Pagine 01 - 72 (2011 completo) - Associazione Augusta
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Augusta Sommario 2011 EMILIANO JANUTOLO BARLET Una scuola per due valli. Le scuole tecniche della Valle Cervo e i loro allievi della Valle del Lys: storia, testimonianze e relazioni. 2 CESARE RAVAZZI Tremila anni di storia del clima in Valle d’Aosta. La registrazione dell’anfiteatro del ghiacciaio del Lys. 16 DONATELLA MARTINET Tourrison tra prati e pascoli. 20 MICHELE MUSSO Il toponimo Ruassi nel Vallone di San Grato: traccia linguistica e d’uso del suolo. 27 BARBARA RONCO Margitisch con introduzione di Elena Landi «Tutti italiani?», wir hen antcheede: «Sì!». «Tutti italiani?», noi abbiamo risposto: «Sì!». 34 Membres Michele Musso Luigi Busso BATTISTA BECCARIA Processo alla strega Yona Ronco di Issime (1461). 39 Photo de couverture Issime, 6 gennaio 2011 Villaggio del Méttelti, Vallone di San Grato. Sullo sfondo il monte chiamato ‘dan Torre‘ sopra l’alpeggio di Éischemblattu. Foto di Sebastiano Ronco. JOLANDA STÉVENIN La cappella di Chincheré. 51 MARCO ANGSTER Scrivere tra i walser. Perché una nuova grafia? 55 La photo de la quatrième de couverture, Issime, 16 gennaio 2011 Capre al pascolo verso il Vallone di Tourrison lungo la mulattiera chiamata ‘leiden Tritt‘ nei pressi di Pera Pioana. Sullo sfondo nascosta fra gli alberi la cima Wéiss Wéib. Foto di Sebastiano Ronco. VITTORIO DE LA PIERRE Prima ascensione nel massiccio del Monte Rosa (1778). 59 TIZIANA FRAGNO La collezione gressonara di Loria in occasione del cinquantenario dell’Unità d’Italia. 62 ANNA MARIA PIOLETTI La cultura walser va a scuola: esperimenti di insegnamento nella scuola primaria. 64 ROLANDO BALESTRONI Il fuso piantato su una tomba del cimitero. 66 WILLY MONTERIN Gressoney-La-Trinité Osservatorio meteorologico di D’Ejola (m 1850 s.l.m.). 68 IMELDA RONCO Hantsch Gottsch ergans vür d’lljaubu sieli. Dio lo applichi ai defunti. 70 COMITé de RÉDACTION Président Ugo Busso Directeur responsable Elena Landi Coordinateur de rédaction Michele Musso Autres photos: Emiliano Janutolo Barlet, Cesare Ravazzi, Donatella Martinet, Michele Musso, Sara Ronco, Sebastiano Ronco, Edmondo Ronco†, Vittorio De La Pierre, Rolando Balestroni, Willy Monterin. Tous droits réservés pour ce qui concerne les articles et les photos. Autorizzazione Tribunale di Aosta n° 18 del 22-05-2007 Augusta: Rivista annuale di storia, lingua e cultura alpina Proprietario ed editore: Associazione Augusta www.augustaissime.it - [email protected] Amministrazione e Redazione: loc. Capoluogo, 2 - 11020 - Issime (Ao) Michele Musso Oratorio dei Schützersch al villaggio di Gran Pra. 72 Stampa: Tipografia Valdostana, C.so P. Lorenzo, 5 - 11100 Aosta — 1 — A U G U S T A Una scuola per due valli Le scuole tecniche della Valle Cervo e i loro allievi della Valle del Lys: storia, testimonianze e relazioni Emiliano Janutolo Barlet Introduzione M i è rimasto ben vivo un ricordo: stavo salendo lungo la mulattiera che dal lago della Vecchia conduce al Colle omonimo, l’aria frizzante, il cielo azzurro, i colori delle pendici e gli anfratti della montagna si alternavano tra zone in ombra, bluastre, con altre dorate dal primo sole; poi, giungendo al colle che si apriva come un grande U sull’incognito, accelero il passo e scopro un altro panorama, un altro mondo di valloni, cime, ghiacciai e sul fondo una lunga striscia verde di prati disseminati di case. Era il mio primo incontro con l’altra valle, quella del Lys, che da allora mi ha sempre affascinato; ciò che si collega con questo luogo mi interessa e la scoperta della presenza di allievi valdostani in Valle Cervo è stato il punto di partenza di questa ricerca. Il 2011 presenta una serie di anniversari che sono singolari e che suscitano curiosità : oltre ai 150 anni della nascita della nazione italiana (non estranea al nostro ar- gomento), ricorrono anche i 150 anni della fondazione della Scuola Tecnica di Campiglia Cervo, inoltre si ricordano i 100 anni della prima presenza di allievi valdostani: Freppaz Riccardo, Jaccond Giulio, Tousco Luigi e Tousco Emilio; infine, i 50 anni della presenza dell’ultimo allievo valdostano nella Scuola di Rosazza, che purtroppo si avviava a chiudere. Queste ricorrenze prestano lo spunto per ripercorrere gli eventi storici ed indicare quali condizioni stimolarono prima e permisero poi, la costituzione di due scuole tecniche professionali per le costruzioni edili e stradali. Tali realtà marcarono e rivoluzionarono la vita sociale della Alta Valle Cervo, promuovendo la formazione di tecnici idonei a lavorare e anche a dirigere i cantieri delle nuove infrastrutture italiane (oltre che all’estero); la loro affermazione professionale e, di riflesso, il miglioramento della loro situazione economica contribuì, unitamente al successo delle imprese edili valligiane, a sviluppare una certa agiatezza. La validità delle scuole e la fama che ne conseguiva stimolarono così l’iscrizione di allievi anche esterni alla valle, biellesi delle valli vicine, 1. Alta Valle Cervo vista dal Poggio Bruera: sull’asse della valle in primo piano il campanile di Campiglia Cervo, segue l’abitato di Rosazza e in fondo Piedicavallo; alla sinistra il Santuario di San Giovanni; sullo sfondo le montagne al confine valdostano. — 2 — A U G U S T A poi anche canavesani, vercellesi e valsesiani, e non ultimi una sessantina di valdostani. Ad alcune di queste persone mi sono rivolto per conoscere quale è stata la loro storia lavorativa e comprendere se la scuola ha inciso sul loro futuro e quali opportunità ha offerto loro. Le premesse storiche alla formazione delle scuole in Valle Cervo I valichi verso la valle del Lys e la Valsesia e le vie pedonali, in quota verso le aree limitrofe biellesi, nonché lungo l’asse centrale della valle, favorirono il popolamento del territorio, a partire almeno dall’alto medioevo, di genti di origine eterogenea, probabilmente anche di walser e franco-provenzali valdostani, attratte anche dall’importante mercato di Andorno fin dal 1200, essendo per loro il più vicino o il più comodo per gli scambi e la vendita dei loro prodotti. Lo sfruttamento dei pascoli alpini, del legname dei boschi utilizzato per le carbonaie, e specialmente delle cave di sienite, una roccia intrusiva simile al granito e ottima per essere lavorata, o di gneiss e micascisti utili alle costruzioni, spinse un numero crescente di persone a scegliere di vivere in Alta Valle Cervo: erano già 2000 gli abitanti nel 1700, quando si formò la Comunità di Valle staccatasi da quella di Andorno, e ben 6000 alla fine del 1800, al momento della ”epoca d’oro” per le imprese valligiane operanti nel mondo intero. Un numero enorme per l’esiguità del territorio, solo 73 km quadrati, ma comprendente una considerevole aliquota di popolazione attiva maschile che da sempre doveva emigrare per esercitare il proprio mestiere, cioè contemporaneamente le due professioni di scalpellino e muratore della pietra, in grado quindi di preparare la pietra e poi di disporla in muratura, per costruire strade, forti e costruzioni edili. In effetti, la forte specializzazione della professione degli uomini nacque a seguito dell’esigenza di creare i terrazzamenti per lo sfruttamento del territorio e il tracciamento della viabilità necessaria ai collegamenti, in presenza di una buona pietra locale. Questo piccolo mondo è caratterizzato da un’originale identità culturale dovuta alle difficoltà ambientali montane unite alle esperienze accumulate nel vivere in contrade sconosciute e diverse per lingua, usi e costumi. Gli abitanti, detti “valit” cioè quelli della valle, la chiamano “La Bürsch”, un antico toponimo che assume il significato di piccola patria, il luogo dove rifugiarsi, la casa nel significato inglese di home. Una certa analogia esiste dunque con la Valle del Lys, sia per la professione che per la conseguente emigrazione. Una componente importante della forza lavoro si dedicava all’edilizia, a Issime come a Fontainemore e a Lillianes, in particolare erano conosciuti ed apprezzati i muratori di Gaby e a detta di alcuni, i migliori erano quelli di Niel, come d’altronde scrive Jolanda Stévenin: ”la mémoire collective affirme que les Gabistres ont toujours été maçons”. Quindi, in Valle Cervo anche se una parte degli uomini rimaneva a lavorare nelle cave, la parte maggiore emigrava: li troviamo già attivi nei grandi cantieri della Certosa di Pavia, del duomo di Milano, della cittadella di Torino. Nel 1585 un documento del Duca di Savoia riferiva che gli uomini “vanno a costruire et murare case per lo spazio di nove mesi all’anno”, parteciparono alla difesa delle terre sabaude, costruirono ponti e strade militari e fortificazioni a Bard, Exilles e Fenestrelle. In seguito, contribuirono alla realizzazione, sotto Napoleone, delle strade del Moncenisio e del Sempione. Durante la restaurazione sabauda, ritornarono a costruire nei forti di Bard e anche in Maurienne nei forti dell’Esseillon: queste grandi opere permisero un salto di qualità alle imprese valligiane ormai ben strutturate ed in grado di stipulare contratti di discreta importanza. L’avvento di uno stato nazionale moderno e la prospettiva di un futuro di grandiose infrastrutture viarie e ferroviarie esigevano però un miglioramento professionale delle maestranze. Sotto lo stimolo del conte Camillo Benso di Cavour e col sostegno di Quintino Sella, che si rendevano ben conto della mancanza di una istruzione tecnico-professionale intermedia idonea a creare anche la figura del tecnico moderno, sorse qui l’idea di creare ciò che fino ad allora mancava: una scuola di carattere tecnico-pratico. La fondazione della scuola A Campiglia Cervo nel 1861 alcuni valligiani posero le basi per la creazione di una scuola diurna che potesse fornire appunto quell’insegnamento a carattere tecnicopratico nel campo delle costruzioni edili e civili. Tale scuola era indirizzata a quei giovani che, nei mesi invernali di sospensione forzata del lavoro all’esterno dovuto al clima, volevano, con lo studio, intraprendere un cambio di attività: da scalpellino e muratore ad assistente edile e capocantiere e successivamente magari anche imprenditore. L’anno dopo si formalizzò la nascita della Società delle Scuole Tecniche che vedeva Presidente l’Ing. Alessandro Mazzuchetti e nel 1863 supportata da soci fondatori e sottoscrittori di quote societarie; anche i comuni versarono un contributo di sostegno che integrò quello del benefattore Cristiano Antonio Vanni, il quale già aveva contribuito alla realizzazione dell’edificio delle Scuole Elementari e che permisero l’ampliamento dello stesso fabbricato per ospitare la Scuola Tecnica Professionale (F.2a). Il terreno dato a disposizione dalla Parrocchia era quello dell’antico cimitero trasferito in altra sede nel 1853. Così nello stesso anno scolastico 1862-63 si aprì il Primo Corso con 38 allievi. A Rosazza nel 1869 fu fondata un’analoga Scuola Tecnica sotto forma di società, sostenuta con la sottoscrizione delle azioni anche da parte di Federico Rosazza, che ne divenne il Presidente; la sede rimase sempre ubicata nell’edificio comunale della Scuola Elementare di Rosazza (F.2b) e subito si iniziò l’attività didattica col nome di Scuole Tecniche professionali Sociali. — 3 — A U G U S T A La vita della scuola 2a. Le due realtà scolastiche di Campiglia e Rosazza, separate planimetricamente da pochi chilometri, concorrenti ma simili per programmi didattici e finalità, articolavano su cinque corsi la formazione degli allievi; si basavano su uno Statuto e su un Regolamento interno, più volte modificato e migliorato durante il secolo di attività delle scuole stesse. I programmi delle materie di insegnamento (F.3) nei primi anni privilegiavano la matematica, l’algebra e la geometria a cui seguivano i logaritmi e la trigonometria, necessari alla risoluzione dei problemi topografici. Per l’aspetto grafico si iniziava col disegno ornamentale e geometrico e su queste basi si Edifici sede delproseguiva con il disegno le Scuole Tecniarchitettonico, in seguito che Professionapoi con il disegno delle coli di Campiglia struzioni e topografico. La Cervo (a) e calligrafia del primo corso di Rosazza (b). era utile sia per il disegno che per redigere il computo metrico, la computisteria e la contabilità finanziaria e dei lavori. Lo studio delle costruzioni civili si completava con la statica utile per le macchine di cantiere, la voltimetria, le costruzioni stradali e ferroviarie, la resistenza dei materiali ed il cemento armato. Una parte delle lezioni era anche dedicata alle applicazioni pratiche, quali il tracciamento delle fondazioni di un edificio, l’uso degli strumenti topografici e lo studio di un progetto stradale e di un canale. I programmi, nel tempo, subirono delle variazioni con l’ampliamento delle materie insegnate inserendo ad esempio l’italiano ed anche l’inglese. Le lezioni si svolgevano d’inverno nel periodo d’interruzione dei lavori edili nei cantieri, dal 3 novembre al 31 marzo a Campiglia Cervo e dal 15 novembre al 15 marzo a Rosazza, tutti i giorni feriali, mattino e pomeriggio per sei ore giornaliere e pochissimi giorni di vacanza. Ogni anno a dicembre, febbraio e marzo veniva redatta una pagella dei voti, debitamente controfirmata dal genitore ed in chiusura l’esito finale; ai più meritevoli 2b. veniva assegnato un primo e secondo premio. Al termine del quinto corso l’allievo, se superava le prove speciali d’esame e quella finale, riceveva un Attestato di Licenza. A Rosazza, contemporaneamente alla Licenza, forse perché consci del fatto che la Licenza di una scuola privata non aveva l’ufficialità di un qualsiasi diploma o attestato rilasciato da un organo dello Stato, ci si faceva rilasciare — 4 — A U G U S T A Tabella del programma delle materie di insegnamento di Campiglia Cervo. 3. Attestato del conferimento del primo Premio e di una borsa di studio a Yon Franco, uno degli insegnanti della Scuola Tecnica di Gaby. f 4. dall’INAPLI un attestato di superamento degli esami del Corso biennale di idoneità al corso di qualificazione per mastri muratori e costruttori stradali, dopo aver precedentemente superato un corso triennale per muratori. Su proposta della Scuola gli allievi più meritevoli ricevevano un Premio unitamente ad una borsa di studio promossa anche da Enti Pubblici. Gli insegnanti erano spesso ex-allievi che, dopo una lunga esperienza lavorativa di cantiere a volte all’estero, rientravano in paese e continuavano la loro attività trasmettendo il loro sapere ai giovani; a volte erano geometri o ingegneri che insegnavano contemporaneamente alla loro attività lavorativa. L’evoluzione della scuola Le due scuole ottennero riconoscimenti e premi anche da Enti governativi e dalle giurie delle esposizioni e delle mostre didattiche a cui partecipavano, fino agli anni venti i successi portarono il numero degli allievi a superare costantemente il centinaio a Campiglia Cervo e cinquanta a Rosazza. Nella lunga storia delle scuole si contano a Campiglia Cervo in totale 10.000 iscritti sommando il numero degli allievi di tutti i corsi per tutti gli anni; a Rosazza, meno numerosi, sono comunque 3.300; coloro che ottennero la licenza finale furono ben 1600 a Campiglia Cervo e 500 a Rosazza. Gli allievi dell’Alta Valle provenienti da Rosazza, Montesinaro e Piedicavallo si iscrivevano a Rosazza (fino al 1906 queste tre borgate componevano il Comune di Piedica— 5 — A U G U S T A 5. Foto di gruppo della classe del Quinto Corso a Campiglia Cervo nel 1939, quando l’allievo Martiner Bot Pietro (che ha fornito l’immagine) ottenne la Licenza; presenti gli insegnanti: Geom. Maciotta di S. Paolo Cervo, Geom. Rosazza di Rosazza e Ing. Catella di Chiavazza. vallo), mentre quelli di Campiglia Cervo, San Paolo Cervo e Quittengo andavano a Campiglia Cervo; tutti gli altri, provenienti da fuori come i valdostani, necessariamente dovevano trovare alloggio in zona. Da registrare la presenza in Piedicavallo di un’analoga Scuola denominata ”Scuole Tecniche Sociali di Piedicavallo”, alla quale erano certamente iscritti Freppaz Sabino al Primo Corso nel 1915-16 e Lazier Edoardo al Primo Corso nel 1921-22, in quanto esistono ancora i loro quaderni rilegati con copertina scura e caratteri d’oro (F.6); interessante il fatto che fossero firmati all’ultima pagina dall’insegnante e timbrati col timbro della Società Operaia di Piedicavallo. Questa scuola era stata una iniziativa della Società stessa, fondata nel 1872, il cui atto costitutivo dichiarava di promuovere la fraternità, l’istruzione, l’educazione e il soccorso mutuo tra gli associati. I corsi, pare, iniziarono quasi subito dopo la fondazione nel 1876 ed andarono avanti fino al 1936; le lezioni si tenevano nel salone della Società Operaia a Piedicavallo e si svolgevano sui primi due anni, per cui troviamo Lazier Edoardo iscritto a Campiglia Cervo al Terzo Corso nel 1923-24. Con la riduzione del numero degli allievi, si decise l’accorpamento della scuola di Rosazza in quella di Campiglia Cervo e nell’anno 1962-63 l’Ente prese il nome di “Scuole Tecniche Professionali Edili e Stradali di Campiglia Cervo e Rosazza”; la scuola cessò di funzionare nel 1975. — 6 — 6. Copertina del quaderno di Freppaz Sabino iscritto nel 1915 al primo anno a Piedicavallo. A U G U S T A 7. Una pagina del quaderno di Voltimetria del 1895 circa, di Ion Titapiccolo Giovanni di Piedicavallo, allievo delle Scuole di Rosazza, 3° corso; non si possedevano libri ma, sotto dettatura dell’insegnante, si scriveva in un quaderno di brutta e alla sera si ricopiava in bella copia con i disegni (da suo nipote Ion Jean Pierre nato a Piedicavallo e residente in Francia). La componente valdostana nella scuola Non meraviglia quindi che alcuni, cercando una scuola di specializzazione, avessero scelto quelle della Valle Cervo, cosa che però comportava un onere per le famiglie riguardo vitto e alloggio. Un primo gruppo di quattro allievi di Gaby iscritto al 3° Corso a Campiglia Cervo nell’anno 1911, fu inserito a quel livello probabilmente perché possedeva i requisiti di preparazione, oltre all’età più elevata, tra 19 e 25 anni; i ragazzi frequentarono regolarmente i successivi due anni fino alla Licenza. (… e qui si potrebbe ipotizzare che prima fossero stati iscritti alle Scuole Tecniche Sociali di Piedicavallo per i primi due Corsi, ma non esistono le prove documentarie!). Dopo la prima guerra mondiale nel 1920, ‘21, ‘22, ‘23 un altro gruppo frequentò più anni fino ad ottenere la Licen- Esempio di Disegno Architettonico dell’allievo Lazier Giulio. — 7 — 8. A U G U S T A 9. Particolare di un disegno a china ed acquerello di Girod Eligio. 10. za e successivamente un altro ancora di quattro allievi nel 1932, ’34, ‘35 sempre a Campiglia Cervo; si notano tra questi i fratelli Tousco Luigi, Emilio e Augusto, figli di Giosuè, tutti di professione falegname. L’esempio dei fratelli Tousco non è un caso isolato, in quanto più tardi troviamo anche i fratelli Praz Dario e Armando, Tousco Graziano e Bruno, Stevenin PierGianni e Marco, Brunero Bruno e Stefano Olmo e ancora Tousco Fortunato e Silvio. In piena guerra nel 1942, questa volta registrati a Rosazza, altri quattro allievi in tre anni ottennero la Licenza; tra questi Yon Franco, Tousco Fabiano Fortunato e Stevenin Ugo che, terminata la scuola nel 1945, assunsero in anni differenti l’incarico di insegnante alla Sezione distaccata di Gaby ma dipendente dalla Scuola di Rosazza, presso la quale comunque gli allievi dovevano presentarsi agli esami; in seguito insegnò un altro ex-allievo, Freppaz Giovanni. La Sezione della scuola tecnica era sistemata a Yair desout e poi in casa di un insegnante, in frazione Moulin. Quindi, dall’immediato dopoguerra fino all’inizio degli anni ’60, circa trenta valdostani frequentarono prima la sezione distaccata di Gaby per poi continuare a Rosazza, in minor parte a Campiglia Cervo, per l’ultimo anno. In quel periodo, dopo le scuole elementari, non esisteva la possibilità di continuare gli studi e si doveva scendere in città. La scuola di Gaby servì in un certo senso a rallentare l’emigrazione delle famiglie che partivano sia per il lavoro che per iscrivere i figli alle scuole superiori, oltre al fatto che si evitavano così gli oneri della permanenza in Valle Cervo. In cinquanta anni di presenza degli allievi valdostani nelle scuole della Valle Cervo, pur con la problematica e il disagio dei viaggi e della vita fuori casa in pensione, emerge dalle registrazioni che la grande maggioranza ha frequentato con successo superando il quarto corso e più di metà ha conseguito la Licenza al termine degli studi. Dalle testimonianze, anche della Valle Cervo, risulta inoltre che molti allievi hanno ottenuto il Primo o Secondo Premio, un riconoscimento annualmente registrato in pagella ai migliori studenti. Le testimonianze degli allievi Per comprendere appunto l’importanza dell’esperienza scolastica nella vita professionale sono Particolare di Disegno di Costruzione dell’allievo Girod Eligio, 3° corso dell’anno 1959, sono rappresentati gli strumenti utilizzati e a margine i commenti tecnici. — 8 — A U G U S T A stati invitati alcuni ex-allievi a fornire la loro testimonianza, un commento al funzionamento interno della scuola e, più in generale, della vita in Valle Cervo. Stevenin Othmar riferisce dei primi passi della scuola di Gaby nel 1945 dove aveva frequentato i corsi solo per un anno, ottenendo poi all’esame a Rosazza la promozione del 1° e 2° corso con l’insegnante Tancredi Rosazza nel 1945; gli insegnanti di Gaby, ex-allievi, erano molto giovani ed appena in possesso della Licenza ma motivati e preparati; ciò che gli è rimasto e coltiva tuttora è la passione per la matematica e l’algebra grazie alla quale ha proseguito fino ad ottenere il diploma di geometra. Bastrentaz Anselmo iniziò dieci anni più tardi nel 1955 sempre a Gaby, ci si doveva portare la legna da casa per il riscaldamento dell’aula; dopo il 4° corso, ancora a Gaby con i medesimi insegnanti, andò a Rosazza a frequentare regolarmente l’ultimo anno con l’insegnante Tancredi Rosazza, un’istituzione in quella scuola; abitava presso la “Fina”, un bell’inverno anche dedicato ai balli ed alle feste. Conserva tutti i suoi quaderni di scuola, la preparazione ricevuta gli è servita per il suo lavoro, da assistente di cantiere in Svizzera per due anni e poi a Châtillon come Capocantoniere. Praz Dario compagno di scuola del precedente a Gaby, ha avuto un’esperienza di scuola identica, pure a Rosazza dove era in pensione con altri da Ceria Delfina ed era la bella vita; le ragazze venivano a cercarli, andavano a ballare al “Mologna” a Piedicavallo, insomma, la joie de vivre. Si ricorda ancora quando, dopo Natale, per rientrare in Valle Cervo, i genitori lo accompagnarono nella neve fino al Colle della Mologna e attesero di vederlo scendere a valle. La scuola gli ha dato molto, le materie preferite erano costruzioni, disegno e il tracciamento delle curve stradali; ha ottenuto da privatista il diploma di geometra su queste basi. Unico neo, a parere suo, il fatto che non si utilizzassero i libri, gli insegnanti dettavano le lezioni, si compilava un bel quaderno rilegato ma si perdeva troppo tempo. Il progetto stradale era sviluppato da tutta la classe che partecipava prima al rilievo topografico e dopo alla stesura delle tavole. Ad Arvier nel 1962, quando si aprì una scuola simile alle scuole di Rosazza e Campiglia su indicazione del deputato Corrado Gex, Dario Praz divenne l’insegnante di teoria in quella scuola, a testimoniare la validità della preparazione ricevuta. Praz Armando, fratello del precedente iniziò nel 1948 e come gli altri frequentò l’ultimo anno a Rosazza; la sua materia preferita era la topografia e gli strumenti topografici che sono stati poi i compagni della sua vita lavorativa, a tracciare linee elettriche per l’Enel. Girod Eligio, uno degli ultimi a iscriversi alla scuola di Gaby, dalla sua casa di Praz Sup. di Issime, andava a seguire le lezioni in bicicletta anche quando nevicava; era portato per lo studio e suo padre, che era già nell’edilizia, l’aveva indirizzato nello stesso settore. Aveva avuto Tousco Fortunato come insegnante, piuttosto severo; a Rosazza conobbe Tancredi Rosazza, tosto, ma poi bravo all’esame. La scuola gli ha permesso di migliorare l’italiano che alle elementari non aveva assimilato sufficientemente, ma la materia più bella era disegno con una passione particolare per il disegno a mano libera. Per topografia e strade gli studenti avevano rilevato e progettato una carrozzabile che partiva dal cimitero di Gaby e saliva la montagna. Come artigiano edile, l’interessato ha avuto l’occasione di applicare le nozioni apprese; una volta si trovò a rifiutare l’esecuzione di una scala perché il progetto non era applicabile; il lavoro fu affidato ad un altro, ma alla fine lo richiamarono ammettendo l’errore pur di risolvere il problema. Un’altra sua passione sono state le pietre, è stato anche scalpellino. Dai suoi disegni, che conserva con cura, traspare un’indubbia dote artistica. Brunero Olmo, dopo una negativa esperienza in un collegio di Ivrea, dove risiedeva per frequentare una scuola commerciale cittadina, frequentò un anno a Gaby la sezione distaccata quando era insegnante Yon Franco per poi trasferirsi alla scuola di Campiglia. La scuola non gli ha lasciato molti ricordi forse perché la specializzazione edile non era il suo forte, aveva maggiore attitudine per il settore commerciale. Era in pensione assieme ad altri otto studenti in una villetta dell’Hotel Asmara della famiglia Maciotta a San Paolo Cervo e successivamente a Campiglia centro; la padrona, la signora Mariuccia Scagliotti, spostatasi poi all’Albergo Mologna di Piedicavallo, era molto gentile e cordiale, un ambiente piacevole quello della Valle Cervo. Dalla famiglia Maciotta emerge che gli studenti valdostani si comportarono sempre educatamente, avevano una sala perché potessero fare i compiti e l’insegnante Mario Albertazzi, verso sera sulla strada del ritorno a casa sua, passava a controllare i lavori svolti. Lazier Giulio, dopo un periodo di lavoro nei cantieri, a ben 23 anni iniziò la scuola: ha frequentato solo due anni le scuole tecniche, il 2° corso a Rosazza con Tancredi Rosazza e Mario Mosca insegnanti e poi il 3° corso a Gaby con Tousco Fortunato. La materia preferita era costruzioni e disegno e la preparazione ricevuta è stata utile per l’attività di impresario edile, costruì la Casa dei Fratelli Cristiani di Biella ad Antagnod. In seguito partecipò a un corso alla Regione per coadiutore tecnico superando brillantemente l’esame finale e ottenendo l’assunzione come assistente edile dei lavori regionali, dove lavorò per 24 anni fino alla pensione. Conserva con cura i suoi disegni ed i quaderni, pregevoli per la cura e la precisione dei lavori. Stevenin Ugo era un compagno di scuola degli insegnanti Yon Franco e Tousco Fortunato della Sezione di Gaby; abitava nel periodo scolastico a Rosazza presso la signora Ginesia, una donna molto brava, e aveva fatto amicizia con suo figlio Davidino, oltre a lui quell’anno — 9 — A U G U S T A pure la sorella Olimpia era a Rosazza e frequentava un corso di cucito tenuto dalle suore. Nell’ultimo anno di guerra ’44-’45 si era trasferito con altri studenti in una vecchia casa di Tancredi Rosazza, una notte furono portati via dai tedeschi perché avevano lasciata accesa la luce delle scale e ciò poteva essere un segnale per i partigiani; ci volle tutto il peso del podestà per convincere che loro erano solo studenti. A Rosazza si andava anche al cinema, ricavato in un grosso locale dove giungevano anche le ragazze di Piedicavallo. Aveva conosciuto anche la Pierina del “Ponte”, luogo dove le donne di Niel scambiavano il burro con la farina. I suoi compagni di scuola locali erano Ion Clio, Ion Ermann di Piedicavallo e anche Ottino Elmo, che ne parla come di un vecchio amico, ma i più bravi erano Yon Franco che prendeva il primo premio e lui, il secondo. Per la sua attività lavorativa dopo un inizio come imprenditore edile a Gaby e poi assistente a Ivrea, divenne usciere e custode del Palazzo del turismo ad Aosta fino alla pensione, ma la scuola servì parecchio; i suoi disegni li conserva nella casa di Niel. 11. 12. d Particolare di Disegno Architettonico della scuola di Gaby del 1949 dell’allievo Lazier Giulio. Freppaz Giovanni dopo le buone elementari a Gaby, frequentò la scuola di Gaby ma andava a passare l’esame a Rosazza e poi a Campiglia; qui viveva all’Asmara dalla famiglia Maciotta. A Natale rientrò a Gaby passando dal Colle della Mologna perché non c’era neve. Le scuole della Valle Cervo erano valide ma la migliore era quella di Campiglia per la quale occorrevano due anni di avviamento per iscriversi; la Valle Cervo in quel tempo era più evoluta della Valle del Lys. Terminata la scuola, divenne pure per un breve periodo insegnante alla Scuola Tecnica di Gaby. Riferisce che anche a Gaby nel 1886 fu fondata una Scuola Superiore con atto del notaio Perron con 45 iscritti. g Pagina del quaderno di Costruzione dell’allievo Lazier Giulio, 3° corso del 1949. — 10 — A U G U S T A Tavola di Disegno Architettonico di Stevenin Marco. 13. Stevenin Amato riferisce che la scuola tecnica era l’unica che si poteva frequentare in zona dopo le elementari, in alternativa ai lavori della campagna. Ebbe al primo e secondo anno Freppaz Giovanni come insegnante, al terzo e quarto Fortunato Tousco; abitava a Rosazza al quinto anno, con Tancredi insegnante che si faceva rispettare ma era in gamba. La signora Areta Mosca, una vedova molto brava, gli dava alloggio e vitto. Le sue materie preferite sono state disegno e topografia, all’esame dell’Inapli ottenne 9/10. In seguito partecipò al concorso di elettricista all’Enel e lavorò 32 anni nelle centrali della valle del Lys. Stevenin PierGianni si iscrisse al sesto anno delle elementari, ma dopo solo due mesi passò alle scuole tecniche di Gaby con insegnante Tousco Fortunato, suo zio, e continuò fino al quarto anno compreso, ma non frequentò il quinto perché occorreva trasferirsi in Valle Cervo. L’insegnamento ricevuto gli servì specialmente per la parte pratica che fu fondamentale, quando nel ’56, con il compagno Praz Armando, lavorò quattro anni per la SIP al rilevamento da Gressoney a Zuino (Gaby) delle nuove linee per le centrali idroelettriche. Ogni anno andava a Rosazza per superare gli esami con l’insegnante Tancredi Rosazza. Tra gli studenti circolava una filastrocca che doveva rappresentare il funzionamento della scuola: ”Tancredi comanda - Tousco obbedisce - e lo scolaro patisce – e chissà quando la finisce!”. Dal 1960 cambiò attività per quella di idraulico, prima da apprendista e poi dipendente; in seguito si mise in proprio e dopo 20 anni passò ai figli la ditta. Oltre ai propri disegni e quaderni ne custodisce alcuni del fratello Marco (F.13). sero i cantieri e gli proposero di andare negli uffici, se ne andò in Rhodesia con l’Impresit come assistente alla costruzione della diga di Kariba. Si ricorda ancora che il 4 dicembre 1958, la Festa di Santa Barbara a Niel, era stato il giorno che l’impresa chiuse l’invaso della diga. In seguito ritornò a fare l’assistente ad Ivrea e l’imprenditore edile fino al ’79. Successivamente fu titolare di una ditta produttrice di tubi di polietilene che ha sede ora a Pont Saint Martin, gestita dai nipoti. Tousco Mauro dopo i primi tre anni a Gaby frequentò il quarto a Rosazza e il quinto a Campiglia. Andava spesso alla Locanda Monte Bo del Ponte Pinchiolo tenuta dalla “Pierina”, qui lavorava una ragazza di Gaby. A Campiglia gli allievi avevano rilevato un tratto della “Panoramica Zegna”. Il nonno e il padre erano muratori, l’edilizia l’aveva nel sangue come tutti quelli di Gaby e in particolare a Niel, il suo paese; fece l’assistente edile ai cantieri dell’Olivetti e quando, per ristrutturazioni del personale, chiu- Collé Luigino riporta che si era iscritto nell’anno scolastico 1961/1962 presso l’Istituto Professionale Regionale di Gaby appena aperto, situato nell’edificio del Municipio, quindi non più dipendente da Rosazza ma autonomo. Gli insegnanti erano ancora Tousco Fortunato, con il segretario comunale Biava Giuseppe e il Geom. Charles Aurelio; le materie erano quelle insegnate nelle scuole tecniche della Valle Cervo con l’aggiunta del francese ed i corsi si articolavano in cinque anni di stu- Linty Augusto viene ricordato dalla moglie Rosanna Laurent che riferisce quanto suo marito le raccontava della scuola tecnica: la prima volta con suo padre andò a Campiglia da Gressoney in bicicletta; erano tempi di guerra, lui era sistemato in una trattoria che forniva anche l’alloggio; con il suo compagno Debernardi di BiellaChiavazza dovette nascondersi in un sottotetto per evitare i militari che li stavano cercando. In casa custodisce ancora i quaderni (F.14) ed alcuni disegni. — 11 — A U G U S T A Pagina del quaderno di topografia di Linty Augusto, V Corso 1944-45. 14. Le relazioni tra le due valli dio; le lezioni iniziavano il 1° novembre e terminavano il 1° maggio circa, benché alcuni alla fine di aprile già non frequentassero più per portare il bestiame a pascolare nei prati. La scuola durò una decina di anni e si esaurì per mancanza di allievi, ma ai primi anni era frequentata dai ragazzi di Issime, una decina, cinque o sei di Fontainemore, alcuni di Gaby e due di Gressoney. Scendeva a piedi sulla neve o quando si poteva in bicicletta, le sue materie preferite erano costruzione e francese, in italiano tutti avevano qualche problema, specialmente per coloro che in casa parlavano solo il titsch o il töitschu prima di frequentare le elementari. Gli allievi costruirono anche una casetta al di là del ponte vecchio a schiena d’asino. Come esercitazione pratica fece tanti disegni architettonici su richiesta dell’insegnante Charles. Terminata la scuola ebbe la possibilità di lavorare per conto della Regione come assistente contrario nei cantieri ma avrebbe dovuto trasferirsi ad Aosta, preferì fare l’imbianchino a Gressoney, dove si erano aperti molti cantieri edili. Dalle testimonianze degli ex-allievi emerge un’immagine dell’Alta Valle Cervo così come allora l’hanno vissuta con occhi giovani ma anche come, all’epoca, era considerata dalla collettività valdostana, ammirata per la capacità imprenditoriale e la ricchezza, l’istruzione e la modernità, invidiata, quasi, dal mondo contadino locale che ne coglieva la differenza tutte le volte che la gente veniva in Valle Cervo. I rapporti tra le popolazioni della Valle del Cervo e la Valle del Lys esistevano già fin dall’antichità. Le borgate più settentrionali, Piedicavallo, Montesinaro e Rosazza furono quelle maggiormente a contatto con le popolazioni della Vallesa e Valsesia. Chi si recava al mercato d’Andorno, carico dei prodotti da vendere, impiegava una giornata per passare la montagna, il giorno successivo si recava al mercato e ritornava alle borgate, il terzo giorno rientrava a casa carico dei beni acquistati ripassando i colli; presso quelle località si rifocillava e dormiva la notte. Oggi li definiremmo tappe del viaggio: le soste naturalmente favorivano l’intrecciarsi delle relazioni tra le popolazioni. Analogamente e prima della creazione della viabilità moderna, coloro che dalla Valle Cervo si recavano in Francia a lavorare attraversavano i colli a piedi, facendo tappa nei villaggi valdostani. I documenti scritti seguenti riportano fatti circostanziati e precisi, utili per evidenziare le relazioni avvenute. In occasione di una lite intentata dalla Comunità di Andorno Cacciorna nel 1468 contro i valligiani per lo sfruttamento dei pascoli dell’alta valle Cervo, compaiono anche i testi Bartolomeo De Bernardo di Issime, Giacomo de Valcio (Valz, tipico cognome di Piedicavallo) e Antonio Valleguerra della Vallesa (Valleise) che raccontano, dimostrando di conoscere bene la valle Cervo, di come tutti loro frequentassero la valle d’estate per il pascolo del loro bestiame e ciò succedeva da anni, anche da parte di altra gente della Vallesa. Interessanti, presso gli archivi notarili valdostani, le registrazioni dei contratti che testimoniano l’intervento nella Valle del Lys dei muratori e scalpellini della Valle del Cervo. Un documento datato 20/3/1710 riferisce di un lavoro di costruzione in una casa di Cristan Lorentz a Mettie (Gressoney Saint Jean) assegnato ai fratelli ” Jean Baptiste e Bernard Zannutol (Janutolo) du lieu de Pied Caval en Valdandour”. In un altro documento coetaneo, un testo del 1757, a seguito della grave inondazione del 14 ottobre 1755 che di- — 12 — A U G U S T A 15. Vista del ponte a più arcate di Lillianes. strusse i ponti, si assegna a “Guillaume de feu Jean Baptiste Peraldo de la paroisse de Piedecaval” la preparazione e il taglio delle pietre e in particolare quelle alte sedici once, larghe otto once e dello spessore di tre once necessarie per la grande e piccola arcata del ponte di Lillianes (F.15) e con la forma di quelle che compongono l’altra arcata che esiste ancora, così indica il documento. Così pure nel 1793 al “tailleur de pierres Antonio Peraldo fu Giovanni Lorenzo de Pied de Cheval” a Lillianes riceve “la tâche des réparations à faire au dit Ru de Boureil”. Sempre alla fine del 1700 troviamo altri di Piedicavallo a lavorare in Valle d’Aosta: Giacomo e Giovanni Battista Rosazza, Jean Francesia, Carlo e Antonio Janutolo definiti mastro- muratori o tagliapietre. Nel 1782 troviamo un altro “maître mâçon” di Piedicavallo, Giovanni Battista Prario, a firmare un contratto presso il notaio Alby, riguardante l’opera di un canale di 100 metri e largo 19 metri da scavare nel letto del torrente per conto della Comunità di Issime. Ancora nel 1872 e l’anno successivo, lo scalpellino Bernardo Peraldo sempre di Piedicavallo riceve l’incarico da parte del parroco di Gaby, di ricostruire muri, bordure e tetti danneggiati dall’alluvione del 17 agosto 1868 al santuario di Voury di Gaby. Nel 1874 lo scalpellino Ottino di Piedicavallo prepara i cinque gradini esterni al grande portale di ingresso. Risulta ancora che la strada Pont Saint Martin – Gresso- ney Saint Jean in vari tratti fu costruita da diverse imprese, tutte di Piedicavallo, Janutolo-Gianot Antonio, ZorioManuelin Eugenio e Janutolo-Gambet Pietro consociati nei lavori dal 1890 al 1893. Il ponte Trenta (F.16) al confine tra Gaby e Gressoney Saint Jean porta sulla spalletta a valle la data 1894. Questi dati sono stati ripresi dal testo di Remo Valz Blin citato in bibliografia, ma i documenti probabilmente depositati nell’archivio comunale sono andati distrutti con l’alluvione del 2000. L’intero percorso carrozzabile fino a Gressoney fu inaugurato nel luglio 1900 dalla regina Margherita. A miglioramento della viabilità pedonale e con finanziamento privato, nella seconda metà dell’800 furono realizzate due mulattiere che uniscono Piedicavallo con il Comune di Gaby: quella che passa dal Colle della Vecchia da paese a paese, voluta e a sue spese eseguita dal senatore Federico Rosazza nel 1887; l’altra passante per il Colle della Mologna Piccola fino al villaggio di Niel finanziata dal C.A.I., dal Comune di Piedicavallo e da facoltosi benefattori quali il Cav. Squindo ed i fratelli Menabrea di Gressoney. Contemporaneamente venne migliorato anche il sentiero che transita dal Colle della Mologna Grande e conduce, tramite il Colle di Lazoney, al vallone di Loo e quindi a Gressoney o al Maccagno in Valsesia. Federico Rosazza realizzò, di nuovo a sue spese, la mulattiera che da Rosazza conduce al Colle Gragliasca, permettendo il collegamento con Fontainemore. — 13 — A U G U S T A 16. Vista dal lato di Gaby del ponte Trenta. Federico Rosazza fece scolpire lungo le strade delle immagini e scritture di carattere morale o che si riferivano alle leggende locali. Al Colle della Vecchia sul lato valdostano si trova incisa una bella immagine riproducente l’incontro di due donne, figlie delle due valli, che si abbracciano chiamandosi sorelle: un bell’invito alla fratellanza dei popoli e testimonianza dei buoni rapporti esistenti; in alto le scritte “guten tag” e “buon giorno” sottolineano la differenza della lingua parlata. Un simbolo delle relazioni amichevoli che potrebbe essere maggiormente messo in valore. Per ultimo è rimasta abbozzata a livello progettuale con numerose varianti, voluta ma anche combattuta, la grandiosa idea del cosiddetto “tunnel della Mologna”, cioè un collegamento tra Piedicavallo e Gaby tramite galleria. Dai tempi di Quintino Sella con una relazione del 1864, e più tardi a diverse riprese nel 1928, nel 1948 e in date più recenti, con l’interessamento della parte valdostana, si studiò la realizzazione di una via che aprisse un passaggio rapido verso Biella e Milano. Nel 1951 si prospettò un nuovo progetto con una galleria che aveva una doppia funzione: quella stradale e quella di acquedotto dell’acqua del torrente Lys convogliata nel biellese ad utilizzo delle fabbriche tessili. Non ebbe seguito pare per l’opposizione di alcuni notabili locali. Gli abitanti di Gaby e di Piedicavallo ne parlano ancora, alcuni con rammarico: una occasione mancata per l’apertura a nord della Valle Cervo e verso la pianura padana della valle di Gressoney, anche se oggi ci si rende conto degli enormi costi di realizzazione e di sistemazione di tutto l’asse viario della valle fino a Biella. Negli ultimi anni, con lo svilupparsi del turismo montano e con l’esperienza dei vari GTA, francese, piemontese e delle nazioni alpine, ha preso forma un tracciato escursionistico alpino denominato “Via Alpina” che attraversa 8 paesi d’Europa con 5 itinerari, 350 posti tappa e 5000 Km di sentieri. Il tracciato “blu” prevede il collegamento Gressoney Saint Jean - Piedicavallo e Piedicavallo - Issime, transitando rispettivamente dal Colle della Mologna Grande e dal Colle della Vecchia: ecco riconfermati e pubblicizzati due storici percorsi utilizzati delle popolazioni passate ed ora testimonianza della vitalità delle relazioni tra le due valli. L’elenco degli allievi valdostani L’elenco ordinato per anno della prima iscrizione degli allievi di origine valdostana è stato compilato riportando la trascrizione originale; può contenere qualche inesattezza o qualche errore dovuto alla grafia e all’aspetto burocratico della registrazione nonché alla ricerca dei dati e riguarda gli allievi di Rosazza e Campiglia Cervo. — 14 — A U G U S T A Anno COGNOMENOME 1° iscrizione Anno 1° iscrizione COGNOME NOME 1911/12 FreppazRiccardo 1911/12 JaccondGiulio 1911/12 Tusco Luigi 1911/12 Tusco Emilio 1920/21 Praz Fausto 1920/21 TouscoAugusto 1922/23 Busso Emilio 1923/24 GlavinazCesare 1923/24 Lazier Edoardo 1932/33 Jacond Emilio 1934/35 TorrassoRoosevelt 1935/36 FreppazAttilio 1935/36 SteveninAttilio 1942/43 LintyAugusto 1942/43 Yon Franco 1942/43 SteveninUgo 1942/43 Tousco Fortunato 1945/46 Jaccond Livio 1945/46 Lazier Modesto 1945/46 Praz Luigi 1945/46 TouscoGraziano 1945/46 TouscoRenzo 1945/46 SteveninOthmar 1947/48 BruneroOlmo 1947/48 RopeleBruno 1947/48 Tousco Bruno 1948/49 BastrentazErminio 1948/49 Billia Nello 1948/49 Del Favero Ercole 1948/49 Freppaz Giovanni 1948/49 LazierGiulio 1948/49 1948/49 1948/49 1948/49 1948/49 1948/49 1948/49 1949/50 1949/50 1949/50 1949/50 1949/50 1949/50 1950/51 1952/53 1952/53 1953/54 1955/56 1955/56 1955/56 1955/56 1957/58 1958/59 1958/59 1958/59 1958/59 1959/60 1959/60 1959/60 1960/61 Lazier Onorato Praz Armando SteveninAlbino Tousco Mauro GlavinazDelfino Yon Guido Bieler Mario Busso Bruno BastrentazEzio BastrentazOscar Laurent Riccardo Stevenin Rinaldo Tousco Silvio Ion Giancarlo SteveninMarco Stevenin PierGiovanni SteveninAmato BastrentazAnselmo DandresClaudio LazierFerdinando Praz Dario Lazier Elio Bordet Rinaldo Girod Eligio Trentaz Gianpiero VercellinRenato Brunero Bruno ChincheréCarlo Yon Luigi BastrentazGiocondo RINGRAZIAMENTI BIBLIOGRAFIA Ringrazio tutti coloro che ho contattato e che con simpatia e benevolenza hanno permesso la realizzazione di questo articolo e mi spiace se, nel riportare la loro testimonianza, non ho espresso compiutamente il loro pensiero; mi scuso anche con coloro che non ho potuto contattare. La preparazione di questo articolo mi ha dato l’occasione di incontrare gli ex-allievi ed è stato per me un enorme piacere potermi relazionare con delle persone valide e di grande cultura e serietà; da valët ho apprezzato molto che i valdostani abbiano un positivo ricordo del soggiorno e quasi un’ammirazione verso la Valle Cervo, mentre viceversa gli studenti hanno lasciato una ottima impressione agli abitanti valligiani. Ringrazio anche quelli che gentilmente hanno fornito il materiale utile alla ricerca ed in particolare la signora Nadia Rosazza Cilin e l’Arch. Gianni Valz Blin per i documenti delle scuole. Inoltre ringrazio l’Arch. Claudine Remacle per aver dato l’incipit al lavoro, fornendo alcuni documenti e sollecitandomi alla realizzazione dell’articolo. Falletti, Girelli, 2010, La Valle Cervo Itinerari geologici in Piemonte. Arpa Piemonte Centro regionale per le ricerche territoriali e geologiche. Orlandoni, Bruno, 1998, Artigiani ed artisti in Valle d’Aosta dal secolo XIII all’epoca napoleonica. Priuli e Verlucca Ed., Ivrea Stévenin, Jolanda, 1993, Les traces du passé. Musumeci Editeur, Aosta Stévenin, Jolanda, 2008, Notre-Dame des grâces. Tipografia Valdostana, Aosta Valz Blin, Remo, 1959, Memorie sull’alta valle d’Andorno. Libreria Vittorio Giovannacci, Biella. Valz Blin, Gianni, 2005, “Capi mastri all’insegna di Sella e Cavour”. In: Rivista Biellese Aprile 2005. Pag 57-66. Biella. — 15 — A U G U S T A Tremila anni di storia del clima in Valle d’Aosta La registrazione dell’anfiteatro del ghiacciaio del Lys Cesare Ravazzi1 Introduzione: il ghiacciaio del Lys e il suo anfiteatro È noto a tutti che i ghiacciai sono molto sensibili alle variazioni del clima, e che i ghiacciai alpini sono entrati in una fase di formidabile ritiro negli ultimi 30 anni, che rappresenta una delle evidenze più convincenti del riscaldamento climatico in corso. Peraltro il regresso dei ghiacciai alpini era già iniziato fin dalla seconda metà del XIX secolo, solo che con gli anni 1980-90 questa tendenza si è accentuata. Intorno al 1815-1821 e al 1850-1860 quasi tutti i ghiacciai alpini si trovavano in una fase di massima avanzata - le ultime culminazioni della cosiddetta “Piccola Età Glaciale” - e accumulavano alla loro fronte cordoni morenici che spesso hanno formato un anfiteatro - come nel caso del Ghiacciaio del Lys, uno dei maggiori ghiacciai del versante italiano delle Alpi, nell’alta Valle di Gressoney (Monte Rosa, Valle d’Aosta). L’anfiteatro glaciale del Ghiacciaio del Lys (Figura 1) è uno dei più pregevoli nell’arco alpino, perché ciascuna delle ultime fasi di stazionamento glaciale della “Piccola Età Glaciale” (anni 1821, 1860) e del XX secolo (anno 1922, vedi Monterin, 1932; Cerutti, 1985; Strada, 1988) è scandita da un ben definito cordone morenico, nonché da differenze nella struttura della vegetazione e del suolo. L’anfiteatro del ghiacciaio del Lys rappresenta un esempio saliente dell’evoluzione naturale negli ultimi 150 anni, e perciò è un versatile campo di esercitazione di studenti e studiosi che vogliono comprendere i meccanismi di formazione dei depositi glaciali e la risposta degli ecosistemi alle oscillazioni dei ghiacciai. Infine, come descritto nella presente nota, questo anfiteatro fornisce indicazioni sulla storia del clima e l’influenza delle variazioni climatiche sulle popolazioni preistoriche e protostoriche della Valle d’Aosta. Figura 1: L’anfiteatro del Ghiacciaio del Lys fotografato negli anni ’70 e schema dei principali cordoni morenici. L’area in grigio è quella occupata dal ghiacciaio alla culminazione del 1821. È indicata l’età delle principali morene (in base a Strada, 1988). Con i pallini rossi sono posizionati: 1) Un suolo fossile individuato nella morena laterale sinistra, che separa i depositi glaciali più recenti (ultimo millennio) da quelli più antichi, più vecchi di 2000 anni. Questa scoperta stabilisce che le morene dell’anfiteatro del Lys non si sono formate durante una sola fase di massima avanzata, bensì in più fasi successive (Strumia, 1997); 2) Le trincee aperte nel 1996 nel pascolo dell’Alpe Courtlys, vedi Figure 2 e 3. Ricercatore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto per la Dinamica dei Processi Ambientali, sezione di Milano. Laboratorio di Palinologia e Paleoecologia. Via Pasubio 5, 24044 Dalmine (Bergamo) [email protected]. - www.disat.unimib.it/palinologia 1 — 16 — A U G U S T A Le trincee aperte all’Alpe Courtlys Durante una di queste “campagne naturalistiche” organizzate dall’Università di Milano negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, sotto la guida del Prof. Giuseppe Orombelli, è però emerso un dato insolito, nell’area frontale dell’anfiteatro, laddove la morena “napoleonica” fronteggia un antico alpeggio - l’Alpe Courtlys. Il ghiacciaio, avanzando, rischiò di cancellare il pascolo nella prima metà del XIX secolo, come documentato da mappe catastali dell’epoca. Ebbene, scavando trincee nel punto più esterno della morena ottocentesca, a contatto con quello che resta oggi del pascolo del Courtlys (punto rosso indicato con Trincee Lys 1996 in Figura 1), gli studenti hanno individuato una singolare successione di depositi (Figura 2) che poi, ad un’analisi sedimentologica, pollinica e radiocarbonica, si sono rivelati cruciali per ricostruire la storia del ghiacciaio durante gli ultimi 3 millenni, ben prima delle testimonianze della Piccola Età Glaciale. Uno studio preliminare di queste trincee è stato presentato dieci anni fa al convegno “Past Global Changes” di Aix-en-Provence (Ravazzi et alii, 2001) e ne riassumeremo qui i risultati principali. È bene però chiarire che i dati del Courtlys, per la loro importanza negli studi sulla storia del clima e del popolamento umano delle alte valli Aostane, meritano un progetto più ampio di ricerca. Confrontando la foto della trincea in Figura 2 con lo schema riportato in Figura 3 è possibile seguire la storia dell’Alpe Courtlys negli ultimi 3000 anni. Dal basso, appoggiati sopra il substrato roccioso, si trovano suoli podzolici, evoluti al di sotto di antiche foreste di conifere che ricoprivano l’area prima dell’apertura dell’alpeggio. I blocchi rocciosi visibili in basso nella trincea di Figura 2, e rappresentati dal livello grigio sopra i suoli in Figura 3, sono inglobati in un deposito glaciale, che documenta un momento in cui il Ghiacciaio del Lys avanzò fino alla trincea, e quindi all’esterno della morena del 1821. A seguito di questa antica avanzata, sul posto si formò un laghetto Figura 2: Una delle trincee aperte nel 1996 nel pascolo dell’Alpe Courtlys, che evidenzia, dal basso: depositi glaciali (blocchi sfaccettati e striati), ricoperti da torbe grigio-scure e quindi da una successione di sabbie laminate grigio-chiare. Alla base della trincea, al di sotto dei depositi glaciali, sono stati rinvenuti suoli forestali di tipo podzolico (questi ultimi non visibili nell’immagine). Figura 3: Schema delle trincee aperte all’Alpe Courtlys e posizione delle età radiocarboniche ottenute sulle torbe sepolte. In questo schema le date sono indicate in anni BP (BP = Before Present, che significa “prima dell’anno 1950”) e non sono calibrate (calibrate = corrette in anni calendario). Le età calendario sono presentate nel testo. — 17 — A U G U S T A di modestissima profondità, presto occupato da una torbiera. I livelli più antichi di questa torbiera sono stati datati con il radiocarbonio 2.735 ± 90 anni 14C BP; risalgono, cioè, al nono-decimo secolo avanti Cristo. Il ghiacciaio si ritirò dall’Alpe Courtlys 20-50 anni prima della formazione della torbiera, quindi il ritiro iniziò sempre durante questi due secoli, all’inizio dell’Età del Ferro. Inoltre, il ghiacciaio non distrusse i suoli forestali sottostanti, segno che il ghiaccio era praticamente fermo sul posto, e non si spinse oltre verso valle (vedi trincea Lys 96/14 in Figura 3). La torbiera si sviluppò per quasi duemila anni, ma nell’XI secolo dopo Cristo fu sepolta da sabbie laminate, che presentano uno spessore di oltre 60 cm (livelli più chiari in Figura 2). Poiché sul posto non confluiscono corsi d’acqua in grado di trasportare e selezionare sabbie, si ritiene che il seppellimento sia provocato dai depositi di un piccolo torrente che fuoriusciva direttamente dal ghiacciaio, cioè uno “scaricatore glaciale” che lambiva il fianco sinistro (orientale) del ghiacciaio. In base a questi dati si può desumere che, intorno all’XI secolo dopo Cristo, il ghiacciaio si portò nuovamente in prossimità del sito studiato. L’analisi del polline fossile contenuto nelle torbe ha confermato a grandi linee la cronologia ottenuta con il radiocarbonio ed ha aggiunto informazioni sulla vegetazione. Nella prima età del Ferro la zona era circondata da foreste di abete bianco; le foreste arretrarono nella seconda età del Ferro, finché, in età tardo romana, l’abete bianco scomparve. Oggi è presente solo nel settore inferiore della vallata di Gressoney. Inoltre, l’analisi pollinica ha stabilito che nell’XI secolo dopo Cristo il pascolo dell’Alpe Courtlys non era ancora stato aperto. La fase fredda dell’antica Età del Ferro e l’avanzata glaciale del Lys: prima degli insediamenti protostorici documentati a Saint Martin de Corléans di Aosta La fase di avanzata del ghiacciaio del Lys intorno all’VIII-IX secolo a.C. (prima età del Ferro) trova confronti sia nelle Alpi Italiane che in quelle svizzere. In pratica, quasi tutti i ghiacciai maggiori delle Alpi che sono stati studiati hanno rivelato una fase di avanzata nella prima parte dell’età del Ferro, anche se persistono alcuni dubbi sulla sua durata. Infatti, qualche autore propone una lunga fase fredda tra il IX e il VI secolo a.C., mentre altri la restringono all’VIII Figura 4: Ricostruzione delle oscillazioni del Ghiacciaio dell’Aletsch (Alpi Bernesi) negli ultimi 3500 anni, secondo Holzhauser et alii (2005). Le fasi di ritiro (in rosso) e di avanzata (in blu) sono rappresentate dalla distanza rispettivamente negativa e positiva dalla posizione che il Ghiacciaio dell’Aletsch occupava nell’anno 1980. È indicata l’estensione cronologica dell’Età del Bronzo Recente, del Bronzo Finale e dell’Età del Ferro sul versante italiano delle Alpi Occidentali (Mollo Mezzena, 1997). Si noti che, diversamente, a nord delle Alpi, l’Età del Bronzo si estende oltre il limite cronologico indicato in figura. — 18 — A U G U S T A secolo a.C. Nella figura 4 è rappresentata la ricostruzione proposta da Holzhauser et alii (2005) per la storia del più grande dei ghiacciai alpini negli ultimi 3000 anni: il ghiacciaio dell’Aletsch nelle Alpi Bernesi. Dopo una fase di ritiro (mediamente calda) precedente al primo millennio a.C. (tarda età del Bronzo), il ghiacciaio dell’Aletsch avanzò e culminò tra il VII e il VI secolo a.C. Queste età sembrano un poco più recenti di quelle trovate al Lys; nel dettaglio la cronologia richiede ulteriore approfondimento. Comunque, tanto nelle Alpi come in Pianura Padana e anche in Europa Centrale, la prima età del Ferro è considerata una fase fredda e piovosa, con alluvioni, importanti variazioni di tracciato del Po e un aumento di umidità nelle torbiere dell’Europa atlantica (Van Geel & Renssen, 1998). È importante approfondire l’influenza che queste oscillazioni del clima ebbero sulle popolazioni preistoriche e protostoriche della Valle d’Aosta e delle regioni alpine circostanti. In proposito si può ricordare lo studio di Tinner et alii (2003) che, considerando l’abbondanza di polline fossile di cereali e altri indicatori di attività agricole sul versante nord e sud delle Alpi, suggeriscono due fasi di intensificazione dell’uso del territorio nella tarda età del Bronzo (1450-1250 anni a.C.) e nella media età del Ferro (650 - 450 anni a.C.). Queste fasi di accresciuta attività rurale e pastorale sono separate da un momento negativo per le popolazioni alpine, che cade proprio tra la fine dell’Età del Bronzo Recente e la media età del Ferro. Queste interazioni tra clima e uso del suolo sono in accordo con alcune evidenze polliniche di una espansione degli insediamenti rurali sui fondovalle della Valle del Rodano (Sion) e della Dora (Aosta - Saint Martin de Corléans) intorno al VI secolo a.C. (Wick in Curdy et alii, 2009; Pini e Ravazzi lavoro inedito). Uno studio approfondito di questo problema, tuttavia, non è disponibile. Un progetto per una storia del clima e dell’ambiente dell’uomo in Valle d’Aosta negli ultimi 17.000 anni Se consideriamo la ricchezza di ghiacciai, torbiere, ambiti archeologici della Valle d’Aosta, appare evidente che uno studio, anche limitato ai più significativi archivi naturali e antropici potrebbe portare nuove conoscenze non soltanto sul problema della fase fredda dell’età del Ferro e delle prime società rurali alpine, ma su numerose tappe della storia dell’ambiente e dell’uomo nella vallata dalla fine dell’ultima glaciazione, all’incirca durante gli ultimi 17 mila anni. Nell’anfiteatro del Ghiacciaio del Lys, sono stati riconosciuti 3 ordini di morene antiche non studiate, in alcuni casi associate a torbiere e depositi organici. Un patrimonio che per vari aspetti è unico e specifico, ma che richiede uno studio paziente e complesso e quindi una progettazione attenta. Da ultimo, questi studi possono contribuire a comprendere meglio le manifestazioni regionali del cambiamento climatico in atto, perché gli effetti di una oscillazione del clima sono diversi e talora opposti in aree adiacenti, soprattutto nelle regioni montuose caratterizzate da grandi variazioni di quota, continentalità, piovosità e circolazione delle masse d’aria. Bibliografia citata Cerutti A.V., 1985. Le variazioni glaciali e climatiche durante l’ultimo secolo nei gruppi del Monte Bianco e del Monte Rosa. Geografia Fisica Dinamica Quaternaria, 8, 124-136. Curdy P., Paccolat O., Wick L., 2009. Les premiers vignerons du Valais. Archäologie Schweiz, vol. 32, 2-19. Holzhauser, H., Magny, M., Zumbühl, H.J. 2005. Glacier and lake-level variations in west-central Europe over the last 3500 years. The Holocene, 15 (6), 789-801. Mollo Mezzena R., 1997. L’Età del Bronzo e l’Età del Ferro in Valle d’Aosta. Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Atti della XXXI Riunione Scientifica. 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Gli alpeggi utilizzati nel corso del XIX (seconda metà) e del XX secolo sono stati essenzialmente cinque, suddivisi fra tre famiglie, Stévenin di Gaby, Consol (Stoffultsch) e Ronco (Pétéretsch) di Issime. La famiglia Stévenin soprannominata Pitòt Djon, era del Gaby frazione di Issime (oggi comune autonomo), aveva proprietà nel fondovalle del Gaby, di Issime e nei valloni laterali di Bourinnes e di Tourrison. Erano quattro fratelli figli di Jean Joseph Stévenin (*1772†1849), citato da Jean Jacques Christillin, nel famoso libro sulle leggende della Valle del Lys, come mercante intraprendente in Piemonte e in Savoia. Ciascuno dei quattro fratelli possedeva un alpeggio, rispettivamente Jean Pierre (*1812†1895), detto Pierinass, i cui discendenti stabilitisi ad Issime saranno chiamati prima Pierinsch, poi Amédésch, nel Vallone di Tourrison tre tramudi, Tourrison di sotto, Pioani (quest’ultimo oggi di proprietà Tousco-Glavina di Gaby già Stévenin) e La Mianda, Joseph Victor (*1815†1888), i cui discendenti saranno chiamati ad Issime Vitorsch, nel Vallone di Bourinnes tre tramudi, Pioanu, Trusi e Galm, Jean Joseph (*1822†1915), i cui discendenti per gli issimesi saranno Dschosesch, nel Vallone di Bourinnes due tramudi, Mühnu e Meerwi, e infine Jean Pantaleon (*1833†1910), che essendo l’ultimo dei fratelli fu soprannominato Janet (Dschannetsch per gli issimesi), dando il soprannome Janit (quelli di Jean) ai discendenti, nel Vallone di Tourrison tre tramudi, Tourrison di sotto, Fountoani, e Lei Nir. (Informazioni raccolte da Jean Tousco *1929†2010 di Gaby, e integrate con ricerche d’archivio). La famiglia Pétéretsch (Ronco) saliva agli alpeggi di Tschavaneui (Tschannavellji) di mezzo, Tschavaneui di sopra, Töivi, Krédémì, Nawun Goavenu, e Lejet. La famiglia Stoffultsch (Consol) saliva agli alpeggi di Krechtaz, Tschavaneui di sotto, Tourrison di sopra, Lei Kier e Krecht. La famiglia di Giuseppe Consol Stoffultsch, detto “dar Fruttir” figlio di Jean Roch (*1851†1902), del fu Jean Baptiste (*1821†1902), e Marie Ronco Pétéretsch, utilizzava gli alpeggi del Léjunh (mayen), Torriti, Krédémì, Nawun Goavunu, Töivi, e Lejet (oggi di proprietà di Flavio Consol). Alcuni alpeggi appartenevano allo zio materno di Giuseppe Consol, Pétéretsch Jean, scapolo, che li lasciò in eredità ad alcuni dei nipoti, in tutto undici. Un altro ramo dei Consol era chiamato Péjetsch. Gli ultimi discendenti, che vissero nel XIX secolo, erano cinque fratelli Mathieu, Pierre (Piru), Marie Jacobée, Marie Antoinette Rose, e Jean-Joseph (prete). Vivevano al villaggio di Chincheré (Tschéntschiri), si dice che possedessero una montagna nel Vallone di Tourrison e che la loro proprietà si estendesse dal villaggio fino alla cima del Vallone (Col du Loup), senza soluzione di continuo, un’unica striscia di territorio con i diversi tramudi. I Péjetsch fecero ricostruire, nel 1870, la cappella al villaggio di Chincheré, mentre l’altro ramo dei Consol, quella di Seingle. Questi due villaggi si trovano nel fondovalle di Issime, ai piedi del Vallone di Tourrison. Le famiglie dei Dandres, Geors e Trenta avevano solo proprietà al mayen del Biolley, e i Linty Rowersch al Léjunh. Michele Musso I Valdostani sono un popolo di transumanti. Da epoche remote, forse dalla preistoria, stante i ritrovamenti di luoghi di frequentazione rinvenuti in quota a Vétan di SaintPierre, alla base della Tantanné a La Magdeleine e ai piedi della Cime Noire a Pontey. Storicamente, sussistono due tipi principali di spostamen- ti dall’abitazione stanziale abituale: quello verso il basso per coltivare i vigneti e quello verso l’alto per condurre gli armenti ai pascoli estivi. In genere, ci si sposta con la famiglia e il bestiame per la coltivazione della vigna soprattutto nel periodo tardo invernale; per le operazioni di cura intensa iniziale del vigneto (potatura, zappatura, …), mentre per le altre la- — 20 — A U G U S T A vorazioni si scende solo saltuariamente. Più complicata è la monticazione, che prevede l’utilizzo dei pascoli alle diverse quote: si sale nella bella stagione, a tappe, prima nei mayens, poi negli alpeggi, per ritornare gradualmente a valle, dopo circa 100 giorni di permanenza in altura. Quando è iniziato questo su e giù non si sa; ma in epoca medievale tale sfruttamento del territorio è sicuramente consolidato. Si parte dall’abitazione invernale verso maggio per recarsi al mayen, dove il bestiame pascola. A giugno ci si sposta più in alto, in alpeggio, composto da uno o più tramuti, l’ultimo dei quali, la “tsa”, in töitschu ‘da hut dar alpu’, è il più alto, per poi ritornare a ritroso alla base intorno al 29 settembre, San Michele. Mentre il bestiame pascola in altura, nel piano si possono fare i fieni per produrre il foraggio per l’inverno (uno, solitamente due o addirittura tre tagli, secondo la localizzazione altimetrica dei prati), così nei mayens dopo il passaggio del bestiame. Al rientro, prima della caduta della neve, gli animali mangiano l’erba dei prati, ... e iniziano a concimarli. Ma il beneficio della monticazione non si limita alla produzione di fieno per l’inverno: la qualità pregiata delle specie erbose in quota registra una produzione casearia di ottima qualità. Il formaggio rivestiva uno degli alimenti basilari di sostentamento di un tempo. I più antichi documenti scritti di utilizzo del vallone di Tourrison risalgono al XIV secolo. Il 14 aprile 1357 Jacomota, vedova di Vuillermet de la Plana, e i suoi figli Pierre e Jean, riconoscono di tenere in feudo dal nobile Arduçon di Vallaise alcuni beni siti nella Vallaise, e più precisamente nelle località: Lo Bequet, Funs, Nantrey, Fontana, Verney, Le Clevete, La Fareta, Crossum Ronqui Robini, L’Adreit, Cleva, Molinat, Ortietum e La Layx, in Turrixomo detto Plane, tra i due Reverssi Turrixoni, Alpe de Nantry.1 Inoltre, il 1° settembre 1359 Jean de la Plana, figlio di Sainton, riconosce di tenere in feudo dal nobile Arduçonnet, cosignore di Vallaise, alcuni feudi, a Perloz e Issime, siti nelle località: Fontaine de Nantray, Sappel de Chapaç, Alpe de Nantray, Plana, La Gianacha, Ronc Robin, Turixon, Bella Cleva de Turixon (oggi il toponimo è chiamato Quiva / Kieivu).2 Era negli usi tradizionali utilizzare erbaggi in comune, tant’é che tra il 25 ottobre 1339 e il 7 marzo 1389 alcuni documenti testimoniano l’infeudazione di taluni pascoli comuni a privati “come si ha l’usanza di pascolare in quel luogo” per un numero di mucche precisato (in questi casi da una a cinque, per avere un ordine di grandezza), e il 1 4 5 2 3 Vollone di Tourrison visto dal Vallone di San Grato, Méttelti. (Foto Martinet) conseguente compenso da esborsare, in particolare a Issima Soveror (Vallone di San Grato e di Bourinnes).3 Nel secolo successivo, altri documenti attestano passaggi di proprietà delle terre, ad esempio: il 23 gennaio 1458 il signore Bertholin di Vallaise infeuda ai fratelli Verra Vercellot e Pierre di Issime alcuni beni siti nell’alpe di Turisonat, che questi hanno comprato da Yon Gabriel de La Cleva e Ottini Aymon.4 Qualche problema di eccessivo sfruttamento del territorio deve esserci stato, soprattutto in relazione ad eventi catastrofici di esondazioni e smottamenti, se il 3 febbraio 1465 Allazine Vulliermet, mistral di Perloz dei Vallaise, su richiesta di alcuni abitanti di Fontainemore e Issime, su tutti i beni dal torrente Tylly al Periacza, sino al sentiero di Breng de Plano, che conduce ai monti di Deyles, impone l’impossibilità per nove anni di far pascolare bestiame grosso e minuto, di prendere legname verde o secco o di provocare dei danni.5 Altre questioni sono sicuramente sorte in merito all’uti- Par O. Zanolli, Bibliothèque de l’Archivium Augustanum, XXII, Inventaires des archives des Vallaise, Tome troisième, Industrie grafiche editoriali Musumeci, Aoste 1988, pag. 444, n. 52. Ibidem, pag. 323, n. 26. Ibidem, da pag. 388 a pag. 396, documenti vari. Ibidem, pag. 310, n. 7. Ibidem, pag. 313, n. 17. — 21 — A U G U S T A Il mayen del Ronc, a dx. il fondovalle di Issime, villaggio di Tschéntschiri. (Foto Musso) minata Pratum Savyn, nelle “comugnia” esteriori, sopra Buyl di sotto, nonché dell’erbaggio di sei bestie sempre nella montagna di Issime Severour, a Comugniis interioribus.6 Successivamente, la pratica della monticazione si è evoluta ed ogni malgaro aveva il suo pascolo da utilizzare, ponendo fine a diatribe ancestrali. lizzo dei pascoli comuni dal momento che, il 25 ottobre del 1468, tre “texatores” d’Issime “a ciò deputati”, Yaquyn Carrerie, Antoine Yocco Alby di Lyntyn e Pierre di Antoine dou Ronc, procedono alla stima – richiesta da Angelin di Hans de Raset, procuratore di sua madre Antonia, vedova – della quantità d’erba pascolata da una mucca nella montagna di Issime Severour, in una località deno- Il vallone di Tourrison si estende in sinistra orografica del Lys dal nucleo di Biolley, Bioulei in töitschu (1114 m slm) sino al confine col Piemonte, raggiungibile tramite il Col du Loup. Dalla sua testata, più precisamente dal Col de Marmontana (2348 m s.l.m), si può accedere anche a Fontainemore, nell’area degli alpeggi delle Pietre Bianche; mentre poco più in basso si transita nella zona di Pré (con un passaggio intorno ai 1830 m s.l.m). Mayen di Lion / Léjunh. L’abitazione fu costruita nel 1895 da Jean Baptiste Consol Stoffultsch (*1821†1902), conosciuto nella comunità come ‘dar Dschan Batistu’. Qualche anno prima del 1889, in seguito ad un incendio, l’antica abitazione in parte in legno della famiglia Consol, che sorgeva poco distante al mayen di Krechtaz, andò distrutta, si decise allora di ricostruire la casa poco distante al Léjunh e di trasformare il vecchio mayen in alpeggio. Nel 1889 Jean Baptiste costruì la baita al Krechtaz, come da data incisa sul trave maestro. (Informazioni raccolte da Michele Musso presso Flavio Consol). (Foto Sebastiano Ronco) 6 Ibidem, pag. 279, n. 48. — 22 — A U G U S T A Alpeggio di Tourrison superiore. L’edificio adibito ad abitazione d’alpeggio, sulla sinistra, fu costruito nel 1906, come da data incisa sulla trave maestra, da Jean Baptiste Fortuné Consol Stoffultsch (*1875†1953), figlio di Jean Roch (*1851†1902), del fu Jean Baptiste (*1821†1902), e Marie Ronco Pétéretsch. Al suo posto sorgevano due edifici d’alpeggio fatiscenti. La trave maestra reca anche incise le iniziali CF (Consol frères), in quanto nel 1906 le proprietà erano ancora indivise fra i fratelli di Jean Baptiste Fortuné Consol, in tutto undici. La piccola costruzione in legno, appartiene alla famiglia di Consol Flavio ereditata dal padre Cesar figlio di Jean Baptiste Fortuné; la famiglia Busso Lixandrish (Vittoria, Giulia, e Laura) ha ereditato un prato di monte oggi chiamato Schützersch schelbit nel vallone di Tourrison (sui monti alla dx. orografica del Vallone, fra l’alpeggio di Tourrison e Krédémì, confinante a monte con un altro appezzamento chiamato Pétéretsch schelbit) e la possibilità di ritirare il fieno selvatico, raccolto in quell’appezzamento, proprio in questa costruzione in legno. Vittoria, Giulia e Laura Busso Lixandrish sono discendenti di Jean Jacques Busso Schützersch (*1814†1891) loro bisnonno materno, il quale ereditò dalla madre Marie Antoinette Consol (sorella di Cristoforo Consol capostipite del ramo dei Consol chiamato appunto Stoffultsch) gli appezzamenti e i diritti nel Vallone di Tourrison. Nel dialetto walser di Issime con il termine stubbu si indicava, oltre ad una stanza in legno nello stadel, una costruzione in legno utilizzata come granaio e/o per conservare il fieno. Ne rimane un esemplare nel villaggio di Hubal, uno appunto all’alpeggio di Tourrison sup., qualche anziano ne ricordava uno nei pressi del villaggio di Chröiz per salire verso Ruassi. Questa accezione del significato del vocabolo era conosciuta da pochissimi anziani. È comunque rimasto nella toponomastica Stubbu; Stubbun acher: un campetto di patate vicino ad un piccolo rascard ora crollato, nel villaggio di Écku nel vallone di San Grato; Stubbi per la presenza di alcuni piccoli rascard oggi scomparsi ma di cui rimangono i basamenti; Joakisch Stubbi piccolo rascard abbattuto nel 1944 per costruirvi una baita d’alpeggio. A Gaby, nel dialetto si usa ancora il termine stuba per indicare un granaio; stuba è in competizione con il termine grahnir. (Informazioni raccolte da Michele Musso). (Foto Musso) Il punto di vista preferenziale per comprendere l’orografia del vallone e il suo insediamento diffuso è senza dubbio San Grato, che lo fronteggia. La mulattiera principale ha diverse ramificazioni che permettono il raggiungimento di tutte le strutture d’alpe disseminate su questo territorio. Biolley (toponimo che deriva dalla presenza di betulle) è un piccolo nucleo storico di abitazione permanente, giace tra poderosi terrazzamenti di invidiabile fattura ed è ora separato visivamente dal piano di fondovalle dal canale industriale che taglia fisicamente in due il versante. Interessante il fatto che l’impianto della sua cappella, dedicata a San Nicola di Bari, risalga al XV secolo. A monte iniziano gli insediamenti temporanei: mayens e alpeggi. La mulattiera principale è a tratti costeggiata da barrère (conci di pietra accatastati l’uno sull’altro in linea, a foggia di muretto) o da blatti (grosse pietre conficcate ver- ticalmente nel terreno) oppure da veri e propri muri a secco di contenimento delle terre che non solo delimitano lo spazio privato da spazi comuni, ma costituiscono un impedimento al transito, su prati e campi, di uomini e animali durante la transumanza. In linea generale, i mayens sono stati insediati nelle radure del bosco; mentre gli alpeggi sono oltre la folta cortina boscata. Sono comunque “piccole montagne” capaci di ospitare pochi capi di bestiame; non sono i vasti alpeggi da cento, centocinquanta o addirittura duecento mucche del Vallone di By (sui comuni Doues e Ollomont), della Val d’Ayas o della Valgrisenche. Le costruzioni degli alpeggi sono in pietra a secco (naturalmente, con l’eccezione delle travature del tetto e dei solai) per due evidenti motivi: innanzitutto la materia prima in loco è quella e solo quella, poi perché la durata della permanenza non richiede l’impiego di materiali — 23 — A U G U S T A Alpeggio di Krédémì. (Foto Musso) Nella stalla trovano posto gli animali da mungere: i vitelli dopo il pascolo sono rinchiusi in un recinto vicino alle costruzioni, un tempo probabilmente utilizzato per pecore; mentre i manzi, con a volte il bestiame minuto, vengono imparcati in vallette laterali. Riporto di seguito un breve accenno ai principali insediamenti a carattere insistenti nel vallone: i mayens arrivano intorno alla quota di 1400 m s.l.m., l’ultimo alpeggio supera ampiamente i 2200 m s.l.m.! pregiati. Diversa è la situazione nei mayens, dove l’altezza altimetrica minore e il tipo di sfruttamento agrario hanno portato a costruzioni più “ricche”, con l’impiego, oltre che della pietra, di calce e strutture lignee. La tipologia minimale degli edifici del mayen prevede la stalla, una cantina fresca, un luogo di soggiorno ‘dan piellje’ spesso foderato con tavole di larice o abete, una cucina con un punto di fuoco, che funge anche da casera, e un fienile. Quella dell’alpeggio non contempla il fienile vero e proprio, ma un generico deposito, la parte civile è molto spartana, non presenta un fumaiolo sul tetto (il carico della neve potrebbe distruggerlo regolarmente), ma il fumo defluisce dal tetto tramite una losa sollevata. La cantina “frèidi”, in töitschu ‘milch kruatu’ è separata, costruita in un luogo fresco, è più una grotta che un edificio, spesso all’interno vi scorre dell’acqua per permettere la separazione della materia grassa dal latte, da scremare per produrre il burro. Solitamente i flussi di percorrenza nel primo caso sono garantiti utilizzando il dislivello del terreno; viceversa gli alpeggi hanno il civile sopra la stalla spesso accessibile da un blocco scale in muratura che conduce ad un balconcino realizzato sulla facciata principale. All’esterno, entrambi possiedono la concimaia e alcuni canali di irrigazione utilizzati per farvi scorrere il letame, diluito con l’acqua, in modo da concimare i pascoli a scorrimento; per poter permettere tale fertirrigazione gli edifici sono realizzati verso monte, al margine superiore della proprietà. L’acqua viene anche raccolta negli abbeveratoi, in pietra, legno o realizzati nel terreno, indispensabili per dissetare il bestiame, ... e gli “arpians”. Vasir (1280 m slm) É il primo, piccolo, mayen che incontriamo: sito ai margini di una pietraia è protetto dal roccione al quale si addossa. Ronc / Ronh (1315 m slm) Il toponimo è eloquente, indica un territorio dissodato per poterlo mettere a cultura: è un mayen. Situato su un suggestivo poggio che guarda la vallata del Lys, è composto da due fabbricati, uno dei quali è in parte in legno, ma entrambi hanno le murature di pietra con finitura in intonaco di calce a pietra rasa, che rivelano la cura con la quale sono stati realizzati. Lion / Léjunh (1392 m slm) Piccolo nucleo composto da più strutture, delle quali la più recente è il vasto edificio più a nord, distribuito su quattro livelli, il colmo è datato 1895 e le iniziali CJB Consol Jean-Baptiste. L’agglomerato di origine comprende anche quattro edifici, di cui uno in legno un rascard (stadel), indice del probabile antico sfruttamento della zona anche con culture a cereali. Crestas / Krechtaz (1398 m slm) È un piccolo alpeggio, di forma semplice e compatta, appoggiato ai massi erratici di monte. La casera fu costruita nel 1889 come da data sul trave maestro. La sua cantina è poco più su, tra i sassi del clapey. Torretta / Torriti (1465 m slm) Alpeggio, molto trasformato in epoca recente, riveste in- — 24 — A U G U S T A Alpeggio di Pioani. (Foto Musso) teresse per la posizione dominante sul costone che separa Tourrison dal vallone limitrofo, Laval (per gli Issimesi) o Chantoun (per i Fontenemoresi). Tchavaneui / Tschavanellji o Tschannavellji (1492 m slm) Edificio d’alpe, costruito in due fasi successive, prima la parte più alta, poi l’annesso più piccolo (a sinistra guardando dal basso). Lo sporto del tetto sul fronte principale indica in modo eloquente che in questa zona non vi sono problemi di valanghe. La trave di colmo porta incisa la data 1828 e le iniziali CC (Cristoforo Consol). Interessante è il tratto di mulattiera di accesso, con le sponde laterali in pietra. Tourrison (inferiore) / Türrudschu (1637 m slm) Piccolo agglomerato d’alpe costruito a margine di un pianoro per lasciare maggior spazio al pascolo, composto da due nuclei di edifici (la prima abitazione che si incontra reca incisa su una pietra d’angolo la data 1886, mentre la seconda su una pietra murata la data 1802). Tourrison (superiore) / Türrudschu (1643 m slm) Nucleo d’alpeggio, che giace su un piccolo pianoro, composto da diversi edifici, tra i quali una costruzione in legno ‘stubbu’, il cui piano terreno attualmente è utilizzato come cantina per i formaggi, mentre l’annesso in pietra soprastante è utilizzato a stalla per piccoli animali. Sul tetto di quest’ultimo è stato necessario realizzare uno steccato per impedire alle capre si salirci! A valle dello stadel vi è la cantina per il latte; davanti un edificio adibito ad abitazione d’alpeggio con al piano superiore la casera e al piano terreno la stalla; un’altra cantina in pietra è poco più in basso. Krédémì (1771 m slm) Favoloso esempio di adattamento delle costruzioni alle forze della natura: sono dotate di paravalanghe. Quella più a valle è stata edificata contro massi esistenti in loco, mentre quella a monte è stata provvista di un poderoso accumulo di pietre accatastate all’uopo; su di esso anche la supplica della protezione divina, con l’apposizione di una croce sul punto più alto. A lato, dove scorre l’acqua, troviamo la cantina, davanti un abbeveratoio in legno, mentre più in basso una polla risorgiva viene raccolta in una “dighetta” sbarrata da una trave in legno. Pioani / Piannhi (1899 m slm) Altro esempio di alpeggio, adattato perfettamente all’ambiente in cui è stato inserito. La struttura è composta da un edificio in pietra, con tetto a falda unica nella direzione del pendio, protetto, naturalmente a monte, da un paravalanghe in pietra costruito sapientemente; mentre a valle, sfalsato di quota troviamo un recinto, in muro di pietra, per gli animali. Sull’architrave in pietra della stalla si legge la data 1831. Casera Neuva (2003 m slm) Il toponimo indica un’installazione più recente di altre, ma non data il suo impianto. È una costruzione a falda unica sotto roccia atta a riparasi dalle valanghe. La Mianda (2000 m slm) È un piccolo alpeggio, di forma semplice e compatta, con colmo orientato parallelamente alle curve di livello. Per poter permettere l’insediamento verso monte è stato costruito un piccolo muretto a secco di contenimento. L’accesso al piano superiore è garantito da una possente rampa in pietra. Lei kier (2094 m slm) Struttura d’alpeggio molto particolare e ... affascinante, composta da una costruzione chiusa e una aperta. L’e- — 25 — A U G U S T A Alpeggio di Lei Kier. (Foto Musso) dificio è stato realizzato in due fasi: prima la parte di monte, poi quella di valle. La parte a valle presenta incisa sull’architrave della stalla la data 1888. Il tutto ha generato un complesso edilizio molto suggestivo con la falda del tetto a valle molto vasta, che si protende quasi a proseguire il pendio. Il recinto esterno per gli armenti è realizzato con un muro in pietra; ricorda una fortificazione preistorica, come fossimo in un’area nuragica. La capacità di adattarsi alla morfologia del terreno in questo caso tocca livelli d’eccellenza: le case seguono il pendio e il recinto insiste sul soprastante pianoro. La casa è posizionata in maniera per cui le valanghe che scendono copiose nel pianoro a monte, dove si trova il lago, non la danneggiano. La cantina per il latte si trova nella pietraia fra grossi massi a monte del recinto. Crest / Krecht (2253 m slm) È l’alpeggio più in quota di tutto il vallone, sito poco sotto il Col du Loup (2342 m slm); ha una trave interna datata 1748 con le iniziali JC (Jean Consol), ha sfruttato l’orografia del luogo con la costruzione di due corpi distinti, ma adiacenti, realizzando due stalle e il civile al piano superiore di quella a monte. L’edificio a valle ha incisa sull’architrave in pietra della stalla la data 1878 e le inziali di Jean Baptiste Consol Stoffultsch (*1821†1902). La sua fonte sgorga nella pietraia. Lei Kier fine luglio 2009, il fronte della valanga arrivava ancora a coprire quasi tutto il pianoro retrostante il recinto per gli armenti, e il lago era completamente invaso. La casera d’alpeggio è posizionata al di sotto del gradino da cui scendono le acque del lago, in maniera per cui le valanghe che scendono copiose nel pianoro a monte, dove si trova il lago, non la danneggiano. (foto Musso) — 26 — A U G U S T A Il toponimo Ruassi nel Vallone di San Grato: Traccia linguistica e d’uso del suolo Michele Musso A ll’interno del sistema di comunicazione di patate, coltivate dalla fine del XVIII secolo, quando si del töitschu, il dialetto tedesco di Issime, introdusse nell’alimentazione umana il prezioso tubero. non è più compreso il primitivo significato Il beerg di Ruassi è situato nell’adret (sunnuhalb in del toponimo d’Ruassi. Tutti, però, issimetöitschu) del Vallone, versante esposto a sud, che nel mesi, proprietari, e conoscitori del Vallone di dioevo è stato diviso in lotti. Probabilmente in principio, San Grato, sanno a quale zona si riferisce. per gli abitanti originari di Issime, in seguito per i nuovi Un toponimo può mantenere il proprio compito anche arrivati, i Walser. I Walser si sono installati nel Vallone e quando non si conosce più il valore semantico, o quando vi hanno vissuto almeno a partire dal XIV secolo, utilizè scomparso ciò che l’ha motivato e generato, in quanto zando una parte di queste grandi particelle, dopo aver interessa solo un certo settore della vita quotidiana ridisboscato parte del territorio in differenti modi. Le zone stretto alla denominazione geografica. L’aspetto odierno di insediamento sono state suddivise in complessi di codel sito di Ruassi non suggerisce più, perlomeno a prilonizzazione in relazione all’esposizione, all’altitudine, ma vista ed in maniera evidente, l’oggetto cui il toponimo si riferisce e le attività che in quel luogo si svolgevano. Il toponimo Ruassi, oggi, identifica un villaggio a 1772 m s.l.m. Il villaggio è compreso in quella fascia del Vallone chiamato dagli issimesi d’Beerga1 (i mayens), dai 1300 m ai 1800 m s.l.m. I Beerga si trovano fra il fondovalle di Issime e gli alpeggi, e fino alla prima metà del XIX secolo costituivano sedi stabili d’insediamento. Questa fascia, attualmente, è sfruttata a pascolo estensivo, ma fino agli anni ’60 del secolo scorso era utilizzata, ancora e in parte, a coltura intensiva2, prati da sfalcio, campi Il villaggio di Ruassi. (Foto Musso) di segale, e soprattutto I Beerga (mayens) sono costituiti generalmente da case di abitazione con stalle, fienili e granai annessi, da campi (achara), e prati da sfalcio (eegerdi). 2 Riguardo l’abbandono dell’economia alpina a Gressoney cfr. ZÜRRER 2009, Dialetti walser in contesto plurilingue, p. 80. 1 — 27 — A U G U S T A Cumuli di materiale di risulta lungo la mulattiera in direzione del villaggio di Chröiz, in corrispondenza delle pozze per la canapa. (Foto Musso) alla natura del suolo e quindi utilizzate per l’agricoltura e pastorizia. Un’estesa opera di progressiva espansione e di miglioramento della terra disponibile utile all’agricoltura e alla pastorizia con azioni di dissodamento, terrazzamento, adduzione d’acqua per irrigare e ‘fertirrigare’. Il vallone di San Grato è l’unico esempio in Valle d’Aosta ad aver mantenuto intatta la struttura fondiaria della colonizzazione, passata da un insediamento temporaneo (della popolazione romanza) ad un insediamento stabile (della popolazione walser)3. Il paesaggio presenta, quindi, gli elementi di modifica del territorio che ricordano i molteplici modi di sfruttare la montagna a fini agricoli, sia intensivi, sia estensivi. Ciascun lotto ha conosciuto una storia agraria differente. Il territorio di Ruassi si trova lungo la mulattiera detta dan undre Weg (mulattiera di sotto), anche chiamata da vuss Weg (mulattiera pedonale), che si snoda nella fascia bassa del versante esposto a sud del Vallone. Il villaggio di Ruassi è collegato alla fascia alta del versante, percorsa dalla mulattiera detta dan uabre Weg (mulattiera di sopra) o d’chünu Weg (mulattiera per le vacche), da un sentiero gassu, delimitato in parte da muretti, o da lastre, o da pietre inserite verticalmente blatti, per impedire che al passaggio delle vacche queste ultime uscissero nei campi coltivati. Questo sentiero passa per il beerg di Méttelti (oggi utilizzato come alpeggio), che si trova nella fascia alta, e raggiunge la mulattiera dan uabre Weg (mulattiera di sopra). I due differenti percorsi, dan undre Weg e dan uabre Weg, paralleli alle curve di livello, lungo i quali si distribuiscono le particelle realizzate in maniera diffusa, perché appartenenti a proprietari differenti al momento della colonizzazione del territorio, corrispondono ai camminamenti di penetrazione nel bosco e allo schema direttivo della messa in coltura stessa del Vallone. Il villaggio di Ruassi, oggi, è costituito da due abitazioni, Ringrazio a questo proposito l’architetto Claudine Remacle per avermi fornito informazioni utili e preziose sul modello di insediamento e messa a coltura del Vallone di San Grato e della Valle del Lys in genere. 3 — 28 — A U G U S T A Una pozza per la canapa riempita da materiale detritico. (Foto Musso) una in muratura risalente al 1824, data incisa sulla trave maestra, e l’altra in legno del 1561, data incisa sull’architrave di una porta. Ai piedi della prima casa è presente un vano aperto all’esterno con volta in pietra che protegge un forno per la cottura del pane; alla base del muro, dove si apre la bocca del forno, sgorga una fonte. La presenza di un forno, certamente, testimonia la produzione di pane e quindi anche di cereali. A fianco del forno sorge un piccolo edificio, in parte in legno, che un tempo, probabilmente, fungeva da locale deposito per attrezzi. Poco oltre il villaggio e più in basso, seguendo il ruscello che origina dalla sorgente, lungo la mulattiera dan undre Weg, in direzione del villaggio di Chröiz, si possono osservare cumuli di materiale di risulta, un misto di terra, detriti e grossi sassi ammassati disordinatamente. A lato di questi cumuli si trovano delle pozze artificiali, almeno due, non più utilizzate, una delle quali è ben definita ed ancora intatta, contornata da muretti, a forma di rettangolo irregolare e dalle dimensioni di 6x5 m, al suo interno scorre ancora dell’acqua e in parte è riempita da materiale detritico. A monte delle pozze si trova il sedime di un’antica abitazione. Il toponimo compare in un documento del 1477, segnalato da Roberto Nicco4, riportato nella forma ‘Le Rosse’ in cui è citato un ‘rascard et un tectum [stalla]’, in un campo ‘cum quodam fonte’. Nel Livre terrier del 1645, conservato nell’archivio comunale di Issime, lo ritroviamo come ‘Les Roozes’ e ‘Les Roozes, le champ de la fontaine e des roozes’. Il documento riporta il nome, l’uso, l’estensione e la proprietà di ciascuna particella. Il territorio così denominato nel 1645 si configura totalmente utilizzato in suolo agra- rio per campi e prati, per un totale di 12,50 ‘quartanée’5 diviso fra quattro proprietari. Nel testo fondamentale di Paul Zinsli [Zinsli 1984, Südwalser Namengut] sulla toponomastica nell’area walser a sud delle Alpi – il volume raccoglie più di 4000 toponimi di venti insediamenti walser – alla voce Rôsse(n), Rôssu6, troviamo ‘piccolo stagno artificiale, fossa d’acqua per ammollare la canapa o il lino; mu het ggrssut <si è macerato (lino)> (Bosco-Gurin)’. In töitschu le vocali lunghe diventano dittonghi ô > ua7. Nella pubblicazione8 edita dalla Regione Piemonte sulla toponomastica di Alagna sono attestati due toponimi nella forma ‘in da’ Rousse’ - ai maceratoi, queste pozze si trovano nel luogo in cui ‘in passato sgorgava una piccola sorgente che alimentava alcune vasche utilizzate per la macerazione della canapa’. Ad Alagna il vocabolo Rousse, Roussa9 ha mantenuto il suo significato e utilizzo. Pare dunque che il significato originario di ruassi (sost. plurale) debba essere ‘maceratoi per la canapa’, la presenza di pozze, la disponibilità e abbondanza d’acqua depongono a favore. NICCO, Notes sur le peuplement du vallon de Saint-Grat (Issime) au cours des XIVe et XVe siècles, in Le Flambeau n.134, Aoste 1.trim 1992, p. 10. 5 Misura di superficie dei terreni utilizzata in Piemonte e nel Ducato di Aosta. Nella Valle del Lys, nel corso del XVII secolo, la quartanée quartinata equivaleva a mq 608,128. Si deduce che nel 1645 i terreni utilizzati a prato e campo a Ruassi erano di circa 7.600 mq. 6 La stessa etimologia ha il termine francese routoir ‘maceratoio’ deverbale di rouir ‘macerare’, quest’ultimo deriva infatti dal fráncone (lingua del ceppo germanico) rotjan. (Nouveau dictionnaire etymologique et historique Larousse / par Albert Dauzat, Jean Dubois, Henri Mitterand, 4. ed., Paris 1964 ; Cfr. anche Schweizerisches Idiotikon 6, 1407). 7 Cfr. ZÜRRER 2009, op. cit., p.129. 8 FERRARIS 2009, I nomi di luogo di Alagna Valsesia – Ourdnome van im Land, p.185. 9 Cfr. GIORDANI, La colonia tedesca di Alagna-Valsesia e il suo dialetto, IIa edizione, Varallo Sesia 1927, p.171. 4 — 29 — A U G U S T A Pozza per la canapa ancora ben conservata, contornata da muretti, dalle dimensioni di 6x5 m, in parte riempita da materiale detritico. Sullo sfondo il villaggio di Ruassi. (Foto Musso) Molti issimesi ricordano i campi di canapa e le pozze per la macerazione nel fondovalle. La canapa è stata, tra le specie coltivate, una delle poche conosciute fin dall’antichità sia in Oriente che in Occidente. Con le materie prime della canapa si producono tessuto e cordame. Le pozze erano utilizzate per mantenere immersi i fusti leggeri della canapa raccolti in fascine, previa essicazione, posti sotto il peso di grossi sassi, solitamente conservati ai bordi del maceratoio, dello stesso tipo di quelli presenti a Ruassi sui cumuli. Per la macerazione non è necessaria molta acqua ma un ricambio continuo per mantenerla pulita. Dopo alcune settimane le fibre esterne dei fusti venivano staccate con facilità, recuperate, e opportunamente seccate, erano pronte per la filatura. I resti secchi degli stessi fusti decorticati erano usati poi come combustibile povero10. Il vocabolo in töitschu per indicare oggi il maceratoio per la canapa è ‘da noas11 / d’noasa (pl.)’ (s.m.), prestito integrato dal patois di Gaby ‘lou nòs’12 (s.m.) deverbale di ‘nasòhr’ macerare, a Fontainemore ‘nasai’ (v.), francoprovenzale nëce [né-se] (s.m.) deverbale di nèisé13. Nel fondovalle di Issime troviamo i toponimi d’Noas, d’Noasa e d’Noasara14 ad indicare la presenza di maceratoi, lungo lo Stolenbach (torrente) nei pressi del villaggio del Colgo l’occasione per ringraziare Laura Busso Lixandrisch per le preziose informazioni sulla coltivazione e sulla lavorazione della canapa, e per avermi accompagnato a ritrovare le pozze lungo il torrente di Tourrison. 11 Qualcuno utilizza anche il termine d’hampfgüllju ‘pozza della canapa’. 12 Dato linguistico tratto dall’Atlante dei Patois Valdostani (APV). Ringrazio per la gentilezza e disponibilità Saverio Favre del B.R.E.L. di Aosta. 13 Dato ricavato da Nouveau dictionnaire de patois valdôtain / Aimé Chenal et Raymond Vautherin, Aoste 1997, pp.1178 e 1181. 14 Nel töitschu si riscontra l’uso di alcuni termini derivati dall’aggiunta del suffisso nominale –ara alla radice del sostantivo. Quest’ultimo derivato dal töitschu, o dalla lingua di contatto, in particolare nei casi analizzati, dal patois: d’érllju, d’érlji (pl.) > d’érllj-ara; d’lljischu, d’lljischi (pl.) > d’lljisch-ara; d’noas, d’noasa (pl.) > d’noas-ara; d’las-ara dal termine francoprovenzale las; d’blattu, d’blatti (pl.) > d’blatt-ara; rispettivamente col significato di luogo dove si trovano: ontani (pianta), erba di acquitrino (carice), maceratoi per la canapa, lastroni di roccia affioranti dal terreno (stesso significato per i termini lasara e blattara, ma il primo ha radice romanza, il secondo germanica). Nella toponomastica, e solo nella toponomastica, troviamo la forma Verni-ara, ad indicare un bosco ricco di ontani, accanto alla variante romanza Vernei, e quella in töitschu érlljara (vedi oltre nel testo). Ad Alagna è attestato il toponimo d’Stainera “le zone sassose” da stain, staina (pl.) (FERRARIS 2009, op. cit., p.204), ed il vocabolo d’chroutera ad indicare un prato dove si trova erba da falciare con la falce messoria, dal sostantivo d’chrout erbaggio (testimonianza raccolta da Bruno Degasparis falegname di Alagna). Nelle voci sopra analizzate il suffisso –ara potrebbe essere l’esito di quello attestato in area romanza –era, ad esprimere lo stesso concetto. In piemontese troviamo i vocaboli drugera, aliamera (letamaio), giasera (ghiacciaia), cravera (stalla per le capre), fnera (fienile), derivati rispettivamente dalla base nominale drugia, aliam, giassa, crava, fen; lo stesso vale per il vocabolo casera baita, inteso come locale in cui si produce e si conserva il formaggio (dal latino caseus). In patois segnaliamo i termini tchenevera (campi di canapa), bruachera (luogo dove crescono mirtilli), tchevrera (stalla per capre), tcheresera (luogo dove crescono alberi di ciliegio), murgera (cumuli di pietre esito di uno spietramento). Se così fosse, apparirebbe alquanto originale, a segnalare la vitalità e la spiccata originalità del töitschu. In questo modello si distinguono tre parti: articolo determinativo del töitschu + morfema base, dal töitschu, o dal patois + suffisso del codice romanzo. Difficile individuare i confini fra un codice e l’altro, si pensi alla parola d’lasara, costituita da una radice romanza e un suffisso a sua volta di origine romanza, ma integrata perfettamente nel sistema morfofonologico del töitschu. Tra l’altro nel patois quest’ultimo termine non è presente. Bisogna segnalare infine che nel suffisso –ara la vocale ‘e’ si trasforma in ‘a’ per attrazione vocalica (anche detta armonia vocalica). Fenomeno fonologico già osservato nel dialetto tedesco di Issime da Renato Perinetto: ‘l’apparato fonatorio viene adeguato anticipatamente alla pronuncia della desinenza che, in quanto tale, influisce sulla penultima vocale trasformandola in un suono uguale alla desinenza stessa’ (PERINETTO 1989, Una particolarità vocalica nella parlata di Issime, In: Augusta, pp. 12-19). 10 — 30 — A U G U S T A Pozza per la canapa lungo il Türrudschunbach nei pressi del villaggio di Gran Pra nel fondovalle di Issime, alimentata da una sorgente che sgorga nelle vicinanze, in consorzio fra le famiglie Busso-Schützersch e Linty-Rowersch. (Foto Musso) Sann nella zona chiamata d’Wasseri (zona ricca di fonti); lungo il Türrudschunbach nei pressi del villaggio di Gran Pra due maceratoi alimentati da una sorgente che sgorga nelle vicinanze, uno consortile fra le famiglie BussoSchützersch15 e Linty-Rowersch e l’altro della famiglia Ronco-Pétéretsch; lungo il Rickurtbach nel territorio chiamato Vernei (ma anche Verniara o d’érlljara)16 - compreso nella zona denominata Kioset17 al di sotto del ponte per il villaggio di Rickurt - portati via dall’alluvione del 4 settembre 1948; per i villaggi di Crose, Rollie e Rickurt superiore si utilizzava una pozza naturale scavata in un masso lungo il torrente, sulla destra prima di attraversare il ponte in legno che conduceva a Rickurt superiore, anch’essa coperta dall’alluvione del 1948; e a Seingle superiore lungo il Ru de Fontaineclaire, roggia (wüli) derivata dalla fonte omonima Funtrunkieru. Un atto notarile in francese18 del 1736 attesta la coltivazione della canapa nel Vallone di San Grato al beerg di Bech. Si tratta di un atto di divisione del patrimonio ereditato: “Partage fait entre honnetes Jean Louis, Jean Joseph et Jean Pantaleon freres fils a fue Jean Louis Mathery d’Issime – 26 janvier 1736, Joseph Alby notaire”. La famiglia Mathery, conosciuta col soprannome di Bennetsch, ha dimora nel villaggio di Hubal e possiede anche un’abitazione a Bech. Fra le molte proprietà è citata una pozza per mettere a macerare la canapa nel villaggio di Bech “dans la ditte piece la nais19 a baigner chanvre en l’endroit qu’il le trouve a present le quel creu à baigner chanvre reste Come ricorda Laura Busso Lixandrisch: ‘Ogni anno dovevamo ripulire la pozza dalla terra che si accumulava e dal muschio che cresceva, per avere l’acqua pulita. Immergevamo poi le fascine, sopra mettevamo due tavole e sopra due grosse pietre. La pozza era contornata da lastre di pietra di taglio e aveva il pavimento ricoperto di lose [lastre di pietra]. L’alluvione del 1948 ha portato via quella dei Pétéretsch, la nostra sono cinquant’anni che non la utilizziamo, ma c’è ancora’. 16 Vedi nota 14. 17 Conca boschiva inserita in una scarpata morfologica lungo il torrente, sul cui ciglio si affacciano i villaggi di Rickurt di mezzo e inferiore. Per quest’area è difficile, oggi, leggere i caratteri morfologici originari. È stata recentemente riempita da materiali inerti e di discarica, quindi colmata con riporto di terra. 18 Arch. privato Imelda Ronco, Issime. 19 L’uso della voce dialettale ‘nais’ (maceratoio) nell’atto notarile in francese attesta l’uso di questo termine nella lingua parlata. Appare chiaro che un atto notarile debba essere compreso non solo da chi lo stipula ma anche dalle parti che lo sottoscrivono. 15 — 31 — A U G U S T A famiglie, spesso le pozze restavano in proprietà indivisa così come nel fondovalle, che le famiglie erano obbligate a mantenere i maceratoi costantemente puliti e funzionanti. Molto probabilmente sì è continuato a coltivare la canapa finché il Vallone è stato abitato tutto l’anno, fino alla prima metà del XIX secolo20, come già evidenziato. Agli agricoltori, infatti, veniva richiesto l’impegno non solo per la coltivazione, ma anche per tutte le fasi successive di macerazione, stigliatura e lavorazione della fibra. La semina avveniva in primavera, la pianta raggiungeva la maturità ad agosto-settembre, i fusti erano fatti seccare, quindi messi a macerare una ventina di giorni, nuovamente messi a seccare, quindi stigliati. La fibra ottenuta doveva essere sbiancata nella cenere, quindi nuovamente essiccata, a questo punto era pronta per essere filata. Grande maceratoio in pianura, anno 1938. A macerazione ultimata i fasci erano posti ad asciugare. I massi accumulati ai bordi della pozza servivano per mantenere immersi i fasci della canapa. en commun entre les dits freres compartissants avec leur entrée et sortie pour baigner le dit chanvre qui ace fin seront tenus alentretien et manutention du dit creux”. La pozza della canapa si trovava probabilmente nell’appezzamento, chiamato ancora oggi Bennetsch Eebana [Il piano dei Mathery], che si trova sopra le case di Bech lungo il torrentello, appezzamento che è, oggi, attraversato dalla strada carrozzabile. Dal documento ricaviamo, che la coltivazione della canapa era praticata certamente nel Vallone di San Grato, che la coltivazione era diffusa fra le Ciò che contraddistingue la comunità issimese, rispetto ad altre realtà dell’arco alpino, come evidenziato da molti studi, sono il plurilinguismo e la compresenza di due gruppi etnici (quello tedesco e quello francoprovenzale) entro lo stesso territorio. Riguardo al plurilinguismo, storicamente attestato, si arriva effettivamente fino a cinque varietà nelle competenze linguistiche di molti issimesi21. Come affermato da Silvia Dal Negro22 ‘con i suoi cinque codici a disposizione, la comunità di Issime è una delle più ricche d’Italia dal punto di vista linguistico’. Sono soprattutto il franco-provenzale e il piemontese, rispetto al francese e all’italiano, le lingue dei vicini, a rivelarsi ‘come fonte di prestiti nel lessico quotidiano e precisamente all’interno di ambiti concreti’ [Zürrer 2009, p.121]. Ad Issime si può tranquillamente affermare che tutti i campi semantici sono stati interessati dal fenomeno del prestito linguistico. Sotto la pressione del contatto continuo e quotidiano con i vicini, è facile che un elemento lessicale della lingua di contatto venga a sostituire un termine già esistente nel dialetto tedesco. Molti termini relativi alla casa sono di origine romanza ed hanno sostituito il termine originale in töitschu, come ad esempio kruatu cantina (dal piem. cròta) al posto di chéller, piellje stanza soggiorno (dal patois peiljou, péilu) corrispondente al termine stubbu, così per indicare la soffitta si utilizza un prestito romanzo galataz23. Il termine ‘stubbu’ era ancora utilizzato per indicare le piccole stanze in legno usate per passare la notte e quelle utilizzate a dispensa nelle abitazioni e negli stadel (rascard) dei Beerga24. Nell’ambito dei termini relativi alla descrizione della morfologia del territorio, legati quindi alla denominazione geografica, fra quelli che ricorrono più frequentemen- Nel registro dei conti dei procuratori della chiesa di Issime-Saint-Jacques, conservato nell’archivio parrocchiale di Issime, in data 6 ottobre 1765, in cui si ribadisce il regolamento per la distribuzione del pane benedetto, sono elencate tutte le famiglie (fuochi) di Issime (compreso Gaby), distinte per villaggio. Il Vallone di San Grato era allora ancora abitato da ventitre famiglie distribuite fra i villaggi di Valbounu, Hubal, Bech, Blatti, Écku, Lansiniri, Chröiz, Bühl e Ronh. 21 ZÜRRER 2009, op. cit., p.83 e seguenti. 22 DAL NEGRO, GUERINI, Contatto: dinamiche ed esiti del plurilinguismo, 2007. 23 Cfr. fr. galetas. 24 Nel dialetto walser di Issime con il termine stubbu si indicava anche una costruzione in legno utilizzata come granaio e/o per conservare il fieno. Ne rimane un esemplare nel villaggio di Hubal, uno all’alpeggio di Tourrison sup., qualche anziano ne 20 — 32 — A U G U S T A te oggi, nel dialetto tedesco, sono i termini romanzi pianh (s.n.) e krüp (s.m.) (dal patois grüp) rispettivamente con il significato di piano, terreno pianeggiante, pianoro, fondo e promontorio, cocuzzolo, dosso, gobba del terreno, accanto alle forme originarie eebana (s.n.), o indistintamente eebeni (s.f.), buade (s.m.) e hubal (s.m.). Nella toponomastica si trovano nelle varianti, Pianh, Pianhi, Pioanu, Pioani, Pianh van z’Nuas (Piano del mulo), e krüp, krüpji, Untunun krüp, dan Uabren krüp, Leisisch krüp, dar Lljibuvrawun Krüp in compresenza con, Eebana, Bennetsch Eebana, Buade, Schwoarzen Buade, Buadma e Hubal, Hubelmatti, Hubelti. Questi termini sono entrati ormai a fare parte del sistema del dialetto tedesco. Tale processo appare concluso per il termine krüp che ha sostituito il vocabolo hubal25, mentre è in atto per il termine pianh. È molto probabile che lo stesso fenomeno abbia interessato il vocabolo noasa, relegando così il termine Ruassi alla toponomastica e all’oblio. Spesso i mutamenti linguistici sono dettati da uno sforzo d’adesione di una lingua ad un’altra in conseguenza di mutate condizioni nel contesto sociale. A questo proposito, oltre al secolare contatto all’interno del proprio ambito sociale con una popolazione di lingua diversa, ciò che ha influenzato in maniera inconfondibile il repertorio e il comportamento linguistico degli issimesi, rendendoli permeabili all’innovazione e all’influsso dalle altre lingue, è stato il sistema “tradizionale”, tipico delle popolazioni walser a sud del Monte Rosa, in cui emigrazione temporanea e attività agro-pastorali si sono per secoli integrate e combinate alla ricerca di un delicato equilibrio. Ad Issime, infatti, era pratica comune di affittare – per lo meno nel corso degli ultimi duecento anni - buona parte degli alpeggi a mandriani forestieri provenienti dalla Bassa Valle d’Aosta, dal Canavese e dal Biellese. I pastori esterni, che arrivavano alla metà di giugno, per raccogliere gli animali degli issimesi e salire poi agli alpeggi, per rimanervi fino alla fine di settembre, giungevano proprio nel momento di massima contrazione della comunità in quanto gran parte della popolazione maschile attiva era ormai partita per la Francia e per la Svizzera francese, in particolare per praticare il mestiere di muratore26. Inoltre poiché la popolazione residua, fatta di donne27, di anziani e di bambini che viveva nel Grunn (fondovalle) e nei Beerga, non era in grado di svolgere tutti i lavori agricoli legati alla raccolta del fieno, che serviva al nutrimento invernale degli animali, ad essa si univano per un breve periodo i falciatori provenienti dalla vicina Val d’Ayas28. Alla luce di quanto esposto la rimanenza della voce Ruassi nella toponomastica è particolarmente importante in quanto è uno dei pochi esempi di toponimo antico, riferito all’attività umana29, che abbia sul terreno le tracce materiali della sua origine, le pozze per la macerazione della canapa, mentre la maggior parte dei toponimi si riferiscono alla morfologia del territorio o sono associati a forme vegetali. La possibilità di comprendere una cultura e la sua espressione passa attraverso la riconoscibilità e leggibilità di un patrimonio, costituito da testimonianze strutturanti il territorio. Siano queste di natura fisica o solo tramandate dalla tradizione orale, esse permettono la comprensione di un sistema che si è modificato nel tempo, anche dal punto di vista linguistico. È fondamentale in quest’ottica descrivere e interpretare le strutture di colonizzazione e di insediamento nei loro assetti temporali successivi, avvalendosi anche dell’analisi linguistica. Spiegare e illustrare i caratteri di ciascun assetto, cogliendoli, negli aspetti tipici e in quelli singolari, in rapporto alle attività e in generale alla vita che vi si svolgeva. Siamo di fronte nel Vallone di San Grato, ricco di testimonianze, così come nell’intero territorio di Issime, ad un vero e proprio “ecomuseo”, oserei dire “del territorio” e “della lingua”, che, attraverso itinerari a soggetto, può aiutare un eventuale visitatore a cogliere il valore di testimonianza culturale, e a fruire del paesaggio non solo come una bellezza da gustare, ma anche come il risultato di un processo storico. ricordava uno nei pressi del villaggio di Chröiz per salire verso Ruassi. Questa accezione del significato del vocabolo era conosciuta da pochissimi anziani. È comunque rimasto nella toponomastica Stubbu; Stubbun acher: un campetto di patate vicino ad un piccolo rascard ora crollato, nel villaggio di Écku nel vallone di San Grato; Stubbi per la presenza di alcuni piccoli rascard oggi scomparsi ma di cui rimangono i basamenti; Joakisch Stubbi piccolo rascard abbattuto nel 1944 per costruirvi una baita d’alpeggio. A Gaby, nel dialetto si usa ancora il termine stuba per indicare un granaio; stuba è in competizione con il termine grahnir. 25 Sull’uso e significato di questo vocabolo Onore Busso Lixandrisch (*1923†1999) ricordava di un anziano ‘il vecchio di Valbona’, come lo chiamava Onore, un certo Joseph Jean Sebastien Chamonal Moartasch (*1850†1946) che viveva al villaggio del Pra superiore, che un giorno gli disse, mentre cercava di trasportare un carico di fieno: “um bürren dan persal zoanene unz das ich vinnen as hubalti” – ‘per caricare il fascio di fieno lo trascino finché trovo un cocuzzolo’. Onore ricordava l’episodio perché aveva udito usare quel termine da quell’anziano e da nessun altro. (Testimonianza raccolta dal sottoscritto nel 1994). 26 Il francese non era solo la lingua di chi emigrava, ma anche della Valle d’Aosta e soprattutto della chiesa, ed era la lingua con la quale gli issimesi si servivano per scrivere (lettere, atti amministrativi, giudiziari e notarili) e per leggere (testi sacri, almanacchi, libri di narrativa). 27 La maggior parte del lavoro agricolo era in mano alle donne. 28 Cfr. BODO, MUSSO, VIAZZO, Dalla toma alla fontina: trasformazioni della produzione casearia nella Valle del Lys, in: Stuart Woolf e Pier Paolo Viazzo (a cura di), Formaggi e mercati: economie d‘alpeggio in Valle d‘Aosta e Haute-Savoie, 2002. 29 Fra gli altri: Ronh, Ronc terra dissodata, sottratta al bosco, dal medio-latino roncus, runcus, deverbale di runcare ‘sarchiare, dissodare; Acher / Achara (pl.) campi, d’Karbunuru carbonaia; z’Tschabbiet / z’Tschobbiet: diminutivo di tchabio, deverbale di tchabià indica un canalone per lo scorrimento a valle dei tronchi d’albero, in inverno quando c’è neve; d’Mülli mulino. — 33 — A U G U S T A “Tutti italiani?”, wir hen antcheede: “Sì!” “Tutti italiani?”, noi abbiamo risposto: “Sì!” Barbara Ronco Margitisch En 1995, dans le cadre des manifestations visant à rappeler par des cérémonies publiques ou par des ouvrages commémoratifs les événements les plus frappants de la lutte pour la Libération, dont à l’époque on célébrait le cinquantième anniversaire, l’évocation du drame de la déportation dans les camps de concentration nazis avait trouvé une place dans le livre “Ai giovani perché sappiano” (Imprimerie Valdôtaine, Aoste). La terrible expérience des “lager” avait été racontée par certains survivants et les témoignages soigneusement rassemblés par Lucienne Faletto Landi. Parmi ceux-ci il y avait celui de l’issimien Fortunato Consol. Il s’agissait de son journal de guerre, écrit à Issime en 1945 mais racontant les 66 mois de service militaire, de guerre et d’emprisonnement. Le livre s’ajoutait à toute une bibliographie qui cherchait de combler les longues années de silence sur cette triste page d’histoire. Ce n’est qu’en 2006, par la loi nationale n. 296, que l’Etat italien a reconnu officiellement les souffrances des déportés e a institué la concession d’une médaille d’honneur aux citoyens italiens qui avaient vécu la déportation dans les camps nazis. Il a fallu encore un peu de temps, mais finalement Fortunato Consol a été décoré le 27 janvier 2011, jour de la Mémoire, dans la salle des manifestations du palais du Gouvernement régional par le Président de la Région Augusto Rollandin dans sa qualité de Préfet. Parmi toutes les célébrations des 150 ans d’Unité d’Italie, l’Augusta pense que donner encore la parole aux protagonistes de la Libération, page pilier de l’histoire de la Nation, soit une façon simple mais touchante de dire encore une fois aux jeunes: “n’oubliez pas”. Les valeurs les plus importantes pour tous les peuples sont la liberté et la démocratie. Ci-dessous, l’interview à Fortunato Consol en töitschu avec traduction en italien. Elena Landi Le parole sono di un issimese, Fortunato Consol, che ringraziamo per la disponibilità e sensibilità dimostrata. Fortunato Consol (*1920) F. Ischt sua…d’létschtu joari ischt gsinh da chrig, da chrig ischt gsinh leidi dinnhi, ah, ischt gsinh wiltsch, darnoa henni mussun goan zwei un zwénzg moanada prisonnier im Töitschlann, in t’campo d’concentramen, doa hewer franh dénght das war hetti mussu steerbe, invece… B. Doa hentsch ni toan z’weerhu… F. Toan z’weerhu, hentsch nündŝch toan z’weerhu uber le linee ferroviarie, wa an tag hentsch bombardé, khéit allz…dan tag darnoa séwer kannhe rüschten un noa zwian toaga ischt amum gsinh… un génh sua un génh sua, vür zwei un zwénzg moanada un doa hewer mussu heen…le remerciement hewer mussun geen da fümmulu antweege wénn het glljöit l’allarme das hescht mussun askappurun vam weerch dé sewer askappurut un kannhen en campagne woa ischt gsinh habité lljöit un kannhe vriege a stukh bruat ol zwien trüffili, z’merteil hentsch kheen il pi gross trüffili, anner… F. È così…gli ultimi anni c’era la guerra, la guerra erano brutte cose, ah, era terribile, dopo ho dovuto andare ventidue mesi prigioniero in Germania, in un campo di concentramento, lì abbiamo proprio pensato che avremmo dovuto morire, invece… B. Lì vi hanno fatto lavorare… F. Fatto lavorare, ci hanno fatto lavorare sulle linee ferroviarie, ma un giorno hanno bombardato, buttato tutto… il giorno dopo siamo andati ad aggiustare e dopo due giorni era di nuovo…e sempre così e sempre così, per ventidue mesi e lì dovevamo avere…il ringraziamento abbiamo dovuto darlo alle donne perché quando suonava l’allarme che dovevi scappare dal lavoro allora scappavamo e andavamo in campagna dove abitavano le persone e andavamo a chiedere un pezzo di pane o due patate, in genere avevano per lo più patate, altro… B. Sì, sì, per lì avevano i campi. F. Campi e poi la Germania è una produttrice di patate, così le povere donne non avevano…chi aveva qualche — 34 — A U G U S T A patata, chi un altro B. Ja, ja, dabbiri giorno…e il miglior hentsch kheen affare che ho fatto achara. una mi ha dato un F. Achara un té pezzo di lardo, quello z’Töitschlann ischt sì che era…perché una produttrice di da mangiare non ce trüffili, an dem ne davano quei porci d’uppugu fümmili di tedeschi, nessuno hentsch nöit khee… crede eppure io dico wier het kheebe com’era, al mattino a zwian trüffili, wier an colazione niente, c’eandren tag…un dan rano delle colonne da béschten toawan contare, tre, sei, nove das ich hen gmachut e giù di seguito, quaneina het mer keen do erano in fondo alla a stukh loard, das colonna tutto sbagliadoa jia ischt gsinh… to, tutto da ricontare, antweegen z’esse un freddo, in inverno hentsch nündŝch dei freddi e le nebnöit kee déi schwéibie, tutti quegli alberi na van töitschini, bianchi, c’era un fredkhémentsch klaupt do del diavolo, basta, un pürra ich seents finalmente, contare wi z’ischt, da muare ricontare dopo poge z’vörmiss khés tevamo metterci in dinh, ischt gsinh marcia, facevamo sei, de colonne z’zéllje, sette chilometri per dröi, seckschi, nöini andare al lavoro, poi un ambri zu un zu, lavoravamo e spewénn ischt gsinh ravamo sempre che z’undruscht la cosuonasse l’allarme lonna allz gvoalts, per poter scappare, amum wider zéllje, per avere una patata vroschta, da winter da quelle donne; se vroschta un d’geil’allarme non suonava vri, allu déi bauma Attilio Bastrenta, Fortunato Consol (al centro) e Ferdinando Fresc. per pranzo avevamo wéissu, ischt gsinh a mezz’ora…far fuoco, vroscht z’töivulsch, una mezz’ora, e poi spegnere quello e di nuovo al lavoro e basta, for se tun, zélljen un widerzéllje darnoa hewer la sera arrivavi nella baracca, ti davano un mestolo così di muan amodduru, machun secksch, sibben killumetri minestra e un pezzetto di pane; questa minestra era cotta vür goan im weerch, zu gweerhut un génh asperruru nelle caldaie, prendevi da sopra era sovente come acqua, das hetti glljöit l’allarme vür muan askappuru, vür prendevi in mezzo era ancora…là, perché le patate nella arejen an trüffulu van déi fümmili; wénn het nöit glljöit minestra non le pelavano, le lavavano e buttavano dentro l’allarme z’ambéisse ischt gsinh a halb stunn…vöiru, con la buccia e le mangiavamo tutte le bucce, eh, tutte, e a halb stunn, un té zu arlljöschen z’dinh un amum in fondo, cosa vuoi, le patate non erano ben lavate, c’era un z’weerch un dan oabe bischt gcheen in d’barruku, po’ di terra, perciò come ti dico, a volte avevi cinque o sei hentsch keebe an katzu sua chuchi un a stükhji bruat; maccheroni e a volte ne avevi solo due con quel brodo e un diŝch chuchi ischt gsinh gsottni in tschoudiri, hescht pezzo di pane e tirato avanti così per ventidue mesi, non un kiat z’uabruscht ischt gsinh z’merteil wi wasser, hescht giorno di più! Bisogna dire che…io penso che… kiat z’mittag hescht noch areit…là, antweegen di trüffili B. Sì, perché lavorare e non mangiare non so come uno in d’chuchi hentsch dé nöit peelut, dŝchu gwesche un possa… khéit dri mit dar peelutu un hewudŝchu kessen allu F. Ma non avevi più la forza di stare in piedi, era… d’peeliti, eh, allu, un z’undruscht, was willt, di trüffili sén B. Era perché eravate giovani, altrimenti… nöit gsinh wol gweschnu, ischt gsinh as söiri heert, an F. Perché eravamo giovani, ma eravamo rassegnati che dem wi(n) ich der seen, wéilu hescht kheebe vünv ol avremmo dovuto morire e voilà, come ti dico, gli uomini secksch makarunh un wéilu hescht kheen nuan zwei mit erano cattivi ma le donne ci aiutavano, bisogna dire queldéi nessi un a stukh bruat un zuage vürsich sua vür zwei — 35 — A U G U S T A un zwénzg moanada, nöit an tag mia! Muss dŝchi seen das…ich dénghjen das… B. Ja, antweege weerhu un nöit esse wiss nöit wi eis mieji… F. Wa hescht nümmi kheen d’stérrji z’blljéibe schlechts, ischt gsinh… B. Ischt antweege sédder gsinh junnhi, wa süscht… F. Antweege séwer gsinh junnhi, wa séwer gsinh rassigné das hettewer mussu steerbe un voilà, wi(n) ich der see, d’manna sén gsinh schwachi wa d’fümmili dŝch’hen nündŝch noch gholfe, muss dŝchi seen wi z’ischt, wéilu deeru hennündŝch keen unza a stükhji bruat, allz ischt gsinh guts; antweege dan oabe wénn hescht keen kesse das nechtmuss wéilu hescht avanzurut a stükhji bruat sua, hescht gseit “Ma, loants doa vür da muarge, sua krat chorru” wa hescht nöit kiat da schloaf, unz das hescht keen kesse hescht nöit kiat da schloaf! Anche das nöit sén arrivurut gli apparecchi bombarder, antweegen vill vérti d’nacht séwer gsinh…schwétz mer nöit, ja, mu mat nöit asplikkuru, là… B. Na, na, eis hetti manhal z’heen pruavut, ja, süscht sua khüere ischt nöit… F. Mat nöit klaupe, mat nöit klaupe… B. Eis mogoara klaupt wa mascht njanka imaginer… F. Njanka imaginer, franh sua, na… B. Was wéllji seen heen da hunnher, heen choalt un nöit… F. Ich in déi joari henni gsia…anner dén…im Töitschlann das vöirllji z’mittag un basta, neh, halb stunn, ah, hentsch dich nöit gloa vünv münniti mia, caro mio…müssiri davanz hen astüddiurut an andra, darnoa wénn séwer askappurut dŝchacki deeru das sén gcheen sibit im weerch un deeru das hen tardurut, diŝchi héi hen mogoara gleit a halb stunn, trois quart d’heure, dé hentsch astüddiurut das das das wérti arrivurut vom weerch noa un quart d’heure dan oabe hettintsch mu nöit keen z’bruat…dé ischt wi um z’is tüete, via, awek noch das stükhji bruat, jia das wénn het cessato allarme d’lljöit…caro mio, arwékhinündŝch, antweegen süscht z’bruat ischt…un villuru hents varluare, das sén gritte, das sén gvalle, wa sén dén nöit arrivurut in sechze münniti, trois…un quart d’heure: “Höit dan oabe, keine brot!” Voilà, hinna khés bruat. Un da noame schréiben, voilà, gschribben da noame in d’barruku: “Das doa hinna, un das un das…keine brot”. Darnoa ischt dén arrivurut amerikanhara un ingleisera, séntsch gchee helfe süscht mit déi…mit culle bestie doa wiss nöit che fin hettewer gmachut, wiss nöit, wiss nöit, ah, wir sén gsinh rassigné das ündŝche lebtag hetti mussu lljéivrun za vünv un zwénzg joar, mah… (…) F. Jia, Auschwitz, Mathausen, schwétzmer nöit van déi tschemmini, ah, das as lljöitji mieji tun dinnhi sua, seeg mer was Hitler heji kheen in z’hopt, eh, ischt inutil… B. Ischt wi ni see, ischt gsinh sturni wa ellji séntsch mu kannhen zu, antweegen süscht mat nöit sinh… F. Ellji zu, ich hennimi étunnurut das séntsch mu lo che è, a volte loro ci davano anche un pezzo di pane, tutto era buono; perché la sera quando avevi mangiato quella cena a volte avanzavi un pezzetto di pane così, dicevi “Ma, lo lascio lì per la mattina, così di assaggio” ma non prendevi il sonno, fin che non lo mangiavi non prendevi il sonno! Anche se non arrivavano gli apparecchi a bombardare, perché molte volte di notte eravamo…non parlarmene, sì, non si può spiegare, là… B. No, no, uno avrebbe bisogno di aver provato, sì, se no solo sentire non è… F. Non può credere, non può credere… B. Uno magari crede ma non puoi neanche immaginare… F. Neanche immaginare, proprio così, no… B. Cosa voglia dire avere fame, avere freddo e non… F. Io in quegli anni ho visto…altro che…in Germania quel fuocherello a mezzogiorno e basta, neh, mezz’ora, ah, non ti lasciavano cinque minuti in più, caro mio… pensa che prima ne ho studiata un’altra, dopo quando scappavamo già c’erano di quelli che tornavano subito al lavoro e quelli che tardavano, questi ci mettevano magari mezz’ora, tre quarti d’ora, allora avevano studiato che quello che arrivava sul lavoro dopo un quarto d’ora alla sera non gli avrebbero dato il pane…allora era come ammazzarlo, via, ancora togliere quel pezzo di pane, sì che quando c’era il cessato allarme la gente…caro mio, svegliamoci, perché altrimenti il pane…e tanti lo perdevano, che scivolavano, che cadevano, ma non arrivavano in sedici minuti, tre…un quarto d’ora: “Oggi a cena, niente pane!” Voilà, stasera niente pane. E il nome scrivevano, voilà, scrivevano il nome nella baracca: “Quello lì stasera, e quello e quello…niente pane”. Dopo sono poi arrivati americani e inglesi, sono venuti ad aiutare altrimenti con quei…con quelle bestie lì non si sa che fine avremmo fatto, non so, non so, ah, noi eravamo rassegnati che la nostra vita dovesse finire a venticinque anni, mah… (….) F. Sì, Auschwitz, Mathausen, non parlarmi di quegli animali, ah, che una persona possa fare cose così, dimmi cosa Hitler avesse in testa, eh, è inutile… B. È come dico, era pazzo ma tutti gli andavano dietro, perché altrimenti non può essere… F. Tutti dietro, io mi sono stupito che gli siano andati tutti dietro, tutto quello che ordinava…ma ancora gli ultimi giorni della guerra lui aveva ancora da resistere… ma sono morti tanti di quegli uomini che…avrebbero potuto finirla lì tanto ormai vedevano che avrebbero perso, i russi erano da una parte, inglesi e americani dall’altra parte, dove volevano andare, loro erano in mezzo, no, si proteggevano di qua e di là, si proteggevano di qua e di là, sono morti tanti giovanotti, potevano farne a meno, eh sì…e voilà, dopo sono arrivati i poveri americani che ci hanno rotto la porta del campo di concentramento con un carro armato e lì è uscito dalla botola dell’aereo, c’era lì una persona, non ho riconosciuto il grado, che parlava italiano, mi ricordo che ci ha detto: “Tutti italiani?”, noi abbiamo risposto: “Sì!”, “Bene, per voi la guerra è finita!” — 36 — A U G U S T A Oratorio costruito al villaggio del Krecht da Fortunato Consol come ringraziamento alla Vergine Maria per essere tornato dalla guerra e dai campi di prigionia. Fortunato ha voluto trasportare a spalle la sabbia e il materiale per la costruzione. (Foto S. Ronco) zuahen ellji zu, allz was s’het botte… wa noch d’létschtun toaga chrig is het kheen noch z’resesturun…wa sén gstuarbe sövvil der mannu das… dŝch’hetti muan pianturun doa tanto ormai hentsch gsia das sén gsinh varluarni, i russi sén gsinh von a séitu, ingleisera un amerikanhara von d’andru séitu, woa hentsch wélljen goa, dŝchiendri sén gsinh imitsch, na, dŝchi gwért van héi un van doa, dŝchi gwért van héi un van doa, sén gstuarbe houfi mandjini, dŝchi hetti muan tun minnur, eh jia…un voilà, darnoa sén arrivurut d’uppugu amerikanhara das hennündŝch brochen di tür van il camp d’concentramen mit un carro armà un doa ischt gsortrut van di troapu van l’aereo, ischt gsinh doa as lljöitji, hen nöit pniet il grado, das het gschwétzt italien, bsinnimi das hets nündŝch gseit: “Tutti italiani?”, wir hen antcheede: “Sì!”, “Bene, per voi la guerra è finita!” B. Ischt gsinh an gut nawini. F. Eh sì…d’amerikanhara…ischt kannhen wol, gauch, das sén gcheeme dŝchiendri süscht wiss nöit wi…wiss nöit che fin hettewer gmachut. B. Ischt wi dar het gseit, villuru hen nöit muan askappuru. F. Oh, mon Dieu, mon Dieu, na, na, schwétzmer nöit, darnoa hewer mussun noch blljéiben doa as poar moanada, ischt nümmi gsinh noch weega noch ferrovie… B. Nöit gwisst wi tun um goan hinner. F. Um arwinne…um cheen, vür cheen wénn ischt gsinh glljéivriti da chrig, mussun beitun doa, woa geischt esse, anche gcheen z’vuss, wier gitter z’esse, khémentsch het dŝchi, ischt gsinh guts z’see, un doa d’amerikanhara hentsch nündŝch kee, insumma nöit en abondance wa là… B. Na, na, etwas… F. Krat sua vür zin vürsich hentsch nündŝch kee… war hen mussun blljéiben doa unz das hentsch kheen grüscht le ferrovie, le ferrovie darnoa…a voart ischt gsinh…ischt arrivurut doa un cappellan, un cappellan minger, is het gseit: “Adesso le ferrovie sono sistemate su tutto il territorio fino a Trieste, fino a Bolzano, nel B. Era una buona notizia. F. Eh sì…gli americani…è andata bene, per carità, che sono arrivati loro altrimenti non so come…non so che fine avremmo fatto. B. È come avete detto, tanti non hanno potuto scappare. F. Oh, mio Dio, mio Dio, no, no, non parlarmene, dopo siamo ancora dovuti rimanere lì un paio di mesi, non c’erano più strade né ferrovie… B. Non sapevate come fare per tornare indietro. F. Per tornare…per venire, per venire quando era finita la guerra, dover aspettare lì, dove vai a mangiare, anche venire a piedi, chi ti dà da mangiare, nessuno ne ha, era bello da dire, e lì gli americani ci hanno dato, insomma non in abbondanza ma là… B. No, no, qualcosa… — 37 — A U G U S T A Veneto, allora bisogna poi aspettare che vengono delle squadre a sistemarvi per rientrare in patria”; un darnoa, basta, beitut doa noch as poar toaga unz das ischt arrivurut doa eis das het gseit: “Allora, c’è una tradotta domani mattina che parte da Brema e passerà qua verso le quattro, le cinque della notte, insomma sarà poi ancora buio, eh, tenetevi pronti sulla ferrovia che come vi vedono fermano e vi caricano”, hewer nöit beitut al mattino, hewer passrut d’nacht doa gsatzti uber i binari, gseit héi… B. Hedder grech kheen nuat das… F. Génh kheen nuat das wértintsch askappurut, difatti ischt gsinh a peu près wi s’het gseit, wider d’oalbu ischt arrivurut doa, is hennündŝch gloade, kuntunurut unz a Bolzano, euh, nel Brennero, sul Brennero, eh mon Dieu, mon Dieu…van doa séwer arrivurut unz a Trento, doa, d’hiara, ischt gsinh una colonna hiara das hennündŝch keen as poar sold antweegen wir hen nümmi kheen khés dinh, ni porteféil, ni as mésserllji, ni solda, di töitschini hennündŝch kheen troagen awek allz. B. Dénghjents… F. Z’porteféil, was hen kheen dri as söiri des conséquences, das hentsch kiet un troagen awek un kheen as mésserllji um trommu as stükhji bruat, das auch…gseit: “Quella è un’arma”, dé awek das auch… un dé d’hiara hennündŝch keen as poar sold sua vür… hettewer muan gian…bruat hescht nöit gvunne wa là, bsinnimich ischt un méin consuocero, Paolasch pappa, séwer gsinh zseeme, hewer kiat an tropf wéin, anner hewer nöit gvunne, hewer zallt, ah ben, bsinnimich, nündŝch gleit doa il disco, du ischt gsinh “Mamma son tanto felice”, ben, dŝch’hen mussun arlljösche…s’het nöit gwert zwia münniti, dŝch’hen mussun arlljösche, ischt gsinh una lacrima einigi, schwétzmer nöit, un doa ischt gsinh d’uppugu lljöit van la bassa Italia, van la Sicilia, van la Sardegna, vriege: “Da dove venite?”, “Veramente partiti dal nord”, “E per caso non avete conosciuto tale…” gseit d’noami, “Io, mio figlio, mai più avuto notizie, veniva dalla Grecia, era combattente in Grecia”, “Nei Balcani eravamo anche noi ma io questo…”, antweegen ischt gsinh lljöit sua z’vriege, doa z’beitun wénn dŝch’hetti gvunne nawini, “Almeno se sapessimo…” B. Ja, etwas wissu… F. “Almeno se sapessimo che sono morti, almeno quello, che non abbiano tanto sofferto”, as dinh, as dinh, ischt gsinh as dinh commovente, jia, wa doa ischt gsinh sövvil der lljöitu, allz…hescht dŝchi pniet im schwétze, wissischt, d’heerdera, ah jia, sén gsinh schuppiti lljöit das…un d’uppugu hiara doa hennündŝch keen an tropf chuchi un a stukh bruat, dŝch’hen nöit kheen njanka dŝchiendri, ischt gsinh guts z’see, das ischt gsinh rationné vür ellji un voilà, darnoa séwer parturut, gseit “Adesso raggiungete le vostre famiglie, tutto è passato, tutto è finito e speriamo che trovate i vostri cari in salute, in vita, è quello il bello, eh, purtroppo è così per tutti”, ah, déi hiara hen chonnu schwétze…ah, schwétzmer nöit… F. Giusto per tirare avanti ci hanno dato…abbiamo dovuto rimanere lì finché non hanno aggiustato le ferrovie, le ferrovie dopo…una volta c’era…è arrivato lì un cappellano, un cappellano italiano, ha detto: “Adesso le ferrovie sono sistemate su tutto il territorio fino a Trieste, fino a Bolzano, nel Veneto, allora bisogna poi aspettare che vengono delle squadre a sistemarvi per rientrare in patria”; e dopo, basta, aspettato lì ancora qualche giorno finché è arrivato lì uno che ha detto: “Allora, c’è una tradotta domani mattina che parte da Brema e passerà qua verso le quattro, le cinque della notte, insomma sarà poi ancora buio, eh, tenetevi pronti sulla ferrovia che come vi vedono fermano e vi caricano”, non abbiamo aspettato al mattino, abbiamo passato la notte lì seduti sui binari, pensando qui… B. Avevate forse paura che… F. Avevamo sempre paura che fossero scappati, difatti era più o meno come aveva detto, verso l’alba è arrivato lì, ci ha caricato, continuato fino a Bolzano, euh, nel Brennero, sul Brennero, eh mio Dio, mio Dio…da lì siamo arrivati fino a Trento, lì, i religiosi, c’era una colonna di religiosi che ci hanno dato qualche soldo perché noi non avevamo più niente, né portafoglio, né un coltellino, né soldi, i tedeschi ci avevano portato via tutto. B. Lo credo… F. Il portafoglio, quello che avevo dentro e le conseguenze, quello l’hanno preso e portato via e avevo un coltellino per tagliare un pezzetto di pane, anche quello…detto: “Quella è un’arma”, allora via anche quello…allora i religiosi ci hanno dato qualche soldo così per…avremmo potuto prendere…pane non ne trovavi ma là, mi ricordo c’era un mio consuocero, il papà di Paola, eravamo assieme, abbiamo preso un goccio di vino, altro non abbiamo trovato, abbiamo pagato, ah ben, mi ricordo, ci hanno messo lì il disco, allora c’era “Mamma son tanto felice”, ben, hanno dovuto spegnere…non è durato due minuti, hanno dovuto spegnere, era una lacrima unica, non parlarmene, e lì c’era la povera gente della bassa Italia, della Sicilia, della Sardegna, chiedevano: “Da dove venite?”, “Veramente partiti dal nord”, “E per caso non avete conosciuto tale…” dicevano i nomi, “Io, mio figlio, mai più avuto notizie, veniva dalla Grecia, era combattente in Grecia”, “Nei Balcani eravamo anche noi ma io questo…”, perché c’era gente che chiedeva così, lì ad aspettare se avessero trovato notizie, “Almeno se sapessimo…” B. Sì, sapere qualcosa… F. “Almeno se sapessimo che sono morti, almeno quello, che non abbiano tanto sofferto”, una cosa, una cosa, era una cosa commovente, sì, ma lì c’era tanta di quella gente, tutto…li riconoscevi nel parlare, sai, i meridionali, ah sì, c’erano tante persone che…e i poveri religiosi lì ci hanno dato un po’ di minestra e un pezzo di pane, non ne avevano neanche loro, era bello da dire, quello era razionato per tutti e voilà, in seguito siamo partiti, detto “Adesso raggiungete le vostre famiglie, tutto è passato, tutto è finito e speriamo che trovate i vostri cari in salute, in vita, è quello il bello, eh, purtroppo è così per tutti”, ah, quei religiosi sapevano parlare…ah, non parlarmene… — 38 — A U G U S T A Processo alla strega Yona Ronco di Issime (1461) Battista Beccaria I n un mio precedente studio, pubblicato su questa rivista nel 20081, ho accennato all’organizzazione del tribunale della Santa Inquisizione in Valle d’Aosta, confrontandolo con il suo eponimo di Novara, posta quest’ultima diocesi nel ducato di Milano che, dopo il 1535, era dipendente dai sovrani di Spagna. Mentre a Novara coesistono in modo concorrente, e anzi conflittuale, due tribunali ecclesiastici paralleli contro l’eresia, e cioè l’Inquisizione episcopale o curiale, protetta e garantita dalla Spagna, di contro all’Inquisizione domenicano-papale, dipendente direttamente da quella centrale romana, nella diocesi di Aosta questo dualismo non compare o, se sembra talvolta affacciarsi in modo formale nei processi in causis fidei, lo è in forma velata e direi giuridicamente fittizia. Su questo punto sono pienamente d’accordo con Jean-Baptiste de Tillier2, il quale non negava già, a mio parere, l’esistenza di un tribunale dell’Inquisizione aostano tout-court, ma negava che vi potesse essere entrato, di forza e alla luce del sole, il tribunale della Santa Inquisizione romana, generalmente gestito dai due Ordini mendicanti dei francescani o dei domenicani. Il De Tillier, secondo me, ha visto giusto quando ha individuato nel solo tribunale del vescovo o della Curia episcopale aostana l’unica vera Inquisizione ufficiale della diocesi di San Grato. È pur vero che, in alcuni pochi casi isolati, vi intervengono eccezionalmente degli inquisitori papali o romani, in genere francescani, chiamati ad Aosta dalle diocesi contermini, ma questi ultimi sono fatti entrare, piuttosto di soppiatto, nel tribunale dell’Inquisizione curiale, dai vescovi aostani medesimi, quasi a insaputa dell’autorità civile e laica locale, sempre gelosa delle sue autonomie e molto vigile ed attenta a non permettere intromissioni o sconfinamenti di giurisdizioni Villaggio di Bourinnes. (Foto S. Ronco) estranee alla Valle. Recentemente, qualche studiosa del fenomeno stregonico in Valle d’Aosta tra XV e XVI secolo3 ha, invece, tentato di dimostrare il contrario, ma, per fare Battista Beccaria, Vescovi controriformisti e comunità walser tra Piemonte e Valle d’Aosta (1528-1601). I rapporti tra i vescovi postridentini delle due diocesi di Novara e di Aosta e le Comunità walser di Valle Formazza (Pomatten), di Valle Antigorio (Salecchio Inferiore, Salecchio Superiore, Agaro, ecc.), di Valle Sesia (Rimella Valsesia, Alagna Valsesia), di Valle Strona (Campello Monti), di Valle Anzasca (Macugnaga) e della Valle del Lys (Issime e Gressoney) nella seconda metà del Cinquecento, in “Augusta” 2008, pp. 22-30. 2 J.B. De Tillier, Historique de la Vallée d’Aoste, a cura di A. Zanotto, Aosta 1991. 1 — 39 — A U G U S T A Villaggio di Bourinnes antica abitazione risalente probabilmente al XV secolo. (Foto Musso) ciò, ha semplicemente dovuto moltiplicare o sdoppiare alcune funzioni uniche presenti in seno al tribunale inquisitoriale di Curia. I giudici di questo tribunale, analogamente a quanto avveniva nelle altre diocesi dell’Italia del Nord, erano fondamentalmente due: il Vicario generale del vescovo in funzione di giudice giudicante, a nome e per conto del vescovo stesso, che rimane sempre naturaliter il vero inquisitore nella sua Chiesa locale, e il Fiscale di Curia, che rappresenta il giudice dell’accusa (oggi si direbbe il pubblico ministero). Il “procuratore della fede” dovrebbe essere lo stesso Fiscale, così come il cosiddetto “vice inquisitore” dovrebbe coincidere con il Vicario generale del vescovo. Nella Vallée l’autorità civile non voleva interferenze giurisdizionali esterne, problema che assillava, in effetti, ogni Stato sovrano della Penisola nei confronti di un “corpo estraneo” come Il Santo tribunale dell’Inquisizione papale romana, il quale pretendeva di essere giurisdicente sui sudditi altrui, ma non in casa propria, bensì proprio in casa d’altri. Ogni Stato aveva cercato un escamotage o un compromesso per evitare, sul suo territorio, lo strapotere del tribunale papale, sia pure ammantato di fini nobilissimi quali la salvaguardia della purezza della fede cattolica. Così, Venezia aveva istituito il tribunale dei “Savi all’eresia” per affiancare e limitare gli inquisitori papali. Nel ducato di Milano, dopo l’istituzione dell’Inquisizione centrale romana (1542) da parte di papa Paolo III Farnese, nessun inquisitore romano poteva condannare al rogo né far praticare di sua iniziativa la tortura sugli imputati se non era d’accordo il vescovo diocesano o il suo corrispettivo tribunale di Curia. La bolla Multorum quaerela, rieditata come onorevole compromesso tra Spagna e Vaticano, regolava appunto i rapporti tra tribunale inquisitoriale del vescovo diocesano e tribunale inquisitoriale dei domenicani (o dei francescani), che erano la longa manus nelle diocesi del ducato spagnolo (dal 1535) di Roma. La Spagna, senza importare o imporre la Suprema de Madrid (altra Inquisizione autonoma da quella papale) in uno Stato satellite come Milano, proteggeva il tribunale vescovile e lo affiancava d’autorità a quello romano, per limitarne i poteri decisionali soprattutto di vita o di morte. Mi sembra piuttosto che la situazione in Valle d’Aosta sia stata tale che i suoi vescovi abbiano dovuto escogitare anch’essi un escamotage geniale per accontentare tutti e non scontentare nessuno. L’autorità civile, a tutti i livelli, non voleva, come s’è detto, interferenze di altri tribunali (extraterritoriali o sovranazionali) oltre quelli consuetudinariamente ammessi e presenti su tutte le sovranità giurisdizionali della Valle d’Aosta. D’altro canto, il vescovo e le autorità ecclesiastiche locali erano sollecitate, anche se non palesemente o formalmente, ad accettare l’autorità dell’Inquisizione papale in materia di eresia, di stregoneria o più generalmente di fede (in causis fidei). E allora cosa avevano inventato? Anche se l’adagio scolastico recitava non sunt multiplicanda entia sine necessitate, si era pensato di moltiplicare o meglio di “sdoppiare” le figure degli attori che intervenivano nel tribunale dell’Inquisizione diocesana, in modo da fingere giuridicamente che, accanto ai funzionari del vescovo, ci fossero dei pretesi funzionari papali. In fondo, si faceva finta, da un punto di vista giuridico, che i tribunali fossero due, come a Novara, ma che sentenze e torture Silvia Bertolin, Gli organi giurisdizionali valdostani, in “La stregoneria nella Valle d’Aosta medievale”, a cura di S. Bertolin ed E.E. Gerbore, Musumeci Editore, Quart 2003. Eadem, L’Inquisizione in Valle d’Aosta, in ibidem. Eadem, Competenza e composizione del tribunale dell’Inquisizione, in ibidem. Eadem, I protagonisti, in ibidem. Eadem, Inquisizione e consuetudini valdostane, in ibidem. 3 — 40 — A U G U S T A fossero - per una formula di compromesso, la regola cioè imposta dalla Multorum quaerela - emesse di comune accordo. Ecco allora che accanto al Fiscale di Curia (pubblico ministero del vescovo) ci sta un Procuratore della fede (forse facente funzione di pubblico ministero papale), accanto al Vicario generale (giudice vescovile) si trova un Viceinquisitore dell’heretica pravità, che si chiama vice inquisitore proprio perché dovrebbe fare le veci dell’inquisitore papale dell’heretica pravità, il quale non può entrare in Valle d’Aosta o almeno comparirvi ufficialmente. D’altronde, non sempre la figura del Viceinquisitore o del Procuratore della fede è ricoperta da un religioso francescano ma, indifferentemente e il più delle volte, anche da un sacerdote diocesano secolare. Anzi, proprio il processo alla strega di Issime del 1460-1461 è quasi un’indiretta prova di quanto ho ipotizzato fin qui. Inquisitore e Vicario generale sono riuniti in una stessa persona, che ricopre formalmente due funzioni nel medesimo tempo: Balduynus Scutifferi è insieme Viceinquisitore per l’heretica pravità e Vicario generale del vescovo. Procuratore della fede ufficiale è Iohannes de Montibus, che è detto procurator fiscalis Curiae episcopalis Augustae, cioè Fiscale di Curia, ed è un sacerdote-giurista secolare della diocesi. Come vice-fiscale o vice-procuratore della fede, a un certo punto, viene incaricato Petrus Midodi, parroco di Pontey, un altro membro del clero secolare che dovrebbe essere in cura d’anime. Come ben si può vedere, in questo processo, di cui subito ci occuperemo, questi “doppioni” si rivelano talmente interscambiabili, quando non sovrapponibili, da rendere chiara una situazione fluida di mera finzione giuridica di alcune di queste cariche e figure presenti ed interagenti nel Santo tribunale. Quella che propongo qui è, per ora, una mera ipotesi, anche perché uno studio scientifico capillare e a 360 gradi su tutta la casistica processuale documentata per la Valle d’Aosta non è ancora stato condotto, e i pur validi studi della Bertolin4, di recente, e del Lucat5, agli inizi del secolo scorso, i quali hanno prodotto tesi di laurea sull’argomento dell’Inquisizione ecclesiastica nell’Aostano, non hanno, a mio parere, sondato a sufficienza tutte le scappatoie e i compromessi escogitati in Italia, e segnatamente al Nord, dalle legittime autorità civili per evitare o calmierare l’intromissione del papa e della Curia romana all’interno dei propri Stati sovrani. La protagonista. Yona Ronco, moglie di Antonio De Fey du Vallaise, di Issime In questo saggio non prenderò in esame tutti e due i casi di stregoneria tardomedioevale documentati per Issime, ma solo uno di essi e cioè il processo a Yona Ronco del 1460-61, non invece quello precocissimo del 1420, il quale terminò drammaticamente col rogo che bruciò viva l’issimese Anthonia Dollina. Il poco tempo a mia disposizione e l’eventuale documentazione, ove si trovasse, tutta ancora da verificare relativamente a quest’ultima, mi hanno indotto a trattare del solo processo della seconda metà del XV secolo, riguardante la donna-strega del Vallone di Bourinnes. In effetti, gli atti processuali di Yona Ronco sono già stati trascritti e sondati all’inizio degli anni Ottanta dallo Zanolli6, così, per brevità ed economia di spazio, rimanderò alla sua precisa e competente lettura dei medesimi. Qui rievocherò i fatti documentati, li inquadrerò nella loro fattispecie, cioè nella loro specifica tipologia di stregoneria minore, ovvero di “operative witchcraft”, e se mai ce ne sarà lo spazio e il tempo, ne darò una spiegazione o interpretazione socio-antropologica sulla scorta di analoghi fenomeni verificatisi anche altrove e soprattutto in alcune valli dell’Ossola e del vicino cantone Vallese. Inutile ribadire che il fenomeno stregonico è un fenomeno tipicamente montano, almeno tra XV e XVII secolo, e più si va salendo in alto sull’arco alpino e maggiormente si trovano streghe e stregoni o, se si vuole, si ritrova un immaginario collettivo e una convinzione generale dell’esistenza di questi. La cosa si riscontra poi particolarmente e prevalentemente in aree walser che sono, notoriamente, insediamenti d’altura! Ma voglio venire subito al caso particolare di Issime, tralasciando concetti e considerazioni più generali che ho già espresso nel numero precedente di questa stessa rivista e ai quali, quindi, rinvio il mio lettore. Di Yona (detta talora Yeannette o Jeannette in versione francofona) sappiamo solo quel poco che emerge dal suo processo per stregoneria e da qualche altro documento dell’archivio della curia vescovile di Aosta. Veniamo così a conoscere che era figlia di Pes de Helchoz di Issime e che nel 1460 suo padre era già morto da un pezzo. Da giovane si era sposata con Anthonius, figlio di Peter de Borinez, ma era rimasta presto vedova, perché Antonio era morto d’incidente. Non molto dopo, si era rimaritata con tale Hannebrin o Iohannes Brin o Iniquin (nome difficile da decriptare nel testo notarile), anche costui issimese figlio di un certo Consul, ma pure il secondo aveva fatto la fine del primo marito, morendo d’incidente. Già adulta, ma ancora piacente, aveva impalmato in terze nozze Anthonius de Faye o de Fay o de Fey du Vallais, anche lui vedovo. Durante una delle frequenti epidemie cosiddette di “peste” (ma poteva essere anche tifo petecchiale o febbre quartana o altri tipi di influenze letali) le era premorto anche il terzo ed ultimo marito, Silvia Bertolin, L’Inquisizione in Valle d’Aosta tra XV e XVI secolo, tesi di laurea, Università degli studi di Milano, A.A. 20002001. 5 M. Lucat, Dell’Inquisizione in Valle d’Aosta, tesi di laurea, Università di Torino, Torino 1901. 6 Orfeo Zanolli, Deux procès de l’inquisition dans la seigneurie des Vallaise (XV et XVI siècles), in “Sources et documents d’histoire valdotaine”, tome III, Aosta 1983, pp. 163-273. 4 — 41 — A U G U S T A che si chiamava Antonio come il primo. Yona aveva avuto dei figli, ma non è facile capire né quanti, né da quale o quali mariti. Di due di essi, maschi, conosciamo anche il nome, un Johannes o Giovanni e un Vulliermetus o Guglielmotto, che si attivarono con tutti i mezzi nel 1461 per poterla salvare dalla condanna al rogo. Aveva poi un’altra figlia, che era andata sposa ad Anthonius Dovei. Di eventuali altri non possiamo conoscere nulla, almeno dalla documentazione processuale. Sappiamo, dalla letteratura in proposito, che la strega-tipo è in genere una donna sola ed emarginata, quasi sempre vedova, talvolta zoppa, sgraziata o con difetti fisici, non sempre invece povera o brutta d’aspetto e non necessariamente vecchia e decrepita. La nostra Yona aveva la sfortuna (e ne portava quasi il marchio) di essere rimasta vedova per ben tre volte, il che la circondava di forti sospetti e cioè di aver procurato la morte dei mariti mediante venefìci o malefìci. La donna issimese abitava nel villaggio di Burrini nel Vallone di Bourinnes. A quei tempi, una vedova sola si sarebbe trovata di fronte a una vita grama e difficile, soprattutto se avesse avuto a carico dei figli ancora piccoli. Per questo le vedove si risposavano con facilità. Ma anche i maschi – non condizionati da fisime virginali –, soprattutto se la vedova era ancora giovane e fertile, la impalmavano volentieri, preferendola alle nubili perché era già abile ad allevare i figli e a governare una casa. Purtroppo, però, vigevano ancora usanze risalenti alla legge salica e ad altri posteriori istituti preoccupati di non disperdere il patrimonio di famiglia per cui, alla morte del padre, ereditavano il patrimonio i figli maschi e non le vedove o le sorelle. Se mai, per sua magnanimità o concessione benevola, il marito poteva far scrivere nel testamento una clausola che lasciava usufruttuaria dei beni la moglie vedova vita natural durante, a patto sempre e comunque, però, che non si risposasse e conducesse vita casta e ritirata. Non era il caso di Yona, la quale, sposandosi nuovamente ad ogni vedovanza, si privava automaticamente dell’usufrutto dei beni, i quali passavano in toto ai figli maschi di ciascuno dei suoi tre mariti. Se altre donne, nella sua situazione, erano costrette a chiedere l’elemosina o perché non avevano figli o perché questi ultimi non le volevano soccorrere, Yona, al contrario aveva di che vivere e si arrangiava in qualche maniera. Possedeva alcune capre e animali da cortile e, se le mucche dei mariti erano passate in eredità ai figli, lei, comunque, tutte le estati faceva dei “contratti di socida” con qualche proprietario di bestiame bovino di Issime, che le affidava tre o quattro vacche da badare su per i pascoli del Vallone di Bourinnes. Yona le faceva, dunque, pascolare, le mungeva, ne ricavava dei formaggi e, a fine stagione le restituiva alla stalla del proprietario. Naturalmente il ricavato estivo (latte, formaggi, eventuali vitelli partoriti) veniva diviso a metà tra il proprietario delle bestie e colei che gliele aveva governate all’Alpe. Così facendo, aveva di che mantenersi più che dignitosamente. Inoltre la donna arrotondava i proventi del pascolo e dell’orto con i donativi (uova, qualche pollo e qualche obolo) di chi si rivolgeva a lei per ot- tenere guarigioni, per farsi curare con unguenti, erbe e “segreti”. Anche questo, oltre alla triplice vedovanza, la metteva in condizione di essere sospettata di usare sortilegi e, appunto, “secret” non solo per guarire ma anche per indurre malanni, o nuocere a persone ed animali. In effetti questi poteri, ritenuti allora, dalla gente comune ed umile, “magici”, erano poteri ambivalenti, nel senso che potevano sortire sia effetti positivi che negativi nei confronti di chi ne fosse risultato il destinatario. L’ambiente sociale di Issime non era poi molto dissimile da quello che ho potuto riscontrare in ambiti montani analoghi, come nelle valli ossolane dell’Alto Novarese. La gente non si voleva bene, non era quasi mai solidale, salvo qualche rara eccezione. Regnava ovunque l’invidia, quando non addirittura la malevolenza e la cattiveria fine a se stessa. Soprattutto gli immigrati – e per immigrati si intendevano anche solo quelli provenienti dal paese o dalla vallata confinante – erano guardati con sospetto e malcelato astio, un po’ come gli extracomunitari odierni nella cosiddetta società del benessere. Il paese era piccolo e la gente mormorava, spettegolava, diceva cattiverie degli altri, era invidiosa che le mucche del vicino facessero più latte delle sue, che l’erba dei prati del confinante fosse più verde e rigogliosa della sua, che le cose andassero bene per gli altri. Il prete del paese, quasi sempre un curato mercenario, cioè a contratto temporaneo (pro tempore) con la comunità, non si curava del bene dei suoi parrocchiani o di insegnare i precetti evangelici e la solidarietà fra cristiani, ma era preoccupato quasi esclusivamente della sua prebenda fatta di formaggelle, di fascine di legna e di una certa somma annua in denaro, sempre pronto a lasciare un gregge meno redditizio per prenderne in cura uno più lanuto alla prima occasione propizia! Per rendersi poi benvisti e graditi alle autorità ecclesiastiche della Curia, questi curati, più che pastori d’anime, si trasformavano, talvolta, in cani da guardia dell’ordine e dell’ortodossia cattolica, pronti a raccogliere e a trasmettere informazioni e delazioni a vescovi o inquisitori dell’heretica pravità. In alcuni periodi, in paese, un parroco ufficiale, e non solo un curato-mercenario, giuridicamente c’era, ma veniva eletto normalmente fra i notabili del paese o di qualche vallata vicina. Costui, il più delle volte, non si faceva neppure ordinare prete, non diceva messa, non amministrava i sacramenti, non seppelliva i morti; portava solo la tonsura, che lo rendeva un membro del clero e, quindi, atto a farsi imbeneficiare, a godere cioè di benefìci ecclesiastici. Percepiva la lauta rendita parrocchiale, ove e fintanto ci fosse da succhiare, e subdelegava poi o appaltava a un povero prete di umili natali, ma regolarmente ordinato e in grado di dire messa, la cura d’anime, concedendogli una piccola fetta dei suoi grassi introiti. La gente, per quanto pia e devota, veniva lasciata in una spaventosa ignoranza religiosa e nella superstizione. Superstizione che, il più delle volte, era condivisa dagli stessi curati mercenari meno istruiti o addirittura mestieranti semianalfabeti. La catechesi non esisteva e la predicazione si riduceva ad una ripetizione — 42 — A U G U S T A Vallone di Bourinnes, alpeggio di Pioanu. (Foto Musso) pappagallesca di prediche preconfezionate su testi scritti poi imparati a memoria. Solo una ristretta élite di clero maggiore, che si concentrava attorno alla Cattedrale o che era dislocata nelle principali chiese collegiate delle castellanìe della Valle, conosceva, con cognizione di causa, il dogma, la morale cattolica e il diritto canonico. Ma tutti costoro, salvo rare e lodevoli eccezioni, vivevano al di sopra e al di fuori della portata dei comuni fedeli, essendo, oltretutto, quasi costantemente membri della nobiltà e dell’aristocrazia della Valle o di Paesi confinanti, come la Tarantaise o i Cantoni svizzeri. Fra le due realtà, elitaria e popolare, v’era un vero abisso, non solamente economico, ma soprattutto culturale e di istruzione religiosa, anzi di concezione della religione cristiana medesima. Ancora cent’anni dopo, un confessore di streghe condannate ai roghi dai suoi confratelli, il gesuita Friedrich von Spee (1591-1635), tuonava nella sua Cautio criminalis7, contro un clero corrotto e venale che lasciava nell’ignoranza e nei riti dell’antico paganesimo campagnolo le masse contadine e montanare, salvo poi condannarle come eretiche e stregonesche, estorcendo loro confessioni con l’uso della tortura! Questo gesuita, che anticipava di oltre due secoli le intuizioni di un illuminista come Cesare Beccaria, aveva già capito dove stava il problema della presunta setta stregonica, avendo ricevuto le ultime confessioni di povere condannate al rogo innocenti ed analfabete. Il suo libro fu messo al bando e lui stesso rischiò la vita. Non fu arso solo perché era un nobile di alto lignaggio ed era protetto dal Generale dei Gesuiti, “il papa nero”, come veniva chiamato allora il superiore della Congregazione fondata da Ignazio Loyola. Non proseguo oltre con la descrizione delle miserie umane di Issime, o delle miserie morali di un clero tutt’altro che evangelico, e torno a Yona Ronco e alla sua triste storia. Intanto, aggiungo qui che la gente del posto aveva cominciato a spettegolare su Yona, sul fatto che praticasse l’arte della fattucchiera con magìe e sortilegi vari, sulla prematura morte sospetta dei suoi tre mariti. Qualcuno cominciò anzi ad evitarla e a non rivolgerle più il saluto. A tutto ciò doveva aver contribuito pure il parroco, il quale, dopo Friedrich von Spee, Cautio criminalis, ora rieditato come Friedrich von Spee, I processi contro le streghe, a cura di Anna Foa con traduzione dal latino di Mietta Timi, Salerno 2008. 7 — 43 — A U G U S T A Capre nei pressi di Pirubecksch Balmu, la grotta della fata di Pirubeck. Ancora oggi le capre sono definite sorelle del diavolo. (Foto Musso) aver probabilmente ricevuto lettere e insinuazioni dalla Curia perché raccogliesse indizi sulla parrocchiana, fu lui stesso a indurre la gente a non parlare più con la sospetta strega ed eretica. Era normale, a quei tempi, che gli scomunicati o gli scomunicandi fossero da evitare come la peste e non gli si doveva più rivolgere alcun discorso, alla faccia della carità cristiana! L’inizio delle sventure di Yona A Issime, dunque, c’era chi le voleva male. Chi invidiava il suo relativo benessere, raro per una vedova. Ricordiamo che altre vedove erano costrette a mendicare o a supplicare il genero e la figlia di soccorrerli e nutrirli. In un contesto simile, in Valle Antigorio, presso i confini con Pomatten e la Valle Formazza, accadeva di trovare bambini di soli tre anni che vagavano affamati per il villaggio di Baceno in cerca di qualche pietosa donna che “gli prestasse per un po’ la tetta” per non lasciarli morire di fame. Anche lì, i due curati porzionari non spendevano, di domenica, una parola in predica per esortare alla carità e alla solidarietà, ma tuonavano contro i riti del giovedì notte (il Sabba o “Gioco delle streghe”) e mandavano dispacci in Curia con le delazioni raccolte in confessionale circa il prolifera- re di streghe e stregoni in paese, che si recavano nottetempo sul Cervandone o il Devero per compiere sconcezze con demoni e demoniesse! Anche la folta clientela che frequentava Yona, provenendo perlopiù da altri paesi della Valle, per fruire delle sue conoscenze e dei suoi “secrets” atti a guarire, destava invidie e malevolenza nei vicini. Ma c’era, altresì, la paura che, coi poteri magici di cui disponeva, la medicona e fattucchiera potesse danneggiare i suoi nemici o gli averi dei medesimi. Così Yona de Fey, per chiamarla col cognome del suo ultimo marito, fu denunciata il 7 settembre del 1460 da Guglielmotto, figlio di Guglielmotto de Matit (Vulliermetus filius Vuillermeti de Matit, alias de Allexina) al giudice della castellanìa di Vallaise e Arnad. Questi, trattandosi di materia in causis fidei, concernente reati di stregoneria e di maleficio, ovvero, in buona sostanza, di eresia per la giurisprudenza del tempo, passò il testimone alla Curia del vescovo di Aosta. Benché, durante i frequenti alterchi tra issimesi rivali, venisse spesso rivolta al nemico la minaccia di “parlarne col curato”, che avrebbe poi informato il vescovo, in questo particolare caso il parroco locale fu bypassato dai denuncianti! Arrivata la delazione di pratiche eretiche ovvero di prihentationes svolte da Yona all’“Offizio della Curia” di Aosta, della cosa si interessò non solo il Vicario generale Baldovino Scuttiferi, giudice ecclesiastico preposto, ma il — 44 — A U G U S T A vescovo stesso Anthoine de Prés. Nessuno dei due prelati della Chiesa aostana era originario della Valle. Il vescovo De Prés proveniva dal cantone di Vaud e precisamente dal paese di Lutry. Il Vicario generale, Baldovino Scuttiferi, era un prete belga, il quale aveva compiuto studi accademici sia in materie teologiche sia in materie giuridiche e che, volendo fare carriera, era emigrato in Valle d’Aosta. Qui era stato incardinato inizialmente come parroco di Rhêmes- Notre Dame tra 1434 e 1437, ma non aveva mai avuto il tempo di curarsi della parrocchia e neanche di risiedervi, dedicandosi invece con profitto e zelo a incarichi curiali ad Aosta. Si distinse così bene come burocrate ecclesiastico che in breve venne nominato Arcidiacono della cattedrale di Aosta (1443), la seconda carica per dignità subito dopo il vescovo diocesano. Al tempo del processo (1460-1461) era stato nominato anche Vicario generale del vescovo De Prés e cumulava cariche beneficiali come quella di parroco di Valpelline, grassa prebenda che tenne dal 1443 al 1475 senza mai dedicarsi alla cura d’anime, cura che appaltava – come da prassi largamente diffusa e consolidata – ad altri preti suoi sostituti e vicari. I due giudici e alti prelati della diocesi di San Grato, il vescovo e il suo vicario, si dedicarono dunque personalmente all’indagine istruttoria sulla presunta strega di Issime. Anzitutto inviarono una serie di lettere ai parroci della Valle del Lys perché raccogliessero informazioni e delazioni sull’imputata. Costoro, durante la predica o al momento dell’offertorio della messa domenicale, dovevano invitare, usando le varie parlate locali (vulgari sermone) per farsi ben intendere, tutte le persone di ambo i sessi a riferire quel che sapevano su Yona Ronco. I delatori venivano tenuti segreti e l’istruttoria, con l’escussione dei testimoni a carico dell’imputata era pure essa segretissima. La sospettata era ignara dei suoi accusatori, delle imputazioni che le venivano fatte, non poteva essere presente a questa fase preparatoria e neanche farsi rappresentare da un difensore. Una volta compiuta l’istruttoria, l’ignara vittima era dichiarata “rea” o “eretica” e le pioveva addosso il pàlpero o ingiunzione di presentarsi davanti al tribunale, entro e non oltre una certa data, pena la scomunica, la confisca dei beni o un’ammenda salatissima. La tegola arrivava quasi sempre inaspettata e “il reo” era persino all’oscuro delle imputazioni e delle accuse che gli sarebbero state contestate. Molti tentavano di scappare, immaginandosi ciò che li aspettava, ma la rete spionistica ecclesiastica, diffusa capillarmente su tutto il territorio (un vero KGB clericale, come ho dimostrato per la diocesi di Novara), li rintracciava quasi costantemente e li faceva incarcerare. La fuga veniva già ritenuta ulteriore “prova” di reità a carico del ricercato contumace. In sostanza, all’atto della chiusura della fase istruttoria (inquisitio), il sospettato veniva o (quasi mai) scagionato o (quasi sempre) ritenuto colpevole. Se ritenuto colpevole, i giochi erano ormai fatti, la condanna decisa, la reità provata. Occorreva solamente interrogare il colpevole (tale a priori) perché dichiarasse formalmente la sua colpevolezza o, nel caso questi si fosse ostinato a negarla, occorreva allora torturarlo perché vo- mitasse fuori più celermente “la verità” [… acriter torquenda (esse) ut melius et celeriter veritas ab ea eruatur…]. La “verità” era quella dell’inquisitore, al reo non ancora confesso rimanevano solo due possibilità. O confessare ciò che il giudice voleva sentirsi dire da lui e chiedere misericordia, impegnandosi all’abiura e a penitenze o carcere perpetuo, o resistere alle sedute dei tormenti (detti farisaicamente “rigorosi esami” e anche “quaestiones”) e quindi non dover sottoscrivere, una volta estorta la confessione durante i “tratti di corda”, alla ulteriore confessione confirmatoria richiesta dopo ogni seduta di tormenti o “rigoroso esame” appunto. Abbiamo una abbondante casistica di suicidi avvenuti nelle carceri vescovili o inquisitoriali per il terrore della reiterazione dei “rigorosi esami”. Durante gli interrogatori dei rei, venivano proposti spesso dei “confronti all’americana” con testimoni di accusa convocati per la bisogna. Non sto a fare la descrizione esemplificativa di come uno scafato inquisitore sapesse abilmente far cadere in contraddizione gli inquisiti, in genere povere donne o uomini analfabeti e sprovveduti. La presunta strega issimese fu mandata spesso in confusione e indotta in ammissioni fra loro contraddittorie da due volponi come Baldovino Scutifferi, Vicario e giudice, e da quell’altro ecclesiastico, Giovanni de Montibus, che fungeva da Fiscale di Curia e da Procuratore della fede insieme. Un supplemento di istruttoria più dettagliata su Yona era stato fatto anche da don Pietro Midodi, parroco di Pontey, che era stato incaricato come commissario dai medesimi giudici (vescovo e vicario) di interrogare, paese per paese e casa per casa, i testimoni informati e la stessa imputata. Le delazioni raccolte dal prete valdostano erano poi, in effetti, servite per “incastrare” la poveretta, completamente ignara di quanto era stato riferito da altri sul suo conto. La testimonianza di parenti o amici a discolpa dell’accusata – fatta oltretutto a loro rischio e pericolo – non era quasi mai ammessa. O meglio non era ammessa se a discolpa, se invece era a conferma della colpevolezza della parente, allora aveva particolare rilevanza. Un nipote della Yona per parte del secondo marito, certo Pietro de Consol, la mise nei pasticci riferendo una frase della zia che poteva prestarsi come un augurio o un desiderio di morte per il di lei consorte, che infatti era poi venuto a mancare di lì a non molto. Anche dopo la sua deposizione come testimone, a Francesco Jugler fu domandato se mai avesse avuto con l’accusata dei legami di parentela! La cosa, per i giudici, rivestiva notevole importanza, così come era per loro importante sapere se la madre della strega fosse stata pure lei reputata strega in paese o fosse eventualmente morta sul rogo. Le prime battute del processo Il processo a carico di Yona ebbe inizio sullo scorcio finale del 1460 e le accuse furono di sortilegio, di maleficio, di magìa demoniaca (prihentationes, nei documenti). Per usare una classificazione cara a quella grande studiosa di — 45 — A U G U S T A stregoneria europea che fu l’inglese Margareth Murray8, sono le classiche accuse di essere strega malèfica, che lei definisce “operative witchcraft”, la strega che opera il male a danno dei buoni cristiani, ma non ancora la strega che vola sulla scopa e si reca nottetempo ai Sabba su certe particolari montagne, definita quest’ultima “ritual witchcraft”, nel senso che partecipa a un rito demoniaco. Alcuni distinguono fra stregoneria minore (operative witchcraft o malèfica) e stregoneria maggiore (ritual witchcraft o strega volante). Gli inquisitori, nei loro demenziali trattati demonologici, avevano fatto di ogni erba un fascio e omologavano ambedue le forme sotto il minimo comun denominatore dell’apostata, che aveva rinnegato Dio e la fede, e dell’eretica, che infettava il gregge cristiano e che compiva un delitto di “lesa maestà” (divina), per cui era destinata, ipso facto, al rogo. Ma non trascurarono, inizialmente, di accusare, in qualche modo, Yona anche di essere una strega volante su scopa. In effetti, l’insinuazione malvagia era arrivata dalla deposizione di due testimoni a cui Yona aveva, oltretutto, fatto del bene, improvvisandosi “baby-sitter” per badare ai loro figli ancor piccini quando i due erano costretti ad assentarsi per tutta la giornata. Pietro Jugler e sua moglie dovevano salire spesso nei boschi a raccogliere castagne, lavoro che li impegnava tutto il dì, per cui rientravano dal lavoro la sera sul tardi. Non potendo badare ai bambini, li affidavano a Yona che, di buon grado, li custodiva. Essa era sempre disponibile, salvo la sera del giovedì…, allorquando adduceva impegni e, quindi, si raccomandava ai genitori di venire a riprendersi i fanciulli per tempo. Ora, si sa, il “giovedì notte, a mezzanotte” era il tempo deputato al Sabba. La precisazione dei due coniugi Jugler dava, dunque, esca a sospetti infamanti nei confronti della Ronco! D’altronde, se fosse emerso un crimine come il Sabba, l’imputata sarebbe stata esortata con qualsiasi mezzo (in primis la tortura) a confessare i nomi dei complici partecipanti allo sconcio e blasfemo rito demoniaco. In tal modo, sarebbero state coinvolte altre persone, come, in non poche occasioni, paesi interi (vedi Triora sull’Appennino ligure o Baceno e Pomatten sulle Alpi ossolane). La “catena di sant’Antonio” delle confessioni e dei coinvolgimenti reciproci non si sarebbe più arrestata, con tragedie immani e roghi a decine. Volevano forse gli Jugler innescare a Issime una tale calamità collettiva? E a quale fine? Per fortuna Yona riuscì a spegnere questa miccia vagante. Richiesta se fosse stata ai Sabba, Yona prontamente replicò agli inquisitori che “non so che sia synagoga e che mai ho frequentato alcuna riunione malvagia”. In altro interrogatorio negò, ancora una volta, un suo coinvolgimento in riti sabbatici. Disse “che non era mai andata alla sinagoga, anche se era stata accusata da una certa Beatrisia, già bruciata”. Per la donna del vallone di Bourinnes, il Sabba non è detto “synagoga”, come per l’inquisitore Ponce Frougeronis, solerte persecutore e inceneritore di Ebrei della valle d’Aosta, e neppure “il Gioco” 8 (del diavolo), come veniva definito più poeticamente il rito del giovedì notte in Val Formazza, ma era la “remassa”, cioè la ramazza o tipica scopa delle streghe e della befana! Per fortuna, i giudici soprassedettero e non applicarono, a questo punto, la tortura, il che evitò guai imprevedibili e imponderabili a tutta la comunità. Ciononostante, dopo questa preliminare seduta d’interrogatori per individuare una possibile partecipazione di Yona alle synagoghe, il notaio che stendeva i verbali, riportò in calce ai documenti una lista nera di persone che, in base alle domande poste ai testi e alla stessa imputata, risultavano sospette. La povera donna, accusata a sua insaputa da molti compaesani issimesi, cercò, invece, fin dove poté, di non coinvolgere altre persone, neppure quelle a lei più palesemente avverse. Come già ho ricordato, i testimoni d’accusa venivano solitamente tenuti nascosti all’inquisita ma, nel corso delle sedute del 1461, tale regola non fu rispettata. Al termine degli interrogatori, Yona fu messa a conoscenza dei nomi delle persone che avevano testimoniato contro di lei. Il giudice le chiese se, a parer suo, l’avessero fatto secondo verità o se l’avessero fatto per vendetta. Ma lei parlò bene di tutti i suoi delatori ed accusatori…! Una vera lezione evangelica della serie “porgi l’altra guancia!” o di “ama i tuoi nemici!”, casistica che ho avuto modo di riscontrare anche a proposito di altre donne, accusate di essere streghe, e processate in Valle Antigorio, in quel dell’Ossola. Lezioni che preti e frati del Santo tribunale non raccoglievano e che fingevano, il più delle volte, di non aver sentito. Il processo e le accuse Yona, ad ogni fase o seduta processuale, veniva tratta dal carcere, dov’era custodita da un barigello o carceriere, e condotta da due (s)birri [a Novara chiamati anche satelliti o collaterali del vescovo] che la introducevano nella sala delle udienze, la quale, per la Curia episcopale aostana, era la sala de Bagnes, dietro la loggia del palazzo vescovile. Qui, dopo averla fatta giurare toccando i Vangeli aperti, iniziavano i lavori del Santo tribunale, con l’assistenza talvolta (soprattutto se era previsto di “subijcere quaestionibus” l’imputata) di probi consiglieri, di castellani, di nobiluomini del territorio in qualità di testimoni qualificati e di consulenti. Non potendo dilungarci più di tanto, riassumeremo, sommariamente, i principali capi d’accusa contestati alla donna. Yona avrebbe praticato atti magico-religiosi, cui si attribuivano virtù guaritrici, ma che potevano, e converso, far del male al prossimo, con l’aiuto del demonio. Questo misto di formule magiche (“secrets”), di erbe, di preghiere recitate in numero predefinito e, talvolta, persino di ingredienti sacri (la casistica novarese, per esempio, ricorda acqua benedetta, rami d’ulivo benedetti, oli santi, ostie consacrate sputate ed esportate dalla chiesa, ceri d’alta- M. Murray, Le streghe nell’Europa occidentale, Roma 1978. Eadem, Il dio delle streghe, Roma 1972. — 46 — A U G U S T A re, ecc.) sarebbe stato fatto per provocare incantamenti, sortilegi, malefìci a danno d’altri (naturalmente con l’aiuto del diavolo!). Credo che il termine locale di prihentationes voglia significare e comprendere tutto questo. Yona avrebbe, ancora, fatto ricorso alle “male arti” di Anthonia Dollina di Perloz, sua maestra (arsa sul rogo nel 1420) e sua consulente in incantesimi e fatture, per far morire uno dei suoi tre mariti. Yona avrebbe fatto morire, con una micidiale fattura o maledizione, anche la consuocera, perché questa maltrattava e faceva piangere una sua figlia, che aveva sposato Antonio (Dovei). Yona aveva maleficato persino le mucche di Guglielmotto di Issime, che gliele aveva concesse in socida, facendo loro perdere il latte e, in seguito, facendogliele anche morire. In un altro processo a carico di una strega di origini valsesiane, tale Beatricia de Vallesicida, Yona era stata poi incolpata di essere una complice e una fiancheggiatrice della medesima dalla testimonianza di due donne, Beatrisia del fu Johanne de Bonino, moglie di Riccardo de Junoto di Perloz, e Anthonia de Junoto. Il sospetto che anche gli altri due mariti fossero morti per una qualche fattura o malefìcio, perpetrato a loro danno, dalla moglie-strega completava una serie di accuse minori che pendevano comunque sempre sulla testa di Yona. Le confessioni le furono estorte coi classici metodi, più che convincenti a sciogliere qualsiasi lingua reticente, in uso presso i tribunali ecclesiastici, a partire dalla bolla Ad extirpanda emanata da papa Innocenzo IV nel 1252, che – dopo un’ininterrotta tradizione di quasi un millennio di richiami puramente spirituali verso gli erranti e i dissidenti con scomuniche e interdetti, o ancora con pene canoniche a base di preghiere, digiuni e penitenze - introdusse la tortura e l’affidamento al braccio secolare per l’estremo supplizio. Iniziò così uno dei periodi più bui, impresentabili, ingiustificabili e sconcertanti della storia della Chiesa, che ebbe termine non per volere di papi o per una riforma sorta dall’interno dell’istituzione cattolica, ma per eventi traumatici esterni come la Rivoluzione francese o l’avvento provvidenziale di Napoleone. Così come il potere temporale cessò non per un’autoriflessione e una decisione autonoma e meditata delle Autorità ecclesiastiche, poste ai vertici della Chiesa cattolica, ma per il trauma della breccia di Porta Pia, che scatenò, come reazione e ritorsione, la proclamazione quasi subitanea dell’infallibilità pontificia. La Chiesa cattolica, sorda ai richiami dello Spirito, non si autoriforma mai, è sempre costretta a riformarsi per motivazioni esterne al suo volere, per eventi traumatici imprevedibili e ingovernabili dai suoi vertici di potere. Uomini di virtù evangelica, cito per tutti Pietro Valdo, un san Francesco vissuto, par hasard, sotto un papa sbagliato (sarebbe potuta capitare a Francesco la stessa sorte… se, al contrario, non fosse invece capitato sotto il papa giusto), furono messi al bando e condannati, quando addirittura non finirono sul rogo. Tornando alla nostra Yona, va detto che la donna doveva rispondere ad ogni interrogatorio, secondo “verità” – quella dell’inquisitore naturalmente – sotto pena di 50 ducati d’oro! Ma non bastando neppure questo deterrente per farle dire quello che non aveva fatto e che invece i giudici volevano sentirsi raccontare, fu sottoposta ben due volte ai “tormenti” della suspensio ad cordam! La sala del curlo o “de’ tormenti” nella Curia di Aosta era situata sopra la sala de Bagnes in vescovado. Le regole canoniche clementine prevedevano per la tortura un massimo di un quarto d’ora, e questa era reiterabile non più di tre volte. Ma i giudici ecclesiastici, oramai, l’applicavano ad libitum, fino alla piena e completa confessione della “verità”. Yona durante un interrogatorio fattole dallo Scutifferi fu sottoposta “alle questioni” (subiecta quaestionibus) e le furono applicati tre tratti di corda e tre “cavallate”. La tortura consisteva nel sollevare la malcapitata, con le braccia legate ai polsi “in seconda” ovvero dietro la schiena, mediante fune issata a una carrucola. Quand’era sospesa in alto la si lasciava cadere di botto ma, prima che potesse toccar terra, si ritendeva di colpo la fune, in modo da farle avere un tremendo strattone, detto “squasso”. Con questo trattamento le braccia si disarticolavano completamente e si rovesciavano all’indietro. Il boia, incaricato di somministrare gli strattoni o squassi, era richiesto di avere, in più, il requisito di “giustaossa, perché, alla fine del sadico trattamento, aveva anche la non facile incombenza di rimettere in quadro (reaptare) spalle e braccia delle malcapitate ricollocandole nella loro naturale posizione originaria, con ovvii reiterati lancinanti dolori e urla. A Novara, alcune donne morirono durante i tratti di corda. Una giovane strega abortì mentre stava sospesa, mentre una ultraottantenne , lasciata appesa per più di un’ora alla fune, “sembrò come dormisse” e fu calata ancor viva! I giudici, durante le sedute del “rigoroso esame” computavano il tempo con la recita di Pater, Ave e Miserere, o con salmi direttamente proporzionali al tempo ritenuto necessario per far sputare una confessione completa. Yona fu sottoposta una seconda volta ai tormenti della fune, ma l’inquisitore precisò (e il notaio verbalizzò) “senza spargimento di sangue e senza mutilarne gli arti!”. L’arte di guaritrice e i “Secret” di Yona Mi sono, a suo tempo, occupato di quel mondo variegato di guaritori e guaritrici, sfatturatori di malefìci stregoneschi, indovini e fornitori di rimedi contro l’impotenza, che caratterizzava, ancora a fine Cinquecento e a inizio Seicento, la diocesi di Novara9. Molti di costoro erano persi- Battista Beccaria, L’inquisizione vescovile contro maghi, guaritori, mediconi, sfatturatori di malefìci stregoneschi tra Ossola e Lago Maggiore alla fine del XVI secolo, in “Novarien.” 38 (2009). 9 — 47 — A U G U S T A Particolare dell’affresco sulla facciata della chiesa di Issime, inferno. Francesco Biondi 1698. (Foto S. Ronco) no frati e preti e qualcuno di essi fu inquisito dai vescovi della Chiesa gaudenziana in veste di prete-stregone, come accadde per il reverendo Maffiolo di Mergozzo! Le ricette e il contesto operativo di Yona, precedenti di centocinquant’anni i fenomeni da me indagati - segnatamente per il Lago Maggiore -, sono illuminanti di un mondo magico che risaliva alla notte dei tempi e che perdurava ancora in Età controriformistica in barba al razionalismo e al tentativo di modernizzazione che pervadeva la Chiesa del dopo-Concilio di Trento. Il paganesimo - nel senso più etimologico del termine, di religione cioè del pagus, ovvero della periferia, del contado e della montagna, contrapposta a quella della città (urbs, da cui urbanesimo) - dato per morto almeno dalla fine dell’Alto Medioevo, risulta invece più vivo che mai anche per tutto il Basso Medioevo, anzi, nelle sue frange più marginali e periferiche, giunge sino alle soglie dell’Era industriale. Yona ne è un illuminante esempio per gli ultimi decenni del Medioevo. La povera Yona che, in fondo, non faceva nulla di più che maneggiare un misto di magico e sacro insieme, non molto distante da questa nostra contemporanea religiosità popolare, si trovò invece a fare i conti con degli ecclesiastici-talebani, che volevano salvaguardare ad ogni costo e con ogni mezzo la purezza cristallina della fede cattolica. E fu una resa dei conti tragica. Ma quali erano le “specialità” di Yona come guaritrice di malanni? Essa sapeva guarire soprattutto il male “dou salace”, cioè una forma di artrosi alle ginocchia, e poi conosceva il “secret de oculo”, sapeva cioè guarire le malattie degli occhi. Ma a lei si rivolgevano anche per qualsiasi altra malattia, soprattutto i foresti dei paesi vicini. Per la terapia c’erano delle regole da seguire. Dominicus de Venereya aveva una sorella inferma che non poteva muoversi per raggiungere la guaritrice. Allora Yona de Fey si fece portare da Domenico i vestiti e ciocche di capelli dell’ammalata per fare “un incantesimo di guarigione”. Pregò, fece dei segni sugli indumenti e i capelli, e, dopo poco, l’inferma migliorò; infine, guarì completamente. Per certe malattie, al contrario, era necessaria la presenza fisica del paziente e non bastava un suo indumento o una cintura recata da altri. Così, Yona era intervenuta di persona per sanare il figlio di Peter Jugler (Petrus Jugler), che aveva una escrescenza dietro il collo, usando la croce effigiata su una moneta d’argento. La fattucchiera non solo sapeva guarire gli uomini ma anche gli animali. Circa trent’anni prima del processo (verso il 1430) venne, infatti, chiamata per guarire la scrofa di Franz Jugler (Franciscus Jugler). In quell’occasione chiese l’aiuto della sorella di Franz. Le due donne si posero ai lati dell’animale e gli appoggiarono sulla schiena una veste, che subito si misero a tirare entrambe da parti opposte. E, mentre Yona diceva: “Cesta troya est souflanja”, l’altra le rispondeva: “Non est, mais il est chaih”. Per guarire invece il padrone della scrofa, e cioè Franz Jugler, Yona si fece portare in un vaso l’acqua di tre fontane e — 48 — A U G U S T A nove pietruzze bianche. Poi, tenendogli la testa china sopra il vaso, fece cadere a una a una le pietre nel vaso. E cominciò in töitschu (theotonico sermone) a recitare formule, pregando le piaghe di N.S.G.C. e il latte di Maria, ed invocando il sole, la luna, le acque e le fonti! Che usasse, nei suoi secrets per sanare, formule germanofone è riferito anche da Beatrisia, moglie di Antonio Dovei: “Allora Yona mi prese per mano, dicendo certe parole in dialetto germanico (alemano sermone) e pronunciando insieme a quelle anche il mio nome” . Le formule magiche in dialetto germanofono, incomprensibili a molti suoi pazienti, inquietavano più di un cliente. In effetti, Franciscus Jugler voleva che Yona lo guarisse parlando “in una lingua a lui conosciuta”. Non si fidava, e pretendeva di capire il senso della formula, proprio perché la fattucchiera era sempre ritenuta ambivalente, poteva guarire ma poteva anche “fatturare”, buttando addosso malocchi. Che potesse soprattutto nuocere ai compaesani, massime se vicini di casa, lo dimostra l’episodio delle code di vacca. Vulliermetus (o Vuillermetus) di Issime aveva dato in socida a Yona l’uso temporaneo di tre mucche. Quando il contratto venne a scadere, Yona restituì le tre vacche al proprietario. Ma Vuillermetus, ispezionando le tre bestie per vedere se erano ancora in buono stato, si accorse che agli animali erano stati tagliati i ciuffi di pelo in fondo alle code. Dopo un po’ di tempo le bestie si erano ammalate e subito Vuillermetus aveva imputato ciò al taglio dei peli operato da Yona. Le mucche non davano più latte. Lui accusò la donna di avergli maleficiato gli animali, ma lei scosse le spalle rispondendo: “I peli delle code non hanno nessun valore”. L’uomo allora la minacciò di andare a spifferare tutto al prete di Issime, il quale avrebbe poi riferito al vescovo, a meno che la Yona fosse disposta a fare una controfattura per guarire le bestie e rimediare al danno. In effetti, dopo poco tempo, le mucche si rimisero a dar latte. Ma, perché non ci fossero equivoci o ulteriori dubbi, ad ogni buon conto, Yona si recò dalla moglie di Vuillermetus per restituirle i peli delle code delle tre vacche. Trascorsi appena due mesi, ahimè, le tre mucche morirono. E Vuillermetus, con ogni probabilità, andò di corsa a riferire al curato del paese che Yona le aveva fatto crepare le bestie, naturalmente a insaputa di quest’ultima. Quando, sotto minaccia - come al solito - di tortura fu chiesto a Yona, in tribunale, di rendere conto del misfatto perpetrato sulle mucche e a danno di Vuillermetus, la donna rispose semplicemente che, avendo bisogno di fabbricarsi uno scopino di setole per lavare all’interno certi suoi vasi, aveva trovato comodo servirsi delle setole ritagliate dalle code. Tutto qui. Ma nessuno, ovviamente, le credette. Interessante soprattutto l’invocazione al sole, alla luna, alle acque e alle fonti, che spesso Yona recitava insieme a preghiere cri- stiane nelle sue formule di guarigione. In altro mio lavoro ho voluto dimostrare come fette consistenti di paganesimo continuassero a convivere pacificamente con un cristianesimo di superficie e mal compreso fino alla piena Età moderna10. In una Sinodo del 1590 celebrata a Novara dal vescovo Cesare Speciano (1585-1590) e pubblicata a stampa l’anno seguente, il presule stilava un elenco di superstitiones vitandae et damnandae dall’inquisitore domenicano-papale di Novara, frate Domenico Buelli (un personaggio poi ben narrato e magnificamente dipinto da Sebastiano Vassalli nel suo romanzo La Chimera). Ebbene fra i numerosi exempla riportati dal vescovo gaudenziano vi è un item che tratta di “coloro che si inginocchiano dinnanzi alla luna e la pregano affinché la volpe non entri nei loro pollai!”11. Tale rito pagano è già attestato in una omelia del primo vescovo di Torino, San Massimo, agli inizi del V secolo e viene ricordato, come ancora perdurante e diffuso ai suoi tempi, dal vescovo Attone di Vercelli nel IX secolo. Non posso dilungarmi di più nella casistica dei presunti malefìci attribuiti dai suoi compaesani a Yona, pertanto riferisco solo qualche “magìa” curiosa che la donna diceva di saper compiere. Perché, filando la lana, il filo non abbia a ingarbugliarsi bisogna guardare una farfalla in volo e recitare: “Come questa farfalla vola, così il mio filo si raddrizzi e si sciolga!”. Per far riuscire bene e in abbondanza il burro nella zangola, Yona usava legare tutt’attorno alla medesima uno spago. Quindi tracciava una croce sull’attrezzo dicendo: “In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti”. E riusciva poi a raddoppiare la quantità di burro recitando questa formula: “Ensy soye tu ben ceint, busch, comme nostre Seigneur Jesus Christ fut ceint de la Vierge Maria”. Ma queste “formule eretiche e diaboliche”, per giunta mescolate a preghiere ortodosse e ufficiali, rendevano, per gli inquisitori, la donna una pericolosa emissaria del demonio, il quale gliele suggeriva al fine di nuocere ai buoni cristiani. Sappiamo, invece, da chi Yona aveva appreso questa ingenua sapienzialità e a chi l’aveva già potuta trasmettere. Yona aveva imparato il “salace”, o arte di guarire le artrosi alle ginocchia, da una delle sue cognate, sorella del suo primo marito. Il “de oculo” dalla figliola della medesima cognata. Il trucco per non lasciar ingarbugliare il filo di lana da una sorella di quest’ultima. Dal che si arguisce che la famiglia intera cui apparteneva la sorella del suo primo marito era in possesso di numerosi “secrets”, che si trasmettevano - e insieme venivano praticati - di madre in figlia, sotto forma di medicina e di magìa popolare. Altri sortilegi li aveva, invece, imparati da un medicone, Anthonius de Piatas. Yona, a sua volta, aveva istruito Beatricia, moglie di Riccardo Junoti di Perloz, poi arrestata a San Sebastiano Monferrato e incarcerata come fattucchiera. Aveva anche conosciuto Battista Beccaria, Credenze, superstizioni, ritualità nelle valli della Diocesi di Novara fino al XVI e XVII secolo. Dalla persistenza del paganesimo nell’Alto Medioevo alle superstizioni come relitti dello stesso nel Basso Medioevo e nell’Epoca Moderna, in Atti del Convegno “Donne di montagna. Donne in montagna”, Varallo Sesia, Centro Congressi Palazzo d’Adda (19-20 ottobre 2002), Borgosesia 2004, pp. 93-140. 11 Speciano, Synodus dioecesana novariensis MDXC habita, etc., Sesalli, Novara 1591. 10 — 49 — A U G U S T A degli esperti “sfatturatori”, che sapevano guarire e liberare dalle fatture stregonesche: un eremita che viveva accanto a un convento di francescani e una coppia formata da un chierico esorcista e da un medico, i quali lavoravano insieme! Quella degli sfatturatori, soprattutto se ecclesiastici, è una pista che non è stata ancora sufficientemente esumata dagli archivi vescovili o inquisitoriali, e ancor meno studiata dagli storici della Chiesa. Nel mio recente studio sopra citato12 sull’argomento, il quale riguarda soprattutto le zone attorno al lago Maggiore, ho trovato anche qualche notaio che praticava l’arte di sfatturatore, tanto per arrotondare lo stipendio. Naturalmente, dopo il Concilio di Trento e lungo i decenni del primo periodo controriformistico, tutti costoro furono presi di mira da inquisitori dell’heretica pravità e da tribunali vescovili: se infatti la causa efficiens del maleficio è dovuta al demonio, di cui la strega è solo strumento o intermediario, e converso anche chi libera dal maleficio deve servirsi del demonio come causa sufficiente ma soprattutto necessaria a tanta impresa soprannaturale. La fine della strega I figli di Yona, in un estremo tentativo di salvare la madre dalle fiamme, chiesero agli inquisitori di poter affiancare all’inquisita un avvocato difensore. Ma la domanda fu seccamente respinta. D’altronde era pure difficile trovare un avvocato-suicida che rischiasse tanto. Chi difendeva un’eretica doveva essere ritenuto anch’esso un eretico e puzzava già di zolfo. Allora chiesero se fosse possibile ricorrere ad una purgatio canonica. Che consisteva, oltre che in una complicata cerimonia di giuramenti di innocenza per l’imputata, nel far sfilare dei testimoni che scagionassero la presunta colpevole. I giudici si dissero possibilisti, ma pretesero che, per purgare Yona, dovessero presentarsi almeno sette compurgatores o scagionatori. Naturalmente maschi. In effetti il vice inquisitore inviò delle lettere circolari ai parroci di Issime, Arnad, Perloz e Valle del Lys perché annunciassero in chiesa che era possibile, per chi volesse, presentarsi a testimoniare a favore della strega. Questi dovevano essere i requisiti richiesti ai sette “aspiranti suicidi”: oltre che risultare di sesso maschile, dovevano avere buona fama e reputazione nei rispettivi paesi, dovevano essere pienamente informati dei fatti riguardanti Yona, dovevano averla frequentata e avere parlato con lei precedentemente all’inquisitio compiuta nei suoi confronti. La purgatio canonica era, comunque, una specie di roulette russa. Se la “rea” o i suoi parenti non fossero riusciti a trovare il numero minimo richiesto di compurgatores (nel caso di Yona almeno sette) entro l’anno, la condanna al rogo in qualità di eretica era garantita, e il processo finiva lì. Visto, però, che di testimoni autolesionisti e votati al suicidio (presentarsi a testimoniare a favore voleva dire dichiararsi cor12 reo e fiancheggiatore dell’inquisita o eretica) non se ne vedevano all’orizzonte fin dall’inizio, fu concesso, in sostituzione, ai figli di presentare essi stessi un memoriale scritto di difesa per la congiunta. Johannes e Vuillermetus, non avendo l’istruzione necessaria a stilare un tale memoriale, si rivolsero a un giurista esperto, Johannes de Reconisio, il quale preparò la “cedola” (così si chiamava il memoriale di difesa). Non posso snocciolare qui, per brevità, i sei punti preparati dal dottore in utroque, ma la lettura di quel testo mi sembra smontasse bene e con rigore, ad una ad una, le accuse di “eresia formale” contestate all’imputata. I giudici, naturalmente, non ne tennero nessun conto. Per loro Yona era già colpevole in partenza, da quando cioè il vescovo e il suo vicario avevano appurato - con inconfutabili prove (le delazioni dei malevoli e i “si dice”) raccolte nella fase istruttoria del procedimento accusatorio - la “verità”. Quella era e quella doveva rimanere: la Chiesa e i suoi tribunali non possono sbagliare mai, perché sono dalla parte di Dio, a difesa della Fede e della Verità. Il rogo dunque era già assicurato. Ma forse il Cielo non era esattamente d’accordo coi giudici e gli rovinò la festa sul più bello. Yona, già affetta da febbri e da tremori (Parkinson? Epilessia? Turbe nervose dovute ai terribili stress subìti? Stati di trance per sfuggire al dolore provocatole dalle tremende torture?), morì in carcere prima che il processo fosse del tutto formalmente concluso. I testimoni e i compagni di cella, che poterono vederla negli ultimi sventurati giorni della sua vita, riferirono che “veniva ritrovata quasi fosse morta, come se soffrisse di mal caduco”. Sembrerebbe perdesse coscienza per lunghi periodi. Risulta, da alcuni processi novaresi da me esaminati, come non fosse infrequente per queste donne, chiamate streghe, il procurarsi da sole degli stati volontari di trance che le alleviavano da atroci dolori. Così una vecchietta ossolana di più di ottant’anni rimase appesa alla corda per più di un’ora nella sala de’ tormenti, senza lamenti e rimanendo quasi assopita. Stufi di aspettare, i giudici la fecero calare e riporre in carcere, viva e vegeta come quando ne era uscita per essere sottoposta al “rigoroso esame”. La tremenda macchina del processo inquisitorio contro l’eresia non si arrestava però neppure di fronte alla morte dell’eretico. Poiché il procedimento non era formalmente terminato, e l’accusata era morta inconfessa e senza alcun segno evidente e manifesto di pentimento, il processo fu portato a termine, alla presenza dei due figli dell’eretica defunta, essendo il suo cadavere contumace. E arrivò, tempestiva quanto la morte stessa, la pena inesorabile del rogo. Fu innalzata la catasta di legna e il cadavere di Yona di Issime, del Vallone di Bourinnes – strega, apostata, eretica e (non poteva di certo confessarsi post obitum o sottoporsi ad un’abiura in piena regola) persino “pertinace” – fu divorato dalle fiamme, a utile e salutare monito degli issimesi e per salvaguardare le loro anime dal fuoco più tremendo dell’Inferno. Vedasi nota 9 poco sopra. — 50 — A U G U S T A La cappella di Chincheré Jolanda Stévenin N el corso dei secoli, ed in particolare dopo la peste del 1630, i nostri antenati hanno edificato numerose cappelle di villaggio. Questi edifici sacri sono la testimonianza di una fede secolare che ha contraddistinto tutte le nostre comunità alpine. Anche ad Issime le cappelle hanno segnato, da sempre, la vita religiosa e etnica della sua gente. E, ancora ai nostri giorni, esse rappresentano un preciso luogo di riferimento in cui i fedeli amano ritrovarsi con gioia per impetrare dal cielo grazie e protezione. Tra le cappelle issimesi merita un’attenzione particolare quella di Chincheré che si eleva su di un’altura all’ingresso del villaggio omonimo. Essa è dedicata a Notre-Damedes-Grâces e alla Présentation-de-Notre-Dame. Il suo patrono si celebra il 21 novembre. La liturgia della chiesa dedica appunto il 21 novembre alla Presentazione di Maria al Tempio, secondo un’antica tradizione che risale al VI secolo. L’episodio della Presentazione di Maria al Tempio, come gli altri della nascita e fanciullezza di Maria, non si trova nei vangeli canonici. Esso è narrato dal più poetico fra i testi apocrifi, il cosiddetto Protoevangelo di Giacomo che ha ispirato sia la devozione popolare, sia gli artisti.(Piero Bargellini , Mille Santi al giorno, Vallecchi pag. 651). Cronistoria della cappella Da documenti d’archivio risulta che la cappella fu progettata intorno al 1628. Nell’atto, redatto il 10 luglio 1628 dal notaio Jean Vercellin (A.P.I. mazzo II ), si legge che “Jeanne, fille de feu commendable Pierre Consol, veusve de feu Jacques Ronco, ordonne que lhors et quand se fera une chapelle riere Chincheré à la forme proposée, ses héritiers Cappella di Chincheré. (Foto E. Ronco) — 51 — A U G U S T A doivent fournir à leurs frais, deux figures d’anges à mettre sur l’autel.” … Sempre nel medesimo atto la testatrice dispone che si distribuisca in elemosina, davanti alla cappella e in perpetuo, “…quatre quartaines de blé, en pain cuit, et deux rubs de fromage”, a coloro che parteciperanno, il martedì delle Rogazioni, alla processione che raggiunge il confine di Gueymour. (La quartaine corrispondeva a demi-émine de blé = dal 1,120, mesure de capacité pour matières sèches; mentre il Rup de vingtcinq livres corrispondeva a Mg 0,961500, mesure du Pémont valable jusqu’à la première moitié du XVIème siècle). Il suddetto legato prevedeva inoltre la celebrazione di una messa del rosario à l’autel du Saint Rosaire. Rileviamo però che la cappella di Chincheré, progettata fin dal 1628, fu realizzata soltanto un quarto di secolo dopo. Verosimilmente il rinvio della sua costruzione è da ricercarsi nelle conseguenze drammatiche determinate dalla peste del 1630 che decimò una parte della popolazione. La sua costruzione In un atto del 27 maggio 1653 leggiamo che: “Discret Gabriel de Jean-Pierre Consol, et Pierre et Jean, frères, fils de feu Mathieu Consol et discret Mathieu de feu Pierre Consol, d’Issime, ayant fait construire une chapelle au lieu de Chincheré d’Issime et, ayant obtenu de l’évêque de la bénir, pourvoient à la dotation d’icelle d’un quart d’écu par an, pour y pouvoir célébrer une messe annuelle et perpétuelle et promettent de s’adosser la manutention de la chapelle, assurant, à cet effet, une quartanée et demie de leurs biens, sis au dit Chincheré (…)”. (A.N.A. Fonds Donnas, Jean Bioley, notaire). Dagli atti delle visite pastorali Altre notizie relative alla vita della cappella si possono desumere dai verbali delle visite pastorali fatte dall’autorità vescovile alla parrocchia di Issime. Così nel verbale del 14 agosto 1693 leggiamo: Visite pastorale à la Paroisse d’Issime Saint-Jacques – “Plus la chapelle du village de Chincheré, soubs le titre de Notre Dame, ayant une messe et ruinée, interdite”. (A.Cu.E., Visites pastorales 1693-1696). Dunque,a pochi decenni dalla sua costruzione la cappella è già in pessime condizioni e viene pertanto definita “interdetta”. Probabilmente però vengono effettuati dei lavori di restauro poiché nel verbale della visita pastorale del 14 maggio 1700 leggiamo: …”la chapelle de Chincheré, sous le titre de Notre Dame des Grâces, médiocrement bastie, ayant tous les parements, excepté le calice. Il est injoint à ceux du village, ou à qui de droit appartient, de pourvoir d’un calice à la dite chapelle, dans l’année, soubs peine d’interdit d’icelle”. (A.Cu.E., Visites pastorales de 1699 à 1712). Tre anni dopo, nella visita pastorale del 9 giugno 1703, risulta che ancora non è stato acquistato il calice per cui viene annotato quanto segue: “Est injoint à qui il appartient d’y pourveoir d’un calice, dans trois ans” .(Archives, ut supra). Vitalità della cappella Nel verbale della visita pastorale del 25 luglio 1713 troviamo invece quanto segue: “Plus une autre chapelle au lieu de Chincheré, à l’invocation de Notre Dame des Grâces, bien bastie, avec tout le nécessaire, y estant une messe pour le jour de la présentation de Notre Dame, à la rétribution de 25 sols”. (A,Cu.E. ut supra). Dunque nell’anno 1713 la cappella di Chincheré è in ottime condizioni ed è provvista di tutto il necessario per la liturgia eucaristica. La cappella di Chincheré è tenuta in grande venerazione perché dai registri parrocchiali apprendiamo che il parroco d’Issime, reverendo Jean Praz, in un codicillo del 12 settembre 1721 fa il seguente legato: “…lègue à la célébration d’une messe, à la rétribution de 20 sols, mannaie d’Aoste. À dire dans la chapelle de Chincheré Tiers Dessous, pour une fois, incontinent après son trépas…”. (Source: A.P.I., Chapelles, notaire Joseph Alby). In un atto redatto a Collombit di Fontainemore il 20 gennaio 1669 si legge: “…Le notaire Pierre Consol, d’Issime, entre autres legs, ordonne que ses héritiers distribuent à la chapelle de Chincheré ung lampadaire de la valeur de demy double (14 écus) d’Ispagne. Et ce un an après son décès”. (A.N.A. Fonds Donnas, vol.1719, Jean Vacher, notaire). Ancora nel verbale della visita pastorale del 24 maggio 1727 leggiamo la citazione seguente; “Plus la chapelle de Chincheré sous l’invocation de Notre Dame de la Présentation; assortie de parements; y ayant une messe, fondée à la rétribution de 25 sols”. (A.Cu.E. C-5-vol.10). Per quanto attiene ai beni ipotecati si legge nello stesso atto: “…une quartaine et demy de pré, bois et terroir, située et jesante au dict lieu de Chincheré, appellée Le Creux, La Cla et Quioczet, confinant les dictes pièces, à la charrière de troys coustés et le Ryal (…).” — 52 — A U G U S T A Altri legati 1734, 22 août – Issime – Dans son testament, Bernard de feu Pierre de Bernard Roncoz d’Issime, lègue cinq livres à la vénérable chapelle de Chincheré, payables dans l’an après son décès, par ses héritiers. (A.P.I. mazzo II, notaire Mathieu Christillin). Dans le livre de mémoire des legs rédigé par le curé d’Issime on lit: “Par contrat de Gabriel et Mathieu Consol, reçu par Jean Biolei notaire, 1653, 27 mai: une messe annuelle et perpétuelle, pour le jour du patron, ou un autre jour à basse voix; payables à tour de batton, par les ressortables et exigeable vers les procureurs de la chapelle. (Source: Livre de mémoire des legs, A.P.I.). Nella historique del 1786 si dice che la cappella è in buone condizioni ma il est nécessaire d’y refaire le pavé. (A.P.I. A.Cu.E. D 5- vol 5). Infine, nel 1870, trovandosi la cappella in precarie condizioni di stabilità viene abbattuta e ricostruita nello stesso luogo su interessamento del prete originario d’Issime, del villaggio di Chincheré, Jean-Joseph Consol e dotata dell’arredo necessario, nonché della Via Crucis offerta da M. Christillin Sabin. Il vescovo di Aosta, Mgr Jans, incarica della benedizione l’arciprete Jannel di Fontainemore. Historique del parroco Grat Vésan relativa alla cappella di Chincheré: Altare della cappella di Chincheré. (Foto E. Ronco) “En 1866 démolition de la chapelle par le curé Jean Joseph Consol1 qui la fit reconstruire au même lieu; celui-ci étant mort, en 1870 ses deux soeurs la terminèrent: Marie Jacobée et Marie Antoinette Rose. Gli ultimi discendenti del ramo dei Consol chiamato Péjetsch erano cinque fratelli Mathieu, Pierre (Piru), Marie Jacobée, Marie Antoinette Rose, e Jean-Joseph (parroco). Vivevano nel villaggio di Chincheré (Tschéntschiri), si dice che possedessero una montagna nel Vallone di Tourrison e che la loro proprietà si estendesse dal villaggio fino alla cima del Vallone (Col du Loup), senza soluzione di continuo, un’unica striscia di territorio con i diversi tramudi. Marie Antoinette Rose sposò Pierre Amédée Christillin (Chrischtentsch Piru) alcuni dei loro discendenti, recentemente scomparsi, erano ancora chiamati Péjetsch: Valentine e Féini sorelle del parroco di Gressoney-Saint-Jean Daniel Christillin. Il soprannome Chrischtentsch non si è trasmesso nelle generazioni, sono stati invece utilizzati e mantenuti, per identificare questo ramo dei Christillin, i soprannomi delle rispettive mogli: il figlio di Chrischtensch Piru era chiamato Péjetsch Daniel (*1839†1918) 1 — 53 — A U G U S T A “Chemin de croix offert par Sabin de feu Jean Jacques, propriétaire de la petite maison de La zeli: En 1767, la communauté d’Issime fut exemptée du voeu d’aller chaque année à la chapelle de Notre Dame de la Garde de Perloz; pourvu que la paroisse fît une procession pour y suppléer, dans le territoire de la paroisse. Dès lors on fit la procession annuelle de l’église d’Issime à la chapelle de Chincheré le 21 avril ou le dimanche le plus rapproché. (Source: A.P.I. Chapelles – Livre des mémoires des legs). Anticamente, i nostri predecessori solevano manifestare la loro devozione a un luogo sacro mediante piccole offerte in denaro, donazioni testamentarie oppure processioni. Non solo da Issime, ma anche da altre parrocchie della Vallaise, e persino da Challand-Saint-Victor, venivano organizzate delle processioni annuali al santuario della Madonna della Guardia di Perloz. Dopo il 1630, però queste pratiche caddero in disuso perché troppo impegnative. Fu così, ad esempio, che la processione annuale della parrocchia d’Issime al santuario della Guardia di Perloz fu sostituita da quelle più agevole diretta alla cappella di Notre-Dame des Grâces di Chincheré. Changement d’un ex voto de la paroisse d’Issime: “Le 10 mai 1767, le syndic d’Issime Mathieu Freppa et tous les conseillers présentent recours à Mgr De Sales, évêque d’Aoste,dans le but d’être autorisés à vendre certains biens onéreux, appartenant à l’église et pour demander que la commune fût déchargée d’un voeu qu’elle avait fait d’aller chaque année en procession au sanctuaire de Notre Dame de la Garde à Perloz. Voici la réponse de la Cure Episcopale: “…nous exhortons le Curé et les paroissiens à suppléer à la procession requise, par quelque autre moins fatigante et qui se termine dans l’enceinte de la paroisse. A la Cité ce 17 mai 1767. Monseigneur De Sales Issime, 22 mai 1870. Note des ouvrages à faire pour l’intérieur de la chapelle de Chincheré, confiées au menuisier Alby Jean Jacques, Pierre Amédée Christillin [Chrischtentsch Piru vedi nota 1] et Jacobée Consol [Péjetsch vedi nota 1]: ces deux derniers fournisseurs du bois. cloches, six fenêtres, pupitre de la tribune, 2 bancs, 2 autres bancs, banc du prêtre au choeur, 3 serrures, tronc pour l’argent : frais lires 57,20. Porte à grille de fer faite par le forgeron. (Source: A.P.I. Chapelles). Alby s’oblige de finir tout le travail susdit jusqu’à la mi novembre plus prochain de l’an 1870. Note des ouvrages à faire à la chapelle de Chincheré, confiés à Mathéry Joseph pour lires 50,00. 1° Hausser le clocher de m 0,50 centimètres 2° N.trois pierres formant couloir adaptées au clocher pour empêcher les gouttières. 3°Démolir le clocher actuel jusqu’au toit de la chapelle (…) 4°Faire une pierre dans le clocher pour renvoyer l’eau de chaque côté. 5° Faire un fossé derrière et de chaque côté de la chapelle, pour l’écoulement des eaux, de la profondeur de 10 cm au moins en dessous du plancher intérieur de la chapelle (…) 6° Percer tous les trous et placer des pattes pour soutenir les cadres du chemin de la croix. Tous les matériaux pour les travaux qui précèdent sont à la charge de Christillin Pierre Amédée et Consol MarieJacobée, qui doivent aussi fournir le bois nécessaire pour l’échaffaudage, avec logement et bon us accoutumés. (…)Le soussigné maître-maçon Mathéry n’est chargé que de la main d’oeuvre Le même maître-maçon Mathéry doit commencer le 19 septembre prochain et achever le tout avant que le terrain gèle.(…) Issime le 14 aôut 1870. La nuova cappella di Chincheré fu terminata a tempo di record e benedetta il 21 novembre 1870, alla presenza del parroco Don Joseph Delapierre. Nel 1928 si collocarono dei banchi nuovi, offerta fatta dalla famiglia di Ronco Isidoro, dal figlio Pétéretsch Jean [Cfr. notizie raccolte dal parroco di Issime Grat Vesan, Congresso eucaristico interparrocchiale, Issime (Aosta) 18-25 maggio 1941, p.139]. Secondo la testimonianza di una discendente, i larici utilizzati per i banchi provenivano dal vallone di Tourrison nei pressi dell’alpeggio di Töivi. La popolazione locale ha sempre tenuto in grande considerazione la cappella del villaggio,considerandola un prezioso retaggio di fede da trasmettere di generazione in generazione. P.S. Devo la trascrizione dei dati di archivio allo zelo sollecito del compianto Dott.Orfeo Zanolli che ricordo, ancora una volta, con profonda gratitudine. e sposò Ritsch Mareji (*1842†1918) (fam. Freppa), il loro figlio Ritsch Dschosefji (*1876†1951) sposò Keerisch Dschuschteini (*1876†1959) (fam. Storto). (Queste informazione, integrate con ricerche d’archivio, sono state raccolte da Michele Musso presso Filippo (*1908†1993) e Flavio Consol Stoffultsch). — 54 — A U G U S T A Scrivere tra i walser. Perché una nuova grafia? Marco Angster1 A partire da febbraio 2008 si è svolto il progetto di Normalizzazione della grafia per le parlate walser del Piemonte e della Valle d’Aosta che ha visto impegnati rappresentanti delle comunità di Alagna Valsesia, Formazza, Macugnaga, Rimella e Salecchio in Piemonte e Issime e Gressoney in Valle d’Aosta. Il progetto, di durata biennale, ha avuto ufficialmente termine con la presentazione, a Formazza a settembre del 2010, del libro Scrivere tra i walser. Per un’ortografia delle parlate alemanniche in Italia. Il volume è corredato da un CD che contiene molti esempi di parole registrate dalla viva voce dei parlanti trascritte usando la nuova grafia. Nel testo è anche contenuta un’ampia introduzione metodologica e, oltre a una interessante, anche se tecnica, analisi linguistica, sono presenti alcuni testi esemplificativi dell’uso della nuova convenzione grafica.2 In cosa è consistito il lavoro? Nei due anni di riunioni tra il comitato scientifico e i rappresentanti delle comunità si è cercato in primo luogo di identificare le caratteristiche fonetiche rilevanti per la grafia. Sono state poi considerate le soluzioni usate in precedenza nelle grafie già esistenti e tradizionali per rappresentare i suoni delle varie parlate. Le soluzioni giudicate più soddisfacenti sono state adottate per rappresentare i suoni di tutte le comunità. Il lavoro non è stato semplice, perché ogni comunità ha dei suoni peculiari oppure gli stessi suoni hanno in diverse comunità una funzione diversa: ad esempio il suono rappresentato a Gressoney da <ó> è, in tutte le altre comunità eccetto Macugnaga, una semplice variante del suono rappresentato da <u> e dunque non viene distinto da esso nella grafia. Le grafie già esistenti non erano adeguate a rappresentare le varie parlate? La risposta può essere duplice. Da un lato nessuna grafia è veramente adeguata a rappresentare la pronuncia di una lingua; per rappresentare la pronuncia con la massima fedeltà esistono gli alfabeti fonetici, dotati di moltissimi segni indicanti i suoni e di simboli che modificano questi segni per rendere ancora più precisa la rappresentazione. Tuttavia gli alfabeti fonetici non sono grafie utilizzabili nella quotidianità neppure per scrivere un brevissimo testo, inoltre la trascrizione fonetica di una stessa frase ripetuta più volte può talvolta differire non solo se pronunciata da persone diverse, ma addirittura dalla stessa persona. Si può immaginare quanto poco agevole sia questo tipo di strumento. Le grafie invece sono imprecise e proprio da questa imprecisione deriva la loro amplissima utilizzazione. Da questo punto di vista, dunque, anche le grafie tradizionali erano adeguate a rappresentare le singole parlate. Ogni parlata però, fino al progetto di Normalizzazione, aveva le sue proprie regole e ciascuna utilizzava degli inventari di simboli diversi; a volte questi inventari erano molto peculiari e utilizzavano segni diversi per lo stesso suono (<v> e <f> per [f]; <ï>, <ì>, <ê>, <é> per [ɪ]) oppure lo stesso simbolo per suoni diversi (<ck> per [k], [k:], [kχ], [kh]). Con il progetto di Normalizzazione tutte le comunità walser di Piemonte e Valle d’Aosta hanno un unico sistema di corrispondenze tra simboli e suoni su cui basare la grafia della propria parlata.3 Questo sistema è stato a lungo ponderato sia al fine di non discostarsi troppo dalle grafie già esistenti sia per avere una maggior razionalizzazione nelle corrispondenze: si è cercato di privilegiare una corrispondenza uno a uno (un suono un simbolo) ogni volta che questo tipo di scelta era possibile senza semplificare distinzioni ritenute utili e senza complicare troppo il sistema. Come è ovvio, il sistema che è emerso dal progetto non è privo di problemi. Intanto introduce delle novità nelle grafie tradizionali, ciò che potrebbe scontentare chi ha usato per anni un altro sistema di scrittura se non ha addirittura contribuito a crearlo. Si possono riassumere le novità che la nuova grafia comporta per Gressoney e Issime nei seguenti punti: • gli accenti che indicano una diversa qualità delle Dottorando in Linguistica presso l’Università di Pavia [email protected] Le persone che, come parte del comitato scientifico, come rappresentanti delle comunità o come autori hanno partecipato al progetto e alla stesura del volume, sono ricordati nella Presentazione e nel primo capitolo. 3 Riporto lo schema relativo a Gressoney e Issime in calce al testo; per altri esempi si veda il CD allegato al volume Scrivere tra i walser, mentre per lo schema generale con le corrispondenze per tutte le comunità si veda il volume stesso alle pagine 63-72. 1 2 — 55 — A U G U S T A vocali sono sempre acuti: <é> <ó> <á>; dunque a Gressoney <ò> diventa <ó>; • il dittongo <ee> a Issime diviene <ea>; il raddoppiamento dei segni grafici corrisponde infatti a una maggior lunghezza del suono; • anche le consonanti lunghe sono rappresentate dal raddoppiamento del segno corrispondente (dunque tschócke viene scritto tschókke), mentre nel caso di gruppi consonantici si raddoppia solo il primo segno che li compone (acher viene scritto accher); <v> sparisce dalla grafia di Gressoney e di altre • parlate e resta solo nelle grafie di Issime e Rimella; qui però rappresenta sempre la [v] dell’italiano volto in parole, es. vuks, vinger, vill, dove altre comunità hanno la [f] dell’italiano folto, che va ora rappresentato sempre con <f>, es. fuchs, fénger, féll (non più véll); Un altro problema è che la grafia nata da questo progetto si discosta dalle convenzioni grafiche delle varietà svizzero-tedesche. Tuttavia uniformare le grafie walser italiane a quelle svizzere ne avrebbe notevolmente modificato l’aspetto fino probabilmente a renderle irriconoscibili. Per fare un solo esempio, nelle grafie dei dialetti della Svizzera <k> e <ck> rappresentano il suono [kx] mentre <gg> rappresenta il suono [k] per cui ad esempio Gr. tschókke (tschócke in grafia tradizionale) verrebbe scritto tschógge. In parte la nuova grafia si discosta anche dal tedesco standard, ad esempio per la scelta di togliere il simbolo <v> per rappresentare [f], ma si tratta in questo caso di una scelta di razionalizzazione che dovrebbe in futuro evitare le incertezze (presenti abbondantemente nel vocabolario del dialetto di Gressoney) sulla grafia di fó ‘di, da’ o del prefisso fer- ad esempio in ferzwifló ‘disperare’. Questo lavoro di normalizzazione era davvero necessario? Sì. In primo luogo perché c’erano comunità che non avevano un sistema condiviso per scrivere il dialetto oppure dove era necessaria una grande opera di razionalizzazione per forti incongruenze nella grafia esistente. In secondo luogo le attività del progetto erano finalizzate alla promozione dell’uso di una grafia condivisa per altri progetti e raccolte di dati riguardanti le comunità walser, il primo dei quali, la banca dati linguistica, è in corso di attuazione. Infine le attività del progetto hanno portato a una collaborazione tra le comunità walser italiane che probabilmente non si era mai avuta in precedenza su un progetto incentrato sulla lingua. Si è consolidata durante questi lavori una rete di conoscenze che si spera possa anche in futuro dare importanti frutti nella conservazione e promozione delle parlate walser. Tabella corrispondenze per le comunità di Gressoney e Issime (tratto da Scrivere tra i walser. Per un’ortografia delle parlate alemanniche in Italia, pp. 62-73) Is.: widder ‘montone’; Vocali A, a (come a dell’italiano) Gr.: acher ‘id.’; Is.: acher ‘id.’; O, o (come o dell’italiano, può essere aperta come in bòtte o chiusa come in bótte) Gr.: gotta ‘id.’; Is.: gotta ‘id.’; Á, á (a velarizzata, tendente a o) Gr.: — Is.: — Ma.: scháf ‘pecora’; Ó, ó (come u del tedesco und) Gr.: sónnó ‘sole’; Is.: — Á, ä (come a dell’inglese hat ‘cappello’) Gr.: häks ‘strega’; Is.: — E, e (come e dell’italiano, può essere aperta come in pèsca o chiusa come in pésca) Gr.: geschter ‘id.’; Is.: geschter ‘id.’; É, é (come i del tedesco Kind, a volte è centralizzata) Gr.: tér ‘id.’; Is.: é schréibe ‘io scrivo’; I, i (come i dell’italiano) Gr.: titsch ‘id.’; Ö, ö (come ö del tedesco Höle ‘buco’) Gr.: — Is.: töischu ‘cambiare’ U, u (come u dell’italiano, in posizione finale può avvicinarsi a ó) Gr.: brun ‘marrone’; Is.: jung ‘giovane’; Ü, ü (come ü del tedesco Hüte ‘cappelli’) Gr.: — Is.: chü ‘vacche’; — 56 — A U G U S T A L’accento grafico su á, é e ó indica pertanto soltanto il timbro più alto (é e ó) o arretrato (á) della vocale rispetto a quelle indicate dal segno corrispondente senza accento (a, e, o). La maggiore durata delle vocali è resa raddoppiando il segno, limitando tuttavia tale notazione ai casi che possono ingenerare perplessità (es.: Fo. téér [tɪ:r] animale’ vs. tér [tir] ‘porta’). Dittonghi e nessi bivocalici EA, ea Is.: cheame ‘venire’; Ée, ée Gr.: chéeme ‘venire’; EI, ei Gr.: fleigó ‘id.’; Is.: eisch ‘ghiaccio’; IA, ia Is.: wia ‘dolore’; IE, ie Gr.: mied ‘stanco’; Is.: lier ‘vuoto’; OA, oa Gr.: oalt ‘vecchio’; Is.: oalt ‘vecchio’; ÖI, öi Is.: töitsch ‘tedesco’; OU, ou Gr.: oug ‘occhio’; Is.: mous ‘topo’; UA, ua Is.: bruat ‘pane’; UE, ue Gr.: brueder ‘fratello’; ÜE, üe Is.: bües ‘cattivo’; Consonanti (-)B-, (-)b- (come b dell’italiano) Gr.: brót ‘id.’; Is.: bruat ‘id.’; -B, -b (in posizione finale vale p) Gr.: lib ‘corpo’; Is.: ljeib ‘id.’; CH, ch (come ch tedesco, può essere più avanzato come in ich ‘io’ o più arretrato come in acht ‘otto’. In alcuni casi è uvulare) Gr.: chélchó ‘id.’; Is.: chilhu ‘id.’; (-)D-, (-)d- (come d dell’italiano) Gr.: brueder ‘fratello’; Is.: bruder ‘id.’; -D, -d (in posizione finale vale t) Gr.: mied ‘stanco’; Is.: müd ‘id.’; DJ, dj (simile a ghi dell’italiano ghiaccio ma più avanzato) Is.: ljidji ‘canto’; DŜCH, dŝch (come g dell’italiano gelo) Gr.: sendŝchó ‘appiglio’; Is.: ündŝchenandre ‘a noi’; F, f (come f dell’italiano) Gr.: fóks ‘id.’; Is.: fannu ‘padella’; (-)G-, (-)g- (come g dell’italiano gatto) Gr.: géere ‘id.’; Is.: geare ‘id.’; -G, -g (in posizione finale vale k) Gr.: wäg ‘id.’; Is.: weg ‘id.’; H, h (come h del tedesco haus ‘casa’. In alcuni casi è sonoro) Gr.: hei ‘id.’; Is.: höi ‘id.’; J, j (come j del tedesco Jäger ‘cacciatore’ e come i dell’italiano ieri) Gr.: jeger ‘id.’; Is.: jeger ‘id.’; K, k (come k del tedesco e come c dell’italiano cane) Gr.: schnäkke ‘id.’; Is.: schnekki ‘id.’; KCH, kch (affricata velare sorda, come (c)k dello svizzero tedesco) Gr.: ekch ‘angolo’; Is.: lekchu ‘leccare’; — 57 — A U G U S T A L, l (come l dell’italiano luna) Gr.: lied ‘id.’; Is.: blatti ‘beole’; T, t (come t dell’italiano) Gr.: bett ‘id.’; Is.: bétt ‘id.’; LJ, lj (come gl dell’italiano figli) Gr.: — Is.: ljöitji ‘persone’; TJ, tj (simile a chi dell’italiano chiesa, ma più avanzata) Is.: lljöitji ‘persona’; TSCH, tsch (come c dell’italiano cece) Gr.: wältsch ‘id.’; Is.: töitsch ‘tedesco’; M, m (come m dell’italiano) Gr.: mus ‘id.’; Is.: mous ‘id.’; -TZ(-), -tz(-) (come z dell’italiano scherzo e tz del tedesco Würze ‘condimento - aroma’) Gr.: chertzó ‘id.’; Is.: chértzu ‘id.’; N, n (come n dell’italiano) Gr.: nu ‘nuovo’; Is.: nau ‘nuovo’; NG, ng (come n dell’italiano àncora) Gr.: fénger ‘id.’; Is.: vinger ‘id.’; V, v (a Issime e Rimella in corrispondenza di f nelle altre varietà, come v dell’italiano vaso) Is.: vuks ‘volpe’; Ri.: vuksch ‘id.’; P, p (come p dell’italiano) Gr.: tschappóló ‘id.’; Is.: tschappulu ‘id.’ W, w (come v dell’italiano vaso) Gr.: wéerme ‘calore’; (a Issime, e, più in generale, nei nessi consonantici, corrisponde a u dell’italiano uomo o a w dell’inglese wine ‘vino’) Gr.: zwei ‘due’; Is.: wearmi ‘calore’; PF, pf (come pf del tedesco) Gr.: pflantzó ‘piantare’; Is.: öpfil ‘mela’; R, r (in generale come r dell’italiano) Gr.: ros ‘id.’; Is.: ross ‘id.’; S-, -S-, s-, -s- (come s dell’italiano caso, in posizione iniziale alterna con esiti sordi come s dell’italiano sole) Gr.: sónnó ‘id.’; Is.: sunnu ‘id.’; -S, -s (in posizione finale come s dell’italiano sole) Gr.: sies ‘id.’; Is.: süs ‘id.’; -SS-, -ss- (come s dell’italiano sole, puó essere doppia) Gr.: ässe ‘id.’; Is.: esse ‘id.’; SCH, sch (come sc dell’italiano scena. In alcuni casi corrisponde alla pronuncia piemontese di s) Gr.: schribe ‘id.’; Is.: schreibe ‘id.’ ŝCH, ŝch (come j del francese jour) Gr.: eŝchél ‘id.’; Is.: üeŝchil ‘id.’; Z-, z- (in posizione iniziale come z dell’italiano scherzo o del tedesco Zahl ‘numero’) Gr.: zóngó ‘id.’; Is.: zungu ‘id.’. La maggior durata delle consonanti è resa raddoppiando il segno. Nei casi di segni composti si limiterà il raddoppiamento al solo elemento iniziale (es.: Al., Ri. tittschu ‘tedesco’). Il grafema ss indica la fricativa alveolare sorda sia breve, sia lunga e, in generale, i segni consonantici finali doppi indicano che la vocale precedente è breve e non la presenza di un’effettiva consonante doppia. Varia Elementi eufonici di collegamento tra diverse parole sono scritti attaccati al primo termine. I clitici (forme pronominali) sono segnati staccati dalla parola quando la precedono (proclitici), attaccati quando la seguono (enclitici) Nel caso di parole composte si può ricorrere al trattino per evidenziare la doppia tonicità, dando per inteso che l’accento principale cade sulla prima sillaba del primo termine. — 58 — A U G U S T A Prima ascensione nel massiccio del Monte Rosa (1778) Vittorio De La Pierre S iamo verso la fine del XVIII secolo. Si è oramai da tempo completato quel processo migratorio che, nel giro di tre secoli, in un momento di forte incremento demografico diffuso in tutta Europa, ha portato gli Alemanni ad insediarsi alle falde del Monte Rosa ed in altre elevate zone montuose, spinti dalla necessità di trovare spazi di vita per le loro famiglie e il loro lavoro. È nato così un vero “popolo nel cuore delle Alpi”, a partenza dal Cantone svizzero del Vallese, con denominazione di Walliser per quelli che vi sono rimasti e di contrazione in Walser per quelli spintisi poi ancora altrove. Bonificano tenacemente i siti occupati, organizzano condizioni di vita progressivamente migliori, e superano bene anche quell’infausto periodo della cosiddetta piccola glaciazio- ne che, per circa due secoli, compromette le risorse agricole. Si può dire che fino all’avvento di rivoluzionarie e straordinarie scoperte e invenzioni quali il motore, l’elettricità, la comunicazione a distanza, e addirittura il volo, nessuno venuto in questi paesi abbia portato qualcosa di non già realizzato dai Walser; basti pensare ai prodotti dell’attività contadina, all’edilizia, all’artigianato, al commercio, all’impresa, all’organizzazione sociale e, possiamo aggiungere, al livello culturale. E ciò si può ricordare, con fierezza, anche riguardo a due particolari innovazioni, comparse non più in stretta dipendenza di motivi legati alle necessità di vita, ma sintomatici di un certo qual sia pur umile benessere raggiunto. Si tratta dell’alpinismo, a cui viene dedicato questo articolo, e dello sci, importato, da Hanzede ‘Roccia della scoperta’, foto tratta dall’archivio Curta - Guindani. “Auf diesem Felsen blieben wir über eine Stünde wir nannten ihn Entdeckungs Felsen” – Su questa roccia rimanemmo più di un’ora e la nominammo Roccia della scoperta. Frase tratta dal diario della spedizione dei sette gressonari. — 59 — A U G U S T A Eigen e da Otto Lettr y, di ritorno dalla Svizzera. Pare di aver individuato alcuni punti fondamentali dell’antropizzazione delle alte vallate alle falde del Rosa, e di aver evidenziato particolari interessanti di questo nuovo mondo. Ma accanto, al di sopra di esso, e ben più antico di esso, c’è un altro mondo. Troneggia un maestoso massiccio, un manto di neve eterna solcato da profondi spacchi, spaventose colate di ghiaccio appese a creste e punte di roccia, pareti strapiombanti, cime dalla varia configurazione, tra le più alte presenti in Europa. Non è il mondo dei Walser, è un altro mondo, sconosciuto, inviolato, inesplorato, compreso tutto in un’unica denominazione :“de Gletscher” (il ghiacciaio). Solo pronunciarla suscita un senso di rispetto, di timore, di entità arcana e aliena. Unica che sino allora abbia osato con coraggio inoltrarsi in esso fu una diffusa leggenda, sufficientemente cosparsa di mistero. Narra che lassù fosse esistita una bellissima valle, ricca di fiori e frutti, con tanta gente raccolta in una città, ivi conducendo una vita dissipata, gaudente, viziosa. In tale ambiente diede naturalmente fastidio l’arrivo di un misero pellegrino, mal vestito, infreddolito e affamato; chiedeva asilo e cibo, ma la sua intima intenzione era di strapparli al peccato e di convincerli all’amore di Dio e alla preghiera. Cacciatolo malamente, vennero subito colpiti dalla maledizione divina, secondo quanto loro già annunciato dal respinto ospite: pesanti e protratte nevicate durate sette giorni, fino alla comparsa addirittura di neve rossastra, seppellirono per sempre uomini e cose. I lamenti dei condannati si potrebbero ancora percepire accostando l’orecchio all’orlo dei più profondi crepacci. Quel massiccio attira sempre di più lo sguardo. Tra la parte orientale e quella mediana presenta anche un ammasso di neve ampio e pianeggiante, verosimilmente un colle. Di colli ne hanno visti e ne hanno valicati tanti, questi robusti uomini della montagna, ma questo, da quanto è loro possibile giudicare, è certamente di altitudine molto superiore a tutti gli altri. Si saprà poi che ha un’altitudine di quasi mille metri superiore a quella del Teodulo, il più alto che sino allora essi abbiano superato. Ma possibile che quel mondo, quell’entità, de Gletscher, possa rimanere così a sé stante, così isolato, così assente da ogni rapporto con quelle genti che ne hanno popolato e dotato di tanta vitalità tutte le zone sottostanti? E possibile che non permanga lassù qualche traccia della valle, della città, della gente perdute? E l’istinto di migrazione può essersi così definitivamente assopito da bloccare qualsiasi invito al percorso e alla conoscenza? La risposta viene da sette ardimentosi giovani gressonari. Sta nascendo in loro, e presto si accentua, il desiderio di tentare l’incontro con il massiccio e la salita. Diventa rapidamente proposito, quando il diciottenne Joseph Beck di ritorno da Alagna, dove si era recato per lavoro, riferisce al fratello Valentino di aver intuito che anche i Walser di quel luogo stavano pregustando simile impresa. Occor- reva trovare subito un numero sufficiente di compagni disposti e adatti, e con loro apprestarsi all’evento. Non si fecero pregare i giovani contattati, a loro ben noti perché residenti nella stessa loro zona nota come “Mittelteil”, cioè intermedia tra la piana di Saint Jean e la Trinité. I loro nomi: primi Franz Castell, Stephan Litschkj, Josef Zumstein, poi Sebastien Linty e Nikolaus Vinzenz (Vincent). Fanno tutti parte di consolidate famiglie di contadini, ma con dedizione anche ad altre attività. I Beck sono validi artigiani, conduttori di segheria, mulino, forgia e lavorazione della canapa. Gli altri sono variamente legati ai tradizionali impegni di Krämer. Sanno di dover preparare tutto con assennatezza, e quindi si riuniscono a Chaschtal in casa di Vinzenz, per i necessari accordi, e lo fanno in estrema riservatezza, come in tutta riservatezza muoveranno poi i primi passi. Sono pronti all’avventura già nel luglio del 1778, ma devono rassegnarsi ad un lungo rinvio per condizioni meteorologiche persistentemente avverse. Il momento opportuno si presenterà verso fine agosto, e la decisione viene presa: si parte nel pomeriggio del 21. La riservatezza non si è nel frattempo incrinata; si deve non suscitare curiosità, non lasciar trasparire le intenzioni e soprattutto non ingenerare giustificati motivi di ansia nei loro famigliari. Salgono prima Vinzenz e Linty con il suo mulo, carico del necessario equipaggiamento in viveri e attrezzi. Partono poi gli altri, ma suddivisi, a simulare un’abituale battuta di caccia. Meta per riunirsi è una modesta baita negli alpeggi di Lavetz, nella zona terminale del vero atrio del massiccio. Ma adesso è ora di seguirli con l’immaginazione quale ci viene suggerita dal loro stesso racconto, riservandoci di concludere poi con qualche significativa considerazione. Ecco dunque: “Verso le 7 di sera ci trovammo tutti all’Alpe Lavetz per conversare lietamente durante la cena riguardo al nostro proposito. Poi ognuno preparò il suo pacchetto che pensavamo di portare con noi, e andammo un po’ a riposare. In punto alla mezzanotte fummo pronti con pacco e sacco sulla schiena, e partimmo. In un’ora giungemmo al colle di Soalze, e di lì lasciando a sinistra il pendio del Hohliecht, salimmo direttamente fin sulla cresta e su questa camminammo fino al ghiacciaio, era mattino presto alle 4. Il giorno stava nascendo, ci sedemmo e prendemmo un tonificante. Poi prendemmo tutti sette la corda sotto il braccio e ci legammo ognuno a distanza di una tesa l’uno dall’altro, ciò per superare il rischio dei crepacci, prendemmo di nuovo ognuno il suo carico sul dorso, e ci disponemmo sul ghiacciaio nel seguente ordine: il più anziano Valentin Beck andò per primo, Josef Beck secondo, Sebastien Linty terzo, Stephan Litschkj quarto, Josef Zumstein quinto, Nikolais Vinzenz sesto e Franz Castell settimo. Avevamo tutti in mano un bastone e ramponi alle scarpe. Avevamo prima concordato tra di noi di cammina- — 60 — A U G U S T A Monumento ai sette gressonari a Gressoney-Saint-Jean (foto V. De La Pierre). re nella giusta distanza stabilita tra l’uno e l’altro, e se il primo dovesse fermarsi, anche gli altri dovrebbero rimanere fermi. Così procedemmo sul ghiacciaio. Quanto più in alto salivamo, tanto più rarefatta si faceva l’aria, tanto da causarci mal di testa e rendere pesante il respiro. Dovemmo più volte fermarci per prendere un tonificante Ma anche il nostra stomaco non era ben disposto. Nel proseguire diventammo sempre più deboli e una indescrivibile spossatezza si impossessò di noi. Per quanto fossimo favoriti da tempo splendido, dovemmo penare molto per giungere sull’altura superiore del ghiacciaio. Da lì potemmo volgere lo sguardo verso il Vallese. Era mezzogiorno, le ore 12, sulla sommità della roccia ci apparve un grandioso panorama da lasciare stupefatti! Ci sedemmo sulle rocce raggiunte con fatica, per vedere la valle perduta, ma ci parve che questa fosse del tutto gelificata. Osservammo attentamente il luogo, ma non potevamo capacitarci che lì ci fosse una valle perduta. Su questa roccia rimanemmo più di un’ora, la denominammo Entdeckunsfelsen (roccia della scoperta). Ritenemmo necessario sostenerci con un tonificante, ma nessuno aveva appetito, e invece una intensa sete. Ritenemmo per certo di aver scoperto la valle perduta, la cui esistenza già da tempi antichi si immaginava. Eravamo fortemente tentati di proseguire la nostra ricerca per poter riferire notizie precise, ma il nostro orologio segnava le 2, e dovemmo deciderci al ritorno, per non trovarci di notte sul ghiacciaio. Senza perdere tempo ci avviammo di nuovo sulla strada del ritorno, ed arrivammo spossati al Lavetz, verso le 10, 22 ore dopo che dal Lavetz eravamo partiti. Passammo qui il resto della notte, di giorno ognuno si diresse alla propria dimora, E per questa volta Amen.” Accennano alla valle perduta, ma la sua ricerca fu probabilmente più scusa che fine per la salita. Alla celebrazione nel 1913 del cinquantenario di fondazione del Club Alpino Italiano questa ascensione questa fu dichiarata “l’impresa sacra dell’alpinismo italiano”. Le considerazioni che vengono spontanee non possono essere che un elenco di meriti da riconoscere ai nostri antesignani alpinisti. Sono tanti: l’idea dell’iniziativa; una seria preparazione; un accordo perfetto; la prima ascensione in assoluto nel massiccio; il primo superamento della quota 4.000; le regole della cordata e la giusta attrezzatura; l’attenta osservazione dell’ambiente; l’intento di “ricerca” e il rammarico di non aver tempo per raccogliere e poi ri- ferire maggiori notizie; la prima denominazione, il primo battesimo in assoluto, di una sommità del “Gletscher”; la denuncia di un malessere che intuirono esser dovuto a rarefazione dell’aria, quindi a quello che conosciamo come male da altitudine; l’impegno di una descrizione già programmata dall’inizio, primo resoconto alpinistico!; l’intenzione di ritornare lassù (l’amen si riferisce solo a”questa volta”, infatti qualcuno vi è tornato nei due anni successivi); e la modestia e la riservatezza, senza ombra di vanagloria, con cui tutto si è compiuto, tanto da lasciare addirittura insoddisfatta la curiosità del famoso scienziato-alpinista De Saussure. Non potevano immaginare che per fortuna altri walser proprio del loro paese, qualcuno loro discendente, avrebbero seguito il loro esempio, e ulteriormente alimentato e soddisfatto quel desiderio di altezze e di conoscenza, che diede al Monte Rosa la presenza dell’essere umano, e gli fruttò le prime, più suggestive e gloriose pagine della storia di sua frequentazione. — 61 — A U G U S T A La collezione gressonara di Loria in occasione del cinquantenario dell’Unità d’Italia Tiziana Fragno N el 1911, cent’anni or sono, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia il governo previde importanti iniziative a Torino, Firenze e Roma. Tra i tanti eventi celebrativi promossi dallo Stato italiano la mostra etnografica italiana tenutasi a Roma e curata dal viaggiatore studioso di etnografia Lamberto Loria (1855 -1913) coinvolse in modo particolare la Valle d’Aosta e la comunità walser per la presenza di materiali provenienti dalla Regione e di oggetti, utensili e costumi provenienti da Gressoney-Saint-Jean e Gressoney-La-Trinité. L’esposizione etnografica romana, voluta dall’onorevole Ferdinando Martini ( 1841-1928), era stata inserita all’interno dell’Esposizione internazionale di Roma col preciso intento di mettere i visitatori in condizione di cogliere, oltre la modernità e il progresso raggiunto dalla civiltà italiana, la tradizione popolare delle diverse regioni. Infatti, nella mostra etnografica traspariva la chiara intenzione di rappresentare non tanto l’Italia quanto le “genti italiche”, che componevano questa neonata nazione, dando una valenza positiva alla varietà e alla ricchezza delle tradizioni regionali, suggerendo l’idea di un’Unità realizzata nel pieno rispetto di popolazioni differenti e uniche. A tal fine l’esposizione, in un percorso ideale, presentava gli aspetti salienti della vita quotidiana di ogni singola regione, attraverso testimonianze materiali e immateriali raccolte negli anni immediatamente precedenti la mostra per conto del “Comitato esecutivo per le feste commemorative”. L’operazione era stata tutt’altro che semplice sia per ragioni economiche, sia scientifiche. Aveva visto l’impegno di una folta schiera di raccoglitori locali, studiosi e appassionati che, supervisionati e guidati dall’instancabile Loria e dal suo collaboratore Aldobrandini Mochi (1874-1931), setacciarono l’intero territorio nazionale alla ricerca degli oggetti che rappresentassero al meglio la storia e la cultura di ogni regione. Questa operazione rappresentava all’interno del panorama culturale italiano una grande novità, in quanto fino ad allora il folklore era stato studiato da esperti locali o semplici amatori che nonostante il lodevole sforzo avevano affrontato l’argomento a volte in modo approssimativo e superficiale, guardando per lo più agli aspetti eruditi della cultura popolare, quali la letteratura e la musica. Nell’esposizione romana, invece, la cultura popolare viene indagata con un metodo scientifico, avva- lendosi delle esperienze compiute in quegli anni dall’etnografia esotica e viene data rilevanza agli oggetti materiali umili, d’uso quotidiano, anche se l’intento celebrativo è sempre presente nei raccoglitori. Il lavoro compiuto da Loria e i suoi collaboratori tra 1908 e il 1911 fu dunque enorme e permise di avere una collezione unica, sia per ricchezza che per consistenza, ancora oggi visibile all’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia di Roma (Museo delle Arti e Tradizioni) e patrimonio di tutti gli italiani. Come già detto anche la Valle d’Aosta era stata toccata dall’iniziativa, tuttavia bisogna dire che all’interno di questa straordinaria raccolta di oggetti, la collezione valdostana rappresenta un’eccezione in quanto gli oggetti valdostani presentati ed esposti nella mostra non erano il frutto di un’unica raccolta come era avvenuto per la maggioranza delle altre regioni italiane, ma erano il risultato di campagne di raccolta che si erano susseguite nel tempo e, alcune di esse, negli anni precedenti il 1908, data di inizio della raccolta del materiale per l’iniziativa in quasi tutte le altre regioni. Infatti, il primo nucleo di oggetti della collezione valdostana fu raccolto nel lontano 1895 a Courmayeur, Saint-Rhemy e dintorni da Elio Modigliani (1860- 1932), celebre viaggiatore naturalista fiorentino, nel suo unico soggiorno in Valle d’Aosta. Questa prima serie di oggetti acquistati da Modigliani, poco più di un centinaio, mostra in modo evidente il nuovo interesse degli studiosi dell’epoca per la cultura popolare che, dopo aver studiato i popoli lontani, rivolgono la loro attenzione alle popolazioni a loro più vicine, radunando collezioni di oggetti semplici per sottolineare ciò che “di più primitivo e più caratteristico” persiste nella cultura del popolo. Modigliani era stato tra i primi viaggiatori a interessarsi ai popoli primitivi che incontrava e a descriverli con genuino interesse. Fu forse questo interesse, unito al fascino primitivo delle sculture lignee valdostane, a spingerlo a radunare quegli oggetti in Valle d’Aosta. Qualunque sia stata la motivazione dello studioso il suo amore per la cultura primitiva locale non durò a lungo e ben presto tornò alla studio dei popoli primitivi e lontani. Nel 1903 regalò la sua collezione ad un antropologo, Aldobrandini Mochi (18741931) affinché incrementasse le collezioni del primo museo etnografico italiano in corso di allestimento a Firenze. Già da questo primo racconto sulla formazione della collezione valdostana ci si rende conto della particolarità — 62 — A U G U S T A della raccolta, non solo perché più antica delle collezioni delle altre regioni presenti alla mostra del 1911, ma soprattutto perché realizzata da uno studioso, certamente condizionato dalle idee positiviste ed evoluzioniste dell’epoca, ma di grande esperienza sia nel reperimento di oggetti di cultura materiale sia nell’approccio alle culture subalterne. Non dimentichiamo che insieme ad altri personaggi del tempo, Elio Modigliani ha posto le basi dell’antropologia italiana. Il carattere unico della collezione continua ad emergere anche nella seconda campagna di raccolta di oggetti valdostani. Questa volta l’area interessata è quella walser e nello specifico Gressoney-Saint-Jean e Gressoney-La Trinité. Siamo nel 1906 e chi si occupa della raccolta è ancora una volta uno studioso di grande competenza Lamberto Loria. Loria lavora per conto del museo etnografico fiorentino e sale a Gressoney-Saint-Jean, dove soggiorna per tre settimane (agosto 1906) su indicazione di un amico Mario Sarfatti, docente di diritto comparato dell’Università di Torino e assiduo frequentatore della località ai piedi del Rosa. Non risulta che Loria sia riuscito a realizzare personalmente nessun’altra raccolta di materiale sul territorio italiano, ma abbia dovuto poi ricorrere a collaboratori locali, dunque la raccolta gressonara è a tutti gli effetti un unicum. Inoltre per questi oggetti noi possediamo oltre agli inventari del MAT (Museo delle Arti e Tradizioni) i quaderni manoscritti di Loria, pieni di indicazioni preziose sul nome locale degli oggetti, sul loro uso, sui donatori e su chi ha venduto gli oggetti e quando. Tra coloro che avevano venduto o donato gli oggetti compaiono i nomi di Adolfo Tedaldi Fores, Burcardo Lateltin, Louis Lercoz e il sindaco Antonio De La Pierre, ma Loria ci informa che molti erano stati i donatori anonimi. Vista la brevità del soggiorno e il suo rigore scientifico nel raccogliere in modo metodico al fine di non dimenticare nulla di quanto potesse esservi di interessante Loria limitò la raccolta di oggetti alle sole comunità gressonare, sebbene la maggioranza degli oggetti provenga da Gressoney-Saint-Jean. Il fatto che la maggioranza degli oggetti provenissero da quest’ultima località non era agli occhi di Loria un problema in quanto tra le due comunità non vi era a suo parere nessuna differenza etnografica, così seguendo i suoi principi di raccolta, cioè dare importanza alle cose più umili e comuni, radunò circa un migliaio di oggetti di diversa natura. Loria raccolse stoviglie (piatti e cucchiai di legno, ciotole, saliere, pestelli), mobili (un letto, una stufa, seggiole, armadi, cassoni dipinti, panche, culle), slitte, campanacci, elementi d’abbigliamento. Questi oggetti, insieme ad altri utensili e strumenti utilizzati dalle comunità gressonare per cardare la lana e il lino, per tessere, per lavorare il latte, per lavorare i campi o per allevare il bestiame, si possono ancora vedere all’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia di Roma. Dal carteggio successivo appare chiaro che, nonostante il numero di oggetti recuperati, Loria non considerava la collezione gressonara esaustiva e completa perciò negli anni successivi, in cui ebbe l’incarico di realizzare la mostra del 1911, cercò di completarla dando precise indicazioni sugli oggetti da recuperare sul territorio ai due collaboratori che lavoravano per lui a Gressoney, Mario Sarfatti ed Elisa Borgogna Poma. Quest’ultima non fu solo incaricata da Loria di recuperare il materiale mancante alla collezione gressonara ma anche di recarsi nell’altra comunità walser, Issime, a raccogliere degli oggetti per l’esposizione del 1911, purtroppo ciò non avvenne in quanto la signora Borgogna Poma dichiarò d’essere stata troppo impegnata a seguire i lavori della sua villa a Gressoney. Questa fu l’unica pecca sul lavoro di raccolta della signora, infatti lo sforzo e la dedizione dati da lei e da Mario Sarfatti furono notevoli e grazie a loro la raccolta fu incrementata. — 63 — A U G U S T A La cultura walser va a scuola: Esperimenti di insegnamento nella scuola primaria Anna Maria Pioletti1 Q uando mi proposero di scrivere un articolo per la rivista Augusta decisi come geografo culturale di soffermarmi su alcuni aspetti della cultura della comunità walser della valle del Lys. L’occasione mi veniva fornita dalla tesi di una mia laureanda che stava conducendo la ricerca per la sua tesi nell’ambito dell’insegnamento della lingua e della cultura walser nella scuola primaria. Le Alpi sono da sempre un mélange di popoli e culture diverse. Culture che si sono conservate facendo assumere alle Alpi le caratteristiche di un mosaico culturale ed economico. Ci sono tuttavia alcuni elementi che permettono di parlare di un’identità alpina in cui le Alpi giocano uno specifico ruolo in Europa. Le Alpi sono uno spazio unitario, con una propria identità specifica che va al di là dei confini nazionali (Fondazione Angelini, 1998). Quindi non una barriera ma una cerniera verso l’Europa continentale. Nell’affrontare il tema della valle del Lys come area culturale ho ripreso alcune riflessioni condotte alcuni anni fa da Costantino Caldo nella sua opera La città globale che segna il punto di svolta nell’analisi dell’apporto della cultura nella lettura del territorio. Un territorio che diventa prodotto della cultura e quindi prodotto sociale (Caldo, 1984). Per affrontare il tema ho deciso di sfogliare la rivista e ho letteralmente riportato alla luce un articolo comparso sulle sue pagine del lontano 1971 in cui veniva analizzato il valore della comunità linguistica. Come affermava Guy Héraud, autore del saggio, la lingua è una delle dimensioni dello spirito e ogni lingua apre una porta su un universo culturale del tutto originale. Ogni comunità linguistica ha una sua vita culturale, crea un universo spirituale e favorisce il suo sviluppo. Ogni comunità si identifica quindi con il luogo di appartenenza attraverso la propria cultura che diventa l’emblema della propria identità. Tale identità aiuta a delimitare il territorio definendone i limiti geografici. La cultura in questa accezione è qualcosa di dinamico che contribuisce alla coesione della comunità. Quando si parla di cultura occorre considerare che essa insiste su uno spazio fisico che diventa spazio culturale. Esso è costituito dall’insieme dei tratti culturali materiali e immateriali di un gruppo su un territorio. La differenzia- zione dei caratteri culturali rappresenta la forza della geografia culturale che ha caratterizzato la prima metà del XX secolo con figure come quella di Richard Hartshorne che hanno sostenuto una posizione di lettura delle peculiarità individuali di ciascuna regione secondo quella che possiamo definire una lettura di tipo idiografico in cui appaiono le stratificazioni orizzontali della cultura. Intendiamo con stratificazioni orizzontali le diversificazioni territoriali che si vanno a contrapporre alle stratificazioni interne a un gruppo e ordinate secondo una gerarchia. Ogni comunità ha da sempre contribuito a dare risposte diversificate in relazione all’ambiente poiché esse dipendono dalla stratificazione sociale. Se consideriamo l’analisi di Ferdinand Tönnies, la comunità è formata da persone unite da legami naturali i cui obiettivi comuni trascendono gli interessi particolari di ogni individuo. Essa è un tutto organico al cui interno la vita e gli interessi di ogni membro si identificano con la vita e gli interessi dell’insieme. Il patrimonio materiale, rappresentato in particolare dalle abitazioni, propone una difficile definizione dell’area di delimitazione dell’uso del legno da quella dell’uso della pietra. Enrico Rizzi ha sottolineato come la diversità di aspetti assunti dall’architettura walser conferma la grande adattabilità della loro cultura alle mutevoli condizioni ambientali (Rizzi, 1992). Come evidenziato da Andrea Barghini la scelta dell’uso del legno non è soltanto dipendente dalla presenza di legno nelle zone di residenza ma deriva alla influenza di elementi etnici d’Oltralpe dal Vallese svizzero. Una colonizzazione alemanna nell’area alpina occidentale italiana che ha lasciato le proprie impronte nella scelta architettonica come elemento dominante come hanno dimostrato i primi studi condotti da geografi (Gambi, 1986). Il geografo Lucio Gambi aveva sottolineato come per comprendere il significato dell’architettura walser fosse necessario integrare il punto di vista economico e ambientale su un piano storico con una matura riflessione intorno alle eredità culturali. Infatti, ogni cultura porta con sè negli spostamenti soluzioni che vengono modificate per rispondere alle nuove situazioni funzionali ma che sono a pieno diritto parte della propria comune eredità culturale. Professore associato di Geografia economico-politica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università della Valle d’Aosta-Université de la Vallée d’Aoste. 1 — 64 — A U G U S T A Villaggio di Chröiz (Vallone di San Grato) (Foto Musso) Il modello di insediamento a mosaico ha visto il gruppo germanofono e quello franco-provenzale vivere in spazi limitrofi trovando forme di coesistenza e di contatto che potremmo definire fluide e dinamiche che nel tempo hanno portato alla creazione di aree linguistiche distinte. Del resto come afferma Luigi Zanzi le migrazioni stagionali verso il Delfinato, la Savoia e la Svizzera Romanda di muratori e scalpellini ha favorito la commistione culturale visibile nei caratteri architettonici delle abitazioni. La cultura walser rappresenta un interessante oggetto di ricerca sia per la componente materiale sia per quella immateriale che vengono esaminati nelle loro implicazioni e nella loro formazione all’interno della scuola primaria che sarà oggetto della seconda parte della nostra trattazione. Bibliografia Barghini A., « Territorio, architettura, gruppi etnici nella media valle del Lys : il caso di Issime e Gaby », in Augusta, 1998, pp. 2-11 Caldo C., La città globale, Palermo, Palumbo, 1984 FONDAZIONE G. ANGELINI – CENTRO STUDI SUL- LA MONTAGNA, Mes Alpes à mois. Civiltà storiche e comunità culturali delle Alpi (a cura di E. Cason Angelici), Regione Veneto, 1998 Gambi L., “Riflessioni metodologiche sullo studio dell’abitazione rurale”, in E. Rizzi (a cura di), La casa rurale negli insediamenti walser, Atti della terza giornata internazionale di Studi Walser (Alagna Valsesia, 15 giugno 1985), Anzola d’Ossola, Fondazione Enrico Monti, 1986, pp. 105-112 Héraud G., “Valeur de la Communauté linguistique”, Augusta, primavera 1971, pp. 5-8 Pioletti A. M., “La regione alpina occidentale: l’identità supera le barriere naturali”, Le Alpi occidentali da margine a cerniera Atti 41° Convegno Nazionale A.I.I.G., Torino, Libreria Cortina, 1999, pp. 327-341 Pioletti A. M., “L’identità alpina occidentale. Un elemento geo-culturale di cambiamento”, Appunti di politica territoriale, n. 8, 2000, pp. 93-106 Pioletti A. M., “La montagna: un paesaggio culturale con lavori in corso”, in G. Andreotti e S. Salgaro (a cura di), Geografia culturale. Idee ed esperienze, Trento Artimedia, 2001, pp. 501-520 Rizzi E., Storia dei Walser, Anzola d’Ossola, Fondazione Enrico Monti, 1992 — 65 — A U G U S T A Il fuso piantato su una tomba del cimitero Rolando Balestroni Versione di Vittorio Raimondo Balestroni1 – Kampel, 03/08/2002 La sera quando si trovavano, ora a casa di uno, ora a casa dell’altro, a fare veglia (a fa vègia) utilizzavano il tempo per fare lavori come ad esempio filare la lana. Una sera si parlò della paura e ogni uno disse la sua opinione. Una ragazza disse : “Io non ho paura di nulla, con la lanterna vado da qui a “casa del diavolo”, …..vado di giorno o di notte senza problemi di sorta. A tutte quelle storie di streghe (i striji) che raccontate non ci credo”. Di fronte a tanta sicurezza iniziarono i commenti dei presenti che, alla fine, sfociarono nella richiesta di una prova di coraggio. “Ti saresi buna da andè al cimiteri a piantè un füs su una tumba? – Saresti capace di andare al ci- Campello Monti (Foto R. Balestroni) Questa versione, insieme alle altre leggende di Campello, è stata raccolta da Michele Musso a Campello Monti la sera del 3 agosto del 2002, in occasione di uno dei convegni annuali organizzati dal Centro studi di cultura walser di Campello. 1 — 66 — A U G U S T A mitero a piantare un fuso su una tomba?”. “Oh chissà perché non dovrei essere capace – Oh, par piantè un füs su una tumba tuci in bugn” (tutti sono capaci). Uscita di casa si avvia verso il cimitero e il fuso piantato sarebbe stato recuperato l’indomani quale prova del coraggio manifestato. Entrata al cimitero, si avvicina ad una tomba e si abbassa per piantare il fuso, ma nel farlo infilza anche la gonna, (l’an fricà la patèla, la rasa), e quando si rialza il fuso trattiene la gonna. Credendo di essere trattenuta da qualche…anima, viene sopraffatta dal terrore e la trovano la mattina successiva morta stecchita. Versione di Magda Tensi - Intra, 16/02/2003 L’Alfredo del Valdo (Guglielminetti Alfredo – ‘l Fredo dal Vaud) nelle sere di veglia, era famoso per raccontare storie di spiriti e di incantesimi. Una sera però ne raccontò una dove gli spiriti non erano protagonisti solo in parte. Erano molte le narrazioni ispirate ai cimiteri, ai morti che facevano a tutti una certa impressione. Ecco cosa di disse : In una sera di veglia c’era un bel gruppo di persone e si venne a parlare dei morti e dei cimiteri. Molte donne dissero che di notte non sarebbero mai andate al cimitero e neppure nei paraggi perché, dicevano, spesso si vedevano fiammelle che vagavano sopra le tombe e che dovevano certamente essere le anime dei morti che non trovavano pace. Una ragazza fra tutte, l’Angiolina, disse che lei non aveva nessuna paura e che sarebbe andata al cimitero a qualunque ora del giorno e della notte. Le compagne e tutti i presenti la prendevano in giro perché non credevano alle sue parole. Allora l’Angiolina si sentì in dovere di insistere su quanto aveva detto e ne venne fuori una gran discussione. Ad un certo momento l’Angiolina disse : “se volete vado anche subito e per farvi vedere che sono proprio andata, pianterò il mio fuso ai piedi di una tomba”. Tutti accettarono la proposta, anche se le anziane consigliarono di non fare certe scommesse. L’Angiolina si alzò, prese il fuso e corse verso il cimitero. Arrivò rapidamente, si inginocchiò davanti a una tomba e con forza piantò il fuso per terra. Poi rapidamente cercò di alzarsi ma non riuscì, si sentiva tirata per terra e non poté alzarsi. Allora fu presa da una tremenda paura e svenne. Dopo qualche tempo alcuni presenti alla veglia, non vedendola tornare, andarono a cercarla al cimitero e la tro- varono stesa a terra morta. Nel piantare il fuso per terra l’Angiolina aveva preso dentro il grembiule e per questo non poteva alzarsi. Il grande spavento che la colse le fece scoppiare il cuore. La ruca e ‘l füs Versione di Vittorio Raimondo Balestroni La seira quand la gent as trueva ura a ca ‘d l’un, ura ca ‘d l’aut a fa vègia. Intant che ganaseivu, al fuuni filevu la lana cum la ruca e ‘l füs. Una seira parlevu ‘d la puira e na mata la dis: “mi go nuta puira da vösi bali che cuntè, mi cum la moja lanterna ai vac, da dì e du nöc, fin a cà dal diavul; mi ai crod nuta ai striji”. Ailura vun al dis: “ti che ti sei ausì curagiusa, ti saresst buna da ‘ndè al cimiteri a piantè un füs su ‘na tumba?” E lei “ah pitarca! Par piantè un füs su una tumba ag va nuta tant curac!”. La mata s’am viara; adman matin la gent sarèsu andà a vögar se ‘l füs l’era piantà. Dint al cimiteri la va a pröva na tumba, as quàta e la pianta al füs. Quand la fa par ste’n pei la sent tirà la ràsa: la cröt ch’ al mört al vol strupela ‘n la tumba…. ….al dì a drè van giù a vögar e trovu la mata morta cum al füs fricà ‘n la rasa. Versione di Magda Tensi ‘al Fredo dal Vaud l’era cugnusù parchè al cunteva stori da striji e ‘d la “fisica”. Una seira la cünta una storia ad cimiteri e mört e la gent gheiva puira. Al fuuni dieivu che saresu mai e pöi mai andè ‘n tal cimiteri, ne a pröva, du nöc, parquè as vigheivu lumeit sura al tumbi (ieru animi che truevu nuta paas). L’Angiulina la dieiva che gheva nuta puira, ma niun al credeva: “dam cià un füs che ai vac giù mi a piantelu in tal cimiteri”. Al fuuni pusè vegi a diuevu: fè nuta si robi ‘nlò, spò nuta scarzè i mört. L’Angiulina la riva ‘n prèsa, ‘n prèsa, la pianta ‘l füs e ‘n prèsa la cerca d’auzès ma la pol nuta. Dre un po’, la gent, vist ch’la gneva nuta sü, van a cerchela al cimiteri e la trovu morta. L’Angiulina ‘ntal piantè al füs l’eiva ciapà dint la scusal e par vös mutiv la peiva nuta auzes. Par la gran puira a gheva sciupà al cör. o — 67 — A U G U S T A Gressoney-La-Trinité: Osservatorio Meteorologico di d’Eyola (m 1850 s.l.m.) Willy Monterin N elle tabelle comparative vengono riportati i valori delle temperature e delle precipitazioni degli anni 20092010, l’altezza massima raggiunta dal manto nevoso alle varie quote e la variazione frontale del ghiacciaio del Lys. 1) Temperature medie in °C all’Osser vatorio Meteorologico di D’Ejola (m 1850 s.l.m.) 29 agosto 2010. Ghiacciaio del Lys (fronte) (Foto Willy Monterin) — 68 — A U G U S T A 2)Precipitazioni in mm. di neve fusa e pioggia all’Osser vatorio Meteorologico di D’Ejola ( m 1850 s.l.m.) 3)Precipitazioni nevose in cm. all’Osser vatorio Meteorologico di D’Ejola (m 1850 s.l.m.) 4)Precipitazioni nevose in cm. alla Stazione Pluviometrica DEVAL del Lago Gabiet (m 2340 s.l.m.) 5) Altezza massima del manto nevoso: D’Ejola (m 1850 s.l.m.) cm 110 il 26 febbraio 2010 Gabiet (m 2340 s.l.m.) cm 142 il 14 maggio 2010 6) Variazioni annuali della fronte glaciale del Ghiacciaio del Lys (valori in metri). 2009 2010 Ghiacciaio del Lys (quota della fronte m 2355) -23 -19 — 69 — A U G U S T A Gottsch ergans vür d’lljaubu sieli 1 Dio lo applichi ai defunti Imelda Ronco Hantsch Z ’Éischeme ischt dar brouch z’geen etwas vür d’lljaubu sieli: wénn ischt an tuat zam hous, geen etwas z’tringhje deene das goan gian da vargeb, machun z’kaffi z’mitternacht wém geit wache dam tuate; zéiti hinner hentsch keen d’woat am oarme (allz was ischt kannhen um pleiten as lljöitji vam hopt unz an d’vüss). Dan tag dar süpulturu hentsch keen z’vörmiss dan triegere, da sinnhere, dam gschlecht, da nachpuru un vür d’béischtu, dan dikhje réis ol d’bruatsüppu zam ümmis. Éttlljigi hen keen an almusnu; as poar gruassi chéssini chéschtenjuchuchi ol süscht as sövvil bruat un chiesch. A Issime si usa offrire qualcosa in suffragio dei defunti: in occasione di un decesso la famiglia offre una bevanda a coloro che le rendono visita, come pure il caffè a mezzanotte per quelli che vegliano la salma; tempi addietro si usava regalare ad una persona povera un vestito completo che era appartenuto al defunto. Il giorno del funerale si offriva una colazione ai portatori, ai cantori, ai parenti ed ai vicini e a mezzogiorno riso al latte o zuppa di pane per i parenti più stretti. C’è chi preparava delle grosse caldaie di minestra di castagne (ben condita con latte, burro e riso, naturalmente), oppure una certa (Foto E. Ronco) 1 Così si usava dire quando si riceveva qualcosa. — 70 — A U G U S T A quantità di pane e formaggio Éttlljig fammillji hen noch dar da regalare a tutti. brouch z’bettun z’tscheppelet È ancora in uso, in alcune zam hous, vür dröi moal noa famiglie, pregare la corona das z’tuata ischt vargroabenz in casa per tre sere dopo la un auch dé geen etwas sepoltura e anche in questa z’essen un z’tringhje vür occasione si offrono cibi e bed’lljaubu sieli. vande. D’houslljöit hen trounit: Si usava portare il lutto: i fadŝchi pleit i schwoarzem, nöit miliari si vestivano di nero, gmachut gruassi hofziti noch non facevano grandi banvirtaga, nöit gleit a di tringji chetti nuziali né grandi feste da chüne noch da schmalvu… e neppure mettevano i camWa d’lljaubu sieli het mu bsint panacci a bovine e bestiame génh, nöit nuan wénn ischt minuto… krat gsinh antwiar tuat; mu Ma i defunti si ricordavano het kee chorru métzki, noa sempre, non solo quando in heen gwustut, dam énkara, casa c’era un decesso; in occadan oarme, dam gschlecht. sione della macellazione anDéi za chüne, ievun voare nuale (di solito verso Natale) ouf z’beerg, hen troan an si regalava un assaggio di satropf milch deene das ra lumi al parroco, ai poveri, ai nöit hen khee un wénn ischt parenti. kannhen übbil as tschemmi Chi aveva le mucche, prima di ischt gsinh dar brouch z’geen traslocare al maggengo, portaawek vleisch. Ich hen khüert va un po’ di latte a coloro che zélljen das… non ne avevano e quando si Aswénn, zar heilugu, an gotte doveva macellare un animale het dŝchi gvunnen einigi a causa di un incidente si usaz’beerg, un ischt mu gcheen va regalare della carne. Ho in z’hopt: “Ganh wissu ol sentito raccontare… z’séji koarjit, wi dŝch’hen Tempo fa un buon uomo si gseit, zar Heilugu d’lljaubu trovava da solo al maggengo sieli cheemi zam hous”, un la sera di Ognissanti quando in d’selbu münnutu hedder gli venne in mente: “Chissà se khüert an gruasse chlapf von sarà vero, come raccontavano as tischillji, ischt aschtrikht, Croce sulla porta di una stalla del villaggio di Bourinnes. i vecchi, che in questo giorno kannhe lugu van béi ol wieri (Foto Musso) i defunti verrebbero a casa”, e etwas gvalle nidder, wa dar het nello stesso momento sentì un colpo assordante su di un nöit gsian khés söirisch un das het mu keen z’müssuru: tavolino; spaventato si avvicinò per controllare se fosse “D’oaltu hen gseit z’nöit loan z’hous oan wasser nachtsch, caduto qualcosa, ma non vide nulla; questo fatto lo fece antweegen d’lljaubu sieli hettidŝchi muan heen manhal, ricordare: “I vecchi dicevano che non bisogna lasciare la wa dé nöit nuan zar Heilugu cheentsch zam hous” hedder cucina senza acqua2 la notte, in caso i defunti ne avessero gseit inter im. avuto bisogno, ma allora non solo a Ognissanti vengono a Ievun lécken ous d’chü, séjis um voare ol um goan hüte, casa” disse fra sé. het mu bettut vür di tuatu, d’chü wénn dŝchi hen khüert Inoltre, prima di far uscire la mandria, sia per la tranbettu hen aschuan gwisst z’sortru…a voart, im Hubbal, sumanza come per il pascolo, si pregava per i defunti, le hentsch bettut z’tscheppelet wénn dŝchi sén gsinh mucche quando sentivano pregare già sapevano che era z’wacht, un d’chü hen dŝchi gleit an brammuru, dŝchi l’ora di uscire…una volta, al Hubbal, mentre in una veglia hen dénkht z’goan z’weidu! si pregava la corona, le mucche si misero a muggire, credeHet dŝchi areit wéilu voart z’passrun in an ketschu, vano fosse l’ora di andare al pascolo! z’beerg, woa mu nöit ischt gsinh z’housch un dé auch Succedeva talvolta di passare in una casa al maggengo het mu gmachut kaffi un bettut vür d’lljaubu sieli…sicher dove non si abitava e anche lì si usava fare il caffè e predéi mien nündŝch génh helfe, pheen gséllschaft un geen gare per i defunti…è vero, loro possono aiutarci, tenerci mut… compagnia e farci coraggio… Antweegen desch muss mu dŝchu bsinne mit tun z’seen Per questo motivo bisogna ricordarli con s. messe, preghiere meschi, bettu un etwas geen wém het manhal. Das ischt e opere di carità per i bisognosi. Questa è una bella usanza! a schienen brouch! 2 A quel tempo l’acqua in casa non c’era. — 71 — A U G U S T A Oratorio dei Schützersch al villaggio di Gran Pra Michele Musso L’ oratorio di Gran Pra sorge nel villaggio omonimo, fu eretto da Jean Jacques Busso Schützersch nel 1875, come ex-voto, nel cortile (hof) della casa di sua proprietà. Nacque a Rollie il 23 novembre 1814, era figlio di Jean Jacques e Marie Antoinette Consol. La famiglia viveva nella casa avita dei Busso Schützersch a Rollie inferiore, nei pressi dell’antico mulino lungo il torrente Rickurtbach che la famiglia Busso Schützersch gestiva fin dal XV secolo, di cui oggi rimango evidenti tracce. Jean Jacques edificò nel 1863 (millesimo sul trave di colmo) la propria abitazione vicina a quella della famiglia, mentre il fratello Jean Pierre (*1812†1882) ereditò la casa dei Schützersch, ricostruita nel 1825. Jean Jacques si sposò tre volte, la prima volta con Marie Antoinette Victorie Christille, il 24 novembre 1845. Dal matrimonio nacque una figlia Marie Antoinette Victorie, che morirà a trentuno anni nel 1880 nella casa di Rollie inferiore. Rimasto vedovo si risposò con Marie Antoinette Ronco, il 13 aprile 1852. Dal secondo matrimonio nacquero due figli, Jacques Busso (*1855) e Marie Christine Bernardine (*1862†1920), nonna materna degli attuali Busso Lixandrisch, che viveva al Gran Pra. Rimase vedovo una seconda volta e si risposò, nel 1877, con Marie Louise Emilie Christille (*1842†1925). La tradizione orale racconta che le tre case di Gran Pra molto simili fra loro, furono costruite da tre fratelli. Una delle tre, oggi di proprietà Ronco (Pétéretsch), reca ancora sulla trave maestra la data 1788, le iniziali JJR FF (Jean Jacques Ronco? Fecit fieri) e il nodo savoia. Se così fosse Jean Jacques potrebbe avere avuto in eredità la casa di Gran Pra dalla seconda moglie, Marie Antoinette Ronco, casa in cui nacquero i loro due figli. Jean Jacques ereditò dalla madre, fra gli altri, un prato di monte, oggi chiamato ‘Schützersch schelbit,’ nel vallone di Tourrison (sui monti alla dx. orografica del Vallone, fra l’alpeggio di Tourrison e Krédémì) e la possibilità di ritirare il fieno selvatico, raccolto in quell’appezzamento, nel piccolo stadel all’alpeggio di Tourrison sup. Morì a Rollie il 1 settembre del 1891. (Informazioni raccolte da Onore†, Vittoria e Laura Bus- so Lixandrisch pronipoti di Jean Jacques, e integrate con ricerche d’archivio). Sulla cornice lignea esterna alla nicchia dell’oratorio si legge la data 1875 e la scritta “In nomine Jesu omne genu flectatur” tratta dalla Lettera di S. Paolo Apostolo ai Filippesi (Fil 2, 10-11): “In nómine Iesu omne genu flectátur, caeléstium, terréstrium et infernórum; et omnis língua confiteátur quia Dóminus Iesus Christus in glória est Dei Patris” Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre. La nicchia interna conteneva una tela raffigurante la Madonna Nera d’Oropa, deterioratasi è stata sostituita con una tavola più recente. — 72 —