Unta e fusa - Cooker.NET

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Unta e fusa
Tipologia e geografia della fonduta
"C'est un mets sain, savoureux, appétissant, de prompte confection". Con
queste parole Brillat-Savarin definisce la fondue nel suo libro famoso, la "Physiologie
du gout". A essa dedica un breve capitolo, una spigolatura, che fa da corollario delle
considerazioni «trascendenti» (di sapore idealistico ma in progresso verso lo
scientismo fin de siècle) che costituiscono il nerbo dell'opera.
Di questo piatto, di natura chiaramente alpina e subalpina, di là da altri possibili
inquadramenti (per esempio nell'estetica del colore, un bel faccione giallo che si offre
invitante nel tipo vulgato da noi come, piemontese, più pallido in quello noto come
svizzero ma, lì, punteggiato di particelle di noce moscata o pepe), chi sia a un tempo
goloso di cibi e di pensieri ha a sua disposizione una
fenomenologia
piuttosto
ampia, la cui distribuzione geografica è, in sostanza, «gallica» con sconfinamenti (e
mutazioni) in direzione germanica. È possibile che qualche linguista di vaglia creda,
prima o poi, di dimostrare, come già per la pizza, che questo elemento espressivo sia,
assieme al dato extra linguistico (il referente), un qualche antico elemento del nostro
alto Medioevo.
Una meno infelice maniera di considerare la fonduta (il cui nome, in italiano, è di
per sé indice di un ambiente dialettofono, meglio una variabile diastratica: in uno
«strato» più formale avremmo una improbabile parola "fusa" di matrice latina) può
essere quella, pudica e modesta ma non perciò inane, di identificarvi una delle infinite
varianti di «pane e formaggio». Siamo in presenza di un «universale cucinario», che si
invera dall'Inghilterra (welsh rarebit), alla Francia (fondue di vario tipo, quiche), alla
Svizzera (fondue, ramequin), alla Germania di ambiente renano, al nostro PiemonteVal d'Aosta fino, all'estremo sud, ai tanti «rustici» della cucina meridionale, fritti o al
forno, nei quali sovente il formaggio (fiordilatte, scamorza, la «vecchia» provatura) si
sposa con un più modesto «panatico» come patate, pasta di pane, pane.
Non è certamente privo di significato che la grande cuisine francese ignori
ostentatamente la fondue che già nel secolo scorso, dunque durante una delle fasi
della codificazione di un codice socio -alimentare adatto a sottolineare il trionfo del
ceto borghese parigino, doveva essere considerata con la sufficienza che riserva colui
che può a quanti gli appaiono, poco umanamente, dei «diseredati». La fondue non
esiste per esempio nel mitico manuale del Pellaprat, ma naturalmente non ci
lasceremo sviare dall'ormai avvenuta codificazione di un corpus socio -esteticoalimentare dai contorni ideologici ben precisi: solidità, eleganza, direi sfarzo.
Prima di volgermi a considerare quella che sembra essere la zona di irradiazione
della fondue (in sostanza la zona (sub)alpina di Francia, Svizzera, Italia) rilevo
che, in una ricognizione bibliografica e manualistica che ho fatto per questa esquisse,
può avvenire di imbattersi in ricette e denominazioni che con la fonduta «nucleare»
intrattengono il rapporto di evoluzioni recenziori, di realtà secondarie e di limitata
diffusione; è il caso della fondue bruxelloise o della cosiddetta fondue au parmesan
delle Ardenne. Abbiamo qui una "fusa" di vari tipi di formaggio, panna, latte, burro,
rossi d'uova che, una volta «diaccia e, dello spessore di uno scudo» (così se parlasse
Pellegrino Artusi) si taglia a rombi, si impana e si frigge... nel burro.
La temperie dietetica dell'oggi ci impone di vedere in questa preparazione una
vera orgia di colesterolo e grassi saturi, nemica del fegato e delle arterie, riflesso
sicuro di brumosi paesaggi «ad nord de l'Héxagone». E, nella casistica qui discussa,
questo tipo particolare non fa testo. Ancora, non avrà alcun valore documentario se
non come una bizzarra ipercaratterizzazione, come un cumulo di tratti pertinenti del
codice socio -cucinario della grande cuisine ormai matura, che nel monumentale
manuale di Ali-Bab, in auge in Francia nel primo quarto del nostro secolo, una
fondue per sei persone richieda formaggio (gruyère) e burro per circa mezzo chilo e
in pari proporzione, tartufi neri del Périgord, dodici uova, limone, un sugo di
arrosto, meglio se di tacchino. Come si vede, un compromesso fra «pane e
formaggio» e la lussuosa cucina dei tartufi neri, dei roux, dei fondi chiari e scuri, cui si
aggiunge una preparazione molto complessa in cui entrano i dodici bianchi d'uova
montati a neve.
Dal «mets sain et savoureux» di Brillat-Savarin ci discostiamo. Il sapore
marcatamente eziologico del paragrafo «De la fondue»
nell'opera
del
grande
gastrosofo può a tutta prima insospettire lo studioso, il quale diffida per una
sorta di automatismo genetico di ogni autobiografismo. Brillat-Savarin pur senza
renderla esplicita, ci conduce all'idea che proprio la sua Savoia sia stata il centro di
diffusione della fondue del tipo «piemontese»: l'aneddoto del Savarin sulla fonduta
lo si può leggere nella traduzione di Dino Provenzal, bella e fine come tutte le
versioni lasciateci da lui. Ma il fine traduttore e grammatico spiritoso non è
obbligato a intendersi di cucina sicché non mi sentirò in colpa facendo due
critiche alla traduzione: Savarin titola «De la fondue», Provenzal traduce «Della
fondua». Fondua è un dialettismo piemontese, la traduzione è in italiano di
elegante registro fiorentineggiante: che c'entra, nel titolo,
una
parente
di
Monsú Travet e altro? Una seconda insoddisfazione, meno epidermica, ho da
esprimere su quello che mi pare un autentico fraintendimento del pensiero di
Savarin, il quale peraltro gioca un po' a nascondino; Savarin, dopo aver rilevato che
la fonduta è un piatto sano ecc., aggiunge: «Au reste [?!] je n'en fais mention ici que
pour ma satisfaction particulière». Sembra il caso di tradurre: «Del resto ne parlo
qui solo per mio gusto». Egli sembra scusarsi, dopo tante menzioni di cibi nobili, di
parlare di fonduta e poi inserisce l'aneddoto di un vescovo di fresca nomina in Savoia,
che suscitò scalpore per avere mangiato la fonduta col cucchiaio e non con la
forchetta.
L'aneddoto però è tutto savoiardo come savoiarda è l'area, a cavallo tra la
Francia e l'Italia, da cui si diffonde una fonduta a base di latte, formaggio, rossi
d'uova, mangiata in antico con la forchetta, oggi col cucchiaio; mentre in una
zona fra la Germania e la Svizzera tedesca dev'essere nata quella che è oggi la
fondue svizzera per eccellenza, fatta di formaggio, vino, kirsch, fecola di mais,
pane a dadi, che si è sempre mangiata con la forchetta, coi rebbi infilati sul
pane, tutti assieme nel tegame tenuto a bollore. La fondue di Brillat-Savarin è
testimone del divenire non solo dei modi a tavola ma pure dei momento in cui in
Savoia si preparava una fondue meno cremosa, più «svizzera» salvo che nella rustica
convivialità.
Torniamo a Savarin, che sembra scusarsi del suo racconto eziologico: egli
sostiene che la fondue è di origine svizzera e la Svizzera fu certo, e non solo per la
fonduta di formaggio, il luogo di intensi scambi tra le componenti etniche francese e
tedesca, egemoni colà almeno dai tempi di Savarin. Entrambe le fondute che vengo
descrivendo richiedono un coefficiente acido o acidificante che ne faciliti la digestione:
questo è il kirsch nel tipo germanico, può essere il limone in qualche variante del tipo
«franco-piemontese», ma è sempre anche pepe o noce moscata, che il Savarin
definisce «un des caractères positifs de ce met antique». La traduzione dei Provenzal
non soddisfa perché a me pare che Savarin voglia qui ribadire «uno degli aspetti
positivi di questo piatto antico», cioè quella salubrità, robustezza di sapore che egli ha
in mente in contrasto con una cucina elaborata e raffinata di cui egli è, mentre scrive,
comunque un interprete. Senza perciò tradire il suo passato montanaro, Savarin
parla di fondue solo per la sua «satisfaction
particulière»
quasi
scusandosi di
contravvenire l'esigente codice socio -gastronomico dei suoi giorni.
Dunque la Savoia, sulle Alpi francesi, può essere stata un focolaio se non di
espansione, almeno di codificazione della fondue. I tipi di formaggio usato sono il
gruyère e vari formaggi locali savoiardi in Francia, la fontina in Italia. Un gruyère non
troppo stagionato è dolce quanto la fontina e come questa è sufficientemente grasso
perché il composto sia abbastanza "onctueux", cioè morbido e saporoso. Se, dietro a
un equivoco diffuso in Italia, si identificasse il gruviera con l'emmenthal (a Milano
genericamente "svizzero",
altrove e nel secolo scorso "gru(i)era" valeva anche
«parmigiano») allora la futura (sperata) fondue (quella «svizzera»), verso
l'ebollizione, si rivelerebbe un tragico globo gommoso che annega nel vino e nel siero
e a niente servirebbe «remuer en huit» (mescolare a forma di otto) come
proustianamente ricordo minacciare da fantesche elvetiche perché l'amalgama fosse
perfetto. E tra la Francia, la Svizzera e l'Italia pullulano, in una distribuzione che
rivela varie stratificazioni nel tempo, indifferentemente fondute ora del tipo
«savoiardo» e al gruyère, ora del tipo «svizzero-germanico» sempre al gruyère (in
varie composizioni con emmenthal, appenzeller e altri formaggi), ora del tipo diciamo
nostro. Qualche denominazione di fondute tratta dalla Grande enciclopedia della
cucina Curcio di Giuliana Bonomo ci illumina sulla zona di questi scambi cucinari:
fondue di Neuchatel, fondue di Friburgo, fondue di Mainz. Dalla Svizzera
Romanda a Friburgo sconfinando in Germania, un tipo «germanico» con vino,
kirsch, fecola di mais, aglio da sfregare sul fondo del "caquelon", cioè la pignatta [in
Carnacina leggo una «grafia fonetica» un po' troppo fonetica, "caklon", indice
peraltro di una ricognizione orale, non puramente manualistica e dunque di prima
mano], viene opponendosi al tipo «francese» parzialmente sopravvissuto in Savoia e
attestato, per il passato, da Brillat-Savarin. Al di là delle Alpi, isolato, questo tipo
sopravvive immutato nella fonduta piemontese-valdostana, salvo la presenza della
fontina.
La
fondue
di Brillat-Savarin, sconfitta dalla grande cuisine, sopravvive
dunque in un'area isolata ed è stata sostituita, in un moto strutturale, dal tipo
oggi detto «svizzero» e di ambiente originariamente svizzero tedesco-germanico.
In Italia la fonduta, dopo questa sua storia, è rimasta un cibo regionale.
Nell'Artusi se ne parla con distacco e la si chiama cacimperio (termine che,
curiosamente, in alcuni testi antichi vale «pinzimonio»), una specie di epifania di un
cacio imperiale per la sua doviziosità, naturalmente nei termini di un passato meno
«proteico» del presente. Oggi la fonduta piemontese viene offerta dai cuochi
cosiddetti creativi o come tale o, più sovente, come glassa di qualche sformato, in
genere di verdure.
Un goloso che viva a Milano può dire di aver visto glassare di fonduta quasi
tutto... Anche il corifeo della nouvelle cuisine, ora quasi ripudiata, si è cimentato
con cosiddette fondute che però sono tutt'altra cosa: nel suo manuale ormai
famoso, anni fa Paul Bocuse, in fuga da una tradizione di cibi troppo cotti e troppo
grassi, chiamava "fondue (di pomodori)" una salsa di pomodoro al burro aggiunto
a freddo, adatta appunto come guarnizione. Naturalmente le tante glasse di
fonduta dei creativi nostrani sono stanco manierismo rispetto all'elegante salsa
del Bocuse. La quale però è fondue di nome, non di fatto. Si può osservare che in
entrambi i tipi, «francese» e «germanico», la funzione di addensante è svolta da
ingredienti adatti allo scopo, come uova o fecola di mais (maizena). Da noi
qualche cuoca piemontese un po' taccagna mette un terzo o meno dei tuorli d'uova
previsti e aggiunge farina. L'insieme è meno "onctueux" ma certo più leggero e
ugualmente saporito.
Il calore deve essere dolce: il bagnomaria, sempre
antipatico,
può essere sostituito dall'uso di un recipiente pesante e uno
spargifiamma
a
reticella. Anche la (rituale, in fondo) macerazione del
formaggio nel latte per alcune ore si può aggirare tritando il formaggio minutamente
e procedendo con deboli temperature. L'ebolliz ione fa «impazzire» i tuorli, ma l'idea
«economica» di cui ho detto, a base di farina (in realtà la stessa, salvo che si tratta
di fecola, codificata come svizzera) risolve anche questo problema, perché la
farina non può impazzire.
Alla fonduta si adatta, molto bene il forno a microonde: nel libro di Fernanda
Gosetti, uscito di recente, si trova un'ottima ricetta di crostini alla fonduta, che si
realizza in pochissimi minuti e senza impazzimenti, in ogni senso. Fa malinconia,
dopo tanta storia, che al presente negli USA la sacerdotessa consacrata di cucina
elettronica, Pat Jester, offra, in ossequio all'instant cook, un "basic Cheese Fondue" a
microoonde del tipo svizzero, in cui il sentore dell'aglio viene da aglio in polvere, il
formaggio è un povero "process cheese", cioè formaggio già fuso con i soliti
polifosfati. Come dire la fonduta di formaggini.
Faliscan
La Gola – gennaio/febbraio 1988