II PARTE - LEZIONE N. 4 - Economia dell`istruzione e Capitale umano

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II PARTE - LEZIONE N. 4 - Economia dell`istruzione e Capitale umano
Dipartimento di Scienze della Formazione
Università di Roma Tre
Anno accademico 2015/2016
Corso di laurea in “Formazione e sviluppo delle risorse umane”
Insegnamento
Politica economica e gestione delle risorse umane
Docente
Prof. Aldo Gandiglio
Seconda parte
LEZIONE 4
ECONOMIA DELL’ISTRUZIONE E CAPITALE UMANO
OVEREDUCATION, MISMATCH E SKILL-BIAS
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Capitale umano – approcci teorici (cenni)
Che cosa è il capitale umano?
In termini generali potremmo definirlo come il patrimonio di abilità, capacità tecniche e conoscenze di
cui sono dotati gli individui; vi sono incluse la forza fisica, la resistenza alla fatica, l’abilità manuale, la
capacità di comunicare. L’importanza di queste doti nel determinare la quantità di prodotto ottenibile,
per esempio, in un’ora di lavoro non è fissa nel tempo e nello spazio, ma è storicamente
determinata, in primo luogo dal paradigma tecnologico prevalente. In agricoltura, nella fabbrica
fordista o nel settore delle costruzioni la forza fisica e la resistenza alla fatica sono forse le doti più
importanti nel determinare la produttività del lavoro; queste stesse caratteristiche sono meno vitali
nelle parti del mondo ove prevalgono le economie avanzate e terziarizzate.1
Questa definizione è tratta dal lavoro di Cipollone P , Visco I., Il merito nella società della
conoscenza, Il Mulino, n. 1/2007, pp. 21-34, riportato nell’ Allegato n. 1 lezione n. 4, cui si rimanda
per un approfondimento (LEGGERE)
Alcuni precedenti storici
Per molto tempo gli studiosi che si sono avvicinati ad analizzare i fenomeni economici hanno
trascurato una variabile fondamentale per la crescita e lo sviluppo di ogni paese quale il capitale
umano. Verso la fine del ‘600 viene osservato come la crescita demografica costituisca uno dei
fattori per l’aumento del benessere della popolazione, in quanto la singola persona è un fattore
produttivo di ricchezza; nella seconda metà del Settecento, filosofi/economisti italiani (l’abate
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Cipollone P , Visco I. Il merito nella società della conoscenza, “il Mulino, n. 1/2007, pp. 21-34
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Galiani, Genovesi) individuano nell’educazione delle persone la modalità più efficace per
raggiungere la pubblica felicità.
Ma è con Adam Smith e la scuola classica inglese (a cavallo del 1800) che si mettono in luce
l’importanza dell’istruzione e della formazione: la prima ha il compito di trasmettere nozioni e
insegnamenti elementari nella prospettiva dell’introduzione nel mondo produttivo, mentre la seconda
deve essere finalizzata alla specializzazione settoriale, per massimizzare i benefici derivanti dalla
divisione del lavoro. Di più ancora, Smith approfondisce le cause che possono dar origine ai
differenziali salariali, individuandole nelle difficoltà per imparare un mestiere, nei livelli di
responsabilità raggiunti nell’esercizio di una professione, sino alla compensazione dei costi sostenuti
per acquisire una qualificazione finalizzata all’esercizio di professioni. Alla base di tali
argomentazione pone l’assimilazione dell’investimento nella formazione a quello delle macchine per
la produzione: “Quando viene montata una macchina costosa, ci si deve aspettare che il lavoro
straordinario che essa eseguirà prima che sia logora, rimpiazzi il capitale in essa investito con
almeno i profitti ordinari. Un uomo istruito a costo di molto lavoro e tempo in una qualsiasi di quelle
occupazioni che richiedono straordinaria destrezza e abilità può essere paragonato a una di queste
macchine costose. Ci si deve aspettare che il lavoro ch’egli impara ad eseguire, oltre ai salari usuali
del lavoro ordinario, lo ripaghi dell’intero costo della sua istruzione almeno al profitto ordinario d’un
capitale di uguale valore. E questo deve avvenire in un tempo ragionevole, tenuto conto della durata
assai incerta della vita umana, alla stessa stregua che si tiene conto della durata più certa della
macchina”2.
Infine, la scuola neoclassica inglese (1870-1890) considera la cultura uno strumento per promuovere
il protagonismo dei cittadini, la stabilità sociale, l’aumento della ricchezza e la mobilità nel mercato
del lavoro.
2
Smith A. (1987), La ricchezza delle nazioni, Utet, Torino, p. 198.
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Ma è con Schultz nel 1960 che, attraverso alcune stime statistiche, si inizia esplicitamente ad
affermare che il capitale umano è un fattore della crescita economica americana.
A seguire, la prima vera indagine sulla rilevanza del capitale umana è di Denison (intorno alla meta
degli anni ’70) che, attraverso la strutturazione di una funzione di produzione3, che ha come input il
capitale e il lavoro (espresso con gli anni di istruzione della forza lavoro), stima un contributo
dell’istruzione alla crescita del prodotto di un valore pari al 15% -25%; inoltre, con l’aumento della
scolarizzazione verifica che il contributo è aumentato nel tempo. Denison dimostra tale positiva
relazione attraverso l’analisi del PIL degli Stati Uniti tra il 1929 e il 1957, dove rileva un “residuo” non
imputabile ai parametri tradizionali, e che tale parte di reddito nazionale sia attribuibile all’aumento
del livello dell’istruzione nella popolazione. In aggiunta l’economista precisa: «Più istruzione
dovrebbe contribuire alla crescita in due modi diversi. Primo, dovrebbe aumentare la qualità della
forza lavoro […] ciò dovrebbe generare un incremento della produttività lavorativa […] Secondo, un
maggiore livello culturale della popolazione dovrebbe accelerare il tasso di accumulazione dello
stock di conoscenza nella società ».
Ancora, sul finire del secolo passato, altri economisti come Mankiw, Romer e Weil hanno ancora
affinato il modello di Solow, includendovi esplicitamente il capitale umano (misurato dei tassi di
iscrizione alla scuola secondaria) e riuscendo a spiegare una quota di circa 2/3 della variabilità dei
tassi di crescita fra le diverse economie nazionali messe a confronto.
3
E’ una applicazione del c.d. modello di Solow, modello classico nella teoria della crescita economica. Con tale modello, parte della
crescita non trova spiegazioni nella tradizionale quota di capitale fisico, ed appare imputabile a fattori contenuti in una sorta di “scatola
nera”. Il capitale umano avrebbe così tutte le caratteristiche per essere assimilato al capitale fisico da un punto di vista economico.
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Il tema delle dell’accumulazione dell’istruzione nelle risorse umane viene visto come un investimento
vero e proprio. Il capitale umano si forma progressivamente nel tempo mediante il sostenimento di
costi reali e figurati (costi-opportunità), come un investimento a ritorni differiti
Il capitale umano si differenzia dagli altri stock di risorse unicamente per la sua incorporazione
strutturale nell’individuo. Ne deriva la valutazione dell’essere umano in termini di costi/benefici,
danni/vantaggi, perdite/guadagni. Per l’istruzione, si considerano il pagamento delle tasse
scolastiche, l’impiego di anni di studio, il dispendio di energie e la mancata percezione di redditi. Lo
strumento del tasso di rendimento attualizzato sembra essere il più adeguato per individuare
l’economicità delle scelte alternative.
Queste approccio microeconomico ha avuto una formalizzazione nella celebre opera di Becker
intitolata “Human Capital: A Theoretical and Empirical Analysis, with Special Reference to
Education”, (1964 e sviluppi successivi). Lo schema di analisi riprende il pionieristico lavoro di
Mincer del 1958, in cui si dimostra che la differenza tra retribuzioni diverse, sotto la condizione di
pari abilità dei lavoratori, dipende dal numero di anni di istruzione.
Queste indicazioni relative ai differenziali retributivi si fondano su analisi che spiegano come il
capitale umano accresca il prodotto pro-capite sia direttamente, sia attraverso miglioramenti
organizzativi, gestionali e un più alto tasso di innovazione tali da innalzare il trend di crescita della
produttività del complesso dei fattori utilizzati nella produzione.
Le implicazioni di tale aumento della produttività sono quindi di due tipi :
- macroeconomiche, il sistema cresce di più grazie al contributo positivo dell’istruzione,
- microeconomiche, in quanto il lavoratore riesce ad ottenere un reddito maggiore.
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E’ da ricordare come la teoria del capitale umano (almeno nelle formulazioni più neoliberiste) abbia
ricevuto, e riceva, forti critiche. Riporto alcune frasi di Luciano Gallino4, che ne sintetizzano gli aspetti
più critici. “…il neoliberismo propone altresì una teoria dell’occupazione, della distribuzione del
reddito e della persona di fronte al lavoro. In conformità a detta teoria, il mercato stabilisce
automaticamente quale sia il tasso di occupazione più consono al benessere generale. A sua volta
la distribuzione del reddito viene determinata esclusivamente dalla remunerazione dei fattori di
produzione…Infine, il disoccupato è definibile come un individuo cui capita di non possedere la
formazione professionale più adatta, oppure uno che non accetta il lavoro disponibile o il salario che
lo accompagna, o semplicemente non desidera lavorare…Il neoliberismo contiene anche una
esauriente teoria dell’istruzione. Il fine ultimo e unico di questa in ogni suo grado e
comparto…risiede nel conferire all’individuo competenze professionali tali da renderlo
produttivamente occupabile.”
Inoltre, si ricorda ancora quanto riportato nelle precedenti lezioni (quando si è approfondito il
concetto e contenuti del PIL) nel determinare il capovolgimento di angolo visuale legato al concetto
di “eguaglianza di capacità” proposto da Sen, dove le “capacità (capabilities) rappresentano ciò che
un individuo riesce a fare o essere nel corso della propria vita”.
Amartya Sen ricomprende, ampliandolo, il concetto di capitale umano nella sua analisi delle
capabilities, affermando che5: “se l’istruzione rende un individuo più efficiente come produttore di
merci, questa è, chiaramente una crescita del capitale umano. Ciò può far aumentare il valore
economico della produzione della persona che è stata istruita, e quindi anche il suo reddito. Ma
4
5
Gallino L. (2011), Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, pagg. 28-29.
Sen A. (2000), Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondatori Editore, Milano (pag. 293).
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l’essere istruiti può dare dei benefici anche a reddito invariato – nel leggere, nel comunicare, nel
discutere – in quanto si è in grado di scegliere con maggiori cognizioni di causa, in quanto si è più
presi sul serio dagli altri e così via; dunque i benefici vanno al di là del ruolo di capitale umano nella
produzione di merci. Ora, il più generale dei due approcci, quello basato sulle capabilities, tiene
conto anche di questi ruoli addizionali e sa dar loro il giusto valore; dunque i due punti di vista sono
strettamente legati ma diversi”.
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I RENDIMENTI NELL’ISTRUZIONE E NELLA FORMAZIONE
In numerosi studi condotti a livello internazionale si stima che un anno di istruzione in più per la
media dei lavoratori comporti un aumento del prodotto pro capite del 5%. Ma un elevato stock di
capitale umano permette altresì l’adozione di metodi di produzione più efficienti, favorendo la
crescita più rapida del prodotto pro-capite. Per la media dei paesi dell’OCSE si stima che questo
effetto comporti un aumento del tasso di crescita pari a circa mezzo punto percentuale all’anno, ma
l’intensità si attenua via via che si riduce il ritardo tecnologico.
Per misurare l’intensità degli incentivi individuali a investire in capitale umano, gli economisti
usano in genere un parametro che, pur approssimativo, indica in quale misura un anno in più di
istruzione accresca i benefici netti individuali; questi derivano dai maggiori redditi da lavoro e dalla
più alta probabilità di essere occupati tenendo conto naturalmente dei maggiori costi che occorre
sostenere per acquisire l’anno in più di istruzione.
Nella maggioranza dei paesi dell’OCSE le persone con un titolo di istruzione equivalente alla laurea
specialistica guadagnano almeno il 50% in più di quelle che hanno ottenuto il diploma di scuola
secondaria. I differenziali retributivi tra questi ultimi diplomati e quelli della scuola media, meno
accentuati, sono comunque compresi tra il 15% e il 30%.
Negli ultimi vent’anni queste differenze si sono ampliate in quasi tutti i paesi dell’OCSE, sebbene in
modo asincrono e con intensità diverse. Questo fenomeno è riconducibile, in parte, a una maggiore
valorizzazione del lavoro più qualificato a seguito della diffusione di innovazioni tecnologiche che
aumentano la domanda di capitale umano. L’altra causa è stata individuata nel forte aumento
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dell’offerta di lavoro a basso livello di istruzione, attraverso la crescente partecipazione al commercio
mondiale dei paesi meno sviluppati.
In Italia i differenziali retributivi per livelli di istruzione sono prossimi a quelli medi dei paesi
dell’OCSE per quanto riguarda il rapporto tra diplomati di scuola secondaria e di scuola media, con
un differenziale del 28% (valori quasi doppi per Regno Unito e Stati Uniti), ma inferiori a quelli degli
altri principali paesi nel confronto tra laureati e diplomati di scuola secondaria (con valori medi del
53% per l’Italia contro 63% in Francia e Germania, 74% nel Regno Unito e 81% negli Stati Uniti).
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Nelle tabelle precedenti sono state offerte informazioni su tali differenziali di reddito, ma è da
rilevare che nel generale arretramento, dovuto all’attuale crisi economica, del valore dei salario netto
mensile, passato da 1.318 euro del 2008 a 1.264 euro nel 2012 (euro a prezzi del 2012), non si
sono salvate le retribuzioni dei lavoratori in possesso dei più elevati titoli di studio (vedi figura
successiva). In generale, le dinamiche salariali complessive sono state influenzate, da un lato,
dall’ampliamento del divario domanda/offerta di lavoro (con freno della dinamica salariale) e,
dall’altro, dai mutamenti della composizione della forza lavoro con una minore incidenza delle figure
professionali a più bassa remunerazione (con possibile aumento della media salariale).
Tale fenomeno ha interessano con specifiche
modalità i giovani con più elevato titolo di studio;
per quelli in possesso di diploma e, ancor più,
con la laurea. Le cause possono essere ascrivibili
al deterioramento della qualità del lavoro: tra i
giovani laureati, la quota di occupati in mansioni a
bassa o nessuna qualifica è in continua crescita
raggiungendo il 25,3% del totale, con più intensi
aumenti nel Mezzogiorno, mentre minore è
risultato il fenomeno per i giovani in possesso del
diploma, che tocca solo il 15% del totale dei
giovani diplomati. Tale fenomeno è definito
overeducation e viene identificato sulla base della
classificazione internazionale delle professioni.
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Overeducation6, mismatch, skill-bias
Tra i laureati, si considerano overeducated gli occupati nelle professioni a bassa o nessuna
qualifica, mentre tra i diplomati è definito overeducated un lavoratore che è impiegato in professioni
prive di qualifica.
Inoltre, al problema dell’ overeducation tra i laureati si cumula sovente un altro fenomeno, che si
riscontra con un indicatore di mismatch.
Una analoga procedura, come quella già seguita per l’overeducation, definita da Eurostat, identifica i
lavoratori mismatched sulla base di una classificazione delle lauree cui si associano i codici delle
professioni considerate good match; in tal caso i corrispondenti lavori rientrano nell’ambito tematico
del percorso di studi seguito e, al contrario, gli occupati di ciascuna classe di laurea che lavorano al
di fuori di queste professioni sono considerati mismatched.
Con riferimento al mismatch, in Italia, nel triennio 2009-2011, il 32,3 per cento dei giovani occupati in
possesso di una laurea svolgeva mansioni che non riflettevano l’ambito tematico del corso di studi di
provenienza.
Queste informazioni sono tratte da uno studio della Banca d’Italia7, che ha effettuato interessanti
approfondimenti sull’occupazione dei giovani, di cui si danno di seguito alcune informazione di
sintesi.
6
7
Si ricorda che esiste anche il fenomeno opposto “undereducation”, cioè presenza di un livello di istruzione inferiore a quello richiesto
Banca d’Italia, L’occupazione dei giovani in Italia, in L’economia delle regioni italiane, “Economie regionali”, n. 2, novembre 2012.
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Una ricerca del Cedefop ha evidenziato possibili effetti negativi nel medio periodo (scarring effects)
associati al mismatch. In particolare, la overeducation nel primo impiego potrebbe mandare segnali
negativi sulla produttività del lavoratore ai futuri datori di lavoro, rendendo difficile ai giovani ottenere
miglioramenti occupazionali per il futuro lavoro. Inoltre, un periodo prolungato di lavoro non
corrispondente al livello di qualifica posseduto (o alle competenze acquisite con la formazione)
potrebbe portare all’obsolescenza delle stesse competenze.
Passando ad analizzare l’incidenza dell’overeducation per diplomati e per laureati riferita a tutte le
età, la quota appare più contenuta di quella ristretta alla sola età giovanile, ad indicare un
peggioramento del fenomeno negli ultimi anni.
Il confronto con i principali paesi europei segna, sempre in riferimento a tutte le età, valori minori per
l’Italia (vedi tabella seguente).8 Le quote di overeducation per i diplomati di scuola secondaria
superiore e per i laureati sono rispettivamente pari al 28,2% e 16,9% per l’Italia e 39,6% e 21,2%
nella media dell’UE.
Le variabili che determinano l’incidenza più bassa dell’overeducation in Italia appaiono ascrivibili alla
struttura produttiva, con conseguente articolazione di tipologie professionali tradizionali, che
richiedono titolo di studio meno elevati, e contemporaneamente, ai livelli di istruzione relativamente
più spostati verso i titoli di studio meno elevati. Il confronto con i paesi più avanzati dell’Unione
Europea evidenza nel nostro paese una minore incidenza dei knowledge workers sul totale dei
lavoratori dipendenti, a causa dalla prevalenza di piccole imprese, tradizionalmente meno disponibili
8
Cascioli R,, Il fenomeno della sovraistruzione in Italia. Spunti di riflessione; Paper for the Espanet Conference, Roma, 20-22
settembre 2012.
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ad investire in formazione, e con una minore propensione del nostro sistema produttivo ad assorbire
le competenze maturate nei percorsi di studio più elevati.
L’overeducation risulta così relativamente più contenuta a causa, principalmente, dei più bassi livelli
di istruzione degli occupati italiani; al contrario, negli anni più recenti, il riferimento alle leve giovanili
più scolarizzate fa segnare un aumento del fenomeno in quanto trovano occupazione in attività poco
coerenti col percorso di studi seguito a causa della debole dinamica delle attività ad “alto contenuto
di conoscenza”.
Per i giovani può verificarsi il cosiddetto “effetto coorte”, dovuto all’affacciarsi sul mercato del lavoro
di un elevato numero di persone altamente qualificate che determina un eccesso di offerta di lavoro
qualificato, ed in tal caso il mercato assorbe queste persone in posti di lavoro che richiedono minori
skill. Queste situazioni potrebbe avere caratteristiche transitorie, in presenza di mobilità nel mercato
del lavoro, tale da permettere alle persone coinvolte in attività sottoqualificate di cambiare
agevolmente lavoro e di ottenerne un altro più coerente con il percorso di studio. Al contrario, tale
fenomeno può acquistare una valenza strutturale laddove il sistema economico sia caratterizzato da
un alto livello di disoccupazione, con minori possibilità di scelta anche per i lavoratori altamente
qualificati, cui si offrono poche scelte se non accettare lavori sottoqualificati, e poco retribuiti.
Si ricorda che un approfondimento della situazione attuale dei fenomeni di overeducation e skill
mismatch in Italia è riportato in ISTAT RAPPORTO ANNUALE 2014 al capitolo 3.3 L’adeguatezza
delle competenze nel mercato del lavoro, pagg. 117-222.
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Queste considerazione d’insieme ci permettono di avanzare ancora con qualche dettaglio, riportando
alcune distinzioni, come da letteratura, tra più tipologie di mismatch, di cui almeno:
- educational mismatch, mancata corrispondenza tra il titolo di studio posseduto da un individuo
e quello richiesto per una posizione organizzativa/attività;
- skill mismatch, mancata corrispondenza tra le competenze e le abilità di cui è dotato un
individuo e quelle richieste per lo svolgimento di una attività.
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Dai pochi accenni riportati in precedenza, le cause che possono determinare un mismatch tra
domanda e offerta di capitale umano possono essere molte, e non tutte facilmente individuabili, né
tantomeno rimuovibili, almeno nel breve/medio periodo. Si sono ricordate: la struttura economica, la
presenza di professioni ad alto contenuto di capitale intellettuale, le produzioni più innovative a più
alto valore aggiunto, la Ricerca scientifica, le innovazioni di prodotto e processo, ecc.
Tra di esse, e la letteratura economica lo ha ampiamente analizzato e approfondito, il cambiamento
tecnologico skill-biased è considerato un processo rilevante nel contribuire a generare skill
mismatch. L’idea sottesa è che l’innovazione tecnologica favorisca l’assorbimento di persone con
elevato livello di istruzione, in quanto generi posti di lavoro a maggior contenuto di competenze; al
contrario, l’assenza di innovazione tecnologica e il permanere di attività produttive di carattere più
tradizionale generi overeducation e skill mismatch, con le persone con livelli di istruzione più elevati
inserite in attività che richiedono skill ridotti. Tuttavia, se tale approccio ha alla base la
complementarietà tra nuove tecnologie e la più elevata qualificazione dei lavoratori, ciò comporta
anche una sostituibilità tra nuove tecnologie e lavoratori non qualificati.
Accanto al cambiamento tecnologico skill-biased si è affermata la rilevanza del cambiamento
organizzativo skill-biased, alla cui base analitica vi è l’idea che i processi di riorganizzazione interni
all’impresa determinino un aumento della domanda di lavoro qualificato. Anzi, si rileva l’esistenza di
forti relazioni tra cambiamento tecnologico e cambiamento organizzativo: l’impresa che voglia
adottare le nuove tecnologie, soprattutto quelle informatiche, non può prescindere dall’introduzione
di rilevanti cambiamenti nella propria struttura organizzativa. Di più, l’interazione tra tecnologia e
organizzazione potrebbe generare effetti “superadditivi”, accrescendo ulteriormente la domanda di
lavoro qualificato e riducendo il fabbisogno di lavoro non qualificato.
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La letteratura manageriale mette in rilievo che le politiche di reclutamento di manodopera qualificata
appaiono così funzionali ad una piena valorizzazione degli incrementi di produttività indotti
dall’adozione di nuove tecnologie, e, nel contempo, generano nuove opzioni di design organizzativo
e pratiche di lavoro flessibili e innovative, quali:
- impiego di team di produzione (team-based production);
- self-directed work teams: i lavoratori supervisionano il loro stesso lavoro, prendendo decisioni
autonome in merito a tempi e flussi;
- job rotation (esemplare quella delle banche):
- problem-solving groups/circoli di qualità(QC);
- sino al Total quality management (TQM);
- nuovi sistemi di sistema di incentivi rivolti ai team;
- nuove pratiche di screening pre-occupazionali;
- innovative modalità di inserimento (tirocini, ecc.).
Vedi il recente contributo del Prof. Cocozza riportato nell’Allegato 2, Lezione 4 - Innovazione,
sviluppo organizzativo e knowledge worker.
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LE ESTERNALITÀ PRODUTTIVE
La teoria e l’analisi economica individuano l’istruzione come elemento in grado di generare
esternalità positive accrescendo la produttività totale dei fattori della produzione. Le fonti di
esternalità sulla produzione sono molteplici.
Già è stato detto che esiste un effetto del capitale umano sulla crescita della produttività totale dei
fattori indotto dal fatto che la conoscenza aumenta la possibilità di sviluppare o adottare nuove
tecnologie i cui benefici non sono direttamente goduti dall’individuo. Inoltre, esistono effetti di
diffusione della conoscenza tra individui perché le persone imparano anche sul posto di lavoro,
amplificando la capacità del singolo di adattarsi al mutare del contesto lavorativo.
Ma vi sono altri canali attraverso cui il capitale umano influenza il benessere individuale e collettivo.
La letteratura empirica ne ha individuati almeno altri quattro.
a) Il campo più studiato è quello dei cosiddetti peer effects nella scuola, cioè la circostanza per cui gli
studenti sono influenzati dai rendimenti scolastici dei propri compagni di scuola.
b) Il secondo campo di indagine è quello del rapporto tra istruzione e probabilità di delinquere;
l’istruzione riduce gli incentivi a delinquere aumentandone il costo opportunità sia innalzando il
rendimento relativo delle attività legali sia aumentando il costo dei periodi di detenzione.
c) Il terzo riguarda il legame tra livelli di istruzione e salute ed è basato sulla constatazione che il
valore della prevenzione è maggiore per le persone più istruite per le quali il costo monetario della
malattia è più elevato.
d) Il quarto aspetto è in qualche misura più astratto e attiene al legame tra livello di istruzione e
grado di liberta politica
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Alcuni esempi tratti da relazione di Piero Cipollone (Banca d’Italia) al Convegno: Conoscenza per lo
sviluppo: il ruolo della scuola e dei processi di apprendimento nelle politiche di sviluppo e coesione,
Roma, 2005.
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Qualche cenno conclusivo
Una pubblicazione della Banca d’Italia9, (di cui si consiglia di leggere, almeno il capitolo “Perché
investire in capitale umano?”, pagg. 6-12) approfondisce attraverso una ripresa complessiva le
problematiche qui riportate:
“… le indicazioni di policy non possono non tener comunque conto delle interazioni tra domanda ed
offerta di capitale umano, per superare quello che appare essere una sorta di circolo vizioso. La
scarsa dotazione di capitale umano – in termini sia quantitativi sia qualitativi – condiziona il modello
di specializzazione produttiva delle imprese italiane e contiene i ritorni dell’investimento in capitale
umano, disincentivandone l’accumulazione. Gli investimenti e l’attenzione sono spesso rivolti più
verso l’ottenimento d’un titolo di studio che verso l’acquisizione delle competenze che tale titolo in
teoria dovrebbe certificare e “incorporare”, in ciò giocando un ruolo le diverse regole di
funzionamento dei settori pubblico e privato. La stessa flessibilità introdotta nel mercato del lavoro, in
assenza in molti comparti di una spinta al rinnovamento delle imprese e di una crescita della
concorrenza nei mercati del prodotto, ha spesso favorito un utilizzo poco innovativo dei laureati,
impiegati in funzioni e con salari non all’altezza. …occorre beninteso considerare tutte le aree di
confine, superando in particolare la serie di regole che governano l’ordinamento scolastico e il
mercato del lavoro e che creano una discrasia tra questi due mondi. Uscire da un simile circolo
vizioso richiede perciò anche di collegare meglio il mondo scolastico col mondo esterno, evitando
una sorta di autoreferenzialità di stampo accademico che contribuisce a ridurre il rendimento
economico della scolarità. Al tempo stesso paiono essenziali interventi che favoriscano l’accesso al
9
Cipollone, Montanaro, Sestito, Il capitale umano per la crescita economica - possibili percorsi di miglioramento del sistema
d’istruzione in Italia, Questioni di Economia e Finanza, n.122, Roma, aprile 2012.
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mercato del lavoro e la situazione relativa, nello stesso, dei più giovani, superandone il dualismo, e
che, favorendo il rinnovamento e la crescita dimensionale delle imprese italiane, sostengano la
domanda di lavoratori con skills più elevati. Un forte segnale di rinnovamento e rafforzamento da
parte della filiera dell’offerta può però avviare una più complessiva svolta. Esso potrebbe
condizionare le scelte non coordinate del sistema delle nostre imprese, in prevalenza di piccolissime
dimensioni, che finirebbero prima o poi per adeguarsi e reagire, anche per effetto della possibile
nascita di nuove imprese come diretta emanazione di università o altri enti di ricerca.” (op. cit., pag
16)
Da ultimo, si consiglia la lettura di un contributo del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco,
che, riprende molti temi dei temi trattati: Allegato n. 3, Lezione n. 4 - IL MULINO - XXX lettura PERCHE' I TEMPI STANNO CAMBIANDO (Ignazio Visco)
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