Le cose dette fanno prova Vita e mircoli di don
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Le cose dette fanno prova Vita e mircoli di don
Anno IV - Numero 15 Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli 4 Febbraio 2011 Reporter nuovo Rubygate Le cose dette fanno prova Ligresti Vita e mircoli di don Salvatore Aci Quel club d’oro che muove l’Italia Scritte Il linguaggio dei muri RUMORE E SORDITÀ: DISCOTECHE ASSOLTE LʼAUDIOLOGO: SEMMAI SONO SOTTO ACCUSA PERCHÉ PRODUCONO STRESS Politica Il valore delle intercettazioni. A colloquio con Pasquale Bronzo, docente di procedura penale Rubygate, le cose dette fanno prova Chi contraddice la registrazione rischia l’incriminazione per falso Indagini, rivelazioni, scandali. Eccola la miscela esplosiva che sta scoperchiando la vita sotterranea del capo del governo, tornata ora prepotentemente alla ribalta. Condita da racconti a luci rosse e debolezze personali. “Frequento casa di Berlusconi da quando ho 16 anni- aveva detto Ruby Rubacuori ad un’amica nel corso di una telefonata intercettata- Ha detto al suo avvocato che mi avrebbe ricoperto d’oro se avessi negato che lui frequentava minorenni”. E ancora: “(Berlusconi, n.d.r.) ha fatto diventare la Minetti consigliere regionale, quando ha detto alla polizia di affidarle Ruby”, emerge, invece, da una telefonata tra l’ex prefetto di Napoli Carlo Ferrigno e un altro uomo. Parole trascritte nero su bianco dagli inquirenti della Procura di Milano che avranno la possibilità di utilizzarle nel corso di un (molto probabile) procedimento penale. Dunque, intercettazioni non soltanto come indizio ma “strumenti con pieno valore di prova”, come conferma il Prof. Pasquale Bronzo, docente di Diritto Processuale Penale all’Università Luiss. Professore esiste il rischio di travisarne l’interpretazione? «Sì. L’intercettazione è una prova dichiarativa che va sempre interpretata. Molto spesso, ed è questo il problema, al giudice non arrivano delle conversazioni continue tra due persone ma soltanto degli stral- IL DIBATTITO COSÌ LA “LEGGE BAVAGLIO” Daniele Serio Vincoli e pesanti sanzioni per pm, editori e giornalisti SATIRA Momento no per il Presidente del Consiglio ci che contengono già un’interpretazione. Ciò comporta il rischio di non comprendere il significato rappresentativo della prova intercettata». Ma rimane il valore di prova? «Assolutamente. Il valore giuridico della prova rimane; come una testimonianza, una perizia, un documento». Cosa succederebbe se una persona imputata raccontasse il falso e fosse smentita proprio dalle intercettazioni? «L’imputato non può mai essere incriminato per falsa testimonianza (né per falso in genere) perché non ha l’obbligo di verità. Il testimone invece sì». Come nasceva il ddl Alfano sulle intercettazioni? Quali rimproveri sono stati fatti a questo strumento d’indagine? «Uno riguarda il loro uso eccessivo. Per me non è assolutamente così. A mio avviso, non vale nemmeno il confronto con gli altri paesi; anche Soprannominata “legge bavaglio”, il ddl sulle intercettazioni è stato in discussione al Parlamento fino alla fine dello scorso luglio prima di essere accantonato. I punti salienti della riforma, ampiamente contestata, sono una decina. Vediamone alcuni: ■ I pm devono avere in mano gravi indizi di reato per poter chiedere ai giudici di mettere un telefono sotto controllo. Non semplici ipotesi investigative ma la certezza della colpevolezza della persona intercettata. ■ Nel ddl si prevede il divieto, per il pm, di parlare delle sue inchieste. Men che meno con i giornalisti, pena l’abbandono del fascicolo. ■ Tagliole pesanti anche per la stampa: multe fino a 465 mila euro per gli editori in caso di rivelazioni delle carte di cui si prevede la segretezza fino all’inizio del processo. ■ Il “comma D’Addario”: divieto di registrare una conversazione senza aver prima avvisato l’interlocutore. La escort sarebbe già in carcere col rischio di restarci fino a 4 anni. ■ Cittadini di serie A e B. I primi sarebbero stati 007, gerarchia ecclesiale e parlamentari. Per gli agenti segreti, il pm dovrebbe avvisare entro 5 giorni palazzo Chigi. Nel caso di uomini di chiesa, i suoi superiori. Per gli onorevoli divieto di avvicinarsi perfino a parenti, amici e collaboratori. D. S. altrove se ne fanno tante. Semplicemente si sbaglia la lettura delle statistiche». Cioè? «Non si tiene conto del fatto che in molti paesi stranieri vengono considerate soltanto quelle processuali. In realtà, e questa è una grossa differenza rispetto al nostro paese, la polizia ha il potere di farle senza il controllo, la sorveglianza del giudice. Si tratta di (numerosissime) intercettazioni non processuali fatte, diciamo, a fini preventivi, ed escluse dal conteggio. Ciò porta a dire che in Italia se ne fanno molte di più». E l’altro? «Riguarda l’eccesso nella divulgazione dei contenuti delle intercettazioni che, però, non sono dovuti a difetti della normativa, che è abbastanza garantista, ma a comportamenti scorretti dal punto di vista deontologico. Spesso è opera degli stessi avvocati difensori». Nessuna speranza per chi lo odia: Silvio ha un pacemaker e le statistiche garantiscono lunga vita Sul mondo batte il cuor di Berlusconi... Irene Pugliese Ci ha provato Massimo Tartaglia con una statuetta e ci ha provato Madre natura mettendolo a dura prova più di una volta. Ma niente. Il cuore di Silvio Berlusconi resiste e ogni volta batte sempre più forte. E non importa se lo fa con un aiutino, una scossa che lo induce a contrarsi. Dal 2006, infatti, nel petto del premier è stato impiantato un pacemaker, un dispositivo che consente di stimolare elettricamente il cuore, normalizzandone il ritmo. Una scatolina 2 4 Febbraio 2011 delle dimensioni di un piccolo accendino che, stando alle statistiche, permette di mantenere una vita normale e in perfetta forma, anzi nel caso del premier, con una marcia in più. Lo aveva detto il suo medico Umberto Scapagnini: «Silvio è tecnicamente immortale». E se Berlusconi si è dimostrato politicamente indistruttibile ormai innumerevoli volte, una resistenza quasi “ultraterrena” sembrerebbe possederla anche sul piano fisico. Niente da fare quindi per tutti quelli che, più di una volta, hanno sperato sotto sotto in una sua uscita di scena dal campo politico diversa da una semplice sconfitta elettorale. E visti i numerosi guai di salute le speranze sembravano ben giustificate. Le disavventure fisiche di Silvio Berlusconi iniziano nel 1996 quando gli viene diagnosticato un tumore alla prostata. Operato al San Raffaele di Milano, Berlusconi se la cava con pochi giorni di ricovero. Dieci anni dopo, nel 2006, arriva l’intervento al cuore. Con un’operazione durata un’ora nell’ospedale americano di Cleveland in Ohio, il Cavalie- re torna come nuovo. Ma, nonostante lo avessero perfettamente curato, sono stati proprio gli americani a mostrarsi seriamente preoccupati per le condizioni fisiche del nostro presidente del consiglio. «La salute politica e personale di Berlusconi paga il prezzo degli scandali», a parlare è l’ambasciatore americano a Roma David Thorne in un dispaccio datato 27 ottobre 2009 e reso noto da Wikileaks qualche mese fa. Poi ci ha provato Tartaglia ad accelerare i tempi: è datato 13 dicembre 2009 il lancio del- la statuetta del Duomo dritto sul viso di Berlusconi, impegnato in un comizio proprio di fronte all’edificio simbolo di Milano. Ma niente. Anche in questa circostanza il premier se la cavò con poco: un dente rotto (accuratamente curatogli dalla ormai molto nota Nicole Minetti, allora igienista dentale) e un po’ di spavento. “Sul mondo batte il cuor di Mussolini”, cantavano i fascisti che ora, pur essendosi in parte allontanati, possono ancora intonare un inno al cuore “eterno” di Silvio Berlusconi. In soffitta il ddl Alfano Un’estate infuocata è stata quella appena trascorsa. Tra giugno e luglio, infatti, si sono rincorsi, provvedimenti, emendamenti e, soprattutto, tante polemiche sul ddl Alfano sul problema delle intercettazioni. Oltre alle manifestazioni di piazza e alle sterili discussioni politiche, ampia rilevanza hanno avuto le aule delle Commissioni giustizia di Camera e Senato, dove il dibattito si è concentrato. Un susseguirsi di interventi e sollecitazioni che ha visto protagonista, soprattutto, il Partito Democratico. Donatella Ferranti, deputata e capogruppo in Commissione, aveva espresso un certo disagio in merito al ddl. “Con il pretesto di tutelare la privacy dei cittadiniaveva detto la Ferrantisi vuole in realtà impedire che la magistratura e la polizia giudiziaria indaghino sui comportamenti di illegalità e corruzione che corrodono la società e troppo spesso caratterizzano i rapporti deviati tra politica e affari”. Anche la Fnsi, sindacato unitario dei giornalisti italiani, ha manifestato a più riprese la sua contrarietà al disegno. Tra le questioni più a cuore alla federazione, l’eliminazione del divieto assoluto di pubblicare, anche per riassunto, le intercettazioni prima dell’udienza preliminare e l’eliminazione della pena amministrativa per gli editori. “Il giornalista- ha rivendicato con forza la federazione- ha il dovere di far circolare liberamente le informazioni di cui venga in possesso, se rilevanti per la formazione della pubblica opinione”. D. S. Reporter nuovo Economia Ministoria di Ligresti, il “padrone di Milano” forse nelle mani dei francesi di Groupama Vita e miracoli di don Salvatore Statera: “Tante cadute ma è quello che non se ne va nonostante i guai” C he la sua holding non se la stia passando troppo bene è noto a molti. Che addirittura da oltralpe, uno dei più grandi concorrenti europei gli stia tendendo la mano è davvero strano: fenomeni della globalizzazione finanziaria. Salvatore Ligresti sembra non volere mollare. Il “padrone di Milano” deve fare i conti con la più grande crisi finanziaria della sua lunga carriera e alla soglia degli ottanta anni si sta rimboccando le maniche, ancora una volta, per risolverla. «E’ quello che ritorna sempre, quello che non se ne è an- Il primo affare l’acquisizione della Richard-Ginori dato mai nonostante i guai, sembra quasi che si faccia a gara ad aiutarlo» è questa la cifra che distingue Salvatore Ligresti secondo l’inviato di Repubblica Alberto Statera. Adesso però ha bisogno di un nuovo aiuto e la società assicurativa francese Groupama potrebbe dargli una mano. Il gruppo guidato da Jean Azèma, sembra interessato a rilevare il 17-20 per cento del capitale di Premafin, la holding della famiglia Ligresti che controlla anche Fondiaria-Sai. Don Salva- tore fa il pesce in barile, e se da una parte non vuole cedere troppo il passo e correre il rischio di essere spodestato, dall’altra sa che l’apporto finanziario di Groupama è necessario. Fonsai, infatti, ha appena sottoscritto un aumento di capitale di 460 milioni di euro e ha riguadagnato un margine di solvibilità (che rappresenta la garanzia della stabilità finanziaria dell’impresa) che a fine 2010 era pericolosamente scivolato sulla soglia critica, ma ancora non è al sicuro. L’impero dell’immobiliarista siciliano, costruito mattone su mattone, è in bilico. Ma non è la prima volta. La storia di Ligresti, ingegnere arrivato a Milano alla fine degli anni Cinquanta, è fatta di alti e bassi, di ricchezza e di condanne, di rapporti e di affari con la politica. Nasce nel 1932 a Paternò, nella provincia catanese, ma svolge la sua vita professionale alle porte del Duomo, nella Milano del miracolo economico. Inizia presto a fare affari rilevando la Richard-Ginori e acquisendo il primo pacchetto della Sai, soffiata a Raffaele Ursini, che lo tirerà in un processo durato fino al 1988 ma che gli darà ragione. La conquista della società d’assicurazioni, che si concretizzerà negli anni successivi, avviene di pari passo con le prime amicizie. Ligresti entra in contatto con Antonino La Russa, senatore missino e compaesa- SUPERBIG Salvatore Ligresti con la figlia Jonella no di Paternò: «Don Salvatore è stato seguito amorevolmente La Russa fin dall’inizio - dice Statera - e anche oggi il figlio Ignazio è un fiero difensore del ligrestismo. Geronimo La Russa, figlio di Ignazio siede nel Cda di Premafin». Il “padrone di Milano” non si muove solo nell’ambiente finanziario, anzi la sua prima attività è quella di costruttore ed è grazie a questa che costruirà case e rapporti privilegiati. Negli anni Ottanta cresce la sua vera fortuna ma è dello stesso periodo il primo scandalo, quello delle “Aree d’oro” in cui viene alla luce la commistione tra politica e affari. Ligresti viene indagato per corruzione e la giunta comunale retta dal sindaco socialista Tognoli cade. Il costruttore riceve una serie di piccole condanne per abusi edilizi e la sua immagine ne risente. Inoltre viene fuori che due terzi delle edificazioni avviate dalla giunta sono del costruttore siciliano, che si conferma padrone nella Milano da bere. Questo periodo rappresenta per don Salvatore il primo momento nero. Sebbene possieda la Sai e abbia diverse partecipazioni in società come la Pirelli, la Cir di De Benedetti e l’Italmobiliare, “mister 5 per cento” (il nome deriva dalla quota che possedeva nelle diverse società) è indebitato per oltre mille miliardi. I suoi rapporti in politica e nel mondo della finanza gli permettono però di uscire dalla situazione di impasse: «La Russa conosceva Cuccia fin dal 1959 e lo ha presentato a Ligresti - dice Statera - Cuccia cominciò a servirsi di don Salvatore quando ebbe bisogno di un contatto con Craxi». A fine anni Ottanta tenta una prima volta di rivolgersi all’amico Craxi, che spende buone parole per fargli avere un prestito da Bnl, ma invano. Allora si rivolge a Mediobanca che inventa una manovra per salvarlo. Enrico Cuccia fa quotare in borsa Premafin, supervalutandola e chiedendo al mercato di sborsare i soldi per salvarlo dalla caduta. Don Salvatore si salva, ma i guai ritornano qualche anno più in là. Nel 1992 viene arrestato nuovamente per corruzione, nell’ambito di un’inchiesta in Mani Pulite. Avrebbe infatti comprato a suon di tangenti, l’appalto per la costruzione della metropolitana di Milano. L’anno successivo, il 1993, una nuova accusa e una nuova condanna. Avrebbe fatto ottenere, alla sua Sai, la gestione dei contratti assicurativi dell’Eni attraverso altre mazzette. La condanna in cassazione a due anni e quattro mesi prevede l’affidamento ai servizi sociali. Nel 2002 Ligresti si rialza di nuovo in piedi alla grande, con la scalata a Fondiaria. Dà vita così a Fondiaria-Sai, secondo gruppo assicurativo dopo Generali. Vi riesce anche qui con l’aiuto di Mediobanca che si impegna a trovare i soldi, e di una serie di banche (Jp Morgan Chase, Interbanca, Mittel, Commerzbank) Seguito da La Russa padre, fin dal suo esordio che comprano quote di Fondiaria rivendendola dopo alla Sai, aggirando il controllo della Consob. Unico problema è che don Salvatore si indebita con Mediobanca. Nel 2004 l’ultimo capitolo fondamentale. L’entrata in Rcs e un posto nel cda per la figlia Jonella. Sponsor dell’operazione il banchiere Cesare Geronzi. L’anno successivo, scontate le pene, arriva anche il via libera della Corte d’appello, che cancella dalla fedina penale le sue condanne. A colloquio con Cisnetto sulla partecipazione degli operai agli utili d’impresa Dopo il referendum di Mirafiori, l’a.d. di Fiat, Sergio Marchionne ha ventilato l’ipotesi, per gli operai, di poter partecipare agli utili aziendali come avviene in alcune aziende del nord Europa. Ne abbiamo parlato con Enrico Cisnetto, editorialista economico. Dottor Cisnetto, a che tipo di partecipazione si può fare riferimento? «Ci sono casi in cui c’è una vera partecipazione agli utili: cioè una quota parte degli utili realizzati dall’azienda viene distribuita agli operai, con formule che si negoziano azienda per azienda. C’è il metodo della distribuzione delle azioni: una sorta di compartecipazione esplicita al capitale aziendale, in cui gli operai ricevono i dividendi che quelle azioni producono, come gli Reporter nuovo Da noi solo “cogestione all’italiana” azionisti normali. Oppure c’è una quota parte dell’utile aziendale che viene distribuito ai lavoratori senza per questo dargli le azioni stesse e farli diventare titolari dei diritti che sono legati al possesso. Ci sono poi le forme intermedie e un altro caso che riguarda anche la partecipazione alle decisioni aziendali: è il fenomeno della cogestione, sperimentato particolarmente in Germania. Esistono due forme: la partecipazione dei lavoratori dentro il cda, di solito attraverso le rappresentanze sindacali, oppure l’affiancamento al cda con dei comitati misti di rappresentanti dei lavoratori e rappresentanti dell’azienda con funzioni con- sultive». Funziona questo metodo? «In Germania è stato ampiamente sperimentato con buoni risultati, perché assicura una certa pace sociale. I lavoratori sono coinvolti tramite i sindacati nella gestione aziendale e diminuiscono le occasioni di conflittualità tra le parti. In Italia non se ne è mai fatto niente. L’unico sindacato che si è espresso favorevolmente è stata la Cisl, la Uil non è contraria ideologicamente ma non lo ha mai sposato fino in fondo, la Cgil lo ha sempre avversato in nome della lotta di classe e perché riteneva opportuno che ognuno facesse il proprio mestiere». È possibile sviluppare questo fenomeno sul nostro territorio? «Noi abbiamo una “cogestione all’italiana” che non è codificata normativamente. Questo perché abbiamo una base imprenditoriale diffusa di piccole imprese molto legate al territorio, e con pochi dipendenti. In questi contesti c’è una certa vicinanza tra datore e lavoratore che talvolta si ritrovano ad avere dei rapporti interpersonali. Questo ha permesso di creare degli accordi lavorativi che spesso sfociano in una compartecipazione ai risultati aziendali fatta da paga- Pagina a cura di Francesco Salvatore menti fuori busta, cioè in nero. La cogestione all’italiana ha il pregio di essere elastica ma il difetto di creare economia sommersa». Perché si ricorre a questi meccanismi? «Perché in Italia le buste paga sono notevolmente magre ma il costo del lavoro è alto. Il lavoratore prende poco ma il datore paga tanto». Si arriverà in futuro a normare questo campo? «Siamo ancora lontani purtroppo. Le cause sono diverse: assenza del legislatore, incapacità di decidere da parte di Confindustia e sindacati. Non si è mai riusciti a scardinare il rapporto inutilmente conflittuale tra le parti so- ciali. Soprattutto da Cgil e Fiom, c’è stato spesso un approccio sindacale un po’ ideologico: se considero il datore di lavoro come nemico, non faccio accordi con lui, ne tanto meno mi metto nella possibilità di corresponsabilizzarmi con lui. Nell’agenda del lavoro, ancora stiamo discutendo se sia giusto o sbagliato che ci sia un decentramento contrattuale». La politica si sta muovendo? «Non in questo verso. Tutto quello che è stato fatto dal ministro Sacconi è stato emancipare Cisl e Uil dalla Cgil nel fare accordi separati nel terreno della produttività. Cioè lo spostamento dal contratto nazionale a quello aziendale di alcune disposizioni dello stesso. Il caso Fiat è l’esempio più emblematico». 4 Febbraio 2011 3 Mondo Alla Luiss Guido Carli incontro con una delegazione di politici e industriali del colosso asiatico India, opportunità da non perdere Il ministro Sharma: vogliamo che l’Italia abbia da noi un ruolo centrale F ra Italia e India da tempo si è instaurato un consolidato rapporto di partnership, ma il colosso asiatico, che negli ultimi vent’anni è diventato una delle prime 5 economie mondiali, è una miniera di occasioni che le imprese italiane non hanno ancora sfruttato. Di questo si è parlato in un incontro alla Luiss con una delegazione di imprenditori indiani. Insieme al rettore Massimo Egidi e all’economista Andrea Goldstein, sono intervenuti Anand Sharma, ministro del Commercio del Governo di Nuova Dehli, e Rajad Bharti Mittal, presidente della Federazione indiana delle Camere di commercio e dell’industria. Nel giorno dell’anniversario dell’assassinio di Ghandi, gli industriali del subcontinente sono venuti in Italia per incontrare i loro omologhi, oltre al ministro dello Sviluppo Paolo Romani, presso la sede di Confindustria. Lo scopo delle riunioni è quello di organizzare la missione di sistema in India, che si svolgerà a fine 2011, per stringere accordi di collaborazione strategica soprattutto nel settore delle infrastrutture. Ma che cosa chiede il colosso asiatico al nostro paese? L’Italia è il ventiduesimo partner commerciale dell’India e il dodicesimo investitore – CAPO DELEGAZIONE Il ministro del Commercio Indiano Anand Sharma è arrivato in Italia con gli imprenditori del suo paese per cercare nuove sinergie sottolinea Sharma - ma il nostro paese rappresenta ancora solo l’1 per cento degli scambi mondiali di Roma. Quello che manca, da parte italiana, sono quegli investimenti strategici e di lungo periodo. Anche i settori che in India sono in pieno boom, come le infrastrutture, vengono ampiamente trascurati dalle vostre imprese. Vogliamo che l’Italia abbia un ruolo centrale nella nostra crescita. Offriamo molte opportunità, anche per le Piccole e medie imprese. Oggi l’export italiano dipende molto dall’Eurozona e ancora troppo poco dai mercati emergenti, che sono quelli che però crescono di più. Le Pmi trarrebbero grandi benefici dall’associarsi con le imprese indiane che, oltre a un minore costo del lavoro, potrebbero offrire anche il vantaggio della vicinanza geografica ai mercati emergenti dove si concentra la crescita”. Anche sui vantaggi che le nuove sinergie porterebbero all’India, Bar- thi Mittal, ha le idee chiare: “Ci interessano soprattutto le medie imprese di nicchia nei settori del design, della manifattura, del tessile, delle calzature, dell’arredamento, dei beni di lusso, della componentistica auto e delle infrastrutture. Le più attraenti per noi sono le opportunità legate al design industriale”. Nell’incontro con i docenti e gli studenti della Luiss, il discorso si è allargato anche alle influenze del nostro paese sull’India. “Noi abbiamo ben chiaro il ruolo della vostra civiltà e la vostra influenza sul nostro paese – dice Sharma - soprattutto nel campo della musica e della moda. Non solo, anche Gandhi è stato influenzato da personaggi come Mazzini, Garibaldi e Cavour nella sua lotta per creare uno stato unitario”. Essendo il secondo paese più popoloso al mondo dopo la Cina, il gigante dell’Asia centro meridionale viene spesso paragonato al paese del dragone. Eppure le due potenze asiatiche sono sorte percorrendo strade diametralmente opposte. L’India è una democrazia, anzi è il più grande paese democratico del mondo, e questo ha influito anche nelle scelte di politica economica. A differenza della Cina, infatti, che del protezionismo e dell’export ha fatto la sua fortuna, Nuova Dehli ha cavalcato l’onda dell’interconnessione, degli scambi con gli altri paesi. Bharti Mittal, che è anche vicepresidente di una delle conglomerate più importanti dell’India, la Barthi Entherprise, ci tiene a ricordarlo: “La crescita economica dell’India è partita 20 anni fa quando il paese ha aperto agli investimenti stranieri e al libero mercato. L’India vuole mostrare al mondo come interconnettersi in quasi tutti i settori”. Non solo in Niger, l’iniziativa per creare barriere contro la desertificazione Piantare in Africa salva il mondo Come “Il nulla” del romanzo “la Storia infinita” di Michael Ende che inghiotte il mondo circostante, l’avanzata del deserto nell’Africa subsahriana minaccia la sicurezza alimentare dei paesi più poveri. Uno dei più colpiti è il Niger, che per due terzi del suo territorio è occupato dalle sabbie del Sahara. Per far fronte a questo grave problema nell’ex colonia francese, qualcuno ha pensato di erigere una barriera di alberi in grado di fermare l’inaridimento dei terreni nigerini. L’idea è venuta a Tree-nation, una Ong internazionale con base a Barcellona, che dallo scorso marzo ha iniziato a piantare alberi vicino alla città di Dosso a centocinquanta chilometri dalla capitale Niamey. Tramite il sito dell’organizzazione è possibile fare una donazione (da 7 a 65 euro) che permette di piantare un baobab o un’acacia e di contribuire a realizzare impianti di irrigazione per far vivere la foresta. Fra i partner della campagna 4 4 Febbraio 2011 nigerina di Tree-nation (che non opera solo nell’ex colonia francese, ma anche in Asia e in America) c’è anche il settimanale italiano “Internazionale”, che tramite l’iniziativa “Un albero per ogni copia venduta”, aiuta il progetto. Oltre a formare una barriera contro la desertificazione e agosto, infatti, in tutto il paese si celebra la “festa dell’albero”. La manifestazione è stata istituita negli anni ‘70 dal presidente Seini Kountché, da allora, una volta l’anno, la popolazione dell’ex colonia francese contribuisce alla lotta contro la desertificazione, piantando alberi. Non è solo il Ni- La siccità interessa anche Burkina Faso, Ciad, Mali e minaccia la sicurezza alimentare di oltre 7 milioni di persone le tempeste di sabbia, il muro di alberi sarà un vero e proprio polmone che farà diminuire il tasso di anidride carbonica nell’aria, e immetterà una maggiore quantità di vapore acqueo, capace di innestare un circolo virtuoso, che accrescerà le precipitazioni nel paese, migliorando anche le condizioni del suolo. Nel Niger, comunque, hanno ben presente quanto possa essere importante una cintura verde. Il 3 ger a puntare sul rimboschimento. Nel 2005, infatti, l’Unione Africana e la Cen-Sad (la Comunità dei Paesi del Sahel e del Sahara) hanno messo a punto il progetto internazionale chiamato “Grande Muraglia Verde”, che ha lo scopo di creare una fascia di vegetazione – lunga oltre 7 mila chilometri e larga 15 – che va dalla Mauritania al Gibuti. Il pro- getto coinvolge gli 11 paesi che si affacciano sul Sahel. Se piantare alberi può sembrare poca cosa, quasi un gesto simbolico, forse non si ha ben chiara la situazione geopolitica dell’Africa subsahariana. Oltre al Niger - che è uno dei paesi più poveri della regione del Sahel (la regione a più alto rischio desertificazione dell’intero continente africano), secondo le Nazioni Unite, la siccità interessa anche Sudan, Burkina Faso, Camerun, Ciad e Mali e minaccia la sicurezza alimentare di oltre sette milioni di persone, circa metà dell’intera popolazione dell’area. E alla difficile situazione economica non corrisponde una migliore congiuntura politica. Un esempio su tutti è rappresentato dal conflitto del Darfur. Oltre alle questioni etniche-religiose e a quelle legate al petrolio, un ruolo importante nella questione lo ha giocato la desertificazione. Non a caso il rappresentane della Nato, Ale- Pagina a cura di Stefano Petrelli SPERANZA Le nuove piantagioni in Niger per fermare il deserto xandrios Papaioannou, durante un convegno al Senato americano su clima e sicurezza, tenuto a Washinghton lo scorso giugno, ha definito quella del Darfour come la “prima guerre climatica”. A causa del progressivo inaridirsi dei terreni, infatti, le risorse naturali sono diventate insufficienti per permettere il sostentamento sia delle popolazioni nomadi del Nord – la cui principale attività è l’allevamento – sia di quelle sedentarie del Sud, che vivono di agricoltura. Anche per questo motivo, i contrasti fra le due etnie, che pure duravano da secoli, sono sfociati in atti di aperta ostilità. Non è un caso che a vincere il Nobel per la pace nel 2004 sia stata la keniota Wangari Maathai, che con la sua organizzazione Green belt ha piantato in 33 anni oltre 30 milioni di alberi. La motivazione del premio spiegava che, con la sua attività, Maathai “aveva promosso lo sviluppo sostenibile, la democrazia e la pace”. Reporter nuovo Primo Piano La ricetta per “rifare l’Italia”. Condivisa da superesperti la tesi del premio Nobel Phelps “Rischio, passione e innovazione” “Prima, però, è necessario intervenire per migliorare il contesto sociale” BERNABÈ PASSERA Meno burocrazia Ok, ma serve altro Per Franco Bernabè, gran visir dell’imprenditoria italiana, il futuro dell’economia del Belpaese si potrebbe tracciare in tre mosse: meno tasse, meno burocrazia e meno rigidità sul lavoro. “Per rifare l’Italia occorre abbattere gli ostacoli. Se qualcuno qui si mette a fare impresa, deve fare i conti con dei costi ingestibili”. Centrale diventa, quindi, il ruolo della politica che dovrebbe adottare una normativa più snella per facilitare il compito delle industrie. Ma restano le gravi responsabilità degli imprenditori, colpevoli di guardare solo all’immediato e di non pianificare progetti a più ampio respiro. E più che di finanziamenti a pioggia il Paese, secondo l’amministratore delegato di Telecom Italia, avrebbe bisogno di imparare a utilizzare le risorse. “In Italia si e’ sempre cercato di fare innovazione, ma se si ripercorre la storia italiana degli strumenti per agevolarla l’elenco e’ un cimitero di cadaveri”. Perciò il progetto di un sistema di banche creato ad hoc per investire sulla tecnologia non entusiasma più di tanto Bernabé che, però, punta sull’entusiasmo dei piccoli imprenditori: “In Italia ci sono 4 milioni di piccole-medie imprese, sono loro il futuro dell’Italia”. Anche perché, - ha ricordato - sono state loro, non le imprese tecnologicamente più avanzate, a realizzare le più grandi innovazioni. «Non trovo sbagliata l’iniziativa di una banca per l’innovazione, anche se io vedo meglio un fondo di garanzia che supporti i soggetti che investono in innovazione e che hanno le competenze per farlo». Corrado Passera, amministratore delegato del Gruppo Intesa San Paolo, è d’accordo con Phelps ma indica anche una strada diversa, incardinata su una maggiore razionalizzazione delle risorse. Per Passera, inoltre, il compito degli istituti di credito non si esaurisce con i sussidi e le sovvenzioni. Le banche devono andare oltre il credito, svolgendo un ruolo-ponte tra progettisti e investitori. Si tratta di aiutare chi sviluppa nuove idee a trasformare le loro creazioni in “business plans”, piani d’affari, e di presentarli a dei finanziatori. Un compito per cui Intesa San Paolo si è adoperato con successo negli ultimi anni, sostenendo e dando vita a numerose “start up”, nuove imprese in cui vi sono ancora processi organizzativi in corso. Ma per curare l’Italia serve anche altro; sono molti i campi in cui il Paese si trova in una situazione di retroguardia, soprattutto a causa di alcune lacune legislative. Per questo sarebbe opportuno, afferma, “porsi il tema del premio fiscale all’innovazione e dotarsi di una normativa sul venture capital, perché non averne una adeguata oggi è un vero problema». PROFUMO Fallire non è un’onta Sono due le parole-chiave della rinascita italiana per Francesco Profumo, rettore del Policlinico dell’Università di Torino: rischio e tempo. “Il fallimento può essere l’inizio di una nuova avventura e non lo si deve considerare un’onta”. Le imprese, sostiene Profumo, devono sapersi mettere in gioco, accettando i pericoli di un mestiere difficile dove intraprendenza e creatività sono strettamente legate. “Il Policlinico in sette anni ha creato, grazie al lavoro di un campus con 25 centri di ricerca privati, circa tremila posti di lavoro”. Il tempo è un altro elemento fondamentale perché la scalata al successo, nell’imprenditoria, si gioca essenzialmente sulla velocità, sulla rapidità di scelta. Solo con una tempististica adeguata si riesce a battere la concorrenza. Nella sfida del “business” arrivare con un anno o due di ritardo è un errore imperdonabile. Una valutazione di cui spesso qui da noi non si tiene conto. “In Italia il tempo non ha valore”, afferma. E al riguardo, Profumo cita il caso di Loris DeGioanni, nel 2005 ricercatore all’ Università della California dopo una laurea al Policlinico e, fino a ieri, capo di un’azienda con trenta dipendenti appena ceduta a una multinazionale quotata sul listino Nasdaq. “Mi ha detto che in Italia non avrebbe mai potuto sviluppare la sua idea. Sarebbero passati troppi anni”. Reporter nuovo INNOVAZIONE Anche per la media industria sofisticate macchine in continua evoluzione C ome rimettere in moto il “sistema Italia”, gravato da una crisi senza precedenti e da un perenne immobilismo? Come stimolare la crescita e la produzione, chiavi strategiche dell’intero comparto economico e difficili scommesse per gli anni a venire in un Paese così poco dinamico e oppresso dalla burocrazia? Con rischio, passione e innovazione. È la ricetta di Edmund Phelps, economista statunitense e premio Nobel del 2006, illustrata al mondo imprenditoriale, politico e finanziario nel convegno “Per rifare l’Italia – La grande sfida dell’innovazione”, tenutosi mercoledì alla Sala della Regina a Palazzo Montecitorio. Phelps, il cui intervento ha costituito il centro della discussione, ha presentato il suo progetto delle banche per l’innovazione, un nucleo di fondi dedicato all’investimento per le aziende ad alto tasso creativo e gestito dallo Stato. L’esempio è quello della Deutsche Bank, il colosso bancario tedesco che negli anni ’80-90 dell’Ottocento finanziò con ingenti capitali il settore elettrico del Paese. O ancora, dell’economia americana che, sebbene non se la passi molto bene, è permeata dalla curiosità e dallo spirito d’avventura, sentimenti tesi alla prospettiva di una buona vita. Un piano orientato soprattutto ai giovani, che devono essere messi nelle condizioni di realizzare i propri talenti e pensato a lungo termine; incentrato, quindi, più sugli gli investimenti che su i semplici prestiti. Il concetto-base del rischio si esplicita soprattutto nella proposta di tassi di interesse proporzionati all’azzardo dell’impresa proposta. Per Phelps l’economia del futuro è l’economia che crede e sviluppa l’innovazione tecnologica, con un occhio al profitto e alla soddisfazione personale. E in questo, il nostro Paese è davvero alla retroguardia: un’indagine del Sole 24 Ore infatti ha piazzato l’Italia agli ultimi posti tra i Paesi dell’Unione Europea in fatto di innovazione e ricerca. Anche se per l’economista La modernizzazione per Fini volano della ripresa statunitense la situazione non è poi così compromessa: “L’Italia si giova di una grande concorrenza: sembrerebbe il candidato ideale a questo tipo di spinta per l’innovazione. Bisogna ricreare lo spirito d’impresa, stimolare la crescita personale e tocca alle istituzioni tagliare quei vincoli burocratici che si oppongono alla modernizzazione». La strategia di Phelps è stata condivisa sostanzialmente da tutti i presenti, seppur con qualche puntualizzazione, in particolare sull’esigenza delle banche d’innovazione, espressa dal mondo dell’imprenditoria con Fran- co Bernabè, amministratore delegato di Telecom Italia, delle banche con Corrado Passera, amministratore delegato del Gruppo Intesa San Paolo e della politica, con Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera, ed Enrico Letta, vicesegretario del Partito Democratico. Su un punto, però, c’è stata un’intesa totale: prima di modificare il mondo dell’economia, è necessario intervenire sul contesto sociale per costruire una società moderna e innovativa. Solo dopo sarà possibile innestare un rinnovamento tecnologico che punti alla trasformazione in senso dinamico del Paese. Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha ha poi chiarito l’importanza del concetto di intraprendenza, una delle parole-chiave nella grande sfida dell’innovazione. “L’Italia deve saper essere intraprendente. Mi riferisco sia all’Italia dell’imprenditoria che a quella della politica. Il centocinquantenario dell’Unità deve rappresentare uno stimolo per un interesse corale che premi l’iniziativa e il merito, soprattutto quello dei giovani. La modernizzazione deve essere il volano della ripresa”. E oggi essere intraprendenti – hanno detto un po’ tutti – significa anche lavorare per eliminare l’alta insoddisfazione giovanile. Perché, come ha affermato Fini, “se aiutiamo i giovani a creare il loro futuro, aiutiamo l’Italia a costruire il suo futuro”. Pagina a cura di Giacomo Perra LETTA Tornare protagonisti “A noi non mancano le idee. Manca la volontà di andare fino in fondo”. Per Enrico Letta, vicesegretario del Partito Democratico, il Paese ha bisogno di ritrovare la voglia di tornare protagonista. Un’aspirazione che deve coinvolgere non solo le forze migliori del sistema industriale e finanziario ma tutti i singoli individui, specialmente i più giovani. Si pone in questa direzione la proposta di legge sui “contratti ad avvenire”, che prevede la defiscalizzazione per tutti gli assunti tra i 20 e i 30 anni. “I trentenni di ieri facevano figli, lavoravano e mantenevano i genitori. Quelli di oggi sono mantenuti dai genitori e se lavorano sono precari. Non credo serva altro per spiegare la situazione italiana. Con il Giappone siamo il Paese che ha fatto meno figli”. Una dura presa di posizione che si avvale anche di altri numeri negativi: “Il reddito pro capite in dieci anni è andato indietro: siamo l’unico Paese in cui ciò è accaduto e non è colpa della crisi”. Un altro problema per Letta è poi costruito dal mercato che in Italia sarebbe inesistente. “Il mercato consente lo sviluppo del talento, consente di incrociare fallimento e ripartenza. Il fatto è che noi proprio nel mercato abbiamo fatto passi indietro da giganti. E invece l’innovazione ha bisogno del mercato per crescere”. 4 Febbraio 2011 5 Cronaca A oltre un secolo dalla fondazione, l’Aci punto di riferimento per milioni di automobilisti Quel club d’oro che muove l’Italia Ma adesso tagli, sprechi e superbonus rischiano di mandarla in panne Stefano Silvestre Erano gli inizi del ventesimo secolo. Le auto erano ancora “carrozze senza cavallo”, che procedevano sbuffando al piccolo trotto su strade polverose. Negli Stati Uniti iniziava il progetto della mitica Ford modello T, mentre in Italia la Fiat produceva in poche centinaia di esemplari il suo modello 24-32 hp. Proprio in quest’epoca pionieristica, è arrivata l’intuizione dell’Aci – Automobile Club d’Italia - che sta proprio nell’aver capito le potenzialità del trasporto automobilistico, in un periodo in cui, in Italia le auto in circolazione erano poco più di 2 mila, a fronte degli oltre 34 milioni di veicoli attuali. Nel mirino delle critiche, accusata di essere una holding più che un “Ente pubblico non economico senza scopo di lucro”, come si autopromuove, è ora sotto attacco a causa dei bilanci degli ultimi due anni, che hanno fatto segnare un buco di oltre 30 milioni di euro di passivo l’anno. Nell’occhio del ciclone sono finiti quindi Enrico Gelpi e Ascanio Rozera, rispettivamente presidente e segretario generale. A Roma, la sua sede è in un imponente palazzo in vetro che affaccia sull’importante snodo della sta- LA SEDE L’edificio romano dell’Aci, nei pressi di stazione di Termini. Da qui e dagli altri 106 Automobile club provinciali sparsi in tutta Italia coordina i servizi di aiuto alla mobilità stradale zione Termini, sul quale campeggia una grande scritta con il logo del club. Da qui, come dagli altri 106 Automobile club provinciali in tutta Italia, l’Aci coordina i servizi di aiuto alla mobilità stradale, ai quali si sono aggiunti negli anni anche due call center, varie agenzie assicurative e oltre 700 punti di soccorso. Questi i numeri: oltre 1 milione di soci, 112 mila chiamate ricevute per informazioni automobilistiche, oltre 560 mila interventi di soccorso e 48 mila interventi sanitari l’anno per un giro di affari da quasi un miliardo di euro. Ai canali di informazione tradizionali, come radio e telefono – immortalato nel cinema dalla chiamata dell’apprensivo e pedante socio Aci interpretato da Carlo Verdone in “Bianco, rosso e Verdone” del 1981 – si è poi aggiunto anche il web, con aggiornamenti in tempo reale, approfondimenti su auto e turismo e la possibilità di paga- re il bollo online. L’Aci è promotore del Gran Premio d’Italia a Monza e si avvale di un accordo di collaborazione con la Fia, la Federazione internazionale dell’Automobilismo di cui Gelpi è il numero due, intesa che può vantare anche l’organizzazione di un’inedita tappa del mondiale rally in Sardegna. In Europa partecipa alle iniziative dell’Ufficio Europeo della Fia a Bruxelles e non solo a livello sportivo. Negli ultimi anni, infatti, è la si- curezza al volante, attiva e passiva, a farla da padrone in Europa. Alla fine dello scorso anno, l’Aci è diventata il primo organismo del nostro paese a fare parte dell’Euroncap - il programma internazionale di test sulla sicurezza dei veicoli promosso da associazioni di case automobilistiche – attraverso il quale le maggiori case costruttrici mondiali inseguono l’obiettivo delle cinque stelle di valutazione nei severi crash test europei, sviluppati anche con la collaborazione del Club italiano e diventati ormai segnale indiscutibile di riconoscimento dell’affidabilità e sicurezza della vettura. Quale futuro per l’Automobile Club italiano? Dopo il piano di dismissione degli immobili annunciato nei giorni scorsi – come rivelato da un’inchiesta di Repubblica – l’Aci è stata costretta a cedere a Intesa San Paolo la controllata Banca Sara. Con i sindacati in agitazione e le critiche per sprechi, bonus d’oro ai dirigenti e i crescenti interessi della politica, il pericolo maggiore è che, quello che un tempo era tra i Club automobilistici più prestigiosi del mondo, rimanga in panne e accostato al ciglio della strada in eterno. Stavolta senza soccorso stradale, però. Le linee morte dell’Atac. L’incredibile caso del bus Nomentana-XX Settembre Un miraggio quel 140 vuoto e veloce Giacomo Perra “Ogni giorno è così, i posti a sedere sono tutti vuoti”. Sorride Mario mentre scende dal piccolo bus-navetta che ha appena condotto al capolinea, in via XX Settembre: sono le quattro del pomeriggio e il suo turno sull’autobus “fantasma” è appena terminato. “È una pacchia guidare il 140. Non sale mai nessuno e posso viaggiare rapidamente e senza soste, di giorno e di notte”, confessa. Diciassette partenze in tredici ore; dalle sette e mezza del mattino alle otto e un quarto di sera. Una ogni quarantasei minuti, un’eternità. Ovviamente con pochissimi passeggeri a bordo; giusto qualche vecchietta che, come questo pomeriggio, ha deciso di andare al Verano. “La gente – spiega ancora Mario – spesso si stufa di aspettare così tanto e sceglie di prendere qualche altro pullman”. Il 90, ad esempio, che sulla Nomentana passa ogni quarto d’ora, minuto più, minuto meno. O il 90D, che è an- 6 4 Febbraio 2011 cora più sollecito nell’imbarcare i passeggeri con tempi d’attesa che si aggirano sui dieci minuti. Una frequenza irraggiungibile per i ritmi lenti del 140. La linea è nuova, (è stata inaugurata due anni fa), ed è ancora in via sperimentale. 24 fermate la percorrono da capolinea a capolinea; dalla Batteria No- stinazione, a meno di essere fortunati e acchiappare l’autobus al volo. Certo, poi c’è il vantaggio di viaggiare comodamente seduti, evitando la ressa e tutti gli inconvenienti che ne derivano. Peccato che per godere di questi privilegi si debba pagare il dazio di un’attesa spesso snervante. Un sacrificio L’autista: “Una pacchia guidarlo”. L’Agenzia per la Mobilità: “È un servizio utile” Gli altri casi del 434 e del 221 mentana fino a Via XX Settembre e viceversa, passando per Villa Torlonia, il Policlinico Umberto I, l’Università La Sapienza, il Cimitero Monumentale del Verano, Tiburtina e Piazza dell’Indipendenza. Sono solo due, però, le vetture a disposizione degli utenti; quando una parte dalla Batteria Nomentana, l’altra sta lasciando Via XX Settembre. Un guaio per chi volesse o dovesse precipitarsi verso qualche de- che sembra fuori da ogni logica. Non per l’ufficio stampa dell’Agenzia Roma Servizi per la Mobilità, l’ente responsabile della pianificazione e della programmazione della mobilità nella Capitale, che difende, (senza peraltro essere molto convincente), la scelta della linea 140. “È un servizio utile; vista l’affluenza e la compresenza di altre linee, due vetture sono giustificate. La linea è stata istituita con cognizio- ne di causa”. C’è da dire, però, che la 140 non è l’unica linea “morta” dell’Atac. Basta fare un giro sulla “rete”, tra i tanti forum sparsi su Internet, dove i pendolari insoddisfatti sono molti e si fanno sentire. Nel forum del Comitato di Quartiere di Casal Monastero, frazione a nord-est della Capitale, un anonimo internauta si lamenta dell’”inutilità del 434, sempre vuoto”, mentre su Skyscraper City un altro utente protesta per la scarsa efficacia dei bus “221”. Mario saluta e se ne va, un collega lo sostituisce. “Adesso divertiti tu, io ho già guidato per sei ore oggi. Non preoccuparti, c’è poca gente anche oggi”. Il suo è stato un viaggio breve, neanche quindici minuti da capolinea a capolinea. Non passa mezz’ora e il “nuovo” autista monta sul mezzo. Dà uno sguardo in giro: non ci sono passeggeri in vista. Posa il giornale, poi gira la chiave e accende il motore. Un rombo e il 140 è di nuovo in partenza. Vuoto. FERMATA Siamo a Villa Torlonia-Nomentana. Sotto l’autobus fantasma fermo al capolinea di via XX Settembre. Reporter nuovo Costume & Società Mario Fabiani, primario di Audiologia: «Assolte le discoteche, iPod e autoradio a palla» Non è il rumore che rende sordi Può dar vita a pericolosi stress. I casi limite. Iniziativa di AudioNova Dario Parascandolo Sabato sera, quattro ore in discoteca, con volumi paragonabili a un aereo in fase di decollo, senza un minuto di sosta. Un contesto che farebbe tremare ogni genitore. Eppure il Cocoricò e La Baia Imperiale non creerebbero nessun danno rilevante, almeno all’udito. A sfatare il mito dell’equazione decibel e sordità è il professore di Audiologia all’Università La Sapienza si Roma Mario Fabiani, spiegando che «a meno che non si vada a ballare tutti i giorni per dieci anni di fila, l’orecchio non corre alcun rischio di danni permanenti. Di sicuro – avverte - l’organismo è sottoposto a una serie di stimoli, che, associati al consumo di alcol e droghe, creano un mix micidiale di stress fisico». Identica assoluzione per gli ultimi modelli di autoradio o di lettori mp3, che potrebbero al massimo generare una situazione di stordimento. Così come i demoniaci concerti rock, che per due ore percuotono i timpani con i loro 110 decibel. Quasi un black and decker in piena attività. Insomma, il rumore va bene, a patto che non se ne abusi. Ma è realmente possibile L’OTORINO La riduzione progressiva dell’udito è un disturbo molto frequente pensare che in un mondo urbano immerso nel traffico, tra ambulanze, sirene, elicotteri, clacson e urla, l’orecchio umano non vada incontro a danni o patologie? «Sicuramente i nostri nervi sono a repentaglio – prosegue Fabiani - ma davvero non si diventa sordi con il rumore ordinario, anche se fastidioso. Rischiano grosso, invece, le categorie professionali che ogni giorno, per decenni, sono a contatto con martelli pneumatici, traffico cittadino, motoseghe e macchinari rumorosi in generale. Un bombardamento sonoro quotidiano che nel giro di dieci anni potrebbe portare a una progressiva perdita di percezione delle frequenze alte. Dopo trent’anni di esposizione, invece, si rischiano seri problemi di comunicazione». È stato provato che nei luoghi di lavoro è possibile sopportare un rumore di intensità fino a 80 decibel, ma già 85 db potrebbero rappresentare un serio problema. Nei casi in cui durante l’età lavorativa si subiscono rumori simili, c’è il 35 per cento di possibilità di riportare danni all’udito. Chi, invece, lavora per 40 anni con un rumore di 90 db, rimarrà sordo nel 50 per cento dei casi. Intensità simili sono percepibili, ad esempio, nelle falegnamerie o nel traffico intenso. La riduzione progressiva dell’udito, che di solito si presenta dopo i sessant’anni di età, è il terzo disturbo cronico dopo l’ipertensione e l’artrite. Un disturbo che, anche se parziale, oltre a creare gravi difficoltà nella comunicazione con le altre persone, porta chi ne è affetto a perdere la propria sicurezza, la fiducia in se stesso, a innervosirsi con estrema facilità e a isolarsi. E la perdita neurosensoriale progressiva non è per forza legata all’invecchiamento, almeno secondo il centro acustico AudioNova, che, a distanza di due mesi dalla Giornata Nazionale della Sordità, ha lanciato una campagna di sensibilizzazione alla prevenzione delle patologie dell’orecchio. Presso i propri centri su tutto il territorio romano, i professionisti di AudioNova si sono resi disponibili dall’1 al 3 febbraio per effettuare esami gratuiti a tutti. Soprattutto perché alla base delle malattie uditive non vi è soltanto il rumore, ma anche uno stile di vita poco sano. «I campanelli di allarme – conclude il prof. Fabiani – devono assolutamente squillare in caso di soggetti con colesterolo alto. L’orecchio interno è vascolarizzato da un’unica arteria, e, nel caso in cui all’organo affluisse poco sangue, potrebbero insorgere problemi che a lungo tempo creano danni irreversibili». Adozioni a distanza. Sono più di 150 in Italia le organizzazioni a sostegno dei minori nel mondo Così Sangeeta ha conquistato il diploma Daniele Serio Cibo, cure, istruzione. Bisogni primari che quasi la metà dei bambini nel mondo, molto spesso, non vede soddisfatti. Per questo, da decenni ormai, esistono innumerevoli associazioni che hanno il compito di dare un futuro ai piccoli più sfortunati. Una delle forme di solidarietà in maggiore espansione è quella del sostegno a distanza (SaD): “Un impegno morale- recita la Carta dei Principi che coordina l’azione dei vari soggetti impegnati nel sostegno ai bambini disagiati- a inviare tramite referenti responsabili, un contributo economico stabile e continuativo , del cui uso il donatore riceve riscontro, rivolto a minori, adulti, famiglie, comunità”. L’obiettivo Reporter nuovo è quello di offrire la possibi- in India. Terza di quattro fra- cento euro l’anno- ha proselità di migliorare le condizioni tellini orfani di padre, San- guito Gianpiero Perra- e, ogni di vita senza dover abbando- geeta ha potuto conseguire il sei mesi, abbiamo ricevuto nare il proprio paese d’origi- diploma di scuola superiore materiale dettagliato relativo ne. grazie al supporto dei suoi alla vita della bambina”. In genere, il donatore ver- donatori: “Abbiamo intraNon tutte le organizzasa una quota annuale a una preso la SaD tramite il Pon- zioni, però, presentano lo delle varie associazioni che, tificio istituto per le Missio- stesso grado di affidabilità. Le tramite un reprime e più ferente preimportanti A Mumbai sono arrivati per lei sente nel paeagenzie inse in cui vive duecento euro l’anno. L’obiettivo è di non far loro ternazionali il minore, si di adozione preoccupa di f u r o n o abbandonare il paese d’origine far arrivare a World Videstinazione. sion e Plan Se tutto va a buon fine, quei ni estere (Pime)- ha spiegato International, presenti in desoldi vengono utilizzati per Gianpiero, suo papà adottivo- cine di paesi sparsi per il fornire tutta l’assistenza di cui La loro azione consiste nella mondo. In Italia, la prima fu un bambino ha bisogno. E’ ricerca di famiglie che vo- proprio il Pime, alla fine dequello che ha vissuto San- gliano aiutare questi bambi- gli anni ’60, cui ne seguirono geeta, adottata nel 2003 dal- ni fino a quando non termi- tante altre, laiche e cattoliche. la famiglia Perra, quando nano la scuola”. Finiti gli Oggi se ne contano più di aveva dodici anni. Una storia studi, l’associazione propone 150. Così tra organizzazioni di estrema povertà, ambien- alle famiglie l’adozione di al- non governative, istituti ectata nella periferia di Mumbai, tri bambini. “Paghiamo due- clesiali, comitati, gruppi in- formali privati e fondazioni che cercano di tutelare i diritti dei bambini, la scelta, per un potenziale donatore, diventa sempre più rischiosa oltre che difficoltosa. Inoltre, non tutti gli enti operano allo stesso modo con i fondi raccolti. Le varie organizzazioni, in genere, applicano tre differenti tipologie di interventi sul campo: i progetti che destinano il denaro ai singoli bambini adottati a distanza; i programmi di sviluppo a favore di tutti i bambini che vivono nella stessa comunità di quelli adottati a distanza, al fine di evitare discriminazioni; infine, progetti di cooperazione allo sviluppo che si estendono a un’intera area geografica. Dunque, non soltanto i bambini sono i beneficiari diretti dei contributi. I DISTURBI Gli anziani e le donne i più colpiti La presbiacusia è la perdita dell’udito dovuta all’avanzamento dell’età. Oggi prevale la tendenza a non considerare la presbiacusia una patologia vera e propria, ma soltanto un segno fisiologico dell’invecchiamento, che per la sua caratteristica di imprescindibilità dalla vita deve anch’esso essere considerato fase fisiologica del percorso. Per acufene si intende quel disturbo costituito da rumori che, sotto diversa forma (fischi, ronzii, fruscii, crepitii, soffi, pulsazioni, eccetera) vengono percepiti in un orecchio, in entrambi o, in generale, nella testa, e che possono risultare fastidiosi a tal punto da influire sulla qualità della vita di chi ne soffre. Si originano all’interno dell’apparato uditivo ma vengono spesso percepiti come suoni provenienti dall’ambiente esterno. È stato calcolato che nella popolazione priva di difetti uditivi un soggetto su dieci soffre, mentre nella popolazione con ipoacusia, cioè con riduzione uditiva, la percentuale sale a circa il 50 per cento. Spesso all’acufene è associata l’otosclerosi, una malattia a carattere ereditario che interessa esclusivamente l’orecchio, coinvolgendo frequentemente entrambi i lati. L’otosclerosi comporta principalmente un deficit uditivo di tipo progressivo e leggeri disturbi dell’equilibrio. La malattia interessa di solito individui adulti, colpendo più frequentemente le donne. D. P. 4 Febbraio 2011 7 Costume & Società Non si ferma l’attività degli emuli di Basquiat. Veloce rassegna nelle strade della Capitale Ascolta, il muro parla (e sporca) Brillanti, insolenti, romantiche, le scritte sono una spesa per il Comune Irene Pugliese Esistono tanti modi di vivere e scoprire una città. Bisogna camminarci, attraversarla, studiarne la storia. Ma si può anche leggere. E per quanto riguarda Roma è piuttosto facile. Dalla statua parlante di Pasquino, al cui collo si appendevano versi e svolazzi d’acida poesia alla faccia dei potenti, la scritta sul muro è diventata tradizione. Ci si arma di vernici, di spray e si schizzano case, monumenti, tangenziali e gallerie della metropolitana. Roma si svela anche così. La storia raccontata sui muri. Quella globale, di tutti e quella privata. Chi era Costanza per esempio? Ce lo siamo chiesti tutti passando sotto il ponte Flaminio direzione Corso Francia e alzando gli occhi verso la sua volta più alta dove per anni campeggiava enorme la rima baciata e dolorosa Costanza ti amo ma senza speranza. La capacità dell’Urbe e dei suoi figli di trattare di calcio, politica e sentimenti con lo stesso tono ambiguo e malandrino è un’arte. Scritte immortali, alcune. MURI COLORATI In alto la scritta di via di Porta Labicana a San Lorenzo. In basso la parete di via Aldo Manuzio, dietro al Mattatoio e un writer all’opera Mai cancellate. Che resistono al tempo e al traffico della Prenestina, per esempio, dove da quindici anni c’è uno sberleffo più degno di un elzeviro: “Co sto caldo ce voleva un bel governo ombra”. O sulla Roma-L’Aquila, dove sopra un pilastro si legge il dogma religioso: “Dio c’è”. Che però si trasforma in barzelletta grazie alla frase aggiunta: “O ce fa?”. Percorrendo la tangenziale est prima dell’incrocio con la Nomentana è enorme la scritta dedicata a Pietro Taricone probabilmente opera del Gruppo Istinto rapace, la scuola di paracadutismo sportivo di CasaPound di cui l’attore faceva parte. “Muore giovane chi è caro agli dei, ciao Pietro”, hanno scritto in caratteri gotici. “Ciao Antò” con una stella rossa al centro, invece, è la scritta più grande sulle antiche mura di via di Porta Labicana. D’altronde siamo a San Lorenzo, il quartiere di via degli Equi, dove la saracinesca di ogni negozio quando è chiusa mostra un disegno colorato diverso. Forme di arte dunque definite da alcuni puro vandalismo. Ma dov’è il vero? Non si può fare di tutta l’erba un fascio, ci spiega Massimo Canevacci, docente di antropologia culturale all’Università La Sapienza di Roma ed esperto in materia. «La scrittura sui muri – dice il professore – ha una storia antichissima e ha diverse forme: i graffiti sono meno legati alla politica e più alla comunicazione, all’estetica, all’esperienza delle emozioni. Impegno sociale, desideri amorosi, identità mobili fanno parte di queste scritte. Quella del murale invece è un’arte che si colloca dentro un filone nazional-popolare che cerca di essere comprensibile da ogni persona e di spingere all’azione politica». Una forma di espressione e comunicazione che però costa a Roma ben cinque milioni di euro all’anno, dicono dal Comune. Dato che non scoraggia tutti i potenziali Jean-Michel Basquiat che sicuramente mentre “sporcava” con i suoi dipinti le mura dei sobborghi newyorkesi mai si sarebbe aspettato di diventare la figura-icona di intere successive generazioni. Dopo l’annuncio della probabile riapertura del balcone di piazza Venezia Ma alla birreria di Adolf si beve Mai chiuso quel locale. Le altre “pedane” storiche Stefano Silvestre Esilio, ostracismo, oblio, bando, confino. Sono alcune delle pene inflitte ad alcuni dei più sanguinari e controversi dittatori, raìs, imperatori, re e regine di tutti i tempi. Mai nella storia una di queste era toccata nientedimeno che a un oggetto. Si tratta del balcone di palazzo Venezia, due metri quadrati a una decina di metri di altezza che affacciano sulla piazza omonima, una delle più famose al mondo. La sua colpa? Aver ospitato sulle sue mattonelle i piedi di Mussolini durante molti dei suoi discorsi e l’aver fatto da pedana all’ingresso in guerra del nostro paese nel giugno del 1940. Colpe indiscutibili, terribili, addirittura innominabili, ma che c’entra il balcone? La piccola balconata è invece stata costretta a una chiusura di oltre 70 anni. Un esilio che potrebbe finire il prossimo settembre, in quanto il sottosegretario ai Beni Culturali Francesco Maria Giro, che intanto ha fatto visitare il celebre terrazzino anche al presidente Napolitano, 8 4 Febbraio 2011 ha rivelato che in realtà “non c’è alcuna norma che ne vieti l’apertura”. Esiliato senza una legge apposita e diventato tabù, il balcone di palazzo Barbo – che prende il nome da Papa Paolo II, al secolo Pietro Barbo, che lo commissionò nel ‘400 – potrà così tornare ai suoi antichi fasti. E nel resto del mondo? faccia un giro in Baviera e abbia voglia di gustare una bionda, può tranquillamente sedersi a uno dei tavoli dove, 90 anni fa, quelli che sarebbero diventati spietati leader di partito quindici anni dopo, preparavano una delle più grandi tragedie dell’umanità. Hitler amava molto arringare i quadri del suo partito dai robusti tavoli in legno delle bir- Il balcone della Casa Rosada a Buenos Aires e la piazza sottostante sono ancora un luogo amato, nonostante Galtieri Che fine hanno fatto i luoghi storici dei discorsi che hanno cambiato le vite di milioni di persone? Parlando di dittature e proclami, non si può non citare la birreria Hofbräuhaus di Monaco, da dove Hitler preparò la sua ascesa al potere nel 1920 proclamando, tra le altre cose, le 25 tesi del partito nazista. La birreria, però, non è mai stata chiusa, le sue porte non sono sbarrate con assi di legno né murate. Chiunque rerie, e fu proprio da un’altra di queste, la Bürgerbräukeller, che partì il fallito putsch di Monaco del 1923, conosciuto in Germania proprio come “il colpo di stato della birreria”, che costò al Fuhrer 5 anni di carcere e innescò il processo che lo porterò al potere assoluto. Oggi l’ex punto di ritrovo preferito del partito nazista non è più una birreria, è stato demolito nel 1979 per poi essere riadattato a hotel di lusso. E che dire del balcone di Plaza de Oriente a Madrid, da dove il caudillo Francisco Franco era solito arringare le folle? E’ ancora lì, non viene più usato per questo scopo, ma non è mai diventato una sorta di fantasma architettonico. Paese che vai, dittatore che trovi. E con lui, il suo balcone preferito. E’ il caso del sanguinario Nicolae Ceasescu, al potere in Romania dal 1967 al 1988, che proprio dal balcone del palazzo del comitato centrale del partito comunista romeno pronunciò quello che è rimasto il suo ultimo discorso. Quel balcone è ora parte del Ministero degli Interni romeno ed è passato alla storia più per il volto impietrito del dittatore nel giorno della sua deposizione che per i vent’anni di morsa in cui fu stretto il popolo romeno. E il balcone della Casa Rosada a Buenos Aires? Passato alla storia per le arringhe di Peròn e sconsacrato dal feroce Leopoldo Galtieri nel 1982, è ancora uno dei luoghi più amati di Plaza de Mayo e più conosciuti d’Argentina. CAUDILLO Francisco Franco al balcone in Plaza de Oriente Reporter nuovo Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini” della LUISS Guido Carli Direttore responsabile Roberto Cotroneo Comitato di direzione Sandro Acciari, Alberto Giuliani, Sandro Marucci Direzione e redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 0685225558 - 0685225544 fax 0685225515 Stampa Centro riproduzione dell’Università Amministrazione Università LUISS Guido Carli viale Pola, 12 - 00198 Roma Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008 [email protected] ! www.luiss.it/giornalismo Reporter nuovo