale; per le operazioni di cura intensa iniziale del
vigneto (potatura, zappatura, …), mentre per le altre la-
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A U G U S T A
vorazioni si scende solo saltuariamente. Più complicata
è la monticazione, che prevede l’utilizzo dei pascoli alle
diverse quote: si sale nella bella stagione, a tappe, prima
nei mayens, poi negli alpeggi, per ritornare gradualmente
a valle, dopo circa 100 giorni di permanenza in altura.
Quando è iniziato questo su e giù non si sa; ma in epoca
medievale tale sfruttamento del territorio è sicuramente
consolidato.
Si parte dall’abitazione invernale verso maggio per recarsi al mayen, dove il bestiame pascola. A giugno ci si sposta più in alto, in alpeggio, composto da uno o più tramuti,
l’ultimo dei quali, la “tsa”, in töitschu ‘da hut dar alpu’, è il
più alto, per poi ritornare a ritroso alla base intorno al 29
settembre, San Michele.
Mentre il bestiame pascola in altura, nel piano si possono
fare i fieni per produrre il foraggio per l’inverno (uno,
solitamente due o addirittura tre tagli, secondo la localizzazione altimetrica dei prati), così nei mayens dopo il
passaggio del bestiame.
Al rientro, prima della caduta della neve, gli animali mangiano l’erba dei prati, ... e iniziano a concimarli.
Ma il beneficio della monticazione non si limita alla produzione di fieno per l’inverno: la qualità pregiata delle
specie erbose in quota registra una produzione casearia
di ottima qualità. Il formaggio rivestiva uno degli alimenti
basilari di sostentamento di un tempo.
I più antichi documenti scritti di utilizzo del vallone di
Tourrison risalgono al XIV secolo.
Il 14 aprile 1357 Jacomota, vedova di Vuillermet de la Plana, e i suoi figli Pierre e Jean, riconoscono di tenere in
feudo dal nobile Arduçon di Vallaise alcuni beni siti nella Vallaise, e più precisamente nelle località: Lo Bequet,
Funs, Nantrey, Fontana, Verney, Le Clevete, La Fareta,
Crossum Ronqui Robini, L’Adreit, Cleva, Molinat, Ortietum e La Layx, in Turrixomo detto Plane, tra i due Reverssi Turrixoni, Alpe de Nantry.1
Inoltre, il 1° settembre 1359 Jean de la Plana, figlio di
Sainton, riconosce di tenere in feudo dal nobile Arduçonnet, cosignore di Vallaise, alcuni feudi, a Perloz e Issime,
siti nelle località: Fontaine de Nantray, Sappel de Chapaç,
Alpe de Nantray, Plana, La Gianacha, Ronc Robin, Turixon, Bella Cleva de Turixon (oggi il toponimo è chiamato Quiva / Kieivu).2
Era negli usi tradizionali utilizzare erbaggi in comune,
tant’é che tra il 25 ottobre 1339 e il 7 marzo 1389 alcuni
documenti testimoniano l’infeudazione di taluni pascoli
comuni a privati “come si ha l’usanza di pascolare in quel
luogo” per un numero di mucche precisato (in questi casi
da una a cinque, per avere un ordine di grandezza), e il
1
4
5
2
3
Vollone di Tourrison visto dal Vallone di San Grato, Méttelti.
(Foto Martinet)
conseguente compenso da esborsare, in particolare a Issima Soveror (Vallone di San Grato e di Bourinnes).3
Nel secolo successivo, altri documenti attestano passaggi
di proprietà delle terre, ad esempio: il 23 gennaio 1458
il signore Bertholin di Vallaise infeuda ai fratelli Verra
Vercellot e Pierre di Issime alcuni beni siti nell’alpe di
Turisonat, che questi hanno comprato da Yon Gabriel de
La Cleva e Ottini Aymon.4
Qualche problema di eccessivo sfruttamento del territorio deve esserci stato, soprattutto in relazione ad eventi
catastrofici di esondazioni e smottamenti, se il 3 febbraio
1465 Allazine Vulliermet, mistral di Perloz dei Vallaise, su
richiesta di alcuni abitanti di Fontainemore e Issime, su
tutti i beni dal torrente Tylly al Periacza, sino al sentiero
di Breng de Plano, che conduce ai monti di Deyles, impone l’impossibilità per nove anni di far pascolare bestiame
grosso e minuto, di prendere legname verde o secco o di
provocare dei danni.5
Altre questioni sono sicuramente sorte in merito all’uti-
Par O. Zanolli, Bibliothèque de l’Archivium Augustanum, XXII, Inventaires des archives des Vallaise, Tome troisième,
Industrie grafiche editoriali Musumeci, Aoste 1988, pag. 444, n. 52.
Ibidem, pag. 323, n. 26.
Ibidem, da pag. 388 a pag. 396, documenti vari.
Ibidem, pag. 310, n. 7.
Ibidem, pag. 313, n. 17.
— 21 —
A U G U S T A
Il mayen del Ronc, a dx.
il fondovalle di Issime,
villaggio di Tschéntschiri.
(Foto Musso)
minata Pratum Savyn,
nelle “comugnia” esteriori, sopra Buyl di sotto,
nonché dell’erbaggio di
sei bestie sempre nella
montagna di Issime Severour, a Comugniis interioribus.6
Successivamente, la pratica della monticazione
si è evoluta ed ogni malgaro aveva il suo pascolo
da utilizzare, ponendo
fine a diatribe ancestrali.
lizzo dei pascoli comuni dal momento che, il 25 ottobre
del 1468, tre “texatores” d’Issime “a ciò deputati”, Yaquyn
Carrerie, Antoine Yocco Alby di Lyntyn e Pierre di Antoine dou Ronc, procedono alla stima – richiesta da Angelin di Hans de Raset, procuratore di sua madre Antonia,
vedova – della quantità d’erba pascolata da una mucca
nella montagna di Issime Severour, in una località deno-
Il vallone di Tourrison
si estende in sinistra
orografica del Lys dal
nucleo di Biolley, Bioulei in töitschu (1114 m slm) sino
al confine col Piemonte, raggiungibile tramite il Col du
Loup. Dalla sua testata, più precisamente dal Col de Marmontana (2348 m s.l.m), si può accedere anche a Fontainemore, nell’area degli alpeggi delle Pietre Bianche;
mentre poco più in basso si transita nella zona di Pré (con
un passaggio intorno ai 1830 m s.l.m).
Mayen di Lion / Léjunh.
L’abitazione fu costruita nel
1895 da Jean Baptiste Consol
Stoffultsch
(*1821†1902),
conosciuto nella comunità
come ‘dar Dschan Batistu’.
Qualche anno prima del
1889, in seguito ad un incendio, l’antica abitazione
in parte in legno della famiglia Consol, che sorgeva
poco distante al mayen di
Krechtaz, andò distrutta, si
decise allora di ricostruire la
casa poco distante al Léjunh
e di trasformare il vecchio
mayen in alpeggio. Nel 1889
Jean Baptiste costruì la baita
al Krechtaz, come da data
incisa sul trave maestro. (Informazioni raccolte da Michele Musso presso Flavio
Consol). (Foto Sebastiano
Ronco)
6
Ibidem, pag. 279, n. 48.
— 22 —
A U G U S T A
Alpeggio di Tourrison superiore. L’edificio adibito
ad abitazione d’alpeggio,
sulla sinistra, fu costruito
nel 1906, come da data
incisa sulla trave maestra,
da Jean Baptiste Fortuné Consol Stoffultsch
(*1875†1953), figlio di
Jean Roch (*1851†1902),
del fu Jean Baptiste
(*1821†1902), e Marie
Ronco Pétéretsch. Al suo
posto sorgevano due edifici d’alpeggio fatiscenti.
La trave maestra reca
anche incise le iniziali CF
(Consol frères), in quanto nel 1906 le proprietà
erano ancora indivise fra
i fratelli di Jean Baptiste
Fortuné Consol, in tutto
undici.
La piccola costruzione in
legno, appartiene alla famiglia di Consol Flavio ereditata dal padre Cesar figlio di Jean Baptiste Fortuné; la famiglia Busso
Lixandrish (Vittoria, Giulia, e Laura) ha ereditato un prato di monte oggi chiamato Schützersch schelbit nel vallone di Tourrison
(sui monti alla dx. orografica del Vallone, fra l’alpeggio di Tourrison e Krédémì, confinante a monte con un altro appezzamento
chiamato Pétéretsch schelbit) e la possibilità di ritirare il fieno selvatico, raccolto in quell’appezzamento, proprio in questa costruzione in legno. Vittoria, Giulia e Laura Busso Lixandrish sono discendenti di Jean Jacques Busso Schützersch (*1814†1891)
loro bisnonno materno, il quale ereditò dalla madre Marie Antoinette Consol (sorella di Cristoforo Consol capostipite del ramo
dei Consol chiamato appunto Stoffultsch) gli appezzamenti e i diritti nel Vallone di Tourrison.
Nel dialetto walser di Issime con il termine stubbu si indicava, oltre ad una stanza in legno nello stadel, una costruzione in legno
utilizzata come granaio e/o per conservare il fieno. Ne rimane un esemplare nel villaggio di Hubal, uno appunto all’alpeggio
di Tourrison sup., qualche anziano ne ricordava uno nei pressi del villaggio di Chröiz per salire verso Ruassi. Questa accezione
del significato del vocabolo era conosciuta da pochissimi anziani. È comunque rimasto nella toponomastica Stubbu; Stubbun
acher: un campetto di patate vicino ad un piccolo rascard ora crollato, nel villaggio di Écku nel vallone di San Grato; Stubbi per
la presenza di alcuni piccoli rascard oggi scomparsi ma di cui rimangono i basamenti; Joakisch Stubbi piccolo rascard abbattuto
nel 1944 per costruirvi una baita d’alpeggio. A Gaby, nel dialetto si usa ancora il termine stuba per indicare un granaio; stuba è
in competizione con il termine grahnir. (Informazioni raccolte da Michele Musso). (Foto Musso)
Il punto di vista preferenziale per comprendere l’orografia del vallone e il suo insediamento diffuso è senza dubbio San Grato, che lo fronteggia.
La mulattiera principale ha diverse ramificazioni che permettono il raggiungimento di tutte le strutture d’alpe disseminate su questo territorio.
Biolley (toponimo che deriva dalla presenza di betulle) è
un piccolo nucleo storico di abitazione permanente, giace
tra poderosi terrazzamenti di invidiabile fattura ed è ora
separato visivamente dal piano di fondovalle dal canale
industriale che taglia fisicamente in due il versante. Interessante il fatto che l’impianto della sua cappella, dedicata a San Nicola di Bari, risalga al XV secolo.
A monte iniziano gli insediamenti temporanei: mayens e
alpeggi.
La mulattiera principale è a tratti costeggiata da barrère
(conci di pietra accatastati l’uno sull’altro in linea, a foggia di muretto) o da blatti (grosse pietre conficcate ver-
ticalmente nel terreno) oppure da veri e propri muri a
secco di contenimento delle terre che non solo delimitano lo spazio privato da spazi comuni, ma costituiscono
un impedimento al transito, su prati e campi, di uomini e
animali durante la transumanza.
In linea generale, i mayens sono stati insediati nelle radure del bosco; mentre gli alpeggi sono oltre la folta cortina
boscata.
Sono comunque “piccole montagne” capaci di ospitare
pochi capi di bestiame; non sono i vasti alpeggi da cento,
centocinquanta o addirittura duecento mucche del Vallone di By (sui comuni Doues e Ollomont), della Val d’Ayas
o della Valgrisenche.
Le costruzioni degli alpeggi sono in pietra a secco (naturalmente, con l’eccezione delle travature del tetto e
dei solai) per due evidenti motivi: innanzitutto la materia
prima in loco è quella e solo quella, poi perché la durata della permanenza non richiede l’impiego di materiali
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A U G U S T A
Alpeggio di Krédémì.
(Foto Musso)
Nella stalla trovano posto gli animali da mungere: i vitelli dopo il pascolo sono rinchiusi in
un recinto vicino alle costruzioni, un tempo probabilmente utilizzato per
pecore; mentre i manzi,
con a volte il bestiame
minuto, vengono imparcati in vallette laterali.
Riporto di seguito un
breve accenno ai principali insediamenti a
carattere insistenti nel
vallone: i mayens arrivano intorno alla quota di
1400 m s.l.m., l’ultimo
alpeggio supera ampiamente i 2200 m s.l.m.!
pregiati. Diversa è la situazione nei mayens, dove l’altezza
altimetrica minore e il tipo di sfruttamento agrario hanno portato a costruzioni più “ricche”, con l’impiego, oltre
che della pietra, di calce e strutture lignee.
La tipologia minimale degli edifici del mayen prevede
la stalla, una cantina fresca, un luogo di soggiorno ‘dan
piellje’ spesso foderato con tavole di larice o abete, una
cucina con un punto di fuoco, che funge anche da casera,
e un fienile. Quella dell’alpeggio non contempla il fienile
vero e proprio, ma un generico deposito, la parte civile
è molto spartana, non presenta un fumaiolo sul tetto (il
carico della neve potrebbe distruggerlo regolarmente),
ma il fumo defluisce dal tetto tramite una losa sollevata.
La cantina “frèidi”, in töitschu ‘milch kruatu’ è separata,
costruita in un luogo fresco, è più una grotta che un edificio, spesso all’interno vi scorre dell’acqua per permettere
la separazione della materia grassa dal latte, da scremare
per produrre il burro.
Solitamente i flussi di percorrenza nel primo caso sono
garantiti utilizzando il dislivello del terreno; viceversa gli
alpeggi hanno il civile sopra la stalla spesso accessibile
da un blocco scale in muratura che conduce ad un balconcino realizzato sulla facciata principale.
All’esterno, entrambi possiedono la concimaia e alcuni
canali di irrigazione utilizzati per farvi scorrere il letame, diluito con l’acqua, in modo da concimare i pascoli a
scorrimento; per poter permettere tale fertirrigazione gli
edifici sono realizzati verso monte, al margine superiore
della proprietà. L’acqua viene anche raccolta negli abbeveratoi, in pietra, legno o realizzati nel terreno, indispensabili per dissetare il bestiame, ... e gli “arpians”.
Vasir (1280 m slm)
É il primo, piccolo, mayen che incontriamo: sito ai margini di una pietraia è protetto dal roccione al quale si addossa.
Ronc / Ronh (1315 m slm)
Il toponimo è eloquente, indica un territorio dissodato
per poterlo mettere a cultura: è un mayen. Situato su un
suggestivo poggio che guarda la vallata del Lys, è composto da due fabbricati, uno dei quali è in parte in legno,
ma entrambi hanno le murature di pietra con finitura in
intonaco di calce a pietra rasa, che rivelano la cura con la
quale sono stati realizzati.
Lion / Léjunh (1392 m slm)
Piccolo nucleo composto da più strutture, delle quali la
più recente è il vasto edificio più a nord, distribuito su
quattro livelli, il colmo è datato 1895 e le iniziali CJB Consol Jean-Baptiste. L’agglomerato di origine comprende
anche quattro edifici, di cui uno in legno un rascard (stadel), indice del probabile antico sfruttamento della zona
anche con culture a cereali.
Crestas / Krechtaz (1398 m slm)
È un piccolo alpeggio, di forma semplice e compatta, appoggiato ai massi erratici di monte. La casera fu costruita
nel 1889 come da data sul trave maestro. La sua cantina è
poco più su, tra i sassi del clapey.
Torretta / Torriti (1465 m slm)
Alpeggio, molto trasformato in epoca recente, riveste in-
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Alpeggio di Pioani.
(Foto Musso)
teresse per la posizione
dominante sul costone
che separa Tourrison
dal vallone limitrofo, Laval (per gli Issimesi) o
Chantoun (per i Fontenemoresi).
Tchavaneui / Tschavanellji o Tschannavellji (1492 m slm)
Edificio d’alpe, costruito
in due fasi successive,
prima la parte più alta,
poi l’annesso più piccolo (a sinistra guardando
dal basso). Lo sporto
del tetto sul fronte principale indica in modo
eloquente che in questa
zona non vi sono problemi di valanghe. La trave
di colmo porta incisa la data 1828 e le iniziali CC (Cristoforo Consol). Interessante è il tratto di mulattiera di
accesso, con le sponde laterali in pietra.
Tourrison (inferiore) / Türrudschu (1637 m slm)
Piccolo agglomerato d’alpe costruito a margine di un pianoro per lasciare maggior spazio al pascolo, composto da
due nuclei di edifici (la prima abitazione che si incontra
reca incisa su una pietra d’angolo la data 1886, mentre la
seconda su una pietra murata la data 1802).
Tourrison (superiore) / Türrudschu (1643 m slm)
Nucleo d’alpeggio, che giace su un piccolo pianoro, composto da diversi edifici, tra i quali una costruzione in legno ‘stubbu’, il cui piano terreno attualmente è utilizzato
come cantina per i formaggi, mentre l’annesso in pietra
soprastante è utilizzato a stalla per piccoli animali. Sul tetto di quest’ultimo è stato necessario realizzare uno steccato per impedire alle capre si salirci! A valle dello stadel
vi è la cantina per il latte; davanti un edificio adibito ad
abitazione d’alpeggio con al piano superiore la casera e
al piano terreno la stalla; un’altra cantina in pietra è poco
più in basso.
Krédémì (1771 m slm)
Favoloso esempio di adattamento delle costruzioni alle
forze della natura: sono dotate di paravalanghe. Quella
più a valle è stata edificata contro massi esistenti in loco,
mentre quella a monte è stata provvista di un poderoso
accumulo di pietre accatastate all’uopo; su di esso anche
la supplica della protezione divina, con l’apposizione di
una croce sul punto più alto. A lato, dove scorre l’acqua,
troviamo la cantina, davanti un abbeveratoio in legno,
mentre più in basso una polla risorgiva viene raccolta in
una “dighetta” sbarrata da una trave in legno.
Pioani / Piannhi (1899 m slm)
Altro esempio di alpeggio, adattato perfettamente all’ambiente in cui è stato inserito. La struttura è composta da
un edificio in pietra, con tetto a falda unica nella direzione
del pendio, protetto, naturalmente a monte, da un paravalanghe in pietra costruito sapientemente; mentre a valle,
sfalsato di quota troviamo un recinto, in muro di pietra,
per gli animali. Sull’architrave in pietra della stalla si legge la data 1831.
Casera Neuva (2003 m slm)
Il toponimo indica un’installazione più recente di altre,
ma non data il suo impianto. È una costruzione a falda
unica sotto roccia atta a riparasi dalle valanghe.
La Mianda (2000 m slm)
È un piccolo alpeggio, di forma semplice e compatta,
con colmo orientato parallelamente alle curve di livello.
Per poter permettere l’insediamento verso monte è stato costruito un piccolo muretto a secco di contenimento.
L’accesso al piano superiore è garantito da una possente
rampa in pietra.
Lei kier (2094 m slm)
Struttura d’alpeggio molto particolare e ... affascinante,
composta da una costruzione chiusa e una aperta. L’e-
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A U G U S T A
Alpeggio di Lei Kier.
(Foto Musso)
dificio è stato realizzato
in due fasi: prima la parte di monte, poi quella
di valle. La parte a valle
presenta incisa sull’architrave della stalla la
data 1888. Il tutto ha
generato un complesso
edilizio molto suggestivo con la falda del tetto a
valle molto vasta, che si
protende quasi a proseguire il pendio. Il recinto
esterno per gli armenti è
realizzato con un muro
in pietra; ricorda una fortificazione preistorica,
come fossimo in un’area
nuragica.
La capacità di adattarsi
alla morfologia del terreno in questo caso tocca livelli d’eccellenza: le case seguono il pendio e il recinto insiste sul soprastante pianoro.
La casa è posizionata in maniera per cui le valanghe che
scendono copiose nel pianoro a monte, dove si trova il
lago, non la danneggiano.
La cantina per il latte si trova nella pietraia fra grossi massi a monte del recinto.
Crest / Krecht (2253 m slm)
È l’alpeggio più in quota di tutto il vallone, sito poco sotto
il Col du Loup (2342 m slm); ha una trave interna datata
1748 con le iniziali JC (Jean Consol), ha sfruttato l’orografia del luogo con la costruzione di due corpi distinti, ma adiacenti, realizzando due stalle e il civile al piano
superiore di quella a monte. L’edificio a valle ha incisa
sull’architrave in pietra
della stalla la data 1878
e le inziali di Jean Baptiste Consol Stoffultsch
(*1821†1902). La sua
fonte sgorga nella pietraia.
Lei Kier fine luglio 2009,
il fronte della valanga arrivava ancora a coprire
quasi tutto il pianoro retrostante il recinto per
gli armenti, e il lago era
completamente invaso.
La casera d’alpeggio è
posizionata al di sotto del
gradino da cui scendono
le acque del lago, in maniera per cui le valanghe
che scendono copiose nel
pianoro a monte, dove si
trova il lago, non la danneggiano. (foto Musso)
— 26 —
A U G U S T A
Il toponimo Ruassi nel Vallone di San Grato:
Traccia linguistica
e d’uso del suolo
Michele Musso
A
ll’interno del sistema di comunicazione
di patate, coltivate dalla fine del XVIII secolo, quando si
del töitschu, il dialetto tedesco di Issime,
introdusse nell’alimentazione umana il prezioso tubero.
non è più compreso il primitivo significato
Il beerg di Ruassi è situato nell’adret (sunnuhalb in
del toponimo d’Ruassi. Tutti, però, issimetöitschu) del Vallone, versante esposto a sud, che nel mesi, proprietari, e conoscitori del Vallone di
dioevo è stato diviso in lotti. Probabilmente in principio,
San Grato, sanno a quale zona si riferisce.
per gli abitanti originari di Issime, in seguito per i nuovi
Un toponimo può mantenere il proprio compito anche
arrivati, i Walser. I Walser si sono installati nel Vallone e
quando non si conosce più il valore semantico, o quando
vi hanno vissuto almeno a partire dal XIV secolo, utilizè scomparso ciò che l’ha motivato e generato, in quanto
zando una parte di queste grandi particelle, dopo aver
interessa solo un certo settore della vita quotidiana ridisboscato parte del territorio in differenti modi. Le zone
stretto alla denominazione geografica. L’aspetto odierno
di insediamento sono state suddivise in complessi di codel sito di Ruassi non suggerisce più, perlomeno a prilonizzazione in relazione all’esposizione, all’altitudine,
ma vista ed in maniera
evidente, l’oggetto cui il
toponimo si riferisce e le
attività che in quel luogo
si svolgevano.
Il toponimo Ruassi,
oggi, identifica un villaggio a 1772 m s.l.m. Il
villaggio è compreso in
quella fascia del Vallone
chiamato dagli issimesi
d’Beerga1 (i mayens), dai
1300 m ai 1800 m s.l.m.
I Beerga si trovano fra il
fondovalle di Issime e gli
alpeggi, e fino alla prima metà del XIX secolo
costituivano sedi stabili
d’insediamento. Questa
fascia, attualmente, è
sfruttata a pascolo estensivo, ma fino agli anni ’60
del secolo scorso era utilizzata, ancora e in parte, a coltura intensiva2,
prati da sfalcio, campi
Il villaggio di Ruassi. (Foto Musso)
di segale, e soprattutto
I Beerga (mayens) sono costituiti generalmente da case di abitazione con stalle, fienili e granai annessi, da campi (achara), e
prati da sfalcio (eegerdi).
2
Riguardo l’abbandono dell’economia alpina a Gressoney cfr. ZÜRRER 2009, Dialetti walser in contesto plurilingue, p. 80.
1
— 27 —
A U G U S T A
Cumuli di materiale di risulta lungo la mulattiera in direzione del villaggio di Chröiz,
in corrispondenza delle pozze per la canapa. (Foto Musso)
alla natura del suolo e quindi utilizzate per l’agricoltura
e pastorizia. Un’estesa opera di progressiva espansione e
di miglioramento della terra disponibile utile all’agricoltura e alla pastorizia con azioni di dissodamento, terrazzamento, adduzione d’acqua per irrigare e ‘fertirrigare’.
Il vallone di San Grato è l’unico esempio in Valle d’Aosta ad aver mantenuto intatta la struttura fondiaria della
colonizzazione, passata da un insediamento temporaneo
(della popolazione romanza) ad un insediamento stabile
(della popolazione walser)3.
Il paesaggio presenta, quindi, gli elementi di modifica del
territorio che ricordano i molteplici modi di sfruttare la
montagna a fini agricoli, sia intensivi, sia estensivi. Ciascun lotto ha conosciuto una storia agraria differente.
Il territorio di Ruassi si trova lungo la mulattiera detta
dan undre Weg (mulattiera di sotto), anche chiamata da
vuss Weg (mulattiera pedonale), che si snoda nella fascia
bassa del versante esposto a sud del Vallone. Il villaggio
di Ruassi è collegato alla fascia alta del versante, percorsa
dalla mulattiera detta dan uabre Weg (mulattiera di sopra)
o d’chünu Weg (mulattiera per le vacche), da un sentiero gassu, delimitato in parte da muretti, o da lastre, o da
pietre inserite verticalmente blatti, per impedire che al
passaggio delle vacche queste ultime uscissero nei campi coltivati. Questo sentiero passa per il beerg di Méttelti
(oggi utilizzato come alpeggio), che si trova nella fascia
alta, e raggiunge la mulattiera dan uabre Weg (mulattiera
di sopra).
I due differenti percorsi, dan undre Weg e dan uabre Weg,
paralleli alle curve di livello, lungo i quali si distribuiscono le particelle realizzate in maniera diffusa, perché
appartenenti a proprietari differenti al momento della
colonizzazione del territorio, corrispondono ai camminamenti di penetrazione nel bosco e allo schema direttivo
della messa in coltura stessa del Vallone.
Il villaggio di Ruassi, oggi, è costituito da due abitazioni,
Ringrazio a questo proposito l’architetto Claudine Remacle per avermi fornito informazioni utili e preziose sul modello di
insediamento e messa a coltura del Vallone di San Grato e della Valle del Lys in genere.
3
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A U G U S T A
Una pozza per la canapa
riempita da materiale
detritico. (Foto Musso)
una in muratura risalente al
1824, data incisa sulla trave
maestra, e l’altra in legno del
1561, data incisa sull’architrave di una porta. Ai piedi
della prima casa è presente
un vano aperto all’esterno
con volta in pietra che protegge un forno per la cottura del pane; alla base del
muro, dove si apre la bocca
del forno, sgorga una fonte. La presenza di un forno,
certamente, testimonia la
produzione di pane e quindi
anche di cereali. A fianco del
forno sorge un piccolo edificio, in parte in legno, che un
tempo, probabilmente, fungeva da locale deposito per
attrezzi. Poco oltre il villaggio e più in basso, seguendo
il ruscello che origina dalla sorgente, lungo la mulattiera
dan undre Weg, in direzione del villaggio di Chröiz, si possono osservare cumuli di materiale di risulta, un misto di
terra, detriti e grossi sassi ammassati disordinatamente.
A lato di questi cumuli si trovano delle pozze artificiali,
almeno due, non più utilizzate, una delle quali è ben definita ed ancora intatta, contornata da muretti, a forma di
rettangolo irregolare e dalle dimensioni di 6x5 m, al suo
interno scorre ancora dell’acqua e in parte è riempita da
materiale detritico. A monte delle pozze si trova il sedime
di un’antica abitazione.
Il toponimo compare in un documento del 1477, segnalato da Roberto Nicco4, riportato nella forma ‘Le Rosse’ in
cui è citato un ‘rascard et un tectum [stalla]’, in un campo
‘cum quodam fonte’. Nel Livre terrier del 1645, conservato
nell’archivio comunale di Issime, lo ritroviamo come ‘Les
Roozes’ e ‘Les Roozes, le champ de la fontaine e des roozes’.
Il documento riporta il nome, l’uso, l’estensione e la proprietà di ciascuna particella. Il territorio così denominato
nel 1645 si configura totalmente utilizzato in suolo agra-
rio per campi e prati, per un totale di 12,50 ‘quartanée’5
diviso fra quattro proprietari.
Nel testo fondamentale di Paul Zinsli [Zinsli 1984, Südwalser Namengut] sulla toponomastica nell’area walser a sud
delle Alpi – il volume raccoglie più di 4000 toponimi di
venti insediamenti walser – alla voce Rôsse(n), Rôssu6,
troviamo ‘piccolo stagno artificiale, fossa d’acqua per ammollare la canapa o il lino; mu het ggrssut <si è macerato
(lino)> (Bosco-Gurin)’. In töitschu le vocali lunghe diventano dittonghi ô > ua7.
Nella pubblicazione8 edita dalla Regione Piemonte sulla toponomastica di Alagna sono attestati due toponimi
nella forma ‘in da’ Rousse’ - ai maceratoi, queste pozze si
trovano nel luogo in cui ‘in passato sgorgava una piccola
sorgente che alimentava alcune vasche utilizzate per la
macerazione della canapa’. Ad Alagna il vocabolo Rousse,
Roussa9 ha mantenuto il suo significato e utilizzo.
Pare dunque che il significato originario di ruassi (sost.
plurale) debba essere ‘maceratoi per la canapa’, la presenza di pozze, la disponibilità e abbondanza d’acqua depongono a favore.
NICCO, Notes sur le peuplement du vallon de Saint-Grat (Issime) au cours des XIVe et XVe siècles, in Le Flambeau n.134, Aoste
1.trim 1992, p. 10.
5
Misura di superficie dei terreni utilizzata in Piemonte e nel Ducato di Aosta. Nella Valle del Lys, nel corso del XVII secolo, la
quartanée quartinata equivaleva a mq 608,128. Si deduce che nel 1645 i terreni utilizzati a prato e campo a Ruassi erano di circa
7.600 mq.
6
La stessa etimologia ha il termine francese routoir ‘maceratoio’ deverbale di rouir ‘macerare’, quest’ultimo deriva infatti dal
fráncone (lingua del ceppo germanico) rotjan. (Nouveau dictionnaire etymologique et historique Larousse / par Albert Dauzat,
Jean Dubois, Henri Mitterand, 4. ed., Paris 1964 ; Cfr. anche Schweizerisches Idiotikon 6, 1407).
7
Cfr. ZÜRRER 2009, op. cit., p.129.
8
FERRARIS 2009, I nomi di luogo di Alagna Valsesia – Ourdnome van im Land, p.185.
9
Cfr. GIORDANI, La colonia tedesca di Alagna-Valsesia e il suo dialetto, IIa edizione, Varallo Sesia 1927, p.171.
4
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A U G U S T A
Pozza per la canapa ancora ben conservata,
contornata da muretti, dalle dimensioni di 6x5 m,
in parte riempita da materiale detritico.
Sullo sfondo il villaggio di Ruassi. (Foto Musso)
Molti issimesi ricordano i campi di canapa e le pozze per
la macerazione nel fondovalle. La canapa è stata, tra le
specie coltivate, una delle poche conosciute fin dall’antichità sia in Oriente che in Occidente. Con le materie
prime della canapa si producono tessuto e cordame. Le
pozze erano utilizzate per mantenere immersi i fusti leggeri della canapa raccolti in fascine, previa essicazione,
posti sotto il peso di grossi sassi, solitamente conservati
ai bordi del maceratoio, dello stesso tipo di quelli presenti a Ruassi sui cumuli. Per la macerazione non è necessaria molta acqua ma un ricambio continuo per mantenerla
pulita. Dopo alcune settimane le fibre esterne dei fusti
venivano staccate con facilità, recuperate, e opportunamente seccate, erano pronte per la filatura. I resti secchi
degli stessi fusti decorticati erano usati poi come combustibile povero10.
Il vocabolo in töitschu per indicare oggi il maceratoio
per la canapa è ‘da noas11 / d’noasa (pl.)’ (s.m.), prestito
integrato dal patois di Gaby ‘lou nòs’12 (s.m.) deverbale
di ‘nasòhr’ macerare, a Fontainemore ‘nasai’ (v.), francoprovenzale nëce [né-se] (s.m.) deverbale di nèisé13. Nel
fondovalle di Issime troviamo i toponimi d’Noas, d’Noasa
e d’Noasara14 ad indicare la presenza di maceratoi, lungo lo Stolenbach (torrente) nei pressi del villaggio del
Colgo l’occasione per ringraziare Laura Busso Lixandrisch per le preziose informazioni sulla coltivazione e sulla lavorazione
della canapa, e per avermi accompagnato a ritrovare le pozze lungo il torrente di Tourrison.
11
Qualcuno utilizza anche il termine d’hampfgüllju ‘pozza della canapa’.
12
Dato linguistico tratto dall’Atlante dei Patois Valdostani (APV). Ringrazio per la gentilezza e disponibilità Saverio Favre del
B.R.E.L. di Aosta.
13
Dato ricavato da Nouveau dictionnaire de patois valdôtain / Aimé Chenal et Raymond Vautherin, Aoste 1997, pp.1178 e 1181.
14
Nel töitschu si riscontra l’uso di alcuni termini derivati dall’aggiunta del suffisso nominale –ara alla radice del sostantivo.
Quest’ultimo derivato dal töitschu, o dalla lingua di contatto, in particolare nei casi analizzati, dal patois: d’érllju, d’érlji (pl.) >
d’érllj-ara; d’lljischu, d’lljischi (pl.) > d’lljisch-ara; d’noas, d’noasa (pl.) > d’noas-ara; d’las-ara dal termine francoprovenzale las; d’blattu, d’blatti (pl.) > d’blatt-ara; rispettivamente col significato di luogo dove si trovano: ontani (pianta), erba
di acquitrino (carice), maceratoi per la canapa, lastroni di roccia affioranti dal terreno (stesso significato per i termini lasara e
blattara, ma il primo ha radice romanza, il secondo germanica). Nella toponomastica, e solo nella toponomastica, troviamo la
forma Verni-ara, ad indicare un bosco ricco di ontani, accanto alla variante romanza Vernei, e quella in töitschu érlljara (vedi
oltre nel testo). Ad Alagna è attestato il toponimo d’Stainera “le zone sassose” da stain, staina (pl.) (FERRARIS 2009, op. cit.,
p.204), ed il vocabolo d’chroutera ad indicare un prato dove si trova erba da falciare con la falce messoria, dal sostantivo d’chrout
erbaggio (testimonianza raccolta da Bruno Degasparis falegname di Alagna). Nelle voci sopra analizzate il suffisso –ara potrebbe essere l’esito di quello attestato in area romanza –era, ad esprimere lo stesso concetto. In piemontese troviamo i vocaboli
drugera, aliamera (letamaio), giasera (ghiacciaia), cravera (stalla per le capre), fnera (fienile), derivati rispettivamente dalla
base nominale drugia, aliam, giassa, crava, fen; lo stesso vale per il vocabolo casera baita, inteso come locale in cui si produce
e si conserva il formaggio (dal latino caseus). In patois segnaliamo i termini tchenevera (campi di canapa), bruachera (luogo
dove crescono mirtilli), tchevrera (stalla per capre), tcheresera (luogo dove crescono alberi di ciliegio), murgera (cumuli di
pietre esito di uno spietramento). Se così fosse, apparirebbe alquanto originale, a segnalare la vitalità e la spiccata originalità
del töitschu. In questo modello si distinguono tre parti: articolo determinativo del töitschu + morfema base, dal töitschu, o dal
patois + suffisso del codice romanzo. Difficile individuare i confini fra un codice e l’altro, si pensi alla parola d’lasara, costituita
da una radice romanza e un suffisso a sua volta di origine romanza, ma integrata perfettamente nel sistema morfofonologico
del töitschu. Tra l’altro nel patois quest’ultimo termine non è presente. Bisogna segnalare infine che nel suffisso –ara la vocale
‘e’ si trasforma in ‘a’ per attrazione vocalica (anche detta armonia vocalica). Fenomeno fonologico già osservato nel dialetto
tedesco di Issime da Renato Perinetto: ‘l’apparato fonatorio viene adeguato anticipatamente alla pronuncia della desinenza che,
in quanto tale, influisce sulla penultima vocale trasformandola in un suono uguale alla desinenza stessa’ (PERINETTO 1989,
Una particolarità vocalica nella parlata di Issime, In: Augusta, pp. 12-19).
10
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A U G U S T A
Pozza per la canapa lungo il Türrudschunbach nei pressi del villaggio di Gran Pra nel fondovalle di Issime, alimentata
da una sorgente che sgorga nelle vicinanze, in consorzio fra le famiglie Busso-Schützersch e Linty-Rowersch. (Foto Musso)
Sann nella zona chiamata d’Wasseri (zona ricca di fonti);
lungo il Türrudschunbach nei pressi del villaggio di Gran
Pra due maceratoi alimentati da una sorgente che sgorga nelle vicinanze, uno consortile fra le famiglie BussoSchützersch15 e Linty-Rowersch e l’altro della famiglia Ronco-Pétéretsch; lungo il Rickurtbach nel territorio chiamato
Vernei (ma anche Verniara o d’érlljara)16 - compreso nella zona denominata Kioset17 al di sotto del ponte per il villaggio di Rickurt - portati via dall’alluvione del 4 settembre 1948; per i villaggi di Crose, Rollie e Rickurt superiore
si utilizzava una pozza naturale scavata in un masso lungo
il torrente, sulla destra prima di attraversare il ponte in
legno che conduceva a Rickurt superiore, anch’essa coperta dall’alluvione del 1948; e a Seingle superiore lungo
il Ru de Fontaineclaire, roggia (wüli) derivata dalla fonte
omonima Funtrunkieru.
Un atto notarile in francese18 del 1736 attesta la coltivazione della canapa nel Vallone di San Grato al beerg di Bech.
Si tratta di un atto di divisione del patrimonio ereditato:
“Partage fait entre honnetes Jean Louis, Jean Joseph et
Jean Pantaleon freres fils a fue Jean Louis Mathery d’Issime – 26 janvier 1736, Joseph Alby notaire”. La famiglia
Mathery, conosciuta col soprannome di Bennetsch, ha
dimora nel villaggio di Hubal e possiede anche un’abitazione a Bech. Fra le molte proprietà è citata una pozza per
mettere a macerare la canapa nel villaggio di Bech “dans
la ditte piece la nais19 a baigner chanvre en l’endroit qu’il
le trouve a present le quel creu à baigner chanvre reste
Come ricorda Laura Busso Lixandrisch: ‘Ogni anno dovevamo ripulire la pozza dalla terra che si accumulava e dal muschio
che cresceva, per avere l’acqua pulita. Immergevamo poi le fascine, sopra mettevamo due tavole e sopra due grosse pietre. La
pozza era contornata da lastre di pietra di taglio e aveva il pavimento ricoperto di lose [lastre di pietra]. L’alluvione del 1948 ha
portato via quella dei Pétéretsch, la nostra sono cinquant’anni che non la utilizziamo, ma c’è ancora’.
16
Vedi nota 14.
17
Conca boschiva inserita in una scarpata morfologica lungo il torrente, sul cui ciglio si affacciano i villaggi di Rickurt di mezzo
e inferiore. Per quest’area è difficile, oggi, leggere i caratteri morfologici originari. È stata recentemente riempita da materiali
inerti e di discarica, quindi colmata con riporto di terra.
18
Arch. privato Imelda Ronco, Issime.
19
L’uso della voce dialettale ‘nais’ (maceratoio) nell’atto notarile in francese attesta l’uso di questo termine nella lingua parlata.
Appare chiaro che un atto notarile debba essere compreso non solo da chi lo stipula ma anche dalle parti che lo sottoscrivono.
15
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A U G U S T A
famiglie, spesso le pozze restavano in proprietà indivisa
così come nel fondovalle, che le famiglie erano obbligate
a mantenere i maceratoi costantemente puliti e funzionanti. Molto probabilmente sì è continuato a coltivare la
canapa finché il Vallone è stato abitato tutto l’anno, fino
alla prima metà del XIX secolo20, come già evidenziato.
Agli agricoltori, infatti, veniva richiesto l’impegno non
solo per la coltivazione, ma anche per tutte le fasi successive di macerazione, stigliatura e lavorazione della fibra.
La semina avveniva in primavera, la pianta raggiungeva
la maturità ad agosto-settembre, i fusti erano fatti seccare, quindi messi a macerare una ventina di giorni, nuovamente messi a seccare, quindi stigliati. La fibra ottenuta
doveva essere sbiancata nella cenere, quindi nuovamente
essiccata, a questo punto era pronta per essere filata.
Grande maceratoio in pianura, anno 1938. A macerazione
ultimata i fasci erano posti ad asciugare. I massi accumulati
ai bordi della pozza servivano per mantenere immersi i fasci
della canapa.
en commun entre les dits freres compartissants avec leur
entrée et sortie pour baigner le dit chanvre qui ace fin
seront tenus alentretien et manutention du dit creux”. La
pozza della canapa si trovava probabilmente nell’appezzamento, chiamato ancora oggi Bennetsch Eebana [Il piano
dei Mathery], che si trova sopra le case di Bech lungo il
torrentello, appezzamento che è, oggi, attraversato dalla strada carrozzabile. Dal documento ricaviamo, che la
coltivazione della canapa era praticata certamente nel
Vallone di San Grato, che la coltivazione era diffusa fra le
Ciò che contraddistingue la comunità issimese, rispetto
ad altre realtà dell’arco alpino, come evidenziato da molti studi, sono il plurilinguismo e la compresenza di due
gruppi etnici (quello tedesco e quello francoprovenzale)
entro lo stesso territorio. Riguardo al plurilinguismo, storicamente attestato, si arriva effettivamente fino a cinque
varietà nelle competenze linguistiche di molti issimesi21.
Come affermato da Silvia Dal Negro22 ‘con i suoi cinque
codici a disposizione, la comunità di Issime è una delle
più ricche d’Italia dal punto di vista linguistico’. Sono soprattutto il franco-provenzale e il piemontese, rispetto al
francese e all’italiano, le lingue dei vicini, a rivelarsi ‘come
fonte di prestiti nel lessico quotidiano e precisamente
all’interno di ambiti concreti’ [Zürrer 2009, p.121]. Ad Issime si può tranquillamente affermare che tutti i campi
semantici sono stati interessati dal fenomeno del prestito linguistico. Sotto la pressione del contatto continuo e
quotidiano con i vicini, è facile che un elemento lessicale
della lingua di contatto venga a sostituire un termine già
esistente nel dialetto tedesco. Molti termini relativi alla
casa sono di origine romanza ed hanno sostituito il termine originale in töitschu, come ad esempio kruatu cantina
(dal piem. cròta) al posto di chéller, piellje stanza soggiorno (dal patois peiljou, péilu) corrispondente al termine
stubbu, così per indicare la soffitta si utilizza un prestito
romanzo galataz23. Il termine ‘stubbu’ era ancora utilizzato per indicare le piccole stanze in legno usate per passare la notte e quelle utilizzate a dispensa nelle abitazioni e
negli stadel (rascard) dei Beerga24.
Nell’ambito dei termini relativi alla descrizione della
morfologia del territorio, legati quindi alla denominazione geografica, fra quelli che ricorrono più frequentemen-
Nel registro dei conti dei procuratori della chiesa di Issime-Saint-Jacques, conservato nell’archivio parrocchiale di Issime,
in data 6 ottobre 1765, in cui si ribadisce il regolamento per la distribuzione del pane benedetto, sono elencate tutte le famiglie
(fuochi) di Issime (compreso Gaby), distinte per villaggio. Il Vallone di San Grato era allora ancora abitato da ventitre famiglie
distribuite fra i villaggi di Valbounu, Hubal, Bech, Blatti, Écku, Lansiniri, Chröiz, Bühl e Ronh.
21
ZÜRRER 2009, op. cit., p.83 e seguenti.
22
DAL NEGRO, GUERINI, Contatto: dinamiche ed esiti del plurilinguismo, 2007.
23
Cfr. fr. galetas.
24
Nel dialetto walser di Issime con il termine stubbu si indicava anche una costruzione in legno utilizzata come granaio e/o
per conservare il fieno. Ne rimane un esemplare nel villaggio di Hubal, uno all’alpeggio di Tourrison sup., qualche anziano ne
20
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A U G U S T A
te oggi, nel dialetto tedesco, sono i termini romanzi pianh
(s.n.) e krüp (s.m.) (dal patois grüp) rispettivamente con
il significato di piano, terreno pianeggiante, pianoro, fondo e promontorio, cocuzzolo, dosso, gobba del terreno,
accanto alle forme originarie eebana (s.n.), o indistintamente eebeni (s.f.), buade (s.m.) e hubal (s.m.). Nella toponomastica si trovano nelle varianti, Pianh, Pianhi, Pioanu, Pioani, Pianh van z’Nuas (Piano del mulo), e krüp,
krüpji, Untunun krüp, dan Uabren krüp, Leisisch krüp,
dar Lljibuvrawun Krüp in compresenza con, Eebana,
Bennetsch Eebana, Buade, Schwoarzen Buade, Buadma
e Hubal, Hubelmatti, Hubelti. Questi termini sono entrati
ormai a fare parte del sistema del dialetto tedesco. Tale
processo appare concluso per il termine krüp che ha sostituito il vocabolo hubal25, mentre è in atto per il termine
pianh. È molto probabile che lo stesso fenomeno abbia
interessato il vocabolo noasa, relegando così il termine
Ruassi alla toponomastica e all’oblio.
Spesso i mutamenti linguistici sono dettati da uno sforzo d’adesione di una lingua ad un’altra in conseguenza
di mutate condizioni nel contesto sociale. A questo proposito, oltre al secolare contatto all’interno del proprio
ambito sociale con una popolazione di lingua diversa, ciò
che ha influenzato in maniera inconfondibile il repertorio
e il comportamento linguistico degli issimesi, rendendoli
permeabili all’innovazione e all’influsso dalle altre lingue,
è stato il sistema “tradizionale”, tipico delle popolazioni
walser a sud del Monte Rosa, in cui emigrazione temporanea e attività agro-pastorali si sono per secoli integrate e combinate alla ricerca di un delicato equilibrio.
Ad Issime, infatti, era pratica comune di affittare – per lo
meno nel corso degli ultimi duecento anni - buona parte degli alpeggi a mandriani forestieri provenienti dalla
Bassa Valle d’Aosta, dal Canavese e dal Biellese. I pastori
esterni, che arrivavano alla metà di giugno, per raccogliere gli animali degli issimesi e salire poi agli alpeggi, per
rimanervi fino alla fine di settembre, giungevano proprio
nel momento di massima contrazione della comunità in
quanto gran parte della popolazione maschile attiva era
ormai partita per la Francia e per la Svizzera francese, in
particolare per praticare il mestiere di muratore26. Inoltre
poiché la popolazione residua, fatta di donne27, di anziani e di bambini che viveva nel Grunn (fondovalle) e nei
Beerga, non era in grado di svolgere tutti i lavori agricoli
legati alla raccolta del fieno, che serviva al nutrimento
invernale degli animali, ad essa si univano per un breve
periodo i falciatori provenienti dalla vicina Val d’Ayas28.
Alla luce di quanto esposto la rimanenza della voce Ruassi nella toponomastica è particolarmente importante in
quanto è uno dei pochi esempi di toponimo antico, riferito all’attività umana29, che abbia sul terreno le tracce
materiali della sua origine, le pozze per la macerazione
della canapa, mentre la maggior parte dei toponimi si riferiscono alla morfologia del territorio o sono associati a
forme vegetali. La possibilità di comprendere una cultura
e la sua espressione passa attraverso la riconoscibilità e
leggibilità di un patrimonio, costituito da testimonianze
strutturanti il territorio. Siano queste di natura fisica o
solo tramandate dalla tradizione orale, esse permettono
la comprensione di un sistema che si è modificato nel
tempo, anche dal punto di vista linguistico.
È fondamentale in quest’ottica descrivere e interpretare
le strutture di colonizzazione e di insediamento nei loro
assetti temporali successivi, avvalendosi anche dell’analisi linguistica. Spiegare e illustrare i caratteri di ciascun
assetto, cogliendoli, negli aspetti tipici e in quelli singolari, in rapporto alle attività e in generale alla vita che
vi si svolgeva. Siamo di fronte nel Vallone di San Grato,
ricco di testimonianze, così come nell’intero territorio
di Issime, ad un vero e proprio “ecomuseo”, oserei dire
“del territorio” e “della lingua”, che, attraverso itinerari a
soggetto, può aiutare un eventuale visitatore a cogliere il
valore di testimonianza culturale, e a fruire del paesaggio
non solo come una bellezza da gustare, ma anche come il
risultato di un processo storico.
ricordava uno nei pressi del villaggio di Chröiz per salire verso Ruassi. Questa accezione del significato del vocabolo era conosciuta da pochissimi anziani. È comunque rimasto nella toponomastica Stubbu; Stubbun acher: un campetto di patate vicino ad
un piccolo rascard ora crollato, nel villaggio di Écku nel vallone di San Grato; Stubbi per la presenza di alcuni piccoli rascard
oggi scomparsi ma di cui rimangono i basamenti; Joakisch Stubbi piccolo rascard abbattuto nel 1944 per costruirvi una baita
d’alpeggio.
A Gaby, nel dialetto si usa ancora il termine stuba per indicare un granaio; stuba è in competizione con il termine grahnir.
25
Sull’uso e significato di questo vocabolo Onore Busso Lixandrisch (*1923†1999) ricordava di un anziano ‘il vecchio di Valbona’, come lo chiamava Onore, un certo Joseph Jean Sebastien Chamonal Moartasch (*1850†1946) che viveva al villaggio del Pra
superiore, che un giorno gli disse, mentre cercava di trasportare un carico di fieno: “um bürren dan persal zoanene unz das ich
vinnen as hubalti” – ‘per caricare il fascio di fieno lo trascino finché trovo un cocuzzolo’. Onore ricordava l’episodio perché
aveva udito usare quel termine da quell’anziano e da nessun altro. (Testimonianza raccolta dal sottoscritto nel 1994).
26
Il francese non era solo la lingua di chi emigrava, ma anche della Valle d’Aosta e soprattutto della chiesa, ed era la lingua
con la quale gli issimesi si servivano per scrivere (lettere, atti amministrativi, giudiziari e notarili) e per leggere (testi sacri,
almanacchi, libri di narrativa).
27
La maggior parte del lavoro agricolo era in mano alle donne.
28
Cfr. BODO, MUSSO, VIAZZO, Dalla toma alla fontina: trasformazioni della produzione casearia nella Valle del Lys, in: Stuart
Woolf e Pier Paolo Viazzo (a cura di), Formaggi e mercati: economie d‘alpeggio in Valle d‘Aosta e Haute-Savoie, 2002.
29
Fra gli altri: Ronh, Ronc terra dissodata, sottratta al bosco, dal medio-latino roncus, runcus, deverbale di runcare ‘sarchiare,
dissodare; Acher / Achara (pl.) campi, d’Karbunuru carbonaia; z’Tschabbiet / z’Tschobbiet: diminutivo di tchabio, deverbale di
tchabià indica un canalone per lo scorrimento a valle dei tronchi d’albero, in inverno quando c’è neve; d’Mülli mulino.
— 33 —
A U G U S T A
“Tutti italiani?”,
wir hen antcheede: “Sì!”
“Tutti italiani?”, noi abbiamo risposto: “Sì!”
Barbara Ronco Margitisch
En 1995, dans le cadre des manifestations visant à rappeler par des cérémonies publiques ou par des ouvrages commémoratifs les événements les plus frappants de la lutte pour la Libération, dont à l’époque on célébrait le cinquantième anniversaire, l’évocation du drame de la déportation dans les camps de concentration nazis avait trouvé une place dans le livre “Ai
giovani perché sappiano” (Imprimerie Valdôtaine, Aoste). La terrible expérience des “lager” avait été racontée par certains
survivants et les témoignages soigneusement rassemblés par Lucienne Faletto Landi. Parmi ceux-ci il y avait celui de l’issimien Fortunato Consol. Il s’agissait de son journal de guerre, écrit à Issime en 1945 mais racontant les 66 mois de service
militaire, de guerre et d’emprisonnement. Le livre s’ajoutait à toute une bibliographie qui cherchait de combler les longues
années de silence sur cette triste page d’histoire. Ce n’est qu’en 2006, par la loi nationale n. 296, que l’Etat italien a reconnu
officiellement les souffrances des déportés e a institué la concession d’une médaille d’honneur aux citoyens italiens qui avaient
vécu la déportation dans les camps nazis. Il a fallu encore un peu de temps, mais finalement Fortunato Consol a été décoré
le 27 janvier 2011, jour de la Mémoire, dans la salle des manifestations du palais du Gouvernement régional par le Président de la Région Augusto Rollandin dans sa qualité de Préfet. Parmi toutes les célébrations des 150 ans d’Unité d’Italie,
l’Augusta pense que donner encore la parole aux protagonistes de la Libération, page pilier de l’histoire de la Nation, soit une
façon simple mais touchante de dire encore une fois aux jeunes: “n’oubliez pas”. Les valeurs les plus importantes pour tous les
peuples sont la liberté et la démocratie.
Ci-dessous, l’interview à Fortunato Consol en töitschu avec traduction en italien.
Elena Landi
Le parole sono di un issimese, Fortunato Consol, che ringraziamo per la disponibilità e sensibilità dimostrata.
Fortunato Consol (*1920)
F. Ischt sua…d’létschtu joari ischt gsinh da chrig, da
chrig ischt gsinh leidi dinnhi, ah, ischt gsinh wiltsch,
darnoa henni mussun goan zwei un zwénzg moanada
prisonnier im Töitschlann, in t’campo d’concentramen,
doa hewer franh dénght das war hetti mussu steerbe,
invece…
B. Doa hentsch ni toan z’weerhu…
F. Toan z’weerhu, hentsch nündŝch toan z’weerhu
uber le linee ferroviarie, wa an tag hentsch bombardé,
khéit allz…dan tag darnoa séwer kannhe rüschten un
noa zwian toaga ischt amum gsinh… un génh sua un
génh sua, vür zwei un zwénzg moanada un doa hewer
mussu heen…le remerciement hewer mussun geen
da fümmulu antweege wénn het glljöit l’allarme das
hescht mussun askappurun vam weerch dé sewer
askappurut un kannhen en campagne woa ischt gsinh
habité lljöit un kannhe vriege a stukh bruat ol zwien
trüffili, z’merteil hentsch kheen il pi gross trüffili,
anner…
F. È così…gli ultimi anni c’era la guerra, la guerra erano brutte cose, ah, era terribile, dopo ho dovuto andare
ventidue mesi prigioniero in Germania, in un campo di
concentramento, lì abbiamo proprio pensato che avremmo dovuto morire, invece…
B. Lì vi hanno fatto lavorare…
F. Fatto lavorare, ci hanno fatto lavorare sulle linee ferroviarie, ma un giorno hanno bombardato, buttato tutto…
il giorno dopo siamo andati ad aggiustare e dopo due
giorni era di nuovo…e sempre così e sempre così, per
ventidue mesi e lì dovevamo avere…il ringraziamento
abbiamo dovuto darlo alle donne perché quando suonava
l’allarme che dovevi scappare dal lavoro allora scappavamo e andavamo in campagna dove abitavano le persone
e andavamo a chiedere un pezzo di pane o due patate, in
genere avevano per lo più patate, altro…
B. Sì, sì, per lì avevano i campi.
F. Campi e poi la Germania è una produttrice di patate,
così le povere donne non avevano…chi aveva qualche
— 34 —
A U G U S T A
patata, chi un altro
B. Ja, ja, dabbiri
giorno…e il miglior
hentsch
kheen
affare che ho fatto
achara.
una mi ha dato un
F. Achara un té
pezzo di lardo, quello
z’Töitschlann ischt
sì che era…perché
una produttrice di
da mangiare non ce
trüffili,
an
dem
ne davano quei porci
d’uppugu
fümmili
di tedeschi, nessuno
hentsch nöit khee…
crede eppure io dico
wier het kheebe
com’era, al mattino a
zwian trüffili, wier an
colazione niente, c’eandren tag…un dan
rano delle colonne da
béschten
toawan
contare, tre, sei, nove
das ich hen gmachut
e giù di seguito, quaneina het mer keen
do erano in fondo alla
a stukh loard, das
colonna tutto sbagliadoa jia ischt gsinh…
to, tutto da ricontare,
antweegen
z’esse
un freddo, in inverno
hentsch
nündŝch
dei freddi e le nebnöit kee déi schwéibie, tutti quegli alberi
na van töitschini,
bianchi, c’era un fredkhémentsch klaupt
do del diavolo, basta,
un pürra ich seents
finalmente, contare
wi z’ischt, da muare ricontare dopo poge z’vörmiss khés
tevamo metterci in
dinh, ischt gsinh
marcia, facevamo sei,
de colonne z’zéllje,
sette chilometri per
dröi, seckschi, nöini
andare al lavoro, poi
un ambri zu un zu,
lavoravamo e spewénn ischt gsinh
ravamo sempre che
z’undruscht la cosuonasse
l’allarme
lonna allz gvoalts,
per poter scappare,
amum wider zéllje,
per avere una patata
vroschta, da winter
da quelle donne; se
vroschta un d’geil’allarme non suonava
vri, allu déi bauma
Attilio Bastrenta, Fortunato Consol (al centro) e Ferdinando Fresc.
per pranzo avevamo
wéissu, ischt gsinh a
mezz’ora…far fuoco,
vroscht z’töivulsch,
una mezz’ora, e poi spegnere quello e di nuovo al lavoro e
basta, for se tun, zélljen un widerzéllje darnoa hewer
la sera arrivavi nella baracca, ti davano un mestolo così di
muan amodduru, machun secksch, sibben killumetri
minestra e un pezzetto di pane; questa minestra era cotta
vür goan im weerch, zu gweerhut un génh asperruru
nelle caldaie, prendevi da sopra era sovente come acqua,
das hetti glljöit l’allarme vür muan askappuru, vür
prendevi in mezzo era ancora…là, perché le patate nella
arejen an trüffulu van déi fümmili; wénn het nöit glljöit
minestra non le pelavano, le lavavano e buttavano dentro
l’allarme z’ambéisse ischt gsinh a halb stunn…vöiru,
con la buccia e le mangiavamo tutte le bucce, eh, tutte, e
a halb stunn, un té zu arlljöschen z’dinh un amum
in fondo, cosa vuoi, le patate non erano ben lavate, c’era un
z’weerch un dan oabe bischt gcheen in d’barruku,
po’ di terra, perciò come ti dico, a volte avevi cinque o sei
hentsch keebe an katzu sua chuchi un a stükhji bruat;
maccheroni e a volte ne avevi solo due con quel brodo e un
diŝch chuchi ischt gsinh gsottni in tschoudiri, hescht
pezzo di pane e tirato avanti così per ventidue mesi, non un
kiat z’uabruscht ischt gsinh z’merteil wi wasser, hescht
giorno di più! Bisogna dire che…io penso che…
kiat z’mittag hescht noch areit…là, antweegen di trüffili
B. Sì, perché lavorare e non mangiare non so come uno
in d’chuchi hentsch dé nöit peelut, dŝchu gwesche un
possa…
khéit dri mit dar peelutu un hewudŝchu kessen allu
F. Ma non avevi più la forza di stare in piedi, era…
d’peeliti, eh, allu, un z’undruscht, was willt, di trüffili sén
B. Era perché eravate giovani, altrimenti…
nöit gsinh wol gweschnu, ischt gsinh as söiri heert, an
F. Perché eravamo giovani, ma eravamo rassegnati che
dem wi(n) ich der seen, wéilu hescht kheebe vünv ol
avremmo dovuto morire e voilà, come ti dico, gli uomini
secksch makarunh un wéilu hescht kheen nuan zwei mit
erano cattivi ma le donne ci aiutavano, bisogna dire queldéi nessi un a stukh bruat un zuage vürsich sua vür zwei
— 35 —
A U G U S T A
un zwénzg moanada, nöit an tag mia! Muss dŝchi seen
das…ich dénghjen das…
B. Ja, antweege weerhu un nöit esse wiss nöit wi eis
mieji…
F. Wa hescht nümmi kheen d’stérrji z’blljéibe schlechts,
ischt gsinh…
B. Ischt antweege sédder gsinh junnhi, wa süscht…
F. Antweege séwer gsinh junnhi, wa séwer gsinh rassigné
das hettewer mussu steerbe un voilà, wi(n) ich der see,
d’manna sén gsinh schwachi wa d’fümmili dŝch’hen
nündŝch noch gholfe, muss dŝchi seen wi z’ischt, wéilu
deeru hennündŝch keen unza a stükhji bruat, allz ischt
gsinh guts; antweege dan oabe wénn hescht keen kesse
das nechtmuss wéilu hescht avanzurut a stükhji bruat
sua, hescht gseit “Ma, loants doa vür da muarge, sua krat
chorru” wa hescht nöit kiat da schloaf, unz das hescht
keen kesse hescht nöit kiat da schloaf! Anche das nöit
sén arrivurut gli apparecchi bombarder, antweegen vill
vérti d’nacht séwer gsinh…schwétz mer nöit, ja, mu mat
nöit asplikkuru, là…
B. Na, na, eis hetti manhal z’heen pruavut, ja, süscht sua
khüere ischt nöit…
F. Mat nöit klaupe, mat nöit klaupe…
B. Eis mogoara klaupt wa mascht njanka imaginer…
F. Njanka imaginer, franh sua, na…
B. Was wéllji seen heen da hunnher, heen choalt un
nöit…
F. Ich in déi joari henni gsia…anner dén…im
Töitschlann das vöirllji z’mittag un basta, neh, halb
stunn, ah, hentsch dich nöit gloa vünv münniti mia, caro
mio…müssiri davanz hen astüddiurut an andra, darnoa
wénn séwer askappurut dŝchacki deeru das sén gcheen
sibit im weerch un deeru das hen tardurut, diŝchi héi
hen mogoara gleit a halb stunn, trois quart d’heure, dé
hentsch astüddiurut das das das wérti arrivurut vom
weerch noa un quart d’heure dan oabe hettintsch mu
nöit keen z’bruat…dé ischt wi um z’is tüete, via, awek
noch das stükhji bruat, jia das wénn het cessato allarme
d’lljöit…caro mio, arwékhinündŝch, antweegen süscht
z’bruat ischt…un villuru hents varluare, das sén gritte,
das sén gvalle, wa sén dén nöit arrivurut in sechze
münniti, trois…un quart d’heure: “Höit dan oabe, keine
brot!” Voilà, hinna khés bruat. Un da noame schréiben,
voilà, gschribben da noame in d’barruku: “Das doa
hinna, un das un das…keine brot”. Darnoa ischt dén
arrivurut amerikanhara un ingleisera, séntsch gchee
helfe süscht mit déi…mit culle bestie doa wiss nöit che
fin hettewer gmachut, wiss nöit, wiss nöit, ah, wir sén
gsinh rassigné das ündŝche lebtag hetti mussu lljéivrun
za vünv un zwénzg joar, mah…
(…)
F. Jia, Auschwitz, Mathausen, schwétzmer nöit van déi
tschemmini, ah, das as lljöitji mieji tun dinnhi sua, seeg
mer was Hitler heji kheen in z’hopt, eh, ischt inutil…
B. Ischt wi ni see, ischt gsinh sturni wa ellji séntsch mu
kannhen zu, antweegen süscht mat nöit sinh…
F. Ellji zu, ich hennimi étunnurut das séntsch mu
lo che è, a volte loro ci davano anche un pezzo di pane,
tutto era buono; perché la sera quando avevi mangiato
quella cena a volte avanzavi un pezzetto di pane così, dicevi “Ma, lo lascio lì per la mattina, così di assaggio” ma
non prendevi il sonno, fin che non lo mangiavi non prendevi il sonno! Anche se non arrivavano gli apparecchi a
bombardare, perché molte volte di notte eravamo…non
parlarmene, sì, non si può spiegare, là…
B. No, no, uno avrebbe bisogno di aver provato, sì, se no
solo sentire non è…
F. Non può credere, non può credere…
B. Uno magari crede ma non puoi neanche immaginare…
F. Neanche immaginare, proprio così, no…
B. Cosa voglia dire avere fame, avere freddo e non…
F. Io in quegli anni ho visto…altro che…in Germania
quel fuocherello a mezzogiorno e basta, neh, mezz’ora,
ah, non ti lasciavano cinque minuti in più, caro mio…
pensa che prima ne ho studiata un’altra, dopo quando
scappavamo già c’erano di quelli che tornavano subito al
lavoro e quelli che tardavano, questi ci mettevano magari mezz’ora, tre quarti d’ora, allora avevano studiato che
quello che arrivava sul lavoro dopo un quarto d’ora alla
sera non gli avrebbero dato il pane…allora era come ammazzarlo, via, ancora togliere quel pezzo di pane, sì che
quando c’era il cessato allarme la gente…caro mio, svegliamoci, perché altrimenti il pane…e tanti lo perdevano, che scivolavano, che cadevano, ma non arrivavano in
sedici minuti, tre…un quarto d’ora: “Oggi a cena, niente
pane!” Voilà, stasera niente pane. E il nome scrivevano,
voilà, scrivevano il nome nella baracca: “Quello lì stasera,
e quello e quello…niente pane”. Dopo sono poi arrivati
americani e inglesi, sono venuti ad aiutare altrimenti con
quei…con quelle bestie lì non si sa che fine avremmo
fatto, non so, non so, ah, noi eravamo rassegnati che la
nostra vita dovesse finire a venticinque anni, mah…
(….)
F. Sì, Auschwitz, Mathausen, non parlarmi di quegli animali, ah, che una persona possa fare cose così, dimmi
cosa Hitler avesse in testa, eh, è inutile…
B. È come dico, era pazzo ma tutti gli andavano dietro,
perché altrimenti non può essere…
F. Tutti dietro, io mi sono stupito che gli siano andati
tutti dietro, tutto quello che ordinava…ma ancora gli ultimi giorni della guerra lui aveva ancora da resistere…
ma sono morti tanti di quegli uomini che…avrebbero potuto finirla lì tanto ormai vedevano che avrebbero perso,
i russi erano da una parte, inglesi e americani dall’altra
parte, dove volevano andare, loro erano in mezzo, no, si
proteggevano di qua e di là, si proteggevano di qua e di
là, sono morti tanti giovanotti, potevano farne a meno, eh
sì…e voilà, dopo sono arrivati i poveri americani che ci
hanno rotto la porta del campo di concentramento con
un carro armato e lì è uscito dalla botola dell’aereo, c’era
lì una persona, non ho riconosciuto il grado, che parlava
italiano, mi ricordo che ci ha detto: “Tutti italiani?”, noi
abbiamo risposto: “Sì!”, “Bene, per voi la guerra è finita!”
— 36 —
A U G U S T A
Oratorio costruito al villaggio del Krecht
da Fortunato Consol come ringraziamento alla Vergine Maria per essere tornato
dalla guerra e dai campi di prigionia.
Fortunato ha voluto trasportare a spalle
la sabbia e il materiale per la costruzione.
(Foto S. Ronco)
zuahen ellji zu, allz was s’het botte…
wa noch d’létschtun toaga chrig is
het kheen noch z’resesturun…wa
sén gstuarbe sövvil der mannu das…
dŝch’hetti muan pianturun doa tanto
ormai hentsch gsia das sén gsinh
varluarni, i russi sén gsinh von a
séitu, ingleisera un amerikanhara von
d’andru séitu, woa hentsch wélljen
goa, dŝchiendri sén gsinh imitsch, na,
dŝchi gwért van héi un van doa, dŝchi
gwért van héi un van doa, sén gstuarbe
houfi mandjini, dŝchi hetti muan tun
minnur, eh jia…un voilà, darnoa sén
arrivurut d’uppugu amerikanhara
das hennündŝch brochen di tür van
il camp d’concentramen mit un carro
armà un doa ischt gsortrut van di
troapu van l’aereo, ischt gsinh doa as
lljöitji, hen nöit pniet il grado, das het
gschwétzt italien, bsinnimi das hets
nündŝch gseit: “Tutti italiani?”, wir
hen antcheede: “Sì!”, “Bene, per voi la
guerra è finita!”
B. Ischt gsinh an gut nawini.
F.
Eh sì…d’amerikanhara…ischt
kannhen wol, gauch, das sén gcheeme
dŝchiendri süscht wiss nöit wi…wiss
nöit che fin hettewer gmachut.
B. Ischt wi dar het gseit, villuru hen
nöit muan askappuru.
F. Oh, mon Dieu, mon Dieu, na,
na, schwétzmer nöit, darnoa hewer
mussun noch blljéiben doa as poar
moanada, ischt nümmi gsinh noch
weega noch ferrovie…
B. Nöit gwisst wi tun um goan hinner.
F. Um arwinne…um cheen, vür cheen wénn ischt gsinh
glljéivriti da chrig, mussun beitun doa, woa geischt esse,
anche gcheen z’vuss, wier gitter z’esse, khémentsch het
dŝchi, ischt gsinh guts z’see, un doa d’amerikanhara
hentsch nündŝch kee, insumma nöit en abondance wa
là…
B. Na, na, etwas…
F. Krat sua vür zin vürsich hentsch nündŝch kee…
war hen mussun blljéiben doa unz das hentsch kheen
grüscht le ferrovie, le ferrovie darnoa…a voart ischt
gsinh…ischt arrivurut doa un cappellan, un cappellan
minger, is het gseit: “Adesso le ferrovie sono sistemate
su tutto il territorio fino a Trieste, fino a Bolzano, nel
B. Era una buona notizia.
F. Eh sì…gli americani…è andata bene, per carità, che
sono arrivati loro altrimenti non so come…non so che
fine avremmo fatto.
B. È come avete detto, tanti non hanno potuto scappare.
F. Oh, mio Dio, mio Dio, no, no, non parlarmene, dopo
siamo ancora dovuti rimanere lì un paio di mesi, non c’erano più strade né ferrovie…
B. Non sapevate come fare per tornare indietro.
F. Per tornare…per venire, per venire quando era finita
la guerra, dover aspettare lì, dove vai a mangiare, anche
venire a piedi, chi ti dà da mangiare, nessuno ne ha, era
bello da dire, e lì gli americani ci hanno dato, insomma
non in abbondanza ma là…
B. No, no, qualcosa…
— 37 —
A U G U S T A
Veneto, allora bisogna poi aspettare che vengono delle
squadre a sistemarvi per rientrare in patria”; un darnoa,
basta, beitut doa noch as poar toaga unz das ischt
arrivurut doa eis das het gseit: “Allora, c’è una tradotta
domani mattina che parte da Brema e passerà qua
verso le quattro, le cinque della notte, insomma sarà poi
ancora buio, eh, tenetevi pronti sulla ferrovia che come
vi vedono fermano e vi caricano”, hewer nöit beitut al
mattino, hewer passrut d’nacht doa gsatzti uber i binari,
gseit héi…
B. Hedder grech kheen nuat das…
F. Génh kheen nuat das wértintsch askappurut, difatti
ischt gsinh a peu près wi s’het gseit, wider d’oalbu ischt
arrivurut doa, is hennündŝch gloade, kuntunurut unz a
Bolzano, euh, nel Brennero, sul Brennero, eh mon Dieu,
mon Dieu…van doa séwer arrivurut unz a Trento, doa,
d’hiara, ischt gsinh una colonna hiara das hennündŝch
keen as poar sold antweegen wir hen nümmi kheen khés
dinh, ni porteféil, ni as mésserllji, ni solda, di töitschini
hennündŝch kheen troagen awek allz.
B. Dénghjents…
F. Z’porteféil, was hen kheen dri as söiri des
conséquences, das hentsch kiet un troagen awek un
kheen as mésserllji um trommu as stükhji bruat, das
auch…gseit: “Quella è un’arma”, dé awek das auch…
un dé d’hiara hennündŝch keen as poar sold sua vür…
hettewer muan gian…bruat hescht nöit gvunne wa là,
bsinnimich ischt un méin consuocero, Paolasch pappa,
séwer gsinh zseeme, hewer kiat an tropf wéin, anner
hewer nöit gvunne, hewer zallt, ah ben, bsinnimich,
nündŝch gleit doa il disco, du ischt gsinh “Mamma son
tanto felice”, ben, dŝch’hen mussun arlljösche…s’het nöit
gwert zwia münniti, dŝch’hen mussun arlljösche, ischt
gsinh una lacrima einigi, schwétzmer nöit, un doa ischt
gsinh d’uppugu lljöit van la bassa Italia, van la Sicilia, van
la Sardegna, vriege: “Da dove venite?”, “Veramente partiti
dal nord”, “E per caso non avete conosciuto tale…” gseit
d’noami, “Io, mio figlio, mai più avuto notizie, veniva dalla
Grecia, era combattente in Grecia”, “Nei Balcani eravamo
anche noi ma io questo…”, antweegen ischt gsinh lljöit
sua z’vriege, doa z’beitun wénn dŝch’hetti gvunne nawini,
“Almeno se sapessimo…”
B. Ja, etwas wissu…
F. “Almeno se sapessimo che sono morti, almeno
quello, che non abbiano tanto sofferto”, as dinh, as dinh,
ischt gsinh as dinh commovente, jia, wa doa ischt gsinh
sövvil der lljöitu, allz…hescht dŝchi pniet im schwétze,
wissischt, d’heerdera, ah jia, sén gsinh schuppiti lljöit
das…un d’uppugu hiara doa hennündŝch keen an tropf
chuchi un a stukh bruat, dŝch’hen nöit kheen njanka
dŝchiendri, ischt gsinh guts z’see, das ischt gsinh
rationné vür ellji un voilà, darnoa séwer parturut,
gseit “Adesso raggiungete le vostre famiglie, tutto è
passato, tutto è finito e speriamo che trovate i vostri
cari in salute, in vita, è quello il bello, eh, purtroppo è
così per tutti”, ah, déi hiara hen chonnu schwétze…ah,
schwétzmer nöit…
F. Giusto per tirare avanti ci hanno dato…abbiamo dovuto
rimanere lì finché non hanno aggiustato le ferrovie, le ferrovie dopo…una volta c’era…è arrivato lì un cappellano,
un cappellano italiano, ha detto: “Adesso le ferrovie sono
sistemate su tutto il territorio fino a Trieste, fino a Bolzano, nel Veneto, allora bisogna poi aspettare che vengono
delle squadre a sistemarvi per rientrare in patria”; e dopo,
basta, aspettato lì ancora qualche giorno finché è arrivato
lì uno che ha detto: “Allora, c’è una tradotta domani mattina che parte da Brema e passerà qua verso le quattro,
le cinque della notte, insomma sarà poi ancora buio, eh,
tenetevi pronti sulla ferrovia che come vi vedono fermano
e vi caricano”, non abbiamo aspettato al mattino, abbiamo
passato la notte lì seduti sui binari, pensando qui…
B. Avevate forse paura che…
F. Avevamo sempre paura che fossero scappati, difatti
era più o meno come aveva detto, verso l’alba è arrivato lì, ci ha caricato, continuato fino a Bolzano, euh, nel
Brennero, sul Brennero, eh mio Dio, mio Dio…da lì siamo arrivati fino a Trento, lì, i religiosi, c’era una colonna
di religiosi che ci hanno dato qualche soldo perché noi
non avevamo più niente, né portafoglio, né un coltellino,
né soldi, i tedeschi ci avevano portato via tutto.
B. Lo credo…
F. Il portafoglio, quello che avevo dentro e le conseguenze, quello l’hanno preso e portato via e avevo un coltellino per tagliare un pezzetto di pane, anche quello…detto:
“Quella è un’arma”, allora via anche quello…allora i religiosi ci hanno dato qualche soldo così per…avremmo potuto prendere…pane non ne trovavi ma là, mi ricordo c’era un mio consuocero, il papà di Paola, eravamo assieme,
abbiamo preso un goccio di vino, altro non abbiamo trovato, abbiamo pagato, ah ben, mi ricordo, ci hanno messo lì il disco, allora c’era “Mamma son tanto felice”, ben,
hanno dovuto spegnere…non è durato due minuti, hanno
dovuto spegnere, era una lacrima unica, non parlarmene,
e lì c’era la povera gente della bassa Italia, della Sicilia,
della Sardegna, chiedevano: “Da dove venite?”, “Veramente partiti dal nord”, “E per caso non avete conosciuto tale…” dicevano i nomi, “Io, mio figlio, mai più avuto
notizie, veniva dalla Grecia, era combattente in Grecia”,
“Nei Balcani eravamo anche noi ma io questo…”, perché
c’era gente che chiedeva così, lì ad aspettare se avessero
trovato notizie, “Almeno se sapessimo…”
B. Sì, sapere qualcosa…
F. “Almeno se sapessimo che sono morti, almeno quello, che non abbiano tanto sofferto”, una cosa, una cosa,
era una cosa commovente, sì, ma lì c’era tanta di quella
gente, tutto…li riconoscevi nel parlare, sai, i meridionali,
ah sì, c’erano tante persone che…e i poveri religiosi lì ci
hanno dato un po’ di minestra e un pezzo di pane, non ne
avevano neanche loro, era bello da dire, quello era razionato per tutti e voilà, in seguito siamo partiti, detto “Adesso raggiungete le vostre famiglie, tutto è passato, tutto è
finito e speriamo che trovate i vostri cari in salute, in vita,
è quello il bello, eh, purtroppo è così per tutti”, ah, quei
religiosi sapevano parlare…ah, non parlarmene…
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A U G U S T A
Processo alla strega
Yona Ronco di Issime (1461)
Battista Beccaria
I
n un mio precedente studio, pubblicato su questa rivista nel 20081, ho
accennato all’organizzazione del tribunale della Santa Inquisizione in
Valle d’Aosta, confrontandolo con il
suo eponimo di Novara, posta quest’ultima diocesi nel ducato di Milano che, dopo il 1535, era
dipendente dai sovrani di Spagna. Mentre a Novara coesistono in modo concorrente, e anzi
conflittuale, due tribunali ecclesiastici paralleli
contro l’eresia, e cioè l’Inquisizione episcopale o
curiale, protetta e garantita dalla Spagna, di contro all’Inquisizione domenicano-papale, dipendente direttamente da quella centrale romana,
nella diocesi di Aosta questo dualismo non compare o, se sembra talvolta affacciarsi in modo
formale nei processi in causis fidei, lo è in forma
velata e direi giuridicamente fittizia. Su questo
punto sono pienamente d’accordo con Jean-Baptiste de Tillier2, il quale non negava già, a mio
parere, l’esistenza di un tribunale dell’Inquisizione aostano tout-court, ma negava che vi potesse
essere entrato, di forza e alla luce del sole, il tribunale della Santa Inquisizione romana, generalmente gestito dai due Ordini mendicanti dei
francescani o dei domenicani. Il De Tillier, secondo me, ha visto giusto quando ha individuato
nel solo tribunale del vescovo o della Curia episcopale aostana l’unica vera Inquisizione ufficiale della diocesi di San Grato. È pur vero che, in
alcuni pochi casi isolati, vi intervengono eccezionalmente degli inquisitori papali o romani, in genere francescani, chiamati ad Aosta dalle diocesi
contermini, ma questi ultimi sono fatti entrare,
piuttosto di soppiatto, nel tribunale dell’Inquisizione curiale, dai vescovi aostani medesimi, quasi a insaputa dell’autorità civile e laica locale, sempre gelosa delle sue autonomie e molto vigile ed attenta a non
permettere intromissioni o sconfinamenti di giurisdizioni
Villaggio di Bourinnes. (Foto S. Ronco)
estranee alla Valle. Recentemente, qualche studiosa del
fenomeno stregonico in Valle d’Aosta tra XV e XVI secolo3
ha, invece, tentato di dimostrare il contrario, ma, per fare
Battista Beccaria, Vescovi controriformisti e comunità walser tra Piemonte e Valle d’Aosta (1528-1601). I rapporti tra i vescovi
postridentini delle due diocesi di Novara e di Aosta e le Comunità walser di Valle Formazza (Pomatten), di Valle Antigorio (Salecchio Inferiore, Salecchio Superiore, Agaro, ecc.), di Valle Sesia (Rimella Valsesia, Alagna Valsesia), di Valle Strona (Campello
Monti), di Valle Anzasca (Macugnaga) e della Valle del Lys (Issime e Gressoney) nella seconda metà del Cinquecento, in “Augusta” 2008, pp. 22-30.
2
J.B. De Tillier, Historique de la Vallée d’Aoste, a cura di A. Zanotto, Aosta 1991.
1
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A U G U S T A
Villaggio di Bourinnes
antica abitazione risalente
probabilmente
al XV secolo. (Foto Musso)
ciò, ha semplicemente dovuto moltiplicare o sdoppiare
alcune funzioni uniche presenti in seno al tribunale inquisitoriale di Curia. I giudici di questo tribunale, analogamente a quanto avveniva nelle altre diocesi dell’Italia del
Nord, erano fondamentalmente due: il Vicario generale
del vescovo in funzione di giudice giudicante, a nome e
per conto del vescovo stesso, che rimane sempre naturaliter il vero inquisitore nella sua Chiesa locale, e il Fiscale
di Curia, che rappresenta il giudice dell’accusa (oggi si
direbbe il pubblico ministero). Il “procuratore della fede”
dovrebbe essere lo stesso Fiscale, così come il cosiddetto
“vice inquisitore” dovrebbe coincidere con il Vicario generale del vescovo. Nella Vallée l’autorità civile non voleva
interferenze giurisdizionali esterne, problema che assillava, in effetti, ogni Stato sovrano della Penisola nei confronti di un “corpo estraneo” come Il Santo tribunale
dell’Inquisizione papale romana, il quale pretendeva di
essere giurisdicente sui sudditi altrui, ma non in casa propria, bensì proprio in casa d’altri. Ogni Stato aveva cercato
un escamotage o un compromesso per evitare, sul suo territorio, lo strapotere del tribunale papale, sia pure ammantato di fini nobilissimi quali la salvaguardia della purezza della fede cattolica. Così, Venezia aveva istituito il
tribunale dei “Savi all’eresia” per affiancare e limitare gli
inquisitori papali. Nel ducato di Milano, dopo l’istituzione
dell’Inquisizione centrale romana (1542) da parte di papa
Paolo III Farnese, nessun
inquisitore romano poteva
condannare al rogo né far
praticare di sua iniziativa
la tortura sugli imputati se
non era d’accordo il vescovo diocesano o il suo corrispettivo tribunale di Curia.
La bolla Multorum quaerela, rieditata come onorevole compromesso tra Spagna e Vaticano, regolava
appunto i rapporti tra tribunale inquisitoriale del
vescovo diocesano e tribunale inquisitoriale dei domenicani (o dei francescani), che erano la longa manus nelle diocesi del ducato spagnolo (dal 1535) di Roma. La Spagna, senza importare o imporre la Suprema de Madrid (altra Inquisizione
autonoma da quella papale) in uno Stato satellite come
Milano, proteggeva il tribunale vescovile e lo affiancava
d’autorità a quello romano, per limitarne i poteri decisionali soprattutto di vita o di morte. Mi sembra piuttosto
che la situazione in Valle d’Aosta sia stata tale che i suoi
vescovi abbiano dovuto escogitare anch’essi un escamotage geniale per accontentare tutti e non scontentare nessuno. L’autorità civile, a tutti i livelli, non voleva, come s’è
detto, interferenze di altri tribunali (extraterritoriali o sovranazionali) oltre quelli consuetudinariamente ammessi
e presenti su tutte le sovranità giurisdizionali della Valle
d’Aosta. D’altro canto, il vescovo e le autorità ecclesiastiche locali erano sollecitate, anche se non palesemente o
formalmente, ad accettare l’autorità dell’Inquisizione papale in materia di eresia, di stregoneria o più generalmente di fede (in causis fidei). E allora cosa avevano inventato? Anche se l’adagio scolastico recitava non sunt multiplicanda entia sine necessitate, si era pensato di moltiplicare
o meglio di “sdoppiare” le figure degli attori che intervenivano nel tribunale dell’Inquisizione diocesana, in modo
da fingere giuridicamente che, accanto ai funzionari del
vescovo, ci fossero dei pretesi funzionari papali. In fondo,
si faceva finta, da un punto di vista giuridico, che i tribunali fossero due, come a Novara, ma che sentenze e torture
Silvia Bertolin, Gli organi giurisdizionali valdostani, in “La stregoneria nella Valle d’Aosta medievale”, a cura di S. Bertolin
ed E.E. Gerbore, Musumeci Editore, Quart 2003. Eadem, L’Inquisizione in Valle d’Aosta, in ibidem. Eadem, Competenza e
composizione del tribunale dell’Inquisizione, in ibidem. Eadem, I protagonisti, in ibidem. Eadem, Inquisizione e consuetudini
valdostane, in ibidem.
3
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A U G U S T A
fossero - per una formula di compromesso, la regola cioè
imposta dalla Multorum quaerela - emesse di comune accordo. Ecco allora che accanto al Fiscale di Curia (pubblico ministero del vescovo) ci sta un Procuratore della fede
(forse facente funzione di pubblico ministero papale), accanto al Vicario generale (giudice vescovile) si trova un
Viceinquisitore dell’heretica pravità, che si chiama vice
inquisitore proprio perché dovrebbe fare le veci dell’inquisitore papale dell’heretica pravità, il quale non può entrare in Valle d’Aosta o almeno comparirvi ufficialmente.
D’altronde, non sempre la figura del Viceinquisitore o del
Procuratore della fede è ricoperta da un religioso francescano ma, indifferentemente e il più delle volte, anche da
un sacerdote diocesano secolare. Anzi, proprio il processo alla strega di Issime del 1460-1461 è quasi un’indiretta
prova di quanto ho ipotizzato fin qui. Inquisitore e Vicario
generale sono riuniti in una stessa persona, che ricopre
formalmente due funzioni nel medesimo tempo: Balduynus Scutifferi è insieme Viceinquisitore per l’heretica
pravità e Vicario generale del vescovo. Procuratore della
fede ufficiale è Iohannes de Montibus, che è detto procurator fiscalis Curiae episcopalis Augustae, cioè Fiscale di
Curia, ed è un sacerdote-giurista secolare della diocesi.
Come vice-fiscale o vice-procuratore della fede, a un certo
punto, viene incaricato Petrus Midodi, parroco di Pontey,
un altro membro del clero secolare che dovrebbe essere
in cura d’anime. Come ben si può vedere, in questo processo, di cui subito ci occuperemo, questi “doppioni” si
rivelano talmente interscambiabili, quando non sovrapponibili, da rendere chiara una situazione fluida di mera finzione giuridica di alcune di queste cariche e figure presenti ed interagenti nel Santo tribunale. Quella che propongo qui è, per ora, una mera ipotesi, anche perché uno
studio scientifico capillare e a 360 gradi su tutta la casistica processuale documentata per la Valle d’Aosta non è
ancora stato condotto, e i pur validi studi della Bertolin4,
di recente, e del Lucat5, agli inizi del secolo scorso, i quali
hanno prodotto tesi di laurea sull’argomento dell’Inquisizione ecclesiastica nell’Aostano, non hanno, a mio parere,
sondato a sufficienza tutte le scappatoie e i compromessi
escogitati in Italia, e segnatamente al Nord, dalle legittime autorità civili per evitare o calmierare l’intromissione
del papa e della Curia romana all’interno dei propri Stati
sovrani.
La protagonista. Yona Ronco, moglie
di Antonio De Fey du Vallaise, di Issime
In questo saggio non prenderò in esame tutti e due i casi
di stregoneria tardomedioevale documentati per Issime,
ma solo uno di essi e cioè il processo a Yona Ronco del
1460-61, non invece quello precocissimo del 1420, il quale
terminò drammaticamente col rogo che bruciò viva l’issimese Anthonia Dollina. Il poco tempo a mia disposizione
e l’eventuale documentazione, ove si trovasse, tutta ancora da verificare relativamente a quest’ultima, mi hanno
indotto a trattare del solo processo della seconda metà
del XV secolo, riguardante la donna-strega del Vallone di
Bourinnes. In effetti, gli atti processuali di Yona Ronco
sono già stati trascritti e sondati all’inizio degli anni Ottanta dallo Zanolli6, così, per brevità ed economia di spazio, rimanderò alla sua precisa e competente lettura dei
medesimi. Qui rievocherò i fatti documentati, li inquadrerò nella loro fattispecie, cioè nella loro specifica tipologia
di stregoneria minore, ovvero di “operative witchcraft”, e
se mai ce ne sarà lo spazio e il tempo, ne darò una spiegazione o interpretazione socio-antropologica sulla scorta
di analoghi fenomeni verificatisi anche altrove e soprattutto in alcune valli dell’Ossola e del vicino cantone Vallese. Inutile ribadire che il fenomeno stregonico è un fenomeno tipicamente montano, almeno tra XV e XVII secolo,
e più si va salendo in alto sull’arco alpino e maggiormente
si trovano streghe e stregoni o, se si vuole, si ritrova un
immaginario collettivo e una convinzione generale dell’esistenza di questi. La cosa si riscontra poi particolarmente e prevalentemente in aree walser che sono, notoriamente, insediamenti d’altura! Ma voglio venire subito al
caso particolare di Issime, tralasciando concetti e considerazioni più generali che ho già espresso nel numero
precedente di questa stessa rivista e ai quali, quindi, rinvio il mio lettore. Di Yona (detta talora Yeannette o Jeannette in versione francofona) sappiamo solo quel poco
che emerge dal suo processo per stregoneria e da qualche altro documento dell’archivio della curia vescovile di
Aosta. Veniamo così a conoscere che era figlia di Pes de
Helchoz di Issime e che nel 1460 suo padre era già morto
da un pezzo. Da giovane si era sposata con Anthonius, figlio di Peter de Borinez, ma era rimasta presto vedova,
perché Antonio era morto d’incidente. Non molto dopo,
si era rimaritata con tale Hannebrin o Iohannes Brin o
Iniquin (nome difficile da decriptare nel testo notarile),
anche costui issimese figlio di un certo Consul, ma pure
il secondo aveva fatto la fine del primo marito, morendo
d’incidente. Già adulta, ma ancora piacente, aveva impalmato in terze nozze Anthonius de Faye o de Fay o de Fey
du Vallais, anche lui vedovo. Durante una delle frequenti
epidemie cosiddette di “peste” (ma poteva essere anche
tifo petecchiale o febbre quartana o altri tipi di influenze
letali) le era premorto anche il terzo ed ultimo marito,
Silvia Bertolin, L’Inquisizione in Valle d’Aosta tra XV e XVI secolo, tesi di laurea, Università degli studi di Milano, A.A. 20002001.
5
M. Lucat, Dell’Inquisizione in Valle d’Aosta, tesi di laurea, Università di Torino, Torino 1901.
6
Orfeo Zanolli, Deux procès de l’inquisition dans la seigneurie des Vallaise (XV et XVI siècles), in “Sources et documents d’histoire valdotaine”, tome III, Aosta 1983, pp. 163-273.
4
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A U G U S T A
che si chiamava Antonio come il primo. Yona aveva avuto
dei figli, ma non è facile capire né quanti, né da quale o
quali mariti. Di due di essi, maschi, conosciamo anche il
nome, un Johannes o Giovanni e un Vulliermetus o Guglielmotto, che si attivarono con tutti i mezzi nel 1461 per
poterla salvare dalla condanna al rogo. Aveva poi un’altra
figlia, che era andata sposa ad Anthonius Dovei. Di eventuali altri non possiamo conoscere nulla, almeno dalla
documentazione processuale. Sappiamo, dalla letteratura
in proposito, che la strega-tipo è in genere una donna sola
ed emarginata, quasi sempre vedova, talvolta zoppa, sgraziata o con difetti fisici, non sempre invece povera o brutta d’aspetto e non necessariamente vecchia e decrepita.
La nostra Yona aveva la sfortuna (e ne portava quasi il
marchio) di essere rimasta vedova per ben tre volte, il
che la circondava di forti sospetti e cioè di aver procurato
la morte dei mariti mediante venefìci o malefìci. La donna
issimese abitava nel villaggio di Burrini nel Vallone di
Bourinnes. A quei tempi, una vedova sola si sarebbe trovata di fronte a una vita grama e difficile, soprattutto se
avesse avuto a carico dei figli ancora piccoli. Per questo
le vedove si risposavano con facilità. Ma anche i maschi
– non condizionati da fisime virginali –, soprattutto se la
vedova era ancora giovane e fertile, la impalmavano volentieri, preferendola alle nubili perché era già abile ad
allevare i figli e a governare una casa. Purtroppo, però,
vigevano ancora usanze risalenti alla legge salica e ad altri posteriori istituti preoccupati di non disperdere il patrimonio di famiglia per cui, alla morte del padre, ereditavano il patrimonio i figli maschi e non le vedove o le sorelle. Se mai, per sua magnanimità o concessione benevola,
il marito poteva far scrivere nel testamento una clausola
che lasciava usufruttuaria dei beni la moglie vedova vita
natural durante, a patto sempre e comunque, però, che
non si risposasse e conducesse vita casta e ritirata. Non
era il caso di Yona, la quale, sposandosi nuovamente ad
ogni vedovanza, si privava automaticamente dell’usufrutto dei beni, i quali passavano in toto ai figli maschi di ciascuno dei suoi tre mariti. Se altre donne, nella sua situazione, erano costrette a chiedere l’elemosina o perché
non avevano figli o perché questi ultimi non le volevano
soccorrere, Yona, al contrario aveva di che vivere e si arrangiava in qualche maniera. Possedeva alcune capre e
animali da cortile e, se le mucche dei mariti erano passate in eredità ai figli, lei, comunque, tutte le estati faceva
dei “contratti di socida” con qualche proprietario di bestiame bovino di Issime, che le affidava tre o quattro vacche da badare su per i pascoli del Vallone di Bourinnes.
Yona le faceva, dunque, pascolare, le mungeva, ne ricavava dei formaggi e, a fine stagione le restituiva alla stalla
del proprietario. Naturalmente il ricavato estivo (latte,
formaggi, eventuali vitelli partoriti) veniva diviso a metà
tra il proprietario delle bestie e colei che gliele aveva governate all’Alpe. Così facendo, aveva di che mantenersi
più che dignitosamente. Inoltre la donna arrotondava i
proventi del pascolo e dell’orto con i donativi (uova, qualche pollo e qualche obolo) di chi si rivolgeva a lei per ot-
tenere guarigioni, per farsi curare con unguenti, erbe e
“segreti”. Anche questo, oltre alla triplice vedovanza, la
metteva in condizione di essere sospettata di usare sortilegi e, appunto, “secret” non solo per guarire ma anche
per indurre malanni, o nuocere a persone ed animali. In
effetti questi poteri, ritenuti allora, dalla gente comune ed
umile, “magici”, erano poteri ambivalenti, nel senso che
potevano sortire sia effetti positivi che negativi nei confronti di chi ne fosse risultato il destinatario. L’ambiente
sociale di Issime non era poi molto dissimile da quello
che ho potuto riscontrare in ambiti montani analoghi,
come nelle valli ossolane dell’Alto Novarese. La gente
non si voleva bene, non era quasi mai solidale, salvo qualche rara eccezione. Regnava ovunque l’invidia, quando
non addirittura la malevolenza e la cattiveria fine a se
stessa. Soprattutto gli immigrati – e per immigrati si intendevano anche solo quelli provenienti dal paese o dalla
vallata confinante – erano guardati con sospetto e malcelato astio, un po’ come gli extracomunitari odierni nella
cosiddetta società del benessere. Il paese era piccolo e la
gente mormorava, spettegolava, diceva cattiverie degli
altri, era invidiosa che le mucche del vicino facessero più
latte delle sue, che l’erba dei prati del confinante fosse
più verde e rigogliosa della sua, che le cose andassero
bene per gli altri. Il prete del paese, quasi sempre un curato mercenario, cioè a contratto temporaneo (pro tempore) con la comunità, non si curava del bene dei suoi parrocchiani o di insegnare i precetti evangelici e la solidarietà fra cristiani, ma era preoccupato quasi esclusivamente della sua prebenda fatta di formaggelle, di fascine
di legna e di una certa somma annua in denaro, sempre
pronto a lasciare un gregge meno redditizio per prenderne in cura uno più lanuto alla prima occasione propizia!
Per rendersi poi benvisti e graditi alle autorità ecclesiastiche della Curia, questi curati, più che pastori d’anime, si
trasformavano, talvolta, in cani da guardia dell’ordine e
dell’ortodossia cattolica, pronti a raccogliere e a trasmettere informazioni e delazioni a vescovi o inquisitori
dell’heretica pravità. In alcuni periodi, in paese, un parroco ufficiale, e non solo un curato-mercenario, giuridicamente c’era, ma veniva eletto normalmente fra i notabili
del paese o di qualche vallata vicina. Costui, il più delle
volte, non si faceva neppure ordinare prete, non diceva
messa, non amministrava i sacramenti, non seppelliva i
morti; portava solo la tonsura, che lo rendeva un membro
del clero e, quindi, atto a farsi imbeneficiare, a godere
cioè di benefìci ecclesiastici. Percepiva la lauta rendita
parrocchiale, ove e fintanto ci fosse da succhiare, e subdelegava poi o appaltava a un povero prete di umili natali,
ma regolarmente ordinato e in grado di dire messa, la
cura d’anime, concedendogli una piccola fetta dei suoi
grassi introiti. La gente, per quanto pia e devota, veniva
lasciata in una spaventosa ignoranza religiosa e nella superstizione. Superstizione che, il più delle volte, era condivisa dagli stessi curati mercenari meno istruiti o addirittura mestieranti semianalfabeti. La catechesi non esisteva e la predicazione si riduceva ad una ripetizione
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A U G U S T A
Vallone di Bourinnes, alpeggio di Pioanu. (Foto Musso)
pappagallesca di prediche preconfezionate su testi scritti
poi imparati a memoria. Solo una ristretta élite di clero
maggiore, che si concentrava attorno alla Cattedrale o
che era dislocata nelle principali chiese collegiate delle
castellanìe della Valle, conosceva, con cognizione di causa, il dogma, la morale cattolica e il diritto canonico. Ma
tutti costoro, salvo rare e lodevoli eccezioni, vivevano al
di sopra e al di fuori della portata dei comuni fedeli, essendo, oltretutto, quasi costantemente membri della nobiltà e dell’aristocrazia della Valle o di Paesi confinanti,
come la Tarantaise o i Cantoni svizzeri. Fra le due realtà,
elitaria e popolare, v’era un vero abisso, non solamente
economico, ma soprattutto culturale e di istruzione religiosa, anzi di concezione della religione cristiana medesima. Ancora cent’anni dopo, un confessore di streghe condannate ai roghi dai suoi confratelli, il gesuita Friedrich
von Spee (1591-1635), tuonava nella sua Cautio criminalis7, contro un clero corrotto e venale che lasciava nell’ignoranza e nei riti dell’antico paganesimo campagnolo le
masse contadine e montanare, salvo poi condannarle
come eretiche e stregonesche, estorcendo loro confessioni con l’uso della tortura! Questo gesuita, che anticipava di oltre due secoli le intuizioni di un illuminista come
Cesare Beccaria, aveva già capito dove stava il problema
della presunta setta stregonica, avendo ricevuto le ultime
confessioni di povere condannate al rogo innocenti ed
analfabete. Il suo libro fu messo al bando e lui stesso rischiò la vita. Non fu arso solo perché era un nobile di alto
lignaggio ed era protetto dal Generale dei Gesuiti, “il
papa nero”, come veniva chiamato allora il superiore della Congregazione fondata da Ignazio Loyola. Non proseguo oltre con la descrizione delle miserie umane di Issime, o delle miserie morali di un clero tutt’altro che evangelico, e torno a Yona Ronco e alla sua triste storia. Intanto, aggiungo qui che la gente del posto aveva cominciato
a spettegolare su Yona, sul fatto che praticasse l’arte della
fattucchiera con magìe e sortilegi vari, sulla prematura
morte sospetta dei suoi tre mariti. Qualcuno cominciò
anzi ad evitarla e a non rivolgerle più il saluto. A tutto ciò
doveva aver contribuito pure il parroco, il quale, dopo
Friedrich von Spee, Cautio criminalis, ora rieditato come Friedrich von Spee, I processi contro le streghe, a cura di Anna Foa
con traduzione dal latino di Mietta Timi, Salerno 2008.
7
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A U G U S T A
Capre nei pressi di Pirubecksch Balmu, la grotta della fata di Pirubeck.
Ancora oggi le capre sono definite sorelle del diavolo. (Foto Musso)
aver probabilmente ricevuto lettere e insinuazioni dalla
Curia perché raccogliesse indizi sulla parrocchiana, fu lui
stesso a indurre la gente a non parlare più con la sospetta
strega ed eretica. Era normale, a quei tempi, che gli scomunicati o gli scomunicandi fossero da evitare come la
peste e non gli si doveva più rivolgere alcun discorso, alla
faccia della carità cristiana!
L’inizio delle sventure di Yona
A Issime, dunque, c’era chi le voleva male. Chi invidiava il
suo relativo benessere, raro per una vedova. Ricordiamo
che altre vedove erano costrette a mendicare o a supplicare il genero e la figlia di soccorrerli e nutrirli. In un contesto simile, in Valle Antigorio, presso i confini con Pomatten e la Valle Formazza, accadeva di trovare bambini di
soli tre anni che vagavano affamati per il villaggio di Baceno in cerca di qualche pietosa donna che “gli prestasse
per un po’ la tetta” per non lasciarli morire di fame. Anche
lì, i due curati porzionari non spendevano, di domenica,
una parola in predica per esortare alla carità e alla solidarietà, ma tuonavano contro i riti del giovedì notte (il Sabba
o “Gioco delle streghe”) e mandavano dispacci in Curia
con le delazioni raccolte in confessionale circa il prolifera-
re di streghe e stregoni in paese, che si recavano nottetempo sul Cervandone o il Devero per compiere sconcezze con demoni e demoniesse! Anche la folta clientela che
frequentava Yona, provenendo perlopiù da altri paesi della Valle, per fruire delle sue conoscenze e dei suoi “secrets” atti a guarire, destava invidie e malevolenza nei vicini. Ma c’era, altresì, la paura che, coi poteri magici di cui
disponeva, la medicona e fattucchiera potesse danneggiare i suoi nemici o gli averi dei medesimi. Così Yona de
Fey, per chiamarla col cognome del suo ultimo marito, fu
denunciata il 7 settembre del 1460 da Guglielmotto, figlio
di Guglielmotto de Matit (Vulliermetus filius Vuillermeti
de Matit, alias de Allexina) al giudice della castellanìa di
Vallaise e Arnad. Questi, trattandosi di materia in causis
fidei, concernente reati di stregoneria e di maleficio, ovvero, in buona sostanza, di eresia per la giurisprudenza del
tempo, passò il testimone alla Curia del vescovo di Aosta.
Benché, durante i frequenti alterchi tra issimesi rivali, venisse spesso rivolta al nemico la minaccia di “parlarne col
curato”, che avrebbe poi informato il vescovo, in questo
particolare caso il parroco locale fu bypassato dai denuncianti! Arrivata la delazione di pratiche eretiche ovvero di
prihentationes svolte da Yona all’“Offizio della Curia” di
Aosta, della cosa si interessò non solo il Vicario generale
Baldovino Scuttiferi, giudice ecclesiastico preposto, ma il
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A U G U S T A
vescovo stesso Anthoine de Prés. Nessuno dei due prelati
della Chiesa aostana era originario della Valle. Il vescovo
De Prés proveniva dal cantone di Vaud e precisamente
dal paese di Lutry. Il Vicario generale, Baldovino Scuttiferi, era un prete belga, il quale aveva compiuto studi accademici sia in materie teologiche sia in materie giuridiche
e che, volendo fare carriera, era emigrato in Valle d’Aosta.
Qui era stato incardinato inizialmente come parroco di
Rhêmes- Notre Dame tra 1434 e 1437, ma non aveva mai
avuto il tempo di curarsi della parrocchia e neanche di risiedervi, dedicandosi invece con profitto e zelo a incarichi
curiali ad Aosta. Si distinse così bene come burocrate ecclesiastico che in breve venne nominato Arcidiacono della cattedrale di Aosta (1443), la seconda carica per dignità
subito dopo il vescovo diocesano. Al tempo del processo
(1460-1461) era stato nominato anche Vicario generale
del vescovo De Prés e cumulava cariche beneficiali come
quella di parroco di Valpelline, grassa prebenda che tenne dal 1443 al 1475 senza mai dedicarsi alla cura d’anime,
cura che appaltava – come da prassi largamente diffusa e
consolidata – ad altri preti suoi sostituti e vicari. I due giudici e alti prelati della diocesi di San Grato, il vescovo e il
suo vicario, si dedicarono dunque personalmente all’indagine istruttoria sulla presunta strega di Issime. Anzitutto
inviarono una serie di lettere ai parroci della Valle del Lys
perché raccogliessero informazioni e delazioni sull’imputata. Costoro, durante la predica o al momento dell’offertorio della messa domenicale, dovevano invitare, usando
le varie parlate locali (vulgari sermone) per farsi ben intendere, tutte le persone di ambo i sessi a riferire quel che
sapevano su Yona Ronco. I delatori venivano tenuti segreti e l’istruttoria, con l’escussione dei testimoni a carico
dell’imputata era pure essa segretissima. La sospettata
era ignara dei suoi accusatori, delle imputazioni che le venivano fatte, non poteva essere presente a questa fase preparatoria e neanche farsi rappresentare da un difensore.
Una volta compiuta l’istruttoria, l’ignara vittima era dichiarata “rea” o “eretica” e le pioveva addosso il pàlpero o
ingiunzione di presentarsi davanti al tribunale, entro e
non oltre una certa data, pena la scomunica, la confisca
dei beni o un’ammenda salatissima. La tegola arrivava
quasi sempre inaspettata e “il reo” era persino all’oscuro
delle imputazioni e delle accuse che gli sarebbero state
contestate. Molti tentavano di scappare, immaginandosi
ciò che li aspettava, ma la rete spionistica ecclesiastica,
diffusa capillarmente su tutto il territorio (un vero KGB
clericale, come ho dimostrato per la diocesi di Novara), li
rintracciava quasi costantemente e li faceva incarcerare.
La fuga veniva già ritenuta ulteriore “prova” di reità a carico del ricercato contumace. In sostanza, all’atto della
chiusura della fase istruttoria (inquisitio), il sospettato
veniva o (quasi mai) scagionato o (quasi sempre) ritenuto
colpevole. Se ritenuto colpevole, i giochi erano ormai fatti,
la condanna decisa, la reità provata. Occorreva solamente
interrogare il colpevole (tale a priori) perché dichiarasse
formalmente la sua colpevolezza o, nel caso questi si fosse
ostinato a negarla, occorreva allora torturarlo perché vo-
mitasse fuori più celermente “la verità” [… acriter torquenda (esse) ut melius et celeriter veritas ab ea eruatur…].
La “verità” era quella dell’inquisitore, al reo non ancora
confesso rimanevano solo due possibilità. O confessare
ciò che il giudice voleva sentirsi dire da lui e chiedere
misericordia, impegnandosi all’abiura e a penitenze o carcere perpetuo, o resistere alle sedute dei tormenti (detti
farisaicamente “rigorosi esami” e anche “quaestiones”) e
quindi non dover sottoscrivere, una volta estorta la confessione durante i “tratti di corda”, alla ulteriore confessione confirmatoria richiesta dopo ogni seduta di tormenti o “rigoroso esame” appunto. Abbiamo una abbondante
casistica di suicidi avvenuti nelle carceri vescovili o inquisitoriali per il terrore della reiterazione dei “rigorosi esami”. Durante gli interrogatori dei rei, venivano proposti
spesso dei “confronti all’americana” con testimoni di accusa convocati per la bisogna. Non sto a fare la descrizione esemplificativa di come uno scafato inquisitore sapesse abilmente far cadere in contraddizione gli inquisiti, in
genere povere donne o uomini analfabeti e sprovveduti.
La presunta strega issimese fu mandata spesso in confusione e indotta in ammissioni fra loro contraddittorie da
due volponi come Baldovino Scutifferi, Vicario e giudice,
e da quell’altro ecclesiastico, Giovanni de Montibus, che
fungeva da Fiscale di Curia e da Procuratore della fede
insieme. Un supplemento di istruttoria più dettagliata su
Yona era stato fatto anche da don Pietro Midodi, parroco
di Pontey, che era stato incaricato come commissario dai
medesimi giudici (vescovo e vicario) di interrogare, paese per paese e casa per casa, i testimoni informati e la
stessa imputata. Le delazioni raccolte dal prete valdostano erano poi, in effetti, servite per “incastrare” la poveretta, completamente ignara di quanto era stato riferito da
altri sul suo conto. La testimonianza di parenti o amici a
discolpa dell’accusata – fatta oltretutto a loro rischio e pericolo – non era quasi mai ammessa. O meglio non era
ammessa se a discolpa, se invece era a conferma della
colpevolezza della parente, allora aveva particolare rilevanza. Un nipote della Yona per parte del secondo marito,
certo Pietro de Consol, la mise nei pasticci riferendo una
frase della zia che poteva prestarsi come un augurio o un
desiderio di morte per il di lei consorte, che infatti era poi
venuto a mancare di lì a non molto. Anche dopo la sua
deposizione come testimone, a Francesco Jugler fu domandato se mai avesse avuto con l’accusata dei legami di
parentela! La cosa, per i giudici, rivestiva notevole importanza, così come era per loro importante sapere se la madre della strega fosse stata pure lei reputata strega in paese o fosse eventualmente morta sul rogo.
Le prime battute del processo
Il processo a carico di Yona ebbe inizio sullo scorcio finale del 1460 e le accuse furono di sortilegio, di maleficio,
di magìa demoniaca (prihentationes, nei documenti). Per
usare una classificazione cara a quella grande studiosa di
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stregoneria europea che fu l’inglese Margareth Murray8,
sono le classiche accuse di essere strega malèfica, che lei
definisce “operative witchcraft”, la strega che opera il male
a danno dei buoni cristiani, ma non ancora la strega che
vola sulla scopa e si reca nottetempo ai Sabba su certe particolari montagne, definita quest’ultima “ritual witchcraft”,
nel senso che partecipa a un rito demoniaco. Alcuni distinguono fra stregoneria minore (operative witchcraft
o malèfica) e stregoneria maggiore (ritual witchcraft o
strega volante). Gli inquisitori, nei loro demenziali trattati demonologici, avevano fatto di ogni erba un fascio e
omologavano ambedue le forme sotto il minimo comun
denominatore dell’apostata, che aveva rinnegato Dio e la
fede, e dell’eretica, che infettava il gregge cristiano e che
compiva un delitto di “lesa maestà” (divina), per cui era
destinata, ipso facto, al rogo. Ma non trascurarono, inizialmente, di accusare, in qualche modo, Yona anche di essere una strega volante su scopa. In effetti, l’insinuazione
malvagia era arrivata dalla deposizione di due testimoni a
cui Yona aveva, oltretutto, fatto del bene, improvvisandosi
“baby-sitter” per badare ai loro figli ancor piccini quando
i due erano costretti ad assentarsi per tutta la giornata.
Pietro Jugler e sua moglie dovevano salire spesso nei boschi a raccogliere castagne, lavoro che li impegnava tutto
il dì, per cui rientravano dal lavoro la sera sul tardi. Non
potendo badare ai bambini, li affidavano a Yona che, di
buon grado, li custodiva. Essa era sempre disponibile, salvo la sera del giovedì…, allorquando adduceva impegni e,
quindi, si raccomandava ai genitori di venire a riprendersi
i fanciulli per tempo. Ora, si sa, il “giovedì notte, a mezzanotte” era il tempo deputato al Sabba. La precisazione dei
due coniugi Jugler dava, dunque, esca a sospetti infamanti
nei confronti della Ronco! D’altronde, se fosse emerso un
crimine come il Sabba, l’imputata sarebbe stata esortata
con qualsiasi mezzo (in primis la tortura) a confessare i
nomi dei complici partecipanti allo sconcio e blasfemo rito
demoniaco. In tal modo, sarebbero state coinvolte altre
persone, come, in non poche occasioni, paesi interi (vedi
Triora sull’Appennino ligure o Baceno e Pomatten sulle
Alpi ossolane). La “catena di sant’Antonio” delle confessioni e dei coinvolgimenti reciproci non si sarebbe più
arrestata, con tragedie immani e roghi a decine. Volevano
forse gli Jugler innescare a Issime una tale calamità collettiva? E a quale fine? Per fortuna Yona riuscì a spegnere
questa miccia vagante. Richiesta se fosse stata ai Sabba,
Yona prontamente replicò agli inquisitori che “non so che
sia synagoga e che mai ho frequentato alcuna riunione
malvagia”. In altro interrogatorio negò, ancora una volta,
un suo coinvolgimento in riti sabbatici. Disse “che non era
mai andata alla sinagoga, anche se era stata accusata da
una certa Beatrisia, già bruciata”. Per la donna del vallone
di Bourinnes, il Sabba non è detto “synagoga”, come per
l’inquisitore Ponce Frougeronis, solerte persecutore e inceneritore di Ebrei della valle d’Aosta, e neppure “il Gioco”
8
(del diavolo), come veniva definito più poeticamente il rito
del giovedì notte in Val Formazza, ma era la “remassa”,
cioè la ramazza o tipica scopa delle streghe e della befana!
Per fortuna, i giudici soprassedettero e non applicarono,
a questo punto, la tortura, il che evitò guai imprevedibili
e imponderabili a tutta la comunità. Ciononostante, dopo
questa preliminare seduta d’interrogatori per individuare
una possibile partecipazione di Yona alle synagoghe, il notaio che stendeva i verbali, riportò in calce ai documenti
una lista nera di persone che, in base alle domande poste
ai testi e alla stessa imputata, risultavano sospette. La povera donna, accusata a sua insaputa da molti compaesani
issimesi, cercò, invece, fin dove poté, di non coinvolgere
altre persone, neppure quelle a lei più palesemente avverse. Come già ho ricordato, i testimoni d’accusa venivano
solitamente tenuti nascosti all’inquisita ma, nel corso delle sedute del 1461, tale regola non fu rispettata. Al termine
degli interrogatori, Yona fu messa a conoscenza dei nomi
delle persone che avevano testimoniato contro di lei. Il
giudice le chiese se, a parer suo, l’avessero fatto secondo
verità o se l’avessero fatto per vendetta. Ma lei parlò bene
di tutti i suoi delatori ed accusatori…! Una vera lezione
evangelica della serie “porgi l’altra guancia!” o di “ama i
tuoi nemici!”, casistica che ho avuto modo di riscontrare
anche a proposito di altre donne, accusate di essere streghe, e processate in Valle Antigorio, in quel dell’Ossola.
Lezioni che preti e frati del Santo tribunale non raccoglievano e che fingevano, il più delle volte, di non aver sentito.
Il processo e le accuse
Yona, ad ogni fase o seduta processuale, veniva tratta dal
carcere, dov’era custodita da un barigello o carceriere, e
condotta da due (s)birri [a Novara chiamati anche satelliti o collaterali del vescovo] che la introducevano nella
sala delle udienze, la quale, per la Curia episcopale aostana, era la sala de Bagnes, dietro la loggia del palazzo
vescovile. Qui, dopo averla fatta giurare toccando i Vangeli aperti, iniziavano i lavori del Santo tribunale, con l’assistenza talvolta (soprattutto se era previsto di “subijcere
quaestionibus” l’imputata) di probi consiglieri, di castellani, di nobiluomini del territorio in qualità di testimoni
qualificati e di consulenti. Non potendo dilungarci più di
tanto, riassumeremo, sommariamente, i principali capi
d’accusa contestati alla donna.
Yona avrebbe praticato atti magico-religiosi, cui si attribuivano virtù guaritrici, ma che potevano, e converso, far del
male al prossimo, con l’aiuto del demonio. Questo misto
di formule magiche (“secrets”), di erbe, di preghiere recitate in numero predefinito e, talvolta, persino di ingredienti sacri (la casistica novarese, per esempio, ricorda
acqua benedetta, rami d’ulivo benedetti, oli santi, ostie
consacrate sputate ed esportate dalla chiesa, ceri d’alta-
M. Murray, Le streghe nell’Europa occidentale, Roma 1978. Eadem, Il dio delle streghe, Roma 1972.
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re, ecc.) sarebbe stato fatto per provocare incantamenti,
sortilegi, malefìci a danno d’altri (naturalmente con l’aiuto del diavolo!). Credo che il termine locale di prihentationes voglia significare e comprendere tutto questo.
Yona avrebbe, ancora, fatto ricorso alle “male arti” di Anthonia Dollina di Perloz, sua maestra (arsa sul rogo nel
1420) e sua consulente in incantesimi e fatture, per far
morire uno dei suoi tre mariti.
Yona avrebbe fatto morire, con una micidiale fattura o
maledizione, anche la consuocera, perché questa maltrattava e faceva piangere una sua figlia, che aveva sposato
Antonio (Dovei).
Yona aveva maleficato persino le mucche di Guglielmotto
di Issime, che gliele aveva concesse in socida, facendo
loro perdere il latte e, in seguito, facendogliele anche morire.
In un altro processo a carico di una strega di origini valsesiane, tale Beatricia de Vallesicida, Yona era stata poi
incolpata di essere una complice e una fiancheggiatrice
della medesima dalla testimonianza di due donne, Beatrisia del fu Johanne de Bonino, moglie di Riccardo de
Junoto di Perloz, e Anthonia de Junoto.
Il sospetto che anche gli altri due mariti fossero morti
per una qualche fattura o malefìcio, perpetrato a loro danno, dalla moglie-strega completava una serie di accuse
minori che pendevano comunque sempre sulla testa di
Yona. Le confessioni le furono estorte coi classici metodi,
più che convincenti a sciogliere qualsiasi lingua reticente, in uso presso i tribunali ecclesiastici, a partire dalla
bolla Ad extirpanda emanata da papa Innocenzo IV nel
1252, che – dopo un’ininterrotta tradizione di quasi un
millennio di richiami puramente spirituali verso gli erranti e i dissidenti con scomuniche e interdetti, o ancora con
pene canoniche a base di preghiere, digiuni e penitenze
- introdusse la tortura e l’affidamento al braccio secolare
per l’estremo supplizio. Iniziò così uno dei periodi più bui,
impresentabili, ingiustificabili e sconcertanti della storia
della Chiesa, che ebbe termine non per volere di papi o
per una riforma sorta dall’interno dell’istituzione cattolica, ma per eventi traumatici esterni come la Rivoluzione
francese o l’avvento provvidenziale di Napoleone. Così
come il potere temporale cessò non per un’autoriflessione e una decisione autonoma e meditata delle Autorità ecclesiastiche, poste ai vertici della Chiesa cattolica, ma per
il trauma della breccia di Porta Pia, che scatenò, come
reazione e ritorsione, la proclamazione quasi subitanea
dell’infallibilità pontificia. La Chiesa cattolica, sorda ai
richiami dello Spirito, non si autoriforma mai, è sempre
costretta a riformarsi per motivazioni esterne al suo volere, per eventi traumatici imprevedibili e ingovernabili
dai suoi vertici di potere. Uomini di virtù evangelica, cito
per tutti Pietro Valdo, un san Francesco vissuto, par hasard, sotto un papa sbagliato (sarebbe potuta capitare a
Francesco la stessa sorte… se, al contrario, non fosse invece capitato sotto il papa giusto), furono messi al bando
e condannati, quando addirittura non finirono sul rogo.
Tornando alla nostra Yona, va detto che la donna doveva rispondere ad ogni interrogatorio, secondo “verità”
– quella dell’inquisitore naturalmente – sotto pena di 50
ducati d’oro! Ma non bastando neppure questo deterrente per farle dire quello che non aveva fatto e che invece
i giudici volevano sentirsi raccontare, fu sottoposta ben
due volte ai “tormenti” della suspensio ad cordam! La sala
del curlo o “de’ tormenti” nella Curia di Aosta era situata
sopra la sala de Bagnes in vescovado. Le regole canoniche clementine prevedevano per la tortura un massimo
di un quarto d’ora, e questa era reiterabile non più di tre
volte. Ma i giudici ecclesiastici, oramai, l’applicavano ad
libitum, fino alla piena e completa confessione della “verità”. Yona durante un interrogatorio fattole dallo Scutifferi
fu sottoposta “alle questioni” (subiecta quaestionibus) e le
furono applicati tre tratti di corda e tre “cavallate”. La tortura consisteva nel sollevare la malcapitata, con le braccia
legate ai polsi “in seconda” ovvero dietro la schiena, mediante fune issata a una carrucola. Quand’era sospesa in
alto la si lasciava cadere di botto ma, prima che potesse
toccar terra, si ritendeva di colpo la fune, in modo da farle
avere un tremendo strattone, detto “squasso”. Con questo trattamento le braccia si disarticolavano completamente e si rovesciavano all’indietro. Il boia, incaricato di
somministrare gli strattoni o squassi, era richiesto di avere, in più, il requisito di “giustaossa, perché, alla fine del
sadico trattamento, aveva anche la non facile incombenza
di rimettere in quadro (reaptare) spalle e braccia delle
malcapitate ricollocandole nella loro naturale posizione
originaria, con ovvii reiterati lancinanti dolori e urla. A
Novara, alcune donne morirono durante i tratti di corda.
Una giovane strega abortì mentre stava sospesa, mentre
una ultraottantenne , lasciata appesa per più di un’ora alla
fune, “sembrò come dormisse” e fu calata ancor viva! I
giudici, durante le sedute del “rigoroso esame” computavano il tempo con la recita di Pater, Ave e Miserere, o con
salmi direttamente proporzionali al tempo ritenuto necessario per far sputare una confessione completa. Yona fu
sottoposta una seconda volta ai tormenti della fune, ma
l’inquisitore precisò (e il notaio verbalizzò) “senza spargimento di sangue e senza mutilarne gli arti!”.
L’arte di guaritrice e i “Secret” di Yona
Mi sono, a suo tempo, occupato di quel mondo variegato
di guaritori e guaritrici, sfatturatori di malefìci stregoneschi, indovini e fornitori di rimedi contro l’impotenza, che
caratterizzava, ancora a fine Cinquecento e a inizio Seicento, la diocesi di Novara9. Molti di costoro erano persi-
Battista Beccaria, L’inquisizione vescovile contro maghi, guaritori, mediconi, sfatturatori di malefìci stregoneschi tra Ossola e
Lago Maggiore alla fine del XVI secolo, in “Novarien.” 38 (2009).
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Particolare dell’affresco sulla facciata della chiesa di Issime, inferno. Francesco Biondi 1698. (Foto S. Ronco)
no frati e preti e qualcuno di essi fu inquisito dai vescovi
della Chiesa gaudenziana in veste di prete-stregone, come
accadde per il reverendo Maffiolo di Mergozzo! Le ricette
e il contesto operativo di Yona, precedenti di centocinquant’anni i fenomeni da me indagati - segnatamente per
il Lago Maggiore -, sono illuminanti di un mondo magico
che risaliva alla notte dei tempi e che perdurava ancora in
Età controriformistica in barba al razionalismo e al tentativo di modernizzazione che pervadeva la Chiesa del dopo-Concilio di Trento. Il paganesimo - nel senso più etimologico del termine, di religione cioè del pagus, ovvero
della periferia, del contado e della montagna, contrapposta a quella della città (urbs, da cui urbanesimo) - dato per
morto almeno dalla fine dell’Alto Medioevo, risulta invece
più vivo che mai anche per tutto il Basso Medioevo, anzi,
nelle sue frange più marginali e periferiche, giunge sino
alle soglie dell’Era industriale. Yona ne è un illuminante
esempio per gli ultimi decenni del Medioevo. La povera
Yona che, in fondo, non faceva nulla di più che maneggiare un misto di magico e sacro insieme, non molto distante
da questa nostra contemporanea religiosità popolare, si
trovò invece a fare i conti con degli ecclesiastici-talebani,
che volevano salvaguardare ad ogni costo e con ogni mezzo la purezza cristallina della fede cattolica. E fu una resa
dei conti tragica. Ma quali erano le “specialità” di Yona
come guaritrice di malanni? Essa sapeva guarire soprattutto il male “dou salace”, cioè una forma di artrosi alle
ginocchia, e poi conosceva il “secret de oculo”, sapeva
cioè guarire le malattie degli occhi. Ma a lei si rivolgevano
anche per qualsiasi altra malattia, soprattutto i foresti dei
paesi vicini. Per la terapia c’erano delle regole da seguire.
Dominicus de Venereya aveva una sorella inferma che
non poteva muoversi per raggiungere la guaritrice. Allora
Yona de Fey si fece portare da Domenico i vestiti e ciocche di capelli dell’ammalata per fare “un incantesimo di
guarigione”. Pregò, fece dei segni sugli indumenti e i capelli, e, dopo poco, l’inferma migliorò; infine, guarì completamente. Per certe malattie, al contrario, era necessaria la presenza fisica del paziente e non bastava un suo
indumento o una cintura recata da altri. Così, Yona era
intervenuta di persona per sanare il figlio di Peter Jugler
(Petrus Jugler), che aveva una escrescenza dietro il collo,
usando la croce effigiata su una moneta d’argento. La fattucchiera non solo sapeva guarire gli uomini ma anche gli
animali. Circa trent’anni prima del processo (verso il
1430) venne, infatti, chiamata per guarire la scrofa di
Franz Jugler (Franciscus Jugler). In quell’occasione chiese l’aiuto della sorella di Franz. Le due donne si posero ai
lati dell’animale e gli appoggiarono sulla schiena una veste, che subito si misero a tirare entrambe da parti opposte. E, mentre Yona diceva: “Cesta troya est souflanja”,
l’altra le rispondeva: “Non est, mais il est chaih”. Per guarire invece il padrone della scrofa, e cioè Franz Jugler,
Yona si fece portare in un vaso l’acqua di tre fontane e
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nove pietruzze bianche. Poi, tenendogli la testa china sopra il vaso, fece cadere a una a una le pietre nel vaso. E
cominciò in töitschu (theotonico sermone) a recitare formule, pregando le piaghe di N.S.G.C. e il latte di Maria, ed
invocando il sole, la luna, le acque e le fonti! Che usasse,
nei suoi secrets per sanare, formule germanofone è riferito anche da Beatrisia, moglie di Antonio Dovei: “Allora
Yona mi prese per mano, dicendo certe parole in dialetto
germanico (alemano sermone) e pronunciando insieme a
quelle anche il mio nome” . Le formule magiche in dialetto germanofono, incomprensibili a molti suoi pazienti, inquietavano più di un cliente. In effetti, Franciscus Jugler
voleva che Yona lo guarisse parlando “in una lingua a lui
conosciuta”. Non si fidava, e pretendeva di capire il senso
della formula, proprio perché la fattucchiera era sempre
ritenuta ambivalente, poteva guarire ma poteva anche
“fatturare”, buttando addosso malocchi. Che potesse soprattutto nuocere ai compaesani, massime se vicini di
casa, lo dimostra l’episodio delle code di vacca. Vulliermetus (o Vuillermetus) di Issime aveva dato in socida a Yona
l’uso temporaneo di tre mucche. Quando il contratto venne a scadere, Yona restituì le tre vacche al proprietario.
Ma Vuillermetus, ispezionando le tre bestie per vedere se
erano ancora in buono stato, si accorse che agli animali
erano stati tagliati i ciuffi di pelo in fondo alle code. Dopo
un po’ di tempo le bestie si erano ammalate e subito Vuillermetus aveva imputato ciò al taglio dei peli operato da
Yona. Le mucche non davano più latte. Lui accusò la donna di avergli maleficiato gli animali, ma lei scosse le spalle
rispondendo: “I peli delle code non hanno nessun valore”.
L’uomo allora la minacciò di andare a spifferare tutto al
prete di Issime, il quale avrebbe poi riferito al vescovo, a
meno che la Yona fosse disposta a fare una controfattura
per guarire le bestie e rimediare al danno. In effetti, dopo
poco tempo, le mucche si rimisero a dar latte. Ma, perché
non ci fossero equivoci o ulteriori dubbi, ad ogni buon
conto, Yona si recò dalla moglie di Vuillermetus per restituirle i peli delle code delle tre vacche. Trascorsi appena
due mesi, ahimè, le tre mucche morirono. E Vuillermetus, con ogni probabilità, andò di corsa a riferire al curato
del paese che Yona le aveva fatto crepare le bestie, naturalmente a insaputa di quest’ultima. Quando, sotto minaccia - come al solito - di tortura fu chiesto a Yona, in tribunale, di rendere conto del misfatto perpetrato sulle mucche e a danno di Vuillermetus, la donna rispose semplicemente che, avendo bisogno di fabbricarsi uno scopino di
setole per lavare all’interno certi suoi vasi, aveva trovato
comodo servirsi delle setole ritagliate dalle code. Tutto
qui. Ma nessuno, ovviamente, le credette. Interessante
soprattutto l’invocazione al sole, alla luna, alle acque e alle
fonti, che spesso Yona recitava insieme a preghiere cri-
stiane nelle sue formule di guarigione. In altro mio lavoro
ho voluto dimostrare come fette consistenti di paganesimo continuassero a convivere pacificamente con un cristianesimo di superficie e mal compreso fino alla piena
Età moderna10. In una Sinodo del 1590 celebrata a Novara
dal vescovo Cesare Speciano (1585-1590) e pubblicata a
stampa l’anno seguente, il presule stilava un elenco di superstitiones vitandae et damnandae dall’inquisitore domenicano-papale di Novara, frate Domenico Buelli (un personaggio poi ben narrato e magnificamente dipinto da
Sebastiano Vassalli nel suo romanzo La Chimera). Ebbene fra i numerosi exempla riportati dal vescovo gaudenziano vi è un item che tratta di “coloro che si inginocchiano
dinnanzi alla luna e la pregano affinché la volpe non entri
nei loro pollai!”11. Tale rito pagano è già attestato in una
omelia del primo vescovo di Torino, San Massimo, agli
inizi del V secolo e viene ricordato, come ancora perdurante e diffuso ai suoi tempi, dal vescovo Attone di Vercelli nel IX secolo. Non posso dilungarmi di più nella casistica dei presunti malefìci attribuiti dai suoi compaesani a
Yona, pertanto riferisco solo qualche “magìa” curiosa che
la donna diceva di saper compiere. Perché, filando la lana,
il filo non abbia a ingarbugliarsi bisogna guardare una farfalla in volo e recitare: “Come questa farfalla vola, così il
mio filo si raddrizzi e si sciolga!”. Per far riuscire bene e in
abbondanza il burro nella zangola, Yona usava legare
tutt’attorno alla medesima uno spago. Quindi tracciava
una croce sull’attrezzo dicendo: “In nomine Patris et Filii
et Spiritus Sancti”. E riusciva poi a raddoppiare la quantità
di burro recitando questa formula: “Ensy soye tu ben
ceint, busch, comme nostre Seigneur Jesus Christ fut
ceint de la Vierge Maria”. Ma queste “formule eretiche e
diaboliche”, per giunta mescolate a preghiere ortodosse
e ufficiali, rendevano, per gli inquisitori, la donna una pericolosa emissaria del demonio, il quale gliele suggeriva
al fine di nuocere ai buoni cristiani. Sappiamo, invece, da
chi Yona aveva appreso questa ingenua sapienzialità e a
chi l’aveva già potuta trasmettere. Yona aveva imparato il
“salace”, o arte di guarire le artrosi alle ginocchia, da una
delle sue cognate, sorella del suo primo marito. Il “de oculo” dalla figliola della medesima cognata. Il trucco per
non lasciar ingarbugliare il filo di lana da una sorella di
quest’ultima. Dal che si arguisce che la famiglia intera cui
apparteneva la sorella del suo primo marito era in possesso di numerosi “secrets”, che si trasmettevano - e insieme
venivano praticati - di madre in figlia, sotto forma di medicina e di magìa popolare. Altri sortilegi li aveva, invece,
imparati da un medicone, Anthonius de Piatas. Yona, a
sua volta, aveva istruito Beatricia, moglie di Riccardo Junoti di Perloz, poi arrestata a San Sebastiano Monferrato
e incarcerata come fattucchiera. Aveva anche conosciuto
Battista Beccaria, Credenze, superstizioni, ritualità nelle valli della Diocesi di Novara fino al XVI e XVII secolo. Dalla persistenza del paganesimo nell’Alto Medioevo alle superstizioni come relitti dello stesso nel Basso Medioevo e nell’Epoca Moderna, in
Atti del Convegno “Donne di montagna. Donne in montagna”, Varallo Sesia, Centro Congressi Palazzo d’Adda (19-20 ottobre
2002), Borgosesia 2004, pp. 93-140.
11
Speciano, Synodus dioecesana novariensis MDXC habita, etc., Sesalli, Novara 1591.
10
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degli esperti “sfatturatori”, che sapevano guarire e liberare dalle fatture stregonesche: un eremita che viveva accanto a un convento di francescani e una coppia formata
da un chierico esorcista e da un medico, i quali lavoravano insieme! Quella degli sfatturatori, soprattutto se ecclesiastici, è una pista che non è stata ancora sufficientemente esumata dagli archivi vescovili o inquisitoriali, e ancor
meno studiata dagli storici della Chiesa. Nel mio recente
studio sopra citato12 sull’argomento, il quale riguarda soprattutto le zone attorno al lago Maggiore, ho trovato anche qualche notaio che praticava l’arte di sfatturatore,
tanto per arrotondare lo stipendio. Naturalmente, dopo il
Concilio di Trento e lungo i decenni del primo periodo
controriformistico, tutti costoro furono presi di mira da
inquisitori dell’heretica pravità e da tribunali vescovili: se
infatti la causa efficiens del maleficio è dovuta al demonio,
di cui la strega è solo strumento o intermediario, e converso anche chi libera dal maleficio deve servirsi del demonio come causa sufficiente ma soprattutto necessaria a
tanta impresa soprannaturale.
La fine della strega
I figli di Yona, in un estremo tentativo di salvare la madre
dalle fiamme, chiesero agli inquisitori di poter affiancare all’inquisita un avvocato difensore. Ma la domanda fu
seccamente respinta. D’altronde era pure difficile trovare
un avvocato-suicida che rischiasse tanto. Chi difendeva
un’eretica doveva essere ritenuto anch’esso un eretico e
puzzava già di zolfo. Allora chiesero se fosse possibile ricorrere ad una purgatio canonica. Che consisteva, oltre
che in una complicata cerimonia di giuramenti di innocenza per l’imputata, nel far sfilare dei testimoni che scagionassero la presunta colpevole. I giudici si dissero possibilisti, ma pretesero che, per purgare Yona, dovessero
presentarsi almeno sette compurgatores o scagionatori.
Naturalmente maschi. In effetti il vice inquisitore inviò
delle lettere circolari ai parroci di Issime, Arnad, Perloz e Valle del Lys perché annunciassero in chiesa che
era possibile, per chi volesse, presentarsi a testimoniare
a favore della strega. Questi dovevano essere i requisiti richiesti ai sette “aspiranti suicidi”: oltre che risultare
di sesso maschile, dovevano avere buona fama e reputazione nei rispettivi paesi, dovevano essere pienamente
informati dei fatti riguardanti Yona, dovevano averla frequentata e avere parlato con lei precedentemente all’inquisitio compiuta nei suoi confronti. La purgatio canonica
era, comunque, una specie di roulette russa. Se la “rea”
o i suoi parenti non fossero riusciti a trovare il numero
minimo richiesto di compurgatores (nel caso di Yona almeno sette) entro l’anno, la condanna al rogo in qualità
di eretica era garantita, e il processo finiva lì. Visto, però,
che di testimoni autolesionisti e votati al suicidio (presentarsi a testimoniare a favore voleva dire dichiararsi cor12
reo e fiancheggiatore dell’inquisita o eretica) non se ne
vedevano all’orizzonte fin dall’inizio, fu concesso, in sostituzione, ai figli di presentare essi stessi un memoriale
scritto di difesa per la congiunta. Johannes e Vuillermetus, non avendo l’istruzione necessaria a stilare un tale
memoriale, si rivolsero a un giurista esperto, Johannes
de Reconisio, il quale preparò la “cedola” (così si chiamava il memoriale di difesa). Non posso snocciolare qui,
per brevità, i sei punti preparati dal dottore in utroque,
ma la lettura di quel testo mi sembra smontasse bene e
con rigore, ad una ad una, le accuse di “eresia formale”
contestate all’imputata. I giudici, naturalmente, non ne
tennero nessun conto. Per loro Yona era già colpevole in
partenza, da quando cioè il vescovo e il suo vicario avevano appurato - con inconfutabili prove (le delazioni dei
malevoli e i “si dice”) raccolte nella fase istruttoria del
procedimento accusatorio - la “verità”. Quella era e quella
doveva rimanere: la Chiesa e i suoi tribunali non possono
sbagliare mai, perché sono dalla parte di Dio, a difesa
della Fede e della Verità. Il rogo dunque era già assicurato. Ma forse il Cielo non era esattamente d’accordo coi
giudici e gli rovinò la festa sul più bello. Yona, già affetta
da febbri e da tremori (Parkinson? Epilessia? Turbe nervose dovute ai terribili stress subìti? Stati di trance per
sfuggire al dolore provocatole dalle tremende torture?),
morì in carcere prima che il processo fosse del tutto formalmente concluso. I testimoni e i compagni di cella, che
poterono vederla negli ultimi sventurati giorni della sua
vita, riferirono che “veniva ritrovata quasi fosse morta,
come se soffrisse di mal caduco”. Sembrerebbe perdesse
coscienza per lunghi periodi. Risulta, da alcuni processi
novaresi da me esaminati, come non fosse infrequente
per queste donne, chiamate streghe, il procurarsi da sole
degli stati volontari di trance che le alleviavano da atroci
dolori. Così una vecchietta ossolana di più di ottant’anni
rimase appesa alla corda per più di un’ora nella sala de’
tormenti, senza lamenti e rimanendo quasi assopita. Stufi
di aspettare, i giudici la fecero calare e riporre in carcere, viva e vegeta come quando ne era uscita per essere
sottoposta al “rigoroso esame”. La tremenda macchina
del processo inquisitorio contro l’eresia non si arrestava
però neppure di fronte alla morte dell’eretico. Poiché il
procedimento non era formalmente terminato, e l’accusata era morta inconfessa e senza alcun segno evidente e
manifesto di pentimento, il processo fu portato a termine,
alla presenza dei due figli dell’eretica defunta, essendo
il suo cadavere contumace. E arrivò, tempestiva quanto
la morte stessa, la pena inesorabile del rogo. Fu innalzata la catasta di legna e il cadavere di Yona di Issime, del
Vallone di Bourinnes – strega, apostata, eretica e (non
poteva di certo confessarsi post obitum o sottoporsi ad
un’abiura in piena regola) persino “pertinace” – fu divorato dalle fiamme, a utile e salutare monito degli issimesi
e per salvaguardare le loro anime dal fuoco più tremendo
dell’Inferno.
Vedasi nota 9 poco sopra.
— 50 —
A U G U S T A
La cappella di Chincheré
Jolanda Stévenin
N
el corso dei secoli, ed in particolare dopo
la peste del 1630, i nostri antenati hanno
edificato numerose cappelle di villaggio.
Questi edifici sacri sono la testimonianza
di una fede secolare che ha contraddistinto tutte le nostre comunità alpine.
Anche ad Issime le cappelle hanno segnato, da sempre, la
vita religiosa e etnica della sua gente.
E, ancora ai nostri giorni, esse rappresentano un preciso
luogo di riferimento in cui i fedeli amano ritrovarsi con
gioia per impetrare dal cielo grazie e protezione.
Tra le cappelle issimesi merita un’attenzione particolare
quella di Chincheré che si eleva su di un’altura all’ingresso del villaggio omonimo. Essa è dedicata a Notre-Damedes-Grâces e alla Présentation-de-Notre-Dame. Il suo patrono si celebra il 21 novembre.
La liturgia della chiesa dedica appunto il 21 novembre
alla Presentazione di Maria al Tempio, secondo un’antica
tradizione che risale al VI secolo. L’episodio della Presentazione di Maria al Tempio, come gli altri della nascita e
fanciullezza di Maria, non si trova nei vangeli canonici.
Esso è narrato dal più poetico fra i testi apocrifi, il cosiddetto Protoevangelo di Giacomo che ha ispirato sia la
devozione popolare, sia gli artisti.(Piero Bargellini , Mille
Santi al giorno, Vallecchi pag. 651).
Cronistoria della cappella
Da documenti d’archivio risulta che la cappella fu progettata intorno al 1628.
Nell’atto, redatto il 10 luglio 1628 dal notaio Jean Vercellin (A.P.I. mazzo II ), si legge che
“Jeanne, fille de feu commendable Pierre Consol, veusve de
feu Jacques Ronco, ordonne que lhors et quand se fera une
chapelle riere Chincheré à la forme proposée, ses héritiers
Cappella di Chincheré. (Foto E. Ronco)
— 51 —
A U G U S T A
doivent fournir à leurs frais, deux figures d’anges à mettre
sur l’autel.” …
Sempre nel medesimo atto la testatrice dispone che si
distribuisca in elemosina, davanti alla cappella e in perpetuo,
“…quatre quartaines de blé, en pain cuit, et deux rubs de
fromage”, a coloro che parteciperanno, il martedì delle
Rogazioni, alla processione che raggiunge il confine di
Gueymour.
(La quartaine corrispondeva a demi-émine de blé = dal
1,120, mesure de capacité pour matières sèches; mentre
il Rup de vingtcinq livres corrispondeva a Mg 0,961500,
mesure du Pémont valable jusqu’à la première moitié du
XVIème siècle).
Il suddetto legato prevedeva inoltre la celebrazione di
una messa del rosario à l’autel du Saint Rosaire.
Rileviamo però che la cappella di Chincheré, progettata
fin dal 1628, fu realizzata soltanto un quarto di secolo
dopo.
Verosimilmente il rinvio della sua costruzione è da ricercarsi nelle conseguenze drammatiche determinate
dalla peste del 1630 che decimò una parte della popolazione.
La sua costruzione
In un atto del 27 maggio 1653 leggiamo che:
“Discret Gabriel de Jean-Pierre Consol, et Pierre et Jean,
frères, fils de feu Mathieu Consol et discret Mathieu de feu
Pierre Consol, d’Issime, ayant fait construire une chapelle
au lieu de Chincheré d’Issime et, ayant obtenu de l’évêque
de la bénir, pourvoient à la dotation d’icelle d’un quart
d’écu par an, pour y pouvoir célébrer une messe annuelle
et perpétuelle et promettent de s’adosser la manutention de
la chapelle, assurant, à cet effet, une quartanée et demie de
leurs biens, sis au dit Chincheré (…)”.
(A.N.A. Fonds Donnas, Jean Bioley, notaire).
Dagli atti delle visite pastorali
Altre notizie relative alla vita della cappella si possono desumere dai verbali delle visite pastorali fatte dall’autorità
vescovile alla parrocchia di Issime.
Così nel verbale del 14 agosto 1693 leggiamo:
Visite pastorale à la Paroisse d’Issime Saint-Jacques –
“Plus la chapelle du village de Chincheré, soubs le titre
de Notre Dame, ayant une messe et ruinée, interdite”.
(A.Cu.E., Visites pastorales 1693-1696).
Dunque,a pochi decenni dalla sua costruzione la cappella
è già in pessime condizioni e viene pertanto definita “interdetta”.
Probabilmente però vengono effettuati dei lavori di restauro poiché nel verbale della visita pastorale del 14
maggio 1700 leggiamo:
…”la chapelle de Chincheré, sous le titre de Notre Dame
des Grâces, médiocrement bastie, ayant tous les parements,
excepté le calice. Il est injoint à ceux du village, ou à qui de
droit appartient, de pourvoir d’un calice à la dite chapelle,
dans l’année, soubs peine d’interdit d’icelle”.
(A.Cu.E., Visites pastorales de 1699 à 1712).
Tre anni dopo, nella visita pastorale del 9 giugno 1703,
risulta che ancora non è stato acquistato il calice per cui
viene annotato quanto segue:
“Est injoint à qui il appartient d’y pourveoir d’un calice,
dans trois ans” .(Archives, ut supra).
Vitalità della cappella
Nel verbale della visita pastorale del 25 luglio 1713 troviamo invece quanto segue:
“Plus une autre chapelle au lieu de Chincheré, à l’invocation de Notre Dame des Grâces, bien bastie, avec tout le
nécessaire, y estant une messe pour le jour de la présentation de Notre Dame, à la rétribution de 25 sols”. (A,Cu.E.
ut supra).
Dunque nell’anno 1713 la cappella di Chincheré è in ottime condizioni ed è provvista di tutto il necessario per la
liturgia eucaristica.
La cappella di Chincheré è tenuta in grande venerazione
perché dai registri parrocchiali apprendiamo che il parroco d’Issime, reverendo Jean Praz, in un codicillo del 12
settembre 1721 fa il seguente legato:
“…lègue à la célébration d’une messe, à la rétribution de
20 sols, mannaie d’Aoste. À dire dans la chapelle de Chincheré Tiers Dessous, pour une fois, incontinent après son
trépas…”.
(Source: A.P.I., Chapelles, notaire Joseph Alby).
In un atto redatto a Collombit di Fontainemore il 20 gennaio 1669 si legge:
“…Le notaire Pierre Consol, d’Issime, entre autres legs,
ordonne que ses héritiers distribuent à la chapelle de Chincheré ung lampadaire de la valeur de demy double (14
écus) d’Ispagne. Et ce un an après son décès”.
(A.N.A. Fonds Donnas, vol.1719, Jean Vacher, notaire).
Ancora nel verbale della visita pastorale del 24 maggio
1727 leggiamo la citazione seguente;
“Plus la chapelle de Chincheré sous l’invocation de Notre
Dame de la Présentation; assortie de parements; y ayant
une messe, fondée à la rétribution de 25 sols”. (A.Cu.E.
C-5-vol.10).
Per quanto attiene ai beni ipotecati si legge nello stesso
atto:
“…une quartaine et demy de pré, bois et terroir, située et
jesante au dict lieu de Chincheré, appellée Le Creux, La
Cla et Quioczet, confinant les dictes pièces, à la charrière
de troys coustés et le Ryal (…).”
— 52 —
A U G U S T A
Altri legati
1734, 22 août – Issime –
Dans son testament, Bernard de
feu Pierre de Bernard Roncoz d’Issime, lègue cinq livres à la vénérable
chapelle de Chincheré, payables dans
l’an après son décès, par ses héritiers.
(A.P.I. mazzo II, notaire Mathieu
Christillin).
Dans le livre de mémoire des legs
rédigé par le curé d’Issime on lit:
“Par contrat de Gabriel et Mathieu
Consol, reçu par Jean Biolei notaire,
1653, 27 mai:
une messe annuelle et perpétuelle,
pour le jour du patron, ou un autre
jour à basse voix; payables à tour de
batton, par les ressortables et exigeable vers les procureurs de la chapelle.
(Source: Livre de mémoire des
legs, A.P.I.).
Nella historique del 1786 si dice
che la cappella è in buone condizioni ma il est nécessaire d’y refaire le
pavé. (A.P.I. A.Cu.E. D 5- vol 5).
Infine, nel 1870, trovandosi la cappella in precarie condizioni di stabilità viene abbattuta e ricostruita
nello stesso luogo su interessamento del prete originario d’Issime, del
villaggio di Chincheré, Jean-Joseph
Consol e dotata dell’arredo necessario, nonché della Via Crucis offerta da M. Christillin Sabin.
Il vescovo di Aosta, Mgr Jans, incarica della benedizione l’arciprete
Jannel di Fontainemore.
Historique del parroco Grat Vésan
relativa alla cappella di Chincheré:
Altare della cappella di Chincheré. (Foto E. Ronco)
“En 1866 démolition de la chapelle par le curé Jean Joseph
Consol1 qui la fit reconstruire au même lieu; celui-ci étant
mort, en 1870 ses deux soeurs la terminèrent: Marie Jacobée et Marie Antoinette Rose.
Gli ultimi discendenti del ramo dei Consol chiamato Péjetsch erano cinque fratelli Mathieu, Pierre (Piru), Marie Jacobée, Marie Antoinette Rose, e Jean-Joseph (parroco). Vivevano nel villaggio di Chincheré (Tschéntschiri), si dice che possedessero una
montagna nel Vallone di Tourrison e che la loro proprietà si estendesse dal villaggio fino alla cima del Vallone (Col du Loup),
senza soluzione di continuo, un’unica striscia di territorio con i diversi tramudi.
Marie Antoinette Rose sposò Pierre Amédée Christillin (Chrischtentsch Piru) alcuni dei loro discendenti, recentemente scomparsi, erano ancora chiamati Péjetsch: Valentine e Féini sorelle del parroco di Gressoney-Saint-Jean Daniel Christillin. Il soprannome Chrischtentsch non si è trasmesso nelle generazioni, sono stati invece utilizzati e mantenuti, per identificare questo ramo
dei Christillin, i soprannomi delle rispettive mogli: il figlio di Chrischtensch Piru era chiamato Péjetsch Daniel (*1839†1918)
1
— 53 —
A U G U S T A
“Chemin de croix offert par Sabin de feu Jean Jacques, propriétaire de la petite maison de La zeli:
En 1767, la communauté d’Issime fut exemptée du voeu
d’aller chaque année à la chapelle de Notre Dame de la
Garde de Perloz; pourvu que la paroisse fît une procession pour y suppléer, dans le territoire de la paroisse. Dès
lors on fit la procession annuelle de l’église d’Issime à la
chapelle de Chincheré le 21 avril ou le dimanche le plus
rapproché.
(Source: A.P.I. Chapelles – Livre des mémoires des legs).
Anticamente, i nostri predecessori solevano manifestare
la loro devozione a un luogo sacro mediante piccole offerte in denaro, donazioni testamentarie oppure processioni.
Non solo da Issime, ma anche da altre parrocchie della Vallaise, e persino da Challand-Saint-Victor, venivano
organizzate delle processioni annuali al santuario della
Madonna della Guardia di Perloz.
Dopo il 1630, però queste pratiche caddero in disuso perché troppo impegnative.
Fu così, ad esempio, che la processione annuale della
parrocchia d’Issime al santuario della Guardia di Perloz
fu sostituita da quelle più agevole diretta alla cappella di
Notre-Dame des Grâces di Chincheré.
Changement d’un ex voto de la paroisse d’Issime:
“Le 10 mai 1767, le syndic d’Issime Mathieu Freppa et tous
les conseillers présentent recours à Mgr De Sales, évêque
d’Aoste,dans le but d’être autorisés à vendre certains biens
onéreux, appartenant à l’église et pour demander que la
commune fût déchargée d’un voeu qu’elle avait fait d’aller
chaque année en procession au sanctuaire de Notre Dame
de la Garde à Perloz.
Voici la réponse de la Cure Episcopale:
“…nous exhortons le Curé et les paroissiens à suppléer à
la procession requise, par quelque autre moins fatigante et
qui se termine dans l’enceinte de la paroisse.
A la Cité ce 17 mai 1767.
Monseigneur De Sales
Issime, 22 mai 1870. Note des ouvrages à faire pour
l’intérieur de la chapelle de Chincheré, confiées au menuisier Alby Jean Jacques, Pierre Amédée Christillin [Chrischtentsch Piru vedi nota 1] et Jacobée Consol [Péjetsch
vedi nota 1]: ces deux derniers fournisseurs du bois.
cloches, six fenêtres, pupitre de la tribune, 2 bancs, 2 autres bancs, banc du prêtre au choeur, 3 serrures, tronc
pour l’argent : frais lires 57,20.
Porte à grille de fer faite par le forgeron.
(Source: A.P.I. Chapelles).
Alby s’oblige de finir tout le travail susdit jusqu’à la mi novembre plus prochain de l’an 1870.
Note des ouvrages à faire à la chapelle de Chincheré,
confiés à Mathéry Joseph pour lires 50,00.
1° Hausser le clocher de m 0,50 centimètres
2° N.trois pierres formant couloir adaptées au clocher
pour empêcher les gouttières.
3°Démolir le clocher actuel jusqu’au toit de la chapelle
(…)
4°Faire une pierre dans le clocher pour renvoyer l’eau de
chaque côté.
5° Faire un fossé derrière et de chaque côté de la chapelle, pour l’écoulement des eaux, de la profondeur de
10 cm au moins en dessous du plancher intérieur de la
chapelle (…)
6° Percer tous les trous et placer des pattes pour soutenir
les cadres du chemin de la croix.
Tous les matériaux pour les travaux qui précèdent sont à
la charge de Christillin Pierre Amédée et Consol MarieJacobée, qui doivent aussi fournir le bois nécessaire pour
l’échaffaudage, avec logement et bon us accoutumés.
(…)Le soussigné maître-maçon Mathéry n’est chargé
que de la main d’oeuvre
Le même maître-maçon Mathéry doit commencer le 19
septembre prochain et achever le tout avant que le terrain gèle.(…)
Issime le 14 aôut 1870.
La nuova cappella di Chincheré fu terminata a tempo di
record e benedetta il 21 novembre 1870, alla presenza del
parroco Don Joseph Delapierre.
Nel 1928 si collocarono dei banchi nuovi, offerta fatta
dalla famiglia di Ronco Isidoro, dal figlio Pétéretsch Jean
[Cfr. notizie raccolte dal parroco di Issime Grat Vesan,
Congresso eucaristico interparrocchiale, Issime (Aosta)
18-25 maggio 1941, p.139]. Secondo la testimonianza di
una discendente, i larici utilizzati per i banchi provenivano dal vallone di Tourrison nei pressi dell’alpeggio di
Töivi.
La popolazione locale ha sempre tenuto in grande considerazione la cappella del villaggio,considerandola un
prezioso retaggio di fede da trasmettere di generazione
in generazione.
P.S. Devo la trascrizione dei dati di archivio allo zelo sollecito del compianto Dott.Orfeo Zanolli che ricordo, ancora
una volta, con profonda gratitudine.
e sposò Ritsch Mareji (*1842†1918) (fam. Freppa), il loro figlio Ritsch Dschosefji (*1876†1951) sposò Keerisch Dschuschteini
(*1876†1959) (fam. Storto). (Queste informazione, integrate con ricerche d’archivio, sono state raccolte da Michele Musso
presso Filippo (*1908†1993) e Flavio Consol Stoffultsch).
— 54 —
A U G U S T A
Scrivere tra i walser.
Perché una nuova grafia?
Marco Angster1
A
partire da febbraio 2008 si è svolto il
progetto di Normalizzazione della grafia
per le parlate walser del Piemonte e della
Valle d’Aosta che ha visto impegnati
rappresentanti delle comunità di Alagna
Valsesia, Formazza, Macugnaga, Rimella e Salecchio
in Piemonte e Issime e Gressoney in Valle d’Aosta. Il
progetto, di durata biennale, ha avuto ufficialmente
termine con la presentazione, a Formazza a settembre
del 2010, del libro Scrivere tra i walser. Per un’ortografia
delle parlate alemanniche in Italia. Il volume è corredato
da un CD che contiene molti esempi di parole registrate
dalla viva voce dei parlanti trascritte usando la nuova
grafia. Nel testo è anche contenuta un’ampia introduzione
metodologica e, oltre a una interessante, anche se
tecnica, analisi linguistica, sono presenti alcuni testi
esemplificativi dell’uso della nuova convenzione grafica.2
In cosa è consistito il lavoro? Nei due anni di riunioni
tra il comitato scientifico e i rappresentanti delle comunità si è cercato in primo luogo di identificare le caratteristiche fonetiche rilevanti per la grafia. Sono state poi
considerate le soluzioni usate in precedenza nelle grafie
già esistenti e tradizionali per rappresentare i suoni delle varie parlate. Le soluzioni giudicate più soddisfacenti
sono state adottate per rappresentare i suoni di tutte le
comunità.
Il lavoro non è stato semplice, perché ogni comunità ha
dei suoni peculiari oppure gli stessi suoni hanno in diverse comunità una funzione diversa: ad esempio il suono rappresentato a Gressoney da <ó> è, in tutte le altre
comunità eccetto Macugnaga, una semplice variante del
suono rappresentato da <u> e dunque non viene distinto
da esso nella grafia.
Le grafie già esistenti non erano adeguate a rappresentare le varie parlate? La risposta può essere duplice. Da un lato nessuna grafia è veramente adeguata a rappresentare la pronuncia di una lingua; per rappresentare
la pronuncia con la massima fedeltà esistono gli alfabeti
fonetici, dotati di moltissimi segni indicanti i suoni e di
simboli che modificano questi segni per rendere ancora
più precisa la rappresentazione.
Tuttavia gli alfabeti fonetici non sono grafie utilizzabili
nella quotidianità neppure per scrivere un brevissimo
testo, inoltre la trascrizione fonetica di una stessa frase
ripetuta più volte può talvolta differire non solo se pronunciata da persone diverse, ma addirittura dalla stessa
persona. Si può immaginare quanto poco agevole sia questo tipo di strumento. Le grafie invece sono imprecise e
proprio da questa imprecisione deriva la loro amplissima
utilizzazione.
Da questo punto di vista, dunque, anche le grafie tradizionali erano adeguate a rappresentare le singole parlate.
Ogni parlata però, fino al progetto di Normalizzazione,
aveva le sue proprie regole e ciascuna utilizzava degli inventari di simboli diversi; a volte questi inventari erano
molto peculiari e utilizzavano segni diversi per lo stesso
suono (<v> e <f> per [f]; <ï>, <ì>, <ê>, <é> per [ɪ]) oppure
lo stesso simbolo per suoni diversi (<ck> per [k], [k:],
[kχ], [kh]).
Con il progetto di Normalizzazione tutte le comunità walser di Piemonte e Valle d’Aosta hanno un unico sistema
di corrispondenze tra simboli e suoni su cui basare la grafia della propria parlata.3 Questo sistema è stato a lungo
ponderato sia al fine di non discostarsi troppo dalle grafie
già esistenti sia per avere una maggior razionalizzazione
nelle corrispondenze: si è cercato di privilegiare una corrispondenza uno a uno (un suono un simbolo) ogni volta
che questo tipo di scelta era possibile senza semplificare
distinzioni ritenute utili e senza complicare troppo il sistema.
Come è ovvio, il sistema che è emerso dal progetto non
è privo di problemi. Intanto introduce delle novità nelle
grafie tradizionali, ciò che potrebbe scontentare chi ha
usato per anni un altro sistema di scrittura se non ha addirittura contribuito a crearlo. Si possono riassumere le
novità che la nuova grafia comporta per Gressoney e Issime nei seguenti punti:
• gli accenti che indicano una diversa qualità delle
Dottorando in Linguistica presso l’Università di Pavia [email protected]
Le persone che, come parte del comitato scientifico, come rappresentanti delle comunità o come autori hanno partecipato al
progetto e alla stesura del volume, sono ricordati nella Presentazione e nel primo capitolo.
3
Riporto lo schema relativo a Gressoney e Issime in calce al testo; per altri esempi si veda il CD allegato al volume Scrivere tra
i walser, mentre per lo schema generale con le corrispondenze per tutte le comunità si veda il volume stesso alle pagine 63-72.
1
2
— 55 —
A U G U S T A
vocali sono sempre acuti: <é> <ó> <á>; dunque a
Gressoney <ò> diventa <ó>;
• il dittongo <ee> a Issime diviene <ea>; il raddoppiamento dei segni grafici corrisponde infatti a
una maggior lunghezza del suono;
• anche le consonanti lunghe sono rappresentate
dal raddoppiamento del segno corrispondente
(dunque tschócke viene scritto tschókke), mentre
nel caso di gruppi consonantici si raddoppia solo
il primo segno che li compone (acher viene scritto accher);
<v>
sparisce dalla grafia di Gressoney e di altre
•
parlate e resta solo nelle grafie di Issime e Rimella; qui però rappresenta sempre la [v] dell’italiano volto in parole, es. vuks, vinger, vill, dove
altre comunità hanno la [f] dell’italiano folto, che
va ora rappresentato sempre con <f>, es. fuchs,
fénger, féll (non più véll);
Un altro problema è che la grafia nata da questo progetto
si discosta dalle convenzioni grafiche delle varietà svizzero-tedesche. Tuttavia uniformare le grafie walser italiane
a quelle svizzere ne avrebbe notevolmente modificato l’aspetto fino probabilmente a renderle irriconoscibili. Per
fare un solo esempio, nelle grafie dei dialetti della Svizzera <k> e <ck> rappresentano il suono [kx] mentre <gg>
rappresenta il suono [k] per cui ad esempio Gr. tschókke
(tschócke in grafia tradizionale) verrebbe scritto tschógge. In parte la nuova grafia si discosta anche dal tedesco
standard, ad esempio per la scelta di togliere il simbolo
<v> per rappresentare [f], ma si tratta in questo caso di
una scelta di razionalizzazione che dovrebbe in futuro
evitare le incertezze (presenti abbondantemente nel vocabolario del dialetto di Gressoney) sulla grafia di fó ‘di,
da’ o del prefisso fer- ad esempio in ferzwifló ‘disperare’.
Questo lavoro di normalizzazione era davvero necessario? Sì. In primo luogo perché c’erano comunità
che non avevano un sistema condiviso per scrivere il
dialetto oppure dove era necessaria una grande opera di
razionalizzazione per forti incongruenze nella grafia esistente. In secondo luogo le attività del progetto erano finalizzate alla promozione dell’uso di una grafia condivisa
per altri progetti e raccolte di dati riguardanti le comunità
walser, il primo dei quali, la banca dati linguistica, è in
corso di attuazione. Infine le attività del progetto hanno
portato a una collaborazione tra le comunità walser italiane che probabilmente non si era mai avuta in precedenza
su un progetto incentrato sulla lingua. Si è consolidata
durante questi lavori una rete di conoscenze che si spera
possa anche in futuro dare importanti frutti nella conservazione e promozione delle parlate walser.
Tabella corrispondenze per le comunità di Gressoney e Issime
(tratto da Scrivere tra i walser. Per un’ortografia delle parlate alemanniche in Italia, pp. 62-73)
Is.: widder ‘montone’;
Vocali
A, a (come a dell’italiano)
Gr.: acher ‘id.’;
Is.: acher ‘id.’;
O, o (come o dell’italiano, può essere aperta come in bòtte o chiusa come in bótte)
Gr.: gotta ‘id.’;
Is.: gotta ‘id.’;
Á, á (a velarizzata, tendente a o)
Gr.: —
Is.: —
Ma.: scháf ‘pecora’;
Ó, ó (come u del tedesco und)
Gr.: sónnó ‘sole’;
Is.: —
Á, ä (come a dell’inglese hat ‘cappello’)
Gr.: häks ‘strega’;
Is.: —
E, e (come e dell’italiano, può essere aperta come in
pèsca o chiusa come in pésca)
Gr.: geschter ‘id.’;
Is.: geschter ‘id.’;
É, é (come i del tedesco Kind, a volte è centralizzata)
Gr.: tér ‘id.’;
Is.: é schréibe ‘io scrivo’;
I, i (come i dell’italiano)
Gr.: titsch ‘id.’;
Ö, ö (come ö del tedesco Höle
‘buco’)
Gr.: —
Is.: töischu ‘cambiare’
U, u (come u dell’italiano, in posizione
finale può avvicinarsi a ó)
Gr.: brun ‘marrone’;
Is.: jung ‘giovane’;
Ü, ü (come ü del tedesco Hüte
‘cappelli’)
Gr.: —
Is.: chü ‘vacche’;
— 56 —
A U G U S T A
L’accento grafico su á, é e ó indica pertanto soltanto il
timbro più alto (é e ó) o arretrato (á) della vocale rispetto
a quelle indicate dal segno corrispondente senza accento
(a, e, o).
La maggiore durata delle vocali è resa raddoppiando il segno, limitando tuttavia tale notazione ai casi che possono
ingenerare perplessità (es.: Fo. téér [tɪ:r] animale’ vs. tér
[tir] ‘porta’).
Dittonghi e nessi bivocalici
EA, ea
Is.: cheame ‘venire’;
Ée, ée
Gr.: chéeme ‘venire’;
EI, ei
Gr.: fleigó ‘id.’;
Is.: eisch ‘ghiaccio’;
IA, ia
Is.: wia ‘dolore’;
IE, ie
Gr.: mied ‘stanco’;
Is.: lier ‘vuoto’;
OA, oa
Gr.: oalt ‘vecchio’;
Is.: oalt ‘vecchio’;
ÖI, öi
Is.: töitsch ‘tedesco’;
OU, ou
Gr.: oug ‘occhio’;
Is.: mous ‘topo’;
UA, ua
Is.: bruat ‘pane’;
UE, ue
Gr.: brueder ‘fratello’;
ÜE, üe
Is.: bües ‘cattivo’;
Consonanti
(-)B-, (-)b- (come b dell’italiano)
Gr.: brót ‘id.’;
Is.: bruat ‘id.’;
-B, -b (in posizione finale vale p)
Gr.: lib ‘corpo’;
Is.: ljeib ‘id.’;
CH, ch (come ch tedesco, può essere più avanzato come
in ich ‘io’ o più arretrato come in acht ‘otto’. In alcuni casi
è uvulare)
Gr.: chélchó ‘id.’;
Is.: chilhu ‘id.’;
(-)D-, (-)d- (come d dell’italiano)
Gr.: brueder ‘fratello’;
Is.: bruder ‘id.’;
-D, -d (in posizione finale vale t)
Gr.: mied ‘stanco’;
Is.: müd ‘id.’;
DJ, dj (simile a ghi dell’italiano ghiaccio ma più avanzato)
Is.: ljidji ‘canto’;
DŜCH, dŝch (come g dell’italiano
gelo)
Gr.: sendŝchó ‘appiglio’;
Is.: ündŝchenandre ‘a noi’;
F, f (come f dell’italiano)
Gr.: fóks ‘id.’;
Is.: fannu ‘padella’;
(-)G-, (-)g- (come g dell’italiano gatto)
Gr.: géere ‘id.’;
Is.: geare ‘id.’;
-G, -g (in posizione finale vale k)
Gr.: wäg ‘id.’;
Is.: weg ‘id.’;
H, h (come h del tedesco haus ‘casa’. In alcuni casi è
sonoro)
Gr.: hei ‘id.’;
Is.: höi ‘id.’;
J, j (come j del tedesco Jäger ‘cacciatore’ e come i dell’italiano ieri)
Gr.: jeger ‘id.’;
Is.: jeger ‘id.’;
K, k (come k del tedesco e come c dell’italiano cane)
Gr.: schnäkke ‘id.’;
Is.: schnekki ‘id.’;
KCH, kch (affricata velare sorda, come (c)k dello svizzero tedesco)
Gr.: ekch ‘angolo’;
Is.: lekchu ‘leccare’;
— 57 —
A U G U S T A
L, l (come l dell’italiano luna)
Gr.: lied ‘id.’;
Is.: blatti ‘beole’;
T, t (come t dell’italiano)
Gr.: bett ‘id.’;
Is.: bétt ‘id.’;
LJ, lj (come gl dell’italiano figli)
Gr.: —
Is.: ljöitji ‘persone’;
TJ, tj (simile a chi dell’italiano chiesa, ma più avanzata)
Is.: lljöitji ‘persona’;
TSCH, tsch (come c dell’italiano cece)
Gr.: wältsch ‘id.’;
Is.: töitsch ‘tedesco’;
M, m (come m dell’italiano)
Gr.: mus ‘id.’;
Is.: mous ‘id.’;
-TZ(-), -tz(-) (come z dell’italiano scherzo e tz del tedesco Würze ‘condimento - aroma’)
Gr.: chertzó ‘id.’;
Is.: chértzu ‘id.’;
N, n (come n dell’italiano)
Gr.: nu ‘nuovo’;
Is.: nau ‘nuovo’;
NG, ng (come n dell’italiano àncora)
Gr.: fénger ‘id.’;
Is.: vinger ‘id.’;
V, v (a Issime e Rimella in corrispondenza di f nelle altre
varietà, come v dell’italiano vaso)
Is.: vuks ‘volpe’;
Ri.: vuksch ‘id.’;
P, p (come p dell’italiano)
Gr.: tschappóló ‘id.’;
Is.: tschappulu ‘id.’
W, w (come v dell’italiano vaso)
Gr.: wéerme ‘calore’;
(a Issime, e, più in generale, nei nessi consonantici, corrisponde a u dell’italiano uomo o a w dell’inglese wine
‘vino’)
Gr.: zwei ‘due’;
Is.: wearmi ‘calore’;
PF, pf (come pf del tedesco)
Gr.: pflantzó ‘piantare’;
Is.: öpfil ‘mela’;
R, r (in generale come r dell’italiano)
Gr.: ros ‘id.’;
Is.: ross ‘id.’;
S-, -S-, s-, -s- (come s dell’italiano caso, in posizione iniziale alterna con esiti sordi come s dell’italiano sole)
Gr.: sónnó ‘id.’;
Is.: sunnu ‘id.’;
-S, -s (in posizione finale come s dell’italiano sole)
Gr.: sies ‘id.’;
Is.: süs ‘id.’;
-SS-, -ss- (come s dell’italiano sole, puó essere doppia)
Gr.: ässe ‘id.’;
Is.: esse ‘id.’;
SCH, sch (come sc dell’italiano scena. In alcuni casi corrisponde alla pronuncia piemontese di s)
Gr.: schribe ‘id.’;
Is.: schreibe ‘id.’
ŝCH, ŝch (come j del francese jour)
Gr.: eŝchél ‘id.’;
Is.: üeŝchil ‘id.’;
Z-, z- (in posizione iniziale come z dell’italiano scherzo o
del tedesco Zahl ‘numero’)
Gr.: zóngó ‘id.’;
Is.: zungu ‘id.’.
La maggior durata delle consonanti è resa raddoppiando
il segno. Nei casi di segni composti si limiterà il raddoppiamento al solo elemento iniziale (es.: Al., Ri. tittschu ‘tedesco’). Il grafema ss indica la fricativa alveolare sorda sia
breve, sia lunga e, in generale, i segni consonantici finali
doppi indicano che la vocale precedente è breve e non la
presenza di un’effettiva consonante doppia.
Varia
Elementi eufonici di collegamento tra diverse parole
sono scritti attaccati al primo termine.
I clitici (forme pronominali) sono segnati staccati dalla
parola quando la precedono (proclitici), attaccati quando
la seguono (enclitici) Nel caso di parole composte si può
ricorrere al trattino per evidenziare la doppia tonicità,
dando per inteso che l’accento principale cade sulla prima sillaba del primo termine.
— 58 —
A U G U S T A
Prima ascensione nel massiccio
del Monte Rosa (1778)
Vittorio De La Pierre
S
iamo verso la fine del XVIII secolo. Si è
oramai da tempo completato quel processo migratorio che, nel giro di tre secoli,
in un momento di forte incremento demografico diffuso in tutta Europa, ha portato
gli Alemanni ad insediarsi alle falde del Monte Rosa ed
in altre elevate zone montuose, spinti dalla necessità di
trovare spazi di vita per le loro famiglie e il loro lavoro. È
nato così un vero “popolo nel cuore delle Alpi”, a partenza dal Cantone svizzero del Vallese, con denominazione
di Walliser per quelli che vi sono rimasti e di contrazione
in Walser per quelli spintisi poi ancora altrove. Bonificano tenacemente i siti occupati, organizzano condizioni di
vita progressivamente migliori, e superano bene anche
quell’infausto periodo della cosiddetta piccola glaciazio-
ne che, per circa due secoli, compromette le risorse agricole. Si può dire che fino all’avvento di rivoluzionarie e
straordinarie scoperte e invenzioni quali il motore, l’elettricità, la comunicazione a distanza, e addirittura il volo,
nessuno venuto in questi paesi abbia portato qualcosa di
non già realizzato dai Walser; basti pensare ai prodotti
dell’attività contadina, all’edilizia, all’artigianato, al commercio, all’impresa, all’organizzazione sociale e, possiamo aggiungere, al livello culturale.
E ciò si può ricordare, con fierezza, anche riguardo a
due particolari innovazioni, comparse non più in stretta dipendenza di motivi legati alle necessità di vita, ma
sintomatici di un certo qual sia pur umile benessere
raggiunto. Si tratta dell’alpinismo, a cui viene dedicato questo articolo, e dello sci, importato, da Hanzede
‘Roccia della scoperta’, foto tratta dall’archivio Curta - Guindani. “Auf diesem Felsen blieben wir über eine Stünde wir nannten
ihn Entdeckungs Felsen” – Su questa roccia rimanemmo più di un’ora e la nominammo Roccia della scoperta. Frase tratta dal
diario della spedizione dei sette gressonari.
— 59 —
A U G U S T A
Eigen e da Otto Lettr y, di ritorno dalla Svizzera.
Pare di aver individuato alcuni punti fondamentali dell’antropizzazione delle alte vallate alle falde del Rosa, e di
aver evidenziato particolari interessanti di questo nuovo
mondo. Ma accanto, al di sopra di esso, e ben più antico
di esso, c’è un altro mondo. Troneggia un maestoso massiccio, un manto di neve eterna solcato da profondi spacchi, spaventose colate di ghiaccio appese a creste e punte
di roccia, pareti strapiombanti, cime dalla varia configurazione, tra le più alte presenti in Europa. Non è il mondo
dei Walser, è un altro mondo, sconosciuto, inviolato, inesplorato, compreso tutto in un’unica denominazione :“de
Gletscher” (il ghiacciaio). Solo pronunciarla suscita un
senso di rispetto, di timore, di entità arcana e aliena. Unica che sino allora abbia osato con coraggio inoltrarsi in
esso fu una diffusa leggenda, sufficientemente cosparsa
di mistero. Narra che lassù fosse esistita una bellissima
valle, ricca di fiori e frutti, con tanta gente raccolta in una
città, ivi conducendo una vita dissipata, gaudente, viziosa.
In tale ambiente diede naturalmente fastidio l’arrivo di
un misero pellegrino, mal vestito, infreddolito e affamato; chiedeva asilo e cibo, ma la sua intima intenzione era
di strapparli al peccato e di convincerli all’amore di Dio
e alla preghiera. Cacciatolo malamente, vennero subito
colpiti dalla maledizione divina, secondo quanto loro già
annunciato dal respinto ospite: pesanti e protratte nevicate durate sette giorni, fino alla comparsa addirittura di
neve rossastra, seppellirono per sempre uomini e cose.
I lamenti dei condannati si potrebbero ancora percepire
accostando l’orecchio all’orlo dei più profondi crepacci.
Quel massiccio attira sempre di più lo sguardo. Tra la
parte orientale e quella mediana presenta anche un ammasso di neve ampio e pianeggiante, verosimilmente un
colle. Di colli ne hanno visti e ne hanno valicati tanti, questi robusti uomini della montagna, ma questo, da quanto
è loro possibile giudicare, è certamente di altitudine molto superiore a tutti gli altri. Si saprà poi che ha un’altitudine di quasi mille metri superiore a quella del Teodulo, il
più alto che sino allora essi abbiano superato.
Ma possibile che quel mondo, quell’entità, de Gletscher,
possa rimanere così a sé stante, così isolato, così assente
da ogni rapporto con quelle genti che ne hanno popolato
e dotato di tanta vitalità tutte le zone sottostanti? E possibile che non permanga lassù qualche traccia della valle,
della città, della gente perdute? E l’istinto di migrazione
può essersi così definitivamente assopito da bloccare
qualsiasi invito al percorso e alla conoscenza?
La risposta viene da sette ardimentosi giovani gressonari.
Sta nascendo in loro, e presto si accentua, il desiderio di
tentare l’incontro con il massiccio e la salita. Diventa rapidamente proposito, quando il diciottenne Joseph Beck di
ritorno da Alagna, dove si era recato per lavoro, riferisce
al fratello Valentino di aver intuito che anche i Walser di
quel luogo stavano pregustando simile impresa. Occor-
reva trovare subito un numero sufficiente di compagni
disposti e adatti, e con loro apprestarsi all’evento. Non si
fecero pregare i giovani contattati, a loro ben noti perché
residenti nella stessa loro zona nota come “Mittelteil”,
cioè intermedia tra la piana di Saint Jean e la Trinité. I
loro nomi: primi Franz Castell, Stephan Litschkj, Josef
Zumstein, poi Sebastien Linty e Nikolaus Vinzenz (Vincent). Fanno tutti parte di consolidate famiglie di contadini, ma con dedizione anche ad altre attività. I Beck sono
validi artigiani, conduttori di segheria, mulino, forgia e
lavorazione della canapa. Gli altri sono variamente legati
ai tradizionali impegni di Krämer.
Sanno di dover preparare tutto con assennatezza, e quindi si riuniscono a Chaschtal in casa di Vinzenz, per i necessari accordi, e lo fanno in estrema riservatezza, come
in tutta riservatezza muoveranno poi i primi passi. Sono
pronti all’avventura già nel luglio del 1778, ma devono
rassegnarsi ad un lungo rinvio per condizioni meteorologiche persistentemente avverse. Il momento opportuno
si presenterà verso fine agosto, e la decisione viene presa: si parte nel pomeriggio del 21. La riservatezza non si
è nel frattempo incrinata; si deve non suscitare curiosità, non lasciar trasparire le intenzioni e soprattutto non
ingenerare giustificati motivi di ansia nei loro famigliari.
Salgono prima Vinzenz e Linty con il suo mulo, carico del
necessario equipaggiamento in viveri e attrezzi. Partono
poi gli altri, ma suddivisi, a simulare un’abituale battuta
di caccia. Meta per riunirsi è una modesta baita negli alpeggi di Lavetz, nella zona terminale del vero atrio del
massiccio.
Ma adesso è ora di seguirli con l’immaginazione quale ci
viene suggerita dal loro stesso racconto, riservandoci di
concludere poi con qualche significativa considerazione.
Ecco dunque:
“Verso le 7 di sera ci trovammo tutti all’Alpe Lavetz per
conversare lietamente durante la cena riguardo al nostro
proposito. Poi ognuno preparò il suo pacchetto che pensavamo di portare con noi, e andammo un po’ a riposare.
In punto alla mezzanotte fummo pronti con pacco e sacco
sulla schiena, e partimmo. In un’ora giungemmo al colle
di Soalze, e di lì lasciando a sinistra il pendio del Hohliecht, salimmo direttamente fin sulla cresta e su questa
camminammo fino al ghiacciaio, era mattino presto alle
4. Il giorno stava nascendo, ci sedemmo e prendemmo
un tonificante. Poi prendemmo tutti sette la corda sotto
il braccio e ci legammo ognuno a distanza di una tesa
l’uno dall’altro, ciò per superare il rischio dei crepacci,
prendemmo di nuovo ognuno il suo carico sul dorso, e
ci disponemmo sul ghiacciaio nel seguente ordine: il più
anziano Valentin Beck andò per primo, Josef Beck secondo, Sebastien Linty terzo, Stephan Litschkj quarto, Josef
Zumstein quinto, Nikolais Vinzenz sesto e Franz Castell
settimo. Avevamo tutti in mano un bastone e ramponi alle
scarpe. Avevamo prima concordato tra di noi di cammina-
— 60 —
A U G U S T A
Monumento ai sette gressonari
a Gressoney-Saint-Jean (foto V. De La Pierre).
re nella giusta distanza stabilita tra l’uno e l’altro,
e se il primo dovesse fermarsi, anche gli altri dovrebbero rimanere fermi. Così procedemmo sul
ghiacciaio.
Quanto più in alto salivamo, tanto più rarefatta
si faceva l’aria, tanto da causarci mal di testa e
rendere pesante il respiro. Dovemmo più volte
fermarci per prendere un tonificante Ma anche
il nostra stomaco non era ben disposto. Nel proseguire diventammo sempre più deboli e una
indescrivibile spossatezza si impossessò di noi.
Per quanto fossimo favoriti da tempo splendido,
dovemmo penare molto per giungere sull’altura
superiore del ghiacciaio. Da lì potemmo volgere
lo sguardo verso il Vallese.
Era mezzogiorno, le ore 12, sulla sommità della roccia ci apparve un grandioso panorama da
lasciare stupefatti! Ci sedemmo sulle rocce raggiunte con fatica, per vedere la valle perduta, ma
ci parve che questa fosse del tutto gelificata. Osservammo attentamente il luogo, ma non potevamo capacitarci che lì ci fosse una valle perduta.
Su questa roccia rimanemmo più di un’ora, la denominammo Entdeckunsfelsen (roccia della scoperta). Ritenemmo necessario sostenerci con un
tonificante, ma nessuno aveva appetito, e invece
una intensa sete. Ritenemmo per certo di aver
scoperto la valle perduta, la cui esistenza già da
tempi antichi si immaginava. Eravamo fortemente tentati di proseguire la nostra ricerca per poter
riferire notizie precise, ma il nostro orologio segnava le 2, e dovemmo deciderci al ritorno, per
non trovarci di notte sul ghiacciaio. Senza perdere tempo
ci avviammo di nuovo sulla strada del ritorno, ed arrivammo spossati al Lavetz, verso le 10, 22 ore dopo che dal
Lavetz eravamo partiti. Passammo qui il resto della notte,
di giorno ognuno si diresse alla propria dimora, E per
questa volta Amen.”
Accennano alla valle perduta, ma la sua ricerca fu probabilmente più scusa che fine per la salita.
Alla celebrazione nel 1913 del cinquantenario di fondazione del Club Alpino Italiano questa ascensione questa
fu dichiarata “l’impresa sacra dell’alpinismo italiano”. Le
considerazioni che vengono spontanee non possono essere che un elenco di meriti da riconoscere ai nostri antesignani alpinisti. Sono tanti: l’idea dell’iniziativa; una seria
preparazione; un accordo perfetto; la prima ascensione in
assoluto nel massiccio; il primo superamento della quota
4.000; le regole della cordata e la giusta attrezzatura; l’attenta osservazione dell’ambiente; l’intento di “ricerca” e
il rammarico di non aver tempo per raccogliere e poi ri-
ferire maggiori notizie; la prima denominazione, il primo
battesimo in assoluto, di una sommità del “Gletscher”;
la denuncia di un malessere che intuirono esser dovuto
a rarefazione dell’aria, quindi a quello che conosciamo
come male da altitudine; l’impegno di una descrizione
già programmata dall’inizio, primo resoconto alpinistico!; l’intenzione di ritornare lassù (l’amen si riferisce
solo a”questa volta”, infatti qualcuno vi è tornato nei due
anni successivi); e la modestia e la riservatezza, senza
ombra di vanagloria, con cui tutto si è compiuto, tanto da
lasciare addirittura insoddisfatta la curiosità del famoso
scienziato-alpinista De Saussure.
Non potevano immaginare che per fortuna altri walser
proprio del loro paese, qualcuno loro discendente, avrebbero seguito il loro esempio, e ulteriormente alimentato
e soddisfatto quel desiderio di altezze e di conoscenza,
che diede al Monte Rosa la presenza dell’essere umano, e
gli fruttò le prime, più suggestive e gloriose pagine della
storia di sua frequentazione.
— 61 —
A U G U S T A
La collezione gressonara di Loria
in occasione del cinquantenario
dell’Unità d’Italia
Tiziana Fragno
N
el 1911, cent’anni or sono, in occasione del
cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia il governo previde importanti iniziative
a Torino, Firenze e Roma. Tra i tanti eventi
celebrativi promossi dallo Stato italiano la
mostra etnografica italiana tenutasi a Roma e curata dal
viaggiatore studioso di etnografia Lamberto Loria (1855
-1913) coinvolse in modo particolare la Valle d’Aosta e la
comunità walser per la presenza di materiali provenienti
dalla Regione e di oggetti, utensili e costumi provenienti
da Gressoney-Saint-Jean e Gressoney-La-Trinité.
L’esposizione etnografica romana, voluta dall’onorevole
Ferdinando Martini ( 1841-1928), era stata inserita all’interno dell’Esposizione internazionale di Roma col preciso
intento di mettere i visitatori in condizione di cogliere, oltre la modernità e il progresso raggiunto dalla civiltà italiana, la tradizione popolare delle diverse regioni. Infatti,
nella mostra etnografica traspariva la chiara intenzione di
rappresentare non tanto l’Italia quanto le “genti italiche”,
che componevano questa neonata nazione, dando una valenza positiva alla varietà e alla ricchezza delle tradizioni
regionali, suggerendo l’idea di un’Unità realizzata nel pieno rispetto di popolazioni differenti e uniche. A tal fine
l’esposizione, in un percorso ideale, presentava gli aspetti
salienti della vita quotidiana di ogni singola regione, attraverso testimonianze materiali e immateriali raccolte negli
anni immediatamente precedenti la mostra per conto del
“Comitato esecutivo per le feste commemorative”. L’operazione era stata tutt’altro che semplice sia per ragioni
economiche, sia scientifiche. Aveva visto l’impegno di una
folta schiera di raccoglitori locali, studiosi e appassionati
che, supervisionati e guidati dall’instancabile Loria e dal
suo collaboratore Aldobrandini Mochi (1874-1931), setacciarono l’intero territorio nazionale alla ricerca degli oggetti che rappresentassero al meglio la storia e la cultura
di ogni regione. Questa operazione rappresentava all’interno del panorama culturale italiano una grande novità,
in quanto fino ad allora il folklore era stato studiato da
esperti locali o semplici amatori che nonostante il lodevole sforzo avevano affrontato l’argomento a volte in modo
approssimativo e superficiale, guardando per lo più agli
aspetti eruditi della cultura popolare, quali la letteratura
e la musica. Nell’esposizione romana, invece, la cultura
popolare viene indagata con un metodo scientifico, avva-
lendosi delle esperienze compiute in quegli anni dall’etnografia esotica e viene data rilevanza agli oggetti materiali
umili, d’uso quotidiano, anche se l’intento celebrativo è
sempre presente nei raccoglitori. Il lavoro compiuto da
Loria e i suoi collaboratori tra 1908 e il 1911 fu dunque
enorme e permise di avere una collezione unica, sia per
ricchezza che per consistenza, ancora oggi visibile all’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia di Roma (Museo delle Arti e Tradizioni) e patrimonio di tutti gli italiani.
Come già detto anche la Valle d’Aosta era stata toccata
dall’iniziativa, tuttavia bisogna dire che all’interno di
questa straordinaria raccolta di oggetti, la collezione valdostana rappresenta un’eccezione in quanto gli oggetti
valdostani presentati ed esposti nella mostra non erano
il frutto di un’unica raccolta come era avvenuto per la
maggioranza delle altre regioni italiane, ma erano il risultato di campagne di raccolta che si erano susseguite nel
tempo e, alcune di esse, negli anni precedenti il 1908, data
di inizio della raccolta del materiale per l’iniziativa in quasi tutte le altre regioni. Infatti, il primo nucleo di oggetti
della collezione valdostana fu raccolto nel lontano 1895 a
Courmayeur, Saint-Rhemy e dintorni da Elio Modigliani
(1860- 1932), celebre viaggiatore naturalista fiorentino,
nel suo unico soggiorno in Valle d’Aosta. Questa prima
serie di oggetti acquistati da Modigliani, poco più di un
centinaio, mostra in modo evidente il nuovo interesse degli studiosi dell’epoca per la cultura popolare che, dopo
aver studiato i popoli lontani, rivolgono la loro attenzione
alle popolazioni a loro più vicine, radunando collezioni di
oggetti semplici per sottolineare ciò che “di più primitivo
e più caratteristico” persiste nella cultura del popolo. Modigliani era stato tra i primi viaggiatori a interessarsi ai
popoli primitivi che incontrava e a descriverli con genuino
interesse. Fu forse questo interesse, unito al fascino primitivo delle sculture lignee valdostane, a spingerlo a radunare quegli oggetti in Valle d’Aosta. Qualunque sia stata
la motivazione dello studioso il suo amore per la cultura
primitiva locale non durò a lungo e ben presto tornò alla
studio dei popoli primitivi e lontani. Nel 1903 regalò la sua
collezione ad un antropologo, Aldobrandini Mochi (18741931) affinché incrementasse le collezioni del primo museo etnografico italiano in corso di allestimento a Firenze.
Già da questo primo racconto sulla formazione della collezione valdostana ci si rende conto della particolarità
— 62 —
A U G U S T A
della raccolta, non solo perché più antica delle collezioni
delle altre regioni presenti alla mostra del 1911, ma soprattutto perché realizzata da uno studioso, certamente
condizionato dalle idee positiviste ed evoluzioniste dell’epoca, ma di grande esperienza sia nel reperimento di oggetti di cultura materiale sia nell’approccio alle culture
subalterne. Non dimentichiamo che insieme ad altri personaggi del tempo,
Elio Modigliani ha posto
le basi dell’antropologia
italiana.
Il carattere unico della
collezione continua ad
emergere anche nella
seconda campagna di
raccolta di oggetti valdostani. Questa volta l’area
interessata è quella walser e nello specifico Gressoney-Saint-Jean e Gressoney-La Trinité. Siamo
nel 1906 e chi si occupa
della raccolta è ancora
una volta uno studioso di
grande competenza Lamberto Loria. Loria lavora
per conto del museo etnografico fiorentino e sale
a Gressoney-Saint-Jean,
dove soggiorna per tre
settimane (agosto 1906)
su indicazione di un amico Mario Sarfatti, docente di diritto comparato
dell’Università di Torino
e assiduo frequentatore
della località ai piedi del
Rosa.
Non risulta che Loria sia
riuscito a realizzare personalmente nessun’altra
raccolta di materiale sul
territorio italiano, ma abbia dovuto poi ricorrere a collaboratori locali, dunque la
raccolta gressonara è a tutti gli effetti un unicum. Inoltre per questi oggetti noi possediamo oltre agli inventari
del MAT (Museo delle Arti e Tradizioni) i quaderni manoscritti di Loria, pieni di indicazioni preziose sul nome
locale degli oggetti, sul loro uso, sui donatori e su chi
ha venduto gli oggetti e quando. Tra coloro che avevano
venduto o donato gli oggetti compaiono i nomi di Adolfo Tedaldi Fores, Burcardo Lateltin, Louis Lercoz e il
sindaco Antonio De La Pierre, ma Loria ci informa che
molti erano stati i donatori anonimi. Vista la brevità del
soggiorno e il suo rigore scientifico nel raccogliere in
modo metodico al fine di non dimenticare nulla di quanto
potesse esservi di interessante Loria limitò la raccolta di
oggetti alle sole comunità gressonare, sebbene la maggioranza degli oggetti provenga da Gressoney-Saint-Jean.
Il fatto che la maggioranza degli oggetti provenissero da
quest’ultima località non era agli occhi di Loria un problema in quanto tra le due comunità non vi era a suo parere
nessuna differenza etnografica, così seguendo i
suoi principi di raccolta,
cioè dare importanza alle
cose più umili e comuni,
radunò circa un migliaio
di oggetti di diversa natura. Loria raccolse stoviglie (piatti e cucchiai
di legno, ciotole, saliere,
pestelli), mobili (un letto, una stufa, seggiole,
armadi, cassoni dipinti, panche, culle), slitte,
campanacci,
elementi
d’abbigliamento. Questi
oggetti, insieme ad altri utensili e strumenti
utilizzati dalle comunità
gressonare per cardare
la lana e il lino, per tessere, per lavorare il latte,
per lavorare i campi o per
allevare il bestiame, si
possono ancora vedere
all’Istituto Centrale per
la Demoetnoantropologia
di Roma. Dal carteggio
successivo appare chiaro
che, nonostante il numero di oggetti recuperati,
Loria non considerava
la collezione gressonara
esaustiva e completa perciò negli anni successivi,
in cui ebbe l’incarico di
realizzare la mostra del
1911, cercò di completarla dando precise indicazioni sugli oggetti da recuperare
sul territorio ai due collaboratori che lavoravano per lui
a Gressoney, Mario Sarfatti ed Elisa Borgogna Poma.
Quest’ultima non fu solo incaricata da Loria di recuperare il materiale mancante alla collezione gressonara
ma anche di recarsi nell’altra comunità walser, Issime, a
raccogliere degli oggetti per l’esposizione del 1911, purtroppo ciò non avvenne in quanto la signora Borgogna
Poma dichiarò d’essere stata troppo impegnata a seguire
i lavori della sua villa a Gressoney. Questa fu l’unica pecca
sul lavoro di raccolta della signora, infatti lo sforzo e la
dedizione dati da lei e da Mario Sarfatti furono notevoli e
grazie a loro la raccolta fu incrementata.
— 63 —
A U G U S T A
La cultura walser va a scuola:
Esperimenti di insegnamento
nella scuola primaria
Anna Maria Pioletti1
Q
uando mi proposero di scrivere un articolo
per la rivista Augusta decisi come geografo
culturale di soffermarmi su alcuni aspetti
della cultura della comunità walser della
valle del Lys. L’occasione mi veniva fornita
dalla tesi di una mia laureanda che stava conducendo la
ricerca per la sua tesi nell’ambito dell’insegnamento della
lingua e della cultura walser nella scuola primaria.
Le Alpi sono da sempre un mélange di popoli e culture
diverse. Culture che si sono conservate facendo assumere alle Alpi le caratteristiche di un mosaico culturale ed
economico. Ci sono tuttavia alcuni elementi che permettono di parlare di un’identità alpina in cui le Alpi giocano
uno specifico ruolo in Europa. Le Alpi sono uno spazio
unitario, con una propria identità specifica che va al di là
dei confini nazionali (Fondazione Angelini, 1998). Quindi
non una barriera ma una cerniera verso l’Europa continentale. Nell’affrontare il tema della valle del Lys come
area culturale ho ripreso alcune riflessioni condotte alcuni anni fa da Costantino Caldo nella sua opera La città globale che segna il punto di svolta nell’analisi dell’apporto
della cultura nella lettura del territorio. Un territorio che
diventa prodotto della cultura e quindi prodotto sociale
(Caldo, 1984).
Per affrontare il tema ho deciso di sfogliare la rivista e
ho letteralmente riportato alla luce un articolo comparso
sulle sue pagine del lontano 1971 in cui veniva analizzato
il valore della comunità linguistica. Come affermava Guy
Héraud, autore del saggio, la lingua è una delle dimensioni dello spirito e ogni lingua apre una porta su un universo culturale del tutto originale. Ogni comunità linguistica ha una sua vita culturale, crea un universo spirituale
e favorisce il suo sviluppo. Ogni comunità si identifica
quindi con il luogo di appartenenza attraverso la propria
cultura che diventa l’emblema della propria identità. Tale
identità aiuta a delimitare il territorio definendone i limiti
geografici. La cultura in questa accezione è qualcosa di
dinamico che contribuisce alla coesione della comunità.
Quando si parla di cultura occorre considerare che essa
insiste su uno spazio fisico che diventa spazio culturale.
Esso è costituito dall’insieme dei tratti culturali materiali
e immateriali di un gruppo su un territorio. La differenzia-
zione dei caratteri culturali rappresenta la forza della geografia culturale che ha caratterizzato la prima metà del
XX secolo con figure come quella di Richard Hartshorne
che hanno sostenuto una posizione di lettura delle peculiarità individuali di ciascuna regione secondo quella
che possiamo definire una lettura di tipo idiografico in
cui appaiono le stratificazioni orizzontali della cultura. Intendiamo con stratificazioni orizzontali le diversificazioni
territoriali che si vanno a contrapporre alle stratificazioni
interne a un gruppo e ordinate secondo una gerarchia.
Ogni comunità ha da sempre contribuito a dare risposte diversificate in relazione all’ambiente poiché esse
dipendono dalla stratificazione sociale. Se consideriamo
l’analisi di Ferdinand Tönnies, la comunità è formata da
persone unite da legami naturali i cui obiettivi comuni trascendono gli interessi particolari di ogni individuo. Essa
è un tutto organico al cui interno la vita e gli interessi
di ogni membro si identificano con la vita e gli interessi
dell’insieme.
Il patrimonio materiale, rappresentato in particolare dalle
abitazioni, propone una difficile definizione dell’area di
delimitazione dell’uso del legno da quella dell’uso della
pietra. Enrico Rizzi ha sottolineato come la diversità di
aspetti assunti dall’architettura walser conferma la grande adattabilità della loro cultura alle mutevoli condizioni
ambientali (Rizzi, 1992). Come evidenziato da Andrea
Barghini la scelta dell’uso del legno non è soltanto dipendente dalla presenza di legno nelle zone di residenza
ma deriva alla influenza di elementi etnici d’Oltralpe dal
Vallese svizzero. Una colonizzazione alemanna nell’area
alpina occidentale italiana che ha lasciato le proprie impronte nella scelta architettonica come elemento dominante come hanno dimostrato i primi studi condotti da
geografi (Gambi, 1986). Il geografo Lucio Gambi aveva
sottolineato come per comprendere il significato dell’architettura walser fosse necessario integrare il punto di
vista economico e ambientale su un piano storico con una
matura riflessione intorno alle eredità culturali. Infatti,
ogni cultura porta con sè negli spostamenti soluzioni che
vengono modificate per rispondere alle nuove situazioni
funzionali ma che sono a pieno diritto parte della propria
comune eredità culturale.
Professore associato di Geografia economico-politica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università della Valle
d’Aosta-Université de la Vallée d’Aoste.
1
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A U G U S T A
Villaggio di Chröiz (Vallone di San Grato) (Foto Musso)
Il modello di insediamento a mosaico ha visto il gruppo
germanofono e quello franco-provenzale vivere in spazi
limitrofi trovando forme di coesistenza e di contatto che
potremmo definire fluide e dinamiche che nel tempo hanno portato alla creazione di aree linguistiche distinte. Del
resto come afferma Luigi Zanzi le migrazioni stagionali
verso il Delfinato, la Savoia e la Svizzera Romanda di muratori e scalpellini ha favorito la commistione culturale
visibile nei caratteri architettonici delle abitazioni.
La cultura walser rappresenta un interessante oggetto di
ricerca sia per la componente materiale sia per quella immateriale che vengono esaminati nelle loro implicazioni
e nella loro formazione all’interno della scuola primaria
che sarà oggetto della seconda parte della nostra trattazione.
Bibliografia
Barghini A., « Territorio, architettura, gruppi etnici nella
media valle del Lys : il caso di Issime e Gaby », in Augusta, 1998, pp. 2-11
Caldo C., La città globale, Palermo, Palumbo, 1984
FONDAZIONE G. ANGELINI – CENTRO STUDI SUL-
LA MONTAGNA, Mes Alpes à mois. Civiltà storiche e comunità culturali delle Alpi (a cura di E. Cason Angelici),
Regione Veneto, 1998
Gambi L., “Riflessioni metodologiche sullo studio dell’abitazione rurale”, in E. Rizzi (a cura di), La casa rurale
negli insediamenti walser, Atti della terza giornata internazionale di Studi Walser (Alagna Valsesia, 15 giugno
1985), Anzola d’Ossola, Fondazione Enrico Monti, 1986,
pp. 105-112
Héraud G., “Valeur de la Communauté linguistique”, Augusta, primavera 1971, pp. 5-8
Pioletti A. M., “La regione alpina occidentale: l’identità
supera le barriere naturali”, Le Alpi occidentali da margine a cerniera Atti 41° Convegno Nazionale A.I.I.G., Torino, Libreria Cortina, 1999, pp. 327-341
Pioletti A. M., “L’identità alpina occidentale. Un elemento geo-culturale di cambiamento”, Appunti di politica territoriale, n. 8, 2000, pp. 93-106
Pioletti A. M., “La montagna: un paesaggio culturale con
lavori in corso”, in G. Andreotti e S. Salgaro (a cura di),
Geografia culturale. Idee ed esperienze, Trento Artimedia,
2001, pp. 501-520
Rizzi E., Storia dei Walser, Anzola d’Ossola, Fondazione
Enrico Monti, 1992
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A U G U S T A
Il fuso piantato
su una tomba del cimitero
Rolando Balestroni
Versione di Vittorio Raimondo Balestroni1 – Kampel, 03/08/2002
La sera quando si trovavano, ora a casa di uno, ora a casa
dell’altro, a fare veglia (a fa vègia) utilizzavano il tempo
per fare lavori come ad esempio filare la lana.
Una sera si parlò della paura e ogni uno disse la sua opinione. Una ragazza disse : “Io non ho paura di nulla, con
la lanterna vado da qui a “casa del diavolo”, …..vado di
giorno o di notte senza problemi di sorta. A tutte quelle
storie di streghe (i striji) che raccontate non ci credo”.
Di fronte a tanta sicurezza iniziarono i commenti dei presenti che, alla fine, sfociarono nella richiesta di una prova
di coraggio.
“Ti saresi buna da andè al cimiteri a piantè un
füs su una tumba? – Saresti capace di andare al ci-
Campello Monti (Foto R. Balestroni)
Questa versione, insieme alle altre leggende di Campello, è stata raccolta da Michele Musso a Campello Monti la sera del 3
agosto del 2002, in occasione di uno dei convegni annuali organizzati dal Centro studi di cultura walser di Campello.
1
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A U G U S T A
mitero a piantare un fuso su una tomba?”. “Oh chissà
perché non dovrei essere capace – Oh, par piantè
un füs su una tumba tuci in bugn” (tutti sono capaci).
Uscita di casa si avvia verso il cimitero e il fuso piantato
sarebbe stato recuperato l’indomani quale prova del coraggio manifestato.
Entrata al cimitero, si avvicina ad una tomba e si abbassa
per piantare il fuso, ma nel farlo infilza anche la gonna,
(l’an fricà la patèla, la rasa), e quando si rialza il fuso
trattiene la gonna. Credendo di essere trattenuta da qualche…anima, viene sopraffatta dal terrore e la trovano la
mattina successiva morta stecchita.
Versione di Magda Tensi - Intra, 16/02/2003
L’Alfredo del Valdo (Guglielminetti Alfredo – ‘l Fredo
dal Vaud) nelle sere di veglia, era famoso per raccontare storie di spiriti e di incantesimi. Una sera però ne
raccontò una dove gli spiriti non erano protagonisti solo
in parte. Erano molte le narrazioni ispirate ai cimiteri, ai
morti che facevano a tutti una certa impressione. Ecco
cosa di disse :
In una sera di veglia c’era un bel gruppo di persone e
si venne a parlare dei morti e dei cimiteri. Molte donne
dissero che di notte non sarebbero mai andate al cimitero e neppure nei paraggi perché, dicevano, spesso si
vedevano fiammelle che vagavano sopra le tombe e che
dovevano certamente essere le anime dei morti che non
trovavano pace.
Una ragazza fra tutte, l’Angiolina, disse che lei non aveva
nessuna paura e che sarebbe andata al cimitero a qualunque ora del giorno e della notte.
Le compagne e tutti i presenti la prendevano in giro perché non credevano alle sue parole.
Allora l’Angiolina si sentì in dovere di insistere su quanto
aveva detto e ne venne fuori una gran discussione.
Ad un certo momento l’Angiolina disse : “se volete vado
anche subito e per farvi vedere che sono proprio andata,
pianterò il mio fuso ai piedi di una tomba”.
Tutti accettarono la proposta, anche se le anziane consigliarono di non fare certe scommesse.
L’Angiolina si alzò, prese il fuso e corse verso il cimitero.
Arrivò rapidamente, si inginocchiò davanti a una tomba
e con forza piantò il fuso per terra. Poi rapidamente cercò di alzarsi ma non riuscì, si sentiva tirata per terra e
non poté alzarsi. Allora fu presa da una tremenda paura
e svenne.
Dopo qualche tempo alcuni presenti alla veglia, non vedendola tornare, andarono a cercarla al cimitero e la tro-
varono stesa a terra morta.
Nel piantare il fuso per terra l’Angiolina aveva preso dentro il grembiule e per questo non poteva alzarsi. Il grande
spavento che la colse le fece scoppiare il cuore.
La ruca e ‘l füs
Versione di Vittorio Raimondo Balestroni
La seira quand la gent as trueva ura a ca ‘d l’un, ura ca ‘d
l’aut a fa vègia. Intant che ganaseivu, al fuuni filevu la lana
cum la ruca e ‘l füs.
Una seira parlevu ‘d la puira e na mata la dis: “mi go nuta
puira da vösi bali che cuntè, mi cum la moja lanterna ai
vac, da dì e du nöc, fin a cà dal diavul; mi ai crod nuta ai
striji”.
Ailura vun al dis: “ti che ti sei ausì curagiusa, ti saresst
buna da ‘ndè al cimiteri a piantè un füs su ‘na tumba?” E
lei “ah pitarca! Par piantè un füs su una tumba ag va nuta
tant curac!”.
La mata s’am viara; adman matin la gent sarèsu andà a
vögar se ‘l füs l’era piantà.
Dint al cimiteri la va a pröva na tumba, as quàta e la pianta
al füs.
Quand la fa par ste’n pei la sent tirà la ràsa: la cröt ch’ al
mört al vol strupela ‘n la tumba….
….al dì a drè van giù a vögar e trovu la mata morta cum
al füs fricà ‘n la rasa.
Versione di Magda Tensi
‘al Fredo dal Vaud l’era cugnusù parchè al cunteva stori
da striji e ‘d la “fisica”.
Una seira la cünta una storia ad cimiteri e mört e la gent
gheiva puira.
Al fuuni dieivu che saresu mai e pöi mai andè ‘n tal cimiteri, ne a pröva, du nöc, parquè as vigheivu lumeit sura al
tumbi (ieru animi che truevu nuta paas).
L’Angiulina la dieiva che gheva nuta puira, ma niun al credeva: “dam cià un füs che ai vac giù mi a piantelu in tal
cimiteri”.
Al fuuni pusè vegi a diuevu: fè nuta si robi ‘nlò, spò nuta
scarzè i mört.
L’Angiulina la riva ‘n prèsa, ‘n prèsa, la pianta ‘l füs e ‘n
prèsa la cerca d’auzès ma la pol nuta.
Dre un po’, la gent, vist ch’la gneva nuta sü, van a cerchela al cimiteri e la trovu morta.
L’Angiulina ‘ntal piantè al füs l’eiva ciapà dint la scusal e
par vös mutiv la peiva nuta auzes.
Par la gran puira a gheva sciupà al cör.
o
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A U G U S T A
Gressoney-La-Trinité: Osservatorio
Meteorologico di d’Eyola (m 1850 s.l.m.)
Willy Monterin
N
elle tabelle comparative vengono riportati i valori delle temperature e delle precipitazioni degli anni 20092010, l’altezza massima raggiunta dal manto nevoso alle varie quote e la variazione frontale del ghiacciaio
del Lys.
1) Temperature medie in °C
all’Osser vatorio Meteorologico di D’Ejola (m 1850
s.l.m.)
29 agosto 2010. Ghiacciaio del Lys (fronte) (Foto Willy Monterin)
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A U G U S T A
2)Precipitazioni
in
mm. di neve fusa e
pioggia all’Osser vatorio Meteorologico
di D’Ejola ( m 1850
s.l.m.)
3)Precipitazioni
nevose in cm.
all’Osser vatorio Meteorologico di D’Ejola (m 1850
s.l.m.)
4)Precipitazioni
nevose in cm.
alla Stazione
Pluviometrica
DEVAL del Lago Gabiet (m
2340 s.l.m.)
5) Altezza massima del manto nevoso:
D’Ejola (m 1850 s.l.m.) cm 110 il 26 febbraio 2010
Gabiet (m 2340 s.l.m.) cm 142 il 14 maggio 2010
6) Variazioni annuali della fronte glaciale del Ghiacciaio del Lys (valori in metri).
2009 2010
Ghiacciaio del Lys (quota della fronte m 2355)
-23
-19
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A U G U S T A
Gottsch ergans
vür d’lljaubu sieli
1
Dio lo applichi ai defunti
Imelda Ronco Hantsch
Z
’Éischeme ischt dar brouch z’geen etwas vür
d’lljaubu sieli: wénn ischt an tuat zam hous,
geen etwas z’tringhje deene das goan gian da
vargeb, machun z’kaffi z’mitternacht wém geit
wache dam tuate; zéiti hinner hentsch keen
d’woat am oarme (allz was ischt kannhen um pleiten as
lljöitji vam hopt unz an d’vüss). Dan tag dar süpulturu
hentsch keen z’vörmiss dan triegere, da sinnhere, dam
gschlecht, da nachpuru un vür d’béischtu, dan dikhje
réis ol d’bruatsüppu zam ümmis. Éttlljigi hen keen an
almusnu; as poar gruassi chéssini chéschtenjuchuchi ol
süscht as sövvil bruat un chiesch.
A
Issime si usa offrire qualcosa in suffragio
dei defunti: in occasione di un decesso la
famiglia offre una bevanda a coloro che le
rendono visita, come pure il caffè a mezzanotte per quelli che vegliano la salma; tempi addietro si usava regalare ad una persona povera un
vestito completo che era appartenuto al defunto. Il giorno
del funerale si offriva una colazione ai portatori, ai cantori, ai parenti ed ai vicini e a mezzogiorno riso al latte o
zuppa di pane per i parenti più stretti. C’è chi preparava
delle grosse caldaie di minestra di castagne (ben condita
con latte, burro e riso, naturalmente), oppure una certa
(Foto E. Ronco)
1
Così si usava dire quando si riceveva qualcosa.
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A U G U S T A
quantità di pane e formaggio
Éttlljig fammillji hen noch dar
da regalare a tutti.
brouch z’bettun z’tscheppelet
È ancora in uso, in alcune
zam hous, vür dröi moal noa
famiglie, pregare la corona
das z’tuata ischt vargroabenz
in casa per tre sere dopo la
un auch dé geen etwas
sepoltura e anche in questa
z’essen un z’tringhje vür
occasione si offrono cibi e bed’lljaubu sieli.
vande.
D’houslljöit hen trounit:
Si usava portare il lutto: i fadŝchi pleit i schwoarzem, nöit
miliari si vestivano di nero,
gmachut gruassi hofziti noch
non facevano grandi banvirtaga, nöit gleit a di tringji
chetti nuziali né grandi feste
da chüne noch da schmalvu…
e neppure mettevano i camWa d’lljaubu sieli het mu bsint
panacci a bovine e bestiame
génh, nöit nuan wénn ischt
minuto…
krat gsinh antwiar tuat; mu
Ma i defunti si ricordavano
het kee chorru métzki, noa
sempre, non solo quando in
heen gwustut, dam énkara,
casa c’era un decesso; in occadan oarme, dam gschlecht.
sione della macellazione anDéi za chüne, ievun voare
nuale (di solito verso Natale)
ouf z’beerg, hen troan an
si regalava un assaggio di satropf milch deene das ra
lumi al parroco, ai poveri, ai
nöit hen khee un wénn ischt
parenti.
kannhen übbil as tschemmi
Chi aveva le mucche, prima di
ischt gsinh dar brouch z’geen
traslocare al maggengo, portaawek vleisch. Ich hen khüert
va un po’ di latte a coloro che
zélljen das…
non ne avevano e quando si
Aswénn, zar heilugu, an gotte
doveva macellare un animale
het dŝchi gvunnen einigi
a causa di un incidente si usaz’beerg, un ischt mu gcheen
va regalare della carne. Ho
in z’hopt: “Ganh wissu ol
sentito raccontare…
z’séji koarjit, wi dŝch’hen
Tempo fa un buon uomo si
gseit, zar Heilugu d’lljaubu
trovava da solo al maggengo
sieli cheemi zam hous”, un
la sera di Ognissanti quando
in d’selbu münnutu hedder
gli venne in mente: “Chissà se
khüert an gruasse chlapf von
sarà vero, come raccontavano
as tischillji, ischt aschtrikht,
Croce sulla porta di una stalla del villaggio di Bourinnes.
i vecchi, che in questo giorno
kannhe lugu van béi ol wieri
(Foto Musso)
i defunti verrebbero a casa”, e
etwas gvalle nidder, wa dar het
nello stesso momento sentì un colpo assordante su di un
nöit gsian khés söirisch un das het mu keen z’müssuru:
tavolino; spaventato si avvicinò per controllare se fosse
“D’oaltu hen gseit z’nöit loan z’hous oan wasser nachtsch,
caduto qualcosa, ma non vide nulla; questo fatto lo fece
antweegen d’lljaubu sieli hettidŝchi muan heen manhal,
ricordare: “I vecchi dicevano che non bisogna lasciare la
wa dé nöit nuan zar Heilugu cheentsch zam hous” hedder
cucina senza acqua2 la notte, in caso i defunti ne avessero
gseit inter im.
avuto bisogno, ma allora non solo a Ognissanti vengono a
Ievun lécken ous d’chü, séjis um voare ol um goan hüte,
casa” disse fra sé.
het mu bettut vür di tuatu, d’chü wénn dŝchi hen khüert
Inoltre, prima di far uscire la mandria, sia per la tranbettu hen aschuan gwisst z’sortru…a voart, im Hubbal,
sumanza come per il pascolo, si pregava per i defunti, le
hentsch bettut z’tscheppelet wénn dŝchi sén gsinh
mucche quando sentivano pregare già sapevano che era
z’wacht, un d’chü hen dŝchi gleit an brammuru, dŝchi
l’ora di uscire…una volta, al Hubbal, mentre in una veglia
hen dénkht z’goan z’weidu!
si pregava la corona, le mucche si misero a muggire, credeHet dŝchi areit wéilu voart z’passrun in an ketschu,
vano fosse l’ora di andare al pascolo!
z’beerg, woa mu nöit ischt gsinh z’housch un dé auch
Succedeva talvolta di passare in una casa al maggengo
het mu gmachut kaffi un bettut vür d’lljaubu sieli…sicher
dove non si abitava e anche lì si usava fare il caffè e predéi mien nündŝch génh helfe, pheen gséllschaft un geen
gare per i defunti…è vero, loro possono aiutarci, tenerci
mut…
compagnia e farci coraggio…
Antweegen desch muss mu dŝchu bsinne mit tun z’seen
Per questo motivo bisogna ricordarli con s. messe, preghiere
meschi, bettu un etwas geen wém het manhal. Das ischt
e opere di carità per i bisognosi. Questa è una bella usanza!
a schienen brouch!
2
A quel tempo l’acqua in casa non c’era.
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A U G U S T A
Oratorio dei Schützersch
al villaggio di Gran Pra
Michele Musso
L’
oratorio di Gran Pra sorge nel villaggio omonimo, fu eretto da Jean
Jacques Busso Schützersch nel 1875,
come ex-voto, nel cortile (hof) della
casa di sua proprietà. Nacque a Rollie
il 23 novembre 1814, era figlio di Jean Jacques e Marie
Antoinette Consol. La famiglia viveva nella casa avita dei
Busso Schützersch a Rollie inferiore, nei pressi dell’antico mulino lungo il torrente Rickurtbach che la famiglia
Busso Schützersch gestiva fin dal XV secolo, di cui oggi
rimango evidenti tracce. Jean Jacques edificò nel 1863
(millesimo sul trave di colmo) la propria abitazione vicina a quella della famiglia, mentre il fratello Jean Pierre
(*1812†1882) ereditò la casa dei Schützersch, ricostruita
nel 1825.
Jean Jacques si sposò tre volte, la prima volta con Marie
Antoinette Victorie Christille, il 24 novembre 1845. Dal
matrimonio nacque una figlia Marie Antoinette Victorie,
che morirà a trentuno anni nel 1880 nella casa di Rollie
inferiore. Rimasto vedovo si risposò con Marie Antoinette Ronco, il 13 aprile 1852. Dal secondo matrimonio
nacquero due figli, Jacques Busso (*1855) e Marie Christine Bernardine (*1862†1920), nonna materna degli attuali Busso Lixandrisch, che viveva al Gran Pra. Rimase
vedovo una seconda volta e si risposò, nel 1877, con Marie Louise Emilie Christille (*1842†1925).
La tradizione orale racconta che le tre case di Gran Pra
molto simili fra loro, furono costruite da tre fratelli. Una
delle tre, oggi di proprietà Ronco (Pétéretsch), reca ancora sulla trave maestra la data 1788, le iniziali JJR FF (Jean
Jacques Ronco? Fecit fieri) e il nodo savoia. Se così fosse
Jean Jacques potrebbe avere avuto in eredità la casa di
Gran Pra dalla seconda moglie, Marie Antoinette Ronco,
casa in cui nacquero i loro due figli.
Jean Jacques ereditò dalla madre, fra gli altri, un prato di
monte, oggi chiamato ‘Schützersch schelbit,’ nel vallone
di Tourrison (sui monti alla dx. orografica del Vallone,
fra l’alpeggio di Tourrison e Krédémì) e la possibilità di
ritirare il fieno selvatico, raccolto in quell’appezzamento,
nel piccolo stadel all’alpeggio di Tourrison sup.
Morì a Rollie il 1 settembre del 1891.
(Informazioni raccolte da Onore†, Vittoria e Laura Bus-
so Lixandrisch pronipoti di Jean Jacques, e integrate con
ricerche d’archivio).
Sulla cornice lignea esterna alla nicchia dell’oratorio si
legge la data 1875 e la scritta “In nomine Jesu omne
genu flectatur” tratta dalla Lettera di S. Paolo Apostolo ai Filippesi (Fil 2, 10-11): “In nómine Iesu omne genu
flectátur, caeléstium, terréstrium et infernórum; et omnis
língua confiteátur quia Dóminus Iesus Christus in glória
est Dei Patris” Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.
La nicchia interna conteneva una tela raffigurante la Madonna Nera d’Oropa, deterioratasi è stata sostituita con
una tavola più recente.
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