Le cose dette fanno prova Vita e mircoli di don

Transcript

Le cose dette fanno prova Vita e mircoli di don
Anno IV - Numero 15
Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli
4 Febbraio 2011
Reporter
nuovo
Rubygate
Le cose dette
fanno prova
Ligresti
Vita e mircoli
di don Salvatore
Aci
Quel club d’oro
che muove l’Italia
Scritte
Il linguaggio
dei muri
RUMORE E SORDITÀ:
DISCOTECHE ASSOLTE
LʼAUDIOLOGO: SEMMAI SONO SOTTO ACCUSA PERCHÉ PRODUCONO STRESS
Politica
Il valore delle intercettazioni. A colloquio con Pasquale Bronzo, docente di procedura penale
Rubygate, le cose dette fanno prova
Chi contraddice la registrazione rischia l’incriminazione per falso
Indagini, rivelazioni, scandali. Eccola la miscela esplosiva
che sta scoperchiando la vita
sotterranea del capo del governo, tornata ora prepotentemente alla ribalta. Condita da
racconti a luci rosse e debolezze personali. “Frequento
casa di Berlusconi da quando
ho 16 anni- aveva detto Ruby
Rubacuori ad un’amica nel
corso di una telefonata intercettata- Ha detto al suo avvocato che mi avrebbe ricoperto
d’oro se avessi negato che lui
frequentava minorenni”. E ancora: “(Berlusconi, n.d.r.) ha
fatto diventare la Minetti consigliere regionale, quando ha
detto alla polizia di affidarle
Ruby”, emerge, invece, da una
telefonata tra l’ex prefetto di
Napoli Carlo Ferrigno e un altro uomo.
Parole trascritte nero su
bianco dagli inquirenti della
Procura di Milano che avranno la possibilità di utilizzarle
nel corso di un (molto probabile) procedimento penale.
Dunque, intercettazioni non
soltanto come indizio ma
“strumenti con pieno valore di
prova”, come conferma il Prof.
Pasquale Bronzo, docente di
Diritto Processuale Penale all’Università Luiss.
Professore esiste il rischio
di travisarne l’interpretazione?
«Sì. L’intercettazione è una
prova dichiarativa che va sempre interpretata. Molto spesso,
ed è questo il problema, al giudice non arrivano delle conversazioni continue tra due
persone ma soltanto degli stral-
IL DIBATTITO
COSÌ LA “LEGGE BAVAGLIO”
Daniele Serio
Vincoli e pesanti sanzioni
per pm, editori e giornalisti
SATIRA Momento no per il Presidente del Consiglio
ci che contengono già un’interpretazione. Ciò comporta il
rischio di non comprendere il
significato rappresentativo della prova intercettata».
Ma rimane il valore di prova?
«Assolutamente. Il valore
giuridico della prova rimane;
come una testimonianza, una
perizia, un documento».
Cosa succederebbe se una
persona imputata raccontasse il falso e fosse smentita proprio dalle intercettazioni?
«L’imputato non può mai
essere incriminato per falsa
testimonianza (né per falso in
genere) perché non ha l’obbligo di verità. Il testimone invece sì».
Come nasceva il ddl Alfano
sulle intercettazioni? Quali
rimproveri sono stati fatti a
questo strumento d’indagine?
«Uno riguarda il loro uso
eccessivo. Per me non è assolutamente così. A mio avviso,
non vale nemmeno il confronto con gli altri paesi; anche
Soprannominata “legge bavaglio”, il ddl sulle intercettazioni è stato in discussione al Parlamento fino alla fine dello scorso luglio prima di essere accantonato. I punti salienti della riforma, ampiamente contestata, sono una decina.
Vediamone alcuni:
■ I pm devono avere in mano gravi indizi di reato per poter chiedere ai giudici di mettere un telefono sotto controllo. Non semplici ipotesi investigative ma la certezza
della colpevolezza della persona intercettata.
■ Nel ddl si prevede il divieto, per il pm, di parlare delle sue
inchieste. Men che meno con i giornalisti, pena l’abbandono del fascicolo.
■ Tagliole pesanti anche per la stampa: multe fino a 465 mila
euro per gli editori in caso di rivelazioni delle carte di cui
si prevede la segretezza fino all’inizio del processo.
■ Il “comma D’Addario”: divieto di registrare una conversazione senza aver prima avvisato l’interlocutore. La escort
sarebbe già in carcere col rischio di restarci fino a 4 anni.
■ Cittadini di serie A e B. I primi sarebbero stati 007, gerarchia
ecclesiale e parlamentari. Per gli agenti segreti, il pm dovrebbe avvisare entro 5 giorni palazzo Chigi. Nel caso di
uomini di chiesa, i suoi superiori. Per gli onorevoli divieto
di avvicinarsi perfino a parenti, amici e collaboratori.
D. S.
altrove se ne fanno tante. Semplicemente si sbaglia la lettura delle statistiche».
Cioè?
«Non si tiene conto del
fatto che in molti paesi stranieri
vengono considerate soltanto
quelle processuali. In realtà, e
questa è una grossa differenza
rispetto al nostro paese, la polizia ha il potere di farle senza
il controllo, la sorveglianza
del giudice. Si tratta di (numerosissime) intercettazioni
non processuali fatte, diciamo,
a fini preventivi, ed escluse dal
conteggio. Ciò porta a dire che
in Italia se ne fanno molte di
più».
E l’altro?
«Riguarda l’eccesso nella
divulgazione dei contenuti
delle intercettazioni che, però,
non sono dovuti a difetti della normativa, che è abbastanza garantista, ma a comportamenti scorretti dal punto di vista deontologico. Spesso è
opera degli stessi avvocati difensori».
Nessuna speranza per chi lo odia: Silvio ha un pacemaker e le statistiche garantiscono lunga vita
Sul mondo batte il cuor di Berlusconi...
Irene Pugliese
Ci ha provato Massimo
Tartaglia con una statuetta e ci
ha provato Madre natura mettendolo a dura prova più di
una volta. Ma niente. Il cuore
di Silvio Berlusconi resiste e
ogni volta batte sempre più forte. E non importa se lo fa con
un aiutino, una scossa che lo
induce a contrarsi. Dal 2006,
infatti, nel petto del premier è
stato impiantato un pacemaker, un dispositivo che consente di stimolare elettricamente il cuore, normalizzandone il ritmo. Una scatolina
2
4 Febbraio 2011
delle dimensioni di un piccolo accendino che, stando alle
statistiche, permette di mantenere una vita normale e in
perfetta forma, anzi nel caso
del premier, con una marcia in
più. Lo aveva detto il suo medico Umberto Scapagnini: «Silvio è tecnicamente immortale». E se Berlusconi si è dimostrato politicamente indistruttibile ormai innumerevoli volte, una resistenza quasi “ultraterrena” sembrerebbe
possederla anche sul piano
fisico. Niente da fare quindi per
tutti quelli che, più di una volta, hanno sperato sotto sotto in
una sua uscita di scena dal
campo politico diversa da una
semplice sconfitta elettorale. E
visti i numerosi guai di salute
le speranze sembravano ben
giustificate.
Le disavventure fisiche di
Silvio Berlusconi iniziano nel
1996 quando gli viene diagnosticato un tumore alla prostata. Operato al San Raffaele
di Milano, Berlusconi se la cava
con pochi giorni di ricovero.
Dieci anni dopo, nel 2006, arriva l’intervento al cuore. Con
un’operazione durata un’ora
nell’ospedale americano di
Cleveland in Ohio, il Cavalie-
re torna come nuovo. Ma, nonostante lo avessero perfettamente curato, sono stati proprio gli americani a mostrarsi
seriamente preoccupati per le
condizioni fisiche del nostro
presidente del consiglio. «La
salute politica e personale di
Berlusconi paga il prezzo degli scandali», a parlare è l’ambasciatore americano a Roma
David Thorne in un dispaccio
datato 27 ottobre 2009 e reso
noto da Wikileaks qualche
mese fa.
Poi ci ha provato Tartaglia
ad accelerare i tempi: è datato
13 dicembre 2009 il lancio del-
la statuetta del Duomo dritto
sul viso di Berlusconi, impegnato in un comizio proprio di
fronte all’edificio simbolo di
Milano. Ma niente. Anche in
questa circostanza il premier se
la cavò con poco: un dente rotto (accuratamente curatogli
dalla ormai molto nota Nicole Minetti, allora igienista dentale) e un po’ di spavento.
“Sul mondo batte il cuor di
Mussolini”, cantavano i fascisti che ora, pur essendosi in
parte allontanati, possono ancora intonare un inno al cuore “eterno” di Silvio Berlusconi.
In soffitta
il ddl
Alfano
Un’estate infuocata è
stata quella appena trascorsa. Tra giugno e luglio, infatti, si sono rincorsi, provvedimenti,
emendamenti e, soprattutto, tante polemiche
sul ddl Alfano sul problema delle intercettazioni. Oltre alle manifestazioni di piazza e alle
sterili discussioni politiche, ampia rilevanza
hanno avuto le aule delle Commissioni giustizia
di Camera e Senato,
dove il dibattito si è concentrato. Un susseguirsi di interventi e sollecitazioni che ha visto protagonista, soprattutto, il
Partito Democratico.
Donatella Ferranti, deputata e capogruppo in
Commissione, aveva
espresso un certo disagio
in merito al ddl. “Con il
pretesto di tutelare la
privacy dei cittadiniaveva detto la Ferrantisi vuole in realtà impedire che la magistratura
e la polizia giudiziaria
indaghino sui comportamenti di illegalità e
corruzione che corrodono la società e troppo
spesso caratterizzano i
rapporti deviati tra politica e affari”.
Anche la Fnsi, sindacato unitario dei giornalisti italiani, ha manifestato a più riprese la
sua contrarietà al disegno. Tra le questioni più
a cuore alla federazione,
l’eliminazione del divieto assoluto di pubblicare, anche per riassunto,
le intercettazioni prima
dell’udienza preliminare
e l’eliminazione della
pena amministrativa per
gli editori. “Il giornalista- ha rivendicato con
forza la federazione- ha
il dovere di far circolare
liberamente le informazioni di cui venga in
possesso, se rilevanti per
la formazione della pubblica opinione”.
D. S.
Reporter
nuovo
Economia
Ministoria di Ligresti, il “padrone di Milano” forse nelle mani dei francesi di Groupama
Vita e miracoli di don Salvatore
Statera: “Tante cadute ma è quello che non se ne va nonostante i guai”
C
he la sua holding non
se la stia passando troppo bene è noto a molti. Che addirittura da oltralpe,
uno dei più grandi concorrenti
europei gli stia tendendo la
mano è davvero strano: fenomeni della globalizzazione finanziaria.
Salvatore Ligresti sembra
non volere mollare. Il “padrone di Milano” deve fare i conti con la più grande crisi finanziaria della sua lunga carriera e alla soglia degli ottanta
anni si sta rimboccando le
maniche, ancora una volta,
per risolverla.
«E’ quello che ritorna sempre, quello che non se ne è an-
Il primo affare
l’acquisizione della
Richard-Ginori
dato mai nonostante i guai,
sembra quasi che si faccia a
gara ad aiutarlo» è questa la cifra che distingue Salvatore Ligresti secondo l’inviato di Repubblica Alberto Statera.
Adesso però ha bisogno di
un nuovo aiuto e la società assicurativa francese Groupama
potrebbe dargli una mano. Il
gruppo guidato da Jean Azèma,
sembra interessato a rilevare il
17-20 per cento del capitale di
Premafin, la holding della famiglia Ligresti che controlla anche Fondiaria-Sai. Don Salva-
tore fa il pesce in barile, e se da
una parte non vuole cedere
troppo il passo e correre il rischio di essere spodestato, dall’altra sa che l’apporto finanziario di Groupama è necessario. Fonsai, infatti, ha appena
sottoscritto un aumento di capitale di 460 milioni di euro e
ha riguadagnato un margine di
solvibilità (che rappresenta la
garanzia della stabilità finanziaria dell’impresa) che a fine
2010 era pericolosamente scivolato sulla soglia critica, ma
ancora non è al sicuro.
L’impero dell’immobiliarista
siciliano, costruito mattone su
mattone, è in bilico. Ma non è
la prima volta. La storia di Ligresti, ingegnere arrivato a Milano alla fine degli anni Cinquanta, è fatta di alti e bassi, di
ricchezza e di condanne, di
rapporti e di affari con la politica. Nasce nel 1932 a Paternò,
nella provincia catanese, ma
svolge la sua vita professionale alle porte del Duomo, nella
Milano del miracolo economico. Inizia presto a fare affari rilevando la Richard-Ginori
e acquisendo il primo pacchetto della Sai, soffiata a Raffaele Ursini, che lo tirerà in un
processo durato fino al 1988
ma che gli darà ragione. La
conquista della società d’assicurazioni, che si concretizzerà negli anni successivi, avviene di pari passo con le prime
amicizie. Ligresti entra in contatto con Antonino La Russa,
senatore missino e compaesa-
SUPERBIG Salvatore Ligresti con la figlia Jonella
no di Paternò: «Don Salvatore è stato seguito amorevolmente La Russa fin dall’inizio
- dice Statera - e anche oggi il
figlio Ignazio è un fiero difensore del ligrestismo. Geronimo
La Russa, figlio di Ignazio siede nel Cda di Premafin».
Il “padrone di Milano” non
si muove solo nell’ambiente finanziario, anzi la sua prima attività è quella di costruttore ed
è grazie a questa che costruirà
case e rapporti privilegiati. Negli anni Ottanta cresce la sua
vera fortuna ma è dello stesso
periodo il primo scandalo,
quello delle “Aree d’oro” in cui
viene alla luce la commistione
tra politica e affari. Ligresti
viene indagato per corruzione
e la giunta comunale retta dal
sindaco socialista Tognoli cade.
Il costruttore riceve una serie
di piccole condanne per abusi edilizi e la sua immagine ne
risente. Inoltre viene fuori che
due terzi delle edificazioni avviate dalla giunta sono del costruttore siciliano, che si conferma padrone nella Milano da
bere.
Questo periodo rappresenta per don Salvatore il primo momento nero. Sebbene
possieda la Sai e abbia diverse partecipazioni in società
come la Pirelli, la Cir di De Benedetti e l’Italmobiliare, “mister 5 per cento” (il nome deriva dalla quota che possedeva nelle diverse società) è indebitato per oltre mille miliardi. I suoi rapporti in politica e nel mondo della finanza gli permettono però di
uscire dalla situazione di impasse: «La Russa conosceva
Cuccia fin dal 1959 e lo ha
presentato a Ligresti - dice
Statera - Cuccia cominciò a
servirsi di don Salvatore quando ebbe bisogno di un contatto con Craxi». A fine anni
Ottanta tenta una prima volta di rivolgersi all’amico Craxi, che spende buone parole
per fargli avere un prestito da
Bnl, ma invano. Allora si rivolge a Mediobanca che inventa una manovra per salvarlo. Enrico Cuccia fa quotare in borsa Premafin, supervalutandola e chiedendo al
mercato di sborsare i soldi per
salvarlo dalla caduta.
Don Salvatore si salva, ma
i guai ritornano qualche anno
più in là. Nel 1992 viene arrestato nuovamente per corruzione, nell’ambito di un’inchiesta in Mani Pulite. Avrebbe infatti comprato a suon di
tangenti, l’appalto per la costruzione della metropolitana
di Milano. L’anno successivo,
il 1993, una nuova accusa e
una nuova condanna. Avrebbe fatto ottenere, alla sua Sai,
la gestione dei contratti assicurativi dell’Eni attraverso altre mazzette. La condanna in
cassazione a due anni e quattro mesi prevede l’affidamento ai servizi sociali.
Nel 2002 Ligresti si rialza
di nuovo in piedi alla grande,
con la scalata a Fondiaria. Dà
vita così a Fondiaria-Sai, secondo gruppo assicurativo
dopo Generali. Vi riesce anche
qui con l’aiuto di Mediobanca che si impegna a trovare i
soldi, e di una serie di banche
(Jp Morgan Chase, Interbanca, Mittel, Commerzbank)
Seguito da La Russa
padre,
fin dal suo esordio
che comprano quote di Fondiaria rivendendola dopo alla
Sai, aggirando il controllo della Consob. Unico problema è
che don Salvatore si indebita
con Mediobanca.
Nel 2004 l’ultimo capitolo
fondamentale. L’entrata in Rcs
e un posto nel cda per la figlia
Jonella. Sponsor dell’operazione il banchiere Cesare Geronzi. L’anno successivo, scontate le pene, arriva anche il via
libera della Corte d’appello,
che cancella dalla fedina penale le sue condanne.
A colloquio con Cisnetto sulla partecipazione degli operai agli utili d’impresa
Dopo il referendum di Mirafiori, l’a.d. di Fiat, Sergio
Marchionne ha ventilato l’ipotesi, per gli operai, di poter partecipare agli utili aziendali
come avviene in alcune aziende del nord Europa. Ne abbiamo parlato con Enrico Cisnetto, editorialista economico.
Dottor Cisnetto, a che tipo
di partecipazione si può fare
riferimento?
«Ci sono casi in cui c’è una
vera partecipazione agli utili:
cioè una quota parte degli utili realizzati dall’azienda viene
distribuita agli operai, con formule che si negoziano azienda per azienda. C’è il metodo
della distribuzione delle azioni: una sorta di compartecipazione esplicita al capitale
aziendale, in cui gli operai ricevono i dividendi che quelle
azioni producono, come gli
Reporter
nuovo
Da noi solo “cogestione all’italiana”
azionisti normali. Oppure c’è
una quota parte dell’utile aziendale che viene distribuito ai lavoratori senza per questo dargli le azioni stesse e farli diventare titolari dei diritti che
sono legati al possesso. Ci
sono poi le forme intermedie
e un altro caso che riguarda anche la partecipazione alle decisioni aziendali: è il fenomeno della cogestione, sperimentato particolarmente in
Germania. Esistono due forme:
la partecipazione dei lavoratori
dentro il cda, di solito attraverso le rappresentanze sindacali, oppure l’affiancamento al cda con dei comitati misti di rappresentanti dei lavoratori e rappresentanti dell’azienda con funzioni con-
sultive».
Funziona questo metodo?
«In Germania è stato ampiamente sperimentato con
buoni risultati, perché assicura una certa pace sociale. I lavoratori sono coinvolti tramite i sindacati nella gestione
aziendale e diminuiscono le
occasioni di conflittualità tra le
parti. In Italia non se ne è mai
fatto niente. L’unico sindacato
che si è espresso favorevolmente è stata la Cisl, la Uil non
è contraria ideologicamente
ma non lo ha mai sposato fino
in fondo, la Cgil lo ha sempre
avversato in nome della lotta
di classe e perché riteneva opportuno che ognuno facesse il
proprio mestiere».
È possibile sviluppare questo fenomeno sul nostro territorio?
«Noi abbiamo una “cogestione all’italiana” che non è
codificata normativamente.
Questo perché abbiamo una
base imprenditoriale diffusa di
piccole imprese molto legate al
territorio, e con pochi dipendenti. In questi contesti c’è una
certa vicinanza tra datore e lavoratore che talvolta si ritrovano ad avere dei rapporti interpersonali. Questo ha permesso di creare degli accordi
lavorativi che spesso sfociano
in una compartecipazione ai risultati aziendali fatta da paga-
Pagina a cura di Francesco Salvatore
menti fuori busta, cioè in nero.
La cogestione all’italiana ha il
pregio di essere elastica ma il
difetto di creare economia
sommersa».
Perché si ricorre a questi
meccanismi?
«Perché in Italia le buste
paga sono notevolmente magre ma il costo del lavoro è alto.
Il lavoratore prende poco ma
il datore paga tanto».
Si arriverà in futuro a normare questo campo?
«Siamo ancora lontani purtroppo. Le cause sono diverse: assenza del legislatore, incapacità di decidere da parte
di Confindustia e sindacati.
Non si è mai riusciti a scardinare il rapporto inutilmente conflittuale tra le parti so-
ciali. Soprattutto da Cgil e
Fiom, c’è stato spesso un approccio sindacale un po’ ideologico: se considero il datore
di lavoro come nemico, non
faccio accordi con lui, ne tanto meno mi metto nella possibilità di corresponsabilizzarmi con lui. Nell’agenda
del lavoro, ancora stiamo discutendo se sia giusto o sbagliato che ci sia un decentramento contrattuale».
La politica si sta muovendo?
«Non in questo verso. Tutto quello che è stato fatto dal
ministro Sacconi è stato emancipare Cisl e Uil dalla Cgil nel
fare accordi separati nel terreno della produttività. Cioè lo
spostamento dal contratto nazionale a quello aziendale di alcune disposizioni dello stesso.
Il caso Fiat è l’esempio più emblematico».
4 Febbraio 2011
3
Mondo
Alla Luiss Guido Carli incontro con una delegazione di politici e industriali del colosso asiatico
India, opportunità da non perdere
Il ministro Sharma: vogliamo che l’Italia abbia da noi un ruolo centrale
F
ra Italia e India da tempo si è
instaurato un consolidato rapporto di partnership, ma il colosso asiatico, che negli ultimi vent’anni è diventato una delle prime 5
economie mondiali, è una miniera
di occasioni che le imprese italiane
non hanno ancora sfruttato. Di questo si è parlato in un incontro alla
Luiss con una delegazione di imprenditori indiani. Insieme al rettore Massimo Egidi e all’economista
Andrea Goldstein, sono intervenuti Anand Sharma, ministro del Commercio del Governo di Nuova Dehli,
e Rajad Bharti Mittal, presidente della Federazione indiana delle Camere di commercio e dell’industria.
Nel giorno dell’anniversario dell’assassinio di Ghandi, gli industriali del subcontinente sono venuti
in Italia per incontrare i loro omologhi, oltre al ministro dello Sviluppo
Paolo Romani, presso la sede di Confindustria. Lo scopo delle riunioni è
quello di organizzare la missione di
sistema in India, che si svolgerà a fine
2011, per stringere accordi di collaborazione strategica soprattutto nel
settore delle infrastrutture.
Ma che cosa chiede il colosso asiatico al nostro paese? L’Italia è il ventiduesimo partner commerciale dell’India e il dodicesimo investitore –
CAPO
DELEGAZIONE
Il ministro del
Commercio Indiano
Anand Sharma è
arrivato in Italia con
gli imprenditori del
suo paese per
cercare nuove
sinergie
sottolinea Sharma - ma il nostro paese rappresenta ancora solo l’1 per
cento degli scambi mondiali di
Roma. Quello che manca, da parte
italiana, sono quegli investimenti
strategici e di lungo periodo. Anche
i settori che in India sono in pieno
boom, come le infrastrutture, vengono ampiamente trascurati dalle vostre imprese. Vogliamo che l’Italia abbia un ruolo centrale nella nostra crescita. Offriamo molte opportunità,
anche per le Piccole e medie imprese.
Oggi l’export italiano dipende molto dall’Eurozona e ancora troppo
poco dai mercati emergenti, che
sono quelli che però crescono di più.
Le Pmi trarrebbero grandi benefici
dall’associarsi con le imprese indiane che, oltre a un minore costo del
lavoro, potrebbero offrire anche il
vantaggio della vicinanza geografica ai mercati emergenti dove si concentra la crescita”.
Anche sui vantaggi che le nuove
sinergie porterebbero all’India, Bar-
thi Mittal, ha le idee chiare: “Ci interessano soprattutto le medie imprese di nicchia nei settori del design,
della manifattura, del tessile, delle
calzature, dell’arredamento, dei beni
di lusso, della componentistica auto
e delle infrastrutture. Le più attraenti
per noi sono le opportunità legate al
design industriale”.
Nell’incontro con i docenti e gli
studenti della Luiss, il discorso si è
allargato anche alle influenze del nostro paese sull’India. “Noi abbiamo
ben chiaro il ruolo della vostra civiltà
e la vostra influenza sul nostro paese – dice Sharma - soprattutto nel
campo della musica e della moda.
Non solo, anche Gandhi è stato influenzato da personaggi come Mazzini, Garibaldi e Cavour nella sua lotta per creare uno stato unitario”.
Essendo il secondo paese più
popoloso al mondo dopo la Cina, il
gigante dell’Asia centro meridionale viene spesso paragonato al paese
del dragone. Eppure le due potenze asiatiche sono sorte percorrendo
strade diametralmente opposte. L’India è una democrazia, anzi è il più
grande paese democratico del mondo, e questo ha influito anche nelle scelte di politica economica. A differenza della Cina, infatti, che del
protezionismo e dell’export ha fatto la sua fortuna, Nuova Dehli ha cavalcato l’onda dell’interconnessione,
degli scambi con gli altri paesi.
Bharti Mittal, che è anche vicepresidente di una delle conglomerate
più importanti dell’India, la Barthi
Entherprise, ci tiene a ricordarlo:
“La crescita economica dell’India è
partita 20 anni fa quando il paese ha
aperto agli investimenti stranieri e al
libero mercato. L’India vuole mostrare al mondo come interconnettersi in quasi tutti i settori”.
Non solo in Niger, l’iniziativa per creare barriere contro la desertificazione
Piantare in Africa salva il mondo
Come “Il nulla” del romanzo “la Storia infinita” di
Michael Ende che inghiotte il
mondo circostante, l’avanzata
del deserto nell’Africa subsahriana minaccia la sicurezza alimentare dei paesi più poveri.
Uno dei più colpiti è il Niger,
che per due terzi del suo territorio è occupato dalle sabbie
del Sahara. Per far fronte a questo grave problema nell’ex colonia francese, qualcuno ha
pensato di erigere una barriera di alberi in grado di fermare l’inaridimento dei terreni nigerini.
L’idea è venuta a Tree-nation,
una Ong internazionale con
base a Barcellona, che dallo
scorso marzo ha iniziato a
piantare alberi vicino alla città di Dosso a centocinquanta
chilometri dalla capitale Niamey. Tramite il sito dell’organizzazione è possibile fare una
donazione (da 7 a 65 euro) che
permette di piantare un baobab
o un’acacia e di contribuire a
realizzare impianti di irrigazione per far vivere la foresta.
Fra i partner della campagna
4
4 Febbraio 2011
nigerina di Tree-nation (che
non opera solo nell’ex colonia
francese, ma anche in Asia e in
America) c’è anche il settimanale italiano “Internazionale”,
che tramite l’iniziativa “Un albero per ogni copia venduta”,
aiuta il progetto.
Oltre a formare una barriera contro la desertificazione e
agosto, infatti, in tutto il paese si celebra la “festa dell’albero”. La manifestazione è stata
istituita negli anni ‘70 dal presidente Seini Kountché, da allora, una volta l’anno, la popolazione dell’ex colonia francese contribuisce alla lotta contro la desertificazione, piantando alberi. Non è solo il Ni-
La siccità interessa anche Burkina Faso, Ciad,
Mali e minaccia la sicurezza
alimentare di oltre 7 milioni di persone
le tempeste di sabbia, il muro
di alberi sarà un vero e proprio
polmone che farà diminuire il
tasso di anidride carbonica
nell’aria, e immetterà una maggiore quantità di vapore acqueo, capace di innestare un
circolo virtuoso, che accrescerà le precipitazioni nel paese,
migliorando anche le condizioni del suolo. Nel Niger, comunque, hanno ben presente
quanto possa essere importante una cintura verde. Il 3
ger a puntare sul rimboschimento. Nel 2005, infatti,
l’Unione Africana e la Cen-Sad
(la Comunità dei Paesi del Sahel e del Sahara) hanno messo a punto il progetto internazionale chiamato “Grande Muraglia Verde”, che ha lo scopo
di creare una fascia di vegetazione – lunga oltre 7 mila chilometri e larga 15 – che va dalla Mauritania al Gibuti. Il pro-
getto coinvolge gli 11 paesi che
si affacciano sul Sahel. Se piantare alberi può sembrare poca
cosa, quasi un gesto simbolico,
forse non si ha ben chiara la situazione geopolitica dell’Africa subsahariana. Oltre al Niger
- che è uno dei paesi più poveri
della regione del Sahel (la regione a più alto rischio desertificazione dell’intero continente africano), secondo le
Nazioni Unite, la siccità interessa anche Sudan, Burkina
Faso, Camerun, Ciad e Mali e
minaccia la sicurezza alimentare di oltre sette milioni di persone, circa metà dell’intera popolazione dell’area. E alla difficile situazione economica
non corrisponde una migliore
congiuntura politica. Un esempio su tutti è rappresentato dal
conflitto del Darfur. Oltre alle
questioni etniche-religiose e
a quelle legate al petrolio, un
ruolo importante nella questione lo ha giocato la desertificazione. Non a caso il rappresentane della Nato, Ale-
Pagina a cura di Stefano Petrelli
SPERANZA Le nuove piantagioni in Niger per fermare il deserto
xandrios Papaioannou, durante un convegno al Senato
americano su clima e sicurezza, tenuto a Washinghton lo
scorso giugno, ha definito
quella del Darfour come la
“prima guerre climatica”. A
causa del progressivo inaridirsi dei terreni, infatti, le risorse naturali sono diventate
insufficienti per permettere il
sostentamento sia delle popolazioni nomadi del Nord – la
cui principale attività è l’allevamento – sia di quelle sedentarie del Sud, che vivono di
agricoltura. Anche per questo
motivo, i contrasti fra le due etnie, che pure duravano da secoli, sono sfociati in atti di aperta ostilità. Non è un caso che
a vincere il Nobel per la pace
nel 2004 sia stata la keniota
Wangari Maathai, che con la
sua organizzazione Green belt
ha piantato in 33 anni oltre 30
milioni di alberi. La motivazione del premio spiegava che,
con la sua attività, Maathai
“aveva promosso lo sviluppo
sostenibile, la democrazia e la
pace”.
Reporter
nuovo
Primo Piano
La ricetta per “rifare l’Italia”. Condivisa da superesperti la tesi del premio Nobel Phelps
“Rischio, passione e innovazione”
“Prima, però, è necessario intervenire per migliorare il contesto sociale”
BERNABÈ
PASSERA
Meno burocrazia
Ok, ma serve altro
Per Franco Bernabè, gran visir dell’imprenditoria italiana, il futuro dell’economia del
Belpaese si potrebbe tracciare in tre mosse:
meno tasse, meno burocrazia e meno rigidità
sul lavoro. “Per rifare l’Italia occorre abbattere gli ostacoli. Se qualcuno qui si mette a fare
impresa, deve fare i conti con dei costi ingestibili”. Centrale diventa, quindi, il ruolo della
politica che dovrebbe adottare una normativa più snella per facilitare il compito delle industrie. Ma restano le gravi responsabilità degli imprenditori, colpevoli di guardare solo all’immediato e di non pianificare progetti a più
ampio respiro. E più che di finanziamenti a
pioggia il Paese, secondo l’amministratore delegato di Telecom Italia, avrebbe bisogno di imparare a utilizzare le risorse. “In Italia si e’ sempre cercato di fare innovazione, ma se si ripercorre la storia italiana degli strumenti per
agevolarla l’elenco e’ un cimitero di cadaveri”. Perciò il progetto di un sistema di banche
creato ad hoc per investire sulla tecnologia non
entusiasma più di tanto Bernabé che, però,
punta sull’entusiasmo dei piccoli imprenditori: “In Italia ci sono 4 milioni di piccole-medie
imprese, sono loro il futuro dell’Italia”. Anche
perché, - ha ricordato - sono state loro, non
le imprese tecnologicamente più avanzate, a
realizzare le più grandi innovazioni.
«Non trovo sbagliata l’iniziativa di una banca per l’innovazione, anche se io vedo meglio
un fondo di garanzia che supporti i soggetti che
investono in innovazione e che hanno le competenze per farlo». Corrado Passera, amministratore delegato del Gruppo Intesa San
Paolo, è d’accordo con Phelps ma indica anche una strada diversa, incardinata su una
maggiore razionalizzazione delle risorse.
Per Passera, inoltre, il compito degli istituti di credito non si esaurisce con i sussidi e
le sovvenzioni. Le banche devono andare oltre il credito, svolgendo un ruolo-ponte tra progettisti e investitori. Si tratta di aiutare chi sviluppa nuove idee a trasformare le loro creazioni in “business plans”, piani d’affari, e di presentarli a dei finanziatori. Un compito per cui
Intesa San Paolo si è adoperato con successo
negli ultimi anni, sostenendo e dando vita a
numerose “start up”, nuove imprese in cui vi
sono ancora processi organizzativi in corso.
Ma per curare l’Italia serve anche altro;
sono molti i campi in cui il Paese si trova in
una situazione di retroguardia, soprattutto a
causa di alcune lacune legislative. Per questo sarebbe opportuno, afferma, “porsi il
tema del premio fiscale all’innovazione e dotarsi di una normativa sul venture capital, perché non averne una adeguata oggi è un vero
problema».
PROFUMO
Fallire non è un’onta
Sono due le parole-chiave della rinascita
italiana per Francesco Profumo, rettore del
Policlinico dell’Università di Torino: rischio e
tempo. “Il fallimento può essere l’inizio di una
nuova avventura e non lo si deve considerare
un’onta”.
Le imprese, sostiene Profumo, devono sapersi mettere in gioco, accettando i pericoli di
un mestiere difficile dove intraprendenza e
creatività sono strettamente legate. “Il Policlinico in sette anni ha creato, grazie al lavoro
di un campus con 25 centri di ricerca privati, circa tremila posti di lavoro”.
Il tempo è un altro elemento fondamentale perché la scalata al successo, nell’imprenditoria, si gioca essenzialmente sulla velocità, sulla rapidità di scelta. Solo con una
tempististica adeguata si riesce a battere la
concorrenza. Nella sfida del “business” arrivare con un anno o due di ritardo è un errore imperdonabile. Una valutazione di cui spesso qui da noi non si tiene conto. “In Italia il tempo non ha valore”, afferma. E al riguardo, Profumo cita il caso di Loris DeGioanni, nel 2005
ricercatore all’ Università della California
dopo una laurea al Policlinico e, fino a ieri,
capo di un’azienda con trenta dipendenti appena ceduta a una multinazionale quotata sul
listino Nasdaq. “Mi ha detto che in Italia non
avrebbe mai potuto sviluppare la sua idea. Sarebbero passati troppi anni”.
Reporter
nuovo
INNOVAZIONE Anche per la media industria sofisticate macchine in continua evoluzione
C
ome rimettere in moto il
“sistema Italia”, gravato da una crisi senza
precedenti e da un perenne immobilismo? Come stimolare la
crescita e la produzione, chiavi
strategiche dell’intero comparto
economico e difficili scommesse
per gli anni a venire in un Paese così poco dinamico e oppresso dalla burocrazia? Con rischio,
passione e innovazione. È la ricetta di Edmund Phelps, economista statunitense e premio Nobel del 2006, illustrata al mondo imprenditoriale, politico e
finanziario nel convegno “Per rifare l’Italia – La grande sfida dell’innovazione”, tenutosi mercoledì alla Sala della Regina a Palazzo Montecitorio. Phelps, il cui
intervento ha costituito il centro
della discussione, ha presentato il suo progetto delle banche per
l’innovazione, un nucleo di fondi dedicato all’investimento per
le aziende ad alto tasso creativo
e gestito dallo Stato. L’esempio è
quello della Deutsche Bank, il colosso bancario tedesco che negli
anni ’80-90 dell’Ottocento finanziò con ingenti capitali il settore elettrico del Paese. O ancora, dell’economia americana
che, sebbene non se la passi
molto bene, è permeata dalla curiosità e dallo spirito d’avventura, sentimenti tesi alla prospettiva di una buona vita.
Un piano orientato soprattutto ai giovani, che devono essere messi nelle condizioni di realizzare i propri talenti e pensato a lungo termine; incentrato,
quindi, più sugli gli investimenti che su i semplici prestiti. Il concetto-base del rischio si esplicita soprattutto nella proposta di
tassi di interesse proporzionati all’azzardo dell’impresa proposta.
Per Phelps l’economia del futuro è l’economia che crede e sviluppa l’innovazione tecnologica,
con un occhio al profitto e alla
soddisfazione personale.
E in questo, il nostro Paese è
davvero alla retroguardia: un’indagine del Sole 24 Ore infatti ha
piazzato l’Italia agli ultimi posti tra i Paesi dell’Unione Europea in fatto di innovazione e ricerca. Anche se per l’economista
La modernizzazione
per Fini
volano della ripresa
statunitense la situazione non è
poi così compromessa: “L’Italia si
giova di una grande concorrenza: sembrerebbe il candidato
ideale a questo tipo di spinta per
l’innovazione. Bisogna ricreare
lo spirito d’impresa, stimolare la
crescita personale e tocca alle istituzioni tagliare quei vincoli burocratici che si oppongono alla
modernizzazione».
La strategia di Phelps è stata condivisa sostanzialmente da
tutti i presenti, seppur con qualche puntualizzazione, in particolare sull’esigenza delle banche
d’innovazione, espressa dal mondo dell’imprenditoria con Fran-
co Bernabè, amministratore delegato di Telecom Italia, delle
banche con Corrado Passera,
amministratore delegato del
Gruppo Intesa San Paolo e della politica, con Maurizio Lupi,
vicepresidente della Camera, ed
Enrico Letta, vicesegretario del
Partito Democratico. Su un punto, però, c’è stata un’intesa totale: prima di modificare il mondo dell’economia, è necessario intervenire sul contesto sociale
per costruire una società moderna e innovativa. Solo dopo
sarà possibile innestare un rinnovamento tecnologico che punti alla trasformazione in senso dinamico del Paese. Il presidente
della Camera Gianfranco Fini
ha ha poi chiarito l’importanza
del concetto di intraprendenza,
una delle parole-chiave nella
grande sfida dell’innovazione.
“L’Italia deve saper essere intraprendente. Mi riferisco sia all’Italia dell’imprenditoria che a
quella della politica. Il centocinquantenario dell’Unità deve
rappresentare uno stimolo per un
interesse corale che premi l’iniziativa e il merito, soprattutto
quello dei giovani. La modernizzazione deve essere il volano
della ripresa”.
E oggi essere intraprendenti
– hanno detto un po’ tutti – significa anche lavorare per eliminare l’alta insoddisfazione
giovanile. Perché, come ha affermato Fini, “se aiutiamo i
giovani a creare il loro futuro,
aiutiamo l’Italia a costruire il suo
futuro”.
Pagina a cura di Giacomo Perra
LETTA
Tornare protagonisti
“A noi non mancano le idee. Manca la volontà di andare fino in fondo”. Per Enrico Letta, vicesegretario del Partito Democratico, il
Paese ha bisogno di ritrovare la voglia di tornare protagonista. Un’aspirazione che deve
coinvolgere non solo le forze migliori del sistema industriale e finanziario ma tutti i singoli individui, specialmente i più giovani. Si
pone in questa direzione la proposta di legge sui “contratti ad avvenire”, che prevede
la defiscalizzazione per tutti gli assunti tra i
20 e i 30 anni. “I trentenni di ieri facevano
figli, lavoravano e mantenevano i genitori.
Quelli di oggi sono mantenuti dai genitori e
se lavorano sono precari. Non credo serva
altro per spiegare la situazione italiana. Con
il Giappone siamo il Paese che ha fatto meno
figli”.
Una dura presa di posizione che si avvale anche di altri numeri negativi: “Il reddito pro
capite in dieci anni è andato indietro: siamo
l’unico Paese in cui ciò è accaduto e non è
colpa della crisi”.
Un altro problema per Letta è poi costruito
dal mercato che in Italia sarebbe inesistente. “Il mercato consente lo sviluppo del talento,
consente di incrociare fallimento e ripartenza. Il fatto è che noi proprio nel mercato abbiamo fatto passi indietro da giganti. E invece
l’innovazione ha bisogno del mercato per crescere”.
4 Febbraio 2011
5
Cronaca
A oltre un secolo dalla fondazione, l’Aci punto di riferimento per milioni di automobilisti
Quel club d’oro che muove l’Italia
Ma adesso tagli, sprechi e superbonus rischiano di mandarla in panne
Stefano Silvestre
Erano gli inizi del ventesimo secolo. Le auto erano ancora “carrozze senza cavallo”, che procedevano
sbuffando al piccolo trotto su strade
polverose. Negli Stati Uniti iniziava
il progetto della mitica Ford modello T, mentre in Italia la Fiat produceva in poche centinaia di esemplari il suo modello 24-32 hp. Proprio
in quest’epoca pionieristica, è arrivata
l’intuizione dell’Aci – Automobile
Club d’Italia - che sta proprio nell’aver capito le potenzialità del trasporto automobilistico, in un periodo in cui, in Italia le auto in circolazione erano poco più di 2 mila, a
fronte degli oltre 34 milioni di veicoli attuali. Nel mirino delle critiche,
accusata di essere una holding più
che un “Ente pubblico non economico senza scopo di lucro”, come si
autopromuove, è ora sotto attacco a
causa dei bilanci degli ultimi due
anni, che hanno fatto segnare un
buco di oltre 30 milioni di euro di
passivo l’anno. Nell’occhio del ciclone
sono finiti quindi Enrico Gelpi e
Ascanio Rozera, rispettivamente presidente e segretario generale.
A Roma, la sua sede è in un imponente palazzo in vetro che affaccia sull’importante snodo della sta-
LA SEDE
L’edificio romano
dell’Aci, nei pressi
di stazione di
Termini. Da qui e
dagli altri 106
Automobile club
provinciali sparsi
in tutta Italia
coordina i servizi
di aiuto alla
mobilità stradale
zione Termini, sul quale campeggia
una grande scritta con il logo del
club. Da qui, come dagli altri 106 Automobile club provinciali in tutta Italia, l’Aci coordina i servizi di aiuto alla
mobilità stradale, ai quali si sono aggiunti negli anni anche due call center, varie agenzie assicurative e oltre
700 punti di soccorso. Questi i numeri: oltre 1 milione di soci, 112
mila chiamate ricevute per informazioni automobilistiche, oltre 560
mila interventi di soccorso e 48 mila
interventi sanitari l’anno per un
giro di affari da quasi un miliardo di
euro.
Ai canali di informazione tradizionali, come radio e telefono – immortalato nel cinema dalla chiamata dell’apprensivo e pedante socio Aci interpretato da Carlo Verdone in “Bianco, rosso e Verdone”
del 1981 – si è poi aggiunto anche
il web, con aggiornamenti in tempo reale, approfondimenti su auto
e turismo e la possibilità di paga-
re il bollo online.
L’Aci è promotore del Gran Premio d’Italia a Monza e si avvale di un
accordo di collaborazione con la Fia,
la Federazione internazionale dell’Automobilismo di cui Gelpi è il numero due, intesa che può vantare anche l’organizzazione di un’inedita
tappa del mondiale rally in Sardegna.
In Europa partecipa alle iniziative dell’Ufficio Europeo della Fia a
Bruxelles e non solo a livello sportivo. Negli ultimi anni, infatti, è la si-
curezza al volante, attiva e passiva,
a farla da padrone in Europa. Alla
fine dello scorso anno, l’Aci è diventata il primo organismo del nostro paese a fare parte dell’Euroncap
- il programma internazionale di test
sulla sicurezza dei veicoli promosso da associazioni di case automobilistiche – attraverso il quale le maggiori case costruttrici mondiali inseguono l’obiettivo delle cinque
stelle di valutazione nei severi crash
test europei, sviluppati anche con la
collaborazione del Club italiano e diventati ormai segnale indiscutibile di
riconoscimento dell’affidabilità e sicurezza della vettura.
Quale futuro per l’Automobile
Club italiano? Dopo il piano di dismissione degli immobili annunciato
nei giorni scorsi – come rivelato da
un’inchiesta di Repubblica – l’Aci è
stata costretta a cedere a Intesa San
Paolo la controllata Banca Sara.
Con i sindacati in agitazione e le critiche per sprechi, bonus d’oro ai dirigenti e i crescenti interessi della politica, il pericolo maggiore è che,
quello che un tempo era tra i Club
automobilistici più prestigiosi del
mondo, rimanga in panne e accostato al ciglio della strada in eterno.
Stavolta senza soccorso stradale,
però.
Le linee morte dell’Atac. L’incredibile caso del bus Nomentana-XX Settembre
Un miraggio quel 140 vuoto e veloce
Giacomo Perra
“Ogni giorno è così, i posti
a sedere sono tutti vuoti”. Sorride Mario mentre scende dal
piccolo bus-navetta che ha appena condotto al capolinea, in
via XX Settembre: sono le
quattro del pomeriggio e il
suo turno sull’autobus “fantasma” è appena terminato. “È
una pacchia guidare il 140.
Non sale mai nessuno e posso
viaggiare rapidamente e senza
soste, di giorno e di notte”, confessa. Diciassette partenze in
tredici ore; dalle sette e mezza
del mattino alle otto e un quarto di sera. Una ogni quarantasei minuti, un’eternità. Ovviamente con pochissimi passeggeri a bordo; giusto qualche
vecchietta che, come questo
pomeriggio, ha deciso di andare
al Verano. “La gente – spiega
ancora Mario – spesso si stufa
di aspettare così tanto e sceglie
di prendere qualche altro pullman”. Il 90, ad esempio, che
sulla Nomentana passa ogni
quarto d’ora, minuto più, minuto meno. O il 90D, che è an-
6
4 Febbraio 2011
cora più sollecito nell’imbarcare
i passeggeri con tempi d’attesa
che si aggirano sui dieci minuti.
Una frequenza irraggiungibile
per i ritmi lenti del 140. La linea è nuova, (è stata inaugurata
due anni fa), ed è ancora in via
sperimentale. 24 fermate la
percorrono da capolinea a capolinea; dalla Batteria No-
stinazione, a meno di essere fortunati e acchiappare l’autobus
al volo. Certo, poi c’è il vantaggio di viaggiare comodamente seduti, evitando la ressa e tutti gli inconvenienti che
ne derivano. Peccato che per
godere di questi privilegi si debba pagare il dazio di un’attesa
spesso snervante. Un sacrificio
L’autista: “Una pacchia guidarlo”.
L’Agenzia per la Mobilità: “È un servizio utile”
Gli altri casi del 434 e del 221
mentana fino a Via XX Settembre e viceversa, passando
per Villa Torlonia, il Policlinico Umberto I, l’Università La
Sapienza, il Cimitero Monumentale del Verano, Tiburtina
e Piazza dell’Indipendenza.
Sono solo due, però, le vetture a disposizione degli utenti;
quando una parte dalla Batteria Nomentana, l’altra sta lasciando Via XX Settembre. Un
guaio per chi volesse o dovesse precipitarsi verso qualche de-
che sembra fuori da ogni logica. Non per l’ufficio stampa
dell’Agenzia Roma Servizi per
la Mobilità, l’ente responsabile della pianificazione e della
programmazione della mobilità nella Capitale, che difende, (senza peraltro essere molto convincente), la scelta della linea 140. “È un servizio utile; vista l’affluenza e la compresenza di altre linee, due vetture sono giustificate. La linea
è stata istituita con cognizio-
ne di causa”. C’è da dire, però,
che la 140 non è l’unica linea
“morta” dell’Atac. Basta fare un
giro sulla “rete”, tra i tanti forum sparsi su Internet, dove i
pendolari insoddisfatti sono
molti e si fanno sentire. Nel forum del Comitato di Quartiere di Casal Monastero, frazione a nord-est della Capitale, un
anonimo internauta si lamenta dell’”inutilità del 434, sempre vuoto”, mentre su Skyscraper City un altro utente
protesta per la scarsa efficacia
dei bus “221”. Mario saluta e
se ne va, un collega lo sostituisce. “Adesso divertiti tu,
io ho già guidato per sei ore
oggi. Non preoccuparti, c’è
poca gente anche oggi”. Il suo
è stato un viaggio breve, neanche quindici minuti da capolinea a capolinea. Non passa mezz’ora e il “nuovo” autista monta sul mezzo. Dà uno
sguardo in giro: non ci sono
passeggeri in vista. Posa il
giornale, poi gira la chiave e accende il motore. Un rombo e
il 140 è di nuovo in partenza.
Vuoto.
FERMATA Siamo a Villa Torlonia-Nomentana. Sotto l’autobus
fantasma fermo al capolinea di via XX Settembre.
Reporter
nuovo
Costume & Società
Mario Fabiani, primario di Audiologia: «Assolte le discoteche, iPod e autoradio a palla»
Non è il rumore che rende sordi
Può dar vita a pericolosi stress. I casi limite. Iniziativa di AudioNova
Dario Parascandolo
Sabato sera, quattro ore
in discoteca, con volumi paragonabili a un aereo in fase
di decollo, senza un minuto di
sosta. Un contesto che farebbe tremare ogni genitore. Eppure il Cocoricò e La Baia Imperiale non creerebbero nessun danno rilevante, almeno
all’udito. A sfatare il mito
dell’equazione decibel e sordità è il professore di Audiologia all’Università La Sapienza si Roma Mario Fabiani, spiegando che «a meno
che non si vada a ballare tutti i giorni per dieci anni di fila,
l’orecchio non corre alcun rischio di danni permanenti. Di
sicuro – avverte - l’organismo
è sottoposto a una serie di stimoli, che, associati al consumo di alcol e droghe, creano
un mix micidiale di stress fisico». Identica assoluzione
per gli ultimi modelli di autoradio o di lettori mp3, che
potrebbero al massimo generare una situazione di stordimento. Così come i demoniaci concerti rock, che per
due ore percuotono i timpani con i loro 110 decibel.
Quasi un black and decker in
piena attività. Insomma, il
rumore va bene, a patto che
non se ne abusi.
Ma è realmente possibile
L’OTORINO La riduzione progressiva dell’udito è un disturbo molto frequente
pensare che in un mondo
urbano immerso nel traffico,
tra ambulanze, sirene, elicotteri, clacson e urla, l’orecchio umano non vada incontro a danni o patologie? «Sicuramente i nostri nervi sono
a repentaglio – prosegue Fabiani - ma davvero non si diventa sordi con il rumore ordinario, anche se fastidioso.
Rischiano grosso, invece, le
categorie professionali che
ogni giorno, per decenni,
sono a contatto con martelli
pneumatici, traffico cittadino,
motoseghe e macchinari rumorosi in generale. Un bombardamento sonoro quotidiano che nel giro di dieci
anni potrebbe portare a una
progressiva perdita di percezione delle frequenze alte.
Dopo trent’anni di esposizione, invece, si rischiano seri
problemi di comunicazione».
È stato provato che nei luoghi
di lavoro è possibile sopportare un rumore di intensità
fino a 80 decibel, ma già 85 db
potrebbero rappresentare un
serio problema. Nei casi in cui
durante l’età lavorativa si subiscono rumori simili, c’è il 35
per cento di possibilità di riportare danni all’udito. Chi,
invece, lavora per 40 anni con
un rumore di 90 db, rimarrà
sordo nel 50 per cento dei
casi. Intensità simili sono percepibili, ad esempio, nelle falegnamerie o nel traffico intenso.
La riduzione progressiva
dell’udito, che di solito si
presenta dopo i sessant’anni
di età, è il terzo disturbo cronico dopo l’ipertensione e
l’artrite. Un disturbo che, anche se parziale, oltre a creare gravi difficoltà nella comunicazione con le altre persone, porta chi ne è affetto a
perdere la propria sicurezza,
la fiducia in se stesso, a innervosirsi con estrema facilità e a isolarsi. E la perdita
neurosensoriale progressiva
non è per forza legata all’invecchiamento, almeno secondo il centro acustico AudioNova, che, a distanza di
due mesi dalla Giornata Nazionale della Sordità, ha lanciato una campagna di sensibilizzazione alla prevenzione delle patologie dell’orecchio. Presso i propri centri su
tutto il territorio romano, i
professionisti di AudioNova
si sono resi disponibili dall’1
al 3 febbraio per effettuare
esami gratuiti a tutti. Soprattutto perché alla base delle
malattie uditive non vi è soltanto il rumore, ma anche
uno stile di vita poco sano. «I
campanelli di allarme – conclude il prof. Fabiani – devono assolutamente squillare in caso di soggetti con colesterolo alto. L’orecchio interno è vascolarizzato da
un’unica arteria, e, nel caso in
cui all’organo affluisse poco
sangue, potrebbero insorgere
problemi che a lungo tempo
creano danni irreversibili».
Adozioni a distanza. Sono più di 150 in Italia le organizzazioni a sostegno dei minori nel mondo
Così Sangeeta ha conquistato il diploma
Daniele Serio
Cibo, cure, istruzione. Bisogni primari che quasi la
metà dei bambini nel mondo,
molto spesso, non vede soddisfatti. Per questo, da decenni ormai, esistono innumerevoli associazioni che
hanno il compito di dare un
futuro ai piccoli più sfortunati. Una delle forme di solidarietà in maggiore espansione è quella del sostegno a
distanza (SaD): “Un impegno
morale- recita la Carta dei
Principi che coordina l’azione dei vari soggetti impegnati nel sostegno ai bambini disagiati- a inviare tramite referenti responsabili, un
contributo economico stabile e continuativo , del cui uso
il donatore riceve riscontro,
rivolto a minori, adulti, famiglie, comunità”. L’obiettivo
Reporter
nuovo
è quello di offrire la possibi- in India. Terza di quattro fra- cento euro l’anno- ha proselità di migliorare le condizioni tellini orfani di padre, San- guito Gianpiero Perra- e, ogni
di vita senza dover abbando- geeta ha potuto conseguire il sei mesi, abbiamo ricevuto
nare il proprio paese d’origi- diploma di scuola superiore materiale dettagliato relativo
ne.
grazie al supporto dei suoi alla vita della bambina”.
In genere, il donatore ver- donatori: “Abbiamo intraNon tutte le organizzasa una quota annuale a una preso la SaD tramite il Pon- zioni, però, presentano lo
delle varie associazioni che, tificio istituto per le Missio- stesso grado di affidabilità. Le
tramite un reprime e più
ferente preimportanti
A Mumbai sono arrivati per lei
sente nel paeagenzie inse in cui vive
duecento euro l’anno. L’obiettivo è di non far loro ternazionali
il minore, si
di adozione
preoccupa di
f u r o n o
abbandonare il paese d’origine
far arrivare a
World Videstinazione.
sion e Plan
Se tutto va a buon fine, quei ni estere (Pime)- ha spiegato International, presenti in desoldi vengono utilizzati per Gianpiero, suo papà adottivo- cine di paesi sparsi per il
fornire tutta l’assistenza di cui La loro azione consiste nella mondo. In Italia, la prima fu
un bambino ha bisogno. E’ ricerca di famiglie che vo- proprio il Pime, alla fine dequello che ha vissuto San- gliano aiutare questi bambi- gli anni ’60, cui ne seguirono
geeta, adottata nel 2003 dal- ni fino a quando non termi- tante altre, laiche e cattoliche.
la famiglia Perra, quando nano la scuola”. Finiti gli
Oggi se ne contano più di
aveva dodici anni. Una storia studi, l’associazione propone 150. Così tra organizzazioni
di estrema povertà, ambien- alle famiglie l’adozione di al- non governative, istituti ectata nella periferia di Mumbai, tri bambini. “Paghiamo due- clesiali, comitati, gruppi in-
formali privati e fondazioni
che cercano di tutelare i diritti dei bambini, la scelta, per
un potenziale donatore, diventa sempre più rischiosa
oltre che difficoltosa. Inoltre,
non tutti gli enti operano allo
stesso modo con i fondi raccolti. Le varie organizzazioni, in genere, applicano tre
differenti tipologie di interventi sul campo: i progetti
che destinano il denaro ai
singoli bambini adottati a
distanza; i programmi di sviluppo a favore di tutti i bambini che vivono nella stessa
comunità di quelli adottati a
distanza, al fine di evitare discriminazioni; infine, progetti di cooperazione allo
sviluppo che si estendono a
un’intera area geografica.
Dunque, non soltanto i bambini sono i beneficiari diretti dei contributi.
I DISTURBI
Gli anziani
e le donne
i più colpiti
La presbiacusia è la
perdita dell’udito dovuta all’avanzamento dell’età. Oggi prevale la
tendenza a non considerare la presbiacusia
una patologia vera e
propria, ma soltanto un
segno fisiologico dell’invecchiamento, che
per la sua caratteristica
di imprescindibilità dalla vita deve anch’esso essere considerato fase fisiologica del percorso.
Per acufene si intende quel disturbo costituito da rumori che, sotto diversa forma (fischi,
ronzii, fruscii, crepitii,
soffi, pulsazioni, eccetera) vengono percepiti
in un orecchio, in entrambi o, in generale,
nella testa, e che possono risultare fastidiosi a
tal punto da influire sulla qualità della vita di
chi ne soffre. Si originano all’interno dell’apparato uditivo ma vengono spesso percepiti
come suoni provenienti dall’ambiente esterno. È stato calcolato che
nella popolazione priva
di difetti uditivi un soggetto su dieci soffre,
mentre nella popolazione con ipoacusia, cioè
con riduzione uditiva, la
percentuale sale a circa
il 50 per cento.
Spesso all’acufene è
associata l’otosclerosi,
una malattia a carattere
ereditario che interessa
esclusivamente l’orecchio, coinvolgendo frequentemente entrambi i
lati. L’otosclerosi comporta principalmente un
deficit uditivo di tipo
progressivo e leggeri disturbi dell’equilibrio. La
malattia interessa di solito individui adulti, colpendo più frequentemente le donne.
D. P.
4 Febbraio 2011
7
Costume & Società
Non si ferma l’attività degli emuli di Basquiat. Veloce rassegna nelle strade della Capitale
Ascolta, il muro parla (e sporca)
Brillanti, insolenti, romantiche, le scritte sono una spesa per il Comune
Irene Pugliese
Esistono tanti modi di vivere e scoprire una città. Bisogna camminarci,
attraversarla, studiarne la storia. Ma
si può anche leggere. E per quanto riguarda Roma è piuttosto facile. Dalla statua parlante di Pasquino, al cui
collo si appendevano versi e svolazzi d’acida poesia alla faccia dei potenti,
la scritta sul muro è diventata tradizione. Ci si arma di vernici, di spray
e si schizzano case, monumenti, tangenziali e gallerie della metropolitana. Roma si svela anche così. La storia raccontata sui muri. Quella globale,
di tutti e quella privata. Chi era Costanza per esempio? Ce lo siamo chiesti tutti passando sotto il ponte Flaminio direzione Corso Francia e alzando gli occhi verso la sua volta più
alta dove per anni campeggiava enorme la rima baciata e dolorosa Costanza
ti amo ma senza speranza. La capacità dell’Urbe e dei suoi figli di trattare
di calcio, politica e sentimenti con lo
stesso tono ambiguo e malandrino è
un’arte. Scritte immortali, alcune.
MURI COLORATI In alto la scritta di via di Porta Labicana a San Lorenzo.
In basso la parete di via Aldo Manuzio, dietro al Mattatoio e un writer all’opera
Mai cancellate. Che resistono al tempo e al traffico della Prenestina, per
esempio, dove da quindici anni c’è
uno sberleffo più degno di un elzeviro:
“Co sto caldo ce voleva un bel governo ombra”. O sulla Roma-L’Aquila, dove sopra un pilastro si legge il
dogma religioso: “Dio c’è”. Che però
si trasforma in barzelletta grazie alla
frase aggiunta: “O ce fa?”. Percorrendo
la tangenziale est prima dell’incrocio
con la Nomentana è enorme la scritta dedicata a Pietro Taricone probabilmente opera del Gruppo Istinto rapace, la scuola di paracadutismo
sportivo di CasaPound di cui l’attore faceva parte. “Muore giovane chi è
caro agli dei, ciao Pietro”, hanno
scritto in caratteri gotici. “Ciao Antò”
con una stella rossa al centro, invece,
è la scritta più grande sulle antiche
mura di via di Porta Labicana. D’altronde siamo a San Lorenzo, il quartiere di via degli Equi, dove la saracinesca di ogni negozio quando è chiusa mostra un disegno colorato diverso. Forme di arte dunque definite da
alcuni puro vandalismo. Ma dov’è il
vero? Non si può fare di tutta l’erba
un fascio, ci spiega Massimo Canevacci, docente di antropologia culturale all’Università La Sapienza di
Roma ed esperto in materia. «La
scrittura sui muri – dice il professore – ha una storia antichissima e ha diverse forme: i graffiti sono meno legati alla politica e più alla comunicazione, all’estetica, all’esperienza delle emozioni. Impegno sociale, desideri
amorosi, identità mobili fanno parte
di queste scritte. Quella del murale invece è un’arte che si colloca dentro un
filone nazional-popolare che cerca di
essere comprensibile da ogni persona e di spingere all’azione politica».
Una forma di espressione e comunicazione che però costa a Roma
ben cinque milioni di euro all’anno,
dicono dal Comune. Dato che non
scoraggia tutti i potenziali Jean-Michel Basquiat che sicuramente mentre “sporcava” con i suoi dipinti le
mura dei sobborghi newyorkesi mai
si sarebbe aspettato di diventare la figura-icona di intere successive generazioni.
Dopo l’annuncio della probabile riapertura del balcone di piazza Venezia
Ma alla birreria di Adolf si beve
Mai chiuso quel locale. Le altre “pedane” storiche
Stefano Silvestre
Esilio, ostracismo, oblio,
bando, confino. Sono alcune
delle pene inflitte ad alcuni dei
più sanguinari e controversi
dittatori, raìs, imperatori, re e
regine di tutti i tempi. Mai nella storia una di queste era toccata nientedimeno che a un
oggetto. Si tratta del balcone
di palazzo Venezia, due metri
quadrati a una decina di metri di altezza che affacciano sulla piazza omonima, una delle più famose al mondo.
La sua colpa? Aver ospitato sulle sue mattonelle i piedi di Mussolini durante molti dei suoi discorsi e l’aver fatto da pedana all’ingresso in
guerra del nostro paese nel
giugno del 1940. Colpe indiscutibili, terribili, addirittura
innominabili, ma che c’entra
il balcone? La piccola balconata è invece stata costretta a
una chiusura di oltre 70 anni.
Un esilio che potrebbe finire
il prossimo settembre, in
quanto il sottosegretario ai
Beni Culturali Francesco Maria Giro, che intanto ha fatto
visitare il celebre terrazzino anche al presidente Napolitano,
8
4 Febbraio 2011
ha rivelato che in realtà “non
c’è alcuna norma che ne vieti l’apertura”.
Esiliato senza una legge
apposita e diventato tabù, il
balcone di palazzo Barbo – che
prende il nome da Papa Paolo II, al secolo Pietro Barbo,
che lo commissionò nel ‘400
– potrà così tornare ai suoi antichi fasti.
E nel resto del mondo?
faccia un giro in Baviera e abbia voglia di gustare una bionda, può tranquillamente sedersi a uno dei tavoli dove, 90
anni fa, quelli che sarebbero
diventati spietati leader di
partito quindici anni dopo,
preparavano una delle più
grandi tragedie dell’umanità.
Hitler amava molto arringare
i quadri del suo partito dai robusti tavoli in legno delle bir-
Il balcone della Casa Rosada a Buenos Aires
e la piazza sottostante sono
ancora un luogo amato, nonostante Galtieri
Che fine hanno fatto i luoghi
storici dei discorsi che hanno
cambiato le vite di milioni di
persone?
Parlando di dittature e proclami, non si può non citare la
birreria Hofbräuhaus di Monaco, da dove Hitler preparò
la sua ascesa al potere nel
1920 proclamando, tra le altre cose, le 25 tesi del partito
nazista. La birreria, però, non
è mai stata chiusa, le sue porte non sono sbarrate con assi
di legno né murate. Chiunque
rerie, e fu proprio da un’altra
di queste, la Bürgerbräukeller,
che partì il fallito putsch di
Monaco del 1923, conosciuto in Germania proprio come
“il colpo di stato della birreria”,
che costò al Fuhrer 5 anni di
carcere e innescò il processo
che lo porterò al potere assoluto. Oggi l’ex punto di ritrovo preferito del partito nazista
non è più una birreria, è stato demolito nel 1979 per poi
essere riadattato a hotel di
lusso.
E che dire del balcone di
Plaza de Oriente a Madrid, da
dove il caudillo Francisco
Franco era solito arringare le
folle? E’ ancora lì, non viene
più usato per questo scopo,
ma non è mai diventato una
sorta di fantasma architettonico.
Paese che vai, dittatore che
trovi. E con lui, il suo balcone preferito. E’ il caso del
sanguinario Nicolae Ceasescu, al potere in Romania dal
1967 al 1988, che proprio
dal balcone del palazzo del comitato centrale del partito comunista romeno pronunciò
quello che è rimasto il suo ultimo discorso. Quel balcone è
ora parte del Ministero degli
Interni romeno ed è passato
alla storia più per il volto impietrito del dittatore nel giorno della sua deposizione che
per i vent’anni di morsa in cui
fu stretto il popolo romeno.
E il balcone della Casa Rosada a Buenos Aires? Passato
alla storia per le arringhe di Peròn e sconsacrato dal feroce
Leopoldo Galtieri nel 1982, è
ancora uno dei luoghi più
amati di Plaza de Mayo e più
conosciuti d’Argentina.
CAUDILLO Francisco Franco al balcone in Plaza de Oriente
Reporter
nuovo
Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini”
della LUISS Guido Carli
Direttore responsabile
Roberto Cotroneo
Comitato di direzione
Sandro Acciari, Alberto Giuliani,
Sandro Marucci
Direzione e redazione
Viale Pola, 12 - 00198 Roma
tel. 0685225558 - 0685225544
fax 0685225515
Stampa
Centro riproduzione dell’Università
Amministrazione
Università LUISS Guido Carli
viale Pola, 12 - 00198 Roma
Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008
[email protected]
!
www.luiss.it/giornalismo
Reporter
nuovo