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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
FACOLTA’ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA MEDIAZIONE LINGUISTICA
TESI DI LAUREA
PROSPETTIVE DI SVILUPPO E PROGETTUALITA’ IDENTITARIA
DI UNA VALLE OCCITANA
RELATORE
PROF.SSA Laura Bonato
CANDIDATA
Fantino Elisa
Matricola 253944
Anno Accademico 2008 – 2009
INDICE
Premessa
2
Capitolo I - L’Occitania
1.1. Il nome, il territorio, la popolazione
4
1.2. La lingua e la letteratura
11
1.3. Un po’ di storia
17
Capitolo II - La Valle Grana
2.1. La Valle Grana e i suoi comuni
24
2.2. Castelmagno e le sue frazioni
32
2.3. Un po’ di storia
36
2.4. Borgata Valliera: terra di emigrazione e vita di lassù
43
2.5. Abitudini e antiche tradizioni
52
Capitolo III - Il Progetto di recupero di una borgata alpina
3.1 Inquadramento dell’iniziativa nel contesto territoriale
56
3.2 Il progetto di sviluppo
59
3.3 Gli obiettivi
62
3.4 Piano di realizzazione
64
Riferimenti bibliografici
66
1
«Il solo territorio sovrano che il popolo
occitano poté mai abitare furono la sua
lingua e la sua letteratura».
(Robert Marty, Università di Perpignan, Francia)
«Ci sono paesi noti a tutti e facilmente
rintracciabili sulle carte geografiche. Ce
ne sono altri di cui si favoleggia, si
racconta, si intuisce, si discute, anche
se non esiste traccia sugli atlanti.
L’Occitania è uno di questi paesi. Non è
facile rintracciarne i confini nelle
mappe della memoria, ma si può
tentare di ritrovare le tracce, viaggiando
nel tempo e nello spazio, dall’oceano
Atlantico alle Alpi».
(Enrico Lantelme, Alberto Gedda, Gianni Galli)
Premessa
Il nostro viaggio percorre una valle occitana, lassù sulle Alpi al confine con
la Francia, territorio solo apparentemente frastagliato da un’imponente
catena montuosa che invece ha costituito l’anello di congiunzione tra
popolazioni vicine, accomunate da un fattore fondamentale: la lingua d’oc.
Un territorio aspro e straordinario nelle Alpi piemontesi, dove continua a
vivere una identità culturale ben definita. Paese immaginario di cui si sente la
voce, si avverte il respiro, si ascolta la musica e si percepisce uno spirito
ancora oggi così originale e diverso.
Proprio in quei territori che sorge Valliera, antica borgata di Castelmagno,
da anni abbandonata, caduta nel degrado, dimenticata. Borgata un tempo
ricca di vita, di tradizioni e antiche credenze, di montanari che lavoravano
duramente la montagna aspra e poco generosa nell’offrire le risorse
necessarie per vivere. Il paziente lavoro degli abitanti e la loro grande
ingegnosità hanno conservato nel tempo un patrimonio incontaminato.
Borgata, questa, che oggi nuovi uomini con nuove forze hanno scelto di
far rivivere nel rispetto delle antiche tradizioni, per far sì che nulla venga
dimenticato, per creare un fil rouge che leghi il passato al futuro. Obiettivo
principale è dunque la riqualificazione territoriale e la valorizzazione del
patrimonio storico rurale alpino.
2
Castelmagno (Cuneo), Frazione Valliera, 1509 m s.l.m.
L'aggregato rurale visto da est. Con la partecipazione dei delicati colori primaverili,
la simbiosi col paesaggio alpino è totale.
Da sud est, la borgata emerge dalla boscaglia estiva
3
Capitolo I
L’Occitania
1.1. Il nome, il territorio, la popolazione
Il termine Occitania compare per la prima volta nel 1290 a definire
l’insieme delle regioni dove si parlava la lingua d’oc. Vasto territorio che mai
è diventato Stato, era, ed è a tutt’oggi, identificabile unicamente con criteri
socio-linguistici (Grassi, 1958).
Quando Dante tenta una prima classificazione delle parlate romanze,
nell’opera Vita nova e nel De Vulgari eloquentia, prende come riferimento la
particella che nelle varie lingue indicava l’affermazione e determina così tre
idiomi: la lingua d’oc dal latino hoc est (questo è); la lingua d’oil come il
francese che derivava invece da illud est (quello è); infine la lingua del si,
l’italiano, dal latino sic est (così è) (Bertolino, 1997).
L’amministrazione reale francese, a partire dal XIV secolo, prese a
chiamare patria linguae occitanae i feudi meridionali appena conquistati e
che sentiva diversi. Eppure, fino al secolo XX, la lingua occitana non era nota
con questo nome e veniva chiamata per lo più lingua d'oc (da cui
Linguadoca) o provenzale. Tramandata nei secoli dai trovatori, viene
chiamata occitana a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Il termine
diventa usuale e indica una definizione linguistico-geografica estesa, mentre
la parola provenzale designa la parlata occitana in uso nella sola Provenza.
Chiamata comunemente croce di Tolosa, appare ufficialmente nel 1211 sul sigillo della
Contea di Tolosa. Oggi è il simbolo delle valli occitane.
4
Il territorio
L’Occitania ha una superficie di 196.741 Kmq ed una popolazione di circa
11.850.000 abitanti così suddivisa:

191.880 kmq e 11.610.000 abitanti nello stato francese

4.300 kmq e 200.000 abitanti nello stato italiano

450 kmq e 10.000 abitanti nell stato spagnolo

1,5 kmq e 30.000 abitanti nel Principato di Monaco.
Nonostante queste cifre, il territorio occitano è identificabile soltanto
attraverso l’applicazione di criteri linguistici. La popolazione occitana, come
abbiamo detto, non ha mai costituito un proprio stato nazionale. Gli
occitanisti si rifanno, per dotarsi di un precedente istituzionale, al 1213, anno
in cui si costituisce per un breve periodo di tempo, una confederazione panoccitanica attorno a Pietro II, Re di Aragona e conte di Barcellona1. Ma la sua
scomparsa l’anno successivo durante la battaglia di Muret pone fine alla
confederazione.
Questo naturalmente non significa che non esista un territorio occitanico,
ma la lingua rimane l’unico elemento unificatore delle singole minoranze
(Fontan, 1995).
«Proprio per questa ragione, l’Occitania costituisce il modello tipico di
nazione proibita dell’occidente europeo: è la più nazione e allo stesso tempo
la più proibita di tutte» (Salvi, 1998, p.7).
Formano dunque l’Occitania di oggi quelle regioni storiche dove è sorta e
si è sviluppata la lingua d’oc e dove a questa lingua o a uno dei suoi dialetti
ricorre, nelle diverse circostanze e in varia misura, parte della popolazione.
L’Occitania non ha nessuna personalità giuridica, politica ed amministrativa
propria. Si trova annegata nello stato francese, di cui costituisce 21
1
Corrado Grassi nel libro Correnti e contrasti di lingua e cultura nelle valli cisalpine di parlata
provenzale e franco-provenzale, p.15 sottolinea che «l’Occitania, come molte altre regioni
minoritarie, non ha mai costituito nella sua storia un proprio stato nazionale e l’unica
parvenza di entità amministrativa a cui si rifanno i suoi sostenitori (la brevissima esperienza
confederativa tra il conte di Tolosa, Raimondo VI ed il Re di Aragona, Pietro II nel 1213) non
si può considerare autenticamente tale»
Vedi anche Salvi, 1998 p. 6
5
dipartimenti inglobando senza soluzione di continuità 17 vallate alpine sotto
sovranità italiana ed una valle dei Pirenei sotto sovranità spagnola. La sua
estensione è delimitata da una linea ideale che unisce Bordeaux a Briançon
e passa sensibilmente sopra Limonges, Clermont-Ferrand e Valence. Questa
linea che ignora le frontiere statali attraversa le Alpi e abbraccia una dozzina
di valli sul versante italiano, si allunga sulla costa Mediterranea da Mentone
sino alla Catalogna ed entra appena nello stato spagnolo con la Valle d’Aran.
Correndo sui Pirenei, tocca i Paesi Baschi e si tuffa nell’Oceano Atlantico. Le
sette regioni occitaniche tradizionali riviste con occhio contemporaneo sono
dunque: Pruvenso (Provence, Provenza), con capoluogo Aïs (Aix-enProvence); Lengodoc (Languedoc, Linguadoca) con capoluogo Montpelhièr
(Montpellier); Gasconha (Gascogne, Guascogna) con capoluogo Bordèu
(Bordeaux) comprendente anche la Valle d’Aran; Guiena (Guyenne,
Guienna) con capoluogo Albi; Lemosin (Limousin, Limosino) con capoluogo
Lemòtges (Limoges); Auvèrnha (Auvergne, Alvernia) con capoluogo
Clarmont (Clermont-Ferrand); e il Daufinat (Dauphinè, Delfinato) con
capoluogo Valença (Valence)2.
Le valli occitane d’Italia si estendono sulle tre provincie di Imperia, Cuneo
e Torino e sono ufficialmente dodici, ma possono salire a quindici se si tiene
conto anche di alcune vallate laterali formate dagli affluenti dei principali
torrenti e fiumi. Appartengono alla provincia ligure solo Olivetta S. Michele e
parte del territorio di Triora; da sud verso nord si trovano in territorio cuneese
le valli Ellero e Alta Corsaglia, Pesio, Vermenagna, Gesso, Stura, Grana,
Maira, Varaita, e la Val Po con le laterali Bronda e Infernotto; le Valli Dora,
Germanasca, Chisone, Pellice ed alta Val di Susa in provincia di Torino.
Infine, per effetto di un’antica migrazione, fa parte del territorio occitano
anche Guardia Piemontese in Calabria.
2
Salvi, 1998 p. 9-10.
Anche Fontan (1995, p 27-30) sottolinea la difficoltà nel delineare le province occitane
poiché i risultati differiscono a seconda che si adottino criteri linguistici, geografici o storici.
Egli fa una distinzione basandosi sul criterio dialettale (come anche Salvi) e delinea queste
sette province. Inoltre per ognuna segnala i tratti più marcati che le caratterizzano (dal punto
di vista linguistico, morfologico, i primi insediamenti umani, l’economia) e analizza i diversi
dialetti e sotto-dialetti parlati in ogni comune.
6
Cartina politica delle sette regioni occitane
Cartina geografica dell’Occitania tratta da Atlant occitan - Regione Piemonte
7
La popolazione
Ultimo punto su cui occorre soffermarsi brevemente, nel discorso generale
sull’Occitania, riguarda i primi insediamenti umani. Il quadro a grandi linee
dell’Italia dalla preistoria alla conquista romana rivela persistenze e
movimenti di popolazioni, scontri e processi unificatori. A nord, nella zona
occidentale si colloca il territorio dei Liguri che occupa parte del Piemonte
almeno fino al corso del Po, e si estende oltralpe su un’ampia zona del
Meridione francese. I Liguri potrebbero derivare da un antica popolazione
mediterranea ed essersi precocemente mescolati con i Celti, come indica
anche la presenza di gruppi misti celto-liguri o di incerta attribuzione tra gli
uni e gli altri. In età storica (IV secolo) invece, i Galli Celti appartenenti ad
una fase successiva dell’Età del Ferro, sommergono la pianura padana
competendo e configgendo con il sistema politico ed economico creato dagli
Etruschi stanziati al nord e anche oltralpe (Bravo, 2001, pp. 20-21).
Per quanto riguarda le altre regioni occitane, Fontan fa notare come
queste abbiano avuto un popolamento d’origine prevalentemente ligure,
ibero e latino3.
Ai Celti fanno seguito i Greci che si installano a Marsiglia, a Nizza e ad
Antibes e che, essendo soltanto colonizzatori commerciali, rimangono
sempre sulla costa senza fare incursioni all’interno.
I veri colonizzatori linguistici, politici e culturali sono stati i Romani che
hanno organizzato il paese pur senza alterare troppo le sue strutture. Pochi
Romani si installano infatti fisicamente in Occitania. Saranno principalmente
Iberi, Liguri, Baschi e Celti a diventare rapidamente Romani (Salvi, 1998).
Questa integrazione, né frettolosa né forzata, realizza dunque un
equilibrio tra i fattori unitari e la forte differenziazione etnica e linguistica che
3
Nel libro la nazione occitana: i suoi confini le sue regioni (1995) François Fontan prende in
esame le sette regioni storiche dell’Occitania e ne descrive il popolamento d’origine.
Sinteticamente: la Provence ha avuto un popolamento d’origine prevalentemente ligure e
latino, il Languedoc è stato ibero e latino con apporti visigotici assenti altrove. Il popolamento
originario fu, in Gascogne, soprattutto ibero e latino, con forti apporti baschi, mentre il
Limousin fu abitato dalla preistoria(come dimostrano alcune grotte dipinte) prevalentemente
da liguri e galli come anche l’Auvergne e il Dauphinè. Infine la Guyenne è stata popolata in
misura più equilibrata da liguri, iberi, galli e latini.
8
ha caratterizzato l’Italia del I millennio. Più tardi si mescoleranno anche
scarsi elementi germanici come Goti e Franchi (Bravo, 2001).
Attestatasi ormai sull’orizzonte europeo col carattere distintivo della
propria lingua, l’Occitania rimane, dal punto di vista della popolazione,
relativamente stabile ed omogenea, a parte gli accrescimenti demografici
naturali e le perdite anche cospicue dovute alle guerre ed alle epidemie. Fino
al XVIII secolo, la densità della popolazione occitana è uguale o superiore a
quella della Francia. E’ la rivoluzione industriale che modifica la situazione
demografica provocando un grande flusso migratorio verso le fabbriche delle
grandi città del nord (Salvi, 1998).
Complessivamente l’Occitania perde in un secolo e mezzo più di 3 milioni
di abitanti, molti dei quali si stabiliscono a Parigi nel 14° arrondissement
diventato per tutti il quartiere occitano. Altri 500mila muoiono durante la
prima e la seconda guerra mondiale, altri ancora in Indocina ed Algeria.
Il maggior apporto di popolazione straniera (circa 900mila persone) è
invece fornito, negli ultimi decenni, dai pieds noirs, i coloni francesi ritornati in
patria in seguito all’indipendenza nazionale acquisita dall’Algeria nel 1962
(Salvi, 1998, pp. 17-19).
L’Occitania italiana segue identico destino: i valligiani emigrano verso le
fabbriche del fondovalle e delle grandi città padane. Il flusso contrario
riguarda la colonizzazione turistica delle valli (vedi Bardonecchia). Agli effetti
negativi dell’emigrazione vanno aggiunti quelli provocati dal basso tasso di
natalità. Nel 1975 la composizione della popolazione occitanica per classi di
età era così suddivisa: i cittadini da 0 a 9 anni erano quasi un quarto della
popolazione, mentre quelli dai 20 ai 65 anni rappresentavano il 45% e oltre i
65 anni, il 20%4. L’ultimo dato demografico elaborato nel 2008 dalle
Comunità Montane è ancora più significativo: i bambini fino a 9 anni sono
scesi al 10%, i ragazzi da 10 a 19 anni rappresentano il 9%, gli adulti da 20 a
34 il 18%, quelli da 35 a 64 il 42% (la somma delle ultime due fasce è 60%),
e gli anziani con più di 64 anni sono il 18%.
4
Dati acquisti dalla consultazione della tesi di laurea Aspetti di antropologia culturale nella
minoranza etnica di Coumboscuro del candidato Raimondi laureatosi alla facoltà di Lettere di
Torino anno 1974-75
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Un terzo problema connesso allo spopolamento ed all’emigrazione è
quello dell’assimilazione cui è stata sottoposta l’Occitania. Da qui il bisogno
di salvaguardare questa popolazione che, miracolosamente, continua a
parlare l’occitano nonostante la persecuzione cui questa lingua è stata, ed è
tuttora pur in maniera meno diretta, sottoposta. Anche se appaiono
linguisticamente assimilati, gli occitani sono sempre stati sentiti diversi
(Fontan, 1995).
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1.2. Lingua e letteratura
La lingua d’oc è una delle lingue neolatine che si formano sul substrato
degli antichi dialetti regionali e della parlata volgare della Roma
conquistatrice a seguito dell’espansione dell’impero romano.
Se in quella parte di continente che denominiamo per comodità Francia
settentrionale (ma che allora era lungi dall'essere un'entità definita e
definibile) si andava affermando la Langue d'oil, in una zona compresa tra le
valli alpine del Piemonte e la Catalogna prendeva forma la Lingua d’oc
(anche se in realtà non doveva esserci, per il popolo, un significativo distacco
dal dialetto parlato in precedenza). «Questa lingua, che in termini generici è
chiamata occitana, di fatto non esiste, non ha avuto il modo di crescere, di
svilupparsi, perché non ha avuto nessuno Stato dietro di sé: esistono tante
varietà, ognuna delle quali è una lingua e queste lingue a loro volta formano
l’occitano» (Telmon, 1992, pp. 25-26).
Dal punto di vista diacronico invece l’occitano presenta tre fasi: l’antico
occitanico, dalle origini al XIV secolo (è la lingua trovadorica per eccellenza),
l’occitanico medio, dal XIV al XIX secolo (decadenza della lingua,
introduzione del francese e frantumazione dialettale accentuata), infine
l’occitano moderno, dal felibrismo ad oggi (segnato da tentativi di
normalizzazione e rilancio). Dal punto di vista sincronico l’occitano
contemporaneo si compone di tre grandi gruppi dialettali: occitanico
settentrionale, orientale e occidentale. Appartengono al primo gruppo i
dialetti limosino, alverniate e gavot (detto anche provenzale-alpino). Formano
invece il secondo gruppo il linguadociano e il provenzale. L’occitanico
occidentale, che è il più originale e difforme, è formato dal solo guascone
(Grassi, 1958).
All’interno di questi sei grandi dialetti, c’è un certo numero di dialetti
minori. Attualmente l’occitano è parlato, a livello di uno dei suoi molti dialetti,
in tutte le sette regioni, sia pure da una minoranza composta di persone
anziane e contadini. Mentre il suo uso è quasi del tutto scomparso nelle città
più grandi, l’occitano è tuttora fruito, a livello domestico, nelle campagne e
nelle valli montane: Alpi, Massiccio Centrale e Pirenei (Salvi, 1975).
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Dunque l'occitano, l'italiano ed il francese sono le principali lingue
romanze (le altre sono lo spagnolo, il sardo, il portoghese, il rumeno ed il
ladino oltre al catalano che verrà successivamente a formare una lingua a
sé). Senza dubbio l'Occitano è, tra le lingue neolatine, la prima che può
vantare testi scritti ed una letteratura vera e propria giunta sino a noi
(Bertolino, 1997).
Nonostante le vicende politiche che mai hanno permesso la costituzione
di uno stato occitano, la lingua d’oc, ha sempre mantenuto un'importanza
preminente, tanto da essere considerata la prima lingua letteraria nel Medio
Evo dopo il latino. E' questo il periodo dei troubadours, di fatto i primi poeti e
musici apprezzati in tutta Europa, che cantano in occitano (una versione
arricchita di termini colti e grammaticalizzata) le gesta dei cavalieri, l'amore
(spesso adultero) per le dame e la vita di corte. Sono in qualche modo gli
opinionisti del loro tempo, perché nella loro produzione così apprezzata e
diffusa si dedicano anche alla sfera civile e politica esaltando i valori di corte.
Questi valori - il pretz, ossia la riconoscenza pubblica delle proprie qualità, la
largueza, o generosità d'animo, l'humiltat, la convivencia, ossia la tolleranza,
la jovent, il privilegio della giovinezza di spirito - si precisano così in un
atteggiamento generale, definito paratge. Autentica novità sociale apportata
dal movimento trobadorico, che investe ogni comportamento dell'individuo e
la sua concezione etica, definiti mezura e cortezia ed esaltati nel rapporto
amoroso sublimato, la fin'amor, estrapolazione del rapporto feudale a quello
uomo-donna (con la riabilitazione morale di quest'ultima finalmente non vista
come fonte di peccato ma di ispirazione poetica). La grande varietà di temi,
stili e generi, la ricchezza dei valori espressi, la forma musicale dei testi, una
raffinata tecnica letteraria promuovono la diffusione della lirica trobadorica
ben al di là dei confini dell'Occitania, fino ad influenzare i trouvères francesi, i
minnesänger tedeschi, la scuola siciliana ed il dolce stil novo. «La
sublimazione dell'erotismo, la tolleranza verso la diversità e l'uguaglianza
morale fanno dell'Occitania un'isola di gaiezza nel medio evo europeo»
(Lantelme, Gedda, Galli, 2006, p. 28).
Per comprendere la portata e l'importanza della lingua d’oc, si pensi che lo
stesso Dante, nello scrivere la Divina Commedia, utilizza solo tre lingue:
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il volgare che gli era proprio; il latino, cioè la lingua colta, e l'occitano, con cui
fa parlare i tre trovatori che incontra nel proprio viaggio (pare addirittura che
egli abbia avuto la tentazione di scrivere la Commedia in lingua d’oc)5.
In questo momento di fulgore, l'occitano antico trobadorico è in realtà una
koiné che privilegia il dialetto limosino, la quale diviene un vero e proprio
punto di riferimento per i poeti in lingua volgare di gran parte dell'Europa.
«L’aspetto forse più curioso di questa letteratura sta nel fatto che essa
possiede una lingua fortemente compatta, unitaria, una sorta di incredibile
esplosione di qualche cosa che sembra già perfetta sul nascere» (Telmon,
1992, pp. 45). E’ sul piano politico, militare e di difesa delle proprie libertà
religiose che il popolo occitano perde la propria chance di essere nazione,
diventando anzi, col tempo, la più importante delle patrie negate dell'Europa
intera (Salvi, 1975).
Questo fiorente periodo in cui la lingua d’oc mantiene la propria unità non
dura molto. Intorno al 1220, infatti, la Crociata contro gli Albigesi ispirata da
papa Innocenzo III per estirpare l’eresia catara dai territori della Linguadoca,
distrugge le maggiori corti occitaniche e impone il francese come lingua di
occupazione. I trovatori si rifugiano oltre le Alpi e i Pirenei interrompendo
l’uso letterario della lingua d’oc.
«Spentasi la voce e la luce dei trovatori, l’Occitania resta tagliata fuori
dalle grandi correnti europee della creazione letteraria» (Salvi, 1998, p. 55).
E dal quel momento a periodi di rinascita si alternano periodi di oscurità e
silenzio.
Nel 1539, l’editto di Villers-Cotterets impone ufficialmente su tutte le terre
occitane in mano francese l’uso della lingua di Parigi.
L’intensa
scolarizzazione che segue alla riorganizzazione dello Stato fa lentamente
penetrare all’interno delle famiglie occitane la lingua francese. Ma la volontà
monolingue dello stato francese non riesce ad affermarsi pienamente tant’è
5
Tratto da Atlant Occitan progetto a cura dell’associazione Chambra d’òc finanziato dalla
Presidenza del Consiglio dei Ministri nell’ambito del programma degli interventi previsti dalla
legge n. 482/1999 e coordinato dall’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte.
All’interno della Divina Commedia (Purgatorio. XXVI, 140-147) troviamo gli otto versi in
lingua occitana messi in bocca ad Arnaut Daniel, grande trovatore che poetava in lingua
d’oc.
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che la lingua d’oc è ancora presente in diverse zone e utilizzata anche dalle
persone più colte. Per questa ragione viene istituita una vera e propria
polizia linguistica che controlla soprattutto l’ambiente scolastico dove l’unica
lingua ammessa è il francese.
Naturalmente non mancano, da parte della minoranza, azioni in difesa
della propria lingua, e questo avviene soprattutto a livello letterario e scritto.
Nel XIX secolo, dopo un lungo periodo di silenzio, grazie al romanticismo si
riscoprono i trovatori e ne esplode una vera e propria moda. Avvantaggiati da
questo clima di rispetto ed entusiasmo per un periodo glorioso della loro
storia, alcuni intellettuali occitani escono allo scoperto con l’obiettivo di
riavviare il sentimento etnico, restaurare e restituire dignità a questa lingua
(Lantelme, Gedda, Galli, 2006).
Ed è proprio in questo contesto che sorge e si sviluppa il Felibrige,
un’associazione di poeti e trovatori di lingua provenzale tra i quali spiccano
Frédéric Mistral e Teodor Aubanel, lirico di eccezionale qualità. Capolavoro
di Mistral è il poema Miréio che lo rende famoso ben oltre i confini della
Provenza, prima a Parigi e poi in tutta Europa e che nel 1904 gli vale il
Premio Nobel per la letteratura. Subito dopo la fondazione del Felibrige i
poeti provenzali passano all’azione: nel 1855 viene pubblicato il primo
Almanacco Provenzale, periodico di cultura, poesia e filologia della lingua
d’oc. Nonostante la rinascita letteraria, l'identità occitana continua però a
decadere fino a metà del Novecento (Bertolino, 1998 e Lantelme, Gedda,
Galli, 2006).
Anche in Italia nelle scuole, invece di insegnare le radici nobili della
parlata delle Valli tramite lo studio dei troubadours, viene imposto l'uso
dell'italiano, vietato quello dell'occitano (negandogli qualsiasi dignità
letteraria) e, talvolta, tollerato quello del più fine piemontese.
A partire dagli anni '60 del Novecento in Francia, e una decina d'anni dopo
nelle zone italiane, anche le Valadas Occitanas riscoprono la loro identità. Il
merito va soprattutto a François Fontan (teorico etnista di origini guascone
1929-1979) che a metà degli anni '60 si rifugia a Fraisse in Valle Varaita.
Nascono il Movimento Autonomista Occitano (M.A.O.), l'Escolo dòu Po e
numerose associazioni culturali che si propongono di sensibilizzare la gente
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del luogo: tra queste va ricordato il Centro Provenzale di Coumboscuro
diretto dal Professor Sergio Arneodo, la Chambra d’oc, Espaci occitan ed il
centro culturale Detto Dalmastro.
Tutto ciò però non riesce ad arrestare la perdita d'identità culturale e ad
aiutare lo sviluppo di un'economia compatibile con le risorse, le tradizioni e la
cultura delle Valli. La popolazione dunque, non è solo emigrata ma, in grande
parte, non è più ritornata.
Così, se il meridionale a Torino si stabiliva quando possibile in zone ad
alta densità di corregionali, meno importante era fare la stessa cosa per il
valligiano. Se era emigrato a Torino, con tutta probabilità già conosceva la
città, capiva il dialetto piemontese ed era a poca distanza dal luogo d'origine.
Paradossalmente proprio questi vantaggi sono in parte le basi per la perdita,
nel corso di una o due generazioni, della madre lingua. Con poco sforzo egli
impara a parlare il torinese, mentre con sforzi sicuramente più grandi inizia a
mettere da parte il necessario per migliorare il proprio status sociale.
Il grande distacco avviene però con la seconda generazione, quella nata a
Torino (o Milano, Genova, Saluzzo), quella che quando è obbligata ad
andare lassù non può che lamentarsi della noia, della mancanza di tutte le
comodità di città, quella che ha perso la misura del lavoro agricolo e lo
disprezza, quella che in un muro in pietra, in un balcone in legno, non vede
che miseria ed arretratezza. Non gli è stata insegnata probabilmente la
lingua, anzi è già molto se conosce il piemontese. Di cantare non se ne parla
neanche, probabilmente, già dalla prima generazione emigrata, il ballo è solo
quello liscio per i primi e la discoteca per i più giovani (tratto dal sito web
ghironda.com).
Attualmente l'occitano è parlato, nelle sue varianti locali, da circa 3 milioni
di persone nella Francia del Sud, in Val D'Aran, a Guardia Piemontese
(Calabria) e nelle valli alpine delle Province di Cuneo, Torino ed Imperia. La
grafia più utilizzata (e più adatta a rappresentare le varianti di ogni singolo
dialetto) è quella dell'Escolo dòu Po, di tipo fonetico, nata a Crissolo da
alcuni studiosi appassionati delle valli, del Piemonte e della Provenza e da
professori dell’Università degli Studi di Torino. Simile a quella utilizzata da
Frédéric Mistral per il provenzale, questa grafia, indipendente dalla pronuncia
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locale (tutti scrivono nella stessa maniera, ognuno pronuncia secondo le
regole del proprio dialetto) permette di arrivare ad una lingua unitaria almeno
a livello scritto (Bertolino, 1997).
Dopo anni di inosservanza dell'art. 6 della Costituzione Italiana (La
Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche), finalmente
nel 1999 la minoranza occitana è stata riconosciuta da una legge dello Stato,
la 482, (assieme a sardi, ladini friulani, albanesi di Calabria) mentre il più
vasto territorio occitano nello stato francese attende ancora oggi il
riconoscimento della propria identità linguistica, nonostante i ripetuti
pronunciamenti della Comunità Europea.
La percezione che si aveva di questo territorio prima della legge era infatti
di un'area marginale e depressa del Piemonte. Di un mondo dei vinti senza
futuro. Occitania ha significato aprirsi a una nuova rinascita, a nuove
prospettive. Per la prima volta nella loro storia le valli hanno intravisto la
possibilità di costruire, a partire dall'identità d'oc, una vicenda comune, un
programma coerente di sviluppo. Ed è emersa l'aspirazione a mostrarsi
come territorio riconoscibile, portatore di una cultura antica, i cui valori sono
alla base della costruzione europea.
Il filo rosso che tutto lega e tutto cuce è stata la lingua. E ancor di più la
cultura che, come sappiamo, sopravvive ai linguaggi. «Ciò non significa che
nelle valli non continui a operare una certa iniziativa localistica del folclore
che si autoreclude nella catalogazione puntuale delle tradizioni della propria
borgata alpestre, del villaggio, della parrocchia» (Lantelme, Gedda, Galli,
2006, pp. 56-60).
16
1.3. Un po’ di storia
La lingua occitana si sviluppa, così come quella francese e i dialetti franco
provenzali e celto-romanzi, su una parte di quel vasto territorio che i Romani
battezzano Gallia in quanto caratterizzato dall’insediamento dei Celti
(chiamati Galli) provenienti dall’Europa centrale: insediamento più o meno
compatto a seconda delle aree investite, che non sostituisce mai del tutto le
popolazioni esistenti ma spesso si fonde con esse convertendole alla propria
lingua e cultura. I Celti invadono l’Occitania due volte, in epoche piuttosto
lontane tra loro (VII-VI sec e V-IV sec a.C.) ma non vi saranno mai egemoni:
liguri, iberi e baschi sopravvivranno etnicamente fino alla conquista romana
(Salvi, 1998).
Nel 128-117 a.C. la parte meridionale della Gallia Transalpina (che
corrisponde in parte all’attuale estensione dell’Occitania) diviene provincia
romana (da cui il nome dell’attuale Provenza) con capitale la città di Narbona
(allora sita nell’attuale Linguadoca), e sarà così chiamata Gallia Narbonensis.
Sono dunque i Romani a gettare le basi della nazione occitana e non
soltanto dal punto di vista linguistico che è, e rimane, quello fondamentale.
Con la caduta dell’impero romano e l’inizio delle invasioni germaniche,
l’Occitania viene investita, agli inizi del V secolo, dai Visigoti popolazione già
in larga parte romanizzata mentre la parte della Gallia barbara viene
occupata dai Franchi i quali mantengono per qualche tempo la loro lingua ed
i loro costumi germanici. I Visigoti sono sì cristiani ma aderiscono all’eresia
ariana mentre i Franchi si erano convertiti al cattolicesimo ortodosso e
diventano gli alleati naturali della Chiesa di Roma facendosi passare di buon
grado per il braccio secolare della vera fede. Con il pretesto di combattere
l’eresia ariana, invadono più volte l’Occitania sconfiggendo nel 507 i Visigoti,
senza mai installarvisi ed accontentandosi di saccheggi periodici (Fontan,
1995).
Nel 732 i Franchi discendono una seconda volta in Occitania: qui
espugnano e radono al suolo Narbona, mentre i territori restanti (anche quelli
italiani) vengono conquistati e la popolazione viene drasticamente ridotta con
ferocia.
17
Dall’870 al 1033 (restaurazione del Sacro Romano Impero), l’Occitania è
più volte smembrata divenendo merce di scambio fra le varie alleanze delle
grandi potenze europee fino al 1137, anno in cui si formano tre grandi Stati
indipendenti
governati
dal
conte
di
Barcellona
(Catalogna-Aragona-
Provenza), dal conte di Tolosa Raimondo VI e dal Re di Inghilterra (per
l’Aquitania) (Salvi, 1998).
Il territorio d’oc, nonostante la divisione politica, forma una sola comunità
giuridica ed economica, legata all’Italia e alla penisola iberica, rivolta
commercialmente all’Europa settentrionale e all’Oriente mediterraneo.
L’Occitania di quegli anni è anche una comunità culturale profondamente
originale, aperta a ogni genere di rapporto ma incredibilmente lontana
dall’influenza dei grandi centri teologici francesi. L’università autoctona,
quella di Montpellier, che risale al XII secolo, è un istituto europeomeridionale. La facoltà di Medicina aveva infatti le sue radici nella scuola
salernitana e quella di Diritto a Bologna. Intensi furono poi i suoi rapporti
scientifici col mondo islamico e la diaspora ebraica.
L’ideologia trovadorica, espressione rivoluzionaria della particolare società
occitanica, riverbera poi, attraverso l’imitazione e l’esempio, il proprio
messaggio sulla nobiltà feudale e sulla borghesia cittadina. Proprio la cultura
della tolleranza e del paratge (uguaglianza morale tra tutti i componenti di un
gruppo sociale) che i trovatori avevano posto al centro della loro concezione
di vita contribuisce insieme a molti altri fattori all’affermarsi di nuove dottrine
religiose: le eresie.
Nel primo decennio del 1200 avviene la persecuzione contro gli eretici
Catari6. Quest’ultimi, che diventano presto una forte minoranza, si diffondono
in tutta l’Occitania occidentale (in quella orientale, l’eresia più diffusa è invece
quella valdese). La loro fede è, nella sua versione più radicale, rigidamente
manichea: il Bene e il Male sono principi eterni, coesistenti e antagonisti. Il
regno del Male è il mondo, la materia, la carne (il non essere), creati da un
Dio straniero. Il regno del Bene (del Dio legittimo) è invece lo spirito
6
La prima persecuzione nei confronti dei Catari è antecedente di 2 secoli. Racconta Pietro
Verri (Storia di Milano, 1824, Tomo I p. 160) che nel 1028 l’arcivescovo Ariberto d’Intimiano
fece catturare gli eretici che abitavano nel castello di Monforte (oggi Monforte d’Alba). Portati
a Milano in catene, rifiutarono l’abiura e vennero arsi vivi.
18
(l’essere). L’anima dell’uomo è il campo di lotta tra il Bene e il Male. Soltanto
sublimando i propri rapporti col mondo (astenendosi ad esempio dai peccati
della carne) l’uomo può salvare la propria anima liberandola dalla catena
delle reincarnazioni che la teneva legata al mondo (Berti, 1997).
I Catari, chiamati anche Albigesi perché assai numerosi nel territorio di
Albi (Francia meridionale), costituiscono col loro fervore e la loro estrema
coerenza, un esempio e un pericolo per la chiesa ufficiale, sufficientemente
corrotta. Il popolo è colpito, certo favorevolmente, da questo esempio di
forsennata virtù. L’alta nobiltà e la ricca borghesia cittadina sono, da un lato,
conquistate dalla vertiginosa teologia catara, dall’altro alquanto desiderose di
mettere le mani sul patrimonio ecclesiastico.
I Catari si ritengono, del resto, i veri cristiani della loro epoca e si
denominano, infatti, crestians (catari, cioè puri, dal greco katharoi).
Condizione preliminare della salvezza dell’uomo è, infatti, anche per loro, la
missione di Gesù che, grazie alla Passione, e qui la loro fede li distingue
dalla chiesa ufficiale, ha meritato di divenire figlio di Dio (del Dio legittimo)
per adozione (Berti, 1997).
La chiesa di Roma è comprensibilmente preoccupata dallo sviluppo di
questa religione concorrente. Priva di un braccio secolare così lungo da
superare le Alpi, si appoggia, come sempre, ai francesi. Per tutto il 1208, gli
emissari del Papa predicano in Francia la crociata contro gli eretici (cioè
l’invasione dell’Occitania).
L’anno successivo inizia la Crociata degli Albigesi indetta da Papa
Innocenzo III. La prima città ad essere posta sotto assedio, Béziers, viene
espugnata dai crociati al comando di Simon de Montfort e gli abitanti, riuniti
nella cattedrale, sono bruciati vivi senza distinzione di fede, di sesso o di età.
Il genocidio spirituale del popolo d’oc comincia così, con un imponente
genocidio fisico.
Raimondo VI di Tolosa, che era nominalmente il signore di Trencavel,
entra allora in guerra contro Simon de Montfort che però, consolida e amplia
la propria conquista rinnovando i massacri. Il legato pontificio Arnaud
Amaury, sempre al suo fianco, lo sprona a non andare troppo per il sottile, a
non distinguere tra cattolici e catari e pronuncia la famigerata frase:
19
Uccideteli tutti, poi Dio sceglierà i suoi. Montfort non si fa pregare e scaglia di
persona contro le rocce un buon numero di neonati, rei soltanto di essere
occitani (Lantelme, Gedda, Galli, 2006).
Nel 1213 si compie intanto la breve unificazione occitanica. Il conte di
Tolosa e i suoi feudatari, in segreto, giurano obbedienza al potente re
catalano Pietro II d’Aragona. Pietro entra subito in guerra contro i francesi. I
catalano-occitani si battono, il 12 settembre 1213, a Muret, contro i crociati.
Vincono questi ultimi e lo stesso Pietro II cade sul campo. L’unità occitana è
fatta e disfatta nel giro di pochi mesi. I catalani tornano in patria. Le due
nazioni saranno divise per sempre.
Nel 1216 gli occitani si sollevano in tutto il territorio. Raimondo VII varca il
Rodano e riconquista Tolosa. Gli occitani si battono contro i francesi al grido
di Tolosa e Provença! Il vecchio conte Raimondo VI viene richiamato
dall’esilio aragonese. Simone de Montfort riorganizza le sue forze e attacca
Tolosa, sotto le cui mura viene però sconfitto e ucciso nel 1219. Ma nel 1225
Luigi VIII, re di Francia, invade con un poderoso esercito l’Occitania,
conquistando Avignone, rifugio di catari e valdesi (Berti, 1997).
Nel 1242, Raimondo VII rialza la testa. Fa giustiziare gli inquisitori reali di
Avignone e riprende, a Narbona, il proprio titolo. Si allea col re d’Inghilterra
(sovrano dell’Aquitania), con l’imperatore germanico (sovrano formale della
Provenza) e col re di Aragona. Dopo una prima sconfitta nel Poitou, la lega si
sfalda però come neve al sole. E i francesi continuano la caccia agli eretici
sul territorio conquistato.
Nel 1244 cade, sembra con l’aiuto di montanari baschi, il castello di
Montsegur, dove si erano ritirati 200 catari che vengono arsi vivi in una
radura vicina, chiamata ancora lo prat dels cremants (il prato dei bruciati).
La caduta di Montsegur segna, per gli storici, la fine della Crociata degli
Albigesi. Si sa tuttavia che l’ultimo ridotto cataro a cadere è Queribus, nel
maggio 1255. Si calcola che gli occitani morti in conseguenza della crociata
siano stati almeno 400mila, quasi un sesto della popolazione di allora (Berti,
1997).
«Ma una nuova rinascita sta per annunciarsi e il desiderio delle
popolazioni di lingua d’oc di riaffermare la propria identità sembra aumentare.
20
Non più nei territori ormai francesizzati della Linguadoca, ma centinaia di
chilometri più a est, dove altri ideali di autonomia statale uniscono ancora
una volta i cuori e le menti» (Lantelme, Gedda, Galli, 2006, p.59).
La cosiddetta Repubblica degli Escartouns, associazione di comunità alpine
che hanno potuto godere di una certa libertà (amministrazione della giustizia,
diritto di battere moneta, gestione del territorio, proprietà privata), venne
creata nel 1244 da Oulx, dalla Val Chisone, dal Brianzonese, dal Queiras e
dall'Alta Val Varaita. Il suo territorio comprende 51 comuni i cui
rappresentanti si incontrano periodicamente a Briançon. Nell’Europa feudale
questa comunità alpina sancisce senza conflitti la fine del potere nobiliare
450 anni prima della Rivoluzione Francese.
L'incredibile esperienza di autogoverno dura ben tre secoli. L’intera
regione diventa una sorta di porto franco per merci e persone che possono
circolare liberamente. Ma la vita di questa democrazia alpina inizia a vacillare
verso la fine del XVII secolo, quando il suo territorio assume un’importanza
strategica per l’adesione dei Savoia alla Lega Asburgica. La firma del trattato
di Utrecht del 1713, che divide gli Escartouns tra Piemonte e Francia, dà un
colpo mortale anche se la fine definitiva arriva nel 1790.
Ma vediamo cosa succede, nel frattempo, nel resto dell’Europa.
Innanzitutto la guerra dei Cent’anni (1338-1453) che non è soltanto una
guerra tra la Francia e l’Inghilterra, ma anche una lunga lotta di resistenza
degli occitani occidentali contro l’annessionismo francese. E’ un esercito
guascone, e non inglese, quello che, dopo tante vittorie, viene disfatto dai
francesi a Castillon, nel 1453. I secoli seguenti sono testimoni di continue
rivolte degli occitani contro i sovrani che ne diminuiscono la libertà
(Fontan, 1995).
Un altro elemento di opposizione costante alla politica francese,
rappresentata dai governatori, è costituito dal popolo, il quale scatena tutta
una serie di rivolte contro il malgoverno e la miseria, la più importante delle
quali è quella dei cròcants (da cròc, uncino, la loro arma preferita), diffusa in
tutta l’Occitania nord-occidentale e non priva di una vena ideologica
protestante (Salvi, 1998).
21
Nel 1630, Richelieu, che ha bisogno di fondi per la politica militare del re,
allinea i Pays d’Etats allo stesso regime fiscale della Francia. I cascaveus
(campanelli: portavano infatti un bubbolo al braccio) provenzali si rivoltano
immediatamente e costringono Richelieu a rimangiarsi la sua decisione. In
Linguadoca è lo stesso governatore francese, Montmorency, a mettersi alla
testa della rivolta che scoppia nel 1632. Dopo alcune fortunate battaglie,
Montmorency viene fatto prigioniero dai francesi e giustiziato a Tolosa. La
sua morte sarà pianta dagli occitani come quella di un eroe nazionale7.
E’ l’editto di Nantes a trasformare l’Occitania in un rifugio legale per gli
Ugonotti (protestanti). Oltre a una certa immigrazione, si verifica così anche
una lunga serie di conversioni alla fede calvinista. Il regno di Navarra assume
addirittura questa fede quale religione di Stato. Vasti territori d’oc diventano
protestanti.
Nel 1620, Luigi XIII alla testa di un’armata impone, in barba al voto
contrario degli Stati bearnesi, l’annessione diretta della Navarra alla Francia
e annega nel sangue una rivolta protestante.
E’ il primo passo. Nel 1685, la revoca dell’editto di Nantes segna l’inizio
delle persecuzioni massicce contro i protestanti: le cosiddette dragonnades.
I camisards, guerriglieri protestanti che parlano occitano e si battono contro i
francesi in maniche di camicia, sono eliminati soltanto nel 1710, dopo una
repressione spietata che miete un numero spropositato di vittime e spopola
un’ intera regione.
Gli avvenimenti del 1789
scatenano
l’entusiasmo
degli
occitani.
Il vecchio ideale di libertà e di progresso, sempre perseguito con le
motivazioni ideologiche più diverse e mai raggiunto, sembra a un passo dalla
sua realizzazione (Salvi, 1998).
Il colpo di stato del marzo del 1793, che porta Robespierre al potere
(e dietro di lui l’alleanza della piccola borghesia e del popolo) provoca
un’immediata risposta in Occitania: la sollevazione girondina. L’ideologia
girondina, moderatamente federalista, è, del resto, condivisa in altre regioni
7
Dati acquisti dalla consultazione della tesi di laurea Aspetti di antropologia culturale nella
minoranza etnica di Coumboscuro del candidato Raimondi laureatosi alla facoltà di Lettere di
Torino anno 1974-75
22
francesi: in Normandia e a Lione, per esempio. Essa è tuttavia forte
soprattutto in Occitania: e una motivazione nazionale occitanica, magari
inconscia, certamente esisteva sul fondo. Infatti, la borghesia d’oc aderisce
subito all’appello di Vernhaud (Vergniaud), un politico limosino che ritiene
“giunto il momento di studiare le misure da prendersi per formare, con i 24
dipartimenti del Midi, una repubblica federativa da Bordeaux a Lione”.
I Giacobini mandano subito un corpo di spedizione in Occitania. Tolone viene
conquistata, Parigi vince ancora una volta (Fontan, 1995).
L’Occitania ha sempre appoggiato i movimenti rivoluzionari che hanno
tentato di conferirle una propria autonomia nazionale ma è stata più volte
tradita dalla mancanza dell’appoggio popolare. I suoi abitanti, infatti, sono
sempre stati più portati allo scambio fraterno e culturale non riuscendo, a
parte il periodo della Repubblica degli Escartouns, a darsi un organizzazione
politica unitaria. Però, ultimamente, con la caduta delle frontiere europee,
l’Occitania sta prendendo una coscienza di Stato unitario ed indipendente.
A differenza dei fratelli baschi, non sono le bombe a far parlare del
desiderio di autonomia, ma la musica, le danze, la poesia. L’ideologia di
uguaglianza e di rispetto della libertà sono scritte sulla bandiera rossa con la
croce gialla dell’Occitania (Lantelme, Gedda, Galli, 2006).
23
Capitolo II
La valle Grana
2.1. La Valle Grana e i suoi comuni
Situata nella parte occidentale della provincia di Cuneo, stretta tra le valli
Stura e Maira e protetta dalle Alpi Marittime e Cozie, la Valle Grana è da
sempre sinonimo di territorio incontaminato e di riserva bio-naturale. I due
robusti costoni montuosi
che delimitano il solco
della valle si originano
all’altezza del nodo dei
colli Vallonetto e dei
Morti,
dove
lo
spartiacque tra le valli
Maira e Stura si biforca.
Il
ramo
forma
Le valli del cuneese.
il
settentrionale
gruppo
del
Monte Tibert (2647 m.)
ricco di pendii, e si spinge poi verso levante con la Rocca di Cernauda, il
monte Plum ed il monte Chialmo oltre i quali digrada con le alture di
Montemale per spegnersi nella pianura tra Dronero e Caraglio. Il ramo
meridionale si impenna subito con il gruppo della Punta Parvo (2523 m.)
caratterizzato dalla dolomitica parete della omonima Rocca, e prosegue con
le Cime Viridio e Viribianc, coi monti Bram e Grum, suddividendosi, oltre il
Beccas del Mezzodì, in una serie di contrafforti minori tra i quali emerge
ancora il Monte Tamone che si affaccia sulla pianura tra Caraglio e Bernezzo
(Amministrazione della Provincia di Cuneo, 1970).
Vallata dai tratti brevi e intimi è caratterizzata da un paesaggio tipicamente
prealpino, con fiancate di moderata altitudine, dolci declivi e fitti boschi che
sono sovrastati da alti ripiani a pascolo.
24
Il significato etimologico del suo nome, che indica un luogo profondamente
inciso (da crana: crepaccio, fessura), si pone in relazione alla tipica
morfologia della parte mediana del solco vallivo, che è nota come Comba di
Castelmagno.
La Valle Grana racchiude nove comuni: Caraglio all'inizio della valle,
Vignolo, Cervasca e Bernezzo nel fondovalle, Valgrana e Montemale nella
media valle mentre Monterosso Grana, Pradleves e Castelmagno si trovano
nell'alta valle.
Ai visitatori offre un volto gelosamente nascosto tra i boschi e le cenge,
dove una popolazione di pastori e contadini ha nel tempo attivamente
operato, difendendo un patrimonio paesaggistico di grande valore. Antichi
sentieri, mulattiere, piste forestali, vie nascoste: strade percorse nei secoli da
uomini e animali che oggi, almeno in parte, si animano di nuova vita.
Cicloturismo, trekking, mountain bike, equitazione, sci alpinismo sono i nuovi
modi di vivere la montagna e agli appassionati di queste discipline la Valle
Grana offre uno dei suoi migliori volti (Comunità montana Valle Grana, 2004).
Il capoluogo della Valle Grana, Caraglio, sorge a 583 metri s.l.m. ed è
l'unico comune, tra i nove della comunità montana omonima, non classificato
montano. Situato all'imbocco della valle, ne costituisce da sempre il naturale
centro di fondovalle, sin da
quando i Romani si installarono
nelle
vicinanze
(Forum
Germanorum) e ne fecero un
importante crocevia della loro
espansione verso le Gallie. La
medievale Cadralius deve il suo
nome
Filatoio Rosso - Caraglio
al
diminutivo
latino
Quadratulus,
riferito
alla
centuriazione
romana
della
zona. In seguito non ci sono
notizie certe fino all'XI secolo,
25
quando Caraglio è oggetto di donazione tra poteri civili ed ecclesiastici. Fino
al 1244 resta sottoposta ai marchesi di Saluzzo. Si susseguono diversi
Signori fino all'avvento dei Savoia. Ma è a cavallo tra il Seicento e il
Settecento che il paese inizia a svilupparsi. Più tardi fiorisce l'agricoltura con
l'allevamento del baco da seta: quattro filande e un filatoio danno lavoro a più
di seicento persone. Nasce una Società di mutuo soccorso ed in seguito una
Cassa rurale, mentre nel 1876 viene inaugurata la linea tramviaria CuneoCaraglio-Dronero8.
Vignolo. L'etimologia viene da vineolum, il vino e l'olio di noci che
anticamente
erano
molto
abbondanti
in
questo
territorio,
in
parte
pianeggiante e in parte montano, posto sullo spartiacque quasi all'imbocco
della Valle Stura. Le prime notizie risalgono al Seicento quando i Benedettini
dell'abbazia di Pedona (Borgo San Dalmazzo) avviano un lavoro di
dissodamento agricolo. In seguito passa sotto il dominio del vescovo di
Torino, dei marchesi di Saluzzo, degli Angioini, del Comune di Cuneo e dei
Savoia.
Foraggi e cereali sono i principali prodotti dell'agricoltura di pianura,
mentre sulle colline i rigogliosi castagneti producono ottime qualità di
castagne.
Il comune di Cervasca è collocato sulla sinistra del fiume Stura tra Cuneo e
le prime propaggini alpine, l’altitudine va dai 540 ai 1140 metri. E’ formato da
numerosi centri abitati disposti intorno alla frazione di Santo Stefano, sede
del municipio. L'etimologia del toponimo potrebbe riferirsi al nome alterato di
Cervanum, poiché lo stemma comunale raffigura un cervo che si abbevera a
una fonte. La più antica menzione di Cervasca risale al 1172. All'inizio del
secolo successivo il paese entra a far parte dei domini saluzzesi per passare
in seguito sotto i Savoia. La sua felice collocazione geografica e la vicinanza
8
Tutti i dati sui diversi paesi della Valle Grana sono tratti dai manuali redatti dal Comitato
Comprensoriale di Cuneo, dal sito della Comunità Montana Valle Grana e dalle Guide
Turistiche dei sentieri alpini. In particolare Cuneo e le sue valli: guida storico - artistica e
turistica e Valle Grana tra arte e storia.
26
alle vie di comunicazione favoriscono un
notevole sviluppo demografico legato a
nuove attività commerciali, artigianali e
piccolo industriali.
L'ambiente collinare, ricco di secolari
castagneti, offre interessanti esempi di
architettura contadina spontanea e, nei
punti più elevati di San Michele e San
Maurizio, oltre a importanti testimonianze
storiche, uno splendido panorama su tutta
Stemma di Cervasca
Il cervo si abbevera alla fonte
la pianura cuneese e sulla cerchia
alpina. Famosa è la cucina tipica che
alberghi, ristoranti e trattorie propongono con le specialità locali, sovente a
base di funghi.
Bernezzo. Il paese è situato in un’ampia conca a 11 chilometri a ovest di
Cuneo. Ha origine nell’XI secolo e il suo nome potrebbe derivare da un
albero che cresce nelle zone umide, l’ontano, verna in piemontese, da cui
Vernetum, Bernetum, Bernezzo. Conteso nelle varie epoche dai marchesi di
Saluzzo, dai Savoia, dagli Angiò, dagli Acaia e dai Visconti, dal 1382 entra a
far parte dello stato sabaudo, di cui segue le vicende.
Degni di nota sono: i ruderi del Castello, la chiese dei Santi Pietro e Paolo,
la Confraternita dell'Annunziata. L'edificio di maggiore interesse artistico é la
Parrocchiale della Madonna del S. Rosario: la chiesa, di stile gotico, pur
notevolmente rimaneggiata, conserva alcuni interessanti esempi di arte
gotico-rinascimentale. Nella volta a crociera dell'abside della navata sinistra i
simboli dei quattro evangelisti sono attribuiti al pittore fiammingo Hans
Clemer, detto il Maestro d'Elva. Allo stesso artista si possono ricondurre
anche i cartigli, contenenti litanie mariane, che ornano le strombature delle
finestre dell'abside maggiore. Nelle frazioni omonime degne di nota sono la
Chiesa seicentesca di San Rocco e quella settecentesca di Sant'Anna.
27
Valgrana. Il capoluogo comunale si trova all'imbocco dell'alta Val Grana
ed è formato da due borgate, Ripalta e Villa, separate dal torrente Grana.
Valgrana presenta il tipico aspetto di un paese agricolo che, nel rispetto della
tradizione, ha saputo rinnovare e modificare la propria economia. Alla tipica
produzione della pera Madernassa sono subentrate, negli ultimi decenni,
colture intensive di lamponi, more, fragole, ribes, kiwi.
L'antichissimo toponimo di origine preromana appare già in alcuni
documenti della metà del XII secolo. Contesa tra Cuneo e i marchesi di
Saluzzo, Valgrana è soggetta all'uno e agli altri fino a passare sotto il
dominio sabaudo alla fine del XVI secolo. Restano pochi ruderi dell'antico
castello, una quattrocentesca Cappella (Santa Croce) e il Mulino del
Paschero che conserva la
grande ruota metallica e
gli antichi macchinari.
Attraversato il Grana su
un massiccio ponte in
pietra a secco (1871), si
giunge a Villa. Lungo la
via principale é visibile un
affresco
quattrocentesco
(Maestà con Bambino e
Ruota del mulino del Paschero - Valgrana
Sant’Antonio
Abate)
e
subito dopo la Casa del
Conte. L'antica casa dei signori locali conserva, sulla facciata, un grande
stemma (XVII secolo) e all'interno loggiati e soffitti cinquecenteschi.
Continuando si giunge in vicolo Trinità dove sulla facciata di una casa si può
vedere un affresco raffigurante la Trinità (XIV-XV). Interessante, infine, la
chiesina di Santa Maria che rappresenta, nell'isolamento e nella natura
rustica dell'insieme, un frammento eloquente del Medioevo più remoto.
Documentata sin dal XII secolo, conserva testimonianze che sembrano far
propendere per un'origine assai più lontana come la piccola lastra in pietra
con due volti umani e una croce longobarda murata sopra la porta d'ingresso
28
(forse parte di un sarcofago del VII secolo). Disposte all'interno di una corte
cui si accede ancora oggi attraverso un basso arco in pietra, l’ospizio della
Trinità si è conservato perfettamente. Databili intorno al 1455-70, gli affreschi
in facciata, attribuiti ai fratelli Biazaci, raffigurano la Trinità e la Vergine col
Bambino in trono. La Trinità è rappresentata secondo l'iconografia
orizzontale, successivamente considerata rozza e respinta dalla Chiesa, che
presenta Padre, Figlio e Spirito Santo con tre busti maschili identici che
emergono dal medesimo corpo.
Posto in un'ampia conca dove la pianura lascia il posto a un paesaggio più
tipicamente montano, Monterosso Grana è dal 1929 Comune unico, nato
dalla fusione dei precedenti comuni di Monterosso e di San Pietro. Occupa
l'ampia valle oggi indicata come Valle Verde, che nella frazione di Sancto
Lucío ha dato origine al risveglio etnico-culturale della minoranza provenzale
nelle valli alpine occidentali. Qui opera infatti il Centro Provenzale di
Coumboscuro che si occupa dello studio e della divulgazione della cultura e
della lingua provenzale.
Degno di rilievo è inoltre il ricco Museo Etnografico che raccoglie antichi
strumenti di lavoro ed attrezzi usati dai montanari occitani. Alle porte del
comune si trova la Cappella di San Sebastiano. Semplice e modesta
all’esterno, si arricchisce all’interno di preziosi affreschi attribuiti a Pietro da
Saluzzo (il Maestro del Villar) e risalenti agli anni intorno al 1470. Il toponimo
deriva da mons aurosus, cioè monte color dell'oro oppure monte ventoso. Il
paese compare nei primi documenti verso la fine del XIII secolo. La sua
storia si intreccia con quella dell'alta valle Grana.
Arroccato sul crinale che divide la Valle Grana dalla Valle Maira, il borgo di
Montemale di Cuneo conserva nella topografia le caratteristiche di un
villaggio medioevale. Da qui si dominano, da un lato la pianura di Valgrana
sino a Caraglio e dall'altro Dronero, l'imbocco della Valle Maira, e l'ampia
pianura cuneese incorniciata dall'arco delle Alpi occidentali. Posizione
strategica, intuita anche dai signorotti che nel corso dei secoli si contendono
29
la rocca con l'inespugnabile castello che rimane la maggiore attrattiva del
luogo.
Il toponimo deriva appunto da
mons malus cioè monte impervio
per
indicare
la
posizione
dominante della rocca. La chiesa
parrocchiale
Arcangelo
di
San
conserva
Michele
pregevoli
testimonianze dell’arte scultorea
locale: un’acquasantiera in pietra
di piccole dimensioni ed una
fonte
battesimale
ottagonale,
opere
di
forma
dei
fratelli
Zabreri, risalenti al XV secolo. In
Castello di Montemale
alcune
frazioni
sono
visibili
affreschi di arte popolare con soggetti religiosi datati XIX secolo.
Pradleves è adagiato, per la lunghezza di circa un chilometro, sulla
sponda sinistra del torrente Grana, ai piedi del Monte Cauri, ed è dominato
verso sud dal Monte Bram (Roucheto). Il toponimo trae la sua origine da
Prato Delexio (1281), o da Levesio, a sua volta derivante probabilmente dal
nome personale Laevicus. Nel 1281 Pradleves viene citato in un documento
ufficiale. Sorto probabilmente quale feudo dei marchesi di Saluzzo e a lungo
conteso tra questi e il comune di Cuneo, il borgo passa in mano cuneese nel
XVI secolo, con l'estinzione della casa saluzzese.
Rimane tuttora l'antico Castello dei marchesi di Saluzzo (XIII secolo)
trasformato in albergo. Il Palazzo del Municipio (1912) si rifà a modelli
medioevali. La Parrocchiale di San Ponzio, eretta a inizio Settecento,
custodisce un'acquasantiera in pietra datata 1520. Situata ad ovest del
paese, la Cappella di San Bernardo conserva affreschi databili intorno al XVII
secolo tra i quali spicca, sul muro absidale, una Madonna con Bambino tra i
Santi.
30
Rinomato centro turistico negli anni '50, Pradleves conserva tuttora la sua
vocazione turistica che l'ha promossa a
Regina della Valle Grana.
Per gli amanti della civiltà alpina, le
numerose
ruà (Cialancia,
Scaletta,
Pentenera, Cogno, Teiè) costituiscono
esempi di autentica vita montanara: la
mietitura
estiva
trebbiatura
panificazione
a
della
mano
familiare,
segale,
la
sull'aia,
la
le
fumate
autunnali dei secou (essiccatoi) dopo
la raccolta delle castagne.
Palazzo comunale - Pradleves
31
2.2. Castelmagno e le sue frazioni
Il Comune di Castelmagno si colloca in un tipico ambiente alpino con la
massima altitudine nel Monte Tibert a 2647 metri s.l.m. ed è formato da una
moltitudine di frazioni di cui nessuna porta il nome di Castelmagno.
Inizialmente erano quindici (Campomolino, Nerone, Chiotti, Chiappi, Tech,
Einaudi, Narbona, Colletto, Croce, Albrè, Campofei, Valliera, Batouira, Cauri,
Rulavà).
Col
tempo
lo
spopolamento
prodotto
dalla
corsa
all’industrializzazione della seconda metà del Novecento ha ridotto a cinque
le frazioni costantemente abitate: Campomolino, Chiappi, Chiotti, Nerone e
Colletto. Si racconta che il nome del comune derivi da un castello di origini
antichissime di forma quadrata con quattro torrioni agli angoli che, intorno al
XIII secolo, viene totalmente distrutto durante i violenti scontri per
conquistarlo tra gli Angioini, il comune di Cuneo e i Marchesi di Saluzzo.
Una notevole parte della rinomanza che il comune di Castelmagno ha
acquisito si deve, oltre che al Santuario di San Magno, anche al prelibato
omonimo formaggio dal sapore piccante e dalle venature blu-verdastre.
Un’antica tradizione locale racconta che Carlo Magno, giunto a Castelmagno
di venerdì, desiderando fare astinenza dalla carne, ottiene dal vescovo della
zona del formaggio locale. Iniziato a mangiarlo, il sovrano scarta quella parte
del formaggio che aveva il colore verdastro, per lui ripugnante. Il vescovo si
premura di suggerire al re che la parte scartata è in realtà quella migliore.
Carlo Magno, fidandosi, ne assaggia un pezzo e ne viene subito conquistato
tanto da ordinare che ogni anno gli venissero inviate due forme alla reggia di
Acquisgrana (Comunità Montana Valle Grana, 2004).
Tornando a trattare degli aspetti più prettamente storico-culturali,
procedendo verso monte la prima frazione in cui ci si imbatte è Colletto. La
settecentesca chiesa Parrocchiale di Sant’Ambrogio poggia le proprie
fondamenta su basi assai più antiche e conserva al suo interno una fonte
battesimale opera dei fratelli Zabreri. In questa frazione procedendo per uno
stretto e ripido sentiero, si giunge nella totalmente abbandonata borgata di
Narbona. Non essendoci ormai più anima viva da parecchi decenni, la
32
natura, lentamente quanto inesorabilmente, sta riprendendo pieno possesso
della zona. Nonostante ciò, è ancora possibile ammirare la Cappella della
Madonna della Neve, interamente restaurata nel 1764, che conserva al suo
interno una caratteristica corona in legno dorato sospesa sopra l’altare.
Sul vallone opposto, arroccate su aspri pendii, ad un altitudine di circa
1600 metri, si intravedono le frazioni di Valliera, Batuira, Croce e Campofei
ormai abbandonate al degrado da diversi decenni. Qui si possono ammirare
alcuni tipici e puri esempi di tipologia insediativa montana, nonché i
caratteristici comignoli le cui bocche dei fornelli sono decorate da pietre
disposte a raggiera. Molte case hanno ancora belle porte scolpite in legno,
mentre al loro interno si possono trovare sia attrezzi agricoli e utensili di
falegnameria, sia arredi in legno e ferro battuto.
All’inizio della borgata Valliera, a dare il benvenuto agli ospiti, si presenta
una
piccola
cappella.
Dedicata a Santa Margherita
ed eretta nel 1756, venne
ripetutamente
Ritornando
restaurata.
sulla
strada
principale, in frazione Chiotti,
si
trova
Parrocchiale
la
di
chiesa
Sant’Anna,
imponente costruzione dalle
origini
antichissime
che
Chiesa di Santa Margherita - Borgata Valliera
conserva una tipica fonte
battesimale, sempre dei fratelli Zabreri, caratterizzata dal fusto cilindrico
ornato di cordicelle e poggiante su una base ottagonale. Ignoti sacrileghi
hanno di recente smantellato e rubato l’intero pulpito in legno.
Proseguendo lungo la strada maestra, si giunge alla frazione Chiappi, le
cui case in pietra sono tutte disposte su un pendio, tra due vallette, al riparo
dalle valanghe. All’inizio del paese, poco a valle della strada che lo
attraversa, a fianco della Cappella di San Sebastiano, c’è un’interessante
costruzione civile sulla quale si intravede un affresco ormai ridotto in
33
condizioni miserevoli, forse del ‘600, che raffigura una madonna assisa con
in braccio Gesù Bambino; ai lati si riconoscono alcuni santi della leggendaria
Legione Tebea (Comitato comprensoriale di Cuneo, 1984).
Proseguendo
lungo
la
strada
principale, superati alcuni tornanti, si
giunge infine al maestoso Santuario di
San Magno. A 1763 metri di altitudine, al
centro di uno straordinario anfiteatro
naturale, si erge la maestosa struttura
candida del santuario, a cui da secoli
confluiscono i contadini della pianura e i
montanari delle vicine valli per invocare la
protezione del santo cui la tradizione ha
affidato
il
compito
di
garantire
il
benessere degli armenti. L’attuale edificio
è il risultato di numerosi rifacimenti,
Ingresso principale del santuario
susseguitisi nei secoli per rispondere alle
istanze dei fedeli che nel giorno di San Magno (19 agosto) gli hanno sempre
affidato le loro pene quotidiane. Il luogo è stato comunque consacrato, fin
dall’antichità, all’universo delle divinità. Ne è testimonianza l’ara romana
dedicata a Marte rinvenuta sotto il pavimento della Cappella vecchia, a cui si
pensa fosse già consacrato il bestiame, da sempre unica risorsa degli uomini
di montagna.
Le notizie sulla costruzione della primitiva cappella sono alquanto scarne:
pare che l’altare votivo sia venuto alla luce intorno al 1894 insieme ad alcune
tombe con corredo, oggetti di uso quotidiano e monete di rame risalenti al
250 - 300 d.c. Nella Cappella vecchia, affrescata all’inizio del XVI secolo da
Giovanni Botoneri di Cherasco, tra alcune scene tipiche dell’arte religiosa
popolare del periodo, è presente un’immagine di San Magno con vesti da
nobile e armato di spada.
Questa iconografia è alla base di tanti revisionismi storici degli ultimi anni:
infatti c’è chi sostiene che Magno non fu un martire della Legione Tebea, ma
34
un laico che ad un certo punto della vita si fece monaco nel monastero di
San Gallo, in Svizzera, dove rimase fino alla morte. Come il suo culto sia
arrivato fino alle valli cuneesi è un mistero che non è mai stato risolto, ma per
i fedeli tutto ciò riveste ben poca importanza se consideriamo il grande
afflusso di persone che ogni anno, in occasione della festa del 19 agosto, si
ritrovano in uno dei santuari più elevati del Piemonte. In assenza di un luogo
di culto degno del Santo, Enrico Allamandi, rettore delle chiese di
Castelmagno, nel 1475 fa costruire la torre campanaria e la cappella che
porta il suo nome e che costituisce il presbiterio del santuario. Affrescata dal
maestro di Villar Pietro da Saluzzo insieme ad Hans Clemer segna il ricco
periodo della pittura gotica cuneese (Comunità Montana Valle Grana, 2004).
Per rispondere alle esigenze del numero sempre maggiore di pellegrini,
nei secoli successivi vennero creati nuovi spazi e nuovi elementi
architettonici per mano del luganese Giuseppe Galletto che costruì la grande
navata lunga oltre 25 metri, corpo centrale dell’attuale santuario. Ma è nella
seconda metà dell’Ottocento che viene costruita la parte oggi più esterna ed
imponente
del
complesso
edificio:
tre
ali
di
porticato
circondano la chiesa,
sovrastati dai locali
utilizzati
accogliere
per
i
fedeli.
Interessante è ancora
la
rappresentazione
dei sette martiri tebei,
non
meno
della
ricchissima collezione
Il porticato laterale del Santuario
di
ex-voto
che
tappezzano le pareti del santuario: in ragione della specializzazione del
santo, di molti miracoli hanno beneficiato gli animali, autentico patrimonio dal
quale dipendeva la fragile economia contadina.
35
2.3. Un po’ di storia
La storia della Valle Grana si perde nella notte dei tempi. Sembra
comunque accertato che i primi suoi abitanti sono i Ligures Montani che
Ottaviano Augusto doma e soggioga insieme ad altre popolazioni alpine al
termine della guerra civile (14 d.c.). A tale opera di conquista si accompagna
e segue la colonizzazione romana del Piemonte che comporta la
sistemazione amministrativa della regione secondo l’ordinamento romano.
Dopo che Augusto costituisce, a difesa della Alpi, le due province delle Alpes
Cottiae e delle Alpes Maritimae, il territorio della Valle Grana, sotto l’aspetto
militare, entra a far parte di quest’ultima che ha come capoluogo
Cemenelum, alla periferia di Nizza, ed abbraccia sul versante italiano le
vallate comprese tra il Po ed il Gesso, mentre civilmente è aggregata al
Municipium di Forum Germanorum (presso Caraglio). Gli studi relativi a
questo periodo fanno ritenere che il territorio in questione non è stato,
nell’epoca romana e agli albori del Cristianesimo, che un centro di
modestissimo interesse demografico, commerciale e politico (Ristorto, 1977).
Durante le invasioni barbariche, il Piemonte, luogo di transito tra l’Italia
settentrionale e la Gallia, è teatro di aspre lotte tra diversi contendenti che,
succedendosi l’un l’altro di continuo, si disputano il dominio di quelle terre.
Da ultimo si affermano i Longobardi la cui dominazione ha fine con la venuta
di Carlo Magno che, aderendo alle invocazioni del papa Leone III, scende in
Italia a prestargli aiuto.
Seguire le vicende della valle durante le citate vicissitudini storiche riesce
assai difficile per la mancanza di documenti. Si può comunque supporre che
con la costituzione da parte di Carlo Magno del comitato-contea di Auriate, il
territorio della valle ne facesse parte, dal momento che il comitato stesso
comprendeva tutto il territorio tra il Po, lo Stura e le Alpi (Comunità montana
Valle Grana, 2004).
Nel X secolo, provenienti da Frassineto presso Villafranca di Nizza
Marittima, i Saraceni si spingono in tutto il Piemonte giungendo anche nel
Saluzzese da dove pare abbiano effettuato alcune incursioni in Valle Grana.
36
L’opera di ricostruzione e rinnovamento che segue alle scorrerie saracene
è dovuta sia all’opera dei vescovi di Torino, che ne esercitano la giurisdizione
ecclesiastica e civile, sia, più tardi, ai Marchesi di Saluzzo.
Dal secolo XI in poi, è rilevante l’influsso esercitato dalle istituzioni
monastiche sulla vita sociale ed economica della popolazione della Valle:
risale a quest’epoca la fondazione del priorato di Santa Maria della Valle
presso Valgrana (Comitato comprensoriale di Cuneo, 1984).
Nel corso del XII secolo, il Marchese Manfredo I di Saluzzo intraprende
una decisa politica di conquista contro i signori locali ottenendo il loro
conseguente assoggettamento. Nei confronti del vescovo di Torino, il
Marchese segue un'altra tattica: si fa garante e difensore dei possedimenti
ecclesiastici in valle tanto da riceverne regolare investitura. Il Marchese
Manfredo II tiene in feudo la corte di Caraglio, Valgrana e Castelmagno con
tutta la valle. Successivamente, usurpati i diritti vescovili, il Marchese di
Saluzzo acquista il dominio della valle affidandolo ai fratelli Guglielmo,
Giacomo ed Ardizzone, già suoi vassalli e signori di Caraglio.
Con l’avvento degli Angioini, la Valle Grana viene sottomessa ai
Provenzali ed aggregata al distretto di Cuneo; dopo la battaglia di
Roccavione (10 novembre 1275) che segna lo sgretolamento della potenza
angioina, il Marchese di Saluzzo recupera a poco a poco il potere in valle.
Nel 1282, con la forzata sottomissione di Cuneo al Marchesato di Saluzzo,
Tommaso I ottiene il diretto dominio sui paesi della valle che continuano
invece ad appartenere alla diocesi di Torino (Ristorto, 1977).
L’inizio del XIV secolo vede, sotto Carlo II, il progressivo riconsolidamento
del potere angioino ed il conseguente ritorno di Caraglio e della Valle Grana
sotto il dominio di Cuneo e degli Angiò.
Nel 1372 Caraglio viene conquistata da Anichino di Baumgarten che
combatte al soldo del Conte Verde Amedeo VI di Savoia il quale tenta
inutilmente di impadronirsi della valle, mentre Eustachio di Saluzzo, quarto
figlio di Tommaso II, ne diviene di fatto il padrone.
Sul finire del XIV secolo, dopo l’atto di dedizione del comune di Cuneo ai
Savoia (1382), i paesi delle valli cuneesi, e quindi anche quelli della Valle
Grana, entrano a fare parte di quello stato sabaudo che s’andava
37
consolidando ed entro il quale perdono la loro forza iniziale le autonomie
periferiche. Le vicende dei piccoli comuni, superata l’iniziale fase di libertà,
finiscono per inserirsi dentro ad un più ampio organismo, in un rapporto di
dipendenza più o meno stretta dal nuovo potente signore.
Per quanto riguarda l’aspetto ecclesiastico, nel corso del XIV secolo, con
la progressiva perdita d’efficacia delle fondazioni monastiche, il vescovo di
Torino riprende i contatti con le vecchie pievi alle quali riconosce gli stessi
diritti ed uffici delle parrocchie (Galaverna, 1894).
Dalla pieve, centro religioso e spesso anche civile di una vasta zona,
dipendono, per l’esercizio del culto, alcune chiese minori le quali tuttavia non
godono di autonomia propria poiché mancano della fonte battesimale ed il
prete non vi esercita piena giurisdizione.
All’inizio del XV secolo, con la morte di Eustachio di Saluzzo, il territorio
della valle passa per testamento ai figli Costanzo, Giovanni Federico e
Giorgio per conto dei quali - ancora minori - agisce la madre Alliana (Ristorto,
1977).
Sul finire del XV secolo, con lo scoppio della guerra tra il duca Carlo I di
Savoia, detto il guerriero, e il Marchese Ludovico I di Saluzzo, termina un
lungo periodo di pace. La valle passa per un breve tempo sotto il dominio dei
Savoia, fino a che, nel 1490, il marchese di Saluzzo, alleatosi con la Francia,
riesce a riconquistare i propri domini. Durante il suo governo (1457 – 1504) il
Marchesato conosce un periodo di notevole splendore.
La vedova, Margherita di Foix, francese di origine e di sentimenti,
prendendo in mano le redini del governo si cura di rinsaldare i legami con la
Francia. Essa riprende i contatti con la Santa Sede per ribadire la volontà di
staccarsi del tutto dal duca di Savoia e dal vescovo di Torino. Nel 1537, per
necessità belliche contingenti, i Saluzzo sono costretti a fortificarsi nei loro
castelli (a questo periodo risale il restauro del castello di Montemale). L’anno
successivo, investito dal re di Francia, diventa marchese il quartogenito di
Ludovico II, Gabriele.
Dieci anni più tardi muore avvelenato nel carcere di Pinerolo: si estingue
così la dinastia dei Marchesi di Saluzzo con conseguente annessione del
marchesato alla Francia (Comitato comprensoriale di Cuneo, 1984).
38
Nella seconda metà del Cinquecento la difficile situazione politico-militare
per la guerra tra Spagna e Francia interessa anche la Valle Grana e i
valligiani. Nel 1551 Cesare Maggi, al servizio dell’imperatore Carlo V di
Spagna, cinge d’assedio la fortezza di Montemale riuscendo ad espugnarla
col tradimento. Poco dopo sono nuovamente i francesi a prendere in mano la
situazione. Frattanto si va rapidamente diffondendo l’eresia calvinista che
trova i suoi punti di forza specialmente nelle Valli Maira e Varaita e, per la
Valle Grana, in Caraglio.
Nel 1588 Carlo Emanuele I di Savoia, facendosi paladino della causa
cattolica, domanda ad Enrico III di affidargli il governo del marchesato, per
poterne escludere ogni elemento calvinista. In realtà il duca, usando
l’argomento della difesa del cattolicesimo come paravento di fronte a papa
Sisto V, occupata di sorpresa Carmagnola, conquista tutto il Marchesato
coronando così le sue mire espansionistiche ed accentratrici (Ristorto, 1977).
Il trattato di Lione del 1601 sancisce ufficialmente l’incorporazione del
Marchesato di Saluzzo nel Ducato di Savoia e segna il primo passo verso
l’unificazione politica del Piemonte.
Per quanto riguarda i rapporti dei Savoia con la Valle Grana, essi sono
stati assai concilianti: ai signori della valle vengono concessi i castelli e ai
comuni gli antichi privilegi, rispettando così l’apparenza di una quasi
sovranità.
Nel corso del 1630 la valle, oltre a patire di riflesso i mali della guerra tra il
duca di Savoia e il re di Francia, è colpita dalla peste. Sette anni più tardi
muore Vittorio Amedeo I di Savoia con gravi conseguenze per tutto il
Piemonte. Nel 1640, con la presa di Dronero da parte dei Francesi, i comuni
di Montemale e Valgrana e la frazione di San Pietro di Monterosso diventano
bersaglio delle scorrerie delle truppe francesi. Da documenti dell’archivio
comunale di Monterosso risulta che in quell’anno viene incendiata la borgata
di San Pietro con la chiesa parrocchiale. Durante il XVIII secolo la
popolazione della valle si trova in condizioni di estrema povertà in quanto
appesantita dalle strutture del nuovo governo sabaudo che impone di
continuo tasse e gabelle attraverso i feudatari.
39
Il Settecento, soprattutto nella prima metà, è tempo di guerra continua:
prima per la successione al trono di Spagna, poi per quella della Polonia e
infine per la successione al trono d’Austria. L’Europa è come divisa in due
blocchi: da una parte le monarchie di casa Borbonica (Spagna e Francia),
dall’altra Austria e Inghilterra. Il Piemonte, dapprima coi Borboni, passa in
seguito nel campo opposto alleandosi con l’Austria. Nel 1742, allo scoppio
della guerra di successione la situazione peggiora ulteriormente. Carlo
Emanuele III di Savoia si allea con l’Austria e la reazione delle truppe
galllo-ispaniche è immediata, fino all’apice nella grande campagna delle Alpi
occidentali del luglio 1744 che lascia il territorio della valle completamente
depauperato sia per le spese militari sostenute sia per le continue razzie
subite (Ristorto, 1977).
Successivamente le condizioni socio-economiche della popolazione
migliorano lentamente. In campo religioso questo secolo è teatro di un
notevole fervore edilizio. La chiesa di Pradleves, viene riedificata,
contemporanea è la costruzione della parrocchia di Sant’Ambrogio in
Castelmagno; il santuario di San Magno viene ultimato nel 1716. Nel 1723 a
Campomolino si ricostruisce la cappella dell’Assunta e sorge a Valliera la
Cappella di Santa Margherita. Al 1764 risalgono i restauri della cappella della
Madonna della Neve di Narbona e viene eretta la Confraternita di San
Giuseppe a Valgrana (Galaverna, 1894).
Tornando agli avvenimenti politico–militari, nel 1789 scoppia la rivoluzione
francese che dichiara guerra aperta a tutte le monarchie. Ne viene
interessato per primo il piccolo Piemonte che si vede occupare in tre soli
mesi di campagna militare la Savoia e minacciare da vicino il Nizzardo.
Davanti al pericolo imminente i piemontesi, ricercando l’alleanza con
l’Austria, rinforzano le posizioni sulle Alpi facendo affluire numerose truppe
nelle valli cuneesi. Le operazioni militari sulle Alpi e le conquiste
napoleoniche incominciano nel 1793, e ogni tentativo di resistenza è inutile.
Le truppe di Napoleone Bonaparte sfociano da Savona, Ceva e Mondovì
obbligando gli austro-sardi all’oneroso armistizio di Cherasco del 1796
(Ristorto, 1977).
40
Col definitivo tramonto dell’impero napoleonico, il Congresso di Vienna
del 1815 restituisce a Vittorio Emanuele I di Savoia i territori occupati dalla
Francia. Da questo momento la Valle Grana segue le vicende storiche del
regno sabaudo fino alla costituzione dello stato italiano.
La seconda metà dell’800 rappresenta per la Valle Grana un periodo
durissimo, colpita prima dal clima avverso, gelo e neve, poi dal colera che
provoca decine e decine di vittime. Nonostante queste difficoltà la valle
comincia a scuotersi dal suo secolare torpore. Fiorisce il commercio e le
comunicazioni vengono facilitate dall’apertura della linea tranviaria CuneoCaraglio inaugurata il 24 novembre 1879 e dall’introduzione di vetture postali
che uniscono i centri valligiani (Comitato comprensoriale di Cuneo, 1984).
Ma di contro inizia il fenomeno dello spopolamento: molti valligiani sono
costretti a lasciare la propria casa in cerca di lavoro o per altri motivi.
Anzitutto la prima guerra mondiale nella quale, nel 1915, viene coinvolta
l’Italia. E’ una guerra di trincea che divora gran parte della gioventù
valligiana: ne sono una testimonianza le lapidi con una lunga serie di nomi
apposte nei vari comuni in ricordo dei caduti (Ristorto, 1977).
Con l’avvento del fascismo, la situazione socio-economica della valle
inizia a peggiorare. Dal 1930 la proibizione di rilasciare passaporti lavorativi e
il divieto di emigrare producono l’esodo di giovani valligiani che si
stabiliscono definitivamente in Francia.
Nel settembre del 1939 scoppia la seconda guerra mondiale. L’anno
successivo l’Italia dichiara guerra alla Francia e all’Inghilterra, i primi
combattimenti avvengono sulle nostre Alpi o Fronte Occidentale, contro la
Francia che sarà costretta a ritirarsi.
La guerra continua ancora più furiosa in Grecia, Libia e nella lontana
Russia; a centinaia di migliaia i caduti italiani sui vari fronti, disastrosa
soprattutto la ritirata dalla Russia del Corpo Alpino nel micidiale inverno
1942-43; anche la Valle Grana conta numerosi morti e dispersi (Ristorto,
1977).
All’annuncio dell’armistizio l’Italia precipita nel caos: l’esercito si scioglie, le
truppe abbandonano la Francia, mentre i tedeschi occupano in un baleno i
punti nevralgici della penisola. Si organizza un largo movimento di
41
resistenza, bande armate si costituiscono nelle valli cuneesi decise ad
attaccare il doppio nemico. Gruppi di ufficiali si stabiliscono tra le montagne
della Valle Grana, a Castelmagno e nelle piccole baite delle diverse borgate
come Narbona, Chiotti e Valliera portando con sé armi e viveri. I tedeschi
passano alle rappresaglie contro la popolazione inerme distruggendo e
saccheggiando qua e là (Comitato comprensoriale di Cuneo, 1984). Nel ’44
con azioni massicce tentano di scardinare le formazioni partigiane più
consistenti. Occupato il fondovalle, con colonne armate i tedeschi risalgono
le Valli Grana e Maira tentando di stringere in un cerchio di fuoco le bande di
ribelli.
Nei mesi successivi continuano i rastrellamenti e i saccheggi da parte dei
tedeschi. Molti partigiani vengono fatti prigionieri o feriti, fino alla data del 25
aprile 1945, giorno atteso della liberazione. I partigiani scendono compatti a
stroncare le ultime resistenze dei nazifascisti e finalmente ai primi di maggio
in Valle Grana si torna a respirare.
Una lunga serie di nomi si aggiunge sulle lapidi dei singoli comuni alla lista
dei caduti della prima guerra mondiale (Ristorto, 1977).
42
2.4. Borgata Valliera: terra di emigrazione e vita di lassù
La conclusione dell’ultimo conflitto non risolve la preesistente crisi della
Valle Grana. Anzi, a partire dal 1945 i problemi di questa e delle altre valli
cuneesi si aggravano notevolmente: ne è un sintomo evidentissimo il
continuo flusso migratorio che spopola le frazioni più alte dei comuni.
Castelmagno è uno tra i comuni maggiormente colpito dal fenomeno che
ha il picco di intensità negli anni 1918-1930 e subito dopo il 1945. Le
conseguenze delle due guerre mondiali sono inevitabilmente l’assenza di
lavoro, la mancanza di cibo e un forte indebitamento del comune provocato
dalle ingenti spese per le strade. Inoltre, molti uomini partiti per il fronte non
fanno mai ritorno: «A Castelmagno i morti in guerra superano quasi i vivi»9.
Così è per la borgata Valliera, terra di emigrazione e di sofferto lavoro
all’estero. Alle cause che abbiamo già descritto (impossibilità di ottenere
passaporti lavorativi e conseguente divieto di espatrio da parte del regime
fascista) altre e di diverso genere si aggiungono. L’asperità e la povertà del
terreno non permettono profitti e l’economia rurale riguarda perlopiù
un’agricoltura di sopravvivenza che non consente alle famiglie valligiane di
migliorare le proprie condizioni di vita: circostanze che aggravano il secolare
fenomeno dell’emigrazione.
Ma procediamo con ordine e ripercorriamo la vita di quegli anni. Intorno al
1900 a Valliera vivono un centinaio di persone, nel 1931 ne rimangono 82.
Nel 1959, data dell’ultimo censimento, compilato dal parroco, gli abitanti
rimasti sono solo sei. Negli anni ’80 gli ultimi due si stabiliscono al Colletto, la
borgata più a valle (Don Galaverna, 1894).
Curioso è il fatto che gli unici due cognomi presenti sono Martino e
Demaria. Un paio di cognomi per un centinaio di persone avrebbe creato una
bella confusione se non si fosse fatto ricorso agli stranoum, che permettono
di distinguere i componenti di una stessa famiglia da famiglie diverse con lo
9
Tratto dal libro Il mondo dei vinti di Nuto Revelli (p. 114), testimonianza di Michelino Isoardi
nato a Castelmagno nel 1931. La prima guerra mondiale, spiega Isoardi, aveva portato 43
caduti mentre la seconda 23 morti. In quell’anno erano 70 gli abitanti di Castelmagno,
dunque i morti superavano quasi i vivi.
43
stesso nome. Grazie a Olga Martino (una dei pochi abitanti rimasti del
Colletto, ora domiciliata a Torino), è stato possibile ricostruire alcuni
soprannomi per testimoniare la fantasia in materia: Gianet dei Gardati, Pietro
Matino detto carruba forse perché divideva con la sua mula la carruba che
raccoglieva, Chelin e Chel derivano forse da Michele, i Biount così chiamati
perché avevano i capelli biondissimi, Couca deriva da Jacou che era il
maestro di Valliera. E ancora Nhasi che deriva da Ignazio, un nome inusuale,
a rompere la monotonia dei soliti Giovanni o Giacomo, forse ispirato a un
personaggio importante, Ignazio De Morri; Rensou d’Coutin forse perché
sempre attaccato alla gonna della mamma e ancora Miliu, Janou d’Grilou10.
Le origini di questa borgata sono antichissime, com’è testimoniato dai
ruderi di una casa che
porta la data 1666. Tutte
le
case,
secondo
edificate
un’antica
tecnica di fabbricazione,
sono splendidi esemplari
di architettura alpina che
utilizzava solo pietra e
legno. Le mura a secco,
che superavano sempre
Un’abitazione della borgata Valliera
il metro di spessore,
erano
rinforzate
al
massimo con un po’ di calce bollita nella tampa e potevano raggiungere, una
pietra sopra l’altra, l’altezza di un terzo piano. I tetti, sorretti da ingegnosi
intrecci di travi di legno, venivano costruiti con grandi lastre di ardesia (lose).
Molto sporgenti, fino a toccarsi gli uni con gli altri, consentivano, nella
stagione invernale, un passaggio coperto tra le case. Non solo alle persone,
ma anche al foraggio che ogni giorno veniva portato dal fienile alla stalla.
10
Testimonianza diretta avuta dall’incontro con Olga Martino. Una bella indagine sugli
stranoum, con spiegazione di ogni significato è stata pubblicata da Olga Martino e Graziano
Cardellino nell’archivio della Vous de Chastelmanh (nn. 2-3 del 1995 e n. 5 dell’anno 2000).
44
Annessi al corpo centrale della costruzione vi era lou porti, il portico dove
si sistemavano i cereali appoggiati sopra una tramezza di assi, la parte
bassa serviva da rimessa per gli attrezzi agricoli. Nel seminterrato c’era
invece lou selìe, speciale cella o cantina, utilizzata per la conservazione del
formaggio e del vino. Caratteristica di ogni casa è inoltre la lobio di legno
(ballatoio), sempre al riparo di un’ala di tetto molto sporgente che consentiva
l’essicazione di grano, castagne, noci e legumi vari.
Un particolare cenno meritano ancora le finestre, piccole e strombate in
modo da prendere la maggior quantità di sole possibile: irregolari ed
asimmetriche, erano strettamente funzionali. Per ottenere la più efficace
protezione dal freddo della rigida stagione invernale erano profonde e di
piccole dimensioni. Il fienile vero e proprio, il forno e l’essiccatoio erano
invece di norma costruzioni a sé stanti.
Infine da notare come tutte le borgate siano costruite intorno ad una
chiesa e nei pressi di una fonte sorgiva, elemento fondamentale per irrigare
gli orti e abbeverare gli animali. Erano disposte lontano dagli abituali percorsi
delle valanghe e orientate a mezzogiorno.
La pianta delle case è
prevalentemente
quadrangolare irregolare
e comprende i locali fra
loro attigui della stalla e
della
cucina,
posti
a
piano terra. La cucina
era il polo dell’abitazione
nella
stagione
estiva,
mentre la stalla lo era
Interno di un’abitazione di Valliera
per quella, molto più
lunga, dell’inverno. In tutte le cucine, nere per il fumo, l’angolo più importante
era quello del camino, che oltre ad espletare le comuni funzioni di
riscaldamento e cucina, serviva anche per la cura del bestiame (si scaldava il
cibo e l’acqua per le bestie nella stagione fredda). All’interno pochi arnesi e
suppellettili: la madia, la tabio, asse per tirare la pasta e per allargare la
45
polenta, un armadio a muro (lou placard), una vecchia panca, qualche sedia.
Sui muri chiodi per paioli e padelle e una rastrelliera porta oggetti. Infine non
mancava mai un’immagine sacra o una statuetta raffigurante la Madonna o
San Magno protettore degli armenti.
Oggi alcune case di Valliera conservano ancora intatti questi oggetti, e
nonostante i crolli dei muri e i vari saccheggi ad opera di vandali o comunque
persone poco rispettose, è ancora possibile ammirare i segni di un’antica
presenza.
Un’importante
caratteristica
di
questa
comunità
era
la
ricerca
dell’autosufficienza in stretta relazione con la situazione ambientaleeconomica difficile. La povertà diffusa spingeva ad acquistare e consumare il
meno possibile, mentre la commercializzazione e la circolazione di denaro
erano estremamente ridotte. La montagna offriva quasi tutto il necessario per
vivere: con grande ingegno e abilità i valligiani trasformavano le risorse in
cibo ed energia. Il montanaro era pastore, contadino e anche artigiano, in
particolare si dedicava alla coltura dei campi e all’allevamento del bestiame.
La miseria era tanta e possedere
una capra o due pecore era gran
cosa, una mucca rappresentava poi
una vera e propria ricchezza perché
con il latte ottenuto dalla mungitura
si
preparava
il
Castelmagno
destinato anche alla vendita. Il mulo
era poi un animale molto importante:
senza
di
sarebbero
questo
risultati
molti
lavori
impossibili
o,
perlomeno, faticosissimi. Alcuni ne
avevano uno in comproprietà, altri
erano costretti a scendere fino a
Pradleves
per
affittarne
uno.
Banastres (banastre)
per il trasporto del letame.
Soprattutto a Valliera, raggiungibile solo attraverso una stretta mulattiera, in
alcuni tratti ridotta a sentiero, erano indispensabili le bestie da soma per
alleviare le fatiche dell’uomo. I muli erano impiegati nel trasporto del fieno,
46
del letame e delle cavanholes cariche di formaggi destinati al fondovalle,
oppure utili a trascinare la beno, grande slitta di legno, o i carretti dove la
strada era carrozzabile. Va ricordato comunque che non tutti ne
possedevano uno e quindi l’unica risorsa su cui si poteva sempre contare era
la forza muscolare degli uomini e, si intende, anche delle donne (Viano,
1980).
Quando si parla della vita di Valliera non si può prescindere dal fatto che
buona parte della giornata era impiegata a trasportare cose. Si pensi a
quando, durante l’estate, gli uomini salivano fino ad alte quote (oltre i 2000
metri) per procurarsi una quantità di fieno sufficiente per l’inverno, oppure
quando tagliavano la legna o la segale, o quando si recavano a Pradleves
per lo scambio di merci. Inoltre molte famiglie avevano proprietà frazionate e
disseminate in più luoghi11. Ciò comportava lo spostamento continuo, a volte
anche per diversi chilometri, su sentieri non battuti, carichi di attrezzi o altro.
Il lavoro agricolo era molto duro, soprattutto a causa del terreno scosceso ed
accidentato. Il loro paziente lavoro l'aveva ri-modellato terrazzandolo: i piccoli
campi così ricavati erano curati come giardini.
Segale e orzo i principali prodotti agricoli. La segale, coltivata in genere oltre i
2000 metri, produceva la farina che serviva per fare il pane. L’orzo invece
serviva, con la pratica del baratto, per ottenere prodotti che era impossibile
coltivare in alta quota. La mietitura dell’orzo era molto impegnativa e poteva
durare parecchi giorni. Ogni borgata aveva comprato una macchina per
trebbiare in società e le famiglie si aiutavano a vicenda: erano necessari
diversi uomini per la trebbiatura, altrettanti per girare le ruote della macchina
che divideva le spighe dalla paglia, altri ancora per rastrellare la paglia e
farne dei piccoli covoni. La segale invece si batteva in buona parte a mano
per non rovinare la paglia ricavata (Menardi Noguera, 1978).
In seguito si diffuse anche la coltivazione del frumento, ma dava rese
inferiori agli altri cereali. La raccolta del fieno avveniva due volte l’anno: una
a giugno o inizio luglio e l’altra a fine agosto.
11
Questo fatto si è riscontrato nel momento dell’acquisto delle baite dai vari proprietari. Non
è stato facile trovare dei pascoli nelle vicinanze, se non disseminati qua e là a diverse
altitudini (vedi più avanti).
47
Veniva impiegato principalmente per coprire il fabbisogno di casa: se però le
bestie erano poche, veniva venduto per quanto poco redditizio.
A causa dell'altitudine le piante da frutta erano poche: a Valliera c'era solo
qualche susino, a Campomolino era ancora possibile coltivare qualche pianta
di melo. Per avere un po’ di castagne, i contadini affittavano i boschi tra
Caraglio e Pradleves e in autunno scendevano in occasione della raccolta.
Alcuni campi vicino al torrente Croce erano irrigabili e venivano utilizzati per
gli orti dove crescevano porri, patate, insalata, cavoli e cipolle. La cura
dell’orto era affidata prevalentemente alle donne che di giorno si occupavano
di portare il letame, coprire con la paglia i cavoli e seminare.
La miseria era anche nel
vestire: ai piedi mettevano
gli zoccoli di legno con la
tomaia in pelle, spesso
senza
calze;
non
tutti
possedevano le scarpe, un
solo paio veniva usato a
turno per andare a messa. I
vestiti si lavavano solo una
volta al mese con l’acqua
del ruscello mentre la lisìo,
il
bucato
con
Interno di una casa abbandonata negli anni ‘50
acqua
bollente e cenere, era abitudine farla una volta l’anno. Andare al ruscello per
lavare i vestiti era occasione per trovarsi tra donne e chiacchierare,
spettegolare e cantare. Miseria, miseria in tutto. A Valliera la luce arrivò solo
nel 1977 quando per la prima volta si costruì una centrale idroelettrica sul
torrente Grana; prima si sfruttava la luce del sole e si ricorreva a lampade a
petrolio12. Non c’era neanche l’acqua potabile e le famiglie attingevano dalla
12
Flavio Menardi Noguera in Rescountrar Castelmanh p. 49. spiega il duro lavoro per la
costruzione della centrale per la produzione dell’energia elettrica. La prima ultimata nel ’77
non produceva abbastanza energia per tutte le borgate e così nell’81 grazie all’intervento
dell’Enel, della Regione Piemonte e della CEE, anche Castelmagno, ultimo comune d’Italia,
è stato elettrificato.
48
fontana o dal torrente Grana, mentre per quanto riguarda i servizi igienici,
beh questi erano all’aperto.
L’alimentazione era molto povera e monotona. Il piatto principale era la
poulento che, con il frumento e il riso, costituiva la voce più importante tra i
prodotti che si barattavano con l’orzo. L’acquisto di cereali veniva fatto una
volta l’anno; in autunno o in primavera, quando pioveva molto e i ruscelli si
ingrossavano abbastanza da far girare le ruote dei mulini, provvedevano alla
loro
macina.
Anche
il
pane
veniva
fatto
solo
due
volte
l’anno,
prevalentemente con segale e frumento (mai farina bianca, al massimo un
po’ di orzo) oppure solo con segale. Si conservava sulle rastrelliere appese
al soffitto e per tagliarlo si usava il tagliapane o il martello tanto era duro. A
Valliera il forno rimaneva acceso anche per tre settimane per permettere a
tutte le famiglie della borgata di cuocere il pane. La maggior parte delle forme
di Castelmagno che venivano prodotte non erano quasi mai destinate
all’alimentazione della famiglia che, a volte, consumava la lechà, ovvero una
parte del siero, cotta con la polenta (Martino, Cardellino, 1998).
Con
la
conclusione
della stagione estiva e
l’arrivo
dell’inverno
situazione
la
peggiorava.
Le abbondanti nevicate
isolavano le borgate più
alte,
Valliera;
proprio
ognuna
come
di
queste aveva l’obbligo di
spalare la neve fino a
valle: un lavoro duro e
soprattutto pericoloso a
Antico forno della borgata Valliera
causa delle valanghe. Il clima rigido e il protrarsi delle stagioni invernali non
permettevano di far nulla. L’unica alternativa ai disagi e alla fame più nera
era l’emigrazione. Molti uomini partivano a settembre e tornavano poi in
primavera per fare il fieno, lasciando le mogli ad accudire la casa, i figli e le
bestie.
49
Naturalmente gli emigranti facevano a piedi questo lungo e faticoso
viaggio, mai da soli ma in gruppo per sostenersi e prestarsi aiuto ed
assistenza in caso di malori o disgrazie. Bisognava comunque avere una
grande resistenza ed il piede montanaro ben abituato ai sentieri selciati o
polverosi, ai pendii rocciosi, ai passaggi sui ghiacciai quando occorresse.
Bisognava affrontare l’aria pungente delle grandi altitudini, camminare sotto il
sole, la pioggia o la neve cercando di evitare valanghe e temporali.
Erano pesantemente carichi: bagagli personali, viveri, strumenti di lavoro.
Era un viaggio di parecchi giorni, fatto attraverso le montagne perché senza
passaporto e con la paura di essere arrestati dalle milizie fasciste che
sorvegliavano le zone di confine. Molti, nel timore di non poter intraprendere
altri viaggi, finirono per prendere stabile residenza in Francia grazie alla vita
più comoda che si offriva loro e alla rete di amicizie e parentele che si erano
formate con i primi espatriati (Viano, 1980).
Più tardi, con la trasformazione delle mulattiere e degli impervi sentieri in
strade carrozzabili (1870) e l’allacciamento di Caraglio alla rete ferroviaria
(1879), divennero più facili i collegamenti con il resto del mondo. Si assistette
così
ad
un
aumento
dell’emigrazione
stagionale
e
soprattutto
dell’emigrazione all’estero.
La maggior parte andavano
in Francia nel Var, a Cabases,
a Brignoles a lavorare nella
costruzione di grandi impianti o,
più spesso, in miniera per
estrarre l’alluminio o negli scavi
delle
gallerie.
Lavoro
massacrante, per molti anni
Cabasa (gerla) e cestini abbandonati in una stalla
esclusivamente
manuale
a
forza di ferri e mazze, solo in
tempi recenti alleggerito dall’introduzione dei mezzi meccanici. Sempre in
Francia, a Sisteron, andavano a fare i boscaioli a cottimo oppure a lavorare
la terra. Altri invece migravano a Torino, Milano, Novara. Facevano lavori
pesanti e umili: facchini, trasportatori di pianoforti, illuminavano la strada dei
50
nobili portando lumi, posavano per i pittori, facevano i lustrascarpe a Porta
Nuova (furono i primi lustrascarpe di Torino e da allora divenne una
tradizione per i castelmagnesi).
A Valliera erano specializzati nel commercio delle acciughe sotto sale:
i’anciuiè partivano con il barile sul carretto e andavano a Vigevano, Novara,
Vercelli e Milano. Altri invece giravano nel fondovalle passando di casa in
casa a vendere oggetti artigianali, impagliare le sedie, aggiustare pentole e
paioli. Altri erano bottai, bastai, calderai, ombrellai pronti ad offrire fino a
qualche decennio fa un’abilità spesso esclusiva.
Le donne inizialmente restavano a casa ad aspettare il marito ma in
seguito anche loro iniziarono ad emigrare. Andavano a Torino da servente
nelle famiglie più ricche o in Francia per la raccolta dei fiori e della frutta.
Con il passare del tempo, e in particolare dopo la seconda guerra
mondiale (anni ‘50–‘60), le migrazioni si fecero più intense e da temporanee
divennero permanenti. Le famiglie si trasferivano in Francia o nei centri
industriali dell’Italia (si ricorda il fenomeno della Michelin) in cerca di lavoro
ma poi non facevano più ritorno al paese d’origine.
Da quel periodo sino ad oggi la popolazione di Castelmagno ha registrato
un costante e progressivo declino: l’industrializzazione e le nuove tecnologie
prospettano stili di vita migliori, meno faticosi e, almeno all’apparenza, più
gratificanti.
51
2.5. Abitudini e antiche tradizioni
Valliera, come tutte le altre borgate di Castelmagno, era ricca di abitudini e
antiche tradizioni che scandivano la giornata del montanaro, delle quali oggi
non si conserva più nulla se non nella memoria di qualche superstite.
L’aspetto religioso per i valligiani era molto importante, era parte
integrante del loro modo di vivere e della loro cultura. Una fede semplice ma
profonda e sincera si manifestava attraverso pratiche religiose che
accompagnavano la vita sulle montagne. Le campane scandivano i diversi
momenti della giornata: suonavano al mattino
presto la Messa, a mezzogiorno l’Angelus, all’alba
e al tramonto l’Ave Maria. Nel giorno dei Morti le
campane suonavano ogni ora fino a tarda notte.
Ogni sera, quando le famiglie si riunivano nella
stalla per la veglia, era consuetudine, come prima
cosa, recitare il ben cioè le preghiere della sera e
il rosario. In ogni casa e sopra la porta di ogni
stalla vi era un quadretto o una statuetta di San
Magno, invocato come protettore del bestiame.
Le grandi Ricorrenze, la festa patronale, le
Finestrella votiva
all’entrata di una casa
Rogazioni e le Processioni erano momenti intensi
e
partecipati.
Alla
festa
di
San
Magno
partecipavano tutte le famiglie: era un momento di gioia, di preghiera e di
incontri (Viano, 1980).
E’ in questa data (19 agosto) che si celebrava, e si celebra tutt’ora, La
Baìo di Castelmagno: una festa religiosa, una processione in onore di San
Magno che via via nel tempo si è andata ad arricchire. Oggi la statua del
santo abbigliato come soldato romano è accompagnata e scortata dalla
Badìa, un gruppo di uomini armati di alabarda, vestiti di costumi
settecenteschi, con cappelli a pennacchio e gli immancabili nastri colorati, qui
detti levrees. Il gruppo si presenta fin dal mattino al santuario e partecipa alla
messa solenne, mentre alcuni suoi componenti montano la guardia
all’esterno. Al termine della messa tutti accompagnano la processione che si
52
snoda nelle vicinanze. Concluse le funzioni religiose, il corpo della baìo
percorre nove volte il perimetro del santuario accompagnato dalla banda,
dalle mogli, dai figli e dagli amici. E’ una ronda che simboleggia uno dei
compiti attribuiti alla Baìo dopo la Controriforma: proteggere i riti della Chiesa
Cattolica e mantenere l’ordine pubblico in occasione di feste e processioni.
Don Galaverna, nel libro Cenni storici intorno a San Magno martire tebeo
ed al paese e Santuario
di Castelmagno del 1894,
descriveva il numero dei
componenti della Baìo, la
struttura
di
comando,
l’armamento e la divisa
(ben diversa da quella
attuale).
A
capo
del
manipolo erano all’epoca
quattro ufficiali superiori,
gli Abbà, i sottoposti erano
Baìo di Castelmagno
Foto tratta dal libro Baìo di Edo Prando
tre soldati, destinati l’anno successivo a ricoprire il ruolo di ufficiali e cinque
soldati di nuova nomina. Figura a parte quella dell’Alfiere che l’anno
seguente avrebbe ricoperto la carica di Abbà (Prando, 2006).
Un tempo, per i valligiani, La Baìo era un’occasione di festa, di nuovi
incontri con le ragazze, di spensieratezza ma anche di grande fede.
La posa dei morti era un’antica tradizione di cui si può ancora notare la
presenza percorrendo la strada sterrata che porta a Valliera. Quando moriva
qualcuno, il Prevosto partiva dalla chiesa accompagnato dalle Figlie di Maria
e dalla gente e andava a prendere il morto fino alla posa, luogo dove vi era
una croce di legno e un piano d’appoggio per la bara costruito con grosse
pietre (quella di Valliera si trovava al Crest d’es baretes). A primavera, col
disgelo, la salma veniva trasportata per un sentiero stretto e scosceso,
impraticabile in inverno, e tumulata nel cimitero del Colletto (Martino
Cardellino, 1992).
Era usanza che, subito dopo i funerali, i familiari dello scomparso
prendessero la despueio del morto, cioè un vestito completo compresi
53
mutande, calze e fazzoletti, e la regalassero ad una persona da loro stessi
scelta e ovviamente d’identica taglia del morto. Chi riceveva la despueio
aveva il dovere di indossarla durante la messa di settima. Sempre sulla via
che conduce a Valliera si può ancora notare un pilone affrescato che riporta
l’anno 1932, data dell’ultimo restauro. Ogni
frazione aveva un pilone costruito dagli
abitanti, oggi se ne contano ancora 15 a
Castelmagno. Questi piloni servivano come
meta durante le processioni delle Rogazioni
primaverili per invocare la benedizione sui
campi. Il pilone sulla strada di Valliera era
una stazione della processione di San
Marco13.
Per quanto riguarda la vita quotidiana la
gente
soleva
radunarsi
nelle
stalle
e
trascorrere le lunghe ore serali raccontandosi
Pilone sul sentiero per Valliera
le vicende quotidiane.
Le veglie erano
momenti importanti per una società in cui le
occasioni d’incontro e di svago erano assai limitate. Le famiglie si riunivano
nella stalla più accogliente, calda e spaziosa. Erano presenti anche gli
anziani e i bambini: qui si parlava, si giocava a carte, si raccontavano le
storie di masche. Antica credenza, diffusa anche in altre zone del Piemonte,
assegnava poteri sovrannaturali ad alcune persone, le masche per l’appunto,
che possedevano la capacità di trasformarsi in animaletti pelosi o in bestie
come gufi, gatti, maiali. Riunite in gruppi, le masche si divertivano a
spaventare la gente, a procurare guai e malanni, a volte anche la morte.
Impedivano ai montanari di percorrere tranquillamente i sentieri. Le donne si
preoccupavano di proteggere dalla loro influenza negativa il latte, il
formaggio o le bestie. Segnavano con la croce il latte appena cagliato e il
pane sfornato, e appendevano immagini di santi alle maglie. Solo frati o
sacerdoti potevano opporsi ad esse e a loro si rivolgeva fiduciosa la gente.
13
Informazioni trovate nell’archivio della rivista periodica di Castelmagno, la Vous de
Chastelmanh, testi a cura di Graziano Cardellino pubblicati nell’anno 1999.
54
Nella figura favolosa della masca il mondo arcaico della montagna trovava
una spiegazione ai fenomeni incomprensibili, una motivazione per quegli
eventi che, oltre a collocarsi fuori dalla norma, potevano costituire una
minaccia per l’ordine sociale, un fattore di disarmonia per la ristretta
comunità, un’interferenza rispetto allo scorrere monotono della vita (Viano,
1980).
La stalla non era solo il luogo delle veglie, in essa i valligiani trascorrevano
gran parte della giornata e nelle stagioni fredde era loro abitudine dormirci
scaldati dal tepore generato dalle bestie, con le quali avevano instaurato un
forte rapporto di simbiosi.
Nella stalla le donne erano
solite filare la risto (canapa)
con il fuso mentre gli uomini
cucivano la calza. Era non
solo
il
luogo
dove
mangiavano ma anche quello
scelto dalle donne per il
parto, dato l’ambiente più
mite. Purtroppo la mancanza
Interno di una stalla abbandonata
di igiene e la denutrizione poteva portare alla morte del neonato e della
madre in caso di emorragie. Non vi erano soldi per comprare il sapone e si
rimediava con una pietra grassa che si sfregava con forza sulla pelle, ma i
lavaggi restavano comunque sporadici e le malattie erano abbondanti.
Le molte tradizioni di questa terra tramandate nei secoli, vanno poco alla
volta perdendosi. Oggi restano ancora qualche ricordo e un po’ di memoria
collettiva a testimoniare la profonda e radicata cultura di questa porzione di
montagna occitana.
55
Capitolo III
Il progetto di recupero di una borgata alpina
3.1. Inquadramento dell’iniziativa nel contesto territoriale
La tutela e la valorizzazione del paesaggio rurale - a carattere montano,
collinare o di pianura - è un tema certamente di grande attualità.
Più propriamente, si dovrebbe parlare di paesaggio rurale tradizionale allo
stato quasi naturale: paesaggi cioè, in cui gli uomini hanno integrato la
natura, non solo con opere di coltivazione, ma anche di consolidamento e di
canalizzazione
sempre
utilizzando
materiali
naturali
presenti in loco, come pietre,
legno, argilla, paglia. Così
anche per le abitazioni e le
costruzioni.
I paesaggi rurali tradizionali
dunque sono soprattutto il
risultato di una intensa e
continua
lungo
i
attività
secoli.
dell’uomo
In
questo
Tipico esempio di insediamento alpino a Valliera
senso, essi sono anche la
testimonianza di un “passato vissuto” che non abbraccia solo le tracce visibili
ma anche il pensiero, i sentimenti e i metodi di lavoro, i valori sociali, culturali
e spirituali delle generazioni che ci hanno preceduto14.
Gran parte del territorio rurale, connotato da forti caratteristiche locali,
discendenti sia da fattori ambientali e climatici, sia da consuetudini di lavoro
agricolo sia, ancora e specialmente per il territorio costruito, dalle culture
14
La provincia di Cuneo ha redatto un protocollo denominato Definizione di soluzioni
progettuali innovative per il recupero del patrimonio abitativo dell’Alta Valle Grana nel quale
indicava le modalità di intervento nelle zone rurali alpine alle quali è necessario attenersi e le
linee progettuali di riferimento (Priorità, Innovazione e transazione produttiva). Questo
protocollo è stato utile per inquadrare il progetto da noi creato nel contesto territoriale.
56
materiali che hanno contribuito alla sua configurazione, ha conosciuto, nei
decenni scorsi, il drammatico fenomeno dell’abbandono, con il conseguente
innescarsi di un lento ma inesorabile processo di degrado ambientale,
sociale ed economico.
Il processo di riqualificazione del paesaggio rurale che si sta oggi tentando
di avviare ha come obiettivo prioritario la sostenibilità ambientale, e si deve
inevitabilmente confrontare con problemi di natura politica, economica,
sociale, produttiva e tecnica di non facile soluzione.
Solo in parte, infatti, i territori rurali abbandonati possono essere
recuperati agli usi che ne hanno definito la configurazione nel corso dei
secoli: molto spesso, la riconversione di questi territori passa, piuttosto,
attraverso la riconoscibilità, ad esempio della vocazione turistica che, in modi
diversi, ogni luogo può esprimere.
Il patrimonio costruito esistente nel territorio rurale, anche se sconosciuto,
oltre che elemento fondamentale e consolidato del paesaggio, costituisce
dunque una risorsa culturale ed economica da conservare e valorizzare, nel
rispetto di più generali istanze di tutela dell’ambiente e del paesaggio.
L’edilizia rurale tradizionale assume in questo senso una peculiare
rilevanza, proprio in quanto espressione di un corretto rapporto tra uomo e
natura, tra società e ambiente, tra produzione e territorio.
Al contrario delle opere edilizie attuali,
infatti, gli edifici rurali di un tempo e le
strutture di servizio ad essi connesse, segni
di un’arte del costruire antica e ormai
dimenticata, integravano e arricchivano il
paesaggio, assecondando la morfologia del
terreno, utilizzando i materiali e le risorse
disponibili, con apparente naturale armonia.
La valorizzazione del patrimonio costruito e
delle sue tradizioni si pone, per questo,
come strategia per una effettiva tutela attiva
del paesaggio rurale. Tale tutela deve
Vecchia scala di un’abitazione
pertanto essere basata, innanzitutto, sul
57
riconoscimento dei caratteri peculiari dell’ambiente naturale che sono
determinati principalmente dall’altitudine, dall’orografia del terreno e dalla
geologia del luogo.
A definire l’identità di un sito concorrono, inoltre, a livello generale, i tipi di
insediamento antropico che associano forme naturali del terreno a forme
artificiali delle costruzioni e dei suoli - case isolate, agglomerati secondo
morfologie diverse, nuclei e borgate - e, a livello particolare, i materiali e le
tecnologie costruttive.
In alta Valle Grana numerose sono le borgate suscettibili di interventi di
recupero, spesso abbandonate, e caratterizzate da particolari elementi
architettonici e/o peculiari tecniche costruttive tradizionali, tali da renderle siti
di interesse ai fini della valorizzazione del patrimonio abitativo rurale e alpino.
58
3.2. Il progetto di sviluppo
Illustrato il contesto e delineati i criteri coi quali si andrà ad operare,
procediamo con la descrizione del nostro progetto di recupero e
valorizzazione di una parte di montagna ormai abbandonata e alla nascita
della nostra Società Agricola Valliera.
Il progetto nasce dall’idea di Gianni Costamagna, di professione
agronomo e consulente di studi privati e della Confederazione Italiana
Agricoltori (CIA). Dopo aver effettuato diversi sopralluoghi nel territorio di
Castelmagno ed aver constatato lo stato di abbandono di alcune frazioni, ha
deciso di proporre il recupero della parte alta della borgata Valliera ad alcuni
amici langaroli, certo che avrebbero riconosciuto una parte del loro passato.
Oggi patria del Barolo, anche le Langhe piemontesi hanno vissuto gli anni
difficili del dopoguerra segnati dalla miseria e dall’emigrazione verso le
fabbriche delle città.
Era il 2007. Una decina di persone trova l’idea molto interessante e inizia
a lavorare ad un progetto di fattibilità. L’obiettivo finale non era quello di
possedere una seconda casa dove recarsi saltuariamente ma di far rivivere
una borgata alpina. Per questo il progetto doveva essere non solo
insediativo, anche produttivo e turistico per garantirne la sostenibilità.
Il primo passo è stato dunque la ricerca dei proprietari delle baite ormai
abbandonate e dei terreni adiacenti da adibirsi a pascoli. Molti di questi
vivono nel fondovalle, altri hanno lasciato il paese d’origine e sono emigrati in
Francia. Molti mesi sono serviti per arrivare agli atti notarili di acquisto dei
beni immobili e dei terreni necessari al nostro progetto.
Il secondo passo importante è stata, all’inizio del 2009, la costituzione
della società agricola. Fanno parte di questa: sei viticultori che porteranno la
loro esperienza lavorativa già finalizzata all’alta qualità dei loro prodotti; due
architetti che seguiranno la parte progettistica nonché burocratica relativa
alla presentazione del progetto con tanto di relazioni descrittive alla comunità
montana, al comune di Castelmagno ed alla Regione; tre liberi professionisti
appassionati di montagna; il malgaro al quale si affiderà la custodia delle
mucche (20 vacche piemontesi acquistate nel frattempo) e infine la
59
sottoscritta che andrà a ricoprire l’incarico di coordinatrice tecnica. Inoltre ci
avvarremo di personale locale specializzato nella produzione del formaggio,
un mestiere tramandato nei secoli e un’arte che pochi ancora conoscono per
arrivare a produrre nel giro di cinque anni un Castelmagno d’alpeggio di
mucca piemontese di alta qualità.
A luglio 2009 iniziano i primi interventi che riguardano la ristrutturazione
del caseificio utile alla produzione iniziale del formaggio. Solo più tardi si
passerà
alle
attenendosi
il
diverse
più
abitazioni
possibile
ai
caratteri tradizionali dell’architettura
rurale, modificando solo le parti
interne nel rispetto delle norme
vigenti. Ci avvarremo di strumenti
metodologici mirati al recupero delle
tipicità
Ristrutturazione del caseificio a Valliera
architettoniche
miglioramento
della
ed
al
qualità
ambientale, individuando materiali e
tecniche di intervento sia tradizionali che innovativi compatibili con la difesa
del patrimonio costruito e del paesaggio.
Il tutto sarà infine accostato ad un locale dedicato alla degustazione e alla
vendita del Castelmagno, in stretta collaborazione con l’unico albergo
esistente in modo da incrementare il turismo appassionato di montagna e
della natura incontaminata.
Il tema della tutela e della valorizzazione del patrimonio edilizio rurale, di
cui la Valle Grana conserva diffusa testimonianza, è oggetto di sempre
maggiore
attenzione.
Questo
dipende
soprattutto
da
un’accresciuta
sensibilità nei confronti della storia, delle tradizioni occitane e della cultura
locale. Per operare correttamente nel campo del recupero è prima di tutto
necessario adottare un nuovo atteggiamento culturale responsabile, attento
al contesto originario e condiviso da tutti i portatori di interesse
(amministratori, tecnici, popolazione residente).
Nonostante l’abbandono e il degrado di questa parte di montagna,
abbiamo riscontrato molte difficoltà e soprattutto diffidenza da parte dei
60
residenti e degli organi istituzionali dai quali ci si aspetterebbe, al contrario,
una collaborazione attiva. Quest’atteggiamento non favorirà sicuramente lo
sviluppo in tempi brevi del nostro progetto ma siamo certi che non riuscirà a
impedire il raggiungimento dei nostri obiettivi.
L’albergo diffuso a Valliera.
Struttura realizzata dalla Comunità Montana Valle Grana
61
3.3. Gli obiettivi
Le prospettive future sono ottime e gli obiettivi molto ambiziosi perché fin
dall’inizio abbiamo creduto nella realizzazione di questo progetto e tutti ci
stiamo impegnando attivamente dedicando gran parte del nostro tempo
libero.
Il primo e forse il più importante obiettivo è quello di far rivivere una parte
di montagna che per decenni è stata totalmente abbandonata individuando
soluzioni progettuali innovative e sostenibili destinate ad un corretto recupero
edilizio del patrimonio abitativo alpino, valorizzando i caratteri tipici del luogo.
Si cercherà inoltre di sostenere l’economia locale utilizzando principalmente
materiali e manodopera della Valle Grana.
Successivamente agli interventi di recupero si cercherà di attirare un
flusso turistico che potrà beneficiare di un contesto paesaggistico qualificato,
più gradevole e pertanto più accogliente, producendo una crescita
economica per il territorio. Questo sarà reso possibile grazie alla creazione di
strutture ricettive adeguate sempre nel rispetto della ruralità locale. In questo
ambito sarà importante la collaborazione con il CAI (Club Alpino Italiano) e la
comunità montana per quanto riguarda la manutenzione e la segnalazione
dei sentieri di montagna. Interessante potrebbe essere l’eventuale creazione
di un rifugio o di un posto tappa
nella borgata Valliera.
Il terzo obiettivo da raggiungere
sarà
la
Castelmagno
produzione
d’alpeggio
del
di
alta
qualità prodotto esclusivamente con
latte di mucca piemontese così
come vuole la tradizione (oggi per
questo formaggio si utilizza in gran
parte latte misto). La stagionatura,
che va da 90 giorni a 3 anni,
avverrà nelle cantine delle baite di
Stagionatura in grotte naturali in pietra
proprietà.
62
Si affiancherà anche una piccola produzione di erbe officinali, ortaggi e
piccoli frutti per riportare la montagna all’autonomia di un tempo.
Ultimo obiettivo sarà la creazione di un piccolo museo per tutelare e
conservare il patrimonio storico locale, un percorso per far conoscere la vita
di un tempo con le sue ristrettezze e miserie. Sono stati trovate nelle baite
stanze ancora intatte, attrezzi da lavoro nelle stalle, oggetti di vita quotidiana
e addirittura una tavola apparecchiata. Forse chi è emigrato nella stagione
invernale pensava di tornare, ma non è mai stato così. Si prova una
sensazione di tristezza nel vedere lo stato di abbandono di una borgata un
tempo abitata da numerose famiglie e questo potrebbe essere un modo per
non dimenticare, per riportare in vita, almeno in parte, quello che è stato.
La tipologia di questo intervento non è destinato a generare alcun tipo di
reddito. Tutto il ricavato dalla vendita del Castelmagno verrà reinvestito ogni
anno per migliorare la qualità paesaggistica del territorio e per portare
beneficio alla comunità.
63
3.4. Piano di realizzazione
La realizzazione del nostro progetto di sviluppo prevede un termine
minimo di cinque anni; dopo tale data si pensa che tutto l’insieme
comprendente l’azienda agricola operi a pieno regime. Il percorso è lungo e
abbiamo riscontrato non poche difficoltà nel nostro cammino.
Il primo passo è stata la presentazione di tutti i progetti relativi alla
ristrutturazione del caseificio, dei locali per la vendita e in seguito delle baite,
allo Sportello Unico della Comunità Montana Valle Grana, la quale ha
provveduto a fornire diverse copie alla Regione, agli Enti Pubblici interessati
e alla commissione per i Beni Ambientali. Non è stato facile il lavoro dei
nostri architetti in quanto ogni sezione (gli scarichi, i materiali utilizzati, il
piano
antincendio,
accompagnata
antisismico…)
doveva
essere
regolarmente
da
una documentazione
chiara
e
una
relazione illustrativa.
A luglio 2009 con il
consenso di tutti gli
enti preposti, sono
iniziati i lavori per il
rifacimento del tetto
del caseificio crollato
a
causa
abbondanti
delle
nevicate
Scorcio panoramico sulla valle
di quest’anno, e degli edifici che necessitano maggiormente di interventi.
Di grande importanza sarà l’utilizzo delle tecnologie innovative all'insegna
dell'autonomia energetica, sfruttando con lungimiranza le eccezionali risorse
di cui dispone questa valle: sole, acqua in abbondanza, legno di alta qualità.
Pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua (indispensabile per la
produzione del formaggio), celle fotovoltaiche e il potenziamento delle
centrali idroelettriche già esistenti per fornire energia (le borgate più alte non
sono collegate alla rete nazionale), caldaie a legna per portare acqua calda
64
nelle abitazioni. Allo studio anche la possibilità di installare pale eoliche
sfruttando i forti venti che spazzano la vallata. Non meno importanti saranno
la costruzione di una fossa biologica per gli scarichi e un sistema di raccolta,
depurazione e riciclo delle acque. L’ultimo intervento riguarderà la
manutenzione della strada sterrata che dal Colletto porta a Valliera per non
caricare di ulteriori costi il piccolo comune.
Alla fine di maggio le mucche sono state portate dal fondovalle ai pascoli
montani
circa)
(a
e
provvede
degli
2000
metri
il
malgaro
alla
custodia
animali
e
alla
mungitura del latte.
Tutte
le
indispensabili
produzione
attrezzature
per
iniziale
una
di
Castelmagno sono state
acquistate e trasferite in
Le mucche in alpeggio
alta quota nel caseificio
comunale appaltato al nostro malgaro. Le prime forme, destinate
esclusivamente alla sperimentazione e degustazione sono già nei locali di
stagionatura rimessi in uso secondo le norme igienico-sanitarie attuali.
Il piano prevede che entro il 2010 sia ultimato il caseificio e iniziati i lavori
di
ristrutturazione
delle
baite
e
della
parte
ricettivo-turistica.
Contemporaneamente partirà il piano di comunicazione per la promozione e
la commercializzazione del formaggio. Anche la piccola produzione di erbe
officinali, ortaggi e frutti rossi saranno destinati alla vendita oltre che alla
degustazione e al consumo locale. Dal 2011 l’azienda agricola dovrà operare
a pieno regime. Il piano completo dovrà invece essere ultimato entro il 2013
con la ristrutturazione di tutte le baite che andranno a formare un agriturismo.
La promozione turistica del territorio avverrà in collaborazione con l’albergo
diffuso, struttura creata dalla comunità montana nel 2007, che si trova
all’ingresso della borgata.
65
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