Verità della copia nell`estetica antica
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Verità della copia nell`estetica antica
Verità della copia nell’estetica antica Il problema delle copie è centrale nella storia dell’arte classica, al punto che per buona parte della storia di questa disciplina si è praticamente identificato con essa, ma è di grande rilevanza anche per la storia dell’estetica. Storia dell’arte nell’antichità di La Winckelmann, che a metà del ‘700 rappresentò per l’arte antica quello che il sidereus nuncius galileiano aveva rappresentato per l’astronomia, era inficiata in realtà proprio dalla scotomizzazione di quel problema. Nei manuali di solito si legge che tutto il 700, Winckelmann compreso, rimase ignaro del fatto che la quasi totalità delle sculture antiche allora conosciute erano copie e non originali. Ma non è proprio così: almeno nel caso di Winckelmann non fu ignoranza ma rimozione. Già i Richardson (padre e figlio), in una fortunatissima guida per viaggiatori del Grand Tour del 1720, constatando l'esistenza di più statue antiche simili fra di loro avevano concluso che doveva trattarsi di altrettante copie di originali perduti. Winckelmann conosceva benissimo le argomentazioni dei Richardson, ma si guardò bene sia dallo svilupparle che dal contestarle. Semplicemente le ignorò. E tuttavia era ben consapevole dello scheletro celato nel suo armadio di studio- so; tanto che arrivato all'ultima pagina della Storia dell'arte si lascia sfuggire questa frase: «Come la donna amata che dalla riva del mare segue con gli occhi colmi di pianto l'amato che si allontana… anche a me...resta solo l'ombra dell'oggetto dei miei desideri...per cui io osservo le copie degli originali con maggiore attenzione di quanto farei se fossi in pieno possesso di quelli». Una sorta di confessione in extremis del convertito Winckelmann, al quale otto anni di frequentazione dei cattolici romani avevano pur insegnato qualcosa. Winckelmann insomma sapeva, e un altro che certamente doveva sapere era Mengs, che di Winckelmann fu prima mentore e poi stretto sodale. Ebbene, solo dopo la morte di Winckelmann, e poco prima della propria, nel 1779, Mengs, richiesto di un parere sul famoso gruppo dei Niobidi (FIG. 1), 1 1 ammise che quelle sculture erano da considerarsi delle copie, e vi aggiunse per buon peso anche il Laocoonte (FIG. 2), 2 3 l'Ercole Farnese (FIG 3) e perfino l'Apollo del Belvedere (FIG. 4). 4 Non è credibile che si sia trattato di una tardiva illuminazione. Si può invece capire la sua esitazione a smentire l’amico, rapidamente divenuto un’autorità indiscussa. Più coraggio ebbe Francesco Milizia, che sul finire del secolo, senza giri di parole, sostenne che le statue antiche dei musei di Roma «ci paiono bellissime perché non ne vediamo di più belle» E «forse queste nostre bellissime non saranno che copie». Una volta conclamato che il re era nudo, toccò ai sacerdoti dell’Altertumswissenschaft tedesca fare ordine nell’intricata materia. Nacque così nell’800 una vera e propria scienza nella scienza che prese il nome di Kopienkritik. La Kopienkritik – che conta numerosi cultori ancora oggi opera secondo il paradigma della critica testuale, considerando le copie alla stregua di altrettanti codici che ci hanno tramandato un determinato testo. Prima procede alla recensione di tutte le copie pervenuteci, poi le confronta, crea l’equivalente di uno stemma codicum individuando quelli più vicini all’archetipo, e infine cerca di restituirci quest’ultimo correggendo gli errori e i fraintedimenti dei copisti, eliminando le interpolazioni, e integrando per congettura le parti mancanti o irrimediabilmente corrotte. Lavorando in questo modo sulle copie di età romana l’archeologia filologica ottocentesca ritenne di poter ricostruire esattamente l’iconografia e lo stile delle creazioni originali dei grandi maestri dell’arte greca, perdute pressoché integralmente. In certi casi ricreò fisicamente in gesso il supposto originale, dandogli perfino il colore del bronzo per renderlo più vero (FIGG. 5 e 6). 5 6 2 La summa di questo metodo è Meisterwerke der rappresentata dai griechischen Plastik di Adolf Furtwaengler (per la cronaca: il padre di Wilhelm, il grande direttore d’orchestra del secolo scorso), la cui pubblicazione, nel 1893, suggellò tutta una corrente di studi la cui influenza si è fatta sentire su generazioni di studiosi, inclusa la mia. Ancora oggi tutto ciò che nei manuali di arte antica si legge di artisti come Mirone, Policleto, Callimaco, Prassitele e altri – della cui mano, badate bene, non possediamo un solo frammento sicuro - si basa esclusivamente sulla Kopienkritik e le valutazioni estetiche che ne discendono sono fatte senza preoccuparsi di rimetterne in discussione né le conclusioni né le premesse di questa. E invece sarebbe molto opportuno farlo, cominciando dal fatto che la Kopienkritik si basa su un criterio di originalità che è sostanzialmente una creazione del romanticismo e non corrisponde affatto al pensiero degli antichi. Beninteso, non mi riferisco qui a problematiche filosofiche. E’ chiaro, per esempio, che se stiamo a Platone la copia di qualcosa che è già copia di una copia ha un valore infimo, ma una cosa è quello che pensò Platone, tutt’altra cosa è quello che pensarono i Greci nel corso di tutta la loro storia, quindi anche prima di Platone e dopo Platone, particolarmente sotto il dominio romano. Per quanto ciò possa sorprendere noi moderni, la verità è che per gli antichi l’originalità non era un valore primario, né copiare era considerato disdicevole. Gli antichi non ebbero un concetto della proprietà intellettuale simile al nostro, non esistette mai qualcosa di paragonabile a un copyright, e lo stesso concetto benjaminiano di aura sembra valere solo per poche eccezionalissime opere. L’unico metro per valutare una pittura o una scultura era quello della téchne, dell’abilità artiginale, del saper fare. Il copista era uno scultore che non faceva un lavoro diverso da quello dell’artista da cui copiava, e dunque firmava tranquillamente la copia col suo nome, aggiungendo epoiei, epoiesen (fece), esattamente come lo scultore che aveva realizzato il cosiddetto originale. L’Ercole Farnese replica certamente una statua bronzea creata da Lisippo verso la fine del IV sec. a.C., ma l’iscrizione, di II sec. d.C. (FIG. 7), dice: «Glykon Ateniese epoiei». 7 Un’erma in bronzo da Ercolano replica la testa del cosiddetto Doriforo di Policleto, che conosciamo da molte altre copie di marmo, ma è firmata da Apollonios di Atene (FIG. 8). 8 3 Il Laocoonte che Plinio vide e che tanto lodò era opera di Agesandro, Atenodoro e Polidoro di Rodi, ma con tutta probabilità costoro avevano rifatto in marmo un gruppo bronzeo creato a Pergamo un secolo prima. Certo, è possibile che Plinio non lo sapesse, ma è un fatto che discutendo opere di scultura o di pittura gli scrittori antichi non specificano mai se si tratta di originale o copia. Per loro la cosa era irrilevante. Ciò che importava era la bravura dell’autore e l’efficacia della sua realizzazione, efficacia che, come vedremo meglio tra un momento, era valutata soprattutto in relazione al contesto nel quale era destinata a essere fruita. In effetti, che certe immagini fossero riconosciute e intese come copie di determinate opere di un particolare artista è un’assunzione tutt’altro che provata della Kopienkritik. Ma anche su questo dovrò tornare. Per il momento è invece opportuno fare un passo indietro, perché stiamo impiegando i termini copia e originale come se questi fossero sempre nettamente distinguibili nel mondo antico, mentre non è proprio così. Prendiamo i famosi Bronzi di Riace (FIG. 9). Perché sono così famosi ? Perché sono stati riconosciuti come due rarissimi, pressoché unici originali della grande scultura in bronzo del V sec. a.C., ossia del momento chiave della classicità. Eppure accurate analisi metrologiche hanno dimostrato che sono in realtà due repliche dello stesso modello. I corpi dei due guerrieri sono stati realizzati da matrici tratte dallo stesso prototipo. Questa è una circostanza che si spiega con l’organizzazione del lavoro all’interno delle officine antiche che impiegavano la tecnica della fusione a cera perduta. Questa tecnica già di per sé produce non originali ma copie del prototipo modellato in cera, e in più, riutilizzando uno stesso set di matrici, si potevano ottenere parecchie altre copie, anche a distanza di tempo e in luoghi diversi. Viene in mente quel Balzac di Rodin che è in una collezione americana e che fu fuso in bronzo molti anni dopo la morte di Rodin. L'uso ripetitivo degli stessi modelli di base spiega anche come poterono essere realizzati in breve tempo a Olimpia e a Delfi gruppi di trenta e più figure in bronzo a grandezza naturale. E spiega anche come un Lisippo possa essere stato accreditato dagli antichi di non meno di 1500 opere. Probabilmente molte di queste erano in realtà duplicati tratti da suoi prototipi in momenti successivi. Oppure erano sostanzialmente la stessa opera con minime varianti, un po’ come le quattro Fornarine (FIG. 10) e la dozzina di 9 4 10 e la dozzina di Paolo e Francesca (FIG. 11) che il 99 % di esse non può definirsi la riproduzione esatta, punto per punto, di un originale. Intanto perché di molti di questi sarà stato impossibile prendere calchi e misure precise, vuoi per la collocazione particolare, vuoi perché le autorità tutelavano adeguatamente certe opere venerate in tutta la Grecia; e poi perché in molti casi il passaggio dal bronzo al marmo, vale a dire a un materiale diverso per peso specifico e resistenza, rendeva inevitabili degli adattamenti. E anche quando il modello era in marmo ed esposto all’aperto, come nel caso delle Cariatidi dell’Eretteo (FIG. 11), le copie che possediamo non sono mai identiche all’originale. 11 che Ingres dipinse nell’arco di molti anni. In casi del genere qual è l’originale e quale la copia ? Quando cominciamo a guardare da vicino, inevitabilmente i confini si fanno sfumati. Per quanto riguarda il mondo antico, è l’idea stessa di copia come riproduzione fedele di un originale che un esame ravvicinato mette in discussione. Vediamo di puntualizzare. La pratica della duplicazione mediante calco è attestata sia dalle fonti (Luciano parla di una certa statua nell’agorà di Atene che era perennemente coperta di pece perché continuamente gli scultori ne prendevano il calco) sia dal ritrovamento a Baia, in Campania, di una bottega di copisti di età adrianea che possedeva calchi in gesso di opere greche famose. Ma se guardiamo alla totalità delle statue che sono normalmente ritenute delle copie bisogna prendere atto 11 Stesso discorso per pittura. Faccio un solo esempio ma se ne potrebbero fare tanti altri. Un affresco della casa del Poeta Tragico a Pompei (FIG. 13) è comunemente considerato la copia del celebre quadro di Timante Il sacrificio di Ifigenia. 5 13 Ma se andiamo a guardare bene, solo la figura di Agamennone corrisponde alle descrizioni di Plinio e di Valerio Massimo. Tutto il resto non torna. Questo pone parecchie domande. Il pittore pompeiano ha mescolato cartoni diversi ? O ha ricreato il quadro ricordandosi di quello che sapeva a proposito di un quadro che non aveva mai avuto o non aveva più sotto gli occhi in nessuna forma ? Oppure, rovesciando il problema, potremmo chiederci: quanto sono affidabili le descrizioni letterarie ? Neppure gli autori, quando scrivevano, avevano di norma sotto gli occhi le opere di cui parlano. E poi il genere ecfrastico aveva delle proprie convenzioni che a volte fanno premio sulla fedeltà della descrizione. Insomma, per farla breve, negli ultimi tempi ci si è cominciato a chiedere se per caso tutto l’approccio al problema delle copie non sia da impostare in maniera diversa. Per esempio, siamo sicuri che qualunque deviazione da ciò che si presume essere l’originale debba essere attribuita a trascurezza o incapacità del copista? Dopotutto scolpire o dipingere non è scrivere, e modificare l’angolazione di un arto, cambiare un gesto in un altro aggiungere o spostare un elemento non è esattamente come copiare distrattamente un lettera per un’altra. Forse le differenze sono il frutto di una scelta non necessariamente casuale né banale. Nel 1959 Arno Reiff pubblicò un importante lavoro sull’imitazione del modelli letterari greci da parte degli scrittori romani. In esso distingueva tre pratiche diverse: l’interpretatio, l’imitatio e l’aemulatio. L’interpretatio è la traduzione fedele, l’imitatio una versione libera che che può combinare anche più fonti, mentre l’aemulatio comporta una competizione creativa che è possibile solo dopo una profonda assimilazione delle caratteristiche del modello. Se estesa alle arti plastiche, una simile categorizzazione può risultare molto produttiva, se non altro perché recupera al giudizio estetico una vastissima serie di opere che la Kopienkritik scarta in quanto non immediatamente utili alla ricostruziodell’archetipo, precludendosi però di comprenderle come espressione della cultura che le ha prodotte. E invece proprio da lì dobbiamo partire. Copiare, replicare non è mai un’operazione ingenua. Tipologizzare, combinare, e reinterpretare la forma presuppone la volontà di mediare con la cultura e la società contemporanee. Ma andiamo con ordine. A tutti voi sarà capitato di leggere in un libro o in un cartellino di museo “copia romana di originale greco”. Ma questo non vuol dire che quella copia è stata fatta da uno scultore romano. Possiamo anzi essere sicuri che nella stragrande maggioranza, se proprio non vogliamo dire nella totalità dei 6 casi l’autore è un greco, perché di fatto questa attività era in epoca romana completamente nelle mani di Greci. Quello di una maniera romana, ripetitiva e pregiudizialmente inferiore rispetto alla creatività greca, è un equivoco che ci portiamo dietro dall’epoca di Winckelmann. In realtà tutto si gioca tra gli esiti della medesima ininterrotta tradizione artigianale e formale greca e le esigenze della committenza romana. E quali erano queste esigenze ? Il committente romano ‘tipo’ si distingueva per posizione sociale e mezzi economici, era abbastanza colto da avere familiarità con la cultura e l’arte greca, ma non era necessariamente un connaisseur. Difficilmente avrà richiesto una copia esatta di un’opera che probabilmente non aveva neanche mai visto. Quello che voleva era piuttosto un’occorrenza, un token potremmo dire in termini semiotici, di una idealtypus a cui unanimemente si riconosceva una eccellenza e una valenza normativa. Concetti quali exemplum e auctoritas sono fondamentali in questa prospettiva, ma la parola chiave è un’altra: decor. Decor è il termine latino che corrisponde al greco prépon e possiamo tradurlo con ‘appropriatezza’. Detto in estrema sintesi, quello che veramente conta per i Romani non è un astratto valore artistico, ma la convenienza di un certo contenuto (cioè di un certo soggetto iconografico) e di una certa forma (cioè di un certo stile) a un certo contesto. Faccio qualche esempio. In una terma sta bene un apoxyomenos, dato che il raschiarsi con lo strigile era appunto un’azione tipica da ambiente termale. Un apoxyomenos famoso era quello di Lisippo, quindi era preferibile un apoxyomenos di stile lisippeo. Non necessariamnente una copia esatta di quello di Lisippo, ma una statua che comunque richiamasse quel modello. Stesso discorso per la palestra, dove andavano per la maggiore corpi di atleti alla maniera di Policleto, o per i teatri, per i quali erano considerati molto adatti Satiri nello stile di Prassitele: sul frontescena del teatro di Castelgandolfo ce ne erano quattro copie (FIG: 14), nessuna delle quali, 14 faccio notare, totalmente identica ad un’altra. Anche le biblioteche, i giardini, i triclini e praticamente ogni altro ambiente avevano un tipo di arredo artistico considerato particolarmente confacente per soggetto e stile e perciò richiesto abitualmente dai committenti. Delle migliaia di statue classiche se ne copiarono in fin dei conti meno di un centinaio, sempre quelle, in tutto l’impero, però con una certa libertà, esercitandosi in variazioni sul tema. Quelle che la Kopienkritik marginalizza come copie non conformi o pastiches sono tali solo nell’ottica di una ricostruzione filologica. In realtà si tratta di creazioni originali di artisti greci basate su un patrimonio formale ereditato dai maestri dell’età classica e rispondenti ai valori estetici condivisi dai committenti. A questi ultimi, ripeto, importava poco di 7 possedere la copia esatta di questa o quell’opera del tale maestro. Il loro desiderio era quello di esibire delle opere che rimandassero immediatamente a quella cultura greca alla quale si annetteva un prestigio ineguagliato, delle opere che facessero riconoscere i proprietari come persone gusto, come membri, insomma, di una élite. Perciò gli scultori più che copiare passivamente citavano, alludevano sapientemente, emulavano quando potevano e sapevano farlo, si rendevano sacerdoti di quello che è stato definito un esteso culto della memoria culturale. L’estetizzazione degli spazi pubblici e privati per mezzo di icone della bellezza classica equivaleva all’esecuzione di un rituale mnemonico grazie al quale ci si trasportava in una Grecia idealizzata. In fondo, qualcosa di non molto diverso rispetto all’uso che dell’arte classica fece il rinascimento o l’età neoclassica. Se ci si mette in quest’ottica ecco che allora più che quello di copia torna utile il concetto di intertestualità. In ambito semiotico un testo è “qualsiasi prodotto di una determinata cultura dotato di significato”. E dunque anche i testi visuali fanno parte di un sistema più ampio di relazioni, dialogano a distanza, si richiamano in qualche modo l’un l’altro attraverso reminiscenze o citazioni esplicite. Così ci può essere l’uso intenzionale da parte di un autore dello stile proprio di un altro autore o di un’altra corrente artistica come esplicito omaggio a dei predecessori. Ogni testo si iscrive d’altronde in tutto o in parte in un genere, si dà a riconoscere come afferente a una determinata categoria. Ciò è particolarmente vero per l’antichità. Come in letteratura era il genere letterario a dettare le leggi compositive funzionali alle singole occasioni (come disse bene Goethe, nell’antichità ogni opera d’arte è opera d’occasione) così nelle arti visive era lo spazio della fruizione a suggerire i tipi iconografici e i linguaggi formali da adottare. Il genere artistico come strumento critico fu ignorato dall’estetica romantica, e sminuito da quella crociana, eppure oggi può essere di grande utilità per capire meglio le dinamiche che intercorrono tra committenti ed esecutori nell’antichità. Molte di quelle che frettolosamente definiamo copie sono in realtà degli ipertesti che si innestano su un preesistente ipotesto (per usare la terminologia di Genette). Facciamo un esempio moderno: il Déjeuner sur l’herbe di Manet (FIG. 15). 15 Se ci confiniamo all’interno della polarità originale-copia abbiamo delle difficoltà ad inquadrare quest’opera. Ma se ci mettiamo nella logica dell’intertestualità allora capiamo meglio l’operazione che Manet fa rispetto alla stampa di Marcantonio Raimondi (FIG. 16), 8 16 che a sua volta è un ipertesto di Raffaello, e capiamo perché Aby Warburg trovò questo quadro così interessante in ordine alla riattualizzazione di certe pathosformeln. Giovanni Lombardo ha recentemente applicato la metafora della pietra di Eraclea, ossia del magnete, al modo in cui si trasmettono le influenze nel grande intertesto della memoria culturale. L’intertestualità non nega la relazione con l’originale ma non privilegia quest’ultimo e non fa della copia un’imitazione meccanica o un plagio bensì una riformulazione conscia e motivata. Quintiliano non apprezzava i copisti pedissequi, quelli che lavoravano mensuris et lineis. Tra conformatio e commutatio preferiva sicuramente quest’ultima, raccomandando anzi il ricorso a più modelli. Ed è proprio consigliando l’eclettismo stilistico in oratoria che introduce quel famoso parallelo con i diversi stili degli scultori classici che è uno dei testi più importanti dell’estetica antica, debitamente antologizzato nel volume sull’Estetica della scultura che ho fatto con con Paolo D’Angelo e Elisa Di Stefano. Anche Seneca distingue la copia imitativa, tipica della fase di apprendistato, da quella creativa, frutto di una introiezione empatica dei modelli e tipica di chi ormai padroneggia pienamente la propria panoplia espressiva. Dunque si va facendo strada l’idea che gli scultori di età romana sapevano creare emulando e non solo copiare. Il che ha portato a delle ipotesi inconcepibili solo vent’anni fa. Per esempio, si è fatto notare che il gruppo del Laocoonte, il gruppo del Galata suicida (FIG. 17), il Galata morente (FIG. 18) , lo stesso Apollo del Belvedere, 17 18 che si sono sempre considerate copie di originali greci perduti, sono in realtà degli unica. Non se ne conoscono altre repliche. Perciò potrebbero benissimo essere degli originali greci di età romana che mimano, per così dire, con successo lo stile dell’età tardoclassica ed ellenistica. 9 L’ethos dell’emulazione, così è stato definito, potrebbe in effetti aver prodotto degli ipertesti in cui la nozione di autore individuale sfuma fino a scomparire. Parafrasando Barthes, possiamo dire che l'autore è morto, ridotto a manipolatore di linguaggi, a organizzatore di citazioni, ripetizioni, echi e referenze da altri testi. Allora il luogo in cui una tale molteplicità si ricompone non è più l'autore, bensì il lettore, nella duplice accezione di committente e di fruitore. La verità dell’opera non è più nella sua origine ma nella sua destinazione. Giuseppe Pucci 10