politiche del lavoro - Ufficio Programmi Europei per la Mobilità

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politiche del lavoro - Ufficio Programmi Europei per la Mobilità
Facoltà di Scienze della Formazione
Università di Roma Tre
Anno accademico 2013/2014
Corso di laurea in “Formazione e sviluppo delle risorse umane”
Insegnamento
Politica economica e gestione delle risorse umane
Docente
Prof. Aldo Gandiglio
Seconda parte
LEZIONE 3
ECONOMIA DEL LAVORO – POLITICHE DEL LAVORO
POLITICHE ATTIVE E PASSIVE – LOCALI E EUROPEE
Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014
Economia del lavoro – approcci teorici (cenni)
Si è detto come la presenza di istituzioni ed organizzazioni sia necessaria per l’esistenza ed il
funzionamento del mercato. Ancora di più, per il mercato del lavoro sono necessarie leggi, contratti,
prassi, abitudini.
Infatti, si può affermare che ci sia un consenso unanime a considerare il lavoro non come un
qualsiasi altro fattore produttivo, e conseguentemente, il mercato del lavoro non come un qualsiasi
altro mercato di produzione e scambio di merci ed attività.
Il lavoro è anzitutto una aspirazione ed una scelta personale, anche se – spesso - non del tutto libera
nelle possibilità di accettare o di ricorrevi, mentre si presenta anche, nell’organizzazione economica,
come un fattore produttivo; il lavoro appare, quindi, condizionata dal contesto economico,
dall’ambiente sociale, e da altri fattori extra-economici. Il mercato del lavoro si caratterizza come una
istituzione sociale, contornata da regole, rapporti di fiducia (e, di forza), istituzioni, che vanno oltre la
legge della domanda e dell’offerta che viene posta alla base del funzionamento della domanda e
dell’offerta di lavoro.
Gli interventi nel mercato del lavoro assumono quindi caratteristiche originali che si differenziano
dalle forme di regolazioni degli altri beni e fattori produttivi; basti pensare alla protezione del lavoro
minorile, alle norme relative alla sicurezza sul lavoro, alle fissazioni degli orari di lavoro, delle
festività e riposo, ecc., alle norme relative alla contrattazione, alle forme di copertura sociale, alle
tutele nel caso dei periodi di non lavoro, ecc.
Vediamo, tuttavia, sinteticamente, una formalizzazione di come si possa configurare una offerta e
domanda di lavoro in un ipotetico mercato perfettamente concorrenziale; ciò sarà utile in quanto, di
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seguito verranno fatti riferimenti a queste modalità di funzionamento per illustrare alcune
impostazioni di politiche salariali e di politiche occupazionali.
L’offerta di lavoro
Facciamoci aiutare da una ipotesi semplificata (e in qualche modo anche irrealistica, specialmente in
situazione di carenze di opportunità di lavoro): un individuo decide di dedicare al lavoro solo il tempo
che desidera, in quanto – e ciò è vero – esiste un uso alternativo del tempo di lavoro per altre attività
più desiderabili (ozio, svago, ecc.). Viene presa, in questa logica, una decisione che ha alla base
una scelta sull’allocazione del tempo in relazione alla utilità generata.
Sino a quanto un individuo dilata il tempo dedicato al lavoro? Sino a quanto il beneficio marginale
generato dall’unità marginale dell’ora di svago eguaglia o supera il reddito generato dall’ora
marginale di lavoro (reddito che viene utilizzato per acquistare - sua volta – beni e servizi che
generano utilità/benefici). I lavoratori, quindi, offriranno servizi lavorativi fino a che il saggio
marginale di sostituzione tra consumo (generato dal reddito) e tempo libero non sia uguale al salario
reale. Il salario misura il risultato del lavoro, ma anche il costo-opportunità dello svago.
Appare, inoltre, anche evidente che l’ampliamento della quantità di tempo messo a disposizione per
il lavoro ha sicuramente una qualche relazione con la remunerazione offerta per unità di lavoro, ma
con effetti che possono essere discordanti. Ad un aumento della remunerazione oraria (o di altro
compenso per una attività che, comunque, richiede l’uso del tempo) corrisponde un aumento del
costo-opportunità dell’ora di svago e, il c.d. “effetto sostituzione” lo spingerebbe a lavorare un’ora di
più, ma il c.d. “effetto reddito” (dovuto all’aumento del salario) potrebbe portare il lavoratore a
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richiedere più svago, e quindi a ridurre l’offerta di lavoro. Il prevalere dell’uno o dell’altro effetto porta
azioni che vanno in direzioni opposte, sia nell’offerta di lavoro individuale, sia nell’offerta di lavoro nel
mercato (che è rappresentato dalla somma delle curve di offerta individuali).
Curve di offerta di lavoro individuale
Prevalenza effetto reddito
SALARIO
SALARIO
Prevalen za effetto so stituzione
QU AN TITA' DI LAVORO (ore)
QUANTITA' DI LAVORO (ore)
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Nel mercato del lavoro agiscono anche numerosi altri fattori che determinano spostamenti della
curva (non “sulla” curva, che, invece, è specifica di ciascun individuo). Ad esempio i cambiamenti
demografici, ed anche l’immigrazione (una popolazione in aumento sposta verso destra la curva,
cioè vi è più disponibilità a lavorare per ogni livello salariale, ed al contrario se vi è diminuzione),
l’aumento della ricchezza disponibile e l’ampliarsi delle disponibilità di posti di lavoro (spostamenti a
sinistra), l’aumento della disoccupazione (spostamento vs destra).
Un modo alternativo per definire il comportamento individuale è quello del salario di riserva, cioè
quel salario minimo che farà accettare all'individuo una prima ora di lavoro.
Il salario di riserva varia in relazione alle caratteristiche ed aspirazioni personali, ed anche in stretta
relazione con la situazione economica più complessiva. Tuttavia, le fasi di ciclo economico
espansivo non sempre fanno aumentare la disponibilità a lavorare, e quindi comportare riduzioni
della disoccupazione, in quanto i lavoratori potrebbero non accettare salari bassi, potrebbero infatti
rimanere in attesa di altre offerte di lavoro, che nel frattempo si prevede siano in aumento. Al
contrario, in fasi depressive, con discesa dei salari e più basse probabilità di trovare lavori ad un
salario adeguato, i salari di riserva si riducono, ma parte della forza lavoro potrebbe diventa inattiva
(scoraggiati nella ricerca del lavoro) e quindi la disoccupazione (come viene statisticamente
calcolata) potrebbe anche diminuire.
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La partecipazione femminile al lavoro
Il legame tra salario e offerta di lavoro appare generalmente evidente, ancor più nel segmento della
forza lavoro che è segnato da caratteristiche peculiari come quello femminile.
Vi sono molte ricerche che affrontano il legame tra l’occupazione femminile, il salario di mercato, il
salario di riserva, ma anche quali sono le cause che possono modificare la propensione alla ricerca
del lavoro, quali il numero dei figli (la fertilità), i cambiamenti tecnologici nei processi di lavoro
domestici, le relazioni con il reddito e le ore di lavoro dl coniuge; sono altrettanto numerosi gli studi
che analizzo gli effetti sulle dinamiche dell’occupazione femminile delle modificazioni della struttura
economica, dell’aumentata partecipazione ai processi formativi, delle politiche volte a promuovere la
conciliazione tra lavoro e vita familiare del lavoro.
La situazione italiana, comunque, è di generale arretratezza nei confronti internazionali, anche se vi
sono stati sicuri miglioramenti con gli anni. E’ sufficiente ricordare che in Italia solo poco più della
metà delle donne in età lavorativa (15-64 anni) è attiva (occupata o cerca un lavoro); nella media
europea il valore sale a quasi il 65% e in molti paesi come la Germania, l’Olanda e la Svezia supera
il 70%.
Negli ottanta le donne iniziavano a lavorare molto giovani e uscivano dal mercato del lavoro molto
presto, nel momento in cui costruivano una famiglia e avevano i figli. Negli ultimi 30 anni si è
modificato profondamente il modello di partecipazione delle donne al mercato del lavoro sia con
l’aumento del tasso di attività femminile che con lo spostamento in avanti negli anni sia dell’entrata
nel mondo del lavoro che dell’uscita definitiva; inoltre, si è anche ridotta in modo significativo la
differenza del tasso di attività fra donne e uomini.
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Tasso di attività per sesso e classe d’età in Italia – Anni 1983 – 2010 (%)
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Per un approfondimento del mercato del lavoro femminile si rimanda alla lettura del capitolo 3.3
Livelli e dinamica dell’occupazione femminile dell’Allegato Lezione n. 2 - ISTAT RAPPORTO
ANNUALE 2013 - Il mercato del lavoro tra minori opportunità, cui segue un approfondimento su
“Retribuzioni e differenziali di genere”.
Come allegato alla lezione n. 3 si propone un working paper delì’OECD (Organisation for Economic
Co-operation and Development) di Olivier Thévenon, Drivers of Female Labour Force Participation in
the OECD. Lo studio analizza la risposta della partecipazione delle donne alla forza lavoro alle
mutate condizione dei mercati e alle politiche volte a promuovere la conciliazione tra lavoro e vita
familiare del lavoro. I risultati mostrano, in primo luogo , la rilevanza dell’ aumento dei livelli di
istruzione le donne , dell'espansione dell'occupazione nei servizi e sviluppo del part-time, e , tra le
politiche pubbliche, la presenza dei servizi di assistenza per i bambini sotto i tre anni.
Si raccomanda di leggere il cap. 2. Trends in female labour force participation (pag.11-12) e 7.
Conclusions (39-40)
http://www.oecd-ilibrary.org/social-issues-migration-health/drivers-of-female-labour-forceparticipation-in-the-oecd_5k46cvrgnms6-en
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La domanda di lavoro
Come si è riferito, pur sinteticamente, nella lezione n. 2 del primo semestre, quando si è affrontata
l’organizzazione di un ciclo produttivo, si è visto come il livello della produzione viene spinto sino a
che il prezzo è uguale al costo marginale; non è più conveniente andare oltre, in quanto l’unità di
produzione successiva sarebbe avvenuta con una perdita.
Sempre nelle lezioni del primo semestre, si sono analizzati i fattori della produzione, con l’evidenza
di due tipi di capitale: il capitale fisico (costruzioni, macchinari, ecc.) e, nelle economie moderne,
sempre più importante il capitale umano, cioè le competenze della forza lavoro.
La domanda che ci poniamo è: fino a che punto un imprenditore spinge la domanda di lavoro per la
produzione in una sua impresa?
La scelta che orienta le decisione dell'impresa può essere, anche per questo fattore di produzione, la
produttività marginale del lavoro, che a sua volta è legato al salario reale, ma anche – ovviamente alla combinazione dei fattori produttivi.
Anche in questa caso, come per l’offerta di lavoro, si adottano ipotesi semplificatrici, quali la rigidità,
nel breve periodo, di poter sostituire lavoro e capitale, o di introduzioni di innovazioni tecnologiche,
che possono far aumentare la produttività e, nel contempo, diminuire (o anche aumentare) la
domanda di lavoro.
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La domanda di lavoro si fermerà prima che il costo marginale superi il prezzo marginale (il salario
supera il valore del prodotto marginale), o quando il profitto giunge al livello massimo oltre questo
punto comincerebbe a scendere in quanto ogni unità aggiuntiva produce un deficit.
E’ da rilevare come la maggior parte dei datori di lavoro non prenda decisioni di eventuali assunzioni
di lavoratori ricorrendo all’applicazione concreta di tale approccio teorico, ma è anche verosimile che
se non venisse applicata implicitamente, difficilmente l’impresa potrebbe continuare a rimanere in un
mercato concorrenziale. Per sopravvivere e continuare a fare profitti, l’imprenditore si comporta
come se conoscesse tale teoria e le assunzioni (o la permanenza dei lavoratori) in qualche modo
rispondono al legame tra il costo del lavoro e la produttività del lavoro.
Andando ad una qualche sintesi, in un ipotetico mercato perfettamente concorrenziale, privo di
interferenze, il salario sarebbe al margine pari alla produttività e, dal lato del lavoratore, al valore
alternativo del tempo non di lavoro.
E’ stato più volte ricordato, e vale la pena richiamarlo anche in relazione a quanto appena riportato,
che il costo del lavoro appare sempre meno importante per la competitività globale delle imprese
italiane, bensì prioritarie risultano gli investimenti per l’innovazione, le stesse riforme strutturali per
superare il “nanismo” delle aziende al fine di aumentare la competitività internazionale e creare
nuove imprese nei settori a più alto valore aggiunto nel comparto scientifico.
Ci si interroga sui fattori che possono condizionare il valore del prodotto marginale di un
lavoratore: l’istruzione, le competenze e le capacità, l’esperienza sul lavoro, la razza, il sesso,
l’appartenenza sindacale. Esistono anche delle diversità nelle caratteristiche non monetarie delle
mansioni esercitate. Esempio: i lavoratori che fanno i turni di notte sono pagati meglio di quelli che
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fanno i turni di giorno, e ciò non per le caratteristiche intrinseche, ma perché possono abbattere dei
costi fissi, facendo produrre anche di notte.
Ma la fonte più importante dei differenziali retributivi è il capitale umano, quale l’accumulazione
di investimenti sulla persona, in forma di istruzione, formazione ed esperienza professionale.
Nella realtà economica gran parte dei rapporti di lavoro non si interrompono dopo pochi mesi, ma
durano anche anni, in quanto le imprese sostengono dei costi per trovare i lavoratori adatti a
svolgere certe mansioni, anche perché per svolgere una attività è necessario possedere
competenze specifiche, per le quali occorre affrontare un processo di apprendimento. Di solito, un
lavoratore con esperienza è più produttivo di un neo-assunto e per le imprese vi sono sicuramente
dei costi di addestramento iniziali per l’avvio di una qualsiasi attività lavorativa.
La carenza di esperienza lavorativa, che rende il capitale umano dei giovani inferiore a quello degli
adulti anche in presenza di crescenti livelli di istruzione viene posto alla base delle giustificazioni del
maggior tasso di disoccupazione rispetto agli adulti. E’ su tali argomenti che, in un approccio liberista
del capitale umano, si legittima l’attuale momento che vede i giovani che “sperimentano” il loro
ingresso nel mercato del lavoro con frequenti passaggi da uno stato all’altro. Tale approccio ha
come implicazioni di politica economica in favore dei giovani disoccupati la ricerca di misure che
favoriscono una maggiore flessibilità, che può permettere di accumulare esperienza e facilitare le
transizioni scuola-lavoro, cui si aggiungono le forme di incentivazioni all’assunzione (salari di
ingresso, ecc.). Ma di questo, e delle critiche a tale approccio, se ne tratterà più avanti.
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Il salario viene sovente utilizzato dagli imprenditori come incentivo per aumentare la produttività
dei lavoratori. Una delle spiegazioni della relazione salari-produttività che hanno trovato maggiore
consenso in letteratura è basata sull'ipotesi che il timore di essere disoccupato sia uno strumento di
incentivo per i lavoratori, ma ciò funziona solo se il mercato del lavoro non è in equilibrio. Infatti, se
non esistesse disoccupazione e tutte le imprese pagassero lo stesso salario, nessun lavoratore
sarebbe incentivato ad impegnarsi all'interno dell'impresa, in quanto la scoperta dei comportamenti
sleali sul lavoro non procurerebbe costi, visto che per ogni lavoratore licenziato troverebbe
immediatamente un posto di lavoro in un'altra impresa.
Dal punto di vista dell’imprenditore, retribuire i lavoratori in misura superiore al salario di riserva ha lo
scopo di incentivare i lavoratori a tenere un comportamento leale, in quanto un eventuale
licenziamento diventerebbe tanto più costoso quanto più l'impresa in cui si è occupati paga meglio
della altre.
Esistono numerose forme contrattuali di incentivazione dei lavoratori. Contratti che prevedono un
sistema di penalizzazioni, oppure dinamiche salariali che premiano l'anzianità di servizio,
compartecipazione ai profitti, polizze sanitarie e assicurative aziendali, ecc.
L'approccio cd. contrattuale all'analisi del lavoro amplia l’approccio tradizionale di funzionamento
del mercato, che analizza le relazioni tra lavoratore e impresa attraverso il prezzo (salario).
Il contratto isola i contraenti dai condizionamenti e dalle modificazioni dell'ambiente esterno, anche
se ne è influenzato (basti pensare a come avviene la contrattazione sindacale).
L’intervento del sindacato riduce il potere degli imprenditori creando un “monopolio” nell'offerta di
lavoro, anche se, oltre ad avere l’obiettivo di far crescere il salario dei propri iscritti, si pone obiettivi
di carattere più generale: accrescere i livelli occupazionali, ridurre disuguaglianze, ridistribuire il
reddito, ecc. Inoltre, attraverso la contrattazione, si pongono altri obiettivi legati alle condizioni di
lavoro: orari di lavoro, turni di lavoro, sicurezza dell’ambiente lavorativo.
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Politiche del lavoro attive e passive
Si considerano propriamente politiche del lavoro tutte le politiche che operano direttamente nel
mercato del lavoro e possono rivolgersi alla generalità della popolazione o a particolari categorie,
come i soggetti in difficoltà occupazionale (interventi selettivi), anche se sul mercato del lavoro
hanno interferenza la gran parte delle politiche economiche.
Sono, infatti, numerose le politiche che hanno effetti sul mercato del lavoro, in quanto influenzanti la
domanda e l’offerta di lavoro, e che possono essere così aggregabili:
A. Politiche di sostegno alla domanda aggregata ed alla domanda di lavoro (politiche
macroeconomiche, sussidi all’occupazione, creazione di lavoro nel settore pubblico, riduzione del
costo del lavoro)
B. Politiche di sostegno del reddito durante la non-occupazione (sussidi di disoccupazione, politiche
assistenziali e politiche sociali in genere)
C. Politiche rivolte all’offerta di lavoro (riduzione offerta di lavoro, istruzione/formazione e
riqualificazione dell’offerta di lavoro, sostegno all’incontro tra domanda ed offerta di lavoro)
D. Politiche di regolazione dei rapporti di lavoro (introduzione di nuovi contratti, con aumento della
flessibilità nella durata e nei tempi dell’orario, oppure modifiche di garanzie e tutele)
E. Politiche contrattuali, con una tendenza a intensificare le relazioni tra la remunerazione del lavoro
e le dinamiche di produttività, attraverso un aumentato del decentramento della contrattazione
Gran parte di queste politiche sono volte ad attivare e a facilitare l’inserimento lavorativo dei soggetti
che si trovano al margine del mercato (politiche attive) o a sostenere il reddito delle persone in cerca
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di lavoro o a facilitare l’uscita dal lavoro (politiche passive). Al riguardo, sono state così classificate
da Eurostat e OECD:
Politiche attive
1. supporto e orientamento personalizzato a favore di chi cerca lavoro da parte dei servizi pubblici
per l’impiego
2. formazione e addestramento
3. schemi di suddivisione del lavoro (job sharing)
4. incentivi all’occupazione
5. politiche di inserimento lavorativo dei disabili
6. creazione diretta di lavoro nel settore pubblico
7. incentivi alle nuove attività d’impresa
Politiche passive
8. politiche passive di tutela economica dei disoccupati (CIG, CIGS, cassa integrazione in deroga,
indennità di disoccupazione)
9. schemi di pensionamento anticipato
L’esclusione di un numero elevato di cittadini dal mondo del lavoro rappresenta uno dei principali
problemi di policy dei paesi dell’Unione europea, e ciò per almeno due motivi: il primo riguarda le
modalità di funzionamento del mercato del lavoro e la sua capacità di integrare le fasce più deboli; il
secondo, che sta emergendo con forza in questi tempi, è la sostenibilità finanziaria dei sistemi
assistenziali e previdenziali che rischiano di non essere in più in grado di finanziare politiche di
contenimento di livelli di disoccupazione per una ampia fascia di popolazione.
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Caratterizzare il mercato del lavoro come strumento di inclusione, significa anche affrontare
l’esclusione lavorativa attraverso lo sviluppo di politiche che tendono alla diretta
responsabilizzazione del cittadino rispetto al proprio destino personale e professionale. Queste
politiche, denominate welfare to work o workfare, perseguono l’obiettivo di rendere la condizione
lavorativa più competitiva rispetto alla misure passive, come ad esempio la dipendenza dai sussidi.
Contestualmente alla loro applicazione, vengono apportate modifiche restrittive al sistema dei
benefici, in modo da spingere l’inoccupato o il disoccupato a cercare attivamente un impiego. Tali
restrizioni consistono in genere in vere e proprie sanzioni, che possono prevedere anche la
sospensione della provvidenza economica statale per coloro che non accettino il lavoro al termine
del periodo formativo stabilito. Nel workfare, il «principio di responsabilità individuale» assume
dunque una posizione centrale, e l’attivazione del cittadino è operata con riferimento quasi esclusivo
al mercato del lavoro.
A secondo del prevalere, e della composizione, delle politiche attive e passive, sono stati avanzati in
letteratura economica e istituzionale alcuni modelli di riferimento semplificati:
Modello liberista (caratteristico nei paesi anglosassoni)
-Il ruolo pubblico di intervento nel mercato del lavoro limitato al sostegno contro i rischi individuali
principali (povertà, disoccupazione, esclusione sociale,), anche se la spesa sociale complessiva è
relativamente elevata.
La common law assicura diritti individuali contro licenziamento senza giusta causa.
Le relazioni industriali decentrate e scarso coordinamento nazionale (ma salario minimo).
In questi paesi, date le condizioni macroeconomiche specifiche di questi contesti (bassi salari
minimi, carico fiscale contenuto, ecc.), la difficoltà non è tanto quella di trovare l’occupazione, quanto
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di spingere le persone ad accettare impieghi le cui retribuzioni spesso non consentono di uscire dallo
stato di povertà.
Modello social-democratico (Paesi scandinavi)
Il modello scandinavo di protezione sociale garantisce un’ampia copertura dei rischi a cui la
popolazione può essere soggetta e l’accesso alle prestazioni, concepite come un diritto di
cittadinanza, spesso è condizionato solo alla residenza nel paese.
Un ruolo importante è svolto dai trasferimenti assistenziali, finanziati attraverso la fiscalità generale: i
welfare states scandinavi si distinguono per l’utilizzo di forme di sostegno al reddito di tipo universale
e per la presenza di un sistema altamente sviluppato di servizi all’infanzia, ai disabili e agli anziani
bisognosi.
La garanzia di un’ampia rete di sostegno del reddito, nonché la presenza di una vasta gamma di
servizi di cura alle famiglie permettono di mobilitare i soggetti più vulnerabili del mercato del lavoro,
come le donne, i genitori soli con figli piccoli, i lavoratori anziani e gli individui con qualche forma di
invalidità. Conseguentemente, il sistema scandinavo si rivela particolarmente fficace nell’azione di
contrasto della povertà e dell’esclusione sociale, riuscendo a minimizzare ontemporaneamente la
povertà tra gli anziani e i minori (in questo uguagliati, in ambito europeo, olo dal Belgio).
Ampio ricorso alle politiche attive del lavoro e ai servizi pubblici per garantire elevata occupazione,
mobilità del lavoro e prevenzione disoccupazione.
In questi contesti, l’intervento caratterizzante è l’attivazione di servizi complementari suscettibili di
favorire l’inclusione sociale e la mobilità professionale, essenzialmente per permettano ai beneficiari
di migliorare le competenze e le capacità, incrementare la qualità delle relazioni sociali, aumentare il
grado di appartenenza alla società.
La contrattazione è centralizzata (ma tendenza decentralizzazione) ed elevato livello di
coordinamento.
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Il modello corporativo (o continentale)
Il modello corporativo è caratterizzato da un’elevata frammentazione dei programmi di spesa, che
spesso hanno una natura categoriale e sono distinti per lavoratori dipendenti, autonomi e inattivi.
Nei paesi che rientrano in questo gruppo (Germania, Brancia, Belgio, Olanda, Austria), il sistema
sanitario copre tutti gli individui che possiedono un impiego retribuito, oltre ad altre categorie
assimilate (tra cui i pensionati, i disoccupati, i disabili). Tutti i lavoratori dipendenti sono assicurati
contro il rischio di disoccupazione e sono previsti degli istituti di ultima istanza, diretti ad assicurare
un reddito minimo contro il rischio della povertà estrema.
Modello mediterraneo - familista (Europa meridionale -italiano)
I sistemi di welfare state nei paesi mediterranei sono caratterizzati da una generalizzata
frammentazione e dalla posizione di relativo privilegio accordato ai lavoratori dipendenti. Tra i
caratteri che accomunano i sistemi all’interno di questo raggruppamento, particolarmente rilevante è
l’assenza di un’articolata rete di protezione minima di base, non categoriale, erogata e gestita a
livello di governo centrale, che possa fungere da strumento di sostegno di ultima istanza.
La protezione sociale ed occupazionale frammentata che privilegia sostanzialmente il capofamiglia;
la famiglia al centro del sostegno economico, influenza il salari di riserva e la disponibilità alla
mobilità territoriale
Spesa sociale e per politiche del lavoro non particolarmente elevata. Scarsamente tutelato è anche il
rischio di disoccupazione.
Tutti i paesi hanno istituito dei sistemi sanitari nazionali universali, in cui spesso la fornitura dei
servizi è realizzata attraverso una combinazione di offerta pubblica e privata.
I sistemi previdenziali presentavano alcune caratteristiche comuni, prima della recente crisi, che ha
invece accelerato il passaggio al regime cd “contributivo” in luogo del “retributivo”; l’ammontare dei
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trasferimenti è basato sul salario percepito e dipende dal numero di anni di contribuzione,
obbligatoria.
La contrattazione salariale è nazionale e di settore. Livello di coordinamento medio-elevato
In Italia, pur appartenente a quello che chiamano anche il modello “europeo mediterraneo”, la
situazione è molto diversa. Intanto, la spesa per la protezione sociale1 nel 2012 in Italia supera il 30
per cento del Pil e il suo ammontare per abitante sfiora gli 8.000 euro l’anno e si colloca
all’undicesimo posto tra i 27 paesi europei e, comunque, al di sopra della media Ue27 (7.300 euro).
Se rapportata al Pil, la spesa dedicata alla protezione sociale pone l’Italia in una posizione più
elevata, al settimo posto, di poco superiore alla media Ue27 (29,5 per cento), in un contesto europeo
che mostra valori di spesa piuttosto variabili: da un minimo pari al 15 per cento rilevato per la
Lettonia, a un massimo del 34 per cento relativo alla Danimarca.
1
Si definisce la spesa per la protezione sociale come i costi a carico di organismi pubblici o privati per l’insieme degli interventi intesi a
sollevare le famiglie dall’insorgere di rischi o bisogni, purché ciò avvenga in assenza, da parte dei beneficiari, sia di una contropartita
equivalente e simultanea, sia di polizze assicurative. Le funzioni o rischi sono: malattia/salute; invalidità; vecchiaia; superstiti; famiglia,
maternità e infanzia; disoccupazione; abitazione; altre tipologie di esclusione sociale (formazione per il reinserimento nel mercato del
lavoro, abitazioni, misure di contrasto alla povertà eall’esclusione sociale).
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Spesa per la protezione sociale nei paesi Ue.Anno 2011 (euro per abitante)
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Nel nostro paese, per poter attivare programmi seri di welfare to work sarebbe necessario disporre di
un sistema equilibrato di protezione sociale, che si avvicini agli standard europei, e avere a
disposizione un servizio per l’impiego più efficace ed efficiente di quello attuale. Invece, vi è uno
squilibrio tra erogazioni monetarie e servizi in natura, amplificato dal fatto che le politiche attive per il
lavoro appaiono ancora marginali, mentre molto più elevate sono le politiche passive.
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Nel 2010, la spesa per prestazioni di protezione sociale (che rappresenta il 95,5 per cento della
spesa complessiva) è dedicata per oltre la metà alla funzione “vecchiaia” (51,3 per cento), mentre la
parte rimanente si distribuisce tra “malattia/sanità” (25,8), “superstiti” (9,2), “invalidità” (5,9),
“famiglia” (4,4) e “disoccupazione e altra esclusione sociale” (3,4).
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Decentramento delle politiche del lavoro e dello sviluppo locale: linee evolutive e impatti
dell’attuale crisi economica e occupazionale
Il processo di decentramento ha sinora avuto prevalentemente un carattere amministrativo, cioè una
riorganizzazione volta a favorire l’articolazione territoriale delle strutture amministrative, a partire da
quelle statali. E’ dunque un aspetto specifico con cui in Italia si indica un fenomeno articolato e
complesso di attuazione del principio costituzionale di autonomia, che si è tradotto nel pluralismo
istituzionale fondato sugli enti territoriali e, propriamente, su Comuni, Province e Regioni.
Negli anni Novanta, il tema del decentramento si è andato concretizzando con riferimento a processi
di riforma della Pubblica Amministrazione2, mediante i quali lo Stato ha provveduto a conferire
ulteriori funzioni e compiti amministrativi alle Regioni e agli Enti locali3. Si è trattato di un processo (di
cosiddetto “federalismo amministrativo”, a Costituzione invariata) che ha trovato un ancoraggio forte
nell’evoluzione della politica comunitaria, traendo impulso più in particolare dal progressivo
affermarsi del principio di sussidiarietà previsto nel Trattato di Maastricht sull’Unione Europea del
1992. La direttrice di marcia, in base a tale principio, inteso in senso verticale ed orizzontale, mirava
ad avvicinare l’amministrazione ai cittadini, alle imprese e ai sistemi produttivi territoriali, mediante
l’apertura ad esperienze di autogoverno dei sistemi territoriali, delle istituzioni formative (si pensi
Ci si riferisce alla riforma delle autonomie locali, realizzata con la l. n. 142/90 su Comuni e Province, per culminare nella legge n.
59/97 (cosiddetta legge Bassanini) e nei relativi decreti legislativi attuativi (vedi, in particolare, il decreto legislativo n. 469/97 e il
decreto legislativo n. 112/98)
3
Tale conferimento è peraltro avvenuto con differenti modalità a seconda che interessasse materie previste nell’art. 117 (nella
formulazione precedente alla riforma costituzionale) oppure materie non menzionate dal dettato costituzionale. Nel primo caso, infatti,
lo Stato ha conferito funzioni e compiti agli Enti territoriali con la previsione che le Regioni, a loro volta, provvedessero a distribuirli a
favore di Comuni e Province; mentre, nel secondo caso, funzioni e compiti sono stati distribuiti direttamente dallo Stato medesimo a
Regioni ed Enti locali, mediante deleghe, attribuzioni o trasferimenti.
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all’introduzione dell’autonomia scolastica), delle categorie produttive; la semplificazione dei
procedimenti; l’autocertificazione e il riconoscimento della possibilità per le pubbliche
amministrazioni di utilizzare strumenti di diritto privato. Si è quindi tentato di introdurre un nuovo
modello di rapporto tra Amministrazioni pubbliche e cittadini che fosse il più possibile paritario, non
autoritario e non meramente gerarchico.
Con la successiva riforma del Titolo V della Costituzione del 20014, che ha costituito una tappa
importante, sebbene non conclusiva, di un processo di trasformazione dell’ordinamento
repubblicano, si sono determinati ulteriori riflessi sulle materie inerenti alle politiche formative5, del
lavoro e dello sviluppo locale che completano il quadro del percorso di decentramento.
Tale disegno è oggi sottoposto ad una profonda revisione con le proposte di riforma del Governo
Renzi, contenute nel Disegno di legge costituzionale (Atto Senato n. 1429, 8 aprile 2014), in cui “…il
disegno di legge prevede un’ampia revisione e razionalizzazione delle competenze legislative –
4
Va ricordato, come parte di questo processo di decentramento, il nuovo modello di articolazione dei poteri e di governance che è stato delineato
dalla Legge costituzionale 3/2001 che, riformando il Titolo V della Costituzione, dedicato alle Regioni, e agli Enti locali, è intervenuta operando
una distribuzione di competenze legislative tra Stato e Regioni ed una nuova attribuzione delle funzioni amministrative e della potestà
regolamentare tra tutti i soggetti costitutivi della Repubblica (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato: art. 114 Cost.). Con la
riforma, il principio di sussidiarietà, nella sua duplice dimensione – orizzontale e verticale- viene testualmente menzionato nel testo dell’art. 118
della Costituzione, che ridefinendo l’architettura del sistema amministrativo, promuove l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati per lo
svolgimento di attività di interesse generale, nella consapevolezza del ruolo decisivo delle realtà territoriali nel determinare le condizioni ambientali
favorevoli alla crescita e alla competitività del sistema economico e sociale.
5
In sintesi, nel settore dell’istruzione, a fronte di una competenza concorrente regionale, che comunque fa salva l’autonomia delle istituzioni
scolastiche, è stata mantenuta una potestà legislativa statale per tre ordini di interventi: norme generali, livelli essenziali delle prestazioni, principi
fondamentali in materia. L’istruzione e la formazione professionale, al contrario, sono state rimesse (ex art. 117, terzo comma) alla competenza
piena delle Regioni, salva la determinazione statale – oltre che di eventuali norme generali in materia (ad es. per il riconoscimento nazionale dei
titoli) - dei livelli essenziali delle prestazioni, accentuando così i caratteri della regionalizzazione di un sistema che, già nel passato, aveva
conosciuto un forte radicamento territoriale, anche se a carattere prevalentemente extrascolastico.
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intervenendo al contempo su quelle regolamentari – dirette a rimuovere le incertezze, le sovrapposizioni e gli eccessi di conflittualità che si sono manifestati a seguito della riforma del 2001 e che
hanno avuto rilevanti ricadute sia sul piano dei rapporti tra i livelli di governo che compongono la
Repubblica, troppo spesso sfociati in contenziosi di natura costituzionale, sia su quello della competitività del sistema Paese”.
a) Sviluppo locale e politiche del lavoro; i SERVIZI per l’IMPIEGO
Il decentramento delle politiche del lavoro e dello sviluppo locale non può essere considerato come
un settore di intervento, ma rappresenta invece un obiettivo strategico la cui realizzazione deve
essere correlata alla definizione ed attuazione di una serie di politiche distinte tra loro, ma
trasversalmente connesse in funzione del risultato. Politiche economiche, infrastrutturali, ambientali,
di ricerca e sviluppo tecnologico, sociali, occupazionali, formative, ecc., promosse sulla base delle
specificità ed esigenze dei territori, opportunamente coordinate e integrate, volte, non solo al
miglioramento dei singoli settori di riferimento, ma a ridurre i divari e gli squilibri fra le diverse zone
del Paese. In particolare, il decentramento, assunto come obiettivo strategico delle politiche
comunitarie, statali, regionali e locali, costituisce un processo generale, connesso al riorientamento
delle politiche legate alle specificità del territorio, la cui governance poggia su un insieme di regole e
strumenti che affidano ai diversi soggetti istituzionali potestà, funzioni e compiti.
Volendo focalizzare l’attenzione sulle politiche del lavoro, occorre ribadire come anche queste siano
state fortemente influenzate, nel loro progressivo ri-orientamento, oltre che dal processo di riforma
dell’ordinamento e, quindi, dall’assetto normativo, istituzionale ed amministrativo del Paese, anche
dall’evoluzione delle politiche comunitarie e più specificamente dal percorso di elaborazione della
Strategia Europea per l’Occupazione (SEO).
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A livello nazionale, l’atto normativo di riferimento per il decentramento delle politiche del lavoro è
rappresentato dal d.lgs. n. 469/97, con il quale si è stabilito che fossero conferite alle Regioni le
funzioni e i compiti in materia di collocamento, di servizi per l’impiego e di politiche attive del lavoro,
con relativa attribuzione alle Province di funzioni e compiti, ai fini dell’integrazione tra i servizi per
l’impiego, segnando al tempo stesso il passaggio dalle politiche cosiddette passive a quelle attive del
lavoro.
Tramite le strutture denominate Centri per l’Impiego (CPI), le Province hanno quindi iniziato ad
esercitare le funzioni e i compiti ad esse assegnati in materia di collocamento, di preselezione ed
incontro tra domanda e offerta di lavoro, unitamente a quelli ad esse delegati dalle Regioni in
materia di politiche attive del lavoro, favorendone l’integrazione con le politiche più propriamente
dedicate alla formazione professionale.
I servizi per l’impiego (Spi) possono svolgere una funzione di grande importanza nel favorire i
processi di flessicurezza, al centro del dibattito politico e scientifico, nell’approfondimento delle sue
quattro “componenti”: contratti di lavoro flessibili e affidabili; apprendimento lungo tutto l’arco della
vita; efficaci politiche attive del lavoro; moderni sistemi di sicurezza sociale.
La Commissione europea ha da tempo avviato una riflessione ed una serie di iniziative atte ad
implementare la flexicurity nei diversi contesti europei. A tal scopo, tra gli altri approfondimenti, ha
commissionato un rapporto di ricerca The role of the Public Employment Services related to
‘Flexicurity’ in the European Labour Markets.6
6
Lo studio, condotto utilizzando una pluralità di metodologie di ricerca, propone, tra l’altro, 5 casi studio nazionali (Austria, Danimarca,
Francia, Olanda, e Slovenia) e 22 buone pratiche, tra cui 3 italiane. Tra queste i servizi della Provincia di Parma per le crisi industriali,
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La principale conclusione del Rapporto è che il complesso delle riforme cui, nell’ultimo decennio,
sono stati sottoposti i servizi all’impiego in tutto il continente colloca gli stessi in una “posizione
storica unica”, al momento di adottare l’approccio di flexicurity. La dimensione della sicurezza, infatti,
impone l’agevolazione delle transizioni sul mercato del lavoro. L’obiettivo è garantire più che il diritto
a conservare un’occupazione, quello del lavoro e, quindi, una maggiore sicurezza nelle transizioni.
In questa ottica sono cruciali i servizi preventivi affidati agli Spi, quali quelli di rapida identificazione
dei bisogni formativi, matching, assistenza ed orientamento al lavoro. Tuttavia, la prevenzione pone
una prima sfida: è necessario bilanciare la stessa con la selettività, per evitare sprechi; a tal fine, una
maggiore selezione dell’utenza, potrebbe essere un utile strumento. Spesso, proprio gli inattivi non
costituiscono un target degli Spi e pertanto maggiori sforzi dovrebbero essere fatti per il loro
coinvolgimento.
La flessicurezza richiede poi un mercato più aperto ed inclusivo, che superi la segmentazione tra
soggetti più protetti (insiders) e meno tutelati (outsiders). Assumono rilievo misure effettive per
mantenere e migliorare l’occupabilità, anche quando si tratti di programmi formativi ed educativi
gestiti da altre istituzioni (tra gli altri, le parti sociali in particolare impegnate nella formazione
continua), rispetto alle quali gli Spi svolgono, comunque, un ruolo di promotori, partner strategici e/o
coordinatori. Garantire un’efficace informazione sui reali fabbisogni formativi delle imprese rimane
tuttora una sfida per gli Spi. Si pone con forza la necessità di assicurare la presenza di un personale
maggiormente qualificato.
erogati in stretta cooperazione con le Agenzie per il lavoro ed enti di formazione; l’attività di intermediazione tra domanda ed offerta di
lavoro svolta dalle Università e, infine, il Progetto Labour Lab della Regione Lombardia, relativo alla erogazione di politiche attive per
specifici target di lavoratori svantaggiati, tramite la rete pubblico-privata regionale.
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Assumono rilievo anche tutte le reti cooperative sviluppate dagli Spi. In primo luogo, proprio i servizi
specialistici rivolti ai soggetti più svantaggiati sono spesso esternalizzati presso altri operatori,
anche privati, in regime quindi non di concorrenza, ma di parternship.
Vanno poi considerate le relazioni con le istituzioni impegnate a rimuovere gli ostacoli sociali e fisici
al lavoro. L’inserimento dei disoccupati, è attivato in maniera differente da Stato a Stato. In alcuni
Paesi europei, è sviluppato mediante la fusione degli Spi con gli enti previdenziali ed assistenziali,
attraverso la creazione di sportelli unici (one-stop-shop); in altri mediante leggi intese a condizionare
più fortemente l’accesso ai sussidi alla partecipazione alle politiche attive erogate dagli Spi.
In conclusione, la Commissione ha stilato delle raccomandazioni per i servizi pubblici per l’impiego:
acquisire un ruolo maggiormente proattivo, visto l’ottimale posizione di osservazione di cui
beneficiano; fornire tempestive ed avanzate informazioni sul mercato del lavoro; lavorare insieme
agli enti previdenziali ed assistenziali per favorire il veloce ritorno al lavoro dei beneficiari di sussidi.
Così si realizza l’obiettivo di rafforzare ulteriormente le politiche attive, utilizzando comunque
tecniche di selezione dell’utenza per favorire i soggetti più bisognosi7.
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Sintesi di una recensione sulla ricerca, tratto da Bollettino Adapt, Modena,14 luglio 2009
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L’attenzione sul ruolo svolto dai Centri per l’Impiego, ed ancor più per i compiti che dovranno
ricoprire per larga parte delle politiche attive in un momento così di così elevata disoccupazione in
Europa (per tutte, l’avvio della cd. “Garanzia Giovani”8) è continuato ad essere continuo da parte
degli studiosi e delle istituzioni nazionali e comunitarie. Una recente pubblicazione dell’ISFOL
presenta un aggiornamento sul ruolo dei Servizi pubblici per l’Impiego in Europa: ISFOL, Lo stato dei
Servizi pubblici per l’impiego in Europa: tendenze, conferme e sorprese, Occasional Paper n. 13,
marzo 2014.
Si riporta tale pubblicazione come allegato alla lezione n. 3, di cui si raccomanda di leggere le 4
pagine di Riflessioni conclusive, perché alcune risultanze sul basso utilizzo in Italia dei servizi offerti
per la ricerca del lavoro hanno rinvigorito il dibattito sulla scarsa rilevanza dell’intermediazione
pubblica per la ricerca del lavoro.
8
La Garanzia per i giovani deve:
a) Garantire a tutti i giovani di età inferiore ai 25 anni entro quattro mesi dal termine degli studi o dall’inizio della fase di
disoccupazione/inattività un’offerta:
- di lavoro (anche avvalendosi del sistema EURES per le opportunità di occupazione all’estero)
- di tirocinio in azienda
- di apprendistato
- di proseguimento degli studi e/o di formazione professionale
- di un percorso di avviamento all’attività d’impresa con il riconoscimento e la certificazione delle competenze acquisite;
b) essere sostenuta/attuata da partenariati istituiti tra servizi pubblici e privati per l’impiego, parti sociali e datoriali, rappresentanti delle
organizzazioni di giovani, al fine di aumentare le opportunità di occupazione, apprendistato e tirocinio soprattutto per i giovani
NEET. Deve essere previsto il rafforzamento della capacità istituzionale necessaria per progettare, realizzare e gestire gli strumenti
di Garanzia per i giovani;
c) prevedere misure di sostegno per favorire l'inserimento lavorativo dei giovani, soprattutto i più vulnerabili, migliorandone le
competenze, incoraggiando gli imprenditori ad offrire loro dei lavori e promuovendo la mobilità lavorativa;
d) prevedere la valutazione e il monitoraggio costante delle misure dal punto di vista anche dell’efficienza della spesa;
e) prevedere tempi veloci di erogazione dei servizi (scelta della governance più efficace).
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Ricordiamo, infine, come le dinamiche che hanno caratterizzato il processo di decentramento, in
contesti territoriali anche molto differenti tra loro, siano state fortemente correlate anche con la
gestione/attuazione dei Fondi Strutturali e, in particolare, dei Programmi Operativi Regionali (POR).
In particolare, si è potuto rilevare come, la programmazione regionale cofinanziata dal Fondo Sociale
Europeo (FSE), abbia influito in modo sostanziale sui sistemi di governo regionali delle politiche
formative e del lavoro, per cui, la gestione delle politiche comunitarie è andata assumendo sempre
più il ruolo di terreno di confronto in tema di strategie di governo, anche in riferimento ai tempi e alle
modalità d’introduzione e di applicazione di norme nazionali e, di conseguenza, regionali.
In questo contesto, le iniziative comunitarie sono concepite come complementari alle corrispondenti
azioni nazionali o come contributi alle stesse e si fondano su una stretta concertazione tra la
Commissione, lo Stato membro, le autorità regionali e locali, le parti economiche e sociali e gli altri
organismi, sulla base delle loro specifiche competenze e nel perseguimento di finalità comuni.
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La politica del lavoro tra Stato e Regioni: i più recenti interventi per far fronte all’attuale crisi
economica e occupazionale
La gravità della recente crisi economica ed occupazionale è stata fronteggiata dal Governo italiano
adottando misure di politica del lavoro che si caratterizzano per l’intreccio tra politiche del lavoro
attive e passive e per la cooperazione tra Stato e Regioni.
I provvedimenti presentati negli ultimi 12 mesi (molti dei quali in via di perfezionamento ed
approvazione in questi mesi) sia dal precedente Governo Letta, sia dall’attuale Governo Renzi (che
ne riprende, modificandone, parti rilevanti), stanno collocando “tasselli” di un quadro riformatore di
qualche organicità, pur suscitando forti dibattiti e anche prese di posizione contrarie – com’è lecito
attendersi – quando si interviene su una serie così vasta di istituti normativi, che interessano platee
molto vaste di popolazione (sia già inserite nel lavoro, sia alla ricerca di una occupazione).
Mentre sono continuate le reiterazioni dei finanziamenti per il contributo dello Stato della parte
maggioritaria del sostegno al reddito (cioè per la concessione della cassa integrazione, di cui quella
“in deroga” non ha altre possibilità di copertura finanziaria) e dei relativi contributi previdenziali
figurativi, molti sono gli interventi che hanno presentato novità; ne ricordiamo di seguito le sintesi.
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Decreto Legge n.76 28 giugno 2013:
Sintesi delle norme riguardanti i temi dell’occupazione, della previdenza e dell’inclusione sociale
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Il nuovo Governo Renzi (insediatosi a febbraio 2014) ha presentato il programma di interventi in
materia di lavoro, fisco e previdenza, denominato Jobs Act.
Con i primi decreti legge sono stati approvati gli interventi in materia di lavoro riguardanti il contratto
a termine ed il contratto di apprendistato, sono state poi concesse delle deleghe per intervenire
sull’indennità di disoccupazione Aspi, sull’indennità di maternità e sugli ammortizzatori sociali, come
la cassa integrazione.
Oltre a questi provvedimenti che saranno riportati poco avanti, sono stati approvati gli interventi in
materia fiscale, di cui il più noto riguarda la restituzione di 1.000 euro in busta paga ai lavoratori
dipendenti sotto i 25.000 euro di reddito attraverso le detrazioni fiscali a partire dal maggio 2014, cui
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si aggiunge, per i lavoratori con contratto a progetto, la continuità delle prestazioni erogate dall’Inps
in caso di mancato versamento dei contributi da parte dei datori di lavoro.
Ecco cosa prevede il decreto n. 34 del 20 marzo 2014, dopo l’approvazione al Senato (deve ancora
andare alla Camera per l’approvazione definitiva:
•
•
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Contratti a tempo determinato. Viene alzata da 12 a 36 mesi la durata dei contratti a termine
“senza causale”, cioè quelli per cui non è obbligatorio specificare il motivo dell’assunzione. La
forza lavoro assunta con questo tipo di contratto non potrà essere più del 20 per cento del
totale degli assunti. Per le aziende che non rispettino il tetto del 20 per cento scatta una
sanzione di tipo amministrativo, con una multa pari al 20 per cento dello stipendio che sale al
50 per cento per i contratti successivi al ventunesimo contratto a tempo determinato; sono
esonerati dal tetto del 20 per cento i ricercatori e il personale tecnico degli istituti pubblici o
privati di ricerca scientifica.
I contratti a tempo determinato si potranno rinnovare fino a un massimo di cinque volte in tre
anni, sempre che ci siano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa attività lavorativa.
Salta l’obbligo di pausa tra un contratto e l’altro.
Per tenere conto delle realtà imprenditoriali più piccole, è previsto che le imprese che occupano
fino a 5 dipendenti possono comunque stipulare un contratto a termine.
Le modifiche al contratto a termine sono state estese anche al contratto di somministrazione
di lavoro a tempo determinato. Anche per quest’ultimo era necessaria l’apposizione del
termine accompagnata dall’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo. Dopo il Decreto anche nella somministrazione a termine, non sono
più necessarie le ragioni giustificative.
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I contratti di apprendistato avranno meno vincoli. Per esempio per assumere nuovi
apprendisti non sarà obbligatorio confermare i precedenti apprendisti alla fine del percorso
formativo. L’obbligo di stabilizzazione riguarda solo le aziende con almeno 50 dipendenti e la
quota minima di apprendisti da stabilizzare è il 20 per cento.
L’apprendistato può essere utilizzato a tempo determinato per le attività stagionali. La norma
dovrà essere però essere recepita dalle regioni.
La busta paga base degli apprendisti sarà pari al 35 per cento della retribuzione del livello
contrattuale di inquadramento.
Il congedo di maternità potrà concorrere a determinare il periodo di attività lavorativa utile a
conseguire il diritto di precedenza per le assunzioni. Alle lavoratrici è inoltre riconosciuto il diritto
di precedenza anche nelle assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro entro
i successivi 12 mesi.
È prevista inoltre l’abolizione del Durc (Documento unico di regolarità contributiva), il
documento sugli obblighi legislativi e contrattuali delle aziende nei confronti di Inps, Inail e
Cassa edile. Sarà sostituito da un modulo da compilare su internet.
Il 12 marzo il Consiglio dei Ministri ha approvato anche un disegno di legge delega al Governo che
affronta gli altri temi contenuti nel Jobs act: dagli ammortizzatori sociali ai servizi per il lavoro,
dall’introduzione di un sussidio di disoccupazione al salario minimo, dalla riduzione delle forme
contrattuali alla tutela per le donne in maternità.
Queste misure avranno tempi di approvazione più lunghi. Il disegno di legge dovrà essere convertito
in legge delega dal Parlamento e il Governo dovrà dare attuazione alla norma in un tempo stabilito
dalla legge stessa.
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Altri Paesi europei hanno reagito soprattutto prendendo spunto dalla crisi per rafforzare o
accelerare riforme strutturali già avviate.
La Germania, che con le leggi Hartz III e IV ha rifondato l’Istituto federale per il lavoro, trasformato
ora in Agenzia, ha ridisciplinato il sistema dei sostegni al reddito in caso di disoccupazione ed, in
caso di bisogno conclamato, un reddito di cittadinanza anche a chi non trova lavoro dopo aver
completato gli studi, con contributi per la casa, la famiglia e i figli, un’assicurazione sanitaria.
(realizzando così uno stretto intreccio tra politiche del lavoro e politiche sociali) ed ha previsto
sanzioni severe per coloro che godono di sussidi pubblici e non accettano opportunità di lavoro, di
orientamento, formazione o inserimento/reinserimento al lavoro.
Sono poi stati introdotti i famosi, (perché molto criticati, anche se fortemente utilizzati), ‘Minijob’,
contratti di lavoro precari, poco tassati, senza diritto a pensione nè assicurazione sanitaria; i Midjob,
contratti atipici a 400 euro massimi; i finanziamenti a microimprese autonome e un maggior sostegno
per gli over-50 che perdono il lavoro.
La Francia, attraverso la legge del febbraio 2008, è stato riorganizzato l’intervento statale mediante
l’unificazione dell’Agenzia nazionale per l’impiego (A.N.P.E.) con l’Assedic (soggetto deputato al
pagamento dei trattamenti di disoccupazione) in un’unica struttura (Pole-emploi); con la legge del 1
agosto 2008, n. 758 sono stati precisati i diritti del disoccupato alla formazione ed ai servizi per
l’impiego e, nel contempo, sono stati fissati i doveri connessi alla condizione di disoccupato che
gode di sussidi pubblici; non è mancata, infine, l’attenzione al sostegno al reddito perseguita
mediante l’istituto denominato “chomage partiel” (simile alla nostra cassa integrazione guadagni ma
con l’indennità a carico dello Stato).
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