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Il libro inizia parlando della contraddizione alla base dell`istituto dell
Il libro inizia parlando della contraddizione alla base dell’istituto dell’azione di rivendicazione. Ci sarebbe una incredulità dei consociati a vedere protetto dall’ordinamento un possessore, visto come usurpatore, in lotta con un proprietario. Si passa poi a una dissertazione sull’ordinamento, visto come un sistema che ha le caratteristiche della coerenza, dell’unità e della completezza. Poi sull’intendere il d. oggettivo come rapporto normativo, che deve avere la caratteristica della bilateralità (da cui discendono le altre caratteristiche e cioè: l’alterità, “mentre ordina qualcosa a qualcuno concede a qualcun altro il potere di esigerla”; l’equilitarismo, “parifica gli uomini nell’uso del mondo”; l’astrattezza, “prescinde dalle qualità e dagli interessi personali dei soggetti cui impone il dovere o attribuisce il potere”; la positività, “il modo esterno di apparire di modo che la norma venga posta per tutti allo stesso modo” ed, infine, la coercibilità, “la possibilità di imporre il dovere” che non dipende da un apparato ch la impone ma dal potere intrinseco della norma che ha essa stessa la qualità di imporsi [Ravà – la bilateralità del d. civile]) ed invece il d. soggettivo, che discende dal primo, come invece rapporto giuridico. La bilateralità significa invertibilità della norma: “rispetto il tuo d. poiché a posizioni invertite tu rispetterai il mio”. Come non sia il d. oggettivo fonte del d. soggettivo (o come li chiama lui rapporto normativo e rapporto giuridico), ma i due si compenetrano e sono fonte l’uno dell’altro (la legge, il comando posto dall’alto per essere diritto deve essere condiviso dai consociati, se ciò non si verifica si manifesta la violenza nel rapporto giuridico). Fonti del rapporto normativo: 1. L’opera dell’interprete che verifica se la norma è coerente con l’ordinamento; 2. Il legislatore spinto dall’evoluzione sociale e dei tempi; 3. La consuetudine, un comportamento ripetuto e continuato da parte dei consociati; 4. Il rapporto giuridico. Tanto il rapporto normativo è bilaterale quanto il rapporto giuridico è unilaterale: viene ad essere privilegiato un soggetto anziché un altro. Non si può quindi asserire che l’ordinamento viene ricondotto ad unità da un potere superiore, come i disposti delle preleggi vorrebbero farci credere: fu un tentativo dell’imperatore di imbrigliare gli operatori della legge. Si passa successivamente alla differenza tra common law e civil law e alla storia della codificazione che parte dalla scuola di Bologna (glossatori e commentatori) e la rivisitazione del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano. L’esigenza di certezza spinse alla codificazione: il codice vide la luce nel 1804 con Napoleone (commissione di 4 giuristi due della Francia del nord e due del Sud ed anche quindi i due ispiratori: Pothier e Domat). Con il codice s’intese assegnare al legislatore la posizione di primaria fonte di produzione del diritto (in realtà abbiamo visto che non è così). Dagli inglesi passa a un paragrafo sulla valenza della giurisprudenza nel nostro ordinamento (la cassazione e la corte costituzionale, da qui si ripassi i due gradi – uno eventuale – del processo civile, cenni sulla Corte di giustizia europea). Si passa così alla storia dell’azione di rivendicazione da prima delle XII tavole ai nostri giorni, all’evoluzione dell’istituto, del concetto di proprietà e delle figure di possessore e proprietario. Innanzitutto conviene partire dall’art. 948: “Il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene e può proseguire l’esercizio dell’azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa. In tal caso il convenuto è obbligato a ricuperarla per l’attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno. Il proprietario, se consegue direttamente dal nuovo possessore o detentore la restituzione della cosa, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo di essa. L’azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell’acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione.” Per verificare se la disposizione sia un rapporto normativo si passa allo studio diacronico (studio dei fatti linguistici nel loro sviluppo attraverso il tempo) dell’istituto e della sua ratio (la ragione pratica della disposizione). È accertato che la proprietà è un rapporto normativo, poiché connotata dalla caratteristica dell’invertibilità (io rispetto la tua proprietà perché a posizioni invertite so che tu rispetterai la mia), da essa discende un rapporto giuridico di primo tipo o di esclusione. Con l’azione di rivendica si prevede la tutela del rapporto giuridico che può nascere tra proprietario e possessore. Se da un lato il proprietario (che in base all’art. 832 può godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo) avrà modo di difendere il proprio diritto fornendo la prova di essere realmente il titolare del diritto di proprietà (prova non facile – probatio diabolica) contro chiunque lo minacci, dall’altro il possessore non ha alcun onere probatorio da assolvere, potrà permanere nel possesso ove il proprietario non riesca a dimostrare la titolarità del proprio diritto. La scoperta a Verona delle Istitutiones di Gaio (che visse nel II secolo d.c.) nel 1816, consente di rifare una ricostruzione storica dell’azione di rivendica (la rei vindicatio) in epoca romana, dal periodo arcaico al II secolo d.C. periodo in cui visse l’autore. Si compiva il rituale della legis actio sacramenti in rem, già in epoca arcaica, che postulava la presenza di due contendenti e della res (o della persona) oggetto di controversia, e la cosiddetta vindicatio ossia la pronuncia di parole solenni con le quali veniva rivendicata la appartenenza della cosa (o della persona). In principio non vi era distinzione tra le varie vindicatio, si andarono caratterizzando solo successivamente. Le parole del formulario che le parti in causa dovevano pronunciare, compiendo gesti solenni prestabiliti, sono stati tramandati da Gaio con riferimento alla rivendica di uno schiavo. Le fasi erano due: in iure e in apud iudicem. Se si agiva in rem, la vindicatio di cose mobili e trasportabili, che potevano essere portate in giudizio, veniva fatta in iure in questo modo: colui che effettuava la vindicatio, teneva la festuca (una bacchetta); quindi afferrava la cosa (oggetto di controversia), come ad es. uno schiavo, e così diceva: "Io affermo secondo il diritto dei Quiriti che questo schiavo è mio. Così come ho detto, ecco contro te ho imposto la vindicta". Il suo avversario diceva e faceva le medesime cose. Non appena i due avevano fatto la vindicatio il pretore diceva: "Lasciate entrambi lo schiavo". E i due lasciavano lo schiavo. Colui che aveva vindicato per primo chiedeva all'altro: "Chiedo, che tu mi dica in base a quale causa tu hai vindicato"; quello rispondeva: "Ho attuato il diritto imponendo la vindicta". Quindi colui che aveva vindicato per primo diceva: "giacché tu hai fatto la vindicatio iniuria, ti sfido al sacramentum (ad es. per 500 assi). L'avversario pronunciava simili parole: "E io a te". Qualora invece la controversia avesse avuto per oggetto un bene che non poteva essere agevolmente portato in ius, come una colonna o un gregge, si usava l'espediente di portare in ius solo una piccola parte della cosa, che fungeva da simbolo. Su questa si faceva la vindicatio fingendo di farla sulla restante parte della res. Se invece la lite verteva su di un fondo, si portava in giudizio una piccola zolla. Anche qui Gaio ci tramanda le parole esatte. Durante lo svolgimento del rituale uno dei due contendenti poteva scegliere di non proseguire e di ritirarsi. In tal caso il procedimento veniva interrotto e la res veniva aggiudicata all'altro contendente. Tale ipotesi diede vita all'istituto della in iure cessio. Lo svolgimento di questo rituale avveniva nella prima fase del procedimento, detta in iure, innanzi a un magistrato (a partire dal 367 a.C. il pretore). I due contendenti potevano avvalersi di garanti, i quali davano la loro parola che, una volta emanata la sentenza definitiva, avrebbero reso il bene oggetto del contendere, al soggetto riconosciuto vincitore. Il pretore, dopo le formule solenni, concedeva il possesso interinale al contendente con i garanti ritenuti più idonei. La seconda fase, detta apud iudicem, si teneva dinanzi a un giudice, privato cittadino romano, scelto da entrambi i soggetti perché ritenuto giusto arbitro nella controversia. In questa fase i contendenti si avvalevano di testimoni e prove per avvalorare la loro causa e, infine, il giudice assegnava la proprietà definitiva. Tale sentenza era inappellabile, e la controversia irripetibile. Ovviamente se la "res" era assegnata a colui che nella fase in iure non era stato nominato possessore in itinere, allora questo doveva restituire il bene a quello che ora era il legittimo proprietario, più eventuali "vantaggi" maturati durante il possesso provvisorio. La summa sacramenti, pagata dalla parte la cui affermazione risultava infondata, veniva incassata dall'erario e non dalla controparte. Si suppone che in una prima fase (prima delle XII tavole) il rito si concludesse con un’ordalia, quindi traeva fondamento dalla religione. Successivamente, nella legis actio sacramenti in rem s’innesta l’agere in rem per sponsionem: nella fase in iure aveva luogo la sponsio (scommessa pregiudizievole) con la quale il convenuto prometteva un importo simbolico ed effettuava anche la cautio, diversamente dall’agere sacramento in rem viene solo in evidenza l’appartenenza della cosa all’attore che doveva dimostrare, apud iudicem, la proprietà del bene rivendicato. Il processo divenne così più snello. In seguito a partire dal I secolo d.C. si sviluppò il processo formulare. L’agere per formulas indica un tipo di sistema processuale introdotto dai pretori per dare tutela a situazioni per le quali non era più possibile utilizzare gli schemi del più antico lege agere. Tale schema non si basava come il lege agere sulla pronuncia di precise ed immutabili parole (certa verba) bensì sulla pronuncia di verba concepta, parole concepite di volta in volta dal pretore e modellate sulla controversia concreta, grazie alle quali si perveniva ad affidare il giudizio ad un giudice o collegio di giudici. Tali verba concepta, ben presto redatte per iscritto, venivano denominate formulae, donde il nome di processo per formulas (o processo formulare). Il processo formulare era molto più snello e vi rientravano molte più posizioni giuridiche. Secondo quanto riferisce il giurista Gaio nelle sue Istituzioni, il processo formulare si sarebbe affermato per i vantaggi che presentava rispetto alle legis actiones, fruibili soltanto dai cittadini romani (cives) e, per di più, eccessivamente caratterizzate da un rigoroso formalismo. Nelle legis actiones, infatti, ogni errore, anche minimo, nella pronuncia dei certa verba o nel compimento dei gesti previsti dal rituale avrebbe comportato la perdita della lite. Il processo per formulas apparteneva in origine al ius honorarium, e non poteva dunque essere utilizzato per le controversie basate sul ius civile. Solo nel II secolo a.C., in concomitanza con una grande diffusione del processo per formulas venne emanata una legge con la quale divenne legittimo l'utilizzo del processo per formulas anche per valere diritti fondati sullo ius civile. Con la Lex Iulia (17 a.C.) l' agere per formulas soppiantò del tutto le legis actiones e divenne l'unica procedura. Per il ius civile, il dominium ex iure Quiritium poteva essere trasferito o mediante uno degli atti formali previsti per lo scopo (mancipatio o in iure cessio) se la res da trasferire era una res mancipi, ovvero tramite semplice consegna (traditio) della cosa se si fosse trattato di res nec mancipi. Qualora il trasferimento di una res mancipi non fosse avvenuto tramite l'atto formale richiesto, si creava una situazione ambigua per cui l'alienante rimaneva dominus ex iure Quiritium, mentre l'alienatario non riceveva tutela dallo ius civile pur avendo acquistato la res. Per ovviare a questi problemi alla fine dell'età repubblicana un pretore di nome Publicio concesse a chi si fosse trovato in tale situazione una actio in rem (actio Publiciana) con cui l’alienante avrebbe potuto reclamare la cosa da chiunque lo avesse privato del possesso. Parimenti concesse una exceptio al possessore per tutelarlo qualora il dominus (rimasto tale secondo il ius civile, ma non più proprietario nella sostanza) avesse rivendicato il bene. Si creò dunque un sistema doppio di proprietà che vedeva da un lato il dominum ex iure Quiritium (tutelato ex iure civili), e dall'altro la proprietà tutelata dal ius honorarium e tecnicamente definita in bonis habere. Di tale situazione scrive il giurista romano Gaio nelle sue Istituzioni. L'istituto del dominium ex iure Quiritium (letteralmente: dominio secondo il diritto dei Quiriti) designava in origine l'appartenenza piena ed esclusiva di una res ad un individuo. Caratteristiche essenziali del dominium ex iure Quiritium erano la illimitatezza, la imprescrittibilità e l'elasticità. Esso si estendeva sia nel sottosuolo sia sullo spazio sovrastante, e non erano ammessi prelievi fiscali né esproprio per pubblica utilità (illimitatezza); né era concepibile il venir meno del dominium per il semplice non esercizio di tale diritto, salvo il caso di usucapio (imprescrittibilità); inoltre, quando il diritto di proprietà fosse gravato da usufrutto o altre forme di diritti su cosa altrui, all'estinzione di questi il dominium compresso si sarebbe riespanso (elasticità). Al dominus spettava dunque ogni facoltà di utilizzare la res in maniera illimitata, la facoltà di modificarla e perfino di distruggerla (cd. ius utendi fruendi abutendi). Il termine dominium appare comunque probabilmente solo in epoca repubblicana. Nel processo formulare non risulta più necessaria la presenza della cosa per esperire l’azione di rivendica. Il convenuto poteva tenere in giudizio un atteggiamento non collaborativo (ed eventualmente non prestare la cautio), con tale atteggiamento avrebbe consentito però all’attore di ottenere il possesso della cosa. La formula era composta dall’intentio (si indicava il bene che l’attore voleva rivendicare e tutti gli elementi necessari per la sua identificazione, se le indicazioni erano imprecise l’attore era perdente), dall’eventuale exceptiones (proponibili dal convenuto, una era ad esempio l’exceptio doli, con la quale mirava al rimborso delle spese sostenute per la cosa), dalla clausola restitutoria (cioè la richiesta da parte dell’attore alla consegna della cosa), e dalla condemnatio (il giudice disponeva, ove non restituita la cosa, la condanna del convenuto, che comprendeva non solo il valore della cosa, ma anche gli accessori). In questo processo, a differenza dei procedimenti lege agere, diviene rilevante ed essenziale il diritto di proprietà dell’attore che doveva fin dalla fase in iure indicare il titolo su cui di fondava la propria azione. Alla fine del III secolo d. C. il processo formulare cade in desuetudine. Il processo non vede più la divisione in due momenti e si svolge davanti a un giudice funzionario. La collaborazione del convenuto, che si realizzava nel processo formulare con la litis contestatio, non è più necessaria: l’attore poteva ottenere o l’immediato translatio possessionis oppure una sentenza di merito, solo ove avesse provato la proprietà. Nell’ultimo periodo del diritto romano si ammette l’azione anche nei confronti del possessore che avesse distrutto la cosa anche prima della lite. Nel Basso Impero l’attore poteva richiedere anche la restituzione dei frutti percepiti dal possessore in mala fede anche prima della lite. Scompare la condanna espressa in denaro e viene data facoltà al giudice di eseguire il proprio responso manu militari. Nell’Alto medioevo, il diritto di proprietà s’identifica con il possedere direttamente il bene, privilegiando l’esercizio della proprietà e non la tutela del diritto. L’influenza del diritto longobardo conduce a far sì che l’attore per ottenere la restituzione del bene, deve negare il diritto del convenuto, in quanto possessore malo ordine. Il convenuto poteva difendersi per sacramentum o per pugnam, ove il possesso si fosse protratto per 5 anni, mentre anche in malo ordine, poteva opporsi validamente ove avesse posseduto per trent’anni senza ricorrere al giuramento o al duello. La condanna prevedeva la restituzione del bene e dei frutti, in misura più ampia qualora il possessore era il malo ordine. Nel XII secolo con la scuola di Bologna si riprendono i concetti giustinianei e si vede una rinascita della scienza giuridica. Il fondatore della scuola dei glossatori è Irnerio, successivamente si sviluppa la scuola dei commentatori. Si perde il concetto dell’età repubblicana romana del dominium ex iure Quiritium e va maturandosi l’esistenza di più domini sullo stesso bene. Ciò influisce sia per il soggetto legittimato ad agire sia sulla prova che esso dovrà fornire. Solo tra il 600 e il 700 le figure del dominium e della rivendicatio vengono rivisitate sulla scia della corrente del giusnaturalismo: il diritto di rivendicare il bene riposa come il dominio in statu naturali, e vale erga omnes. In Francia dopo il periodo feudale, il diritto è per lo più consuetudinario (droit coutumier) nel Nord (d’Oil), il Sud subisce le influenze della cultura romanistica (d’Oc). In questa nazione quindi si sente la necessità più che nelle altre di dare certezza del diritto. Il diritto naturale, che i filosofi medievali identificavano con il diritto divino, assume una valenza più soggettiva: c’è l’idea dell’esistenza di diritti soggettivi innati nell’uomo, dello stato di natura preesistente allo stato civile, del passaggio tra i due stati attraverso un contratto sociale, della necessità di creare un sistema di norme di diritto naturale, di norme innate, che costituiscano il diritto vigente, che non hanno bisogno di spiegazioni e che trovano il loro fondamento costante nell’uomo: sono norme che appartengono alla ragione umana, norme naturali che in quanto dell’uomo sono anche razionali, ma uguali per tutti e quindi universali. Contrapposte a queste ci sono le norme del legislatore. Si perviene a una totale laicizzazione del diritto (l’aggettivo naturale si contrappone a soprannaturale), e si avvia il lento processo che porta ad abbandonare il diritto comune per arrivare poi ai codici. Con Domat in Francia nasce la corrente del razionalismo giuridico, che ricerca un ordine razionale nel quale sistemare il diritto vigente: anche qui non si tratta di riformulazione del diritto ma di riordino. L’opera più notevole di Domat è Le leggi civili nel loro ordine naturale, scritta alla fine del XVII secolo e che prende spunto dalla situazione giuridica dell’epoca, confusa e complessa: bisogna tornare ad un diritto semplice, lineare e fruibile, trovarne la ratio, l’esprit. Domat divide le leggi in due grandi gruppi, di diritto privato (leggi immutabili in quanto di diritto naturale) e di diritto pubblico (leggi arbitrarie in quanto scelte dall’uomo). Secondo Domat c’è una sostanziale coincidenza tra diritto naturale e diritto romano: quest’ultimo è un deposito di leggi di diritto naturale. Dalla sua opera si può dedurre che per il giurista il potere di rivendica deriva dall’obbligazione naturale di restituire posta a carico di chi abbia la disponibilità del bene, gli obblighi e i diritti conseguenti alla restituzione sono quindi anche la responsabilità del debitore per la perdita del bene, la restituzione dei frutti, il ristoro delle spese sostenute. Pothier invece effettua una trattazione specifica del diritto di proprietà e dell’azione che ci occupa. Compie un’opera di commento e riordino anche del diritto consuetudinario, che unisce al diritto scritto con varie sfumature. Egli riprende il concetto di dominio utile contrapposto al diritto pieno. Lo scopo che si prefiggeva il legislatore era di dar vita ad un testo che ponesse fine in maniera definitiva alla tradizione giuridica dell'Ancien Régime, caratterizzata dalla molteplicità giurisprudenziale e dal frantumato particolarismo giuridico che affondava le proprie radici nell'ormai frusto e farraginoso sistema del diritto comune. Il Code si ispira sia al diritto della tradizione franco-germanica sia a quello caratteristico del nord della Francia (del droit coutumier), ma prende, come ulteriore modello di riferimento, il diritto romano (Corpus iuris civilis) prevalente al centro-sud del paese e così come interpretato dai giuristi medievali (Glossatori e Commentatori) della parte meridionale del paese. In questo senso i primi giuristi positivistici dell'epoca ritennero la codificazione il trionfo della ragione giuridica di stampo illuminista in grado di trasfondere il diritto naturale e consuetudinario nei codici, plasmando i principi, fumosi e generici, del diritto precedente. Il diritto romano era basato sulle azioni, mentre le codificazioni si ergono sull’individuazioni dei diritti. La disciplina delle azioni esperibili è quindi devoluta all’opera della dottrina e della giurisprudenza. Le correnti esegetiche, circa la funzione dell’azione, si dividono: per un verso si sostiene che il giudice chiamato a decidere dovesse prima formulare espressa statuizione sulla proprietà in capo all’attore; per altro verso che tale accertamento restasse marginale rispetto al comando di restituzione del bene in testa al convenuto. Ai nostri giorni la disputa è ancora aperta. Al tempo delle prime codificazioni comunque non erano ancora diffuse le opere di Gaio (da cui la nostra agevole ricostruzione storica), quindi i primi cultori dell’esegesi potevano ricostruire l’azione solo sulla base della fonte giustinianea, e quindi, in modo limitato. Sembra trascurabile stabilire se il giudice, prima di condannare il convenuto al rilascio del bene, debba dichiarare o meno, che l’attore sia proprietario; pena l’inaccoglibilità della domanda l’attore, deve offrire la prova di essere proprietario, ne consegue quindi che il giudice sia chiamato proprio a tale preliminare accertamento. Per proseguire l’analisi sulla funzione dell’azione, conviene effettuare una disanima dei concetti di proprietà, di possesso e dell’onere della prova. Si può affermare, dopo due millenni di storia dell’istituto, che l’azione di rivendica sia un rapporto normativo in quanto pienamente condiviso dai consociati. L’azione prevista dal nostro codice del 1942 è considerata come lo strumento più adatto in mano al proprietario per affermare l’imperio sul bene oggetto di rivendica. Sia nel Code di Napoleone, sia nel nostro codice (art. 948), le norme sulla proprietà sono ispirate all’esaltazione del concetto di dominio, come diritto pieno ed assoluto sul bene, che riprende appieno il concetto di dominium dell’età repubblicana romana. Il diritto non dovrà quindi essere accertato dal giudice, ma dovrà sussistere in modo certo in capo all’attore prima della domanda, il giudice verificata l’inoppugnabilità della prova offerta, potrà condannare il convenuto alla restituzione del bene. Quindi l’azione di rivendicazione non può che avere una funzione meramente restitutoria. In forza di questa argomentazione c’è l’oggetto dell’azione, che è il bene, una parte della materia suscettibile di apprensione fisica, la cui presenza era indispensabile anche nell’agere sacramento dell’età arcaica. Nella contesa è quindi l’appropriazione, il possesso che rileva. Ma chi sono le parti nel giudizio? Uno è il proprietario che mira a tutelare un proprio interesse, che si scontra con l’interesse di un altro soggetto: il convenuto. Nel libro III al titolo III si affronta la trattazione della proprietà: l’art. 832, rubricato “contenuto del diritto” però parla in realtà dei poteri conferiti al proprietario. Traspare che il redattore del nostro codice è stato influenzato dall’elaborazione dottrinale antecedente alle codificazioni. Non è certo facile individuare la genesi del nostro attuale concetto di proprietà, tale incertezza è avvalorata dal fatto che termini come dominium e proprietas appaiono con notevole ritardo nella lingua latina. Fino all’età repubblicana esistevano due categorie di beni: le res mancipi e le res nec mancipi, le prime venivano trasferite con l’atto solenne della mancipatio (e il raccontino ce lo ricordiamo …); le seconde con la semplice traditio. Un altro metodo era la iure in cessio (sopra, praticamente un finto processo). Il pater familias aveva la posizione potestativa, esercitava la signoria sugli schiavi, sulle cose, sulla domus, sui componenti della famiglia. La figura del proprietario è configurabile con il termine mancipium (manus e capio = prendere con mano), la manus del pater. Altresì è ipotizzabile che vi erano forme di proprietà collettiva della terra sulla base della partecipazione alla gens, la comunità cittadina. La proprietà quindi non nasce come un diritto ma come apprensione fisica della cosa. Il mancipio dans interveniva come auctoritas nella vindicatio promossa dal terzo contro il mancipio accipiens e lo garantiva. Con il passare del tempo comincia a svilupparsi il concetto di proprietà (nella lex Aquilia (286 a. C.) si rinviene il termine erus per indicare non solo il proprietario di animali e di schiavi, ma anche il proprietario di beni inanimati) con l’utilizzo del termine dominus portatore della nozione di signoria su tutti i beni. Al diritto di proprietà si contrappongono le prima esperienze di iura in re aliena come l’usufrutto (poiché cambia la struttura della famiglia, il rapporto tra marito e moglie) e le servitù prediali. Si ha una rottura del meum esse ex iure Quiritium della vindicatio. Si segna anche il passaggio alla laicizzazione del diritto riservato ai pontefici. Con il nuovo processo per formulas riprende importanza il concetto di diritto di proprietà poiché manca l’immediato rapporto fisico con la res, si delinea di conseguenza la scissione tra dominium e possessio. Quindi viene a delinearsi quel dominium ex iure Quiritium che i giuristi medioevali hanno identificato come illimitato ed assoluto, ius utendi et abutendi re, dilatandone anche l’estensione spaziale, sino agli inferi e al cielo. La carenza di limiti in realtà era meramente apparente, c’erano diversi divieti e limiti, imposti però come estensione del diritto altrui e non come limitazione del proprio. La rei vindicatio tutelava il dominio quiritario, mentre il possessore di buona fede e con giusta causa, della res usucapibile che avesse perduto il possesso prima dei due anni, ad opera di un terzo immesso illegittimamente, non aveva tutela. A ciò si pose rimedio nel 67 a. C. con l’actio Publiciana (dal nome del pretore Plublicio): con essa il giudice trattava il possessore come dominus e lo legittimava a esperire la rei vindicatio per aver restituito il bene, l’actio è ovvio non poteva essere utilizzata contro il dominus ex iure Quiritium. Nell’ipotesi in cui quest’ultimo avesse effettuato per una res mancipi solo la traditio e successivamente avesse esperito l’azione di rivendica, il possessore poteva paralizzare l’azione evidenziando che il bene gli era stato venduto in violazione delle regole dello ius civile e consegnato dal proprietario (si parlò quindi di un duplex dominium). Questa proprietà venne denominata proprietà pretoria o bonitaria (poiché veniva offerta al possessore che avesse una giusta causa e che l’apprensione sul bene fosse in bonis); altra connotazione della proprietà, oltre i casi previsti dallo ius gentium (inteso nel senso di diritto internazionale) era la proprietà peregrina (da peregrinus, straniero): lo straniero non poteva diventare titolare del dominium ex iure Quiritium, riservato ai cives, però la proprietà peregrina (che si otteneva quando allo straniero era riconosciuto lo ius commercii con atto ufficiale e quindi poteva accedere alla mancipatio; altrimenti avrebbe acquisito iure peregrino) era regolata sostanzialmente come il dominio quiritario (finisce con l’editto di Caracalla che estende la cittadinanza a tutti i sudditi 212 d. C). A questa si aggiunge la proprietà provinciale che aveva ad oggetto solo beni immobili e in particolare i fundi in provinciali solo, i territori assoggettati da Roma divenivano oggetto di dominium del popolo romano o dell’Imperatore, molte terre erano lasciati ai vecchi proprietari che ebbero il potere di possessio e su cui era dovuta l’imposta fondiaria (stipendium o tributum). Anche i fondi erano tutelati con una actio in rem anche se non potevano essere usucapibili, ma si concedeva la longi temporis praescriptio, utilizzata nella cognitio extra ordinem (procedura caratterizzata dalla massima discrezionalità del giudice e dalla carenza di formalismo), contro chi reclamasse la proprietà (ad essa nel 199 d. C. vennero estesi alcuni requisiti dell’usucapione: la iusta causa, la buona fede e l’animus di tenere la cosa come propria). Da queste differenziazioni discende la tesi della sussistenza delle proprietà, e non di un'unica proprietà: questa tesi non è condivisibile. 1) Gaio parlando di duplex dominium non intendeva riferirsi a due tipo di proprietà bensì ai due momenti in cui si perfezionava la proprietà quiritaria (il potere sulla cosa e la titolarità del dominium); 2) la proprietà peregrina era intesa come un rapporto di carattere internazionale, infatti scompare con l’estensione della cittadinanza; 3) la proprietà provinciale non si configura come un altro tipo di proprietà, il dominium era del popolo romano, al fruitore dei beni erano estese delle facoltà. In sintesi si può affermare che il concetto di proprietà fosse comunque unitario. Verso l’età postclassica si ha la volgarizzazione del diritto, un fenomeno di adattamento delle categorie concettuali all’espansione territoriale. Sotto il profilo tributario tutte le terre furono parificate, ciò condusse ad un appiattimento della differenza tra dominium e possessio. Il concetto classico di proprietà riemerge con Giustiniano: il dominium riacquista la connotazione di diritto soggettivo distinto dalla possessio e dalle altre situazioni giuridiche reali (enfiteusi, superficie, ecc.). Da Giustiniano alle codificazioni è un epoca dominata da una civiltà possessoria nel senso che prevalgono l’apparenza, l’esercizio, il godimento. Ciò dovuto anche all’influsso della cultura tedesca diffusasi in Italia a seguito delle invasioni barbariche. Invero presso i Germani, popolazione nomade, la tribù era titolare della proprietà collettiva, mentre i singoli ne avevano il godimento temporaneo: la proprietà era concepita come rapporto con la cosa, come godimento della cosa, denominato Gewere, in latino vestitura. Il mondo medioevale, probabilmente dovuta a una non corretta lettura delle fonti romane, crea la figura del dominium utile. Con la scuola dei glossatori si ha ulteriore disgregazione del concetto unitario di dominio: per gli studiosi bolognesi, nel mondo romano, ad ogni actiones in rem (concesse in realtà anche ai non proprietari) era sotteso un diritto incidente sul bene. Ciò condusse a ritenere insistente su uno stesso bene più di un proprietario. Gli iura in re aliena erano per i giuristi medioevali anch’essi dominium. Con lo svilupparsi dell’umanesimo cambia il modo di sentire dei consociati, i giuristi continuano ad applicare la congerie medioevale. Con il giusnaturalismo si diffonde l’idea che il proprietario è tale per chiamata di Dio e della natura. Il proprietario coincide con la figura di uomo economico, di uomo produttore, in contrapposizione alla proprietà nominale feudale vista come parassitaria, tale processo trova terreno fertile in Francia dove culmina con la rivoluzione francese. Questo è il periodo di Pothier e Domat. Il Code riconduce ad unità il concetto di proprietà: trionfa l’assolutezza del diritto che si estrinseca nelle facoltà di godere e di disporre. Nel XIX ulteriore contributo venne dato dalla Pandettistica, dalla scuola storica tedesca di Savigny, che rielaborò il diritto romano finalmente scevro dalle interpretazioni dei glossatori e dei commentatori. Sancirono che la proprietà e lo ius in re aliena, sono sorretti ognuno da ragioni diverse ed opposte, sia sul piano logico che storico. Infine la nozione di proprietà del nostro vigente codice (art. 832: Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico). La rubrica “contenuto del diritto”, viene smentita, la norma non contiene una definizione della proprietà ma descrive le facoltà conferite al proprietario. In ciò c’è l’influenza della cultura pandettistica che preferì esaltare la figura del titolare del diritto. Si riconduce il diritto di proprietà al dominium ex iure Quiritium, alla signoria assoluta, alla potestà di escludere i terzi che a qualunque titolo possano minacciare il dominio. Una differenza con il precedente codice (e con quello napoleonico) è l’abbandono dell’espressione “godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta” per l’espressione “godere e disporre in modo pieno ed esclusivo”; il termine assoluta riprende la concezione di assolutezza come tendenziale assenza di limiti, si fa riferimento ai tre punti fondamentali della proprietà: godimento, esclusione, disposizione. Nel nuovo codice il termine assoluto è stato sostituito dalla locuzione in modo pieno ed esclusivo, sia per fattori storici che regolamentari che hanno portato limitazioni al diritto di proprietà. Ulteriore elemento è la norma all’art. 42, II comma della carta costituzionale: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Questo principio sembra affermare la possibilità di compressione della proprietà quando questa sia socialmente utile, ne consegue che la proprietà non è più espressione di libertà personale ma uno strumento economico – sociale. Ulteriore corollario è che i limiti non sarebbero più eccezionali ma estensibili analogicamente. Per altro pensiero la funzione sociale sarebbe da individuarsi nei limiti alla proprietà e non del diritto di proprietà. Ritorna la tesi delle proprietà diversificate: il rapporto proprietario da valutare sarebbe di volta in volta differenziato in relazione al bene. Ipotizzare che in relazione alla molteplice varietà di beni possano sussistere più nozioni d’appartenenza, tali da relegare il soggetto in secondo piano e creare così tante proprietà è in antitesi con la ratio ispiratrice delle codificazioni moderne, dove si dà rilievo al soggetto ed unità ai poteri conferiti (anche al tempo dei romani esisteva una disciplina a seconda del tipo di bene e non è mai esistito un diritto di proprietà illimitato). Quindi modalità di esercizio del potere: pieno, pienezza non intesa come illimitatezza ma come discrezionalità del proprietario all’utilizzazione che può adoperare o meno l’oggetto del diritto, con la correlata rinuncia da parte dell’ordinamento alla predeterminazione dell’oggetto e dei modi d’esercizio; ed esclusivo, esclusività intesa come possibilità di escludere tutti gli altri. Inoltre le facoltà conferite dal diritto: godimento e disposizione. È corretto ritenere che la facoltà di disposizione si concretizza con il potere di appropriarsi del valore economico del bene, la facoltà di godimento con il potere di utilizzazione del bene, ad esempio un’espropriazione della PA, priva il proprietario della facoltà di godimento e non di disposizione (art. 834). Altro aspetto fondamentale è l’imprescrittibilità del diritto di proprietà. La perdita del diritto di proprietà non avvantaggerebbe alcuno, tant’è che i diritti reali di godimento si prescrivono poiché il proprietario riacquista la pienezza del proprio diritto. All’imprescrittibilità però l’ordinamento ha contrapposto l’istituto dell’usucapione, ispirato alla seconda ratio ispiratrice del codice e cioè la produttività dei beni. Non si prescrive l’azione di rivendicazione ma sono salvi i diritti acquisiti per usucapione (art. 948). L’art. 922 effettua un’elencazione dei modi d’acquisto della proprietà (La proprietà si acquista per occupazione, per invenzione, per accessione, per specificazione, per unione o commistione, per usucapione, per effetto di contratti, per successione a causa di morte e negli altri modi stabiliti dalla legge); essi vengono divisi dagli esperti in due grandi categorie: acquisti a titolo originario e acquisti a titolo derivativo. I primi non traggono origine da un diritto già esistente ed escludono un rapporto con un eventuale precedente proprietario; nei secondi un soggetto già titolare del diritto lo trasferisce a un altro soggetto che lo acquista con gli stessi limiti. Se il soggetto che trasferisce non è proprietario, l’acquirente non avrà acquisito alcun diritto, ovvero se il diritto è compresso da diritti reali minori, l’avente causa godrà di un diritto di proprietà limitato. In epoca romana si acquisiva il dominium ex iure Quiritium tramite: 1. L’occupazione: che era l’apprensione delle res nullius quali le cose ritrovate, gli animali, le res derelictae (le cose abbandonate); 2. La commistione: o confusione si verificava nel caso di mescolanza inscindibile (come metalli fusi) di cose di proprietari diversi e generalmente davano luogo a una comproprietà. 3. L’accessione: l’ipotesi in cui a una cosa detta principale se ne aggiungeva un altra accessoria di un altro proprietario; 4. La specificazione: da una cosa che apparteneva ad altri tramite lavorazione se ne realizzava un'altra (dall’uva al vino). A titolo derivativo tramite: 1. 2. 3. 4. 5. Mancipatio In iure cessio Traditio Legato per vindicationem: l’acquisto che si realizzava mortis causa. Adiudicatio: il giudizio del giudice nella divisione di un patrimonio che assegnava i beni ai coeredi o comproprietari 6. Litis aestimatio: il convenuto anziché restituire il bene nella rei vindicatio ne pagava il valore e poteva divenire proprietario delle res nec mancipi. Rimane l’istituto dell’usucapione. Le XII tavole già prevedevano l’acquisto con l’usus di durata biennale per i fondi e di un anno per gli altri beni, escludendo però le res furtivae e i non cives. Sul finire della repubblica si richiede che il possessore sia anche in buona fede, infine viene richiesto anche il titolo, iusta causa, del possesso (pro emptore, quando acquisito per traditio una res mancipi; pro donato; pro erede; pro legato; pro soluto per adempiere una obbligazione). In età postclassica viene meno la iure in cessio e raramente utilizzata la mancipatio, per le res nec mancipi si ricorre alla traditio e per le res mancipi all’atto scritto. Da Giustiniano viene abolita la differenza tra res mancipi e nec mancipi, si ricorre alla traditio e si dà rilevanza all’accordo tra le parti (1376). Per l’usucapione bisogna ricordare l’intervento nel 325 d.C. di Costantino, che oltre a confermare l’istituto e la longi temporis praescriptio (fondo provinciale) istituisce una longissimi temporis praescriptio opponibile dal convenuto dopo 40 anni di possesso. Giustiniano la mantiene però trentennale ma solo come strumento di difesa però il convenuto può prescindere dalla buona fede e dal titolo. L’usucapio è per i beni mobili, la longi temporis praescriptio per gli immobili, per quest’ultima sono richiesti la buona fede e il titolo. Esperimento dell’azione di rivendica interrompe il tempo a differenza della classica usucapio. L’occupazione viene estesa sotto l’influenza longobarda in un primo tempo anche per gli immobili, ma ben presto tale accezione scompare e vengono applicate nuove regole anche per la caccia e la pesca e le cose smarrite. L’accessione nota anche ai popoli germanici rimane inalterata in quanto la proprietà del suolo si estendeva a tutto ciò che ne costituiva parte integrante. L’evoluzione fece divenire di comune utilizzo il documento scritto, anche se era necessaria anche l’apprensione fisica del bene. Il popolo germanico non distingueva tra proprietario e utilizzatore del fondo quindi l’istituto della prescrizione acquisitiva gli era sconosciuto. La Chiesa interviene statuendo il principio della buona fede per tutta la durata del possesso; nelle codificazioni la buona fede deve sussistere solo al tempo dell’immissione in possesso. La prescrizione acquisitiva regolata dal codice del 1865 è la metamorfosi dell’usucapione. Ciò è confermato dal ripristino nel nostro codice dell’istituto dell’usucapione (1158) che riconduce alla norma sulla prescrizione acquisitiva dell’abrogato codice che contiene l’infelice inciso “acquisto dell’immobile”. Il possesso decennale decorrente dalla trascrizione doveva essere in buona fede, cioè il possessore doveva ignorare di ledere l’altrui diritto. Nel nostro vigente codice i modi d’acquisto a titolo originario sono disciplinati negli articoli dal 923 al 947 e ripercorrono gli schemi della cultura giuridica romana. Per quanto riguarda l’usucapione c’è la previsione di due ipotesi: quella ordinaria (vent’anni) e quella decennale (1159). A mezzo dell’istituto la situazione di fatto si trasforma in una situazione di diritto. La ratio dell’istituto è il riconoscimento e la difesa della produttività a fronte dell’incuria del proprietario; alla base c’è il principio ne cives ad arma ruant, che è la funzione essenziale dell’ordinamento giuridico. Il possesso non deve essere viziato da violenza o clandestinità (1163). Oggi la differenziazione tra possessore e detentore sulla base della sussistenza di tenere la cosa come propria ovvero in nome altrui non ha il conforto del dato storico. In età postclassica viene meno la distinzione tra dominium e possessio (si pensi all’evoluzione della proprietà provinciale e pretoria) ed emerge un riferimento sempre più ricorrente all’animus del soggetto che ha la disponibilità del bene. Soltanto la tutela giudiziaria continua ad essere differenziata. Con il diritto giustinianeo si avrà il possessio civilis accompagnato dalla volontà di comportarsi come proprietario, cioè il possesso abbinato all’animus domini e il naturalis possessio in tutti gli altri casi. Altro colpo viene dalla cultura longobarda prettamente possessoria: le occupazioni portarono per un verso allo stanziamento per l’altro al recepimento delle regole delle popolazioni occupate. Il periodo medioevale crea l’investitura: il titolo è strettamente connesso al possesso e lo legittima contro chiunque vi attenti. Il rinnovato studio della cultura giuridica romana ad opera delle scuole bolognesi non coglie nel segno: come criterio per distinguere il possesso dalle altre figure si utilizza l’animus. Ancora oggi questa connotazione psicologica continua ad essere il criterio di differenziazione tra possessore e detentore. Ancora Domat e Pothier: sembrano sostenere che il requisito del possesso risieda nell’animus di tenere la cosa in nome proprio, estromettendo dalla categoria chi detiene la cosa in nome altrui. La teoria soggettiva viene sostenuta anche da Savigny: l’elemento spirituale è la chiave di volta per distinguere il detentore dal possessore, il primo avrebbe l’animus detinendi, il secondo l’animus domini. Un altro studioso tedesco sostiene che per configurare il possesso è sufficiente l’intenzione di mantenere il rapporto con la cosa, accompagnato dall’effettivo esercizio di tale rapporto: ove ciò avvenga l’ordinamento appresta le tutele, qualora il possesso è esercitato per un interesse non proprio, il soggetto non può invocare alcuna protezione normativa come nel caso del depositario, del comodatario, del conduttore. Si sostituisce all’animus domini così la causa possessionis. Il codice del 65 parafrasando il Code esaltava l’animo domini. Nel vigente codice il tratto caratterizzante del possesso è il potere sulla cosa; il pot-sideo di romana memoria, l’attività che il soggetto esteriorizza con un comportamento eguale a quello del proprietario e percepibile dai consociati. (a ulteriore dimostrazione che l’animus non c’entra si prende la disposizione sul contratto). Ciò che rileva è dunque il comportamento tenuto dal soggetto non l’animus, 1140: “Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa.” Il soggetto passivo nell’azione di rivendica nell’attuale codice è individuato con colui che detiene o possiede la cosa. Il detentore viene invocato qualora per il proprietario sia difficoltoso rintracciare il possessore, chiamato in causa il detentore potrà farne il nome o subire l’azione (es. art. 1777 estromissione del depositario dall’azione di rivendica intrapresa contro di lui dal proprietario). Già sin dall’epoca romana, il rapporto obbligatorio che legava il possessore con l’utilizzatore del bene, rimaneva delimitato, come ogni altro rapporto giuridico di collaborazione, tra le parti obbligate, mentre nei confronti dei terzi, era il possessore, proprietario o meno, che si opponeva nei confronti di chiunque arrecasse molestia al proprio possesso. In riferimento all’animus il detentore è chi ha l’intrinseca consapevolezza di disporre di un bene che appartiene ad altri. Il detentore può disporre del bene poiché è parte del contratto stipulato con il possessore, sia proprietario o meno. Anche in riferimento al detentore non sussiste nessun riferimento all’animus nel nostro codice. Ulteriore conferma è data dall’art. 1141: “finché il titolo non venga modificato”, mette in luce la sussistenza di un titolo stipulato con il possessore; la detenzione non può trasformarsi in possesso finché il titolo venga mutato “per causa proveniente da un terzo”, un soggetto estraneo al rapporto che lega il detentore e il possessore; o in “forza d’opposizione da lui fatta contro il possessore”. Quindi l’interversione del possesso non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna. Il principio dell’onere della prova è dettato dall’art. 2697 Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda. Onere si contrappone a dovere o obbligo. Quest’ultimo è un’attività che un soggetto, debitore, deve compiere nell’interesse di un altro; l’onere invece si contrassegna per il vantaggio che ne riceve lo stesso soggetto a carico del quale è previsto. Ove il proprietario voglia esperire il rimedio dell’azione di rivendica per aver restituito il bene, deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento e cioè dimostrare di essere proprietario. In prima battuta sembra che il convenuto può astenersi dal fornire chiarimenti sulla situazione di fatto. Quindi nella carenza di prove fornite dall’attore il giudicante dovrà respingere la domanda. Ove il convenuto intenda dimostrare l’esistenza di fatti impeditivi, estintivi o modificativi rispetto a quelli assunti dall’attore, dovrà darne dimostrazione. Ove le prove smentiscono quelle dimostrate dall’attore, la domanda sarà respinta. Può succedere che a fronte dell’attività probatoria del convenuto e del libero convincimento del giudice, la controversia risulti a favore dell’attore anche se questo non ha fornito esaurientemente l’onere della prova. La prova nella storia. 1- nella legis actio sacramenti in rem entrambi affermavano di essere proprietari, il giudice valutava i titoli che le parti fornivano; 2- nella agere in rem per sponsionem, il bene permaneva nella disponibilità di colui che aveva l’apprensione fisica dello stesso, quindi si differenziavano l’attore e il convenuto, quest’ultimo poteva tenere una posizione passiva e l’altro aveva l’onere della prova; 3- con il processo formulare l’attore aveva l’obbligo di dimostrare con certezza di essere proprietario a titolo originario, solo dopo il giudice avrebbe disposto la restituzione del bene, l’azione non interrompeva l’usucapione in corso; 4- il processo non più diviso in due fasi si svolge davanti a un giudice funzionario, l’intervento di Costantino dispone che ove l’attore non raggiungesse la prova piena del proprio diritto di proprietà, incombeva sul convenuto dimostrare la validità del titolo in forza del quale possedeva. Si creò la situazione per cui in rivendica vinceva chi aveva dato prova di avere un maggior diritto al possesso e non tanto di essere proprietario; 5- con il Codex ritorna l’onere della prova in capo al proprietario; 6- nel periodo medioevale si crea la figura del dominium utile, la prova del dominium diventa ardua tanto da essere preferibile esperire l’azione possessoria più che quella petitoria di rivendica; 7- nel periodo del giusnaturalismo la posizione del proprietario è tale per chiamata di Dio e della natura, quindi sussiste l’obbligo di restituzione ove dimostri inconfutabilmente di essere proprietario; 8- si ha la riflessione di Pothier che non si tramuta in una disposizione del codice, anzi i giuristi francesi affermano il principio del titolo migliore, per superare la difficoltà della prova del dominio in capo all’attore. Attualmente non è più possibile parlare di probatio diabolica per indicare la difficoltà con cui l’attore deve dimostrare di essere proprietario a titolo originario, poiché è l’unico che dà certezza dell’acquisto della proprietà. In prima chi ha acquistato a titolo derivativo è dimostra di aver posseduto per venti o in presenza degli altri requisiti per dieci anni, ha acquistato a titolo originario poiché ha usucapito il bene; inoltre per compiere l’usucapione soccorrono due ulteriori regole: la successione nel possesso e l’accessione nel possesso. (1146 - Il possesso continua nell'erede con effetto dall'apertura della successione. Il successore a titolo particolare può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti). Il rivendicante quindi non ha necessità di risalire ai suoi danti causa fino a colui che sia divenuto proprietario a titolo originario.