Unità 1 La crisi della fisica classica e la quantizzazione dell`energia

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Unità 1 La crisi della fisica classica e la quantizzazione dell`energia
TOMO V LE ONDE
convenzione: i simboli in grassetto vanno frecciati
Modulo 2 La Fisica quantistica
Unità 1 La crisi della fisica classica e la quantizzazione dell’energia
Nubi del diciannovesimo secolo sulla teoria dinamica del calore e della luce (Nineteenth-Century
Clouds over the Dynamical Theory of Heat and Light) è il titolo di una conferenza tenuta nell’anno
1900 da Lord Kelvin, nella quale il fisico inglese pose in evidenza come la fisica del tempo, che noi
oggi chiamiamo fisica classica, fosse del tutto insufficiente a spiegare le osservazioni sperimentali
di determinati fenomeni. In particolare: la radiazione di corpo nero, di cui ci occupiamo in questa
Unità e i risultati dell’esperimento di Michelson e Morley (Æ pag. xxx) . Al volgere del secolo era
dunque chiara l’insufficienza della fisica classica e la conseguente necessità di trovare nuove strade.
Figura 0. Immagine da trovare
1.1 Successi e contraddizioni fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo.
La fine dell’Ottocento segna per la Fisica il raggiungimento di una fase dominata dalle certezze del
pieno successo raggiunto nella comprensione dei fenomeni macroscopici. In un quadro complessivo
che appariva maturo e anzi addirittura definitivo, come se tutto quello che vi era da scoprire fosse
stato in qualche modo raggiunto dall’uomo. La teoria dell’elettromagnetismo forniva infatti un
inquadramento teorico rigoroso, e ben verificato
Le leggi fondamentali e i fatti più importanti della
sperimentalmente, per tutti i fenomeni elettrici,
fisica sono stati tutti scoperti, e sono così ben
stabiliti che è assolutamente remota la possibilità
magnetici e luminosi; il calore e la temperatura
che vengano soppiantati a seguito di nuove scoperte.
trovavano eccellente interpretazione nelle teorie
Albert Michelson, 1899
statistiche; la meccanica, ormai da tempo, appariva
pienamente sistemata, mentre la gravitazione rendeva pieno conto dei fenomeni astronomici.
La fiducia nella validità universale di ciò che oggi chiamiamo fisica classica trovava del
resto pieno riscontro nei grandi successi delle applicazioni tecnologiche della fisica, che segnavano
una svolta della Rivoluzione industriale dopo lo sviluppo delle macchine motrici termiche: con la
diffusione degli impieghi dell’elettricità, in particolare nel telegrafo, nel telefono e
nell’illuminazione, con l’avvio delle comunicazioni radio a distanza e con molto altro ancora.
Cosa restava da investigare? Certamente occorreva una miglior comprensione dei fenomeni
a livello microscopico, che si ritenevano governati dalle stesse leggi dei fenomeni macroscopici,
così come del resto la stessa meccanica regola il moto dei corpi alla scala dell’uomo e quello degli
astri. E proprio questa è infatti la direzione in cui si muovono le ricerche in quegli anni.
A incrinare queste sicurezze, tuttavia, non mancavano alcuni sottili elementi di
contraddizione, riguardanti fatti che la fisica classica non era in grado di interpretare in alcun modo.
Fatti che erano destinati ad accrescersi negli anni, man mano che si sviluppava il programma di
ricerca riguardante la costituzione intima della materia e le interazioni fra energia e materia, e che
avrebbero poi condotto, come vedremo nel corso di questo Modulo, a una svolta senza precedenti
nella nostra comprensione della realtà fisica.
Perché gli spettri di emissione degli elementi nello stato di gas sono costituiti da righe
discrete, cioè da radiazioni con lunghezze d’onda ben determinate, caratteristiche dei diversi
elementi chimici (Æ Tomo 3, pag. xxx)? Come mai gli atomi sono stabili? cioè perché gli elettroni
in orbita attorno a un nucleo non irraggiano energia (Æ Tomo 4, pag. xxx), come è invece previsto
dalle leggi dell’elettromagnetismo? Altri problemi ancora, di alcuni dei quali ci occuperemo nei
paragrafi che seguono, riguardavano la distribuzione spettrale dell’energia irradiata da un corpo in
ragione della sua temperatura (§2) e i fenomeni relativi all’effetto fotoelettrico (§3): tutti, come si è
accennato, senza interpretazione nel quadro della fisica classica.
Tutta questa problematica è in realtà collegata da un sottile filo rosso, che in seguito si
rivelerà tanto decisivo quanto essenziale: la quantizzazione delle grandezze fisiche, rompendo così
la secolare tradizione per cui “natura non facit saltus”. Si era già trovato, prima con la scoperta
dell’elettrone e poi con l’esperienza di Millikan (Æ Tomo 3, pag. xxx), che la carica elettrica è
1
quantizzata, cioè può solo esistere in quantità multiple di una carica elementare. Ma si troverà poi
che ipotesi di quantizzazione di altre grandezze, in particolare dell’energia, erano assolutamente
necessarie per sanare questo insieme di contraddizioni.
1.2 Planck e la catastrofe ultravioletta.
Abbiamo più volte menzionato il fenomeno dell’emissione termica, cioè l’irraggiamento di energia
elettromagnetica da parte dei corpi solidi e liquidi in ragione della temperatura a cui essi si trovano,
che determina lo stato di agitazione termica dei loro costituenti elementari. Nella seconda metà
dell’Ottocento la ricerca sperimentale su questo fenomeno aveva condotto a stabilire le due leggi di
Stefan-Boltzmann e di Wien, che ora richiamiamo.
La prima di esse stabilisce che la potenza totale irraggiata dall’unità di superficie di un
corpo che si trova alla temperatura assoluta T è:
Perché l’emissività e di un corpo deve essere
(1)
P = σ e T4
esattamente uguale al suo coefficiente di
assorbimento a? Diamone una spiegazione per
assurdo. Se così non fosse, un corpo con e>a
perderebbe continuamente energia, raffreddandosi
fino a T = 0; uno con e<a acquisterebbe
continuamente energia, riscaldandosi fino a T = ∞.
dove σ = 5,670·10-8 W/(m2K4) è la costante di
Stefan-Boltzmann ed e rappresenta il potere
emissivo o emissività della superficie del corpo:
un numero compreso fra 0 e 1. Si era anche trovato che, a ciascuna lunghezza d’onda, l’emissività
di un corpo è esattamente uguale al suo coefficiente di assorbimento a. Al corpo emettitore ideale (e
= 1), dunque anche assorbitore ideale (a = 1), si era dato il nome di corpo nero (Æ figura 1), dato
che i corpi che assorbono tutti i colori della luce ci appaiono appunto neri.
Si era anche stabilito sperimentalmente come l’energia emessa fosse distribuita fra le
diverse lunghezze d’onda, o le diverse frequenze. Costruendo quindi dei grafici come quello
rappresentato in figura 2 e ricavando così la seconda legge, quella che stabilisce che il massimo
dell’emissione si trova a una lunghezza d’onda λmax inversamente proporzionale alla temperatura
assoluta:
(2)
λmax = A / T
dove la costante vale A = 2,898·10-3 m K.
Ma tutti i tentativi di dare una interpretazione teorica a questi risultati sperimentali,
ricorrendo alle leggi dell’elettromagnetismo e della termodinamica, erano caduti nel nulla. I fisici
inglesi J.W. Rayleigh e J.Jeans, in particolare, avevano ipotizzato che le pareti della cavità di un
corpo nero si comportassero come un insieme di cariche elettriche oscillanti, cioè come minuscole
antenne, ciascuna dotata di una frequenza caratteristica, che assorbissero ed emettessero onde
elettromagnetiche di frequenza corrispondente. Così procedendo, essi ottennero per la distribuzione
spettrale dell’emissione termica una legge teorica che si accordava con i dati soltanto nella parte
iniziale delle curve sperimentali (Æ figura A a pagina seguente), per il resto conducendo
all’assurdo per cui la potenza emessa sarebbe dovuta crescere indefinitamente al diminuire della
lunghezza d’onda, cioè all’aumentare della frequenza. Questa incongrua conclusione, cui fu dato il
nome di catastrofe ultravioletta perché la divergenza riguardava le lunghezze d’onda più piccole,
rappresentò il primo scricchiolio dell’edificio della fisica classica.
Il problema fu risolto nel 1900 dal fisico tedesco Max Planck (1858-1947), che per ciò
ricevette il premio Nobel nel 1918. Anche Planck, nella sua analisi, aveva preso l’avvio dai principi
della termodinamica e dal modello a cavità del corpo nero, ammettendo anch’egli che gli atomi
delle pareti della cavità si comportassero come minuscoli oscillatori. Per evitare la divergenza,
Planck ricorse però a una ipotesi che lui stesso considerò alquanto sgradevole, in quanto priva di
qualsiasi giustificazione nell’ambito della fisica del tempo. Cioè che l’energia di ciascuno di questi
oscillatori non potesse variare con continuità, ma potesse assumere soltanto valori discreti, multipli
di una quantità elementare che egli chiamò quanto di energia. Ammettendo quindi, come
inevitabile conseguenza, che fossero quantizzati allo stesso modo anche gli scambi di energia fra gli
oscillatori microscopici.
2
Nell’ipotesi di Planck, l’energia E0 del quanto non era però una grandezza fissa, come il
quanto di elettricità, cioè la carica dell’elettrone. Questa energia elementare era invece direttamente
proporzionale alla frequenza della radiazione, quindi inversamente proporzionale alla sua lunghezza
d’onda, secondo la legge:
(3)
E0 = hf = hc/λ
dove h è ciò che oggi noi chiamiamo costante di Planck, una delle costanti fondamentali della
fisica, il cui valore nelle unità del sistema SI è:
h = 6,62618·10-34 J s
(4)
La legge di distribuzione spettrale dell’emissione termica di un corpo nero ottenuta da
Planck grazie all’ipotesi dei quanti di energia è la seguente:
(5)
F ( f ,T ) =
8π f 2
hf
3
hf / kT
c e
−1
Planck trovò che questa legge (legge di Planck) era in perfetto accordo con i dati sperimentali, sia
con la distribuzioni spettrali, sia con le leggi di Stefan-Boltzmann e di Wien, per un particolare
valore della costante h, che è appunto quello dato sopra (ovviamente nelle unità usate all’epoca).
L’Esempio 1 che segue mostra che a questo valore di h corrispondono valori piccolissimi
dell’energia del quanto sulla scala delle energie ordinarie, ma non così su quella dei fenomeni
microscopici, almeno per quanto riguarda le radiazioni luminose e quelle di lunghezza d’onda
ancora minore, come si conclude esprimendo E0 in unità di elettrovolt. L’Esempio 2 mostra poi che
in condizioni ordinarie siamo ben lontani da poterci accorgere che l’energia è quantizzata.
Esempio 1. Calcoliamo l’energia E0 di un quanto.
Vogliamo calcolare in joule e in elettronvolt l’energia di un quanto alla frequenza delle onde radio
(1 MHz), a quella della luce arancione (λ = 600 nm) e a quella della radiazione X con λ = 0,12 nm.
Utilizzando la formula (3) e ricordando che 1 eV = 1,6·10-19 J, si ha nei tre casi:
E0(1 MHz) = 6,63·10-34×106 = 6,63·10-28 J = 6,63·10-28/1,6·10-19 eV = 4,14·10-9 eV
E0(600 nm) = 6,63·10-34×3·108/6·10-7 = 3,32·10-19 J = 3,32·10-19 /1,6·10-19 eV = 2,07 eV
E0(0,12 nm) = 6,63·10-34×3·108/0,12·10-9 = 1,66·10-15 J = 1,66·10-15 /1,6·10-19 eV = 10,4 keV
Esempio 2. Possiamo accorgerci che l’energia di un pendolo è quantizzata?
Consideriamo il pendolo con periodo T = 1s, costituito da una massa di 10 g che oscilla con
velocità massima v = 1 cm/s. L’energia di un quanto alla frequenza del pendolo è E0 = hf = 6,63·1034
×1 = 6,63·10-34 J. L’energia del pendolo è E = ½ mv2 = 0,5×0,01×(0,01)2 = 5·10-7 J, cioè pari a n =
E/E0 = 5·10-7/6,63·10-34 = 7,54·1026 quanti. Che sono talmente tanti, che nessuno si accorgerà mai se
ne manca qualcuno. In altre parole, l’energia del pendolo non ci appare affatto quantizzata.
Approfondimento 1. Quando la legge di Planck coincide con la legge di Rayleigh-Jeans.
La formula dello spettro del corpo nero ricavata da Rayleigh e Jeans applicando le leggi
della fisica classica è la seguente:
(A)
8π f 2
FRJ ( f , T ) = 3 kT
c
Essa conduce evidentemente alla cosidetta “catastrofe ultravioletta”, dato che la potenza irraggiata a
ciascuna frequenza è direttamente proporzionale al quadrato della frequenza, cioè inversamente
3
proporzionale al quadrato della lunghezza d’onda. E quindi l’energia emessa assume valori sempre
crescenti al diminuire di λ, tendendo all’infinito. A sua volta risulta infinita anche l’energia totale,
che è la somma di tutti i contributi alle diverse frequenze fra 0 e ∞ (cioè l’area al di sotto della
curva), in palese contrasto con legge sperimentale di Stefan Boltzmann oltre che con il buon senso.
Il fenomeno della divergenza al crescere della frequenza si osserva esaminando il grafico di
questa funzione, tracciato nella figura A assieme al grafico della funzione di Planck (5) per uno
stesso valore della temperatura. Si nota anche che le due funzioni coincidono in corrispondenza dei
valori più bassi della frequenza. Ciò si dimostra analiticamente, come è proposto nel Problema 3.
E se l’energia non fosse quantizzata? In tal caso il valore di h sarebbe piccolo a piacere e
allora la funzione di Planck (5) coinciderebbe esattamente con la funzione di Rayleigh-Jeans (A).
Se infatti calcoliamo il limite di hf /hfkT per h che tende a zero
e
−1
otteniamo kT, sicchè la (5), in queste condizioni, si trasforma nella
(A).
spettro “classico”
di Rayleigh-Jeans
Figura A. Distribuzione dell’intensità della radiazione dell’emissione termica al
variare della frequenza: a) secondo la legge Rayleigh-Jeans (curva rossa), (b)
secondo la legge di Plank (curva nera) che è in perfetto accordo con i dati
sperimentali.
(aggiungere sull’asse verticale la scritta: Distribuzione spettrale dell’intensità)
spettro di Planck
frequenza
Figura 1. Un modello concettuale assai intuitivo del corpo nero è quello di un forellino in
una cavità assorbente. Il forellino è “nero” perché qualsiasi radiazione vi penetri sarà
inevitabilmente assorbita dalla cavità dopo un certo numero di riflessioni sulle sue pareti
interne. Queste, se la cavità è ben isolata dall’esterno, si porteranno all’equilibrio assumendo
quindi
una temperatura uniforme e
irraggiando perfettamente verso l’esterno.
T = 1200 K
Figura 2. I grafici rappresentano come è
distribuita l’intensità della radiazione
dell’emissione termica a tre diverse temperature al variare della
frequenza. L’intensità complessiva aumenta assai rapidamente al
crescere della temperatura del corpo che irraggia; la frequenza a cui si
ha il massimo è direttamente proporzionale alla temperatura.
(aggiungere sull’asse verticale la scritta: Distribuzione spettrale
dell’intensità)
1000 K
800 K
0
frequenza
1.3 L’effetto fotoelettrico
Un altro fenomeno che la fisica classica non riusciva a interpretare con le sue leggi era l’effetto
fotoelettrico. Cioè l’emissione di elettroni da parte di un metallo investito da radiazione
elettromagnetica.
La prima osservazione, da parte di Heinrich Hertz, risale al 1887; si trovò in seguito che una
lastrina di zinco assumeva una carica positiva quando veniva colpita da luce ultravioletta. Dopo la
scoperta dell’elettrone da parte di Thompson nel 1897, il fenomeno venne attribuito all’emissione di
elettroni, estratti dal metallo grazie all’energia fornita
L’effetto fotoelettrico può verificarsi anche in
dalla radiazione elettromagnetica; e fin qui nessun
corpi non metallici, come nel caso delle polveri
problema.
lunari. Costituite da particelle minerali caricate
positivamente dalla radiazione ultravioletta
Le difficoltà sorgevano invece dalle particolari
solare, queste vincono la debole gravità lunare
modalità con cui il fenomeno si verificava; come
formando delle tenue nubi appena al di sopra
risultò dalle misure eseguite nel 1900 dal fisico
della superficie del nostro satellite.
tedesco Philipp von Lenard e in seguito da altri
sperimentatori, fra cui Millikan, utilizzando l’apparato sperimentale rappresentato schematicamente
nella figura 3. Il cuore dell’apparato è un tubo a vuoto, all’interno del quale si trova una lastrina di
metallo emettitore (E), che viene colpita da un flusso di radiazione ultravioletta, e un elettrodo
collettore (C) che rispetto al primo viene posto a una differenza di potenziale V di cui si può variare
4
sia il valore che il segno. La funzione dell’elettrodo collettore è quella di raccogliere gli elettroni
emessi dal metallo irraggiato, i quali scorrono nel tubo creando una corrente la cui intensità viene
misurata dall’amperometro A.
I grafici nella figura 4 mostrano come varia l’intensità della corrente al variare della
differenza di potenziale fra i due elettrodi, per un dato metallo emettitore e per una data frequenza
della radiazione incidente (che veniva resa approssimativamente monocromatica grazie a un
apposito filtro). Quando il potenziale del collettore è positivo rispetto all’emettitore, nel circuito
scorre una corrente la cui intensità cresce gradualmente con la tensione fino a raggiungere un valore
costante di saturazione, che è direttamente proporzionale all’intensità della radiazione incidente.
Invertendo il segno della tensione, la corrente si riduce fino ad annullarsi in corrispondenza di un
valore fisso, caratteristico del metallo emettitore, chiamato potenziale d’arresto.
La fisica classica spiega bene la proporzionalità fra la corrente di saturazione e l’intensità
della radiazione: a una maggior energia incidente e quindi assorbita dal metallo emettitore
corrisponderebbe infatti un maggior numero di elettroni liberati dal metallo emettitore e poi raccolti
dal collettore, che li attrae trovandosi a una tensione positiva rispetto all’emettitore. E spiega anche
il fatto che una frazione degli elettroni emessi venga raccolta dal collettore anche quando il suo
potenziale è debolmente negativo. Se infatti l’energia ceduta dalla radiazione al metallo è
sovrabbondante rispetto a quella necessaria per liberare degli elettroni, questi verrebbero emessi
con una energia cinetica pari all’eccesso e quindi potrebbero raggiungere il collettore anche quando
questo, trovandosi a un potenziale negativo, li respinge.
La fisica classica, invece, non riesce affatto a spiegare perché il valore del potenziale
d’arresto (Æ figura 4) non dipenda dall’intensità della radiazione ,aumentando la quale dovrebbe
aumentare anche l’energia cinetica degli elettroni emessi e quindi anche la loro capacità di
raggiungere il collettore, sebbene a tensione negativa, “risalendo” il campo elettrico fra i due
elettrodi.
E riesce ancor meno a spiegare l’altro importantissimo risultato sperimentale rappresentato
nella figura 5, che costituisce la sintesi di misure eseguite su metalli emettitori diversi illuminati con
radiazioni di frequenza diversa. I fatti essenziali rappresentati dal grafico sono due: 1) per ciascun
metallo esiste una frequenza di soglia per la radiazione, al di sotto della quale l’effetto fotoelettrico
si estingue, cioè non vengono emessi elettroni, ciò che avviene, si noti, indipendentemente
dall’intensità della radiazione incidente; 2) per ciascun metallo emettitore, il valore del potenziale
d’arresto, e quindi l’energia massima degli elettroni emessi, dipende linearmente dalla frequenza
della radiazione.
Nell’ambito della fisica classica, la presenza di una frequenza di soglia è del tutto
inesplicabile, dato che l’energia trasportata da qualsiasi radiazione elettromagnetica è direttamente
prioporzionale alla sua intensità. Sicchè si sarebbe dovuta casomai trovare una intensità di soglia
per il verificarsi dell’effetto fotoelettrico, al di sotto della quale l’energia ceduta dalla radiazione al
metallo fosse insufficiente a liberarne gli elettroni. E si sarebbe anche dovuto trovare che, a bassi
livelli di intensità della radiazione incidente, dovesse trascorrere un certo tempo prima
dell’emissione di elettroni, cioè quello necessario ad accumulare l’energia necessaria a liberarli,
vincendo le forze di legame. Ma ciò non è vero, dato che l’emissione fotoelettrica, quando avviene,
non presenta ritardi apprezzabili rispetto all’illuminazione del metallo.
In conclusione, l’elemento determinante dell’effetto fotoelettrico non sembrava essere
l’intensità della radiazione elettromagnetica incidente, ma piuttosto la sua frequenza; se si vuole
non la “quantità” di energia, ma invece la sua “qualità”.
Figura 3. Schema semplificato dell’apparato sperimentale usato per studiare l’effetto fotoelettrico. Il potenziometro P
permette di variare il valore e il segno della tensione applicata fra gli elettrodi C ed E, che è misurata dal voltmetro V.
L’amperometro A misura l’intensità i della corrente nel tubo a vuoto in funzione della tensione. Questa corrente è
costituita dagli elettroni che sono emessi dal metallo che costituisce l’elettrodo emettitore E quando viene colpito da
radiazione elettromagnetica (luce ultravioletta o di altra lunghezza d’onda) e poi raccolti dal collettore C.
(Adattare da Amaldi, La Fisica, vol. 3, pag. 308, disponendo il tubo verticalmente a sinistra e verticalmente a destra le
5
pile e il potenziometro, aggiungendo le scritte + e – agli estremi delle due pile, sostituendo la scritta S con P,
disegnando più piccoli gli elettroni e indicandoli con la scritta elettroni)
Figura 4. Intensità i della corrente misurata al variare della tensione
fra il collettore C e l’emettitore E nell’apparato in figura 3 in presenza
di radiazione monocromatica. Raddoppiando l’intensità della
radiazione, la corrente raddoppia. Notate che la corrente si annulla,
qualunque sia l’intensità della radiazione, quando il potenziale VCE
fra i due elettrodi assume il valore negativo VA, chiamato potenziale
d’arresto.
Figura 5. Il grafico rappresenta il valore del potenziale d’arresto in
funzione della frequenza della radiazione che provoca l’effetto
fotoelettrico in tre metalli diversi A, B, C. Si nota che il potenziale
d’arresto aumenta linearmente con la frequenza, con lo stesso
coefficiente nei tre casi. L’effetto fotoelettrico si annulla invece
quando la frequenza della radiazione è inferiore a un valore minimo
di soglia, caratteristico di ciascun metallo.
1.4 Einstein, i fotoni e l’interpretazione dell’effetto
fotoelettrico
Per spiegare l’effetto fotoelettrico fu necessario il genio di Albert Einstein; il quale nel 1905 ne
propose l’interpretazione oggi universalmente accettata, che nel 1921 gli valse il premio Nobel. La
teoria di Einstein è basata sull’ipotesi della quantizzazione dell’energia elettromagnetica, che egli
sostenne con piena convizione, cioè dando pieno senso fisico ai quanti di energia, a differenza di
Planck che si era trovato costretto ad escogitarli per sanare un problema altrimenti irresolubile.
Secondo Einstein infatti, la luce, e con essa qualsiasi radiazione elettromagnetica, è costituita da
pacchetti di energia proporzionale alla frequenza secondo la legge (3): E0 = hf. Questi pacchetti, in
seguito denominati fotoni, hanno massa a riposo nulla, viaggiano alla velocità della luce e
trasportano quantità di moto non nulla, anch’essa quantizzata e proporzionale alla frequenza:
(6)
p = E0/c = hf/c = h/λ
In condizioni ordinarie questo modello non è in contrasto con la teoria classica
dell’elettromagnetismo. Le radiazioni che costituiscono un’onda radio o un fascio di luce sono
infatti formate da un numero straordinariamente grande di fotoni, che si comportano
collettivamente come onde, la cui energia a tutti i fini pratici ci appare “continua” e non discreta.
Sebbene essa sia effettivamente tale a livello microscopico: l’energia, cioè, non è infinitamente
divisibile.
Esempio 3. I fotoni emessi da un telefonino
Vogliamo calcolare il numero di fotoni che un telefonino emette ogni secondo, se la potenza
irraggiata dalla sua antenna è P = 1 W alla frequenza di 1,8 GHz.
Dato che la potenza rappresenta l’energia irraggiata in 1 secondo, concludiamo dalla formula (3)
che il numero di fotoni dall’antenna del telefonino è: n = P/hf = 1/(6,63·10-34×1,8·109) = 8,38·1023
fotoni/secondo. Si tratta di un numero talmente grande da rendere impossibile accorgersi che
l’energia emessa è quantizzata.
Alla luce del modello di Einstein, l’interpretazione dell’effetto fotoelettrico diventa
immediata. Se le radiazioni elettromagnetiche sono costituite da quanti elementari, allora
l’interazione fra la radiazione e la materia non è collettiva, ma individuale, nel senso che la
cessione di energia avviene da parte di singoli fotoni nei confronti di singoli atomi, liberandone
elettroni quando la loro energia è a ciò sufficiente.
6
Chiamando allora lavoro di estrazione l’energia Ee che è necessaria per liberare da un
metallo un elettrone di conduzione, vincendo le forze elettrostatiche che lo legano agli ioni del
reticolo cristallino, si capisce che soltanto i fotoni dotati di energia E0 ≥ Eestr, cioè di frequenza:
(7)
f ≥ Eestr/h
sono in grado di liberare elettroni. Ciò spiega l’esistenza di una
frequenza minima di soglia (Æ figura 5), diversa per ciascun
metallo, perché l’effetto fotoelettrico possa verificarsi:
(8)
fmin = Eestr/h
Tabella 1. Lavoro di estrazione
Eestr di alcuni metalli
Cesio
2,1 eV
Calcio
2,9 eV
Zinco
3,6 eV
Alluminio 4,1 eV
Ferro
4,5 eV
Oro
5,1 eV
a cui corrisponde una lunghezza d’onda massima di soglia λmax = c/fmin = hc/Eestr.
L’eccesso di energia posseduto da un fotone rispetto a quanto occorre per liberare
l’elettrone viene ceduto all’elettrone stesso, che assume l’energia cinetica corrispondente, il cui
valore massimo, cioè in assenza di urti o di altri fenomeni dissipativi, è:
(9)
Ecmax = E0 – Eestr = h(f – fmin)
cioè un valore fisso ben definito per un dato metallo investito da radiazione di frequenza data.
L’energia cinetica Ec posseduta dall’elettrone gli permette di raggiungere l’elettrodo
collettore nell’apparato di figura 3 anche quando questo lo respinge perché si trova a un potenziale
negativo V rispetto al metallo emettitore. Il lavoro necessario a questo scopo è qeV, sicchè il
potenziale negativo massimo, in valore assoluto, del collettore per cui gli elettroni possono ancora
raggiungerlo è:
(10)
VA = Ecmax/qe = (E0 – Eestr)/qe
Che è appunto il potenziale d’arresto osservato sperimentalmente, anch’esso con valore fisso ben
definito per un dato metallo investito da radiazione di frequenza data. Il quale non dipende in alcun
modo dall’intensità della radiazione, come invece prevedeva la teoria classica.
La fisica intorno a noi 1. Le cellule fotoelettriche e il cinema sonoro.
L’effetto fotoelettrico venne presto usato per realizzare cellule fotoelettriche, cioè dispositivi
sensibili alla luce con uscita elettrica, usando una versione semplificata del tubo a vuoto in figura 3.
Si capisce che gli impieghi di questi oggetti sono innumerevoli, sia nell’industria sia nelle vita
civile: comandare l’accensione delle lampade stradali dopo il tramonto, permettere l’apertura
automatica delle porte quando qualcuno si avvicina, aprire il flusso dell’acqua quando si pongono le
mani sotto al rubinetto di un lavandino, e via dicendo.
L’impiego delle cellule fotoelettriche segna in particolare il passaggio, attorno al 1930, dai
film “muti” ai film sonori che conosciamo oggi. Il funzionamento di un film sonoro, con perfetta
sincronizzazione fra suoni e immagini, è basato sulla registrazione della colonna sonora su un
apposito spazio della pellicola che contiene i fotogrammi, come è mostrato nella figura A. La
colonna sonora è una striscia continua di larghezza (o di densità) variabile in relazione all’intensità
del suono. Durante la proiezione del film, la luce che passa attraverso la colonna sonora raggiunge
una cellula fotoelettrica, il cui segnale elettrico viene amplificato e inviato agli altoparlanti del
cinema, accompagnando così le immagini sullo schermo.
Figura A. La traccia continua nella destra della pellicola rappresentano la colonna sonora.
(immagine da trovare, spezzone di tre o quattro fotogrammi disposti in verticale)
7
Nota storica 1. 1905, l’annus mirabilis della fisica.
L’anno 1905 è segnato dalla pubblicazione, sulla rivista Annalen der Physik, di quattro lavori
fondamentali di Alfred Einstein, che affrontano i più delicati problemi della fisica del tempo,
proponendo idee che rivoluzionavano la visione dell’energia, della materia e del tempo, costituendo
un fondamento essenziale per le ricerche svolte in seguito. Per questo il 1905 è considerato l’anno
meraviglioso (annus mirabilis) della fisica, il cui centenario è stato ampiamente celebrato nel 2005.
Nel primo lavoro (Su un punto di vista euristico riguardante la generazione e la
trasformazione della luce) Einstein espone la sua teoria sulla natura corpuscolare della luce,
utilizzandola poi per interpretare l’effetto fotoelettrico. A proposito della luce egli scrive:
“L’energia, nella propagazione di un raggio di luce, non si distribuisce con continuità su spazi
sempre più estesi, ma consiste di un numero finito di quanti di energia localizzati in punti dello
spazio, che si muovono senza suddividersi e che possono essere assorbiti o generati soltanto come
singole entità”. E poi spiega così l’effetto fotoelettrico:”Secondo il punto di vista per cui la luce
incidente consiste di quanti di energia …, la produzione di raggi catodici (cioè elettroni) da parte
della luce può essere concepita nella maniera seguente. Lo strato superficiale dei corpi viene
penetrato da quanti di energia, la cui energia viene convertita almeno in parte nell’energia cinetica
degli elettroni. Il concetto più semplice è che un quanto di luce trasferisce tutta la sua energia a un
singolo elettrone …”.
. Nel secondo lavoro (Sul moto di piccole particelle nei liquidi in quiete che è richiesto dalla
teoria cinetico-molecolare del calore) Einstein affronta e risolve il problema del moto Browniano
(Æ Tomo, pag. zzz), scrivendo:”In questo lavoro sarà mostrato che, in base alla teoria molecolare
cinetica del calore, corpi di dimensioni microscopiche visibili sospesi in un liquido, a causa dei
moti termici molecolari, possono compiere moti di grandezze tali da poter essere facilmente
osservati con un microscopio. E’ possibile che i moti discussi qui siano identici con il cosidetto
moto Browniano molecolare; tuttavia, i dati a me disponibili su quest’ultimo sono così imprecisi
che non ho potuto farmi una opinione sulla questione …”. Si noti lo stile nel quale si alternano
sicurezza e problematicità.
Il terzo lavoro (Sull’elettrodinamica dei corpi in moto) è dedicato all’esposizione della
teoria della relatività ristretta (Æ Modulo 1, Unità 2), stabilendo in particolare i due postulati che ne
sono alla base: “ … le leggi dell’elettrodinamica e dell’ottica sono valide in tutti i sistemi di
riferimento nei quali valgono le equazioni della meccanica. Noi solleveremo questa congettura
(Principio di relatività, allo stato di postulato, e introdurremo anche un altro postulato, solo
apparentemente non riconciliabile con il precedente, cioè che la luce si propaga nel vuoto con una
velocità definita c, che è indipendente dallo stato di moto del corpo emittente”.
Nell’ultimo lavoro (L’inerzia di un corpo dipende dal suo contenuto di energia?) Einstein
introduce la nozione di energia di riposo e la famosa relazione di equivalenza fra massa ed energia,
E = m c2: “Se un corpo cede l’energia L nella forma di radiazione, la sua massa diminuisce di L/c2.
Il fatto che l’energia persa dal corpo diventi energia di radiazione evidentemente non fa differenza,
sicchè siamo condotti alla conclusione più generale che la massa di un corpo è una misura del suo
contenuto di energia; se l’energia cambia di L, la massa cambia nello stesso senso di L/(9×1020),
con l’energia misurata in erg (1 erg = 10-7 joule) e la massa in grammi”.
1879-1955
Figura. Nel 1905, quando pubblicò quattro lavori, tutti di portata eccezionale, Einstein aveva appena ventisei anni ed
era un oscuro funzionario dell’ufficio brevetti di Berna, in Svizzera.
(Immagine di Einstein)
1.5 L’effetto Compton evidenzia l’esistenza dei fotoni
Sebbene l’ipotesi dei quanti di energia avesse consentito di spiegare prima lo spettro del corpo nero
e poi l’effetto foelettrico, la maggior parte degli scienziati rimase a lungo scettica sull’esistenza
reale dei fotoni come componenti elementari della radiazione elettromagnetica. Ancora nel 1922,
8
per esempio, Niels Bohr affermava che “l’ipotesi dei quanti di luce non permette di far luce sulla
natura della radiazione”. Perchè questa idea venisse pienamente accettata furono decisivi i risultati
degli esperimenti sull’interazione fra i raggi X e la materia svolti dall’americano Arthur Holly
Compton (1892-1962), che egli pubblicò nel 1923 e per cui ottenne il premio Nobel nel 1927.
L’esperimento di Compton mostrava infatti che i raggi X, dopo aver colpito la materia,
subiscono un aumento della loro lunghezza d’onda, e quindi una diminuzione della loro frequenza,
e che questa variazione, inoltre, dipende dalla direzione dei raggi diffusi dopo l’interazione. Questo
fenomeno, chiamato effetto Compton, non trovava spiegazione nell’ambito della fisica classica,
per cui le onde elettromagnetiche, interagendo con la materia, non subiscono variazioni di
frequenza, che ne costituisce il carattere distintivo. E’ ben noto infatti che un fascio di luce colorata,
quando viene diffuso da un corpo, mantiene il suo colore, che ne rappresenta appunto la frequenza.
Chiamando λ0 la lunghezza d’onda del fascetto X incidente e λ1 quella dei raggi diffusi con
angolo α rispetto alla direzione iniziale, osservati con un rivelatore orientabile come mostrato nella
figura 6, Compton trovò sperimentalmente la legge:
(11)
Δλ = λ1 − λ0 = A (1 − cos α )
dove A è una costante, a cui in seguito egli diede pieno significato fisico.
Il fenomeno venne interpretato da Compton ammettendo che la radiazione X fosse costituita
da fotoni, ciascuno dei quali interagisce singolarmente con uno degli elettroni della materia; più
precisamente con gli elettroni liberi del materiale irraggiato (grafite, nell’esperimento originale), i
quali sono legati solo debolmente agli atomi, con energie di legame (dell’ordine dell’elettronvolt)
assai inferiori a quelle dei fotoni X. Si trattava quindi di urti fra fotoni ed elettroni in quiete. E se si
trattava di urti elastici, allora si sarebbe dovuta conservare sia l’energia che la quantità di moto.
La conservazione dell’energia impone che l’energia hf0 del fotone incidente si ripartisca fra
quella del fotone diffuso (hf1) e l’energia cinetica Ee acquistata dall’elettrone, supposto inizialmente
in quiete:
(12)
hf0 = hf1 + Ee = hf1 + ½ meve2
dove me è la massa dell’elettrone e ve il modulo della sua velocità dopo l’urto. Notiamo subito che
in effetti la frequenza, e quindi l’energia, dei fotoni diffusi risultava sperimentalmente inferiore a
quella dei fotoni incidenti, in accordo qualitativo con la (12).
Per applicare la conservazione della quantità di moto ricordiamo che la quantità di moto di
un fotone, particella priva di massa in moto alla velocità della luce, ha modulo dato dalla (6), p =
E/c = hf/c, con la direzione e il verso del moto della particella.
Chiamando p0 il modulo della quantità di moto del fotone incidente, p1 quello del fotone
diffuso e pe = me ve quello dell’elettrone dopo l’urto, α l’angolo fra la direzione del fotone diffuso e
quella d’incidenza, β l’angolo fra la direzione dell’elettrone dopo l’urto e quella del fotone
incidente, la conservazione della quantità di moto richiede che siano verificate le due seguenti
condizioni scalari, riguardanti le due componenti di tale grandezza (Æ figura 6). Per le componenti
secondo l’asse x si ha:
(13)
hf0/c = hf0 cosα/c + pe cos β
e per le componenti secondo l’asse y si ha, essendo nulla la quantità di moto del fotone incidente
secondo tale direzione:
(14)
0 = hf0 senα/c + pe sen β
9
Risolvendo il sistema costituito dalle tre equazioni (12), (13) e (14) si possono ricavare le grandezze
incognite f1, ve e β in funzione di f0 e di α. Si ottiene così il seguente risultato per la variazione di
lunghezza d’onda dei fotoni diffusi in funzione della loro direzione α:
(15)
Δλ = λ1 − λ0 =
h
(1 − cos α )
me c
cioè si ritrova la legge sperimentale (11) e si determina il valore della costante A che vi figura.
Notate che la variazione di lunghezza d’onda, e quindi di energia, del fotone è nulla quando α = 0,
cioè il fotone diffuso ha la stessa direzione di quello incidente, è massima quando α = π, cioè il
fotone rimbalza esattamente all’indietro. Facendo un paragone con un urto classico fra una massa in
moto e una in quiete, il caso α = 0 rappresenta l’assenza di urto per cui la massa in moto prosegue
imperturbata, il caso α = π rappresenta un urto centrale, che appunto provoca la massima variazione
di energia cinetica per la massa incidente.
La conclusione? Nell’effetto Compton si manifesta pienamente la natura corpuscolare del
fotone, come particella dotata di energia e di quantità di moto.
Figura 6. a) L’esperimento di Compton consisteva nell’invio di un fascetto ben collimato di raggi X monocromatici,
cioè di lunghezza d’onda ben determinata, contro un sottile strato di grafite, dove ciascun fotone interagisce con un
elettrone libero degli atomi del materiale, supposto inizialmente in quiete. Un rivelatore orientabile misurava poi la
lunghezza d’onda dei raggi X diffusi al variare dell’angolo α che essi formano rispetto alla direzione del fascio. b) Un
fotone X colpisce un elettrone, che si trova in quiete; c) Da ogni urto emergono, con direzioni diverse, un fotone con
lunghezza d’onda maggiore di quella iniziale e l’elettrone in moto.
(Adattare da Hecht, vol. 2, pag. 1031, modificata come segue: in a) la parte c) con le scritte: raggi X, λ0, grafite, fotone
diffuso, α, λ1, rivelatore; in b) la parte a) con le scritte fotone X, p0 = h/λ0, E0, elettrone libero; in c) la parte b) con le
scritte: p1 = h/λ1, α, β,
1.6 L’esperimento di Franck e Hertz e gli spettri atomici
I risultati di Planck e di Einstein avevano certamente dimostrato che l’energia delle onde
elettromagnetiche è quantizzata, ma poteva darsi che la quantizzazione fosse una caratteristica
peculiare della radiazione elettromagnetica e non riguardasse altre forme di energia. In realtà
l’ipotesi della quantizzazione dell’energia degli elettroni di un atomo era alla base del modello
atomico postulato da Bohr nel 1913 per interpretare i risultati sperimentali ottenuti da Rutherford
sull’atomo nucleare (Æ Tomo 3, Modulo 1, Unità 3). Ma si trattava di un modello interpretativo e
non di risultati sperimentali. Questi furono ottenuti nel 1914 dai fisici tedeschi Jakob Franck e
Gustav Hertz (nipote di Heinrich Hertz).
L’esperimento consisteva nello “sparare” elettroni di energia cinetica nota in una camera a
vuoto contenente vapori di mercurio e nel misurare l’energia degli elettroni dopo che avevano
l’avevano attraversata. Quando l’energia iniziale E0 degli elettroni era inferiore a una certa soglia,
che indichiamo con EHg, essa restava invariata dopo l’attraversamento. Quando invece era maggiore
della soglia, essa subiva una diminuzione pari all’energia di soglia; cioè, chiamando E1 l’energia
dell’elettrone dopo l’urto, si aveva:
(16)
E1 = E0 – EHg
e contemporaneamente si osservava l’emissione di radiazione elettromagnetica.
Ciò dimostrava che gli atomi di mercurio possono assorbire per urto soltanto una quantità
fissa di energia; in effetti non una soltanto ma più quantità fisse, come si trovava quando gli
elettroni possiedevano energia cinetica ancora più elevata. Il risultato s’interpreta ammettendo che
l’urto, fra l’elettrone incidente e uno degli elettroni più esterni di un atomo, conduca a portare
l’elettrone atomico da un livello di energia a uno di energia maggiore, entrambi quantizzati, come
del resto previsto dal modello di Bohr. E che dunque l’energia EHg persa dall’elettrone incidente
corrisponda a questo “salto” di energia dell’elettrone atomico. Il quale poi decade rapidamente,
ritornando al suo livello energetico iniziale, con l’emissione di un fotone di energia corrispondente
10
al “salto” di energia. E infatti: misurando l’energia persa dall’elettrone incidente si trova EHg = 4,9
eV; misurando la lunghezza d’onda della radiazione emessa nel processo si trova λ = 254 nm, a cui
corrispondono fotoni di energia pari a quella sottratta all’elettrone incidente e poi riemessa
dall’elettrone atomico eccitato; cioè di energia:
E = hc/λ = h = 6,63·10-34×3·108 /254·10-9 = 7,83·10-19 J = 7,83·10-19/1,6·10-19 = 4,89 eV.
La fisica intorno a noi 2. Lampade al mercurio fluorescenti e abbronzanti.
L’emissione di radiazioni elettromagnetiche di lunghezza d’onda ben determinata da parte di atomi
eccitati mediante una scarica elettrica è alla base del funzionamento delle lampade a scarica (Æ
Tomo 3, pag. xxx). Nel caso della lampade contenenti vapori di mercurio l’emissione avviene
soprattutto alla lunghezza d’onda di 254 nm, nella regione dell’ultravioletto. Questa radiazione
viene resa visibile nelle lampade fluorescenti, grazie all’impiego di sostanze, chiamate appunto
fluorescenti. Queste, quando sono colpite da fotoni di una data energia, li assorbono riemettendo
fotoni di energia più bassa, in particolare con lunghezze d’onda nel visibile.
Lampade a scarica al mercurio sono usate anche come lampade abbronzanti, grazie al loro effetto
sulla pelle, analogo a quello dell’ultravioletto contenuto nella radiazione solare. Ma in tal caso la
radiazione a 254 nm, fortemente abbronzante ma anche pericolosa per la salute, viene in larga
misura soppressa a vantaggio di radiazioni ultraviolette meno energetiche e assai meno pericolose,
anch’esse tuttavia in qualche misura abbronzanti (maggiori informazioni sul sito dell’Istituto
Superiore di Sanità: http://www.iss.it/pres/focu/cont.php?id=98&lang=1&tipo=3).
Le radiazioni emesse dalle lampade al mercurio trovano anche impiego nella sterilizzazione di
ambienti, oggetti, cibi e bevande, grazie alle proprietà germicide dell’ultravioletto.
Gli spettri atomici e l’atomo di Bohr
La forma particolare degli spettri delle radiazioni emesse dagli atomi di elementi allo stato di
vapore, che sono costituiti da un insieme di righe discrete, cioè comprendono soltanto determinate
lunghezze d’onda, aveva costituito a lungo un mistero per i fisici impegnati in questi studi (gli
“spettroscopisti”). Dovrebbe essere chiara ora quale sia l’interpretazione degli spettri atomici.
Queste radiazioni sono rappresentate dai fotoni aventi energie ben determinate, che vengono emessi
da parte di atomi eccitati: per urto come nell’esperimento di Franck e Hertz, grazie a una scarica
elettrica, oppure ad alta temperatura. L’eccitazione consiste nel portare un elettrone da un livello di
discreto di energia a un altro di energia maggiore, a cui segue poi, quando l’elettrone ritorna al
livello precedente, l’emissione di un fotone di energia corrispondente al “salto“ fra i due livelli.
E qui ricordiamo che il modello di Bohr prevede una molteplicità di livelli energetici per gli
elettroni di un atomo, a cui corrisponde una molteplicità di salti possibili e quindi di lunghezze
d’onda delle radiazioni emesse. E siccome questi livelli di energia sono diversi negli atomi di
elementi diversi, gli spettri degli atomi di ciascun elemento contengono particolari insiemi di righe.
Nel caso dell’atomo di idrogeno, per esempio, il modello di Bohr postula che l’elettrone
possa trovarsi nei livelli energetici di energia En = -13,6/n2 eV (il segno negativo indica che si tratta
dell’energia necessaria a liberare l’elettrone dall’atomo), dove il primo livello, quello
corrispondente a n = 1, rappresenta lo stato energetico “normale”, cioè quando l’atomo non è
eccitato. La figura 7 rappresenta i primi quattro livelli, indicando i “salti” possibili fra questi livelli,
da cui si possono ricavare le energie dei fotoni emessi in questi processi di decadimento e le
lunghezze d’onda delle radiazioni corrispondenti. In effetti,
considerando anche i livelli energetici superiori e quindi tutti i
salti di energia si ritrovano tutte le righe che costituiscono lo
spettro atomico dell’idrogeno.
Figura 7. I primi quattro livelli energetici dell’elettrone di un atomo di
idrogeno. Il livello inferiore rappresenta lo stato fondamentale (atomo non
eccitato). Le frecce indicano le transizioni che avvengono, quando l’atomo si
trova in uno stato eccitato, fra i livelli superiori e quelli inferiori, con
emissione di fotoni di lunghezza d’onda corrispondente al “salto” di energia.
11
Test di verifica
1) Parlando di “catastrofe ultravioletta” s’intende
Ο la pericolosità per l’uomo delle radiazioni ultraviolette
Ο la rapida crescita dell’intensità dell’emissione termica con la temperatura nella regione
dell’ultravioletto
Ο il paradosso per cui secondo la fisica classica l’intensità dell’emissione termica dovrebbe
aumentare senza limite al crescere della frequenza
2) Possiamo dire che un corpo è un “corpo nero” soltanto se esso è
O un emettitore ideale
O un assorbitore ideale
O un emettitore e un assorbitore ideale
3) Sottolineate gli errori che individuate nelle frasi seguenti.
Per poter interpretare gli spettri di assorbimento di radiazione elettromagnetica da parte dei
corpi, Einstein dovette ammettere che gli scambi di energia fossero quantizzati, cioè
avvenissero attraverso quanti di energia con energia direttamente proporzionale alla lunghezza
d’onda. Questa ipotesi non era in contrasto con la fisica classica.
4) L’energia di un quanto è
O inversamente proporzionale alla
frequenza
O indipendente dalla
O direttamente proporzionale alla
5) La prima introduzione della nozione di quanto di energia si deve a
Ο Planck
Ο Einstein
Ο Lord Kelvin
6) Vero o falso?
La bocca di un forno per cuocere la pizza è un ragionevole esempio di corpo nero
L’ipotesi dei quanti di energia trovò immediata accettazione da parte degli scienziati
La lunghezza d’onda di un quanto è direttamente proporzionale alla sua energia
Le dimensioni fisiche dalla costante di Planck sono le stesse dell’energia
L’energia di un fascio di luce può essere suddivisa in parti piccole a piacere
7) Un quanto di energia E0 = 3 eV corrisponde a radiazione
O infrarossa
O visibile
V
O
O
O
O
O
F
O
O
O
O
O
O ultravioletta
8) Il valore della costante di Planck, espresso in unità SI, è un numero
O straordinariamente grande
O dell’ordine dell’unità
O straordinariamente piccolo
9) L’energia di un quanto di radiazione X è
O molto maggiore di
O all’incirca uguale a
quella di un quanto di radiazione infrarossa
O molto minore di
10) L’energia dei singoli quanti che costituiscono un fascio di luce rossa, con λ = 700 nm è
O 17,8 eV
O 1,78 eV
O 0,178 eV
11) Due stazioni radio trasmettono con la stessa potenza (P = 10 kW) rispettivamente alle
frequenze di 89,7 e 103,2 MHz. Il numero dei fotoni emessi ogni secondo dall’antenna della
prima stazione trasmittente è
O maggiore di
O uguale a
O minore di
quello dei fotoni emessi dalla seconda
12) Nell’effetto fotoelettrico la natura dell’interazione fra energia e materia è
12
Ο individuale
O collettiva
O elastica
13) Esaminando la figura 5 si conclude che il lavoro di estrazione di un elettrone dal metallo C
è
O maggiore di
O uguale a
O minore di
quello del metallo A
14) L’energia cinetica massima dei quanti emessi da un metallo per effetto fotoelettrico dipende
O sia dalla natura del metallo che dall’intensità della radiazione
O sia dalla natura del metallo che dalla frequenza della radiazione
O sia dall’intensità che dalla frequenza della radiazione
15) Vero o falso?
V
F
O
L’effetto fotoelettrico si manifesta diversamente nei diversi metalli
O
L’ipotesi dei quanti di energia trovò immediata accettazione da parte degli scienziati O
O
La lunghezza d’onda di un quanto è direttamente proporzionale alla sua energia
O
O
La fisica classica non spiega perché, nell’apparato sperimentale di figura 3, l’intensità della
corrente sia direttamente proporzionale all’intensità della radiazione incidente
O
O
16) L’equazione fotoelettrica, che rappresenta l’energia cinetica Ec degli elettroni emessi per
effetto fotoelettrico, fu scritta da Einstein nella forma: Ec = E’ – E’’, dove E’ ed E’’
rappresentavano rispettivamente
Ο l’energia del fotone e il lavoro di estrazione
Ο l’energia del fotone e l’intensità della radiazione luminosa
Ο il lavoro di estrazione e l’energia del fotone
17) I quanti che costituiscono un fascio di luce monocromatica hanno energie
O tutte uguali
O diverse, ma con valori discreti
O distribuite nello spettro del visibile
18) Un fascio di luce di determinata intensità e lunghezza d’onda colpisce un metallo senza
produrre effetto fotoelettrico. Per ottenere l’emissione di elettroni dal metallo è necessario
O aumentare l’intensità del fascio
O diminuire la lunghezza d’onda della luce
O aumentare la lunghezza d’onda della luce
19) La quantità di moto di un fotone è
O direttamente proporzionale alla
O inversamente proporzionale alla
O direttamente proporzionale al quadrato della
sua energia
20) I fotoni diffusi dalla materia per effetto Compton hanno generalmente energia
O maggiore di
O uguale a
O minore di
quella dei fotoni incidenti
21) Correggete gli errori che individuate nelle frasi seguenti.
L’esperimento di Franck e Hertz mostra che gli atomi di mercurio possono assorbire per urto
quantità di energia variabili con continuità. Ciò si accompagna all’emissione di elettroni con
valori discreti di energia.
22) Nell’effetto Compton si conserva
13
Ο soltanto l’energia
Ο soltanto la quantità di moto
Ο sia l’energia che la quantità di moto
23) Nell’effetto Compton, l’angolo di diffusione, fra la direzione del fotone diffuso e quella del
fotone incidente, per cui l’elettrone bersaglio acquista la massima energia cinetica è:
Ο 0
Ο π/2
Ο π
24) La dimostrazione sperimentale della quantizzazione dell’energia degli elettroni di un atomo
si deve a
Ο Compton
Ο Franck e Hertz
O Bohr
25) Vero o falso?
V
F
La natura discreta degli spettri atomici fu dimostrata sperimentalmente da Bohr
O
O
Un elettrone, interagendo con la materia, può subire una perdita di energia di qualsiasi valore
O
O
Gli atomi di mercurio eccitati emettono tipicamente radiazione ultravioletta
O
O
L’effetto Compton dimostra sperimentalmente che i fotoni possiedono quantità di moto O
O
L’esperimento di Franck e Hertz è in accordo con il modello atomico di Bohr
O
O
26) Un fascetto di raggi X subisce l’effetto Compton producendo fotoni diffusi in varie
direzioni caratterizzate dall’angolo α che esse formano rispetto alla direzione d’incidenza.
Osservando i fotoni diffusi con angoli α crescenti si trova che la loro lunghezza d’onda
O aumenta
O resta costante
O diminuisce
27) Le energie degli elettroni di un atomo eccitato
O possono assumere soltanto determinati valori, cioè sono quantizzate
O possono assumere qualsiasi valore in un intervallo ben definito
O sono direttamente proporzionali all’energia dei fotoni che hanno eccitato l’atomo
28) Le lunghezze d’onda dei fotoni emessi da un atomo eccitato
O corrispondono all’energia liberata passando da un livello a uno meno energetico
O sono le stesse per gli atomi di tutti gli elementi
O una lente divergente
29) Nell’effetto Compton la variazione di lunghezza d’onda che subisce un fotone quando
viene diffuso da un elettrone libero di un metallo
O dipende fortemente
O dipende apprezzabilmente
O non dipende
dalla natura del metallo
30) Un fotone X con energia di 18 keV subisce un urto elastico contro un elettrone libero di un
metallo assumendo l’energia di 12 keV. L’energia cinetica dell’elettrone, dopo l’urto,
O resta invariata
O è 6 keV
O è 30 keV
31) La figura a fianco rappresenta tre livelli di energia di
un atomo. La radiazione emessa nel “salto” dal livello
2 al livello 1 corrisponde a
O luce rossa
O luce violetta
O luce ultravioletta
32) La luce laser rossa usata nella lettura dei CD, con lunghezza d’onda di 680 nm, proviene
dall’emissione di fotoni da parte di atomi che si diseccitano con un salto di energia di circa
O 200 eV
O 20 eV
O 2 eV
14
Problemi e quesiti
1. Spiegate brevemente in cosa consiste il problema della “catastrofe ultravioletta.
Risoluzione. I calcoli eseguiti dagli scienziati applicando le teorie classiche dell’elettromagnetismo e della
termodinamica, indicavano che la distribuzione spettrale dell’emissione termica doveva crescere senza limite
all’aumentare della frequenza, cioè per lunghezze d’onda decrescenti, in palese contrasto con i dati sperimentali oltre
che con il senso comume. Il termine ultravioletto indica genericamente le lunghezze d’onda più piccole.
2. Nella legge di distribuzione spettrale di Planck, data dalla formula (5), figura la frequenza
elevata al cubo a numeratore. Spiegate brevemente perché, nonostante ciò, la funzione di
Planck tende a zero al crescere della frequenza.
hf / kT
Risoluzione. La frequenza figura anche nel termine denominatore della funzione di Planck nel termine e
. Questo
termine, esponenziale nella frequenza, tende all’infinito assai più rapidamente di f3, sicchè al crescere di f la funzione
tende complessivamente a zero.
3. Dimostrate analiticamente che la legge di distribuzione spettrale di Rayleigh e Jeans, data
dalla formula (A) a pag.xxx coincide con la legge di Planck (5) per piccoli valori della
frequenza, cioè quando la frequenza tende a zero.
Risoluzione. Per piccoli valori della frequenza, tali da rendere piccolo rispetto all’unità l’argomento del termine
esponenziale al denominatore della (5), questo può essere sviluppato in serie come segue e hf / kT ≅ 1 + hf In tal caso
kT
hf
nella (5) si ha
≅ kT , sicchè essa viene a coincidere con la formula (A).
e hf / kT − 1
4. Calcolate la lunghezza d’onda alla quale la vostra emissione elettromagnetica presenta il
massimo e stabilite in quale banda si trova (radio, infrarosso, visibile, …).
Risoluzione. Ammettendo che la temperatura della pelle del corpo sia 37°C (in realtà sarà poco inferiore), si ha T = 273
+ 37 = 310 K. Applicando la legge di Wien, data dalla formula (2), si ottiene: λmax = A/T = 2,898·10-3/310 = 9,35 μm,
che cade nella banda dell’infrarosso.
5. Calcolate il numero dei fotoni solari che investono 1 cm2 della vostra pelle, esposta
perpendicolarmente ai raggi del Sole, sapendo che l’intensità della radiazione solare è I =
1000 W/m2 e ammettendo che la lunghezza d’onda media dei fotoni sia λ = 550 nm.
Risoluzione. L’energia che investe ogni secondo 1 cm2 di superficie disposta perpendicolarmente al Sole è ES =
1000×10-4 = 0,1 J. L’energia media dei fotoni solari, data dalla formula (4), è: E0 = hc/λ = 6,63·10-34×3·108/550·10-9 J =
3,62·10-19 J. Sicchè il numero di fotoni che ogni secondo investono la superficie anzidetta è n = ES/E0 = 0,1/3,62·10-19 =
2,76·1017.
6. Una buona lettura richiede all’incirca un flusso di 2·1013 fotoni/(cm2 s). Calcolate la
corrispondente intensità luminosa in W/m2 per un fascio di luce con lunghezza d’onda λ =
600 nm.
Risoluzione. L’energia dei singoli fotoni del fascio, in base alla formula (3), è: E0 = hc/λ = 6,63·10-34×3·108/600·10-9 =
3,32·10-19 J. Al flusso di 2·1013 fotoni/(cm2 s) = 2·1017 fotoni/(m2 s), corrisponde pertanto l’intensità luminosa: I =
3,32·10-19×2·1017 = 0,0664 W/m2.
7. Calcolate il numero di fotoni necessario per liquefare 1 mg di ghiaccio a 0°C quando è
illuminato da luce rossa (λ = 700 nm) e da luce violetta (λ = 350 nm) ricordando che il
calore latente dell’acqua nel passaggio di stato fra liquido e solido a 0°C è di 80 kcal/kg.
Supponete che in entrambi i casi solo il 10% dei fotoni incidenti vengano assorbiti dal
ghiaccio.
Risoluzione. L’energia necessaria a liquefare 1 mg di ghiaccio a 0°C è E = 80×10-6 kcal = 80×10-6×4187 J = 0,335 J.
L’energia di un fotone rosso, data dalla formula (3), è Erosso = hc/λ = 6,63·10-34×3·108/700·10-9 = 2,84·10-15 J. Il numero
dei fotoni rossi necessari, tenendo conto che solo il 10% viene assorbito, è: nrossi = 10 E/Erosso = 0,335/2,84·10-15 =
1,18·1014. Dato che l’energia di un fotone violetto è il doppio di quella di un fotone rosso, di questi ne occorre la metà
dei precedenti: nvioletti = 1,18·1014/2 = 5,90·1014.
15
8. Dimostrate che la formula (10) può essere posta nella forma caratteristica di una retta (y =
ax + b), dove y è il potenziale di arresto e x la frequenza della radiazione, in modo da
rappresentare i grafici nella figura 5. Esprimete analiticamente le costanti a e b.
Risoluzione. Esprimendo nella formula (10) l’energia dei fotoni in termini della frequenza, si ha: VA = hf/qe – Eestr/qe.
Questa corrisponde all’equazione della retta y = ax + b, con y = VA, x = f, a = h/qe, b = - Eestr/qe.
9. Utilizzate la legge di Planck, data dalla formula (5), per calcolare il rapporto fra l’emissione
termica nel violetto (λv = 350 nm) e quella nel rosso (λr = 700 nm) da parte di una
lampadina a incandescenza e del Sole, schematizzandoli per semplicità come due corpi neri
alle temperature di T1 = 3000 K e T2 = 6000 K.
Risoluzione. Le frequenze corrispondenti alle due lunghezze d’onda sono rispettivamente fr = c/λr = 3·108/700·10-9 =
4,29·1014 Hz, fv = 2fr = 2×4,29·1014 = 8,58·1014 Hz. Il rapporto R fra le emissioni alle due frequenze è:
−34
−23
F ( f v , T ) f v3 e hf r / kT − 1
e6,63⋅10 ×4,29·10 /1,38⋅10 T − 1
e 2,06·10 / T − 1
= 3 hf v / kT
= 8 6,6310
=
R (T ) =
8
−34
14
−23
4
F ( fr , T ) fr e
−1
e ⋅ ×8,58·10 /1,38⋅10 T − 1
e 4,12⋅10 / T − 1
14
4
Si ha pertanto: R(3000) = 8,3·10-3 e R(6000) = 0,25, indicando che l’emissione nel violetto relativa a quella nel rosso è
debolissima nella luce della lampadina, assai consistente in quella del Sole.
10. Alla distanza d = 2 metri da una antenna trasmittente per telefonia mobile, che irraggia
uniformemente la potenza di 10 watt alla frequenza di 1,8 GHz e che per comodità
supponiamo puntiforme, si trova una lastrina d’oro disposta perpendicolarmente alla
direzione dell’antenna. Ammettendo per assurdo che l’effetto fotoelettrico sia spiegato
dall’elettromagnetismo classico, calcolate il tempo necessario perché un atomo del metallo,
di raggio r = 144 pm, riceva dall’antenna l’energia necessaria a liberarne un elettrone.
Risoluzione. L’intensità della radiazione che incide sulla lastrina è I = P/(4πd2) = 10/(4×3,14×4) = 0,199 W/m2. La
sezione utile alla cattura di energia da parte di un atomo di oro è S = πr2 = 3,14×(144·10-12)2 = 6,51·10-20 m2. Dato che
il lavoro di estrazione di un elettrone dall’oro è (Æ tabella 1) è Eestr = 5,1 eV = 5,1×1,6·10-19 J = 8,16·10-19 J, l’intervallo
di tempo necessario per accumulare l’energia Eestr sarebbe: Δt = Eestr/(IS) = 8,16·10-19/(0,199×6,51·10-20) = 63 s.
11. Spiegate brevemente perché il calcolo proposto nel Quesito 10 è assurdo e con esso il
risultato del calcolo stesso.
Risoluzione. L’assurdità è almeno duplice, prima di tutto perché nessuno ha mai visto onde radio, o microonde,
produrre effetto fotoelettrico e poi perché l’effetto fotoelettrico, quando avviene, ha luogo in tempi brevissimi,
certamente assai inferiori ai 63 secondi calcolati nella risoluzione del quesito.
12. In molte sostanze, quando vengono esposte alla luce possono svilupparsi reazioni
fotochimiche, che sono attivate dall’assorbimento di fotoni (e questo è il motivo per cui il
vino viene riposto in bottiglie di colore scuro). Per ciascuna reazione esiste una soglia Ea,
chiamata energia di attivazione. Assumendo che una determinata molecola possa subire una
reazione di decomposizione quando assorbe un fotone di energia maggiore dell’energia di
attivazione, dimostrate che in queste reazioni, come per l’effetto fotoelettrico, esiste una
corrispondente frequenza di soglia per la radiazione luminosa.
Risoluzione. La dimostrazione è immediata: sostituendo nella formula (8) l’energia di attivazione della reazione
fotochimica all’energia di estrazione di un elettrone, si ottiene fmin = Ea/h.
13. La fotosintesi clorofilliana è costituita da una serie di reazioni fotochimiche e chimiche che
complessivamente conducono alla sottrazione di anidride carbonica dall’aria e alla sua
decomposizione in ossigeno, che si libera, e in carbonio, che va a costituire molecole
organiche necessarie alla vita delle piante. La decomposizione di una molecola di CO2
richiede l’assorbimento di 8 fotoni di luce visibile, mediamente con lunghezza d’onda di
600 nm. Valutate approssimativamente la massa del carbonio sottratto all’atmosfera ogni
secondo da 1 m2 di vegetazione, ammettendo che tutta la luce solare incidente (P = 1000
W/m2), supposta monocromatica con λ = 600 nm, venga effettivamente utilizzata nella
16
fotosintesi. Ricordate che il numero di Avogadro è nA = 6,02·1023 mol-1 e che la massa
atomica del carbonio è 12 u.
Risoluzione. Supponendo per semplicità monocromatica la radiazione solare, il numero dei fotoni al metro quadro al
secondo corrispondenti a 1000 W/m2 è n = P/E0 = Pλ/(hc) = 1000×600·10-9/(6,63·10-36×3·108) = 3,02·1021 m-2 s-1.
Pertanto, nelle ipotesi dell’enunciato, 1 m2 di vegetazione cattura ogni secondo n =3,02·1021 /8 = 3,77·1020 molecole di
CO2. Ciò corrisponde a n/nA = 3,77·1020/6,02·1023 = 6,23·10-3 grammoatomi e quindi a 12×6,23·10-3 = 0,0748 grammi
di carbonio.
14. Calcolate la frequenza di soglia per l’effetto fotoelettrico nel ferro e la frequenza della
radiazione per la quale il potenziale di arresto risulta di 2,5 volt.
Risoluzione. La frequenza di soglia per il ferro, con lavoro di estrazione (Æ Tabella 1) Eestr = 4,5 eV = 4,5×1,6·10-19 J =
7,2·10-19 J, si ottiene applicando la formula (8): fmin = Eestr/h = 7,2·10-19/6,63·10-34 = 1,09·1015 Hz. Al potenziale
d’arresto VA corrisponde l’energia massima qeVA degli elettroni liberati nell’emissione fotoelettrica grazie a fotoni di
energia E0 maggiore di quella di soglia. Dalla formula (9) si ha ricava E0 = Eestr + qeVA = 7,2·10-19 + 1,6·10-19×2,5 =
1,12·10-18 J. La frequenza corrispondente è f = E0/h = 1,12·10-18/6,63·10-34 = 1,69·1015 Hz, ovviamente maggiore di
quella di soglia.
15. Eseguendo misure sull’emissione fotoelettrica da parte di un metallo si trova che alla
radiazione con lunghezza d’onda λ1 = 400 nm corrisponde il potenziale d’arresto VA1 = 1,05
volt, a quella con lunghezza d’onda λ2 = 300 nm corrisponde VA2 = 2,02 volt. Utilizzando
questi dati, calcolate il lavoro di estrazione del metallo e individuatelo nella Tabella 1.
Risoluzione. Il lavoro di estrazione dal metallo si determina sottraendo l’energia necessaria a risalire il campo (qeVA) da
quella (E0) posseduta dai fotoni incidenti. Dalla formula (10) si ricava: Eestr = E0 - qeVA, ottenendo nei due casi: Eestr1 =
hc/λ1 - qeVA1 = 6,63·10-34×3·108/400·10-9 – 1,6·10-19×1,05 = 3,29·10-19 J = 3,29·10-19/1,6·10-19 eV= 2,06 eV; Eestr2 = hc/λ2
- qeVA2 = 6,63·10-34×3·108/300·10-9 – 1,6·10-19×2,02= 3,40·10-19 J = 3,40·10-19/1,6·10-19 eV= 2,12 eV. Prendendo il valor
medio delle due stime, si ha: Eestr = 2,09 eV. Esaminando la tabella 1, si conclude che assai probabilmente il metallo in
questione è il cesio.
16. Una pallina nera di massa m = 1g, sospesa a un filo, viene colpita per 1 ms da un fascetto
orizzontale di luce blu (λ = 450 nm) di potenza P = 1 mW, che essa assorbe completamente.
Calcolate la velocità della pallina al termine dell’impulso di luce.
Risoluzione. Il numero totale di fotoni che colpisce la pallina è n = PΔt/E0, con Δt = 10-3 s e E0 = hc/λ =
6,63·10-34×3·108/450·10-9 = 4,42·10-19. Si ha pertanto n = 10-3×10-3/4,42·10-19 = 2,26·1012. La quantità di modo di un
fotone, data dalla formula (6), è p = E0/c = 4,42·10-19/3·108 = 1,47·10-27 m kg/s. La quantità di moto totale ceduta
dall’impulso luminoso alla pallina che ne assorbe i fotoni è quindi: ptot = np = 2,26·1012×1,47·10-27 = 3,33·10-15 m kg/s.
Per la conservazione della quantità di moto si conclude che la pallina al termine dell’impulso si muoverà con la velocità
v = ptot/m = 3,33·10-15/0,001 = 3,33·10-12 m/s, che è del tutto trascurabile.
17. Un elettrone che colpisce un bersaglio materiale, dove si arresta a seguito di una rapida
decelerazione, irraggia radiazione elettromagnetica nella forma di uno o più fotoni. Questo
processo, una sorta di effetto fotoelettrico inverso, fu studiato da Einstein, che stabilì un
limite per l’energia dei fotoni. Calcolate l’energia massima, e la corrispondente lunghezza
d’onda minima, dei fotoni emessi quando gli elettroni colpiscono lo schermo di un
televisore, sapendo che la tensione di accelerazione usata nell’apparecchio è V = 15 kV.
Risoluzione. Ammettendo che tutta l’energia qeV di un elettrone si trasformi in quella di un fotone, si ha: E0 = qeV =
1,6·10-19×15·103 = 2,4·10-15 J. La lunghezza d’onda corrispondente si ottiene dalla formula (3):
λ = hc/E0 = 6,63·10-34×3·108/2,4·10-15 = 82,9 pm. Si tratta dunque di radiazione X.
18. Un fascetto di fotoni X con lunghezza d’onda λ0 = 10 pm colpisce un bersaglio interagendo
con gli elettroni liberi dei suoi atomi. Calcolate la lunghezza d’onda e l’energia dei fotoni
diffusi quando si osserva la radiazione diffusa a 90° rispetto alla direzione d’incidenza,
ricordando che la massa dell’elettrone è me = 9,11·10-31 kg.
17
Risoluzione. La lunghezza d’onda λl dei fotoni diffusi si ricava applicando la formula (15):
h
6, 63 ⋅10−34
(1 − cos(π / 2)) = 12, 4 pm , e quindi la loro energia è: hc/λ =
λ1 = λ0 +
(1 − cos α ) = 10 ⋅10−12 +
me c
9,11⋅10−31 × 3 ⋅108
6,63·10-34×3·108/12,4·10-12 = 1,6·10-14 J = 1,6·10-14/1,6·10-19 eV = 100 keV.
19. Calcolate il modulo della quantità di moto che un elettrone, inizialmente
in quiete, viene a possedere dopo l’urto con un fotone X con lunghezza
d’onda iniziale λ0 = 10 pm che viene diffuso a 90° (Æ Quesito 17). Nel
riquadro a fianco rappresentate le quantità di moto considerate nel problema, determinando
graficamente la direzione e il verso della quantità di moto acquistata dall’elettrone.
Risoluzione. La quantità di moto iniziale p0 del fotone ha evidentemente componente nulla nella direzione
perpendicolare a quella d’incidenza (p0y = 0); la sua componente secondo la direzione d’incidenza è data dalla formula
(6): p0x = h/λ0 = 6,63·10-34/10·10-12 = 6,63·10-23 kg m/s. La quantità di moto finale p1 del fotone
ha invece componente nulla secondo la direzione d’incidenza (p1x = 0), e non nulla nella
p1y
p0x
direzione perpendicolare a quella d’incidenza: p1y = h/λ1 = 6,63·10-34/12,4·10-12 = 5,35·10-23 kg
m/s. Per la conservazione della quantità di moto, la quantità di moto dell’elettrone dopo l’urto
2
2
pe
ha modulo: pe = p02x + p12y = ( 6,63·10-23 ) + ( 5,35·10-23 ) = 8,52 ⋅10−23 kg m / s .
20. Esaminate la formula (15), che rappresenta la variazione per effetto Compton della
lunghezza d’onda di un fotone che subisce un urto elastico con un elettrone, individuandovi
una lunghezza d’onda caratteristica del fenomeno di diffusione. Calcolate il valore di questa
grandezza in unità di pm.
Risoluzione. Dato che il termine (1-cosα) è evidentemente privo di dimensioni fisiche, è immediato concludere che il
fattore h/(mec) ha le dimensioni di una lunghezza e che gioca il ruolo di lunghezza d’onda caratteristica del fenomeno di
diffusione. Il valore numerico di questa grandezza, chiamata lunghezza d’onda Compton per l’elettrone è:
6,63·10-34/(9,11·10-31×3·108) = 2,43·10-12 m = 2,43 pm. Il suo valore esatto, noto con grandissima accuratezza, è
2,426310238·10-12 m con incertezza di appena 0,000000016·10-12 m.
21. Un fotone X di lunghezza d’onda λ0 = 30 pm viene diffuso per effetto Compton subendo
una variazione relativa della lunghezza d’onda (λ1 - λ0)/λ0 = 5% . Calcolate l’angolo α fra la
direzione di diffusione e quella d’incidenza, ricordando che la massa dell’elettrone è me =
9,11·10-31 kg.
Risoluzione. La variazione assoluta delle lunghezza d’onda del fotone è Δλ = 0,05λ0 = 0,05×30 pm = 1,5 pm. Dalla
formula (15) si ricava: cosα = 1 - Δλmec/h = 1 - 1,5·10-12×9,11·10-31×3·108/6,63·10-34 = 0,382. Da cui si ha: α = 67,6°.
22. Un fascio di radiazione X con lunghezza d’onda λ = 50 pm colpisce un bersaglio contenente
elettroni liberi. Calcolate la lunghezza d’onda dei fotoni X diffusi nella direzione che forma
l’angolo α = 45° con quella del fascio incidente, ricordando che la massa dell’elettrone è me
= 9,11·10-31 kg.
Risoluzione. Applicando la formula (15) si ha Δλ = h(1 – cosα)/(mec) = 6,63·10-34(1 – cos(45°))/(9,11·10-31×3·108) =
7,1·10-13 m. Pertanto la lunghezza d’onda dei fotoni diffusi è λ1 + Δλ = 50 + 0,71 pm = 50,7 pm.
23. Calcolate l’energia e la lunghezza d’onda dei fotoni emessi in occasione dei salti di energia
di un atomo di idrogeno rappresentati nella figura 7, stabilendo la banda (infrarosso, visibile,
ultravioletto) a cui appartengono.
Risoluzione. Le energie dei fotoni emessi nei “salti” indicati nella figura sono rispettivamente, da destra verso sinistra:
E2,1 = 13,6 – 3,39 = 10,2 eV, E3,1 = 13,6 – 1,51 = 12,1 eV, E4,1 = 13,6 – 0,85 = 12,8 eV, E3,2 = 3,39 – 1,51 = 1,88 eV,
E4,2 = 1,51 – 0,85 = 0,66 eV. Le lunghezze d’onda corrispondenti, calcolate ricavando dalla formula (3) la lunghezza
d’onda λ = hc/E = 6,63·10-34×3·108/(1,6×10-19 E) = 1,24·10-6/E, dove l’energia E è espressa in elettronvolt, sono
rispettivamente: λ2,1 = 1,24·10-6/10,2 = 122 nm, λ3,1 = 1,24·10-6/12,1 = 102 nm, λ4,1 = 1,24·10-6/12,8 = 96,9 nm, λ3,2 =
1,24·10-6/1,88 = 660 nm, E4,2 = 1,24·10-6/0,66 = 1879 nm. Le prime tre cadono nell’ultravioletto, la quarta nel visibile,
l’ultima nell’infrarosso.
18