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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO FACOLTA’ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA MEDIAZIONE LINGUISTICA TESI DI LAUREA PROSPETTIVE DI SVILUPPO E PROGETTUALITA’ IDENTITARIA DI UNA VALLE OCCITANA RELATORE PROF.SSA Laura Bonato CANDIDATA Fantino Elisa Matricola 253944 Anno Accademico 2008 – 2009 INDICE Premessa 2 Capitolo I - L’Occitania 1.1. Il nome, il territorio, la popolazione 4 1.2. La lingua e la letteratura 11 1.3. Un po’ di storia 17 Capitolo II - La Valle Grana 2.1. La Valle Grana e i suoi comuni 24 2.2. Castelmagno e le sue frazioni 32 2.3. Un po’ di storia 36 2.4. Borgata Valliera: terra di emigrazione e vita di lassù 43 2.5. Abitudini e antiche tradizioni 52 Capitolo III - Il Progetto di recupero di una borgata alpina 3.1 Inquadramento dell’iniziativa nel contesto territoriale 56 3.2 Il progetto di sviluppo 59 3.3 Gli obiettivi 62 3.4 Piano di realizzazione 64 Riferimenti bibliografici 66 1 «Il solo territorio sovrano che il popolo occitano poté mai abitare furono la sua lingua e la sua letteratura». (Robert Marty, Università di Perpignan, Francia) «Ci sono paesi noti a tutti e facilmente rintracciabili sulle carte geografiche. Ce ne sono altri di cui si favoleggia, si racconta, si intuisce, si discute, anche se non esiste traccia sugli atlanti. L’Occitania è uno di questi paesi. Non è facile rintracciarne i confini nelle mappe della memoria, ma si può tentare di ritrovare le tracce, viaggiando nel tempo e nello spazio, dall’oceano Atlantico alle Alpi». (Enrico Lantelme, Alberto Gedda, Gianni Galli) Premessa Il nostro viaggio percorre una valle occitana, lassù sulle Alpi al confine con la Francia, territorio solo apparentemente frastagliato da un’imponente catena montuosa che invece ha costituito l’anello di congiunzione tra popolazioni vicine, accomunate da un fattore fondamentale: la lingua d’oc. Un territorio aspro e straordinario nelle Alpi piemontesi, dove continua a vivere una identità culturale ben definita. Paese immaginario di cui si sente la voce, si avverte il respiro, si ascolta la musica e si percepisce uno spirito ancora oggi così originale e diverso. Proprio in quei territori che sorge Valliera, antica borgata di Castelmagno, da anni abbandonata, caduta nel degrado, dimenticata. Borgata un tempo ricca di vita, di tradizioni e antiche credenze, di montanari che lavoravano duramente la montagna aspra e poco generosa nell’offrire le risorse necessarie per vivere. Il paziente lavoro degli abitanti e la loro grande ingegnosità hanno conservato nel tempo un patrimonio incontaminato. Borgata, questa, che oggi nuovi uomini con nuove forze hanno scelto di far rivivere nel rispetto delle antiche tradizioni, per far sì che nulla venga dimenticato, per creare un fil rouge che leghi il passato al futuro. Obiettivo principale è dunque la riqualificazione territoriale e la valorizzazione del patrimonio storico rurale alpino. 2 Castelmagno (Cuneo), Frazione Valliera, 1509 m s.l.m. L'aggregato rurale visto da est. Con la partecipazione dei delicati colori primaverili, la simbiosi col paesaggio alpino è totale. Da sud est, la borgata emerge dalla boscaglia estiva 3 Capitolo I L’Occitania 1.1. Il nome, il territorio, la popolazione Il termine Occitania compare per la prima volta nel 1290 a definire l’insieme delle regioni dove si parlava la lingua d’oc. Vasto territorio che mai è diventato Stato, era, ed è a tutt’oggi, identificabile unicamente con criteri socio-linguistici (Grassi, 1958). Quando Dante tenta una prima classificazione delle parlate romanze, nell’opera Vita nova e nel De Vulgari eloquentia, prende come riferimento la particella che nelle varie lingue indicava l’affermazione e determina così tre idiomi: la lingua d’oc dal latino hoc est (questo è); la lingua d’oil come il francese che derivava invece da illud est (quello è); infine la lingua del si, l’italiano, dal latino sic est (così è) (Bertolino, 1997). L’amministrazione reale francese, a partire dal XIV secolo, prese a chiamare patria linguae occitanae i feudi meridionali appena conquistati e che sentiva diversi. Eppure, fino al secolo XX, la lingua occitana non era nota con questo nome e veniva chiamata per lo più lingua d'oc (da cui Linguadoca) o provenzale. Tramandata nei secoli dai trovatori, viene chiamata occitana a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Il termine diventa usuale e indica una definizione linguistico-geografica estesa, mentre la parola provenzale designa la parlata occitana in uso nella sola Provenza. Chiamata comunemente croce di Tolosa, appare ufficialmente nel 1211 sul sigillo della Contea di Tolosa. Oggi è il simbolo delle valli occitane. 4 Il territorio L’Occitania ha una superficie di 196.741 Kmq ed una popolazione di circa 11.850.000 abitanti così suddivisa: 191.880 kmq e 11.610.000 abitanti nello stato francese 4.300 kmq e 200.000 abitanti nello stato italiano 450 kmq e 10.000 abitanti nell stato spagnolo 1,5 kmq e 30.000 abitanti nel Principato di Monaco. Nonostante queste cifre, il territorio occitano è identificabile soltanto attraverso l’applicazione di criteri linguistici. La popolazione occitana, come abbiamo detto, non ha mai costituito un proprio stato nazionale. Gli occitanisti si rifanno, per dotarsi di un precedente istituzionale, al 1213, anno in cui si costituisce per un breve periodo di tempo, una confederazione panoccitanica attorno a Pietro II, Re di Aragona e conte di Barcellona1. Ma la sua scomparsa l’anno successivo durante la battaglia di Muret pone fine alla confederazione. Questo naturalmente non significa che non esista un territorio occitanico, ma la lingua rimane l’unico elemento unificatore delle singole minoranze (Fontan, 1995). «Proprio per questa ragione, l’Occitania costituisce il modello tipico di nazione proibita dell’occidente europeo: è la più nazione e allo stesso tempo la più proibita di tutte» (Salvi, 1998, p.7). Formano dunque l’Occitania di oggi quelle regioni storiche dove è sorta e si è sviluppata la lingua d’oc e dove a questa lingua o a uno dei suoi dialetti ricorre, nelle diverse circostanze e in varia misura, parte della popolazione. L’Occitania non ha nessuna personalità giuridica, politica ed amministrativa propria. Si trova annegata nello stato francese, di cui costituisce 21 1 Corrado Grassi nel libro Correnti e contrasti di lingua e cultura nelle valli cisalpine di parlata provenzale e franco-provenzale, p.15 sottolinea che «l’Occitania, come molte altre regioni minoritarie, non ha mai costituito nella sua storia un proprio stato nazionale e l’unica parvenza di entità amministrativa a cui si rifanno i suoi sostenitori (la brevissima esperienza confederativa tra il conte di Tolosa, Raimondo VI ed il Re di Aragona, Pietro II nel 1213) non si può considerare autenticamente tale» Vedi anche Salvi, 1998 p. 6 5 dipartimenti inglobando senza soluzione di continuità 17 vallate alpine sotto sovranità italiana ed una valle dei Pirenei sotto sovranità spagnola. La sua estensione è delimitata da una linea ideale che unisce Bordeaux a Briançon e passa sensibilmente sopra Limonges, Clermont-Ferrand e Valence. Questa linea che ignora le frontiere statali attraversa le Alpi e abbraccia una dozzina di valli sul versante italiano, si allunga sulla costa Mediterranea da Mentone sino alla Catalogna ed entra appena nello stato spagnolo con la Valle d’Aran. Correndo sui Pirenei, tocca i Paesi Baschi e si tuffa nell’Oceano Atlantico. Le sette regioni occitaniche tradizionali riviste con occhio contemporaneo sono dunque: Pruvenso (Provence, Provenza), con capoluogo Aïs (Aix-enProvence); Lengodoc (Languedoc, Linguadoca) con capoluogo Montpelhièr (Montpellier); Gasconha (Gascogne, Guascogna) con capoluogo Bordèu (Bordeaux) comprendente anche la Valle d’Aran; Guiena (Guyenne, Guienna) con capoluogo Albi; Lemosin (Limousin, Limosino) con capoluogo Lemòtges (Limoges); Auvèrnha (Auvergne, Alvernia) con capoluogo Clarmont (Clermont-Ferrand); e il Daufinat (Dauphinè, Delfinato) con capoluogo Valença (Valence)2. Le valli occitane d’Italia si estendono sulle tre provincie di Imperia, Cuneo e Torino e sono ufficialmente dodici, ma possono salire a quindici se si tiene conto anche di alcune vallate laterali formate dagli affluenti dei principali torrenti e fiumi. Appartengono alla provincia ligure solo Olivetta S. Michele e parte del territorio di Triora; da sud verso nord si trovano in territorio cuneese le valli Ellero e Alta Corsaglia, Pesio, Vermenagna, Gesso, Stura, Grana, Maira, Varaita, e la Val Po con le laterali Bronda e Infernotto; le Valli Dora, Germanasca, Chisone, Pellice ed alta Val di Susa in provincia di Torino. Infine, per effetto di un’antica migrazione, fa parte del territorio occitano anche Guardia Piemontese in Calabria. 2 Salvi, 1998 p. 9-10. Anche Fontan (1995, p 27-30) sottolinea la difficoltà nel delineare le province occitane poiché i risultati differiscono a seconda che si adottino criteri linguistici, geografici o storici. Egli fa una distinzione basandosi sul criterio dialettale (come anche Salvi) e delinea queste sette province. Inoltre per ognuna segnala i tratti più marcati che le caratterizzano (dal punto di vista linguistico, morfologico, i primi insediamenti umani, l’economia) e analizza i diversi dialetti e sotto-dialetti parlati in ogni comune. 6 Cartina politica delle sette regioni occitane Cartina geografica dell’Occitania tratta da Atlant occitan - Regione Piemonte 7 La popolazione Ultimo punto su cui occorre soffermarsi brevemente, nel discorso generale sull’Occitania, riguarda i primi insediamenti umani. Il quadro a grandi linee dell’Italia dalla preistoria alla conquista romana rivela persistenze e movimenti di popolazioni, scontri e processi unificatori. A nord, nella zona occidentale si colloca il territorio dei Liguri che occupa parte del Piemonte almeno fino al corso del Po, e si estende oltralpe su un’ampia zona del Meridione francese. I Liguri potrebbero derivare da un antica popolazione mediterranea ed essersi precocemente mescolati con i Celti, come indica anche la presenza di gruppi misti celto-liguri o di incerta attribuzione tra gli uni e gli altri. In età storica (IV secolo) invece, i Galli Celti appartenenti ad una fase successiva dell’Età del Ferro, sommergono la pianura padana competendo e configgendo con il sistema politico ed economico creato dagli Etruschi stanziati al nord e anche oltralpe (Bravo, 2001, pp. 20-21). Per quanto riguarda le altre regioni occitane, Fontan fa notare come queste abbiano avuto un popolamento d’origine prevalentemente ligure, ibero e latino3. Ai Celti fanno seguito i Greci che si installano a Marsiglia, a Nizza e ad Antibes e che, essendo soltanto colonizzatori commerciali, rimangono sempre sulla costa senza fare incursioni all’interno. I veri colonizzatori linguistici, politici e culturali sono stati i Romani che hanno organizzato il paese pur senza alterare troppo le sue strutture. Pochi Romani si installano infatti fisicamente in Occitania. Saranno principalmente Iberi, Liguri, Baschi e Celti a diventare rapidamente Romani (Salvi, 1998). Questa integrazione, né frettolosa né forzata, realizza dunque un equilibrio tra i fattori unitari e la forte differenziazione etnica e linguistica che 3 Nel libro la nazione occitana: i suoi confini le sue regioni (1995) François Fontan prende in esame le sette regioni storiche dell’Occitania e ne descrive il popolamento d’origine. Sinteticamente: la Provence ha avuto un popolamento d’origine prevalentemente ligure e latino, il Languedoc è stato ibero e latino con apporti visigotici assenti altrove. Il popolamento originario fu, in Gascogne, soprattutto ibero e latino, con forti apporti baschi, mentre il Limousin fu abitato dalla preistoria(come dimostrano alcune grotte dipinte) prevalentemente da liguri e galli come anche l’Auvergne e il Dauphinè. Infine la Guyenne è stata popolata in misura più equilibrata da liguri, iberi, galli e latini. 8 ha caratterizzato l’Italia del I millennio. Più tardi si mescoleranno anche scarsi elementi germanici come Goti e Franchi (Bravo, 2001). Attestatasi ormai sull’orizzonte europeo col carattere distintivo della propria lingua, l’Occitania rimane, dal punto di vista della popolazione, relativamente stabile ed omogenea, a parte gli accrescimenti demografici naturali e le perdite anche cospicue dovute alle guerre ed alle epidemie. Fino al XVIII secolo, la densità della popolazione occitana è uguale o superiore a quella della Francia. E’ la rivoluzione industriale che modifica la situazione demografica provocando un grande flusso migratorio verso le fabbriche delle grandi città del nord (Salvi, 1998). Complessivamente l’Occitania perde in un secolo e mezzo più di 3 milioni di abitanti, molti dei quali si stabiliscono a Parigi nel 14° arrondissement diventato per tutti il quartiere occitano. Altri 500mila muoiono durante la prima e la seconda guerra mondiale, altri ancora in Indocina ed Algeria. Il maggior apporto di popolazione straniera (circa 900mila persone) è invece fornito, negli ultimi decenni, dai pieds noirs, i coloni francesi ritornati in patria in seguito all’indipendenza nazionale acquisita dall’Algeria nel 1962 (Salvi, 1998, pp. 17-19). L’Occitania italiana segue identico destino: i valligiani emigrano verso le fabbriche del fondovalle e delle grandi città padane. Il flusso contrario riguarda la colonizzazione turistica delle valli (vedi Bardonecchia). Agli effetti negativi dell’emigrazione vanno aggiunti quelli provocati dal basso tasso di natalità. Nel 1975 la composizione della popolazione occitanica per classi di età era così suddivisa: i cittadini da 0 a 9 anni erano quasi un quarto della popolazione, mentre quelli dai 20 ai 65 anni rappresentavano il 45% e oltre i 65 anni, il 20%4. L’ultimo dato demografico elaborato nel 2008 dalle Comunità Montane è ancora più significativo: i bambini fino a 9 anni sono scesi al 10%, i ragazzi da 10 a 19 anni rappresentano il 9%, gli adulti da 20 a 34 il 18%, quelli da 35 a 64 il 42% (la somma delle ultime due fasce è 60%), e gli anziani con più di 64 anni sono il 18%. 4 Dati acquisti dalla consultazione della tesi di laurea Aspetti di antropologia culturale nella minoranza etnica di Coumboscuro del candidato Raimondi laureatosi alla facoltà di Lettere di Torino anno 1974-75 9 Un terzo problema connesso allo spopolamento ed all’emigrazione è quello dell’assimilazione cui è stata sottoposta l’Occitania. Da qui il bisogno di salvaguardare questa popolazione che, miracolosamente, continua a parlare l’occitano nonostante la persecuzione cui questa lingua è stata, ed è tuttora pur in maniera meno diretta, sottoposta. Anche se appaiono linguisticamente assimilati, gli occitani sono sempre stati sentiti diversi (Fontan, 1995). 10 1.2. Lingua e letteratura La lingua d’oc è una delle lingue neolatine che si formano sul substrato degli antichi dialetti regionali e della parlata volgare della Roma conquistatrice a seguito dell’espansione dell’impero romano. Se in quella parte di continente che denominiamo per comodità Francia settentrionale (ma che allora era lungi dall'essere un'entità definita e definibile) si andava affermando la Langue d'oil, in una zona compresa tra le valli alpine del Piemonte e la Catalogna prendeva forma la Lingua d’oc (anche se in realtà non doveva esserci, per il popolo, un significativo distacco dal dialetto parlato in precedenza). «Questa lingua, che in termini generici è chiamata occitana, di fatto non esiste, non ha avuto il modo di crescere, di svilupparsi, perché non ha avuto nessuno Stato dietro di sé: esistono tante varietà, ognuna delle quali è una lingua e queste lingue a loro volta formano l’occitano» (Telmon, 1992, pp. 25-26). Dal punto di vista diacronico invece l’occitano presenta tre fasi: l’antico occitanico, dalle origini al XIV secolo (è la lingua trovadorica per eccellenza), l’occitanico medio, dal XIV al XIX secolo (decadenza della lingua, introduzione del francese e frantumazione dialettale accentuata), infine l’occitano moderno, dal felibrismo ad oggi (segnato da tentativi di normalizzazione e rilancio). Dal punto di vista sincronico l’occitano contemporaneo si compone di tre grandi gruppi dialettali: occitanico settentrionale, orientale e occidentale. Appartengono al primo gruppo i dialetti limosino, alverniate e gavot (detto anche provenzale-alpino). Formano invece il secondo gruppo il linguadociano e il provenzale. L’occitanico occidentale, che è il più originale e difforme, è formato dal solo guascone (Grassi, 1958). All’interno di questi sei grandi dialetti, c’è un certo numero di dialetti minori. Attualmente l’occitano è parlato, a livello di uno dei suoi molti dialetti, in tutte le sette regioni, sia pure da una minoranza composta di persone anziane e contadini. Mentre il suo uso è quasi del tutto scomparso nelle città più grandi, l’occitano è tuttora fruito, a livello domestico, nelle campagne e nelle valli montane: Alpi, Massiccio Centrale e Pirenei (Salvi, 1975). 11 Dunque l'occitano, l'italiano ed il francese sono le principali lingue romanze (le altre sono lo spagnolo, il sardo, il portoghese, il rumeno ed il ladino oltre al catalano che verrà successivamente a formare una lingua a sé). Senza dubbio l'Occitano è, tra le lingue neolatine, la prima che può vantare testi scritti ed una letteratura vera e propria giunta sino a noi (Bertolino, 1997). Nonostante le vicende politiche che mai hanno permesso la costituzione di uno stato occitano, la lingua d’oc, ha sempre mantenuto un'importanza preminente, tanto da essere considerata la prima lingua letteraria nel Medio Evo dopo il latino. E' questo il periodo dei troubadours, di fatto i primi poeti e musici apprezzati in tutta Europa, che cantano in occitano (una versione arricchita di termini colti e grammaticalizzata) le gesta dei cavalieri, l'amore (spesso adultero) per le dame e la vita di corte. Sono in qualche modo gli opinionisti del loro tempo, perché nella loro produzione così apprezzata e diffusa si dedicano anche alla sfera civile e politica esaltando i valori di corte. Questi valori - il pretz, ossia la riconoscenza pubblica delle proprie qualità, la largueza, o generosità d'animo, l'humiltat, la convivencia, ossia la tolleranza, la jovent, il privilegio della giovinezza di spirito - si precisano così in un atteggiamento generale, definito paratge. Autentica novità sociale apportata dal movimento trobadorico, che investe ogni comportamento dell'individuo e la sua concezione etica, definiti mezura e cortezia ed esaltati nel rapporto amoroso sublimato, la fin'amor, estrapolazione del rapporto feudale a quello uomo-donna (con la riabilitazione morale di quest'ultima finalmente non vista come fonte di peccato ma di ispirazione poetica). La grande varietà di temi, stili e generi, la ricchezza dei valori espressi, la forma musicale dei testi, una raffinata tecnica letteraria promuovono la diffusione della lirica trobadorica ben al di là dei confini dell'Occitania, fino ad influenzare i trouvères francesi, i minnesänger tedeschi, la scuola siciliana ed il dolce stil novo. «La sublimazione dell'erotismo, la tolleranza verso la diversità e l'uguaglianza morale fanno dell'Occitania un'isola di gaiezza nel medio evo europeo» (Lantelme, Gedda, Galli, 2006, p. 28). Per comprendere la portata e l'importanza della lingua d’oc, si pensi che lo stesso Dante, nello scrivere la Divina Commedia, utilizza solo tre lingue: 12 il volgare che gli era proprio; il latino, cioè la lingua colta, e l'occitano, con cui fa parlare i tre trovatori che incontra nel proprio viaggio (pare addirittura che egli abbia avuto la tentazione di scrivere la Commedia in lingua d’oc)5. In questo momento di fulgore, l'occitano antico trobadorico è in realtà una koiné che privilegia il dialetto limosino, la quale diviene un vero e proprio punto di riferimento per i poeti in lingua volgare di gran parte dell'Europa. «L’aspetto forse più curioso di questa letteratura sta nel fatto che essa possiede una lingua fortemente compatta, unitaria, una sorta di incredibile esplosione di qualche cosa che sembra già perfetta sul nascere» (Telmon, 1992, pp. 45). E’ sul piano politico, militare e di difesa delle proprie libertà religiose che il popolo occitano perde la propria chance di essere nazione, diventando anzi, col tempo, la più importante delle patrie negate dell'Europa intera (Salvi, 1975). Questo fiorente periodo in cui la lingua d’oc mantiene la propria unità non dura molto. Intorno al 1220, infatti, la Crociata contro gli Albigesi ispirata da papa Innocenzo III per estirpare l’eresia catara dai territori della Linguadoca, distrugge le maggiori corti occitaniche e impone il francese come lingua di occupazione. I trovatori si rifugiano oltre le Alpi e i Pirenei interrompendo l’uso letterario della lingua d’oc. «Spentasi la voce e la luce dei trovatori, l’Occitania resta tagliata fuori dalle grandi correnti europee della creazione letteraria» (Salvi, 1998, p. 55). E dal quel momento a periodi di rinascita si alternano periodi di oscurità e silenzio. Nel 1539, l’editto di Villers-Cotterets impone ufficialmente su tutte le terre occitane in mano francese l’uso della lingua di Parigi. L’intensa scolarizzazione che segue alla riorganizzazione dello Stato fa lentamente penetrare all’interno delle famiglie occitane la lingua francese. Ma la volontà monolingue dello stato francese non riesce ad affermarsi pienamente tant’è 5 Tratto da Atlant Occitan progetto a cura dell’associazione Chambra d’òc finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nell’ambito del programma degli interventi previsti dalla legge n. 482/1999 e coordinato dall’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte. All’interno della Divina Commedia (Purgatorio. XXVI, 140-147) troviamo gli otto versi in lingua occitana messi in bocca ad Arnaut Daniel, grande trovatore che poetava in lingua d’oc. 13 che la lingua d’oc è ancora presente in diverse zone e utilizzata anche dalle persone più colte. Per questa ragione viene istituita una vera e propria polizia linguistica che controlla soprattutto l’ambiente scolastico dove l’unica lingua ammessa è il francese. Naturalmente non mancano, da parte della minoranza, azioni in difesa della propria lingua, e questo avviene soprattutto a livello letterario e scritto. Nel XIX secolo, dopo un lungo periodo di silenzio, grazie al romanticismo si riscoprono i trovatori e ne esplode una vera e propria moda. Avvantaggiati da questo clima di rispetto ed entusiasmo per un periodo glorioso della loro storia, alcuni intellettuali occitani escono allo scoperto con l’obiettivo di riavviare il sentimento etnico, restaurare e restituire dignità a questa lingua (Lantelme, Gedda, Galli, 2006). Ed è proprio in questo contesto che sorge e si sviluppa il Felibrige, un’associazione di poeti e trovatori di lingua provenzale tra i quali spiccano Frédéric Mistral e Teodor Aubanel, lirico di eccezionale qualità. Capolavoro di Mistral è il poema Miréio che lo rende famoso ben oltre i confini della Provenza, prima a Parigi e poi in tutta Europa e che nel 1904 gli vale il Premio Nobel per la letteratura. Subito dopo la fondazione del Felibrige i poeti provenzali passano all’azione: nel 1855 viene pubblicato il primo Almanacco Provenzale, periodico di cultura, poesia e filologia della lingua d’oc. Nonostante la rinascita letteraria, l'identità occitana continua però a decadere fino a metà del Novecento (Bertolino, 1998 e Lantelme, Gedda, Galli, 2006). Anche in Italia nelle scuole, invece di insegnare le radici nobili della parlata delle Valli tramite lo studio dei troubadours, viene imposto l'uso dell'italiano, vietato quello dell'occitano (negandogli qualsiasi dignità letteraria) e, talvolta, tollerato quello del più fine piemontese. A partire dagli anni '60 del Novecento in Francia, e una decina d'anni dopo nelle zone italiane, anche le Valadas Occitanas riscoprono la loro identità. Il merito va soprattutto a François Fontan (teorico etnista di origini guascone 1929-1979) che a metà degli anni '60 si rifugia a Fraisse in Valle Varaita. Nascono il Movimento Autonomista Occitano (M.A.O.), l'Escolo dòu Po e numerose associazioni culturali che si propongono di sensibilizzare la gente 14 del luogo: tra queste va ricordato il Centro Provenzale di Coumboscuro diretto dal Professor Sergio Arneodo, la Chambra d’oc, Espaci occitan ed il centro culturale Detto Dalmastro. Tutto ciò però non riesce ad arrestare la perdita d'identità culturale e ad aiutare lo sviluppo di un'economia compatibile con le risorse, le tradizioni e la cultura delle Valli. La popolazione dunque, non è solo emigrata ma, in grande parte, non è più ritornata. Così, se il meridionale a Torino si stabiliva quando possibile in zone ad alta densità di corregionali, meno importante era fare la stessa cosa per il valligiano. Se era emigrato a Torino, con tutta probabilità già conosceva la città, capiva il dialetto piemontese ed era a poca distanza dal luogo d'origine. Paradossalmente proprio questi vantaggi sono in parte le basi per la perdita, nel corso di una o due generazioni, della madre lingua. Con poco sforzo egli impara a parlare il torinese, mentre con sforzi sicuramente più grandi inizia a mettere da parte il necessario per migliorare il proprio status sociale. Il grande distacco avviene però con la seconda generazione, quella nata a Torino (o Milano, Genova, Saluzzo), quella che quando è obbligata ad andare lassù non può che lamentarsi della noia, della mancanza di tutte le comodità di città, quella che ha perso la misura del lavoro agricolo e lo disprezza, quella che in un muro in pietra, in un balcone in legno, non vede che miseria ed arretratezza. Non gli è stata insegnata probabilmente la lingua, anzi è già molto se conosce il piemontese. Di cantare non se ne parla neanche, probabilmente, già dalla prima generazione emigrata, il ballo è solo quello liscio per i primi e la discoteca per i più giovani (tratto dal sito web ghironda.com). Attualmente l'occitano è parlato, nelle sue varianti locali, da circa 3 milioni di persone nella Francia del Sud, in Val D'Aran, a Guardia Piemontese (Calabria) e nelle valli alpine delle Province di Cuneo, Torino ed Imperia. La grafia più utilizzata (e più adatta a rappresentare le varianti di ogni singolo dialetto) è quella dell'Escolo dòu Po, di tipo fonetico, nata a Crissolo da alcuni studiosi appassionati delle valli, del Piemonte e della Provenza e da professori dell’Università degli Studi di Torino. Simile a quella utilizzata da Frédéric Mistral per il provenzale, questa grafia, indipendente dalla pronuncia 15 locale (tutti scrivono nella stessa maniera, ognuno pronuncia secondo le regole del proprio dialetto) permette di arrivare ad una lingua unitaria almeno a livello scritto (Bertolino, 1997). Dopo anni di inosservanza dell'art. 6 della Costituzione Italiana (La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche), finalmente nel 1999 la minoranza occitana è stata riconosciuta da una legge dello Stato, la 482, (assieme a sardi, ladini friulani, albanesi di Calabria) mentre il più vasto territorio occitano nello stato francese attende ancora oggi il riconoscimento della propria identità linguistica, nonostante i ripetuti pronunciamenti della Comunità Europea. La percezione che si aveva di questo territorio prima della legge era infatti di un'area marginale e depressa del Piemonte. Di un mondo dei vinti senza futuro. Occitania ha significato aprirsi a una nuova rinascita, a nuove prospettive. Per la prima volta nella loro storia le valli hanno intravisto la possibilità di costruire, a partire dall'identità d'oc, una vicenda comune, un programma coerente di sviluppo. Ed è emersa l'aspirazione a mostrarsi come territorio riconoscibile, portatore di una cultura antica, i cui valori sono alla base della costruzione europea. Il filo rosso che tutto lega e tutto cuce è stata la lingua. E ancor di più la cultura che, come sappiamo, sopravvive ai linguaggi. «Ciò non significa che nelle valli non continui a operare una certa iniziativa localistica del folclore che si autoreclude nella catalogazione puntuale delle tradizioni della propria borgata alpestre, del villaggio, della parrocchia» (Lantelme, Gedda, Galli, 2006, pp. 56-60). 16 1.3. Un po’ di storia La lingua occitana si sviluppa, così come quella francese e i dialetti franco provenzali e celto-romanzi, su una parte di quel vasto territorio che i Romani battezzano Gallia in quanto caratterizzato dall’insediamento dei Celti (chiamati Galli) provenienti dall’Europa centrale: insediamento più o meno compatto a seconda delle aree investite, che non sostituisce mai del tutto le popolazioni esistenti ma spesso si fonde con esse convertendole alla propria lingua e cultura. I Celti invadono l’Occitania due volte, in epoche piuttosto lontane tra loro (VII-VI sec e V-IV sec a.C.) ma non vi saranno mai egemoni: liguri, iberi e baschi sopravvivranno etnicamente fino alla conquista romana (Salvi, 1998). Nel 128-117 a.C. la parte meridionale della Gallia Transalpina (che corrisponde in parte all’attuale estensione dell’Occitania) diviene provincia romana (da cui il nome dell’attuale Provenza) con capitale la città di Narbona (allora sita nell’attuale Linguadoca), e sarà così chiamata Gallia Narbonensis. Sono dunque i Romani a gettare le basi della nazione occitana e non soltanto dal punto di vista linguistico che è, e rimane, quello fondamentale. Con la caduta dell’impero romano e l’inizio delle invasioni germaniche, l’Occitania viene investita, agli inizi del V secolo, dai Visigoti popolazione già in larga parte romanizzata mentre la parte della Gallia barbara viene occupata dai Franchi i quali mantengono per qualche tempo la loro lingua ed i loro costumi germanici. I Visigoti sono sì cristiani ma aderiscono all’eresia ariana mentre i Franchi si erano convertiti al cattolicesimo ortodosso e diventano gli alleati naturali della Chiesa di Roma facendosi passare di buon grado per il braccio secolare della vera fede. Con il pretesto di combattere l’eresia ariana, invadono più volte l’Occitania sconfiggendo nel 507 i Visigoti, senza mai installarvisi ed accontentandosi di saccheggi periodici (Fontan, 1995). Nel 732 i Franchi discendono una seconda volta in Occitania: qui espugnano e radono al suolo Narbona, mentre i territori restanti (anche quelli italiani) vengono conquistati e la popolazione viene drasticamente ridotta con ferocia. 17 Dall’870 al 1033 (restaurazione del Sacro Romano Impero), l’Occitania è più volte smembrata divenendo merce di scambio fra le varie alleanze delle grandi potenze europee fino al 1137, anno in cui si formano tre grandi Stati indipendenti governati dal conte di Barcellona (Catalogna-Aragona- Provenza), dal conte di Tolosa Raimondo VI e dal Re di Inghilterra (per l’Aquitania) (Salvi, 1998). Il territorio d’oc, nonostante la divisione politica, forma una sola comunità giuridica ed economica, legata all’Italia e alla penisola iberica, rivolta commercialmente all’Europa settentrionale e all’Oriente mediterraneo. L’Occitania di quegli anni è anche una comunità culturale profondamente originale, aperta a ogni genere di rapporto ma incredibilmente lontana dall’influenza dei grandi centri teologici francesi. L’università autoctona, quella di Montpellier, che risale al XII secolo, è un istituto europeomeridionale. La facoltà di Medicina aveva infatti le sue radici nella scuola salernitana e quella di Diritto a Bologna. Intensi furono poi i suoi rapporti scientifici col mondo islamico e la diaspora ebraica. L’ideologia trovadorica, espressione rivoluzionaria della particolare società occitanica, riverbera poi, attraverso l’imitazione e l’esempio, il proprio messaggio sulla nobiltà feudale e sulla borghesia cittadina. Proprio la cultura della tolleranza e del paratge (uguaglianza morale tra tutti i componenti di un gruppo sociale) che i trovatori avevano posto al centro della loro concezione di vita contribuisce insieme a molti altri fattori all’affermarsi di nuove dottrine religiose: le eresie. Nel primo decennio del 1200 avviene la persecuzione contro gli eretici Catari6. Quest’ultimi, che diventano presto una forte minoranza, si diffondono in tutta l’Occitania occidentale (in quella orientale, l’eresia più diffusa è invece quella valdese). La loro fede è, nella sua versione più radicale, rigidamente manichea: il Bene e il Male sono principi eterni, coesistenti e antagonisti. Il regno del Male è il mondo, la materia, la carne (il non essere), creati da un Dio straniero. Il regno del Bene (del Dio legittimo) è invece lo spirito 6 La prima persecuzione nei confronti dei Catari è antecedente di 2 secoli. Racconta Pietro Verri (Storia di Milano, 1824, Tomo I p. 160) che nel 1028 l’arcivescovo Ariberto d’Intimiano fece catturare gli eretici che abitavano nel castello di Monforte (oggi Monforte d’Alba). Portati a Milano in catene, rifiutarono l’abiura e vennero arsi vivi. 18 (l’essere). L’anima dell’uomo è il campo di lotta tra il Bene e il Male. Soltanto sublimando i propri rapporti col mondo (astenendosi ad esempio dai peccati della carne) l’uomo può salvare la propria anima liberandola dalla catena delle reincarnazioni che la teneva legata al mondo (Berti, 1997). I Catari, chiamati anche Albigesi perché assai numerosi nel territorio di Albi (Francia meridionale), costituiscono col loro fervore e la loro estrema coerenza, un esempio e un pericolo per la chiesa ufficiale, sufficientemente corrotta. Il popolo è colpito, certo favorevolmente, da questo esempio di forsennata virtù. L’alta nobiltà e la ricca borghesia cittadina sono, da un lato, conquistate dalla vertiginosa teologia catara, dall’altro alquanto desiderose di mettere le mani sul patrimonio ecclesiastico. I Catari si ritengono, del resto, i veri cristiani della loro epoca e si denominano, infatti, crestians (catari, cioè puri, dal greco katharoi). Condizione preliminare della salvezza dell’uomo è, infatti, anche per loro, la missione di Gesù che, grazie alla Passione, e qui la loro fede li distingue dalla chiesa ufficiale, ha meritato di divenire figlio di Dio (del Dio legittimo) per adozione (Berti, 1997). La chiesa di Roma è comprensibilmente preoccupata dallo sviluppo di questa religione concorrente. Priva di un braccio secolare così lungo da superare le Alpi, si appoggia, come sempre, ai francesi. Per tutto il 1208, gli emissari del Papa predicano in Francia la crociata contro gli eretici (cioè l’invasione dell’Occitania). L’anno successivo inizia la Crociata degli Albigesi indetta da Papa Innocenzo III. La prima città ad essere posta sotto assedio, Béziers, viene espugnata dai crociati al comando di Simon de Montfort e gli abitanti, riuniti nella cattedrale, sono bruciati vivi senza distinzione di fede, di sesso o di età. Il genocidio spirituale del popolo d’oc comincia così, con un imponente genocidio fisico. Raimondo VI di Tolosa, che era nominalmente il signore di Trencavel, entra allora in guerra contro Simon de Montfort che però, consolida e amplia la propria conquista rinnovando i massacri. Il legato pontificio Arnaud Amaury, sempre al suo fianco, lo sprona a non andare troppo per il sottile, a non distinguere tra cattolici e catari e pronuncia la famigerata frase: 19 Uccideteli tutti, poi Dio sceglierà i suoi. Montfort non si fa pregare e scaglia di persona contro le rocce un buon numero di neonati, rei soltanto di essere occitani (Lantelme, Gedda, Galli, 2006). Nel 1213 si compie intanto la breve unificazione occitanica. Il conte di Tolosa e i suoi feudatari, in segreto, giurano obbedienza al potente re catalano Pietro II d’Aragona. Pietro entra subito in guerra contro i francesi. I catalano-occitani si battono, il 12 settembre 1213, a Muret, contro i crociati. Vincono questi ultimi e lo stesso Pietro II cade sul campo. L’unità occitana è fatta e disfatta nel giro di pochi mesi. I catalani tornano in patria. Le due nazioni saranno divise per sempre. Nel 1216 gli occitani si sollevano in tutto il territorio. Raimondo VII varca il Rodano e riconquista Tolosa. Gli occitani si battono contro i francesi al grido di Tolosa e Provença! Il vecchio conte Raimondo VI viene richiamato dall’esilio aragonese. Simone de Montfort riorganizza le sue forze e attacca Tolosa, sotto le cui mura viene però sconfitto e ucciso nel 1219. Ma nel 1225 Luigi VIII, re di Francia, invade con un poderoso esercito l’Occitania, conquistando Avignone, rifugio di catari e valdesi (Berti, 1997). Nel 1242, Raimondo VII rialza la testa. Fa giustiziare gli inquisitori reali di Avignone e riprende, a Narbona, il proprio titolo. Si allea col re d’Inghilterra (sovrano dell’Aquitania), con l’imperatore germanico (sovrano formale della Provenza) e col re di Aragona. Dopo una prima sconfitta nel Poitou, la lega si sfalda però come neve al sole. E i francesi continuano la caccia agli eretici sul territorio conquistato. Nel 1244 cade, sembra con l’aiuto di montanari baschi, il castello di Montsegur, dove si erano ritirati 200 catari che vengono arsi vivi in una radura vicina, chiamata ancora lo prat dels cremants (il prato dei bruciati). La caduta di Montsegur segna, per gli storici, la fine della Crociata degli Albigesi. Si sa tuttavia che l’ultimo ridotto cataro a cadere è Queribus, nel maggio 1255. Si calcola che gli occitani morti in conseguenza della crociata siano stati almeno 400mila, quasi un sesto della popolazione di allora (Berti, 1997). «Ma una nuova rinascita sta per annunciarsi e il desiderio delle popolazioni di lingua d’oc di riaffermare la propria identità sembra aumentare. 20 Non più nei territori ormai francesizzati della Linguadoca, ma centinaia di chilometri più a est, dove altri ideali di autonomia statale uniscono ancora una volta i cuori e le menti» (Lantelme, Gedda, Galli, 2006, p.59). La cosiddetta Repubblica degli Escartouns, associazione di comunità alpine che hanno potuto godere di una certa libertà (amministrazione della giustizia, diritto di battere moneta, gestione del territorio, proprietà privata), venne creata nel 1244 da Oulx, dalla Val Chisone, dal Brianzonese, dal Queiras e dall'Alta Val Varaita. Il suo territorio comprende 51 comuni i cui rappresentanti si incontrano periodicamente a Briançon. Nell’Europa feudale questa comunità alpina sancisce senza conflitti la fine del potere nobiliare 450 anni prima della Rivoluzione Francese. L'incredibile esperienza di autogoverno dura ben tre secoli. L’intera regione diventa una sorta di porto franco per merci e persone che possono circolare liberamente. Ma la vita di questa democrazia alpina inizia a vacillare verso la fine del XVII secolo, quando il suo territorio assume un’importanza strategica per l’adesione dei Savoia alla Lega Asburgica. La firma del trattato di Utrecht del 1713, che divide gli Escartouns tra Piemonte e Francia, dà un colpo mortale anche se la fine definitiva arriva nel 1790. Ma vediamo cosa succede, nel frattempo, nel resto dell’Europa. Innanzitutto la guerra dei Cent’anni (1338-1453) che non è soltanto una guerra tra la Francia e l’Inghilterra, ma anche una lunga lotta di resistenza degli occitani occidentali contro l’annessionismo francese. E’ un esercito guascone, e non inglese, quello che, dopo tante vittorie, viene disfatto dai francesi a Castillon, nel 1453. I secoli seguenti sono testimoni di continue rivolte degli occitani contro i sovrani che ne diminuiscono la libertà (Fontan, 1995). Un altro elemento di opposizione costante alla politica francese, rappresentata dai governatori, è costituito dal popolo, il quale scatena tutta una serie di rivolte contro il malgoverno e la miseria, la più importante delle quali è quella dei cròcants (da cròc, uncino, la loro arma preferita), diffusa in tutta l’Occitania nord-occidentale e non priva di una vena ideologica protestante (Salvi, 1998). 21 Nel 1630, Richelieu, che ha bisogno di fondi per la politica militare del re, allinea i Pays d’Etats allo stesso regime fiscale della Francia. I cascaveus (campanelli: portavano infatti un bubbolo al braccio) provenzali si rivoltano immediatamente e costringono Richelieu a rimangiarsi la sua decisione. In Linguadoca è lo stesso governatore francese, Montmorency, a mettersi alla testa della rivolta che scoppia nel 1632. Dopo alcune fortunate battaglie, Montmorency viene fatto prigioniero dai francesi e giustiziato a Tolosa. La sua morte sarà pianta dagli occitani come quella di un eroe nazionale7. E’ l’editto di Nantes a trasformare l’Occitania in un rifugio legale per gli Ugonotti (protestanti). Oltre a una certa immigrazione, si verifica così anche una lunga serie di conversioni alla fede calvinista. Il regno di Navarra assume addirittura questa fede quale religione di Stato. Vasti territori d’oc diventano protestanti. Nel 1620, Luigi XIII alla testa di un’armata impone, in barba al voto contrario degli Stati bearnesi, l’annessione diretta della Navarra alla Francia e annega nel sangue una rivolta protestante. E’ il primo passo. Nel 1685, la revoca dell’editto di Nantes segna l’inizio delle persecuzioni massicce contro i protestanti: le cosiddette dragonnades. I camisards, guerriglieri protestanti che parlano occitano e si battono contro i francesi in maniche di camicia, sono eliminati soltanto nel 1710, dopo una repressione spietata che miete un numero spropositato di vittime e spopola un’ intera regione. Gli avvenimenti del 1789 scatenano l’entusiasmo degli occitani. Il vecchio ideale di libertà e di progresso, sempre perseguito con le motivazioni ideologiche più diverse e mai raggiunto, sembra a un passo dalla sua realizzazione (Salvi, 1998). Il colpo di stato del marzo del 1793, che porta Robespierre al potere (e dietro di lui l’alleanza della piccola borghesia e del popolo) provoca un’immediata risposta in Occitania: la sollevazione girondina. L’ideologia girondina, moderatamente federalista, è, del resto, condivisa in altre regioni 7 Dati acquisti dalla consultazione della tesi di laurea Aspetti di antropologia culturale nella minoranza etnica di Coumboscuro del candidato Raimondi laureatosi alla facoltà di Lettere di Torino anno 1974-75 22 francesi: in Normandia e a Lione, per esempio. Essa è tuttavia forte soprattutto in Occitania: e una motivazione nazionale occitanica, magari inconscia, certamente esisteva sul fondo. Infatti, la borghesia d’oc aderisce subito all’appello di Vernhaud (Vergniaud), un politico limosino che ritiene “giunto il momento di studiare le misure da prendersi per formare, con i 24 dipartimenti del Midi, una repubblica federativa da Bordeaux a Lione”. I Giacobini mandano subito un corpo di spedizione in Occitania. Tolone viene conquistata, Parigi vince ancora una volta (Fontan, 1995). L’Occitania ha sempre appoggiato i movimenti rivoluzionari che hanno tentato di conferirle una propria autonomia nazionale ma è stata più volte tradita dalla mancanza dell’appoggio popolare. I suoi abitanti, infatti, sono sempre stati più portati allo scambio fraterno e culturale non riuscendo, a parte il periodo della Repubblica degli Escartouns, a darsi un organizzazione politica unitaria. Però, ultimamente, con la caduta delle frontiere europee, l’Occitania sta prendendo una coscienza di Stato unitario ed indipendente. A differenza dei fratelli baschi, non sono le bombe a far parlare del desiderio di autonomia, ma la musica, le danze, la poesia. L’ideologia di uguaglianza e di rispetto della libertà sono scritte sulla bandiera rossa con la croce gialla dell’Occitania (Lantelme, Gedda, Galli, 2006). 23 Capitolo II La valle Grana 2.1. La Valle Grana e i suoi comuni Situata nella parte occidentale della provincia di Cuneo, stretta tra le valli Stura e Maira e protetta dalle Alpi Marittime e Cozie, la Valle Grana è da sempre sinonimo di territorio incontaminato e di riserva bio-naturale. I due robusti costoni montuosi che delimitano il solco della valle si originano all’altezza del nodo dei colli Vallonetto e dei Morti, dove lo spartiacque tra le valli Maira e Stura si biforca. Il ramo forma Le valli del cuneese. il settentrionale gruppo del Monte Tibert (2647 m.) ricco di pendii, e si spinge poi verso levante con la Rocca di Cernauda, il monte Plum ed il monte Chialmo oltre i quali digrada con le alture di Montemale per spegnersi nella pianura tra Dronero e Caraglio. Il ramo meridionale si impenna subito con il gruppo della Punta Parvo (2523 m.) caratterizzato dalla dolomitica parete della omonima Rocca, e prosegue con le Cime Viridio e Viribianc, coi monti Bram e Grum, suddividendosi, oltre il Beccas del Mezzodì, in una serie di contrafforti minori tra i quali emerge ancora il Monte Tamone che si affaccia sulla pianura tra Caraglio e Bernezzo (Amministrazione della Provincia di Cuneo, 1970). Vallata dai tratti brevi e intimi è caratterizzata da un paesaggio tipicamente prealpino, con fiancate di moderata altitudine, dolci declivi e fitti boschi che sono sovrastati da alti ripiani a pascolo. 24 Il significato etimologico del suo nome, che indica un luogo profondamente inciso (da crana: crepaccio, fessura), si pone in relazione alla tipica morfologia della parte mediana del solco vallivo, che è nota come Comba di Castelmagno. La Valle Grana racchiude nove comuni: Caraglio all'inizio della valle, Vignolo, Cervasca e Bernezzo nel fondovalle, Valgrana e Montemale nella media valle mentre Monterosso Grana, Pradleves e Castelmagno si trovano nell'alta valle. Ai visitatori offre un volto gelosamente nascosto tra i boschi e le cenge, dove una popolazione di pastori e contadini ha nel tempo attivamente operato, difendendo un patrimonio paesaggistico di grande valore. Antichi sentieri, mulattiere, piste forestali, vie nascoste: strade percorse nei secoli da uomini e animali che oggi, almeno in parte, si animano di nuova vita. Cicloturismo, trekking, mountain bike, equitazione, sci alpinismo sono i nuovi modi di vivere la montagna e agli appassionati di queste discipline la Valle Grana offre uno dei suoi migliori volti (Comunità montana Valle Grana, 2004). Il capoluogo della Valle Grana, Caraglio, sorge a 583 metri s.l.m. ed è l'unico comune, tra i nove della comunità montana omonima, non classificato montano. Situato all'imbocco della valle, ne costituisce da sempre il naturale centro di fondovalle, sin da quando i Romani si installarono nelle vicinanze (Forum Germanorum) e ne fecero un importante crocevia della loro espansione verso le Gallie. La medievale Cadralius deve il suo nome Filatoio Rosso - Caraglio al diminutivo latino Quadratulus, riferito alla centuriazione romana della zona. In seguito non ci sono notizie certe fino all'XI secolo, 25 quando Caraglio è oggetto di donazione tra poteri civili ed ecclesiastici. Fino al 1244 resta sottoposta ai marchesi di Saluzzo. Si susseguono diversi Signori fino all'avvento dei Savoia. Ma è a cavallo tra il Seicento e il Settecento che il paese inizia a svilupparsi. Più tardi fiorisce l'agricoltura con l'allevamento del baco da seta: quattro filande e un filatoio danno lavoro a più di seicento persone. Nasce una Società di mutuo soccorso ed in seguito una Cassa rurale, mentre nel 1876 viene inaugurata la linea tramviaria CuneoCaraglio-Dronero8. Vignolo. L'etimologia viene da vineolum, il vino e l'olio di noci che anticamente erano molto abbondanti in questo territorio, in parte pianeggiante e in parte montano, posto sullo spartiacque quasi all'imbocco della Valle Stura. Le prime notizie risalgono al Seicento quando i Benedettini dell'abbazia di Pedona (Borgo San Dalmazzo) avviano un lavoro di dissodamento agricolo. In seguito passa sotto il dominio del vescovo di Torino, dei marchesi di Saluzzo, degli Angioini, del Comune di Cuneo e dei Savoia. Foraggi e cereali sono i principali prodotti dell'agricoltura di pianura, mentre sulle colline i rigogliosi castagneti producono ottime qualità di castagne. Il comune di Cervasca è collocato sulla sinistra del fiume Stura tra Cuneo e le prime propaggini alpine, l’altitudine va dai 540 ai 1140 metri. E’ formato da numerosi centri abitati disposti intorno alla frazione di Santo Stefano, sede del municipio. L'etimologia del toponimo potrebbe riferirsi al nome alterato di Cervanum, poiché lo stemma comunale raffigura un cervo che si abbevera a una fonte. La più antica menzione di Cervasca risale al 1172. All'inizio del secolo successivo il paese entra a far parte dei domini saluzzesi per passare in seguito sotto i Savoia. La sua felice collocazione geografica e la vicinanza 8 Tutti i dati sui diversi paesi della Valle Grana sono tratti dai manuali redatti dal Comitato Comprensoriale di Cuneo, dal sito della Comunità Montana Valle Grana e dalle Guide Turistiche dei sentieri alpini. In particolare Cuneo e le sue valli: guida storico - artistica e turistica e Valle Grana tra arte e storia. 26 alle vie di comunicazione favoriscono un notevole sviluppo demografico legato a nuove attività commerciali, artigianali e piccolo industriali. L'ambiente collinare, ricco di secolari castagneti, offre interessanti esempi di architettura contadina spontanea e, nei punti più elevati di San Michele e San Maurizio, oltre a importanti testimonianze storiche, uno splendido panorama su tutta Stemma di Cervasca Il cervo si abbevera alla fonte la pianura cuneese e sulla cerchia alpina. Famosa è la cucina tipica che alberghi, ristoranti e trattorie propongono con le specialità locali, sovente a base di funghi. Bernezzo. Il paese è situato in un’ampia conca a 11 chilometri a ovest di Cuneo. Ha origine nell’XI secolo e il suo nome potrebbe derivare da un albero che cresce nelle zone umide, l’ontano, verna in piemontese, da cui Vernetum, Bernetum, Bernezzo. Conteso nelle varie epoche dai marchesi di Saluzzo, dai Savoia, dagli Angiò, dagli Acaia e dai Visconti, dal 1382 entra a far parte dello stato sabaudo, di cui segue le vicende. Degni di nota sono: i ruderi del Castello, la chiese dei Santi Pietro e Paolo, la Confraternita dell'Annunziata. L'edificio di maggiore interesse artistico é la Parrocchiale della Madonna del S. Rosario: la chiesa, di stile gotico, pur notevolmente rimaneggiata, conserva alcuni interessanti esempi di arte gotico-rinascimentale. Nella volta a crociera dell'abside della navata sinistra i simboli dei quattro evangelisti sono attribuiti al pittore fiammingo Hans Clemer, detto il Maestro d'Elva. Allo stesso artista si possono ricondurre anche i cartigli, contenenti litanie mariane, che ornano le strombature delle finestre dell'abside maggiore. Nelle frazioni omonime degne di nota sono la Chiesa seicentesca di San Rocco e quella settecentesca di Sant'Anna. 27 Valgrana. Il capoluogo comunale si trova all'imbocco dell'alta Val Grana ed è formato da due borgate, Ripalta e Villa, separate dal torrente Grana. Valgrana presenta il tipico aspetto di un paese agricolo che, nel rispetto della tradizione, ha saputo rinnovare e modificare la propria economia. Alla tipica produzione della pera Madernassa sono subentrate, negli ultimi decenni, colture intensive di lamponi, more, fragole, ribes, kiwi. L'antichissimo toponimo di origine preromana appare già in alcuni documenti della metà del XII secolo. Contesa tra Cuneo e i marchesi di Saluzzo, Valgrana è soggetta all'uno e agli altri fino a passare sotto il dominio sabaudo alla fine del XVI secolo. Restano pochi ruderi dell'antico castello, una quattrocentesca Cappella (Santa Croce) e il Mulino del Paschero che conserva la grande ruota metallica e gli antichi macchinari. Attraversato il Grana su un massiccio ponte in pietra a secco (1871), si giunge a Villa. Lungo la via principale é visibile un affresco quattrocentesco (Maestà con Bambino e Ruota del mulino del Paschero - Valgrana Sant’Antonio Abate) e subito dopo la Casa del Conte. L'antica casa dei signori locali conserva, sulla facciata, un grande stemma (XVII secolo) e all'interno loggiati e soffitti cinquecenteschi. Continuando si giunge in vicolo Trinità dove sulla facciata di una casa si può vedere un affresco raffigurante la Trinità (XIV-XV). Interessante, infine, la chiesina di Santa Maria che rappresenta, nell'isolamento e nella natura rustica dell'insieme, un frammento eloquente del Medioevo più remoto. Documentata sin dal XII secolo, conserva testimonianze che sembrano far propendere per un'origine assai più lontana come la piccola lastra in pietra con due volti umani e una croce longobarda murata sopra la porta d'ingresso 28 (forse parte di un sarcofago del VII secolo). Disposte all'interno di una corte cui si accede ancora oggi attraverso un basso arco in pietra, l’ospizio della Trinità si è conservato perfettamente. Databili intorno al 1455-70, gli affreschi in facciata, attribuiti ai fratelli Biazaci, raffigurano la Trinità e la Vergine col Bambino in trono. La Trinità è rappresentata secondo l'iconografia orizzontale, successivamente considerata rozza e respinta dalla Chiesa, che presenta Padre, Figlio e Spirito Santo con tre busti maschili identici che emergono dal medesimo corpo. Posto in un'ampia conca dove la pianura lascia il posto a un paesaggio più tipicamente montano, Monterosso Grana è dal 1929 Comune unico, nato dalla fusione dei precedenti comuni di Monterosso e di San Pietro. Occupa l'ampia valle oggi indicata come Valle Verde, che nella frazione di Sancto Lucío ha dato origine al risveglio etnico-culturale della minoranza provenzale nelle valli alpine occidentali. Qui opera infatti il Centro Provenzale di Coumboscuro che si occupa dello studio e della divulgazione della cultura e della lingua provenzale. Degno di rilievo è inoltre il ricco Museo Etnografico che raccoglie antichi strumenti di lavoro ed attrezzi usati dai montanari occitani. Alle porte del comune si trova la Cappella di San Sebastiano. Semplice e modesta all’esterno, si arricchisce all’interno di preziosi affreschi attribuiti a Pietro da Saluzzo (il Maestro del Villar) e risalenti agli anni intorno al 1470. Il toponimo deriva da mons aurosus, cioè monte color dell'oro oppure monte ventoso. Il paese compare nei primi documenti verso la fine del XIII secolo. La sua storia si intreccia con quella dell'alta valle Grana. Arroccato sul crinale che divide la Valle Grana dalla Valle Maira, il borgo di Montemale di Cuneo conserva nella topografia le caratteristiche di un villaggio medioevale. Da qui si dominano, da un lato la pianura di Valgrana sino a Caraglio e dall'altro Dronero, l'imbocco della Valle Maira, e l'ampia pianura cuneese incorniciata dall'arco delle Alpi occidentali. Posizione strategica, intuita anche dai signorotti che nel corso dei secoli si contendono 29 la rocca con l'inespugnabile castello che rimane la maggiore attrattiva del luogo. Il toponimo deriva appunto da mons malus cioè monte impervio per indicare la posizione dominante della rocca. La chiesa parrocchiale Arcangelo di San conserva Michele pregevoli testimonianze dell’arte scultorea locale: un’acquasantiera in pietra di piccole dimensioni ed una fonte battesimale ottagonale, opere di forma dei fratelli Zabreri, risalenti al XV secolo. In Castello di Montemale alcune frazioni sono visibili affreschi di arte popolare con soggetti religiosi datati XIX secolo. Pradleves è adagiato, per la lunghezza di circa un chilometro, sulla sponda sinistra del torrente Grana, ai piedi del Monte Cauri, ed è dominato verso sud dal Monte Bram (Roucheto). Il toponimo trae la sua origine da Prato Delexio (1281), o da Levesio, a sua volta derivante probabilmente dal nome personale Laevicus. Nel 1281 Pradleves viene citato in un documento ufficiale. Sorto probabilmente quale feudo dei marchesi di Saluzzo e a lungo conteso tra questi e il comune di Cuneo, il borgo passa in mano cuneese nel XVI secolo, con l'estinzione della casa saluzzese. Rimane tuttora l'antico Castello dei marchesi di Saluzzo (XIII secolo) trasformato in albergo. Il Palazzo del Municipio (1912) si rifà a modelli medioevali. La Parrocchiale di San Ponzio, eretta a inizio Settecento, custodisce un'acquasantiera in pietra datata 1520. Situata ad ovest del paese, la Cappella di San Bernardo conserva affreschi databili intorno al XVII secolo tra i quali spicca, sul muro absidale, una Madonna con Bambino tra i Santi. 30 Rinomato centro turistico negli anni '50, Pradleves conserva tuttora la sua vocazione turistica che l'ha promossa a Regina della Valle Grana. Per gli amanti della civiltà alpina, le numerose ruà (Cialancia, Scaletta, Pentenera, Cogno, Teiè) costituiscono esempi di autentica vita montanara: la mietitura estiva trebbiatura panificazione a della mano familiare, segale, la sull'aia, la le fumate autunnali dei secou (essiccatoi) dopo la raccolta delle castagne. Palazzo comunale - Pradleves 31 2.2. Castelmagno e le sue frazioni Il Comune di Castelmagno si colloca in un tipico ambiente alpino con la massima altitudine nel Monte Tibert a 2647 metri s.l.m. ed è formato da una moltitudine di frazioni di cui nessuna porta il nome di Castelmagno. Inizialmente erano quindici (Campomolino, Nerone, Chiotti, Chiappi, Tech, Einaudi, Narbona, Colletto, Croce, Albrè, Campofei, Valliera, Batouira, Cauri, Rulavà). Col tempo lo spopolamento prodotto dalla corsa all’industrializzazione della seconda metà del Novecento ha ridotto a cinque le frazioni costantemente abitate: Campomolino, Chiappi, Chiotti, Nerone e Colletto. Si racconta che il nome del comune derivi da un castello di origini antichissime di forma quadrata con quattro torrioni agli angoli che, intorno al XIII secolo, viene totalmente distrutto durante i violenti scontri per conquistarlo tra gli Angioini, il comune di Cuneo e i Marchesi di Saluzzo. Una notevole parte della rinomanza che il comune di Castelmagno ha acquisito si deve, oltre che al Santuario di San Magno, anche al prelibato omonimo formaggio dal sapore piccante e dalle venature blu-verdastre. Un’antica tradizione locale racconta che Carlo Magno, giunto a Castelmagno di venerdì, desiderando fare astinenza dalla carne, ottiene dal vescovo della zona del formaggio locale. Iniziato a mangiarlo, il sovrano scarta quella parte del formaggio che aveva il colore verdastro, per lui ripugnante. Il vescovo si premura di suggerire al re che la parte scartata è in realtà quella migliore. Carlo Magno, fidandosi, ne assaggia un pezzo e ne viene subito conquistato tanto da ordinare che ogni anno gli venissero inviate due forme alla reggia di Acquisgrana (Comunità Montana Valle Grana, 2004). Tornando a trattare degli aspetti più prettamente storico-culturali, procedendo verso monte la prima frazione in cui ci si imbatte è Colletto. La settecentesca chiesa Parrocchiale di Sant’Ambrogio poggia le proprie fondamenta su basi assai più antiche e conserva al suo interno una fonte battesimale opera dei fratelli Zabreri. In questa frazione procedendo per uno stretto e ripido sentiero, si giunge nella totalmente abbandonata borgata di Narbona. Non essendoci ormai più anima viva da parecchi decenni, la 32 natura, lentamente quanto inesorabilmente, sta riprendendo pieno possesso della zona. Nonostante ciò, è ancora possibile ammirare la Cappella della Madonna della Neve, interamente restaurata nel 1764, che conserva al suo interno una caratteristica corona in legno dorato sospesa sopra l’altare. Sul vallone opposto, arroccate su aspri pendii, ad un altitudine di circa 1600 metri, si intravedono le frazioni di Valliera, Batuira, Croce e Campofei ormai abbandonate al degrado da diversi decenni. Qui si possono ammirare alcuni tipici e puri esempi di tipologia insediativa montana, nonché i caratteristici comignoli le cui bocche dei fornelli sono decorate da pietre disposte a raggiera. Molte case hanno ancora belle porte scolpite in legno, mentre al loro interno si possono trovare sia attrezzi agricoli e utensili di falegnameria, sia arredi in legno e ferro battuto. All’inizio della borgata Valliera, a dare il benvenuto agli ospiti, si presenta una piccola cappella. Dedicata a Santa Margherita ed eretta nel 1756, venne ripetutamente Ritornando restaurata. sulla strada principale, in frazione Chiotti, si trova Parrocchiale la di chiesa Sant’Anna, imponente costruzione dalle origini antichissime che Chiesa di Santa Margherita - Borgata Valliera conserva una tipica fonte battesimale, sempre dei fratelli Zabreri, caratterizzata dal fusto cilindrico ornato di cordicelle e poggiante su una base ottagonale. Ignoti sacrileghi hanno di recente smantellato e rubato l’intero pulpito in legno. Proseguendo lungo la strada maestra, si giunge alla frazione Chiappi, le cui case in pietra sono tutte disposte su un pendio, tra due vallette, al riparo dalle valanghe. All’inizio del paese, poco a valle della strada che lo attraversa, a fianco della Cappella di San Sebastiano, c’è un’interessante costruzione civile sulla quale si intravede un affresco ormai ridotto in 33 condizioni miserevoli, forse del ‘600, che raffigura una madonna assisa con in braccio Gesù Bambino; ai lati si riconoscono alcuni santi della leggendaria Legione Tebea (Comitato comprensoriale di Cuneo, 1984). Proseguendo lungo la strada principale, superati alcuni tornanti, si giunge infine al maestoso Santuario di San Magno. A 1763 metri di altitudine, al centro di uno straordinario anfiteatro naturale, si erge la maestosa struttura candida del santuario, a cui da secoli confluiscono i contadini della pianura e i montanari delle vicine valli per invocare la protezione del santo cui la tradizione ha affidato il compito di garantire il benessere degli armenti. L’attuale edificio è il risultato di numerosi rifacimenti, Ingresso principale del santuario susseguitisi nei secoli per rispondere alle istanze dei fedeli che nel giorno di San Magno (19 agosto) gli hanno sempre affidato le loro pene quotidiane. Il luogo è stato comunque consacrato, fin dall’antichità, all’universo delle divinità. Ne è testimonianza l’ara romana dedicata a Marte rinvenuta sotto il pavimento della Cappella vecchia, a cui si pensa fosse già consacrato il bestiame, da sempre unica risorsa degli uomini di montagna. Le notizie sulla costruzione della primitiva cappella sono alquanto scarne: pare che l’altare votivo sia venuto alla luce intorno al 1894 insieme ad alcune tombe con corredo, oggetti di uso quotidiano e monete di rame risalenti al 250 - 300 d.c. Nella Cappella vecchia, affrescata all’inizio del XVI secolo da Giovanni Botoneri di Cherasco, tra alcune scene tipiche dell’arte religiosa popolare del periodo, è presente un’immagine di San Magno con vesti da nobile e armato di spada. Questa iconografia è alla base di tanti revisionismi storici degli ultimi anni: infatti c’è chi sostiene che Magno non fu un martire della Legione Tebea, ma 34 un laico che ad un certo punto della vita si fece monaco nel monastero di San Gallo, in Svizzera, dove rimase fino alla morte. Come il suo culto sia arrivato fino alle valli cuneesi è un mistero che non è mai stato risolto, ma per i fedeli tutto ciò riveste ben poca importanza se consideriamo il grande afflusso di persone che ogni anno, in occasione della festa del 19 agosto, si ritrovano in uno dei santuari più elevati del Piemonte. In assenza di un luogo di culto degno del Santo, Enrico Allamandi, rettore delle chiese di Castelmagno, nel 1475 fa costruire la torre campanaria e la cappella che porta il suo nome e che costituisce il presbiterio del santuario. Affrescata dal maestro di Villar Pietro da Saluzzo insieme ad Hans Clemer segna il ricco periodo della pittura gotica cuneese (Comunità Montana Valle Grana, 2004). Per rispondere alle esigenze del numero sempre maggiore di pellegrini, nei secoli successivi vennero creati nuovi spazi e nuovi elementi architettonici per mano del luganese Giuseppe Galletto che costruì la grande navata lunga oltre 25 metri, corpo centrale dell’attuale santuario. Ma è nella seconda metà dell’Ottocento che viene costruita la parte oggi più esterna ed imponente del complesso edificio: tre ali di porticato circondano la chiesa, sovrastati dai locali utilizzati accogliere per i fedeli. Interessante è ancora la rappresentazione dei sette martiri tebei, non meno della ricchissima collezione Il porticato laterale del Santuario di ex-voto che tappezzano le pareti del santuario: in ragione della specializzazione del santo, di molti miracoli hanno beneficiato gli animali, autentico patrimonio dal quale dipendeva la fragile economia contadina. 35 2.3. Un po’ di storia La storia della Valle Grana si perde nella notte dei tempi. Sembra comunque accertato che i primi suoi abitanti sono i Ligures Montani che Ottaviano Augusto doma e soggioga insieme ad altre popolazioni alpine al termine della guerra civile (14 d.c.). A tale opera di conquista si accompagna e segue la colonizzazione romana del Piemonte che comporta la sistemazione amministrativa della regione secondo l’ordinamento romano. Dopo che Augusto costituisce, a difesa della Alpi, le due province delle Alpes Cottiae e delle Alpes Maritimae, il territorio della Valle Grana, sotto l’aspetto militare, entra a far parte di quest’ultima che ha come capoluogo Cemenelum, alla periferia di Nizza, ed abbraccia sul versante italiano le vallate comprese tra il Po ed il Gesso, mentre civilmente è aggregata al Municipium di Forum Germanorum (presso Caraglio). Gli studi relativi a questo periodo fanno ritenere che il territorio in questione non è stato, nell’epoca romana e agli albori del Cristianesimo, che un centro di modestissimo interesse demografico, commerciale e politico (Ristorto, 1977). Durante le invasioni barbariche, il Piemonte, luogo di transito tra l’Italia settentrionale e la Gallia, è teatro di aspre lotte tra diversi contendenti che, succedendosi l’un l’altro di continuo, si disputano il dominio di quelle terre. Da ultimo si affermano i Longobardi la cui dominazione ha fine con la venuta di Carlo Magno che, aderendo alle invocazioni del papa Leone III, scende in Italia a prestargli aiuto. Seguire le vicende della valle durante le citate vicissitudini storiche riesce assai difficile per la mancanza di documenti. Si può comunque supporre che con la costituzione da parte di Carlo Magno del comitato-contea di Auriate, il territorio della valle ne facesse parte, dal momento che il comitato stesso comprendeva tutto il territorio tra il Po, lo Stura e le Alpi (Comunità montana Valle Grana, 2004). Nel X secolo, provenienti da Frassineto presso Villafranca di Nizza Marittima, i Saraceni si spingono in tutto il Piemonte giungendo anche nel Saluzzese da dove pare abbiano effettuato alcune incursioni in Valle Grana. 36 L’opera di ricostruzione e rinnovamento che segue alle scorrerie saracene è dovuta sia all’opera dei vescovi di Torino, che ne esercitano la giurisdizione ecclesiastica e civile, sia, più tardi, ai Marchesi di Saluzzo. Dal secolo XI in poi, è rilevante l’influsso esercitato dalle istituzioni monastiche sulla vita sociale ed economica della popolazione della Valle: risale a quest’epoca la fondazione del priorato di Santa Maria della Valle presso Valgrana (Comitato comprensoriale di Cuneo, 1984). Nel corso del XII secolo, il Marchese Manfredo I di Saluzzo intraprende una decisa politica di conquista contro i signori locali ottenendo il loro conseguente assoggettamento. Nei confronti del vescovo di Torino, il Marchese segue un'altra tattica: si fa garante e difensore dei possedimenti ecclesiastici in valle tanto da riceverne regolare investitura. Il Marchese Manfredo II tiene in feudo la corte di Caraglio, Valgrana e Castelmagno con tutta la valle. Successivamente, usurpati i diritti vescovili, il Marchese di Saluzzo acquista il dominio della valle affidandolo ai fratelli Guglielmo, Giacomo ed Ardizzone, già suoi vassalli e signori di Caraglio. Con l’avvento degli Angioini, la Valle Grana viene sottomessa ai Provenzali ed aggregata al distretto di Cuneo; dopo la battaglia di Roccavione (10 novembre 1275) che segna lo sgretolamento della potenza angioina, il Marchese di Saluzzo recupera a poco a poco il potere in valle. Nel 1282, con la forzata sottomissione di Cuneo al Marchesato di Saluzzo, Tommaso I ottiene il diretto dominio sui paesi della valle che continuano invece ad appartenere alla diocesi di Torino (Ristorto, 1977). L’inizio del XIV secolo vede, sotto Carlo II, il progressivo riconsolidamento del potere angioino ed il conseguente ritorno di Caraglio e della Valle Grana sotto il dominio di Cuneo e degli Angiò. Nel 1372 Caraglio viene conquistata da Anichino di Baumgarten che combatte al soldo del Conte Verde Amedeo VI di Savoia il quale tenta inutilmente di impadronirsi della valle, mentre Eustachio di Saluzzo, quarto figlio di Tommaso II, ne diviene di fatto il padrone. Sul finire del XIV secolo, dopo l’atto di dedizione del comune di Cuneo ai Savoia (1382), i paesi delle valli cuneesi, e quindi anche quelli della Valle Grana, entrano a fare parte di quello stato sabaudo che s’andava 37 consolidando ed entro il quale perdono la loro forza iniziale le autonomie periferiche. Le vicende dei piccoli comuni, superata l’iniziale fase di libertà, finiscono per inserirsi dentro ad un più ampio organismo, in un rapporto di dipendenza più o meno stretta dal nuovo potente signore. Per quanto riguarda l’aspetto ecclesiastico, nel corso del XIV secolo, con la progressiva perdita d’efficacia delle fondazioni monastiche, il vescovo di Torino riprende i contatti con le vecchie pievi alle quali riconosce gli stessi diritti ed uffici delle parrocchie (Galaverna, 1894). Dalla pieve, centro religioso e spesso anche civile di una vasta zona, dipendono, per l’esercizio del culto, alcune chiese minori le quali tuttavia non godono di autonomia propria poiché mancano della fonte battesimale ed il prete non vi esercita piena giurisdizione. All’inizio del XV secolo, con la morte di Eustachio di Saluzzo, il territorio della valle passa per testamento ai figli Costanzo, Giovanni Federico e Giorgio per conto dei quali - ancora minori - agisce la madre Alliana (Ristorto, 1977). Sul finire del XV secolo, con lo scoppio della guerra tra il duca Carlo I di Savoia, detto il guerriero, e il Marchese Ludovico I di Saluzzo, termina un lungo periodo di pace. La valle passa per un breve tempo sotto il dominio dei Savoia, fino a che, nel 1490, il marchese di Saluzzo, alleatosi con la Francia, riesce a riconquistare i propri domini. Durante il suo governo (1457 – 1504) il Marchesato conosce un periodo di notevole splendore. La vedova, Margherita di Foix, francese di origine e di sentimenti, prendendo in mano le redini del governo si cura di rinsaldare i legami con la Francia. Essa riprende i contatti con la Santa Sede per ribadire la volontà di staccarsi del tutto dal duca di Savoia e dal vescovo di Torino. Nel 1537, per necessità belliche contingenti, i Saluzzo sono costretti a fortificarsi nei loro castelli (a questo periodo risale il restauro del castello di Montemale). L’anno successivo, investito dal re di Francia, diventa marchese il quartogenito di Ludovico II, Gabriele. Dieci anni più tardi muore avvelenato nel carcere di Pinerolo: si estingue così la dinastia dei Marchesi di Saluzzo con conseguente annessione del marchesato alla Francia (Comitato comprensoriale di Cuneo, 1984). 38 Nella seconda metà del Cinquecento la difficile situazione politico-militare per la guerra tra Spagna e Francia interessa anche la Valle Grana e i valligiani. Nel 1551 Cesare Maggi, al servizio dell’imperatore Carlo V di Spagna, cinge d’assedio la fortezza di Montemale riuscendo ad espugnarla col tradimento. Poco dopo sono nuovamente i francesi a prendere in mano la situazione. Frattanto si va rapidamente diffondendo l’eresia calvinista che trova i suoi punti di forza specialmente nelle Valli Maira e Varaita e, per la Valle Grana, in Caraglio. Nel 1588 Carlo Emanuele I di Savoia, facendosi paladino della causa cattolica, domanda ad Enrico III di affidargli il governo del marchesato, per poterne escludere ogni elemento calvinista. In realtà il duca, usando l’argomento della difesa del cattolicesimo come paravento di fronte a papa Sisto V, occupata di sorpresa Carmagnola, conquista tutto il Marchesato coronando così le sue mire espansionistiche ed accentratrici (Ristorto, 1977). Il trattato di Lione del 1601 sancisce ufficialmente l’incorporazione del Marchesato di Saluzzo nel Ducato di Savoia e segna il primo passo verso l’unificazione politica del Piemonte. Per quanto riguarda i rapporti dei Savoia con la Valle Grana, essi sono stati assai concilianti: ai signori della valle vengono concessi i castelli e ai comuni gli antichi privilegi, rispettando così l’apparenza di una quasi sovranità. Nel corso del 1630 la valle, oltre a patire di riflesso i mali della guerra tra il duca di Savoia e il re di Francia, è colpita dalla peste. Sette anni più tardi muore Vittorio Amedeo I di Savoia con gravi conseguenze per tutto il Piemonte. Nel 1640, con la presa di Dronero da parte dei Francesi, i comuni di Montemale e Valgrana e la frazione di San Pietro di Monterosso diventano bersaglio delle scorrerie delle truppe francesi. Da documenti dell’archivio comunale di Monterosso risulta che in quell’anno viene incendiata la borgata di San Pietro con la chiesa parrocchiale. Durante il XVIII secolo la popolazione della valle si trova in condizioni di estrema povertà in quanto appesantita dalle strutture del nuovo governo sabaudo che impone di continuo tasse e gabelle attraverso i feudatari. 39 Il Settecento, soprattutto nella prima metà, è tempo di guerra continua: prima per la successione al trono di Spagna, poi per quella della Polonia e infine per la successione al trono d’Austria. L’Europa è come divisa in due blocchi: da una parte le monarchie di casa Borbonica (Spagna e Francia), dall’altra Austria e Inghilterra. Il Piemonte, dapprima coi Borboni, passa in seguito nel campo opposto alleandosi con l’Austria. Nel 1742, allo scoppio della guerra di successione la situazione peggiora ulteriormente. Carlo Emanuele III di Savoia si allea con l’Austria e la reazione delle truppe galllo-ispaniche è immediata, fino all’apice nella grande campagna delle Alpi occidentali del luglio 1744 che lascia il territorio della valle completamente depauperato sia per le spese militari sostenute sia per le continue razzie subite (Ristorto, 1977). Successivamente le condizioni socio-economiche della popolazione migliorano lentamente. In campo religioso questo secolo è teatro di un notevole fervore edilizio. La chiesa di Pradleves, viene riedificata, contemporanea è la costruzione della parrocchia di Sant’Ambrogio in Castelmagno; il santuario di San Magno viene ultimato nel 1716. Nel 1723 a Campomolino si ricostruisce la cappella dell’Assunta e sorge a Valliera la Cappella di Santa Margherita. Al 1764 risalgono i restauri della cappella della Madonna della Neve di Narbona e viene eretta la Confraternita di San Giuseppe a Valgrana (Galaverna, 1894). Tornando agli avvenimenti politico–militari, nel 1789 scoppia la rivoluzione francese che dichiara guerra aperta a tutte le monarchie. Ne viene interessato per primo il piccolo Piemonte che si vede occupare in tre soli mesi di campagna militare la Savoia e minacciare da vicino il Nizzardo. Davanti al pericolo imminente i piemontesi, ricercando l’alleanza con l’Austria, rinforzano le posizioni sulle Alpi facendo affluire numerose truppe nelle valli cuneesi. Le operazioni militari sulle Alpi e le conquiste napoleoniche incominciano nel 1793, e ogni tentativo di resistenza è inutile. Le truppe di Napoleone Bonaparte sfociano da Savona, Ceva e Mondovì obbligando gli austro-sardi all’oneroso armistizio di Cherasco del 1796 (Ristorto, 1977). 40 Col definitivo tramonto dell’impero napoleonico, il Congresso di Vienna del 1815 restituisce a Vittorio Emanuele I di Savoia i territori occupati dalla Francia. Da questo momento la Valle Grana segue le vicende storiche del regno sabaudo fino alla costituzione dello stato italiano. La seconda metà dell’800 rappresenta per la Valle Grana un periodo durissimo, colpita prima dal clima avverso, gelo e neve, poi dal colera che provoca decine e decine di vittime. Nonostante queste difficoltà la valle comincia a scuotersi dal suo secolare torpore. Fiorisce il commercio e le comunicazioni vengono facilitate dall’apertura della linea tranviaria CuneoCaraglio inaugurata il 24 novembre 1879 e dall’introduzione di vetture postali che uniscono i centri valligiani (Comitato comprensoriale di Cuneo, 1984). Ma di contro inizia il fenomeno dello spopolamento: molti valligiani sono costretti a lasciare la propria casa in cerca di lavoro o per altri motivi. Anzitutto la prima guerra mondiale nella quale, nel 1915, viene coinvolta l’Italia. E’ una guerra di trincea che divora gran parte della gioventù valligiana: ne sono una testimonianza le lapidi con una lunga serie di nomi apposte nei vari comuni in ricordo dei caduti (Ristorto, 1977). Con l’avvento del fascismo, la situazione socio-economica della valle inizia a peggiorare. Dal 1930 la proibizione di rilasciare passaporti lavorativi e il divieto di emigrare producono l’esodo di giovani valligiani che si stabiliscono definitivamente in Francia. Nel settembre del 1939 scoppia la seconda guerra mondiale. L’anno successivo l’Italia dichiara guerra alla Francia e all’Inghilterra, i primi combattimenti avvengono sulle nostre Alpi o Fronte Occidentale, contro la Francia che sarà costretta a ritirarsi. La guerra continua ancora più furiosa in Grecia, Libia e nella lontana Russia; a centinaia di migliaia i caduti italiani sui vari fronti, disastrosa soprattutto la ritirata dalla Russia del Corpo Alpino nel micidiale inverno 1942-43; anche la Valle Grana conta numerosi morti e dispersi (Ristorto, 1977). All’annuncio dell’armistizio l’Italia precipita nel caos: l’esercito si scioglie, le truppe abbandonano la Francia, mentre i tedeschi occupano in un baleno i punti nevralgici della penisola. Si organizza un largo movimento di 41 resistenza, bande armate si costituiscono nelle valli cuneesi decise ad attaccare il doppio nemico. Gruppi di ufficiali si stabiliscono tra le montagne della Valle Grana, a Castelmagno e nelle piccole baite delle diverse borgate come Narbona, Chiotti e Valliera portando con sé armi e viveri. I tedeschi passano alle rappresaglie contro la popolazione inerme distruggendo e saccheggiando qua e là (Comitato comprensoriale di Cuneo, 1984). Nel ’44 con azioni massicce tentano di scardinare le formazioni partigiane più consistenti. Occupato il fondovalle, con colonne armate i tedeschi risalgono le Valli Grana e Maira tentando di stringere in un cerchio di fuoco le bande di ribelli. Nei mesi successivi continuano i rastrellamenti e i saccheggi da parte dei tedeschi. Molti partigiani vengono fatti prigionieri o feriti, fino alla data del 25 aprile 1945, giorno atteso della liberazione. I partigiani scendono compatti a stroncare le ultime resistenze dei nazifascisti e finalmente ai primi di maggio in Valle Grana si torna a respirare. Una lunga serie di nomi si aggiunge sulle lapidi dei singoli comuni alla lista dei caduti della prima guerra mondiale (Ristorto, 1977). 42 2.4. Borgata Valliera: terra di emigrazione e vita di lassù La conclusione dell’ultimo conflitto non risolve la preesistente crisi della Valle Grana. Anzi, a partire dal 1945 i problemi di questa e delle altre valli cuneesi si aggravano notevolmente: ne è un sintomo evidentissimo il continuo flusso migratorio che spopola le frazioni più alte dei comuni. Castelmagno è uno tra i comuni maggiormente colpito dal fenomeno che ha il picco di intensità negli anni 1918-1930 e subito dopo il 1945. Le conseguenze delle due guerre mondiali sono inevitabilmente l’assenza di lavoro, la mancanza di cibo e un forte indebitamento del comune provocato dalle ingenti spese per le strade. Inoltre, molti uomini partiti per il fronte non fanno mai ritorno: «A Castelmagno i morti in guerra superano quasi i vivi»9. Così è per la borgata Valliera, terra di emigrazione e di sofferto lavoro all’estero. Alle cause che abbiamo già descritto (impossibilità di ottenere passaporti lavorativi e conseguente divieto di espatrio da parte del regime fascista) altre e di diverso genere si aggiungono. L’asperità e la povertà del terreno non permettono profitti e l’economia rurale riguarda perlopiù un’agricoltura di sopravvivenza che non consente alle famiglie valligiane di migliorare le proprie condizioni di vita: circostanze che aggravano il secolare fenomeno dell’emigrazione. Ma procediamo con ordine e ripercorriamo la vita di quegli anni. Intorno al 1900 a Valliera vivono un centinaio di persone, nel 1931 ne rimangono 82. Nel 1959, data dell’ultimo censimento, compilato dal parroco, gli abitanti rimasti sono solo sei. Negli anni ’80 gli ultimi due si stabiliscono al Colletto, la borgata più a valle (Don Galaverna, 1894). Curioso è il fatto che gli unici due cognomi presenti sono Martino e Demaria. Un paio di cognomi per un centinaio di persone avrebbe creato una bella confusione se non si fosse fatto ricorso agli stranoum, che permettono di distinguere i componenti di una stessa famiglia da famiglie diverse con lo 9 Tratto dal libro Il mondo dei vinti di Nuto Revelli (p. 114), testimonianza di Michelino Isoardi nato a Castelmagno nel 1931. La prima guerra mondiale, spiega Isoardi, aveva portato 43 caduti mentre la seconda 23 morti. In quell’anno erano 70 gli abitanti di Castelmagno, dunque i morti superavano quasi i vivi. 43 stesso nome. Grazie a Olga Martino (una dei pochi abitanti rimasti del Colletto, ora domiciliata a Torino), è stato possibile ricostruire alcuni soprannomi per testimoniare la fantasia in materia: Gianet dei Gardati, Pietro Matino detto carruba forse perché divideva con la sua mula la carruba che raccoglieva, Chelin e Chel derivano forse da Michele, i Biount così chiamati perché avevano i capelli biondissimi, Couca deriva da Jacou che era il maestro di Valliera. E ancora Nhasi che deriva da Ignazio, un nome inusuale, a rompere la monotonia dei soliti Giovanni o Giacomo, forse ispirato a un personaggio importante, Ignazio De Morri; Rensou d’Coutin forse perché sempre attaccato alla gonna della mamma e ancora Miliu, Janou d’Grilou10. Le origini di questa borgata sono antichissime, com’è testimoniato dai ruderi di una casa che porta la data 1666. Tutte le case, secondo edificate un’antica tecnica di fabbricazione, sono splendidi esemplari di architettura alpina che utilizzava solo pietra e legno. Le mura a secco, che superavano sempre Un’abitazione della borgata Valliera il metro di spessore, erano rinforzate al massimo con un po’ di calce bollita nella tampa e potevano raggiungere, una pietra sopra l’altra, l’altezza di un terzo piano. I tetti, sorretti da ingegnosi intrecci di travi di legno, venivano costruiti con grandi lastre di ardesia (lose). Molto sporgenti, fino a toccarsi gli uni con gli altri, consentivano, nella stagione invernale, un passaggio coperto tra le case. Non solo alle persone, ma anche al foraggio che ogni giorno veniva portato dal fienile alla stalla. 10 Testimonianza diretta avuta dall’incontro con Olga Martino. Una bella indagine sugli stranoum, con spiegazione di ogni significato è stata pubblicata da Olga Martino e Graziano Cardellino nell’archivio della Vous de Chastelmanh (nn. 2-3 del 1995 e n. 5 dell’anno 2000). 44 Annessi al corpo centrale della costruzione vi era lou porti, il portico dove si sistemavano i cereali appoggiati sopra una tramezza di assi, la parte bassa serviva da rimessa per gli attrezzi agricoli. Nel seminterrato c’era invece lou selìe, speciale cella o cantina, utilizzata per la conservazione del formaggio e del vino. Caratteristica di ogni casa è inoltre la lobio di legno (ballatoio), sempre al riparo di un’ala di tetto molto sporgente che consentiva l’essicazione di grano, castagne, noci e legumi vari. Un particolare cenno meritano ancora le finestre, piccole e strombate in modo da prendere la maggior quantità di sole possibile: irregolari ed asimmetriche, erano strettamente funzionali. Per ottenere la più efficace protezione dal freddo della rigida stagione invernale erano profonde e di piccole dimensioni. Il fienile vero e proprio, il forno e l’essiccatoio erano invece di norma costruzioni a sé stanti. Infine da notare come tutte le borgate siano costruite intorno ad una chiesa e nei pressi di una fonte sorgiva, elemento fondamentale per irrigare gli orti e abbeverare gli animali. Erano disposte lontano dagli abituali percorsi delle valanghe e orientate a mezzogiorno. La pianta delle case è prevalentemente quadrangolare irregolare e comprende i locali fra loro attigui della stalla e della cucina, posti a piano terra. La cucina era il polo dell’abitazione nella stagione estiva, mentre la stalla lo era Interno di un’abitazione di Valliera per quella, molto più lunga, dell’inverno. In tutte le cucine, nere per il fumo, l’angolo più importante era quello del camino, che oltre ad espletare le comuni funzioni di riscaldamento e cucina, serviva anche per la cura del bestiame (si scaldava il cibo e l’acqua per le bestie nella stagione fredda). All’interno pochi arnesi e suppellettili: la madia, la tabio, asse per tirare la pasta e per allargare la 45 polenta, un armadio a muro (lou placard), una vecchia panca, qualche sedia. Sui muri chiodi per paioli e padelle e una rastrelliera porta oggetti. Infine non mancava mai un’immagine sacra o una statuetta raffigurante la Madonna o San Magno protettore degli armenti. Oggi alcune case di Valliera conservano ancora intatti questi oggetti, e nonostante i crolli dei muri e i vari saccheggi ad opera di vandali o comunque persone poco rispettose, è ancora possibile ammirare i segni di un’antica presenza. Un’importante caratteristica di questa comunità era la ricerca dell’autosufficienza in stretta relazione con la situazione ambientaleeconomica difficile. La povertà diffusa spingeva ad acquistare e consumare il meno possibile, mentre la commercializzazione e la circolazione di denaro erano estremamente ridotte. La montagna offriva quasi tutto il necessario per vivere: con grande ingegno e abilità i valligiani trasformavano le risorse in cibo ed energia. Il montanaro era pastore, contadino e anche artigiano, in particolare si dedicava alla coltura dei campi e all’allevamento del bestiame. La miseria era tanta e possedere una capra o due pecore era gran cosa, una mucca rappresentava poi una vera e propria ricchezza perché con il latte ottenuto dalla mungitura si preparava il Castelmagno destinato anche alla vendita. Il mulo era poi un animale molto importante: senza di sarebbero questo risultati molti lavori impossibili o, perlomeno, faticosissimi. Alcuni ne avevano uno in comproprietà, altri erano costretti a scendere fino a Pradleves per affittarne uno. Banastres (banastre) per il trasporto del letame. Soprattutto a Valliera, raggiungibile solo attraverso una stretta mulattiera, in alcuni tratti ridotta a sentiero, erano indispensabili le bestie da soma per alleviare le fatiche dell’uomo. I muli erano impiegati nel trasporto del fieno, 46 del letame e delle cavanholes cariche di formaggi destinati al fondovalle, oppure utili a trascinare la beno, grande slitta di legno, o i carretti dove la strada era carrozzabile. Va ricordato comunque che non tutti ne possedevano uno e quindi l’unica risorsa su cui si poteva sempre contare era la forza muscolare degli uomini e, si intende, anche delle donne (Viano, 1980). Quando si parla della vita di Valliera non si può prescindere dal fatto che buona parte della giornata era impiegata a trasportare cose. Si pensi a quando, durante l’estate, gli uomini salivano fino ad alte quote (oltre i 2000 metri) per procurarsi una quantità di fieno sufficiente per l’inverno, oppure quando tagliavano la legna o la segale, o quando si recavano a Pradleves per lo scambio di merci. Inoltre molte famiglie avevano proprietà frazionate e disseminate in più luoghi11. Ciò comportava lo spostamento continuo, a volte anche per diversi chilometri, su sentieri non battuti, carichi di attrezzi o altro. Il lavoro agricolo era molto duro, soprattutto a causa del terreno scosceso ed accidentato. Il loro paziente lavoro l'aveva ri-modellato terrazzandolo: i piccoli campi così ricavati erano curati come giardini. Segale e orzo i principali prodotti agricoli. La segale, coltivata in genere oltre i 2000 metri, produceva la farina che serviva per fare il pane. L’orzo invece serviva, con la pratica del baratto, per ottenere prodotti che era impossibile coltivare in alta quota. La mietitura dell’orzo era molto impegnativa e poteva durare parecchi giorni. Ogni borgata aveva comprato una macchina per trebbiare in società e le famiglie si aiutavano a vicenda: erano necessari diversi uomini per la trebbiatura, altrettanti per girare le ruote della macchina che divideva le spighe dalla paglia, altri ancora per rastrellare la paglia e farne dei piccoli covoni. La segale invece si batteva in buona parte a mano per non rovinare la paglia ricavata (Menardi Noguera, 1978). In seguito si diffuse anche la coltivazione del frumento, ma dava rese inferiori agli altri cereali. La raccolta del fieno avveniva due volte l’anno: una a giugno o inizio luglio e l’altra a fine agosto. 11 Questo fatto si è riscontrato nel momento dell’acquisto delle baite dai vari proprietari. Non è stato facile trovare dei pascoli nelle vicinanze, se non disseminati qua e là a diverse altitudini (vedi più avanti). 47 Veniva impiegato principalmente per coprire il fabbisogno di casa: se però le bestie erano poche, veniva venduto per quanto poco redditizio. A causa dell'altitudine le piante da frutta erano poche: a Valliera c'era solo qualche susino, a Campomolino era ancora possibile coltivare qualche pianta di melo. Per avere un po’ di castagne, i contadini affittavano i boschi tra Caraglio e Pradleves e in autunno scendevano in occasione della raccolta. Alcuni campi vicino al torrente Croce erano irrigabili e venivano utilizzati per gli orti dove crescevano porri, patate, insalata, cavoli e cipolle. La cura dell’orto era affidata prevalentemente alle donne che di giorno si occupavano di portare il letame, coprire con la paglia i cavoli e seminare. La miseria era anche nel vestire: ai piedi mettevano gli zoccoli di legno con la tomaia in pelle, spesso senza calze; non tutti possedevano le scarpe, un solo paio veniva usato a turno per andare a messa. I vestiti si lavavano solo una volta al mese con l’acqua del ruscello mentre la lisìo, il bucato con Interno di una casa abbandonata negli anni ‘50 acqua bollente e cenere, era abitudine farla una volta l’anno. Andare al ruscello per lavare i vestiti era occasione per trovarsi tra donne e chiacchierare, spettegolare e cantare. Miseria, miseria in tutto. A Valliera la luce arrivò solo nel 1977 quando per la prima volta si costruì una centrale idroelettrica sul torrente Grana; prima si sfruttava la luce del sole e si ricorreva a lampade a petrolio12. Non c’era neanche l’acqua potabile e le famiglie attingevano dalla 12 Flavio Menardi Noguera in Rescountrar Castelmanh p. 49. spiega il duro lavoro per la costruzione della centrale per la produzione dell’energia elettrica. La prima ultimata nel ’77 non produceva abbastanza energia per tutte le borgate e così nell’81 grazie all’intervento dell’Enel, della Regione Piemonte e della CEE, anche Castelmagno, ultimo comune d’Italia, è stato elettrificato. 48 fontana o dal torrente Grana, mentre per quanto riguarda i servizi igienici, beh questi erano all’aperto. L’alimentazione era molto povera e monotona. Il piatto principale era la poulento che, con il frumento e il riso, costituiva la voce più importante tra i prodotti che si barattavano con l’orzo. L’acquisto di cereali veniva fatto una volta l’anno; in autunno o in primavera, quando pioveva molto e i ruscelli si ingrossavano abbastanza da far girare le ruote dei mulini, provvedevano alla loro macina. Anche il pane veniva fatto solo due volte l’anno, prevalentemente con segale e frumento (mai farina bianca, al massimo un po’ di orzo) oppure solo con segale. Si conservava sulle rastrelliere appese al soffitto e per tagliarlo si usava il tagliapane o il martello tanto era duro. A Valliera il forno rimaneva acceso anche per tre settimane per permettere a tutte le famiglie della borgata di cuocere il pane. La maggior parte delle forme di Castelmagno che venivano prodotte non erano quasi mai destinate all’alimentazione della famiglia che, a volte, consumava la lechà, ovvero una parte del siero, cotta con la polenta (Martino, Cardellino, 1998). Con la conclusione della stagione estiva e l’arrivo dell’inverno situazione la peggiorava. Le abbondanti nevicate isolavano le borgate più alte, Valliera; proprio ognuna come di queste aveva l’obbligo di spalare la neve fino a valle: un lavoro duro e soprattutto pericoloso a Antico forno della borgata Valliera causa delle valanghe. Il clima rigido e il protrarsi delle stagioni invernali non permettevano di far nulla. L’unica alternativa ai disagi e alla fame più nera era l’emigrazione. Molti uomini partivano a settembre e tornavano poi in primavera per fare il fieno, lasciando le mogli ad accudire la casa, i figli e le bestie. 49 Naturalmente gli emigranti facevano a piedi questo lungo e faticoso viaggio, mai da soli ma in gruppo per sostenersi e prestarsi aiuto ed assistenza in caso di malori o disgrazie. Bisognava comunque avere una grande resistenza ed il piede montanaro ben abituato ai sentieri selciati o polverosi, ai pendii rocciosi, ai passaggi sui ghiacciai quando occorresse. Bisognava affrontare l’aria pungente delle grandi altitudini, camminare sotto il sole, la pioggia o la neve cercando di evitare valanghe e temporali. Erano pesantemente carichi: bagagli personali, viveri, strumenti di lavoro. Era un viaggio di parecchi giorni, fatto attraverso le montagne perché senza passaporto e con la paura di essere arrestati dalle milizie fasciste che sorvegliavano le zone di confine. Molti, nel timore di non poter intraprendere altri viaggi, finirono per prendere stabile residenza in Francia grazie alla vita più comoda che si offriva loro e alla rete di amicizie e parentele che si erano formate con i primi espatriati (Viano, 1980). Più tardi, con la trasformazione delle mulattiere e degli impervi sentieri in strade carrozzabili (1870) e l’allacciamento di Caraglio alla rete ferroviaria (1879), divennero più facili i collegamenti con il resto del mondo. Si assistette così ad un aumento dell’emigrazione stagionale e soprattutto dell’emigrazione all’estero. La maggior parte andavano in Francia nel Var, a Cabases, a Brignoles a lavorare nella costruzione di grandi impianti o, più spesso, in miniera per estrarre l’alluminio o negli scavi delle gallerie. Lavoro massacrante, per molti anni Cabasa (gerla) e cestini abbandonati in una stalla esclusivamente manuale a forza di ferri e mazze, solo in tempi recenti alleggerito dall’introduzione dei mezzi meccanici. Sempre in Francia, a Sisteron, andavano a fare i boscaioli a cottimo oppure a lavorare la terra. Altri invece migravano a Torino, Milano, Novara. Facevano lavori pesanti e umili: facchini, trasportatori di pianoforti, illuminavano la strada dei 50 nobili portando lumi, posavano per i pittori, facevano i lustrascarpe a Porta Nuova (furono i primi lustrascarpe di Torino e da allora divenne una tradizione per i castelmagnesi). A Valliera erano specializzati nel commercio delle acciughe sotto sale: i’anciuiè partivano con il barile sul carretto e andavano a Vigevano, Novara, Vercelli e Milano. Altri invece giravano nel fondovalle passando di casa in casa a vendere oggetti artigianali, impagliare le sedie, aggiustare pentole e paioli. Altri erano bottai, bastai, calderai, ombrellai pronti ad offrire fino a qualche decennio fa un’abilità spesso esclusiva. Le donne inizialmente restavano a casa ad aspettare il marito ma in seguito anche loro iniziarono ad emigrare. Andavano a Torino da servente nelle famiglie più ricche o in Francia per la raccolta dei fiori e della frutta. Con il passare del tempo, e in particolare dopo la seconda guerra mondiale (anni ‘50–‘60), le migrazioni si fecero più intense e da temporanee divennero permanenti. Le famiglie si trasferivano in Francia o nei centri industriali dell’Italia (si ricorda il fenomeno della Michelin) in cerca di lavoro ma poi non facevano più ritorno al paese d’origine. Da quel periodo sino ad oggi la popolazione di Castelmagno ha registrato un costante e progressivo declino: l’industrializzazione e le nuove tecnologie prospettano stili di vita migliori, meno faticosi e, almeno all’apparenza, più gratificanti. 51 2.5. Abitudini e antiche tradizioni Valliera, come tutte le altre borgate di Castelmagno, era ricca di abitudini e antiche tradizioni che scandivano la giornata del montanaro, delle quali oggi non si conserva più nulla se non nella memoria di qualche superstite. L’aspetto religioso per i valligiani era molto importante, era parte integrante del loro modo di vivere e della loro cultura. Una fede semplice ma profonda e sincera si manifestava attraverso pratiche religiose che accompagnavano la vita sulle montagne. Le campane scandivano i diversi momenti della giornata: suonavano al mattino presto la Messa, a mezzogiorno l’Angelus, all’alba e al tramonto l’Ave Maria. Nel giorno dei Morti le campane suonavano ogni ora fino a tarda notte. Ogni sera, quando le famiglie si riunivano nella stalla per la veglia, era consuetudine, come prima cosa, recitare il ben cioè le preghiere della sera e il rosario. In ogni casa e sopra la porta di ogni stalla vi era un quadretto o una statuetta di San Magno, invocato come protettore del bestiame. Le grandi Ricorrenze, la festa patronale, le Finestrella votiva all’entrata di una casa Rogazioni e le Processioni erano momenti intensi e partecipati. Alla festa di San Magno partecipavano tutte le famiglie: era un momento di gioia, di preghiera e di incontri (Viano, 1980). E’ in questa data (19 agosto) che si celebrava, e si celebra tutt’ora, La Baìo di Castelmagno: una festa religiosa, una processione in onore di San Magno che via via nel tempo si è andata ad arricchire. Oggi la statua del santo abbigliato come soldato romano è accompagnata e scortata dalla Badìa, un gruppo di uomini armati di alabarda, vestiti di costumi settecenteschi, con cappelli a pennacchio e gli immancabili nastri colorati, qui detti levrees. Il gruppo si presenta fin dal mattino al santuario e partecipa alla messa solenne, mentre alcuni suoi componenti montano la guardia all’esterno. Al termine della messa tutti accompagnano la processione che si 52 snoda nelle vicinanze. Concluse le funzioni religiose, il corpo della baìo percorre nove volte il perimetro del santuario accompagnato dalla banda, dalle mogli, dai figli e dagli amici. E’ una ronda che simboleggia uno dei compiti attribuiti alla Baìo dopo la Controriforma: proteggere i riti della Chiesa Cattolica e mantenere l’ordine pubblico in occasione di feste e processioni. Don Galaverna, nel libro Cenni storici intorno a San Magno martire tebeo ed al paese e Santuario di Castelmagno del 1894, descriveva il numero dei componenti della Baìo, la struttura di comando, l’armamento e la divisa (ben diversa da quella attuale). A capo del manipolo erano all’epoca quattro ufficiali superiori, gli Abbà, i sottoposti erano Baìo di Castelmagno Foto tratta dal libro Baìo di Edo Prando tre soldati, destinati l’anno successivo a ricoprire il ruolo di ufficiali e cinque soldati di nuova nomina. Figura a parte quella dell’Alfiere che l’anno seguente avrebbe ricoperto la carica di Abbà (Prando, 2006). Un tempo, per i valligiani, La Baìo era un’occasione di festa, di nuovi incontri con le ragazze, di spensieratezza ma anche di grande fede. La posa dei morti era un’antica tradizione di cui si può ancora notare la presenza percorrendo la strada sterrata che porta a Valliera. Quando moriva qualcuno, il Prevosto partiva dalla chiesa accompagnato dalle Figlie di Maria e dalla gente e andava a prendere il morto fino alla posa, luogo dove vi era una croce di legno e un piano d’appoggio per la bara costruito con grosse pietre (quella di Valliera si trovava al Crest d’es baretes). A primavera, col disgelo, la salma veniva trasportata per un sentiero stretto e scosceso, impraticabile in inverno, e tumulata nel cimitero del Colletto (Martino Cardellino, 1992). Era usanza che, subito dopo i funerali, i familiari dello scomparso prendessero la despueio del morto, cioè un vestito completo compresi 53 mutande, calze e fazzoletti, e la regalassero ad una persona da loro stessi scelta e ovviamente d’identica taglia del morto. Chi riceveva la despueio aveva il dovere di indossarla durante la messa di settima. Sempre sulla via che conduce a Valliera si può ancora notare un pilone affrescato che riporta l’anno 1932, data dell’ultimo restauro. Ogni frazione aveva un pilone costruito dagli abitanti, oggi se ne contano ancora 15 a Castelmagno. Questi piloni servivano come meta durante le processioni delle Rogazioni primaverili per invocare la benedizione sui campi. Il pilone sulla strada di Valliera era una stazione della processione di San Marco13. Per quanto riguarda la vita quotidiana la gente soleva radunarsi nelle stalle e trascorrere le lunghe ore serali raccontandosi Pilone sul sentiero per Valliera le vicende quotidiane. Le veglie erano momenti importanti per una società in cui le occasioni d’incontro e di svago erano assai limitate. Le famiglie si riunivano nella stalla più accogliente, calda e spaziosa. Erano presenti anche gli anziani e i bambini: qui si parlava, si giocava a carte, si raccontavano le storie di masche. Antica credenza, diffusa anche in altre zone del Piemonte, assegnava poteri sovrannaturali ad alcune persone, le masche per l’appunto, che possedevano la capacità di trasformarsi in animaletti pelosi o in bestie come gufi, gatti, maiali. Riunite in gruppi, le masche si divertivano a spaventare la gente, a procurare guai e malanni, a volte anche la morte. Impedivano ai montanari di percorrere tranquillamente i sentieri. Le donne si preoccupavano di proteggere dalla loro influenza negativa il latte, il formaggio o le bestie. Segnavano con la croce il latte appena cagliato e il pane sfornato, e appendevano immagini di santi alle maglie. Solo frati o sacerdoti potevano opporsi ad esse e a loro si rivolgeva fiduciosa la gente. 13 Informazioni trovate nell’archivio della rivista periodica di Castelmagno, la Vous de Chastelmanh, testi a cura di Graziano Cardellino pubblicati nell’anno 1999. 54 Nella figura favolosa della masca il mondo arcaico della montagna trovava una spiegazione ai fenomeni incomprensibili, una motivazione per quegli eventi che, oltre a collocarsi fuori dalla norma, potevano costituire una minaccia per l’ordine sociale, un fattore di disarmonia per la ristretta comunità, un’interferenza rispetto allo scorrere monotono della vita (Viano, 1980). La stalla non era solo il luogo delle veglie, in essa i valligiani trascorrevano gran parte della giornata e nelle stagioni fredde era loro abitudine dormirci scaldati dal tepore generato dalle bestie, con le quali avevano instaurato un forte rapporto di simbiosi. Nella stalla le donne erano solite filare la risto (canapa) con il fuso mentre gli uomini cucivano la calza. Era non solo il luogo dove mangiavano ma anche quello scelto dalle donne per il parto, dato l’ambiente più mite. Purtroppo la mancanza Interno di una stalla abbandonata di igiene e la denutrizione poteva portare alla morte del neonato e della madre in caso di emorragie. Non vi erano soldi per comprare il sapone e si rimediava con una pietra grassa che si sfregava con forza sulla pelle, ma i lavaggi restavano comunque sporadici e le malattie erano abbondanti. Le molte tradizioni di questa terra tramandate nei secoli, vanno poco alla volta perdendosi. Oggi restano ancora qualche ricordo e un po’ di memoria collettiva a testimoniare la profonda e radicata cultura di questa porzione di montagna occitana. 55 Capitolo III Il progetto di recupero di una borgata alpina 3.1. Inquadramento dell’iniziativa nel contesto territoriale La tutela e la valorizzazione del paesaggio rurale - a carattere montano, collinare o di pianura - è un tema certamente di grande attualità. Più propriamente, si dovrebbe parlare di paesaggio rurale tradizionale allo stato quasi naturale: paesaggi cioè, in cui gli uomini hanno integrato la natura, non solo con opere di coltivazione, ma anche di consolidamento e di canalizzazione sempre utilizzando materiali naturali presenti in loco, come pietre, legno, argilla, paglia. Così anche per le abitazioni e le costruzioni. I paesaggi rurali tradizionali dunque sono soprattutto il risultato di una intensa e continua lungo i attività secoli. dell’uomo In questo Tipico esempio di insediamento alpino a Valliera senso, essi sono anche la testimonianza di un “passato vissuto” che non abbraccia solo le tracce visibili ma anche il pensiero, i sentimenti e i metodi di lavoro, i valori sociali, culturali e spirituali delle generazioni che ci hanno preceduto14. Gran parte del territorio rurale, connotato da forti caratteristiche locali, discendenti sia da fattori ambientali e climatici, sia da consuetudini di lavoro agricolo sia, ancora e specialmente per il territorio costruito, dalle culture 14 La provincia di Cuneo ha redatto un protocollo denominato Definizione di soluzioni progettuali innovative per il recupero del patrimonio abitativo dell’Alta Valle Grana nel quale indicava le modalità di intervento nelle zone rurali alpine alle quali è necessario attenersi e le linee progettuali di riferimento (Priorità, Innovazione e transazione produttiva). Questo protocollo è stato utile per inquadrare il progetto da noi creato nel contesto territoriale. 56 materiali che hanno contribuito alla sua configurazione, ha conosciuto, nei decenni scorsi, il drammatico fenomeno dell’abbandono, con il conseguente innescarsi di un lento ma inesorabile processo di degrado ambientale, sociale ed economico. Il processo di riqualificazione del paesaggio rurale che si sta oggi tentando di avviare ha come obiettivo prioritario la sostenibilità ambientale, e si deve inevitabilmente confrontare con problemi di natura politica, economica, sociale, produttiva e tecnica di non facile soluzione. Solo in parte, infatti, i territori rurali abbandonati possono essere recuperati agli usi che ne hanno definito la configurazione nel corso dei secoli: molto spesso, la riconversione di questi territori passa, piuttosto, attraverso la riconoscibilità, ad esempio della vocazione turistica che, in modi diversi, ogni luogo può esprimere. Il patrimonio costruito esistente nel territorio rurale, anche se sconosciuto, oltre che elemento fondamentale e consolidato del paesaggio, costituisce dunque una risorsa culturale ed economica da conservare e valorizzare, nel rispetto di più generali istanze di tutela dell’ambiente e del paesaggio. L’edilizia rurale tradizionale assume in questo senso una peculiare rilevanza, proprio in quanto espressione di un corretto rapporto tra uomo e natura, tra società e ambiente, tra produzione e territorio. Al contrario delle opere edilizie attuali, infatti, gli edifici rurali di un tempo e le strutture di servizio ad essi connesse, segni di un’arte del costruire antica e ormai dimenticata, integravano e arricchivano il paesaggio, assecondando la morfologia del terreno, utilizzando i materiali e le risorse disponibili, con apparente naturale armonia. La valorizzazione del patrimonio costruito e delle sue tradizioni si pone, per questo, come strategia per una effettiva tutela attiva del paesaggio rurale. Tale tutela deve Vecchia scala di un’abitazione pertanto essere basata, innanzitutto, sul 57 riconoscimento dei caratteri peculiari dell’ambiente naturale che sono determinati principalmente dall’altitudine, dall’orografia del terreno e dalla geologia del luogo. A definire l’identità di un sito concorrono, inoltre, a livello generale, i tipi di insediamento antropico che associano forme naturali del terreno a forme artificiali delle costruzioni e dei suoli - case isolate, agglomerati secondo morfologie diverse, nuclei e borgate - e, a livello particolare, i materiali e le tecnologie costruttive. In alta Valle Grana numerose sono le borgate suscettibili di interventi di recupero, spesso abbandonate, e caratterizzate da particolari elementi architettonici e/o peculiari tecniche costruttive tradizionali, tali da renderle siti di interesse ai fini della valorizzazione del patrimonio abitativo rurale e alpino. 58 3.2. Il progetto di sviluppo Illustrato il contesto e delineati i criteri coi quali si andrà ad operare, procediamo con la descrizione del nostro progetto di recupero e valorizzazione di una parte di montagna ormai abbandonata e alla nascita della nostra Società Agricola Valliera. Il progetto nasce dall’idea di Gianni Costamagna, di professione agronomo e consulente di studi privati e della Confederazione Italiana Agricoltori (CIA). Dopo aver effettuato diversi sopralluoghi nel territorio di Castelmagno ed aver constatato lo stato di abbandono di alcune frazioni, ha deciso di proporre il recupero della parte alta della borgata Valliera ad alcuni amici langaroli, certo che avrebbero riconosciuto una parte del loro passato. Oggi patria del Barolo, anche le Langhe piemontesi hanno vissuto gli anni difficili del dopoguerra segnati dalla miseria e dall’emigrazione verso le fabbriche delle città. Era il 2007. Una decina di persone trova l’idea molto interessante e inizia a lavorare ad un progetto di fattibilità. L’obiettivo finale non era quello di possedere una seconda casa dove recarsi saltuariamente ma di far rivivere una borgata alpina. Per questo il progetto doveva essere non solo insediativo, anche produttivo e turistico per garantirne la sostenibilità. Il primo passo è stato dunque la ricerca dei proprietari delle baite ormai abbandonate e dei terreni adiacenti da adibirsi a pascoli. Molti di questi vivono nel fondovalle, altri hanno lasciato il paese d’origine e sono emigrati in Francia. Molti mesi sono serviti per arrivare agli atti notarili di acquisto dei beni immobili e dei terreni necessari al nostro progetto. Il secondo passo importante è stata, all’inizio del 2009, la costituzione della società agricola. Fanno parte di questa: sei viticultori che porteranno la loro esperienza lavorativa già finalizzata all’alta qualità dei loro prodotti; due architetti che seguiranno la parte progettistica nonché burocratica relativa alla presentazione del progetto con tanto di relazioni descrittive alla comunità montana, al comune di Castelmagno ed alla Regione; tre liberi professionisti appassionati di montagna; il malgaro al quale si affiderà la custodia delle mucche (20 vacche piemontesi acquistate nel frattempo) e infine la 59 sottoscritta che andrà a ricoprire l’incarico di coordinatrice tecnica. Inoltre ci avvarremo di personale locale specializzato nella produzione del formaggio, un mestiere tramandato nei secoli e un’arte che pochi ancora conoscono per arrivare a produrre nel giro di cinque anni un Castelmagno d’alpeggio di mucca piemontese di alta qualità. A luglio 2009 iniziano i primi interventi che riguardano la ristrutturazione del caseificio utile alla produzione iniziale del formaggio. Solo più tardi si passerà alle attenendosi il diverse più abitazioni possibile ai caratteri tradizionali dell’architettura rurale, modificando solo le parti interne nel rispetto delle norme vigenti. Ci avvarremo di strumenti metodologici mirati al recupero delle tipicità Ristrutturazione del caseificio a Valliera architettoniche miglioramento della ed al qualità ambientale, individuando materiali e tecniche di intervento sia tradizionali che innovativi compatibili con la difesa del patrimonio costruito e del paesaggio. Il tutto sarà infine accostato ad un locale dedicato alla degustazione e alla vendita del Castelmagno, in stretta collaborazione con l’unico albergo esistente in modo da incrementare il turismo appassionato di montagna e della natura incontaminata. Il tema della tutela e della valorizzazione del patrimonio edilizio rurale, di cui la Valle Grana conserva diffusa testimonianza, è oggetto di sempre maggiore attenzione. Questo dipende soprattutto da un’accresciuta sensibilità nei confronti della storia, delle tradizioni occitane e della cultura locale. Per operare correttamente nel campo del recupero è prima di tutto necessario adottare un nuovo atteggiamento culturale responsabile, attento al contesto originario e condiviso da tutti i portatori di interesse (amministratori, tecnici, popolazione residente). Nonostante l’abbandono e il degrado di questa parte di montagna, abbiamo riscontrato molte difficoltà e soprattutto diffidenza da parte dei 60 residenti e degli organi istituzionali dai quali ci si aspetterebbe, al contrario, una collaborazione attiva. Quest’atteggiamento non favorirà sicuramente lo sviluppo in tempi brevi del nostro progetto ma siamo certi che non riuscirà a impedire il raggiungimento dei nostri obiettivi. L’albergo diffuso a Valliera. Struttura realizzata dalla Comunità Montana Valle Grana 61 3.3. Gli obiettivi Le prospettive future sono ottime e gli obiettivi molto ambiziosi perché fin dall’inizio abbiamo creduto nella realizzazione di questo progetto e tutti ci stiamo impegnando attivamente dedicando gran parte del nostro tempo libero. Il primo e forse il più importante obiettivo è quello di far rivivere una parte di montagna che per decenni è stata totalmente abbandonata individuando soluzioni progettuali innovative e sostenibili destinate ad un corretto recupero edilizio del patrimonio abitativo alpino, valorizzando i caratteri tipici del luogo. Si cercherà inoltre di sostenere l’economia locale utilizzando principalmente materiali e manodopera della Valle Grana. Successivamente agli interventi di recupero si cercherà di attirare un flusso turistico che potrà beneficiare di un contesto paesaggistico qualificato, più gradevole e pertanto più accogliente, producendo una crescita economica per il territorio. Questo sarà reso possibile grazie alla creazione di strutture ricettive adeguate sempre nel rispetto della ruralità locale. In questo ambito sarà importante la collaborazione con il CAI (Club Alpino Italiano) e la comunità montana per quanto riguarda la manutenzione e la segnalazione dei sentieri di montagna. Interessante potrebbe essere l’eventuale creazione di un rifugio o di un posto tappa nella borgata Valliera. Il terzo obiettivo da raggiungere sarà la Castelmagno produzione d’alpeggio del di alta qualità prodotto esclusivamente con latte di mucca piemontese così come vuole la tradizione (oggi per questo formaggio si utilizza in gran parte latte misto). La stagionatura, che va da 90 giorni a 3 anni, avverrà nelle cantine delle baite di Stagionatura in grotte naturali in pietra proprietà. 62 Si affiancherà anche una piccola produzione di erbe officinali, ortaggi e piccoli frutti per riportare la montagna all’autonomia di un tempo. Ultimo obiettivo sarà la creazione di un piccolo museo per tutelare e conservare il patrimonio storico locale, un percorso per far conoscere la vita di un tempo con le sue ristrettezze e miserie. Sono stati trovate nelle baite stanze ancora intatte, attrezzi da lavoro nelle stalle, oggetti di vita quotidiana e addirittura una tavola apparecchiata. Forse chi è emigrato nella stagione invernale pensava di tornare, ma non è mai stato così. Si prova una sensazione di tristezza nel vedere lo stato di abbandono di una borgata un tempo abitata da numerose famiglie e questo potrebbe essere un modo per non dimenticare, per riportare in vita, almeno in parte, quello che è stato. La tipologia di questo intervento non è destinato a generare alcun tipo di reddito. Tutto il ricavato dalla vendita del Castelmagno verrà reinvestito ogni anno per migliorare la qualità paesaggistica del territorio e per portare beneficio alla comunità. 63 3.4. Piano di realizzazione La realizzazione del nostro progetto di sviluppo prevede un termine minimo di cinque anni; dopo tale data si pensa che tutto l’insieme comprendente l’azienda agricola operi a pieno regime. Il percorso è lungo e abbiamo riscontrato non poche difficoltà nel nostro cammino. Il primo passo è stata la presentazione di tutti i progetti relativi alla ristrutturazione del caseificio, dei locali per la vendita e in seguito delle baite, allo Sportello Unico della Comunità Montana Valle Grana, la quale ha provveduto a fornire diverse copie alla Regione, agli Enti Pubblici interessati e alla commissione per i Beni Ambientali. Non è stato facile il lavoro dei nostri architetti in quanto ogni sezione (gli scarichi, i materiali utilizzati, il piano antincendio, accompagnata antisismico…) doveva essere regolarmente da una documentazione chiara e una relazione illustrativa. A luglio 2009 con il consenso di tutti gli enti preposti, sono iniziati i lavori per il rifacimento del tetto del caseificio crollato a causa abbondanti delle nevicate Scorcio panoramico sulla valle di quest’anno, e degli edifici che necessitano maggiormente di interventi. Di grande importanza sarà l’utilizzo delle tecnologie innovative all'insegna dell'autonomia energetica, sfruttando con lungimiranza le eccezionali risorse di cui dispone questa valle: sole, acqua in abbondanza, legno di alta qualità. Pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua (indispensabile per la produzione del formaggio), celle fotovoltaiche e il potenziamento delle centrali idroelettriche già esistenti per fornire energia (le borgate più alte non sono collegate alla rete nazionale), caldaie a legna per portare acqua calda 64 nelle abitazioni. Allo studio anche la possibilità di installare pale eoliche sfruttando i forti venti che spazzano la vallata. Non meno importanti saranno la costruzione di una fossa biologica per gli scarichi e un sistema di raccolta, depurazione e riciclo delle acque. L’ultimo intervento riguarderà la manutenzione della strada sterrata che dal Colletto porta a Valliera per non caricare di ulteriori costi il piccolo comune. Alla fine di maggio le mucche sono state portate dal fondovalle ai pascoli montani circa) (a e provvede degli 2000 metri il malgaro alla custodia animali e alla mungitura del latte. Tutte le indispensabili produzione attrezzature per iniziale una di Castelmagno sono state acquistate e trasferite in Le mucche in alpeggio alta quota nel caseificio comunale appaltato al nostro malgaro. Le prime forme, destinate esclusivamente alla sperimentazione e degustazione sono già nei locali di stagionatura rimessi in uso secondo le norme igienico-sanitarie attuali. Il piano prevede che entro il 2010 sia ultimato il caseificio e iniziati i lavori di ristrutturazione delle baite e della parte ricettivo-turistica. Contemporaneamente partirà il piano di comunicazione per la promozione e la commercializzazione del formaggio. Anche la piccola produzione di erbe officinali, ortaggi e frutti rossi saranno destinati alla vendita oltre che alla degustazione e al consumo locale. Dal 2011 l’azienda agricola dovrà operare a pieno regime. Il piano completo dovrà invece essere ultimato entro il 2013 con la ristrutturazione di tutte le baite che andranno a formare un agriturismo. La promozione turistica del territorio avverrà in collaborazione con l’albergo diffuso, struttura creata dalla comunità montana nel 2007, che si trova all’ingresso della borgata. 65 BIBLIOGRAFIA Acconci D. 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