attori locali, partecipazione e politiche di sviluppo

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attori locali, partecipazione e politiche di sviluppo
Filippo Celata ([email protected])1
ATTORI LOCALI, PARTECIPAZIONE E POLITICHE DI SVILUPPO
Dispensa per il seminario di Geografia dello Sviluppo presso il corso di
Laurea ECIS dell’Università di Roma “La Sapienza” – 10 aprile 2008
1. Introduzione
Si è diffusa negli ultimi anni la consapevolezza che qualsiasi intervento sul territorio, nelle politiche di
cooperazione allo sviluppo così come in altri ambiti, preveda il coinvolgimento di numerosi soggetti e
organizzazioni. Qualsiasi area di policy implica una qualche relazione interattiva e un qualche genere
di processo di governo delle relazioni tra una pluralità di attori: i governi locali, le popolazioni dei
paesi in via di sviluppo così come le diverse organizzazioni che rappresentano i loro interessi, le stesse
agenzie di aiuti e molti altri soggetti e istituzioni. Questa dimensione relazionale e pluri-soggettiva, in
moltissime aree di policy, è divenuta recentemente l’elemento centrale attorno a cui ruotano proposte
di istituzionalizzare e formalizzare maggiormente le relazioni tra attori nell’ambito di processi di
pianificazione aperti, decentrati, basati sulla collaborazione e sulla partecipazione. Il linguaggio della
governance è diventato alla fine degli anni ’90 la retorica dominante nell’analisi delle politiche
pubbliche, nei paesi sviluppati e sempre più anche nei paesi in via di sviluppo. La creazione di
strutture partenariali e forum partecipativi è ormai un necessario accessorio di qualsiasi piano di
intervento. La definizione di programmi e progetti si avvale sempre più frequentemente procedure di
informazione e consultazione. Le arene di policy sembrano essere diventate dei luoghi di discussione.
Il coinvolgimento degli attori locali nella gestione del territorio ha diverse dimensioni e giustificazioni.
La partecipazione ha innanzitutto un’utilità strumentale, perché permette di ottenere informazioni sul
contesto locale e definire una strategia di intervento più efficace. Si tratta in questo caso di passare dai
tradizionali interventi di sviluppo guidati dall’offerta, le cui priorità sono stabilite dalle organizzazioni
di aiuti, ad interventi guidati dalla domanda e dalle effettive necessità della popolazione locale. La
partecipazione può avere anche la funzione di legittimare una strategia di policy o ridurre
preventivamente i conflitti dovuti alla sua attuazione. Il coinvolgimento degli attori locali ha anche un
ruolo costruttivo, perché permette alle comunità locali di decidere autonomamente secondo quali
priorità verranno gestiti i processi di trasformazione territoriale, di appropriarsi della strategia di
intervento, e di avere a disposizione strumenti per il controllo democratico della politica. Il
coinvolgimento degli attori locali può avere funzioni di negoziazione o mediazione, risoluzione dei
conflitti, inclusione sociale, mobilitazione o costruzione del consenso. L’apertura dei processi
decisionali ha infine un’importanza intrinseca e rappresenta un obiettivo diretto: si tratta di incentivare
la collaborazione e il rafforzamento del capitale sociale, la costruzione di istituzioni, l’apprendimento
collettivo e le capacitazioni (empowerment), e promuovere la partecipazione democratica dei cittadini.
La partecipazione non è solo un mezzo per aumentare l’efficacia delle politiche, ma è essa stessa un
loro obiettivo: “lo sviluppo è libertà” (Sen 2000).
Queste affermazioni, che nella loro astrattezza sono non solo condivisibili, ma perfino entusiasmanti,
devono però essere calate nella realtà e inserite nel quadro delle effettive innovazioni procedurali
introdotte nei sistemi di intervento nei Paesi cosiddetti in via di sviluppo, e nel contesto territoriale nel
quale questi sistemi vengono utilizzati. Nelle prossime pagine si vedrà in che modo l’idea di
‘partecipazione’ si è diffusa all’interno dei paradigmi dello sviluppo economico e come questa si sia
tradotta in specifiche politiche e pratiche di intervento.
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Un ringraziamento particolare a Daniele Paragano e Marco Morellato che, nell’ambito della preparazione della
loro tesi di laurea, hanno collaborato con me nella realizzazione di questo paper.
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2. Partecipazione e politiche di sviluppo
Nell’ambito della cooperazione allo sviluppo la consapevolezza che sia necessario un adeguato
coinvolgimento dei beneficiari degli interventi non è affatto nuova. Molto diverse sono però le
interpretazioni su cosa si debba intendere per coinvolgimento, quali siano i soggetti da coinvolgere e
con quali finalità. All’interno delle grandi istituzioni internazionali come la Banca Mondiale o
l’UNDP, da alcuni decenni si presta molta più attenzione alle capacità istituzionali e organizzative dei
soggetti beneficiari. Sempre più diffusa è la prassi di utilizzare parte del supporto esterno per
accrescere le capacità tecniche dei soggetti istituzionali locali. Il coinvolgimento di soggetti nongovernativi (la cosiddetta società civile) si è diffuso notevolmente a partire dagli anni ’70 per motivi
diversi, e in questo modo acquista un ulteriore obiettivo, quella di promuovere la partecipazione. Si
sono introdotti inoltre modelli di intervento che prevedono, accanto alle attività più propriamente
oggetto di intervento. una serie di attività di informazione e coinvolgimento degli attori locali. Si
riconosce che l’intervento sul territorio non può essere visto come una sequenza necessaria di atti: la
sua riuscita implica l’attività di un gran numero di soggetti che devono essere coinvolti, informati e
ascoltati, attraverso forum partecipativi, partenariati (partnership) e altri strumenti di governance.
L’introduzione nel dibattito sullo sviluppo del concetto di ‘partecipazione’ è relativamente recente.
L’idea si diffonde durante gli anni ’70 e ’80 soprattutto per opera delle Organizzazioni non
governative (ONG) che negli stessi anni acquisiscono un ruolo crescente nell’ambito del sistema di
aiuti internazionali e promuovono un approccio più incentrato sui reali bisogni delle popolazioni e
sulle loro autonome capacità di prendere parte e portare avanti una strategia di sviluppo economico e
sociale. Presso la Banca Mondiale nel dicembre 1990, sotto la spinta di alcune ONG, viene istituito il
Gruppo di Lavoro sulla Partecipazione che di fatto sancisce l’ingresso dell’approccio partecipativo
nelle politiche della Banca.
In termini teorici lo sviluppo economico viene interpretato nel corso dei decenni sempre meno come
una faccenda esclusivamente ‘economica’. Le critiche al modello tradizionale riguardano il suo
carattere tecnicistico, universalistico e ‘eurocentrico’, il riduzionismo, l’economicismo e il
determinismo di stampo neo-positivistico che caratterizza i modelli interpretativi utilizzati nel dibattito
sullo sviluppo. La componente politica e istituzionale acquisisce un discreto rilievo soprattutto negli
anni ’90, nell’ambito di un più generale ripensamento del rapporto tra la dimensione economica dello
sviluppo e le sue dimensioni sociali, culturali, ambientali e, appunto, politiche. L’aiuto allo sviluppo
era tradizionalmente visto come ‘istituzionalmente neutrale’: si riteneva necessario semplicemente
colmare il gap di risorse, tecnologie, competenze e infrastrutture per permettere ai PVS di
intraprendere lo stesso percorso di modernizzazione seguito dalle nazioni industrializzate.
Il dibattito negli anni ’90 ha invece enfatizzato l’importanza di variabili politiche e istituzionali: i
programmi di aiuto sono efficaci solo se vengono attuati in un contesto caratterizzato da buone
politiche (Burnside-Dollar 1997). La definizione di cosa debba intendersi per ‘buone politiche’ è
declinata soprattutto in termini macro-economici: il riferimento sono le riforme di stampo neo-liberista
del cosiddetto Washington consensus sul cui contenuto si è svolto gran parte del dibattito sullo sviluppo
economico negli anni ‘90. L’adozione di buone politiche macro-economiche viene promossa attraverso
l’introduzione di sistemi di ‘condizionalità’: è necessario condizionare i paesi riceventi all’adozione di
determinate condotte e le agenzie di sviluppo devono per questo selezionare i beneficiari degli aiuti
preferendo paesi che rispondano a certi criteri pre-determinati o che adottino particolari riforme.
I sistemi di condizionalità, come detto, in una prima fase riguardano principalmente variabili di
politica economica. Più recentemente sono state incluse anche variabili di tipo politico, sintetizzabili
nell’adozione di procedure e di istituzioni tipiche delle democrazie pluraliste. I criteri di selettività
sono individuati dalle stesse istituzioni internazionali e perfino misurati attraverso la predisposizione
di particolari set di indicatori2. Questi riguardano: il grado di decentramento amministrativo e politico,
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La Banca Mondiale ha predisposto su uesti temi dei veri e propri sistemi di monitoraggio che consentono, annualmente, di
stimare degli indicatori cosiddetti di ‘governance’. Si veda il Worldwide Governance Research Indicators Dataset (World
Bank 2002) e il Database on Political Insititutions (World Bank, Keefer P. et al. 2002). Si veda anche il progetto POLITY
(http://www.cidcm.umd.edu/inscr/polity/index.htm#data).
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la tutela dei diritti di proprietà, la lotta alla corruzione, l’efficacia della macchina amministrativa, il
rispetto dei diritti civili, l’adozione di politiche di apertura internazionale, la stabilità politica, ecc.. La
predisposizione di luoghi di partecipazione e coinvolgimento dei cittadini rientra fra queste variabili.
La stilizzazione di un modello istituzionale univoco che caratterizza un buon sistema politico è molto
problematica, perché non prende in considerazione la diversità dei sistemi istituzionali di questi paesi e
promuove, ancora una volta, l’adozione di soluzioni ‘occidentali’ e euro-centriche, nella convinzione
che “i paesi sviluppati abbiano già trovato il migliore programma istituzionale per lo sviluppo e che
questo sia applicabile trascendendo dalle culture nazionali e dalle circostanze” (Evans 2004).
Qualunque sia il loro contenuto, rimane il problema di come promuovere l’adozione di buone politiche.
L’utilizzo di sistemi di condizionalità ex-ante e di selettività si rileva spesso inefficace, sia perché è
difficile da parte dei donatori alterare i tradizionali criteri di distribuzione degli aiuti a favore di paesi
buoni, sia perché l’opera di promozione delle riforme può avere successo solo se c’è già da parte dei
paesi riceventi una predisposizione alla loro adozione. L’obiettivo deve per questo essere, secondo
alcuni autori, quello dell’appropriazione da parte dei beneficiari della strategia di riforma che viene
promossa. “Il miglioramento dei sistemi di policy e di governance non dovrebbe essere considerato una
pre-condizione per lo sviluppo e per l’aiuto allo sviluppo, ma come un obiettivo in sé” (Pronk 2001).
Le riforme politico-istituzionali, ancora più delle riforme economiche, non possono essere imposte
dall’alto, ma devono essere costruite dal basso insieme alle istituzioni locali.
Nella loro versione forte la discussione delle relazioni tra partecipazione e cooperazione mette in
discussione sia il modo in cui gli aiuti vengono distribuiti verso il basso, sia il modo in cui gli attori
locali possono influenzare e esprimere la loro voce, verso l’alto, riguardo al contenuto delle strategie di
sviluppo. Invece di imporre dall’esterno un modello istituzionale standardizzato le istituzioni
internazionali dovrebbero promuovere dall’interno lo sviluppo di istituzioni politiche inclusive (Sen
2000, Evans 2004). “Le istituzioni devono svilupparsi localmente, sulla base dell’esperienza
disponibile, della conoscenza locale, e della sperimentazione” (Rodrik 1999). La partecipazione degli
attori locali non avrebbe solo una funzione strumentale di accrescere l’efficacia degli interventi, ma
anche la funzione costruttiva di permettere ai beneficiari di esprimere le proprie preferenze e di
diventare parte attiva nei processi di sviluppo. La partecipazione ha inoltre, come detto, l’importanza
intrinseca di promuovere la democrazia, l’autodeterminazione sociale e di promuovere l’inclusione di
gruppi e soggetti minoritari ed esclusi.
3. Gli attori della partecipazione
Posto che sia necessario promuovere il coinvolgimento attivo dei beneficiari nella programmazione e
nell’attuazione delle politiche di sviluppo, chi sono questi beneficiari? In altre parole, quali sono i
soggetti e gli attori da includere in un percorso di partecipazione e di coinvolgimento?
La cooperazione allo sviluppo è tradizionalmente una faccenda inter-governativa che coinvolge in
primo luogo il paese donante e il paese ricevente. E’ naturale quindi che inizialmente, e tutt’ora, i
principali soggetti politici coinvolti siano gli Stati a cui gli aiuti vengono concessi. Lo stesso termine
partnership, oggi diffuso soprattutto nell’ambito degli esperimenti locali di pianificazione
collaborativa o partecipativa, viene introdotto originariamente per intendere la partnership tra Paese
donante e Paese ricevente, soprattutto nell’ambito della definizione dei programmi nazionali di
intervento.
I reali beneficiari finali delle politiche di aiuto sono, tuttavia, le popolazioni di questi Paesi, i gruppi
sociali e le comunità locali a cui concretamente si rivolge l’intervento. La diffusione degli approcci
partecipativi prende anzi origine, come detto, da una generale sfiducia circa l’affidabilità dei
tradizionali clienti della cooperazione allo sviluppo. Il processo di formazione degli stati-nazionali nei
Paesi in via di sviluppo, più in generale, ha portato in molti casi all’istituzione di apparati statali
deboli, se non addirittura corrotti, e con una scarsa legittimazione politica. Il governo centrale non
riesce ad essere espressione e a dare adeguata rappresentanza ad una popolazione che si suddivide tra
gruppi sociali delimitati sulla base di etnia, religione, status. Non può essere quindi demandato al
governo centrale, in molti casi, il compito di promuovere la partecipazione della popolazione. Il
governo è, inoltre, solo uno tra i diversi stakeholders.
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Stakeholder significa letteralmente ‘portatore di interessi’, e con questo termine si tendono ad indicare
tutti i soggetti (persone, gruppi, entità o organizzazioni) che possono avere una influenza sulla
gestione dell’intervento o sui suoi risultati, in positivo o in negativo. Vi sono incluse le comunità a cui
si rivolge l’intervento così come lo stesso staff di progetto, e tutti coloro che supportano, avversano e
influenzano l’ambiente nel quale viene attuato il programma. La diffusione di approcci partecipativi e
collaborativi è esplicitamente mirata all’allargamento della platea degli attori che sono stati
tradizionalmente protagonisti del sistema di cooperazione, e in particolare i governi nazionali, a favore
di attori non statali (come la cosiddetta società civile) e attori locali (come i governi locali o le
organizzazioni di comunità).
Il ruolo di questi attori ‘altri’ acquista valore nell’ambito del dibattito sui fallimenti dello Stato e
sull’inaffidabilità e corruzione dei tradizionali clienti governativi (World Bank 1997), che a sua volta
fornisce una legittimazione alla sempre più diffusa tendenza ad agire in questi paesi tramite
organizzazione locali o meglio, molto più spesso, organizzazioni non-governative (ONG). Queste
organizzazioni avrebbero un vantaggio di prossimità e un maggior radicamento territoriale delle
agenzie di aiuti e delle stesse strutture politiche locali, e consentirebbero quindi di raggiungere più
facilmente i gruppo sociali beneficiari dell’intervento. Sebbene in alcuni casi, nel dibattito sullo
sviluppo, il termine società civile viene considerato sinonimo di ‘organizzazioni non governative’,
esistono molte altre tipologie di organizzazioni e di attori politici.
E’ a questo punto necessario fare una precisione. Quando si parla di attori ci si riferisce infatti ad attori
organizzati, e quindi a vere e proprie organizzazioni. Nel dibattito su partecipazione e sviluppo e in
generale quando si usa il termine ‘partecipazione politica’, ci si riferisce invece all’apertura dei
processi decisionali alla partecipazione popolare. La partecipazione individuale ha in realtà dei limiti
che corrispondono ai limiti di applicabilità della cosiddetta ‘democrazia diretta’. Questa può trovare
applicazione solo in ambiti limitati per estensione territoriale, limitati per numero di aderenti, con una
scarsa differenziazione tra i partecipanti, con compiti relativamente stabili e semplici e un buon livello
di educazione e cultura individuale. La partecipazione individuale può essere un utile riferimento
teorico, ma sul piano pratico è anacronistica e illusoria. In società complesse e istituzionalizzate il
rapporto politico tra i cittadini e le istituzioni è sempre più mediato da organizzazioni. La politica non
è più un dibattito fra individui o uno scontro tra classi sociali: “sono ormai le organizzazioni gli
effettivi cittadini delle democrazie odierne” (Schmitter 2000).
Il sourcebook della Banca Mondiale sulla partecipazione (World Bank 1996) mostra chiaramente
come il tema può portare a controversie e semplificazioni:
“quando abbiamo iniziato a preparare il Sourcebook, assumevamo che avremmo scritto sulla partecipazione
popolare, e in particolare sulla partecipazione dei poveri (…) che spesso non hanno voce nel processo di
sviluppo, nonostante siano loro i reali beneficiari. Ma, non appena abbiamo cominciato a documentare i casi di
studio, abbiamo notato che accanto ai poveri è alle persone svantaggiate direttamente coinvolte, negli interventi
della Banca Mondiale esistono una serie di altri stakeholders. Questi possono condizionare il risultato degli
interventi, ed esserne condizionati; per questo la loro partecipazione è determinante. Abbiamo anche notato – nei
casi studio – che finanziatori e pianificatori di interventi di sviluppo devono lavorare insieme e attraverso potenti
stakeholder, per venire incontro ai bisogni della gente povera. I tentativi di scavalcare questi potenti stakeholder
comportano forti opposizioni da parte loro (…). Per questo abbiamo spostato l’attenzione dalla partecipazione
popolare alla partecipazione di tutti gli stakeholders rilevanti nel processo di sviluppo” (Banca Mondiale 1996).
Gli autori del sourcebook hanno scoperto una realtà comune a chiunque si avventuri in esperimenti di
questo tipo: cercavano individui e si sono trovati di fronte a delle organizzazioni. Se si analizzano gli
strumenti operativi di decentramento e apertura dei processi decisionali, si può notare una certa
uniformità. I modelli di partecipazione, anche a scala locale, riguardano sempre soggetti organizzati,
non necessariamente espressione della volontà popolare, ma in qualche modo rappresentativi di
interessi, più o meno diffusi.
Nelle prossime pagine si analizzerà più dettagliatamente il ruolo di alcune delle diverse tipologie di
attori organizzati che più frequentemente vengono coinvolti nelle politiche di sviluppo. Si vedranno
quali sono le diverse definizioni e declinazioni che nel corso del tempo sono state utilizzate in questo
ambito, e come ciascuna di esse sottintenda un particolare interpretazione o teoria sulla natura e sul
ruolo della partecipazione all’interno dei processi di sviluppo economico.
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3.1 LA SOCIETA’ CIVILE
Il concetto di società civile è divenuto negli anni ’90 il tema centrale attorno a cui ruotano gran parte
degli schemi interpretativi discussi fino ad ora, così come qualsiasi dibattito sulla governance,
l’innovazione dei sistemi di policy o la democrazia. Le definizioni del concetto sono abbastanza vaghe
da comprendere tipi diversissimi di organizzazioni: associazioni volontarie, enti religiosi, club o
comitati, gruppi di pressione, gruppi di interesse, associazioni corporative, partiti politici, sindacati e
associazioni imprenditoriali, mezzi di informazione, movimenti di opinione (Flyvberg 1998).
Per società civile non si intende quindi nessun tipo di organizzazione specifica, ma piuttosto l’insieme
di gruppi creati per promuovere interessi collettivi, e che agiscono all’esterno e in contrapposizione
allo stato. “Ferguson (1867) vedeva nella società civile un’alternativa desiderabile sia allo stato di
natura che all’individualismo esasperato dell’emergente capitalismo. Hegel (1821) sosteneva che la
società civile auto-organizzata dovesse essere bilanciata e ordinata dallo stato, per fare in modo che
non difendesse solo i propri interessi e contribuisse al bene comune. (…) Toqueville (1835) ha
enfatizzato il volontarismo, lo spirito di comunità e l’esistenza di associazioni indipendenti come una
protezione contro la dominazione della società da parte dello stato” (Lewis 2002). Nel dibattito attuale
la nozione si è diffusa prevalentemente in seguito alle ricerche di Putnam (1993), per il quale la società
civile è costituita da gruppi solidaristici e volontari, formali e informali, la cui associazione è basata su
legami orizzontali, fiducia reciproca e spirito cooperativo. La definizione utilizzata è quindi molto
simile a quella utilizzata da Toqueville nella sua ben nota descrizione delle virtù del sistema politico e
istituzionale che sostiene la democrazia negli Stati Uniti.
Il concetto di società civile è entrato così nel dibattito sullo sviluppo come qualcosa di intrinsecamente
benigno, anche se strutturalmente fragile, che possa e debba essere sostenuto, promosso, o perfino
costruito. “Rafforzare la società civile come una fonte di potere contrapposto - i partiti politici, i
sindacati, i gruppi di consumatori, le think-tank, e una varietà di altre organizzazioni non governative
(…) - è un elemento importante della strategia per attuare riforme democratiche significative” (Stiglitz
2002). L’analisi recente ha messo tuttavia in discussione la rappresentazione di una società civile
distinta e eventualmente contrapposta allo stato. In molti contesti, ad eccezione delle democrazie
liberali anglo-sassoni, non è mai esistita una separazione netta tra stato e società civile (soprattutto nei
paesi dove prevalgono modelli corporativi). In altri casi, come l’Africa, il concetto Toquevilliano di
società civile perde addirittura di significatività.
Nonostante la vaghezza che circonda il termine si è diffusa nei Paesi occidentali l’idea che la società
civile debba essere sempre più coinvolta nei processi decisionali e nella gestione delle politiche e della
politica. Alcuni di questi gruppi non hanno oggi solo un influenza indiretta sul governo, ma
partecipano attivamente ai processi decisionali. La loro influenza si esercita in forme più o meno
istituzionalizzate lungo l’intero ciclo di policy, dalla formulazione all’attuazione.
Questa idea della società civile è divenuta, in molte aree di policy, una legittimazione al
coinvolgimento di alcune specifiche tipologie di organizzazioni che, sebbene possano essere
considerate parte della società civile, non la rappresentano per intero. Questa interpretazione parziale
del termine società civile non è in nessun caso più evidente come nella cooperazione allo sviluppo.
Qui la società civile è molto spessa intesa come sinonimo di organizzazioni non-governative, che
spesso non sono neanche espressione della comunità locale, e la cui attività acquista in questo modo
l’ulteriore legittimazione di rafforzare la democrazia. I governi locali in alcuni casi contrastano
l’attività di queste ONG non perché queste minaccino dal basso le strutture di potere vigenti, ma
perché vedono in queste una forma di ingerenza dall’alto e di violazione della propria sovranità da
parte delle istituzioni internazionali e dei governi che le finanziano. Questa critica coglie un
paradosso: la società civile può agire come potere contrapposto se è indipendente dall’autorità. In che
modo allora l’autorità può pensare di sostenere le organizzazioni non governative, senza
compromettere la loro indipendenza?
In generale le organizzazioni della società civile possono agire sia come forma di contrapposizione, sia
come forma di legittimazione dei rapporti di potere esistenti, soprattutto quando intrattengono con
questi poteri delle relazioni di tipo sinergico. Quando queste relazioni sono addirittura di tipo
remunerativo (o contrattuale), queste organizzazioni possono essere considerate semplicemente come
agenzie. Esse possono avere un vantaggio di prossimità rispetto al contesto di intervento, soprattutto
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se hanno un forte radicamento territoriale, e quindi possono essere determinanti nelle situazioni di
emergenza, negli interventi che abbiano una dimensione sociale, nelle strategie di riduzione della
povertà, ecc. ..
Ma la loro attività non è necessariamente favorevole allo sviluppo di istituzioni politiche democratiche
e alla promozione della partecipazione dei beneficiari. Il modo con il quale le organizzazioni di aiuti
agiscono nei paesi in via di sviluppo attraverso le ONG, in nome della democratizzazione e per conto
della società civile, rischia invece a volte di avere l’effetto opposto. È un modo con il quale le
organizzazione internazionali possono “passare sopra al parere dei governi” e - piuttosto che portare il
potere decisionale più vicino ai cittadini – avocarlo direttamente a sé (Rist 1997).
Fig.1 – Numero di Organizzazioni non-governative per Paese, 2000
Fonte: elaborazione su dati UIA 2000 (riportato in UNDP 2002)
3.2. LE ORGANIZZAZIONE DI COMUNITA’ (CBO)
Una ‘community-based organization’ (CBO) è un’organizzazione che riunisce un insieme di persone
che vivono tra loro vicine e che condividono determinati interessi. Le CBO, a differenza della gran
parte delle organizzazioni non-governative, fanno riferimento più esplicitamente a soggetti che sono
diretta espressione della società locale.
Anche in questo caso il termine sottintende un ampio insieme di organizzazione e gruppi tra loro molto
diversi: gruppi che condividono la comune proprietà di risorse, organizzazioni di produttori, comitati
funzionali multi-settoriali come comitati di sviluppo dei villaggi o comitati di sviluppo municipale,
comitati funzionali mono-settoriali come comitati per la salute, per l’istruzione, ecc.. Si può trattare
quindi di istituzioni tradizionali, come per esempio i capi-villaggio, che sono peculiari delle realtà
socio-politiche africane, oppure possono essere ‘associazioni’ che mutuano un modello più tipicamente
occidentale, come le associazioni di cittadini, di lavoratori, di donne, le associazioni etniche, le
associazioni religiose, ecc. .
Possono essere incluse non solo organizzazioni formali, e cioè aventi un riconoscimento legislativo e
politico ufficiale, ma anche le cosiddette organizzazioni informali tra le quali, per esempio, possono
rientrare le elite locali. Il termine CBO coincide quindi largamente con il concetto di società civile, ma
rimanda più esplicitamente ad una dimensione territoriale e locale. A questa scala la nozione di società
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civile appare ancora più sfumata, comprendendo organizzazioni, associazioni di tipo Tocquevilliano ma
anche singoli leaders di diversa estrazione, come le autorità tradizionali, che soprattutto nelle aree rurali
si ergono a rappresentanti di gruppi, comunità, villaggi, in una complessa maglia di relazioni di potere e
forme di rappresentanza che, paradossalmente, è molto difficilmente inseribile all’interno di confini
territoriali.
Le origini e i meccanismi di regolazione interna di queste organizzazioni possono essere allo stesso
modo molto diversi. In molti casi, soprattutto all’interno delle realtà rurali, tendono a rispecchiare
l’organizzazione sociale della comunità stessa. In questi casi non si può parlare di organizzazioni nel
senso formale del termine, ma piuttosto di singoli leaders spesso non eletti ma che acquisiscono il
titolo in base all’età, all’appartenenza a determinate famiglie o attraverso particolari metodi.
Organizzazioni molto potenti sono in alcuni casi associazioni tipo consorzi (per esempio le
associazioni di utilizzatori di risorse idriche o forestali, le organizzazioni di pescatori o di agricoltori).
Ci possono esse organizzazioni di rappresentanza di comunità etniche, linguistiche, enti religiosi e
anche associazioni volontarie, con mezzi ed obiettivi assai modesti in verità, come i comitati cittadini,
le associazioni di donne, ecc.. In altri casi queste organizzazioni vengono create, spesso da figure
esterne alla comunità, con lo scopo esplicito di gestire parte degli aiuti internazionali.
Molto diversa è quindi sia la rappresentatività di questi soggetti, sia la loro struttura organizzativa, sia
la loro dimensione geografica. Nell’ottica del coinvolgimento di questi soggetti nelle politiche di
sviluppo un notevole vincolo è determinato dalla loro dimensione organizzativa. Per svolgere una
funzione nell’ambito delle politiche di sviluppo le CBO devono avere una buona organizzazione
interna, sufficienti competenze tecniche e organizzative e uno status giuridico adeguato.
In assenza di una vibrante società civile organizzata è necessario, innanzitutto, promuovere il
cosiddetto ‘diritto all’organizzazione’: promuovere la nascita di organizzazioni che rappresentino il più
ampio insieme possibile di interessi locali e di interessi sociali, assicurarsi che questi gruppi siano
autorizzati legalmente e siano in grado, tecnicamente, di interagire effettivamente con partner esterni, e
infine assicurarsi dell’equità delle relazioni tra i membri del gruppo e della trasparenza del processo di
formulazione delle decisioni, in modo tale che quanto espresso dai rappresentanti del gruppo sia
effettivamente rappresentativo dei bisogni e degli interessi della comunità.
3.3. I GOVERNI SUBNAZIONALI
Il ruolo dei governi subnazionali dei Paesi in via di sviluppo, e quindi delle autorità politiche e
amministrative regionali e locali, è divenuto in questi decenni sempre più importante nell’ambito dei
programmi di aiuto, e la loro funzione è molto spesso, come si vedrà, esplicitamente collegata al
dibattito sulla partecipazione.
Negli anni ’80 e ’90 numerosi paesi, sviluppati e in via di sviluppo, grandi e piccoli, democratici e
autoritari, hanno attuato riforme di decentramento del sistema di governo delegando funzioni e
autonomia politica ad entità politiche sub-nazionali. Nel corso degli anni ’90 le riforme di
decentramento, vengono associate più spesso, anche se in alcuni casi solo a parole, alla concessione di
autonomia politica e a riforme complessive dei sistemi di governo. Tutto il dibattito sul tema del
decentramento, precedentemente affrontato per lo più come un problema di efficacia e di efficienza
amministrativa, viene collegato più esplicitamente a tematiche di tipo politico, a processi di
democratizzazione e di evoluzione del rapporto tra cittadini e Stato in una società complessa.
Riforme di decentramento sono state avviate negli ultimi 25 anni in quasi tutti i Paesi dell’Unione
Europea. Nel 2001 i Paesi più o meno federalisti (44) coprivano il 60% delle popolazione mondiale.
Secondo una stima del 1994 dell’UNDP e della World Bank, 63 dei 75 paesi in via di sviluppo con più
di 5 milioni di abitanti attuano forme di trasferimento di potere politico a governi locali autonomi
(Dillinger 1994). Il ruolo delle istituzioni internazionali è stato in questo fondamentale: la WorldBank
tra il 1986 e il 2000 ha avviato programmi di supporto al decentramento in 74 Paesi (Shah-Thompson
2004) e, come si è visto, ha incluso il grado di decentramento tra gli indici di buon governo. Sono
molte le riforme di decentramento attuate recentemente, a partire dagli anni ’80. Tra questi molti Paesi
latino-americani, molti degli Stati ex-comunisti, compresa la Russia, paesi asiatici come la Tailandia,
il Pakistan, l’Indonesia, le Filippine e perfino la Cina, e anche Stati intrinsecamente centralistici come
quelli africani (Ebel-Yilmaz 2002).
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E’ necessario distinguere tra differenti tipologie e dimensioni del decentramento, che non sempre
vengono portate avanti simmetricamente:
1) Il decentramento fiscale assegna ai governi locali la possibilità di provvedere autonomamente
alla copertura dei costi sostenuti per la fornitura di beni e servizi alla collettività.
2) Il decentramento amministrativo ( a volte chiamato ‘deconcentrazione’): in questo caso si ha un
trasferimento del potere amministrativo in alcuni settori di policy, e a volte di personale
amministrativo, tra il livello più alto verso i livelli più bassi nel sistema politico.
3) Decentramento democratico ( a volte detto ‘devoluzione’): con devoluzione si intende il
trasferimento di fondi, potere e responsabilità dai livelli più alti del sistema politico in favore di
governi sub-nazionali eletti direttamente dalle popolazioni locali.
Nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, la necessità di agire attraverso il coinvolgimento di entità
politiche subnazionali viene giustificata dalla necessità di aumentare l’efficacia e l’efficienza degli
interventi grazie alla possibilità di diversificare e mirare l’azione amministrativa alle specifiche
esigenze e caratteristiche di ogni regione, di diminuire la distanza tra ente decisore e destinatari degli
interventi, di consentire una migliore conoscenza del contesto nel quale si svolge l’azione, e infine di
ampliare le possibilità di partecipazione dei cittadini alle scelte pubbliche. A partire dal contributo
classico di Tiebout (1956) sono numerosi gli autori che hanno sostenuto che il governo locale è
maggiormente efficiente del governo centrale, sia perché conosce meglio le preferenze dei cittadini, sia
perché può meglio adattare la propria azione amministrativa alle esigenze specifiche di ogni regione. Il
governo locale avrebbe migliori incentivi, dal momento che è più facilmente controllabile da parte della
comunità ed è sottoposto alla competizione delle altre regioni che possono attrarre investimenti, risorse
e perfino popolazione, nel caso i cittadini decidano di migrare esercitando la prerogativa democratica di
votare con i piedi (Tiebout 1956). Il decentramento aumenta i flussi di informazione tra governo e
società in entrambe le direzioni, facilita il coordinamento, abbassa i costi di transazione e aumenta la
flessibilità operativa.
Queste assunzioni sono state tutte contestate sia a livello teorico, sia sulla base dell’osservazione della
realtà (Prud’homme 1995, Ribot 2002, Ebel-Yilmaz 2002, Crook 2003). Non esiste nessuna relazione
univoca tra decentramento ed efficacia amministrativa o efficienza, e tanto meno tra decentramento,
democrazia e opportunità partecipative della popolazione. I sostenitori del decentramento riconoscono
che spesso le riforme non hanno ottenuto risultati così brillanti e hanno creato o rafforzato vecchie e
nuove forme di esclusione sociale. Propongono infatti riforme di decentramento democratico che
prevedano anche strumenti di inclusione e di coinvolgimento della popolazione e della società civile.
“La soluzione agli ostacoli e alle patologie del decentramento non è la centralizzazione, ma
l’empowerment”, e in ogni caso: “i governi centralistici possono essere più o meno efficienti, ma sono
intrinsecamente meno democratici. Solo se il potere politico su alcuni temi e funzioni governative
viene devoluto ai livelli più bassi di autorità, democraticamente elette, il governo può essere
veramente responsabile, rappresentativo e controllabile” (Diamond 1999).
Il tema si ricollega in questo modo al dibattito sulla partecipazione. L’approccio partecipativo e le
politiche di decentramento sono tra loro strettamente collegate al punto che la stessa Banca Mondiale
parla di una loro ‘relazione simbiotica’. I sostenitori del decentramento indicano nelle elezioni locali
democratiche un necessario complemento agli strumenti di partecipazione e inclusione, e i
partecipazionisti sostengono che solo all’interno di unità politiche di ridotte dimensioni sono
applicabili strumenti efficaci di coinvolgimento della cittadinanza.
3.4. SINDACATI E ASSOCIAZIONI IMPRENDITORIALI: IL MODELLO CORPORATIVO
Il ruolo di attori come sindacati, associazioni imprenditoriali e altri cosiddetti partner sociali non è in
genere molto ampio nell’ambito delle politiche di sviluppo. La loro analisi consente però di cogliere i
tratti salienti di un particolare modello di relazioni sociali è di regolazione della rappresentanza e della
partecipazione: il modello di tipo corporativo. Nel modello corporativista le relazioni tra attori sono
maggiormente formalizzate e stabili che in altri modelli. Le procedure di negoziazione assumono
carattere sistematico e comprendono attori con ruoli definiti. L’autorità decisionale crea espressamente
dei luoghi di concertazione con l’obiettivo esplicito della mediazione tra portatori di interessi, che essa
8
stessa riconosce tali. L’obiettivo è quello di ottenere un accordo, attraverso la mediazione e la
negoziazione.
I modelli corporativi, a differenza dei modelli pluralisti (prossimo paragrafo), sono di tipo chiuso e
composti da un numero limitato di attori: prevalentemente partiti politici, sindacati e associazioni
imprenditoriali. Queste organizzazioni “riconosciute o autorizzate (se non create) dallo Stato sono
dotate di un monopolio di rappresentanza deliberativa all’interno delle rispettive categorie” (Schmitter
1977). Uno dei vantaggi del modello corporativo è che più e ampio il gruppo di interesse, maggiore è
la probabilità che l’organizzazione non agisca solo in nome del proprio specifico tornaconto, e che i
gruppi “internalizzino i costi delle politiche inefficienti e siano quindi incentivati (…) ad attribuire un
certo peso all’interesse della società nel suo complesso” (Olson 1982). Al contrario quando i gruppi
sono molti, in competizione tra di loro e basati su forme di associazionismo volontario, come nel
modello pluralista, è probabile che questi difendano gli interessi particolari dei propri membri,
marginalizzando i gruppi sociali esclusi, che non hanno espressione nella società civile organizzata, e
gli interessi di tipo diffuso.
E’ vero però che l’inclusività e la legittimità degli interessi corporativi è oggi messa seriamente in
discussione dalla segmentazione del mercato del lavoro e dalla globalizzazione. Il modello corporativo
si sviluppa, più in generale, in un contesto particolare (l’Europa continentale) e all’interno di un
sistema socioeconomico caratterizzato dalla produzione industriale di tipo fordista. Esso è
difficilmente applicabile al di fuori di questi contesti ed entra in crisi nel momento in cui il sistema
delle imprese perde le sue caratteristiche di stabilità e inclusività.
Le strutture di concertazione sussistono ancora e anzi si diffondono e acquistano nuovi obiettivi. La
loro funzione cambia: relazioni tradizionali di tipo complementare, sono sostituite da relazioni
sinergiche (Evans 1997). L’obiettivo non è più la negoziazione, la mediazione o la redistribuzione di
reddito, ma piuttosto la creazione di reddito e la cooperazione. Questi tavoli devono ora coinvolgere
una più ampia gamma di attori e di interessi, una più ampia gamma di obiettivi, e strutturarsi su
diverse scale geografiche.
3.5. GRUPPI DI INTERESSE (E MOVIMENTI SOCIALI): IL MODELLO PLURALISTA
La nozione di gruppo di interesse è tipica della concezione pluralista, che a sua volta rimanda alla
rappresentazione di società altamente differenziate, in grado di auto-organizzarsi e con un alta densità
associativa. I gruppi di interesse sono “organizzazioni di carattere permanente e dotate di personale a
tempo pieno che si specializzano nell’opera di individuazione, promozione e difesa degli interessi,
influenzando e contestando le autorità” (Schmitter 1992). Gli interessi rappresentati possono essere di
tipo micro-corporativo, ma anche interessi diffusi. “In questo caso la distinzione tra gruppi e
movimenti (sociali) si appanna” (Raniolo 2002). Al pari dei movimenti i gruppi utilizzano strumenti
indiretti di influenza politica. Queste forme di influenza indiretta policy-related sono:
ƒ La protesta : essa è lo strumento tipico dei movimenti sociali.
ƒ La pressione: la nozione di pressione è paradigmatica della concezione pluralistica. Per pressione
si intende la possibilità di influenzare le decisioni pubbliche in maniera indiretta, attraverso il ricorso a
sanzioni negative o positive.
Il paradosso della concezione pluralista classica è che da una parte la società non è altro che il
complesso dei gruppi che la compongono, ma i gruppi di interesse non sono coinvolti direttamente nel
processo decisionale. Il dibattito può vivere nella società civile, nelle attività di lobby, negli organi di
informazione e nella ‘pubblica opinione’. Queste forme di influenza indiretta hanno però un impatto
determinante: l’autorità di governo diverrebbe una sorta di arbitro incaricato di conciliare gli interessi
in contrasto. Lo stesso Stato è costituito da gruppi in competizione, come i partiti. Le politiche
pubbliche sono quindi il risultato della rivalità e della collaborazione tra gruppi che cercano di operare
in favore dell’interesse collettivo dei propri membri.
I pluralisti non sostengono che ciascun gruppo sociale abbia la stessa capacità di influenza sul
governo3, ma mostrano un certo ottimismo sulla possibilità che “le risorse, l’informazione e i mezzi
3
Le teorie neo-pluraliste, per esempio, sostengono che il gruppo che rappresenta gli imprenditori ha una posizione prioritaria
perché è l’unico canale di comunicazione con le imprese, determinanti per garantire la crescita del reddito e degli
investimenti (Lindbolm 1979).
9
della comunicazione politica siano ampiamente disponibili per tutti i cittadini, che i gruppi formino
una serie di centri di potere equivalenti all’interno della società e che tutte le voci legittime potranno
essere, e saranno, ascoltate” (McLennan 1989).
L’obiettivo dei pluralisti non è quello di garantire a tutti i gruppi sociali l’inclusione e l’accesso nel
processo decisionale, ma quello di animare un dibattito nel quale ciascuno abbia una voce. La spinta a
formalizzare sempre più questi momenti di confronto ha coinciso con un lento processo di
disintegrazione delle forme di identificazione sociale e di erosione delle istituzioni nelle quali si era
cristallizzata l’azione collettiva fino ad almeno agli anni ’70. In una società sempre più complessa è
difficile che ciascun interesse abbia una voce. I conflitti sociali devono essere gestiti il più possibile in
maniera preventiva. La discussione e la mediazione possono ridurre l’incertezza e contrastare la
progressiva erosione di legittimità e perdita di efficacia del potere pubblico.
Sul piano della teoria politica, a partire dagli anni ’60 diverse analisi che criticavano la concezione
pluralista, nella sua dimensione normativa, ma che ne riconoscevano la sua capacità esplicativa, in
particolare la nozione di gruppo di interesse, hanno sviluppato interessanti descrizioni di come i
sistemi decisionali funzionano nella realtà: network tematici, triangoli di ferro, comunità di policy,
schemi corporativi, clientelari, burocratici, ecc. (Van Waarden 1992). Questi networks si possono
presentare in forme fortemente istituzionalizzate, come nel caso delle ‘comunità politiche’ (policycommunities) e degli schemi corporativisti, o essere di tipo informale e indiretto, come nel caso delle
concezioni pluraliste e delle ‘reti tematiche’. Il punto centrale di questi schemi interpretativi (si veda il
paragrafo 6) è che il grado di influenza di ciascun gruppo sul processo decisionale è regolato, a
prescindere da qualsiasi norma e regola che stabilisca il libero accesso di tutti i cittadini ai processi
decisionali pubblici, dai criteri di differenziazione dei gruppi, dalla loro dimensione organizzativa,
dalle loro risorse, dalla tipologia degli interessi rappresentati e dal loro grado di interesse per le
tematiche oggetto di decisione.
4. I livelli della partecipazione e la ‘democrazia deliberativa’
L’introduzione di una dimensione partecipativa all’interno del sistema della cooperazione allo sviluppo
può esprimersi, come detto, secondo forme più o meno ampie. Si è soliti distinguere, in particolare, tra
partecipazione forte e partecipazione debole. Una partecipazione debole implica solo l’adozione di
strumenti di consultazione e di informazione della popolazione locale. La versione forte implica la più
o meno completa delega di responsabilità agli attori locali nella pianificazione, gestione e valutazione
degli interventi. Tra questi due estremi sono possibili diverse soluzioni intermedie.
Numerosi studi analizzano e classificano le diverse forme di partecipazione policy-related. E’ questo
un tema classico nel dibattito sulle politiche di pianificazione territoriale, almeno a partire dagli anni
‘70. Piuttosto che tentare di sintetizzare tutti i contributi che si sono prodotti su questo tema, è
possibile riferirsi allo schema precursore introdotto dalla Arnstein nel 1971.
La Arnstein distingue tra forme di partecipazione di tipo rituale e strumentale, e l’effettiva attribuzione
ai cittadini di un potere in grado di influenzare il processo decisionale, piuttosto che esserne solo un
complemento. Introduce per questo diversi livelli di partecipazione: la manipolazione e la terapia
indicano forme di partecipazione strumentale diretta ad educare i partecipanti; l’informazione, la
consultazione e la pacificazione consentono ai cittadini di ascoltare, di avere una voce nel processo
decisionale, e di dare consigli, ma l’autorità mantiene il potere decisionale e può decidere
autonomamente se ascoltare o meno tali consigli. Il livello successivo viene definito partnership,
questo consente ai cittadini di negoziare e essere oggetto di mediazione con il potere decisionale.
Negli ultimi due livelli della delega di potere e del controllo popolare i cittadini acquistano effettivo
potere decisionale o co-decisionale e perfino l’autorità di gestire i processi di pianificazione (Arnstein
1971).
Nella sua versione forte i sostenitori della partecipazione fanno spesso riferimento al modello della
‘democrazia deliberativa’ e all’etica del discorso di Jurgen Habermas. Habermas è un filosofo, ma la
sua analisi ha anche notevoli implicazioni politiche, e espliciti riferimenti ai sistemi di policy. Egli
sostiene che non è possibile attribuire a priori un valore a norme morali universali: questo valore viene
stabilito continuamente attraverso il dialogo collettivo e il confronto pubblico. Lo studio degli aspetti
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procedurali dei sistemi di dialogo collettivo consente ad Habermas, e a coloro che alle sue teorie si
richiamano, di formulare un vero e proprio progetto politico di democrazia deliberativa nel quale
l’interazione continua e la partecipazione della collettività alle scelte pubbliche consente di sostituire e
integrare gli strumenti classici della democrazia liberale (Habermas 1997, Dryzek 2000, Fung-Wright
2003). La crescita dimensionale delle unità politiche, e la complessificazione delle tematiche oggetto
di intervento pubblico, hanno determinato nel corso degli anni una progressiva erosione della vitalità
democratica (Fung-Wright 2003), indebolendo la legittimità della istituzioni politiche. In un contesto
nel quale grandissima parte delle decisioni politiche sfugge ai controlli democratici tradizionali
(fondamentalmente le elezioni periodiche), e nel quale questi stessi strumenti indiretti di controllo
risultano indeboliti, la rivitalizzazione della democrazia passa attraverso il coinvolgimento attivo della
collettività.
Nella pianificazione del territorio le tesi di Habermas hanno contribuito all’introduzione di approcci
partecipativi, collaborativi o comunicativi, nell’ambito di una critica più generale al pensiero tecnicostrumentale (Healey 2003, Forester 1999, Douglass-Friedmann 1998). Il ruolo del pianificatore o
dell’agente di sviluppo, non è quello di trovare la soluzione tecnica migliore rispetto ad un problema o
ad un obiettivo dato. La preferibilità di un determinato progetto o piano non può essere stabilita a
priori attraverso norme, obiettivi e principi che definiscono i termini entro cui questo deve collocarsi,
ma sulla base di procedure dialettiche di costruzione del consenso (Healey 2003). Il ruolo del
pianificatore non è quello di indicare il mezzo migliore per raggiungere un obiettivo dato, ma piuttosto
di creare e regolare un contesto comunicativo nel quale l’individuazione dell’obiettivo e della sua
soluzione avviene parallelamente in un processo interattivo che coinvolge un gran numero di soggetti
(Rittel-Webber 1973, Forester 1989).
Il modello di intervento proposto non differisce nella sua struttura dal ciclo di policy tradizionale (fase
di indagine e di analisi, valutazione dell’impatto, scelta della strategia e monitoraggio dei risultati). La
pianificazione partecipativa propone però di sostituire , per ciascuna di queste attività, il tradizionale
approccio guidato da criteri, che stabilisce come queste attività devono essere svolte, con un
approccio interattivo nel quale indagine, definizione della strategia, valutazione d’impatto e
monitoraggio sono condotti collettivamente da una pluralità di soggetti. Gli strumenti di
partecipazione possono essere metaforicamente classificati in forum, arene e corti (Bryson-Crosby
1993). In queste arene il ruolo del pianificatore è non solo quello di offrire un supporto tecnico ad un
processo eminentemente politico, ma anche di agire come facilitatore del dialogo tra attori, e di
promuovere la loro partecipazione e inclusione.
I teorici della democrazia deliberativa non ignorano gli ostacoli che impediscono la realizzazione di un
contesto comunicativo di questo tipo. Due elementi appaiono centrali e particolarmente critici: le
capacità (tecnica ed organizzativa) di ciascuno di partecipare attivamente al dialogo collettivo, e la
neutralizzazione dei rapporti di potere. La strategia sarebbe di introdurre dall’alto delle regole che
consentano agli attori di stabilire autonomamente, dal basso, il contenuto delle decisioni. La critica ha
messo in evidenza come il problema non sia solo individuare quali sono le condizioni e le procedure
che facilitano il consenso. Ma anche le norme che di fatto e di diritto regolano l’accesso a queste
strutture decisionali.
5. Metodi e strumenti di coinvolgimento
L’introduzione di strumenti di promozione della partecipazione all’interno dei programmi di sviluppo
ha dato luogo a risultati molto meno radicali di quelli auspicati dai teorici della democrazia
deliberativa. Nello svolgimento concreto dell’intervento la partecipazione assume valore soprattutto
nella fase di definizione delle strategie, ed ha quindi molto spesso una funzione limitata. In questo
paragrafo si discuteranno le principali problematiche relative al coinvolgimento degli attori nelle
politiche di sviluppo e alcuni degli strumenti concreti che sono stati sperimentati e introdotti dalle
grandi istituzioni internazionali di aiuto, come la Banca Mondiale o l’UNDP.
11
5.1 INDIVIDUAZIONE DEGLI STAKEHOLDERS
Il primo problema è relativo all’individuazione di quelli che sono gli effettivi stakeholders, e cioè gli
attori che è necessario coinvolgere, rafforzare o, in altri casi, contrastare.
Le linee guida della Banca Mondiale individuano un metodo di individuazione basato su matrici. Una
volta individuati i principali gruppi e le organizzazioni attive nel paese ricevente o nel contesto locale
di intervento, è necessario valutare la natura degli interessi di ciascuno di questi rispetto al programma,
al progetto di intervento o alla riforma che si intende attuare, e la possibile convergenza o divergenza
dei loro interessi con la razionalità che guida l’intervento. Elemento chiave in questa fase è la ricerca
sul campo tramite interviste e workshops, perché è raro che nelle fonti di informazioni già esistenti si
riescano a comprendere i reali interessi in campo e la loro possibile influenza sull’intervento.
Successivamente si procede all’inserimento dei vari stakeholders all’interno di un’altra matrice (Fig. 2)
dove i criteri di classificazione sono:
1) L’influenza, e cioè la capacità dell’attore di poter modificare le modalità di realizzazione di un
intervento o di una particolare riforma, che può essere sia di tipo positivo che negativo.
2) L’importanza, e cioè il grado di importanza che un particolare attore ha rispetto all’intervento o alla
riforma che si intende attuare.
Per capirsi, i poveri hanno molta importanza come gruppo sociale nell’ambito di un intervento di lotta
alla povertà, ma difficilmente potranno avere su questo un’influenza perché non hanno le risorse
finanziarie, organizzative e tecniche per incidere sulle modalità di intervento. I politici locali invece
non hanno molta importanza, perché l’intervento si rivolge ai cittadini poveri e non alle elite politiche,
eppure possono avere un’influenza determinante.
Fig. 2. Esempio di matrice degli stakeholders
Fonte: DFID 2003.
Esistono anche metodi più complessi, come per esempio l’expected utility stakeholder model, che
utilizza particolari metodologie in maniera sistematica per l’analisi delle percezioni degli stakeholders e
dei risultati politici potenziali, il modello utilizza tecniche di previsione delle utilità attese per simulare
via via le diverse negoziazioni fra gli stakeholders con differenti interessi ed il variare del grado di
influenza sulle riforme degli stessi. Il modello è in grado di prevedere, con un buon livello di
accuratezza, quanto e come queste dinamiche influenzeranno il risultato finale.
12
5.2. METODI DI COINVOLGIMENTO DEGLI STAKEHOLDERS
Esistono poi moltissimi metodi, molto diversi fra di loro, per coinvolgere concretamente i vari
stakeholders in luoghi di discussione, progettazione partecipata, negoziazione, ecc. .
Esistono metodi basati su workshop, che si applicano soprattutto nella fase decisionale, quando è
importante riuscire ad ottenere una decisione comune. Un metodo di questo tipo è definito ‘action –
planning workshop’. In questi e in altri casi è cruciale il ruolo del cosiddetto facilitatore: un soggetto
nella gran parte dei casi terzo, e cioè non direttamente coinvolto nell’attuazione del programma, che
guida gli stakeholders nella discussione, stimola la partecipazione attiva di tutti, ecc..
Altri metodi utilizzati sono il Participatory rural appraisal (si veda il prossimo sotto-paragrafo), il
SARAR (è l’acronimo di cinque attributi che l’approccio tenta di costruire: autostima, rafforzamento
associativo, intraprendenza, pianificazione d’azioni e responsabilità), il PANDA (Participatory
Appraisal of Needs and the Development of Action), collegamento fra diversi approcci precedentemente
usati in maniera separata, e molti altri. In fase di progettazione è possibile utilizzare i Beneficiary
Assessment (BA) i Systematic Client Consultation (SCC), che sono tecniche che si basano sull’ascolto e
la consultazione di un insieme di gruppi di stakeholders. Questi due metodi sono usati dalla Banca
Mondiale in collegamento al Participatory Poverty Assessment (PPA). Nello stesso ambito possono
essere fatti rientrare metodi come il Social Assessment (SA) e la Gender Analysis (GA).
Qualsiasi rassegna, in questo senso, è inevitabilmente parziale. Anche per questo nel prossimo
paragrafo si analizzerà solo uno di questi metodi, il Participatory Rural Appraisal. Questo, oltre ad
essere estremamente importante e diffuso, è anche uno dei metodi di più vecchia formulazione e
rappresentativo di un più generale cambiamento delle modalità di intervento nei paesi in via di
sviluppo.
5.2.1 Il Partecipative Rural Appraisal
Il PRA è un metodo che si afferma nel quadro di una più generale critica ai tradizionali metodi di
intervento e all’utilizzo di schemi interpretativi che esulano dalla realtà particolare nella quale si
interviene. Per capire le caratteristiche del modello può quindi essere utile un riferimento ai modelli
utilizzati precedentemente nell’ambito della progettazione di un intervento di sviluppo rurale.
In questo ambito una fondamentale innovazione era stata apportata dal cosiddetto Rapid Rural
Appraisal (RRA), negli anni ’70. L’RRA è definita come “attività semistrutturata e sistematica portata
avanti da un team multidisciplinare e che nasce per ottenere nuove informazioni e formulare nuove
ipotesi riguardo la vita rurale”. Le caratteristiche dell’approccio sono la multidisciplinarietà, e cioè il
coinvolgimento di expertise molto diverse, il carattere intensivo dell’indagine, che serve ad evitare gli
sprechi di tempo di cui erano accusati i metodi precedenti, e infine il coinvolgimento della popolazione
locale. La partecipazione degli attori locali è soprattutto strumentale alla raccolta di informazioni e il
suo utilizzo deriva dalla sempre maggiore consapevolezza dell’importanza delle cosiddette indigenous
technical knowledges (Chambers 1994).
Le criticità dell’approccio del RRA, che in parte esso condivide con i metodi utilizzati
precedentemente, sono state individuate nell’eccessiva rapidità (le missioni in loco degli esperti, per la
loro brevità e superficialità, vengono definite ‘turismo dello sviluppo rurale’ ), e nella parzialità del
coinvolgimento degli attori locali, che come detto è solo strumentale alle esigenze conoscitive delle
agenzie di aiuti e quindi ben lontana dal promuovere l’appropriazione o l’inclusione della società
locale. Un’ulteriore fonte di critiche è la mancanza di auto-riflessività da parte dei suddetti esperti, che
non si preoccupavano certo di nascondere la loro presunta superiorità rispetto agli interlocutori locali,
sia in quanto maggiormente esperti e istruiti, sia perché di fatto titolari del potere finale di decisione.
Mentre l’RRA ha trovato i suoi maggiori promotori all’interno delle università, il Partecipative Rural
Appraisal (PRA) viene discusso e introdotto soprattutto dalle strutture che lo mettono poi
concretamente in pratica: le ONG. Mentre l’RRA punta sulla conoscenza propria della popolazione
locale, il PRA dà maggior risalto alle capabilities dei locali.
Secondo la Banca Mondiale (World Bank, 1994), i principi che sono alla base del PRA sono: la
partecipazione; il lavoro di squadra (la preferenza di un tipo di contatto fra locali e outsiders di tipo
informale che crei dei veri gruppi di lavoro e di scambio di conoscenza); la flessibilità operativa; la
13
cosiddetta ‘ignoranza ottimale’ (l’importanza di raccogliere solo le informazioni necessarie con la
migliore efficienza in termini di tempo e denaro); la triangolazione (consultazione di almeno tre fonti
per operare un controllo incrociato delle informazioni qualitative ottenute tramite contatti con i locali;
la facilitazione (facilitare cioè i locali ad generare e possedere i risultati dell’analisi ed anche imparare
dall’esperienza acquisita); la fiducia rispetto alle possibilità dei locali; la responsabilità personale
(assumersi la responsabilità anche di errori e fallimenti); la condivisione delle informazioni e delle idee;
e infine la consapevolezza auto-critica, e cioè la componente auto-riflessiva di cui si è già detto.
L’innovazione del PRA riguarda non tanto i metodi utilizzati quanto il comportamento adottato nei
rapporti con i locali: i ricercatori devono perdere tutta la loro soggettività evitando giudizi ed
acquisendo piena consapevolezza della loro particolare posizione di persone estranee alla realtà locale.
Il loro atteggiamento deve portare ad un ‘rovesciamento dell’apprendimento’: non sono i locali a dover
apprendere ma piuttosto il contrario, o è quanto meno necessario entrare in sintonia con gli autoctoni e
avere una reciproca stima che consenta la predisposizione di un ambiente realmente collaborativo.
Si vede come l’approccio si sostanzi in una serie di indicazioni che prescrivono non tanto il
cambiamento dei metodi, e tanto meno della logica generale dell’intervento nei paesi in via di sviluppo,
quanto un mutamento degli atteggiamenti. In questo senso la discussione del PRA come di altri
strumenti partecipativi non va aldilà di prescrivere alcune regole di buon senso. Il riferimento all’autoriflessività è particolarmente indicativo della volontà di andare oltre i modelli di tipo ‘euro-centrico’
(definiti cioè sulla base di saperi, valori e tradizioni mutuati dai Paesi occidentali), impostare un
processo di sviluppo ‘dal basso’ e porsi sullo stesso piano rispetto alle comunità beneficiarie.
In questo è però anche il paradosso più evidente del PRA, così come in generale di tutti gli approcci dal
basso nell’ambito della cooperazione allo sviluppo. L’esistenza di un bisogno, e di una situazione di
inferiorità tra paese donante e comunità ricevente, è da una parte pre-condizione necessaria affinché
esista l’aiuto e abbia luogo l’intervento. Il contatto tra un insieme di soggetti donatori, ‘sviluppati’ e
esperti e una popolazione bisognosa, ‘sottosviluppata’ e inesperta, crea d’altra parte, inevitabilmente,
una situazione di soggezione da parte di chi riceve gli aiuti, e finisce per comprometterne l’autonomia.
5.3 IL BUDGET PARTECIPATIVO
Meritano necessariamente una menzione i sistemi partecipativi che si sono diffusi in alcuni contesti, per
la definizione dei documenti di programmazione finanziaria di enti regionali e enti locali. Pur non
riguardando direttamente le politiche di cooperazione allo sviluppo infatti, l’applicazione di questi
metodi ha dato luogo a processi effettivamente inclusivi che hanno avuto in alcuni casi risultati radicali
in termini di influenza sul processo di allocazione delle varie voci di bilancio. Sono stati per questo
ampiamente discussi all’interno del dibattito su partecipazione e sviluppo, anche perché sono stati
introdotti per primi in paesi non occidentali, e in particolare nella comunità di Porto Alegre (Brasile) e
nello stato del Kerala (India).
Nel Kerala, una realtà di circa trenta milioni ci persone, sono stati introdotti complessi processi
decisionali che prevedono strumenti di partecipazione diretta e consultazione popolare molto complessi
e che coinvolgono effettivamente tutta la cittadinanza (Isaac-Heller 2003). Il Kerala, forte di una lunga
tradizione di partecipazione popolare nelle decisioni politiche, ha avviato una “Campagna per il
Decentramento Democratico” con la quale ha trasferito il controllo di oltre il 40% del budget pubblico
dello stato ai Consigli di Villaggio (Panchayats). Anche nel Kerala tuttavia, questa partecipazione è in
qualche modo organizzata, sulla base di complesse forme di rappresentanza che si basano su strutture
a-politiche e costituite di volontari. Queste procedure sono poi state introdotte dall’alto per ridare
slancio democratico ad un sistema politico dominato dal partito comunista locale, al potere da diversi
decenni. L’applicazione di metodi simili in altri contesti, anche nei Paesi occidentali (Pont 2005), ha
avuto comunque un discreto successo, sia in termini di risposta da parte della popolazioane sia in
termini di modifica delle priorità di allocazione del budget a favore di politiche più attente ai reali
bisogni dei cittadini.
5.4. IL ‘COMMUNITY-DRIVEN DEVELOPMENT’
Il Community-Driven Development (letteralmente ‘sviluppo guidato dalla comunità’) è un approccio
alle politiche di sviluppo che mira a dare un ruolo centrale alle comunità locali e si riflette quindi sia
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nel cambiamento della scala geografica a cui si programmano e si attuano gli interventi, sia e
soprattutto nel cambiamento degli attori coinvolti. Forte accento è posto sulle organizzazioni di
comunità, sul loro rafforzamento istituzionale, l’accrescimento delle loro capacità tecniche.
Adottare un approccio di questo tipo significa, per la Banca Mondiale, promuovere riforme politiche,
istituzionali e legislative idonee e un effettivo dialogo tra governo centrale, governi locali, società civile
e ‘organizzazioni di comunità’ (CBOs). L’obiettivo è, ancora una volta, sviluppare investimenti
rispondenti ad una domanda informata, coinvolgere tutti gli stakeholders che possono avere influenza
sull’intervento, e soprattutto cercare di raggiungere e coinvolgere i gruppi svantaggiati e gli esclusi a
vario titolo (per appartenenze sociali, religiose o di genere) a cui effettivamente l’intervento si rivolge4.
L’approccio può essere introdotto anche in singole comunità, con lo scopo però di promuoverne lo
‘scaling-up’, sia in termini settoriali che territoriali, all’interno della stessa regione o tra regioni diverse.
L’obiettivo è far uscire i progetti community-driven dal loro stato di ‘isole di successo’. I progetti
community-driven vengono infine strutturati per avere una durata limitata nel tempo ed il loro ruolo
dovrebbe essere soprattutto quello di fungere da guida, da esempio, per le comunità.
Questo tipo di approccio può essere applicato ad un gran numero dei casi, ma si è diffuso soprattutto
negli interventi a carattere sociale e di base (i Social funds della Banca Mondiale). Le difficoltà
principali si sono rivelate la difficoltà di determinare più precisamente i programmi e i settori di
intervento adatti all’adozione di questo tipo di approccio, e inoltre l’individuazione dell’area di
intervento. Il concetto di comunità è, come si vedrà nell’ultimo paragrafo, problematico da diversi punti
di vista. La comunità viene a volte individuata a livello sociale (un gruppo sociale particolare
all’interno di una regione), o molto più spesso a livello territoriale (una comunità locale avente la
dimensione di un singolo villaggio, di un municipio, di una regione: grossa incertezza riguarda anche
l’individuazione della scala appropriata a definire una comunità).
Il problema principale è il rischio di ‘cattura’ del programma di intervento da parte delle elite locali,
che possono più facilmente trovare espressione nella società civile organizzata e possono avere una
maggiore influenza. Un certo grado di cattura da parte delle elite locali è inevitabile e in qualche modo
può anche essere considerato ‘benevolo’: particolarmente nelle aree rurali, dove le elite sono spesso
leaders che incarnano autorità politiche e morali, spesso queste elite sono le sole che comunicano con
gli stranieri, leggono documenti di progetto e scrivono proposte. In molti casi la cattura non è affatto
benevola, porta al cambiamento delle priorità di intervento e contribuisce alla sua inefficacia. I soggetti
dominanti possono esplicitamente impedire un più diretto contatto con i gruppi più svantaggiati. Gli
attori locali, evidentemente, non sono molto più affidabili dei clienti governativi dei quali ci si voleva
in qualche modo liberare. Nei casi peggiori l’intervento esterno contribuisce a sostenere e legittimare i
sistemi di dominazione sociale e politica pre-esistenti e inevitabilmente immanenti a qualsiasi società,
comunità o progetto.
6. La struttura delle opportunità partecipative
Gli approcci partecipativi possiedono sicuramente enormi potenzialità che, come visto, vanno ben
aldilà dei risultati ottenuti, spesso di molto inferiori alle attese. Il citato dibattito sulla democrazia
partecipativa si propone per esempio modifiche radicali dei sistemi di regolazione politica, andando
oltre lo stesso modello adottato nelle democrazie liberali. Ma come è possibile creare istituzioni
partecipative di questo tipo ad una scala superiore al singolo progetto o al singolo villaggio? E chi
dovrebbe introdurle? Perché? La letteratura sull’argomento raramente chiarisce questi dubbi, ma
fornisce solo una descrizione idealizzata di come queste istituzioni dovrebbero funzionare.
Il coinvolgimento degli attori accresce il grado di legittimità del processo decisionale, ma solleva
problemi diversi e interconnessi. Il primo problema è relativo all’equità del processo decisionale: la sua
inclusività. L’esito del processo non dipende dall’ampiezza del tavolo, ma da come si strutturano i
4
Nell’ambito degli interventi community-driven, così come in gran parte del dibattito sulla cooperazione allo sviluppo,
scarso o nullo rilevo viene dato al problema della ‘partecipazione finanziaria’ delle comunità beneficiarie. Tale
partecipazione è soprattutto indiretta e può consistere nell’utilizzo di beni o del lavoro di provenienza locale. A seconda della
tipologia di progetto questa contribuzione può variare tra il 3% e il 50%, ma in genere molto bassa. Nei progetti finanziati
tramite social funds della Banca Mondiale questa contribuzione, presente nel 62% dei casi, è mediamente del 5%.
15
rapporti di potere tra i diversi soggetti all’interno e al di là della procedura dibattimentale formale.
L’efficacia del processo decisionale riguarda invece il suo output: la decisione presa. Tra equità ed
efficacia c’è un evidente trade-off. La necessità di mediare tra interessi contrastanti rende difficile
ottenere decisioni rilevanti e cogenti e il risultato del processo dibattimentale tende ad appiattirsi su
dichiarazioni di principio che sono sufficientemente generali da mettere d’accordo tutti. Un problema
strettamente collegato è la funzionalità dei procedimenti decisionali multi-attore (efficienza). Più il
processo decisionale è inclusivo e cogente, e più diventa complicato ottenere un accordo (Dahl 2000);
nel migliore dei casi si allungano i tempi e i costi degli interventi5, nei casi peggiori si creano conflitti
inconciliabili.
A volte è la popolazione locale, e gli stessi soggetti coinvolti in iniziative di questo tipo, ad essere
scettica e a rifiutare le possibilità partecipative che gli vengono offerte. L’introduzione di strumenti
democratici e partecipativi “può essere promossa da decisioni politiche; ma è anche vero che, sulla
direzione presa da queste decisioni, può influire l’uso efficace delle capacità partecipative da parte
della società. C’è una relazione bidirezionale, essenziale per l’analisi qui proposta” (Sen 2000, p.159).
Le ragioni dei fallimenti degli approcci partecipativi vengono molto spesso ricondotti all’assenza di
una effettiva e completa partecipazione. E’ necessario quindi provvedere al rafforzamento
(empowerment) della società civile, che diventa essa stessa destinataria degli interventi, piuttosto che
strumento per la realizzazione di una maggiore democrazia. Il rafforzamento delle istituzioni locali è
visto sia come il risultato del processo partecipativo, sia come una sua pre-condizione essenziale.
Secondo la prospettiva dell’empowerment a partecipare si impara partecipando. In molti casi mancano
infatti le capacità da parte di alcuni gruppi per partecipare alla discussione pubblica e alla definizione
di un programma di intervento.
La partecipazione è in altri casi distorta, a volte per questi stessi motivi, a favore di interessi particolari
o di gruppi dominanti. La constatazione che molti degli esperimenti di apertura e coinvolgimento degli
attori locali nei processi di pianificazione regionale siano stati catturati da parte delle elite, non
dipenderebbe dal fatto che queste arene non fossero sufficientemente aperte, o inclusive, ma dalla
natura stessa della partecipazione politica. Gli interessi e i gruppi sociali presenti all’interno di una
comunità non necessariamente coincidono con gli interessi e i gruppi che trovano rappresentanza nella
società civile organizzata. Vi può essere la possibilità di gruppi che si auto-escludono o di interessi che
non si organizzano (Olson 1982). Esiste anche un problema per certi versi opposto, che è quello della
corporativizzazione dell’arena di policy: quando organizzazioni nate per rappresentare determinati
interessi finiscono per rappresentare solo l’interesse delle organizzazioni stesse o dei loro dirigenti.
Più in generale, la struttura dei costi e degli incentivi alla partecipazione agisce in maniera selettiva,
escludendo soggetti che non hanno capacità organizzative, conoscitive e risorse sufficienti, e
includendo attori che si aspettano da questa un beneficio diretto. L’accesso dei diversi interessi o
gruppi al processo partecipativo sarà quindi funzione di quella che gli studiosi di movimenti sociali
chiamano struttura delle opportunità di partecipazione: la specifica configurazione di risorse, assetti
istituzionali e precedenti storici di mobilitazione sociale, che può vincolare o facilitare la
partecipazione (Kitschelt 1986). Qualsiasi sforzo di rendere l’arena di policy più inclusiva e diversa
può quindi risultare vana, in assenza di un’adeguata risposta da parte del territorio. Alcuni gruppi,
infine, e alcune istanze sociali, potranno e vorranno trovare espressione al di fuori di queste strutture
partecipative, perché non ne riconoscono la legittimità o l’utilità, oppure perché preferiscono usare
strumenti diversi, come la pressione o la protesta.
7. Comunità immaginarie?
Il dibattito sembra basarsi a volte su una rappresentazione eccessivamente idealizzata di una società
civile come luogo dell’autonomia e della rappresentanza, oppure su di una distinzione eccessivamente
rigida tra ciò che proviene dall’alto e ciò che invece si esprime dal basso e rappresenta la comunità
locale. Che cos’è una comunità? L’idea di comunità rimanda inevitabilmente ad un’idea di omogeneità,
di comunanza di interessi, che molto spesso si rileva un’illusione. E poi in che modo, e a quale scala, è
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Secondo la Banca Mondiale, in base al tipo di progetto, il ‘costo della partecipazione’ varia tra il 2% ed il 12%
del totale dei costi dell’intervento.
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possibile delimitare una comunità? Molto spesso l’approccio di comunità che si basa su delimitazioni
geografiche assume implicitamente che la popolazione all’interno di un territorio costituisca una
comunità omogenea. Non è così evidentemente nelle società complesse, ma nemmeno nelle comunità
rurali dei paesi in via di sviluppo, che sono altamente differenziate per classe, casta, stile di vita,
genere, età, religione, razza, origine e etnia. Alcune forme di differenziazione sociale (per esempio il
genere) si riproducono in forme identiche all’interno di ciascuna comunità, comunque delimitata. Le
comunità possono includere identità sociali molto differenti e sottintendono sempre un insieme di
conflitti, espliciti o latenti, interni e esterni. Le politiche di costruzione della comunità possono essere,
paradossalmente, strumenti di isolamento e di esclusione. La coesione del gruppo viene ottenuta
distinguendo l’altro, il diverso, il senza valore.
Strettamente connesso è il problema della rappresentanza. Chi rappresenta le comunità? Le autorità
tradizionali sono considerate, spesso dalle stesse popolazioni locali, come inefficienti, corrotte, non
democratiche e discriminatorie (Ribot 2002). In molti paesi africani il ruolo delle autorità tradizionali è
stato recentemente accresciuto e riconosciuto, a volte anche a livello costituzionale. Queste autorità
coincidono a volte con gli enti governativi locali a cui vengono decentrate funzioni e risorse pubbliche.
Piuttosto che rappresentare le popolazioni locali sono spesso viste da queste con diffidenza, come
emanazione del governo centrale (Ribot 2002). Per questo motivo secondo alcuni, il coinvolgimento
dei gruppi svantaggiati è maggiormente efficace se si trascende questa dimensione geografica e si
agisce maggiormente attraverso organizzazioni in grado di operare trasversalmente rispetto alla società,
e quindi ai rapporti di potere esistenti. Queste associazioni possono poi avere al loro interno
meccanismi di determinazione dei ruoli e delle decisioni più democratici e più rappresentativi.
Ulteriore problema è infatti quello della non-democraticità interna alle organizzazione rappresentative
di interessi o di comunità locali. In molti casi i sistemi regolazione interni a queste organizzazioni,
soprattutto nelle realtà rurali, tendono a rispecchiare l’organizzazione sociale del luogo. Le
organizzazioni effettivamente a base territoriale, come le autorità tradizionali e i capi villaggio, sono
spesso fortemente polarizzate intorno a singoli individui leaders. Questi leaders sono espressione delle
elite locali e hanno un notevole carisma e potere. Gli altri membri del villaggio non solo non hanno il
diritto di prendere decisioni, ma non si considerano neanche nella posizione di fare proposte, non hanno
opinioni, perché averne sarebbe offensivo nei confronti dei capi villaggio. Questi soggetti sono quindi
estremamente rappresentativi, perché la comunità locale riconosce la loro leadership, ma non per
questo trasparenti o equi.
Le organizzazioni di comunità tendono a riproporre i modelli istituzionali della società in cui operano
lasciando quindi ancora minore spazio, rispetto al governo centrale, a quelle fasce della popolazione
(donne, anziani, malati, poveri ecc.) cui invece gli approcci partecipativi vorrebbero dare più forza e
più importanza. In altri casi invece queste organizzazioni vengono create ad-hoc, in modo che abbiano
le capacità tecniche e le caratteristiche organizzative idonee al loro coinvolgimento nella gestione delle
politiche di intervento. Vengono create in altri casi agenzie private con responsabilità sugli aspetti
tecnico-amministrativi e senza potere decisionale, competenza esclusiva delle comunità.
Inevitabilmente questi soggetti finiscono per condizionare la fase decisionale e la gestione delle risorse
grazie ad una delle più importanti ‘opportunità partecipative’: la conoscenza tecnica. L’assenza di una
vibrante società civile organizzata può essere superata incentivando la creazione di organizzazioni
formali di comunità, associazioni o comitati con responsabilità nella gestione dei fondi, che tuttavia
sono spesso corpi estranei rispetto alla realtà in cui operano. Nei casi peggiori tali strutture, piuttosto
che rispecchiare la realtà locale, tendono a riprodurre modelli presi a prestito da realtà molto diverse; in
primo luogo i Paesi occidentali.
Nella sua essenza il discorso su partecipazione e sviluppo si riconnette invece ad una critica radicale sul
funzionamento delle politiche di sviluppo e delle organizzazioni di aiuti, accusate proprio di offrire
soluzioni preconfezionate e di una scarsa attenzione alla diversità locale. “Il compito principale consiste
nel restaurare l’autonomia politica, economica e sociale delle società marginalizzate (…)
…riconquistare il diritto di organizzare la propria esistenza a proprio modo” (Rist 1997). Il sistema
della cooperazione internazionale è storicamente una dei principali veicoli di questa perdita di
autonomia, e difficilmente può rappresentare il rimedio.
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