L`indice di rifrazione
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L`indice di rifrazione
Quando un fascio di luce bianca colpisce un oggetto possono avvenire quattro fenomeni principali: -Riflessione speculare -Riflessione diffusa o “scattering” -Rifrazione -Assorbimento selettivo La riflessione è il fenomeno per cui la luce, incontrando una superficie viene riflessa propagandosi nello stesso mezzo da cui proviene e alla stessa lunghezza d’onda. I due casi limite della riflessione sono la riflessione speculare e la riflessione diffusa uniforme. riflessione speculare Si verifica in presenza di superfici speculari (lisce, come il vetro) Legge della riflessione: L’angolo di incidenza (indicato come q1, formato dal raggio incidente con la perpendicolare al piano riflettente) è uguale all’angolo di riflessione (q2). riflessione diffusa Se la superficie non e’ liscia ma irregolare, il raggio incidente viene riflesso in più direzioni e si verifica il fenomeno della diffusione della luce (superfici opache). La riflessione diffusa uniforme, è quella in cui la cui radianza riflessa è uguale per ogni angolo di osservazione: Una superficie non liscia, scabra, presenta riflessione diffusa. La curva indicatrice di diffusione rappresenta la radianza della superficie riflettente nelle varie direzioni. Un diffusore ideale è un diffusore perfetto (cioè che non assorbe e non trasmette, ma riflette diffusamente) e lambertiano (cioè riflette la radiazione con radianza uguale per ogni angolo di riflessione in cui la radiazione è riflessa). Una superficie di questo tipo non esiste nella realtà. Le superficie che si avvicinano di più a questo modello sono dette matte. Quando un raggio di luce colpisce un materiale trasparente, una parte della luce viene riflessa e una parte attraversa il materiale, subendo una deviazione nella direzione. La deviazione del raggio rifratto dalla direzione originale dipende dagli indici di rifrazione dei materiali (es. aria, vetro) e dalla lunghezza d’onda λ della luce incidente. Si definisce indice di rifrazione di un mezzo 1 (per esempio il vetro) rispetto ad un altro mezzo 2 (per esempio l’aria o il vuoto) il rapporto: Dove V1 e V2 sono le velocità della luce nei rispettivi mezzi. La “deviazione” della direzione di propagazione della luce quindi dipende dalla velocità di propagazione della luce stessa. Nel vuoto, nell‟aria e nel vetro la luce viaggia con differenti velocità. Fra questi mezzi, la velocità sarà maggiore nel vuoto (V = 300.000 Km/s). Se il raggio di luce passa da un mezzo ad indice di rifrazione più basso (es. Aria) rispetto uno più alto (es. Vetro), il raggio si allontanerà dalla superficie di separazione dei mezzi. Viceversa si avvicinerà. La deviazione del raggio rifratto dipende anche dalla lunghezza d‟onda del raggio incidente. Maggiore è la lunghezza d‟onda, minore sarà la deviazione. In altre parole, le diverse lunghezze d'onda che compongono la luce bianca (spettro) sono rifratte diversamente: le radiazioni rosse sono meno deviate mentre le blu vengono piu' deviate. Per questa ragione, quando la luce attraversa un prisma, viene scomposta in un arcobaleno. Allo stesso modo, quando la luce di una stella e' osservata da un telescopio rifrattore, viene affetta da aberrazione cromatica ( aberrazione). Ogni sostanza in relazione alla propria costituzione chimica e fisica assorbe una certa quantità di radiazioni elettromagnetiche alle varie lunghezze d‟onda, ciascuna secondo un proprio coefficiente di assorbimento. Ciò significa che diverse sostanze e per ogni lunghezza d‟onda esiste un determinato coefficiente di assorbimento che “regola” la quantità di radiazione elettromagnetica assorbita, quindi il colore della sostanza stessa. A s s o r b a n z a Spettro di assorbimento di un composto di colore VERDE = lunghezza d’onda (nm) L'assorbimento selettivo di lunghezze d'onda brevi può rendere un oggetto giallo, arancione o rosso, a seconda dell'estensione dell'assorbimento. Gli stati condensati della materia assorbono bande di lunghezza d'onda ampie e continue, non righe discrete. Ogni oggetto o corpo è soggetto, quando investito da luce, a tutti i fenomeni fino ad ora descritti, e la luce può subire riflessione, diffusione, rifrazione, assorbimento. Questi fenomeni possono verificarsi contemporaneamente. Da questi fenomeni dipendono quindi le “qualità ottiche” di un oggetto. Quello che a noi interessa e‟ l‟oggetto “pittorico”. Tutti i fenomeni ottici visti finora possono manifestarsi contemporaneamente e su tutti gli strati pittorici. Sono composti essenzialmente da: → intesi come materiali colorati in polvere finissima dispersi in un → inteso come legante trasparente omogeneo disposto su → intesa come fondo bianco o colorato. Cos’è che determina il colore? L’insieme di strati può essere ricoperto da una (sostanza resinosa trasparente) Ovviamente i pigmenti in misura maggiore, perché vernice e medium sono trasparenti e quasi incolori. Il colore di un pigmento dipende dai vari coefficienti di assorbimento della luce bianca che agiscono selettivamente sulle varie Anche i fenomeni di scattering (riflessione diffusa) e rifrazione diventano importanti data la suddivisione del pigmento in polvere finissima. Opacità o Potere coprente del film pittorico Lo scattering dipende: a. direttamente dalla granulazione del pigmento → più è macinato più diffonde. b. dal rapporto tra gli indici di rifrazione del pigmento e del medium in cui è disperso → npigmento/nmedium grande più opaco risulta il film pittorico Più macinato è un pigmento più grande è il suo indice di rifrazione rispetto al medium maggiore capacità di coprire la superficie del fondo su cui viene disteso In generale per un pigmento: Potere coprente = f(indice di rifrazione rispetto al medium, dimensione media delle particelle, tonalità del colore) Pigmenti chiari: Potere coprente = f(indice di rifrazione, granulazione) Pigmenti colorati normali i 3 fattori agiscono contemporaneamente Pigmenti scuri: Potere coprente = f(assorbimento selettivo) Va comunque considerato che alcuni pigmenti colorati costituiti di per se da granuli molto trasparenti se venissero macinati troppo finemente aumenterebbero il potere coprente, ma perderebbe qualità del colore perché sarebbe predominante lo scattering della luce bianca rispetto all‟assorbimento selettivo. Per questo tipo di pigmenti bisogna quindi controllare attentamente la granulometria raggiungendo un compromesso tra i due fenomeni. A questa categoria di pigmenti appartengono AZZURRITE, LAPISLAZZULI, SMALTINO, etc. per esempio Maggiore o minore potere In genere le preparazioni sono coprente fanno si che la di tonalità bianca, ma ci sono luce possa penetrare più o casi in cui sul fondo meno profondamente negli preparatorio è stato steso uno strati fino al sottofondo strato colorato per ottenere preparatorio che può colorazioni particolari: anch‟esso assorbire o riflettere il verdaccio era un colore fondamentale per gli artisti del Pre Rinascimento come Giotto e del Rinascimento come Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Era usato sotto gli strati pittorici dell’incarnato. Esiste un testo rinascimentale “IL LIBRO DELL'ARTE DI CENNINO CENNINI” in cui viene dettagliata la ricetta di preparazione del verdaccio che prevede l’uso di una mescolanza di colori: giallo ocra, un po’ di nero, bianco e una punta di rosso (il bianco usato era quello di san giovanni e il rosso era il cinabrese). Queste preparazioni colorate si chiamano IMPRIMITURE o CAMPITURE DI FONDO. Otticamente avevano lo scopo di far risaltare il film pittorico per contrasto oppure di conferire al film pittorico particolari intonazioni utilizzando l’assorbimento selettivo del fondo. Gli antichi riponevano una notevole cura nella preparazione dei supporti che dovevano ricevere la pittura. Il tipo di imprimitura dipendeva dal supporto e dal materiale che veniva utilizzato. Strati presenti su una tavola antica. A: strato di preparazione - Gesso grosso; B: strato di preparazione - Gesso fine; C: strato di imprimitura Dipinto su tavola I legni usati generalmente per le tavole erano di pioppo (nella scuola italiana con maggiore frequenza) o di quercia (più usato dai fiamminghi). Per esempio la tavola di pioppo veniva preparata applicando vari strati di gesso attentamente levigati prima di essere ricoperti di colla. Una imprimitura adatta per le tavole poteva per esempio essere costituita da colla di formaggio (caseina) e gesso. Si passava poi presumibilmente ad una seconda imprimitura di grafite e di nero di vite sciolta in una leggera quantità di olio. Quest'ultimo aveva una funzione anche di riduzione dell'assorbimento del gesso e quindi questo contribuiva ad una migliore saturazione dei colori mantenendone una buona brillantezza. dipinto a olio su tavola di Leonardo da Vinci, databile al 1488-1490 Dipinto su tela Tele di canape o di lino (già molto prima del cinquecento si usavano tele incollate alle tavole, anche il Cennini ne parla: il loro uso era antichissimo). Preferite alle pesanti tavole perchè permettevano di realizzare grandi quadri facilmente trasportabili per la leggerezza. L'esigenza primaria delle imprimiture su tela comunque a differenza di quelle su tavola era evidentemente la necessità di una maggiore elasticità probabilmente ottenuta con colle di glutine e l'uso di olio nell'impasto. Quindi a seconda del supporto e della bottega potevano essere usate metodologie e dosaggi diversi. Tra le numerose tipologie di imprimiture ve ne sono anche di documentate con colla di farina di frumento con l'aggiunta di gesso o creta (carbonato di calce). Per la tela nel corso del XVI secolo alla preparazione tradizionale a colla e gesso (che era una imprimitura chiara) seguirono sempre più preparazioni colorate che andavano spesso a sovrapporsi ad una prima imprimitura di gesso e colla e contenevano anche dell'olio di lino o di noce con l'aggiunta di pigmento colorato. “Diana e Atteone", un olio su tela grande di Tiziano Per le tele la biacca e l'olio erano fondamentali per mantenerne l'elasticità. Per le tavole invece l'imprimitura era fatta con gesso e colla. Un imprimitura a gesso e colla è molto assorbente ed è più adatta alla tempera. L'olio infatti su un imprimitura a gesso e colla viene assorbito in gran quantità e dato che col tempo ingiallisce fa ingiallire anche un po' la preparazione che lo ha assorbito. Molto importante per la conservazione della luminosità di un quadro ad olio è il fondo bianco. Il quadro fatto con il medium olio nel tempo ingiallisce e scurisce ed inoltre vi è una perdita di capacità coprente. Se il fondo è bianco però la perdita di capacità coprente compensa l'inscurimento dell'olio facendo affiorare il biancore dell'imprimitura. Comunque il grado di assorbenza e soprattutto la porosità dell'imprimitura hanno un ruolo importante per l'aderenza degli strati pittorici. La porosità perchè un fondo troppo liscio potrebbe far scivolare la pittura. Per velatura si intende l’uso di impasti pittorici coprenti ridotti a spessori minimi da apparire semitrasparenti. Effetto sfruttato, per esempio, per realizzare le delicate sfumature degli incarnati. La tecnica della velatura si elevò a sommo grado con i pittori fiamminghi. Quando si stende un colore su una superficie in realtà non si fa altro che porre una pellicola su un piano che, generalmente, in partenza è bianco. Questa pellicola, alla fine, copre la superficie bianca, dandole il colore che l’artista intende rappresentare. La differenza tra le tecniche pittoriche è che alcune, già alla prima pennellata, danno una pellicola interamente coprente, altre danno invece una pellicola semi-trasparente. In questo secondo caso, la pennellata è chiamata appunto «velatura». Con le velature il pittore maggiori possibilità: può trovare molti più gradi di sfumature e può ottenere una maggiore gamma cromatica. Sovrapponendo più velature può gradualmente giungere al tono che preferisce, mentre sovrapponendo velature di colore diverso può ottenere infinite gamme di colori intermedi. L’unico «inconveniente», se così possiamo definirlo, è che una pittura condotta per velature è molto lenta e laboriosa. Per fare una buona velatura la pittura a olio è fondamentale. Non solo: i colori ad olio risultano generalmente più brillanti e luminosi dei colori a tempera, dando alla superficie finale del quadro un aspetto più intenso e vivace. Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck Il suo fine primario è di protezione del dipinto, tuttavia dal punto di vista ottico agisce attenuando fortemente lo scattering giocando sulla variazione di indice di rifrazione del pigmento. In sostanza riduce o elimina la diffusione biancastra della luce rendendo più apprezzabile il colare di ogni pigmento. Vernice deriva dal latino medievale veronix-icis, resina odorifera, dal nome della città di Berenice in Cirenaica, oggi Bengasi. La sandracca è una resina estratta dal Tetraclinis articulata (ginepro), albero della famiglia delle Cupressaceae originario del Nordafrica. È usata per la preparazione di vernici e lacche, talvolta pura, ma più spesso miscelata ad altri componenti. Aggiunta assieme ad altre resine alla gommalacca diventa un ottimo prodotto per la protezione di mobili e strumenti musicali. Berenix (Bengasi) è la città dove i Romani si procuravano una resina: la sandracca. Berenix il nome della città, veronix/ veronicis il termine che indicava la resina fino al XV secolo. Alla base della formulazione di numerose vernici, la sandracca, è solubile in alcool e produce vernici dure, molto lucide, che si ossidano rapidamente e tendono a diventare friabili. Per farle assumere maggiore elasticità veniva mescolata alla trementina di Venezia. La sandracca così trattata formava la vernice usata nella laccatura dei mobili veneziani, tecnica molto lunga e laboriosa che raggiunse nel '700 livelli di grande maestria. Uso della sandracca Uso della sandracca “…Con l’invecchiamento la sandracca creerà le caratteristiche crepettature. Deve essere usata ben stagionata, sarà di colore paglierino e bisogna tenerne conto perchè cambierà i colori delle decorazioni…” Tuttavia la presenza dei film di vernice superficiali con il passare del tempo è risultato una fonte di problemi conservativi, quali: cambiamento di colore con ingiallimento molto spinto a causa di processi ossidativi dei componenti oleosi dovuti all’uso di stesure con elevato spessore; il processo di degradazione ossidativa comporta anche la contrazione o il ritiro dello strato con effetto deleterio (di tipo meccanico) sugli strati pittorici sottostanti, essenzialmente dovuto alla mancata polimerizzazione uniforme della componente oleosa su spessori molto alti; insolubilità nei solventi più comuni a causa della formazione di un polimero oleico reticolato, per cui la loro rimozione richiede l’uso di solventi particolarmente aggressivi, non sempre controllabili. La frazione rimanente, impoverita solo in intensità, attraversa lo strato di vernice e subisce una prima rifrazione. Parte del raggio viene riflesso in modo speculare La parte che ha attraversato tutto lo strato pittorico raggiunge la preparazione su cui può essere ancora diffusa o assorbita selettivamente. L‟occhio osserva tutte le componenti che durante il percorso sono state riflesse o specularmente o per scattering e determinano l‟effetto globale di percezione. La luce rifratta raggiunge lo strato pittorico e può essere in parte diffusa e in parte assorbita selettivamente. Può anche attraversare turro lo strato subendo un’altra rifrazione. Esistono diverse tecniche pittoriche, che si differenziano per i materiali e gli strumenti usati e per le superfici sulle quali è eseguita l'opera. Le prime superfici sulle quali l'uomo realizzò primitive forme d'arte pittorica, geometrica e figurativa, furono le pareti di una caverna oppure di una casa o di un tempio. Nel Medioevo il supporto preferito dai pittori era la tavola di legno, per poi passare con il tempo alla tela, con la quale si ovviò al problema del peso e della relativa instabilità del pannello ligneo. Altri supporti possono essere: la carta, il metallo, il vetro, la stoffa, una parete e qualunque altra superficie in grado di mantenere in modo permanente il colore; infatti una eventuale degradazione del dipinto in un lasso di tempo breve costituirebbe, più che un'opera pittorica, una performance artistica La differenza esistente fra le varie tecniche pittoriche è identificabile nella tipologia del liquido di cui ci si serve per preparare il colore: tale liquido dovrà infatti essere tanto più capace di aderire alla superficie, quanto meno questa è disposta ad assorbirlo, come nel caso della pittura a tempera o quella ad olio per le quali bisogna ricorrere all’uso di sostanze agglutinanti che fermino il colore al supporto e lo rendano aderente ad esso. Le principali tecniche pittoriche possono essere considerate: • Pittura murale a fresco • Pittura murale a secco • Pittura su tavola a tempera o olio • Pittura su tela a tempera o olio • Miniatura • Acquarello Un altro tipo di classificazione delle tecniche pittoriche può essere fatta partendo dal supporto. Sulle pareti abbiamo l'affresco, il murale e il graffito; una forma particolare di arte figurativa su parete è data dal mosaico. Su tavola abbiamo la pittura a tempera, i colori ad olio ed i colori acrilici. Su carta abbiamo la pittura a tempera, l'acquerello e il guazzo o guache. Su tela abbiamo la tempera, la pittura ad olio e la pittura acrilica. La pittura avviene ad esecuzione diretta sulla roccia, senza preparazione, sfruttando le irregolarità rocciose ai fini della resa dell'immagine. Cioè sporgenze, cavità e asperità rocciose venivano spesso sfruttate per far parte di una raffigurazione. L' artista sceglieva il luogo dove dipingere le sue immagini tenendo conto della morfologia generale della caverna, sfruttando sporgenze o fessure che potessero ricordare forme animali o parti del corpo animale. In alcuni casi le incisioni o le pitture sono state eseguite nei pressi dell'ingresso delle caverne, dove la luce riusciva a illuminare l„interno, ma nella maggior parte dei casi, le opere venivano realizzate all‟interno delle caverne, in luoghi bui e di difficile accesso. Gli artisti disponevano quindi di un'illuminazione artificiale (lucerne di pietra alimentate da grasso animale con uno stoppino fatto di licheni, muschio, corteccia o ramoscelli). Uno dei bisonti di Altamira, 15.000-11.000 a. C. Incisione: Graffito nel Riparo Romito di Papasidero, 19.00010.000 a.C. Per le incisioni veniva utilizzato un bulino di selce dalla punta robusta. Le immagini dipinte venivano realizzate solamente con il contorno, oppure con l'utilizzo di uno o due colori per riempire lo spazio all' interno della figura. A volte il contorno veniva tracciato prima a incisione, poi veniva colorata la figura. In altri casi si colorava prima l'immagine e poi veniva rifinita incidendo tutta la figura o solo alcune parti. Un altro modo per dipingere le figure era l'utilizzo di un batuffolo di pelliccia, soprattutto quando si voleva sfumare il colore. A Lascaux ed Altamira è stata utilizzata spesso questa tecnica. Col termine "a fresco" o "buon fresco" si intende la pittura murale nella quale i colori vengono stemperati in acqua e stesi sopra un intonaco fresco, ossia appena steso. Così operando, per reazione tra la calce dell'intonaco e il carbonio dell'aria, i colori vengono a fissarsi fino a divenire insolubili e acquistano una forte solidità. Giotto di Bondone La fuga in Egitto, 1303-1306 circa tecnica: affresco su muro Padova, Cappella degli Scrovegni Raffaello: La scuola di Atene Stanza della Segnatura in Vaticano. L'affresco é costituito da più strati distinti : Primo strato, l'arricciato, costituito da un misto di calce spenta e sabbia grossa (malta grezza composta di sabbia grossa, acqua e calce e stesa con la cazzuola) (rapporto legante/inerte = 1/3) Secondo strato, l'intonaco, costituito da calce spenta e sabbia fine ben setacciata (malta con sabbia fine acqua e calce steso sul rinzaffo asciutto) (rapporto legante/inerte = 1/2). Terzo strato, tonachino (malta con sabbia fine, polvere di marmo, calce e acqua) su cui veniva realizzato l'affresco vero e proprio, costituito da pigmenti diluiti in acqua pura applicati in più strati con un pennello (rapporto legante/inerte=1/1). L'ultimo strato, la calcina (una crosta vetrosa), é il risultato della carbonatazione della malta di calce che, disidratandosi produce un involucro protettore trasparente che ingloba i pigmenti e li fissa definitivamente. – veniva steso giorno per giorno sulla superficie che il pittore riusciva a dipingere – Per questo si parla di pittura “a giornate” – Se il pittore non riusciva a dipingerlo tutto veniva rimosso E' malta di calce e sabbia fine (in particolare è un impasto fatto con sabbia di fiume fine, polvere di marmo, o pozzolana setacciata, calce ed acqua) ed è la parte su cui si dipinge. Il suo spessore è di pochi millimetri. La superficie dell'intonaco deve essere spianata e levigata. Ai tempi di Vitruvio (ufficiale sotto Cesare ed architetto, scrive tra il 27 ed il 23 a.C. un trattato, il "De Architectura", in cui spiega dettagliatamente come realizzare intonaci di buona qualità, che garantiscano solidità, lucentezza e resistenza nel tempo) la preparazione per l'affresco era costituita da ben tre strati di arriccio e tre di intonaco con sabbia di granulazione sempre più fina come per la lavorazione del marmorino. In seguito, dal II secolo d.C., si usò un solo strato di arriccio ed uno di intonaco. Gli intonaci di Pompei erano molto spessi e raggiungevano i 7-8 cm. e così essi trattenevano a lungo l'umidità e permettevano di dipingere grandi superfici che si mantenevano fresche per molto tempo. Per conservare ancora più a lungo l'umidità, i pittori dell'antichità introducevano nell'impasto della paglia, o cocci o stoppa. Non si tratta mai, comunque, di regole fisse, perché le soluzioni cambiano a seconda delle disponibilità e delle necessità. Vi sono infatti anche dei casi in cui il rinzaffo e l'arriccio mancano del tutto e l'affresco è eseguito su un sottilissimo strato di malta stesa sulla pietra: alcuni esempi ad Assisi nella basilica di S. Francesco (sec. Xlll), a Feltre nel santuario di S. Vittore (sec. XIII), a Firenze sulle colonne della ex chiesa di S. Pietro Scheraggio (sec. XIII) ora incorporata nell'ingresso della Galleria degli Uffizi, a Utrecht (cappella del vescovo Guy d'Avennes, sec. XVI). La calce viva (ossido di calcio CaO) viene preparata a per cottura (calcinazione o arrostimento) della pietra da calce (CaCO3). Essa si decompone liberando anidride carbonica e trasformandosi in calce viva. CaCO 3 C 900 CaO Carbonatodicalcio Ossidodicalcio CO 2 Anidride Carbonica A contatto con acqua questa si trasforma con una reazione esotermica in calce spenta. CaO H 2O Ca OH 2 Ossidodicalcio Idrossido di calcio Con una quantità di H2O pari a 1/2 il peso dell’ossido di calcio, si forma la di idrossido di calcio Ca(OH)2 Se alla calce spenta in polvere aggiungiamo 3 o 4 parti di acqua, cioè acqua in eccesso, otteniamo dalla consistenza fluida e colloidale. è costituita da grassello e 2 o 3 parti di sabbia di fiume La calce fa presa in diverse fasi: inizialmente perde acqua per evaporazione, cioè cristallizza, in seguito si ha la carbonatazione, che avviene solo negli strati più esterni e richiede più tempo, in questo processo si riforma carbonato di calcio (la calcina). E’ il risultato di una reazione chimica che prende il nome di "carbonatazione della calce“: Ca(OH)2 + CO2 →CaCO3 + H2O cioè l'idrato di calcio si combina con l'anidride carbonica e si ottiene carbonato di calcio + acqua che evapora. Nella fase di asciugamento della malta, l'acqua che va verso l'esterno porta alla superficie dipinta buona parte dell'idrossido della calce per formare quella pellicola che diventerà carbonato di calcio colorato. La carbonatazione avviene entro tre ore dalla stesura dell'intonaco. La calce mescolata ad acqua e sabbia si indurisce progressivamente formando carbonati a contatto con l'anidride carbonica dell'aria. L'indurimento ricostituisce in parte il calcare d'origine formando carbonato di calcio, che fissa i colori dell'affresco. La carbonatazione è un processo veloce in superficie ma lento nella massa perché ci vogliono mesi per permettere all'anidride carbonica atmosferica di penetrare nella preparazione e all'acqua dell’interno per arrivare all'esterno per evaporare. Si compongono di due fasi: essiccamento e carbonatazione. Essiccamento ↔ va via gran parte dell'acqua contenuta nell'impasto. Carbonatazione ↔ una reazione chimica lenta tra la calce spenta e l'anidride carbonica atmosferica. Tale reazione avviene nella soluzione satura di Ca(OH)2, perché l'acqua che si produce stabilizza la calce: tale processo è lento tanto più interna è la calce nel muro. Sempre parlando di carbonatazione, quando si forma CaCO3, precipita nella microgoccia contenente sabbia, e si formano reticoli, cosicché la massa di sabbia acquista coerenza e compattezza. Se c'è del pigmento, tale processo coinvolge lo strato pittorico. Gli affreschi, in ambienti chiusi sono molto stabili, ed il processo di presa, nel tempo, non altera molto il colore dell'affresco, anche se è chiaro che se siamo in presenza di un solido microsuddiviso, se questo è umido acquista colori più "vivi". Nella tecnica del “buon fresco”, dei pigmenti minerali vengono stesi sull‟intonaco ancora umido senza aggiunta di leganti. I pigmenti, stemperati in acqua, si applicano nel momento in cui l‟intonaco “tira”. Non è il pigmento a penetrare nell‟intonaco (o nell‟intonachino), bensì è il carbonato di calcio che si forma alla superficie che lo ingloba. Affresco che rappresenta la mezza figura della Madonna col bambino Gesù in collo su fondo ovale - E' attribuito a Fra Giovanni Angelico La è la fase dell'affresco consistente nel disegnare con della terra rossa (in origine proveniente da Sinope, sul Mar Nero) un abbozzo preparatorio per l'affresco eseguito subito dopo l'arriccio. Una volta completata questa fase, il disegno viene progressivamente ricoperto con l'ultimo strato di intonaco. Della sinopia si è fatto largo uso fino ai primi anni del Cinquecento, quando è stata gradualmente sostituita dal graffito (segni ottenuti premendo sul contorno del disegno preparatorio) e dello spolvero (disegni eseguiti su cartoni poi forati lungo i contorni e spolverati con polvere di carbone in modo da far apparire linee punteggiate sulla parete). . Per questa particolare metodologia si ha bisogno di un foglio di carta, sul quale, disegnate le sagome, queste verranno ripassate tramite piccoli fori praticati con un ago. In seguito,creato un tampone con un panno e postovi all’interno della polvere di carbone, sul muro rimarrà impresso un tracciato dell’ immagine che noi vogliamo riprodurre. Un altro metodo molto utile per realizzare un affresco è quello del . Infatti, disegnato il soggetto su un foglio di carta, si appoggia quest’ultimo sulla parete e tramite una punta metallica o di legno si tracciano i contorni in modo che rimangano impressi, tramite piccole incisioni, sull' intonaco ancora fresco. I monaci Basiliani hanno sempre privilegiato la tecnica dell'affresco per meglio far comprendere il loro kerygma. Una delle caratteristiche tecniche dell'affresco bizantino è il tracciamento delle linee principali del disegno sull'intonaco fresco, con l'ausilio di una punta di legno o d'osso, l'intonaco da affrescare é levigato prima dell'applicazione dei colori, non dopo, come avviene nelle tecniche più recenti. La levigazione preliminare comporta una risalita dell'acqua della calce in superficie e costringe l'artista a un lavoro rapido ma, allo stesso tempo, garantisce una maggiore nitidezza dei tratti e potenza espressiva dei colori; per questo gli affreschi realizzati dai monaci basiliani sono giunti sino a noi conservando colori brillanti e compatti. La Fuga in Egitto (XII secolo). San Vito dei Normanni, chiesa rupestre di San Biagio: Presentazione al Tempio (affresco del XII secolo). Il supporto pittorico è simile a quello dell’affresco Mentre all'affresco viene attribuito un ruolo più importante, la pittura murale a secco viene utilizzata per le decorazioni più marginali o per ritoccare eventuali errori nelle stesure degli affreschi. Questo diverso ruolo è dovuto al diverso grado di difficoltà delle due tecniche; infatti, mentre l'affresco è considerata, una tecnica di alto livello, la pittura murale a secco viene un po’ surclassata per la sua relativa semplicità di esecuzione. Il pigmento viene steso sull’intonachino secco (cioè carbonatato) e fissato mediante un legante (olii siccativi, proteine, acqua di calce [soluzione satura di Ca(OH)2 allo 0.16% a 20°C] L’intonaco deve essere preparato in modo tale che la superficie sia particolarmente liscia, compatta (si chiudono i pori del intonaco) e compatibile col legante organico del pigmento. E’ possibile avere una gamma cromatica più ampia: si possono utilizzare pigmenti non utilizzabili nelle altre tecniche per l’elevata causticità (basicità) dell’idrato di calcio (orpimento, cinabro, azzurro della Magna, minio, verderame, biacca etc) Nella pittura murale a secco i pigmenti vengono mescolati a delle sostanze collanti per farli aderire all'intonaco asciutto e prendono il nome di tempera, a differenza dell'affresco in cui i pigmenti vengono mescolati direttamente con acqua. La preparazione delle tempere è un processo molto lungo che segue una procedura ben precisa: innanzitutto si deve mescolare il pigmento con acqua e lasciarlo "marcire" per un periodo di qualche settimana, dopodiché viene aggiunta alla soluzione la sostanza collante. Fino ai primi anni del 1500 il collante era generalmente a base di uovo, che veniva usato intero o solamente il rosso diluito in acqua, oppure si trattava di colle naturali ottenute in vario modo (per esempio la colla di "carnicci" ottenuta facendo bollire dei ritagli di carta pecorina in acqua), invece dopo questo periodo iniziano a nascere le prime tempere a olio, che usavano come collante olio di lino che veniva aggiunto all'uovo o usato tal quale. Alla tempera cosi ottenuta veniva aggiunto dell'aceto per diminuire la carica batterica e impedire che il collante irrancidisse perdendo la sua efficacia e comportando il distacco del pigmento dalla superficie murale. L'intonaco nella pittura murale a secco deve essere evidentemente asciutto prima di poter applicare il colore. Questo diverso tipo di modo di operare comporta un'altra conseguenza, infatti mentre nella pittura murale a secco la tempera aderisce grazie al collante, nell'affresco i pigmenti vengono intrappolati dall'intonaco che asciuga comportando una variazione cromatica del colore rendendo molto difficile il lavoro dell'artista. Comunque anche la pittura murale a secco richiede alcuni accorgimenti, infatti come si è detto in precedenza, l'adesione della tempera avviene grazie al collante, ma per permettere ciò devono essere eliminate tutte le possibili fonti di assorbimento dalla superficie. A tale scopo viene steso sull'intonaco un primo strato di una soluzione costituita dal medesimo collante della tempera a cui viene aggiunta un po‟ di calce, sul quale viene steso un secondo strato di collante puro che ha lo scopo di isolante fra l'intonaco e la tempera. L'encausto è una tecnica pittorica di grande efficacia e molto antica che risale addirittura ai tempi delle prime civiltà greche. Questa tecnica, che veniva adottata principalmente in tutte le zone che si affacciavano sul bacino del Mediterraneo, consiste nell'impiego di . A dispetto dei suoi splendidi e pregevoli risultati, questa tecnica fu soppiantata dell'affresco e, a parte qualche testimonianza medievale, dovette attendere molti secoli prima di ottenere una parziale ma meritata rivalutazione. Ci è finalmente stata trasmessa e talvolta viene confusa con l'affresco, poiché quest'ultimo qualche volta veniva sottoposto, a fine lavoro e dopo l'essiccazione, ad una manipolazione con cera vergine di api, che lo rendeva così molto simile all'encausto. La tecnica pittorica dell'encausto viene applicata, oltre che su muro, su marmo, legno, avorio e terracotta. I pigmenti dopo essere stati mescolati con la cera, vengono stesi sul supporto con la tecnica del pennello o della spatola, quindi fissati con procedimento a caldo con attrezzi di metallici (cauteri o cestri). Ritratto dal Fayum, inizi del II secolo (Santa Monica, Getty Museum) I pigmenti venivano mescolati con cera d'api, il composto veniva sciolto e, ancora caldo, steso su un supporto di legno (non di rado preparato con gesso o con lino indurito con colla animale); in base alle esigenze, si potevano aggiungere al composto resina (come il mastice di Chio), uovo o olio di semi di lino. Per stenderlo si utilizzavano sia pennelli (con la punta usata calda o fredda) sia spatole. L'effetto finale è quello di una pellicola pittorica compatta e brillante; e anche piuttosto resistente. 'ritratti funerari' scoperti in Egitto, dove le particolari condizioni climatiche ne hanno permesso la conservazione. Molti di questi provengono dall'oasi del Fayum, che si trova a occidente della valle del Nilo (a circa cento km a sudovest del Cairo), per questo sono conosciuti come ritratti del Fayum. La pittura ad encausto deve essere distinta dalla cosiddetta encausticazione, un procedimento molto usato, ad esempio, sulle pitture parietali di Pompei. Sembra, infatti, che quelli pompeiani non siano dei veri affreschi e che i colori venissero stesi sull'intonaco asciutto. L'eccezionale vivezza cromatica deriverebbe perciò, oltre che dalla perizia nell'esecuzione del dipinto, dall'uso di stendere sulla pittura murale realizzata della cera fusa stemperata con dell'olio (ecco perché 'encausticazione'). Non solo. La superficie veniva lucidata con dei panni asciutti, ottenendo il duplice effetto di rendere lucenti i colori e di proteggerli. Pompei, Villa dei Misteri Le pitture a tempera più antiche di cui abbiamo traccia in Italia sono quelle risalenti al periodo etrusco (le decorazioni delle tombe etrusche). Purtroppo non ci sono giunte quelle di origine ellenica, ma sappiamo che in Grecia la tempera fu comunque usata, come fu usata la tecnica dell’encausto (pigmenti mescolati a caldo con la cera). Anche i romani conoscevano la tempera, come dimostrano alcune pitture parietali pompeiane. Un esempio di raffinate pitture di epoca romana sia ad encausto che a tempera è costituito dagli splendidi ritratti su legno ritrovati in Egitto nelle necropoli della zona del Fayum (secoli I III d.C.). Tutti gli affreschi romani erano realizzati "a secco", vale a dire che la tempera non veniva stesa sull'intonaco ancora umido, come oggi; la loro tecnica è ancora oscura ed ancor più lo è il fatto che le opere così realizzate si siano conservate fino a noi in quanto ogni tentativo di realizzare un affresco a secco dal Rinascimento in poi si è rivelato catastrofico: infatti dopo pochi anni la pittura si screpola. Per tempera - o come si diceva in italiano arcaico “tèmpra” - si intende il modo con cui mescolare e far solidificare il colore attraverso l’uso di alcuni ingredienti. Il vocabolario della lingua italiana Zingarelli così definisce la tèmpera o tèmpra: “mescolanza di colori nella colla o nella chiara d’uovo, per dipingere su legno, gesso, tela e più specificatamente per le scene e decorazioni teatrali”. Questa definizione indica come veicoli per il colore la colla e la chiara dell’uovo. In realtà la chiara non è affatto l’elemento base della vera tempera all’uovo, come fa ben notare anche Eric Hebborn nel suo libro “Il manuale del falsario”. La tempera alla chiara d’uovo fu invece largamente usata per la miniatura e per i messali, nonché come vernice finale provvisoria, sfruttando la sua rapida capacità di essiccamento e indurimento. Francesco di Giorgio Martini miniatura a tempera su pergamena, 59 x 44 Chiusi, Museo del Duomo La pittura a tempera si riferisce a tutte le tecniche che utilizzano come medium al posto dell’olio, sostanze organiche quali colle animali e vegetali e leganti sintetici come per esempio gli acrilici. Pur non presentando la stabilità e la profondità di materiale colorato dell'affresco, ha il vantaggio, contrariamente ai colori ad olio, della stabilità delle tinte che resteranno sempre uguali a se stesse variando solamente in maniera impercettibile dal momento della stesura alla piena asciugatura. ha avuto largo impiego in particolare nell’ambito della decorazione di pareti e più recentemente per la scenografia sistema misto tra l’encausto e la tempera. Una sorta di encausto a freddo. Nel Medio Evo fu sperimentata l’introduzione della cera e delle resine nella pittura a tempera. E’ certo che produce una pittura molto resistente anche all’umidità. Per poter utilizzare questa tempera si doveva rendere la cera miscibile con l’acqua e per tale scopo veniva utilizzata la calce in funzione di alcale. In età moderna si è utilizzata allo stesso scopo l’ammoniaca. La tempera dei quattrocentisti italiani tramandata grazie al “Libro dell’arte” del pittore e scrittore d’arte Cennino Cennini (1370-1440). In questo trattato l’autore descrive come gli artisti del tempo preparavano i supporti sui quali dipingere, come dipingevano, e in particolare come si faceva la tempera (capitolo LXXII). Il Cennini spiega che ci sono due maniere di fare la tempera, una migliore dell’altra. La prima consiste nel battere il tuorlo d’uovo con le mozzature dei rami di fico. Il liquido che fuoriesce dai giovani ramoscelli tagliati va mescolato al tuorlo d’uovo in quanto ritarda l’essiccazione dei colori sulla tavolozza, favorendo la coagulazione e la conservazione dell’uovo, pare inoltre che abbia un’azione antisettica. Il secondo metodo indicato dal Cennini per fare la tempera è quello di mescolare il solo rosso d’uovo con i colori, e questa tempera è per l’autore buona per dipingere su qualsiasi superficie: muro, tavola o ferro. Miniatura, tratta dalla Bibbia di Belbello da Pavia, Collezione privata, Tempera (all'uovo) su tavola 16.5x11 cm. Con la tempera si può dipingere su tutte le superfici tradizionali della pittura: tele, tavole e cartoni. Anticamente si dava preferenza alla pittura su tavola, che per la sua solidità è il supporto più indicato per questa pittura. La preparazione dei supporti è detta “imprimitura” In genere consiste nello stendere sul supporto una miscela di idrato di gesso calcinato o solo gesso con un collante Nei paesi del nord Europa si utilizzavano soprattutto il Rovere, un legno duro, e l'Abete. In Italia a partire dal XII secolo si fece un largo uso del Pioppo mentre erano meno utilizzati il Noce, il Salice, il Tiglio e l'Abete. In Spagna si usavano perlopiù Pioppo, Quercia, Abete e Noce. Gli intarsi che decorano spesso questi dipinti erano ottenuti da alberi da frutto come il Pero ed il Ciliegio. Primo periodo → (Medioevo) la raffigurazione delle figure era resa per sovrapposizioni successive di colore. Una volta segnati i profili delle figure, l'artista stendeva in maniera uniforme i colori, determinando in seguito le particolarità, i rilievi e le cavità delle figure con l'andamento delle pennellate: partendo quindi da una tinta base il pittore procedeva colore per colore, aggiunte su aggiunte alla resa del soggetto. Prima della stesura dei colori sulla tavola l'artista applicava un fondo in oro e c’erano molteplici tecniche di doratura. Alle tavole stuccate veniva applicata una lamina sottile, la foglia d’oro. Gli artigiani del medioevo, non vincolati da leggi a protezione della moneta, si fabbricavano la foglia d’oro battendo ripetutamente le monete, fino a renderle quasi senza peso. Gli artigiani specializzati in questo lavoro si chiamavano battiloro e fino al XX secolo misuravano il peso della foglia d'oro sulla base del ducato, moneta d'oro dell'Italia medievale: lo spessore era determinato dal numero di foglie (ognuna di circa 8,5 cm2) ricavate da un unico ducato. Albume, gomma, miele o succhi vegetali erano usati per far aderire la foglia d’oro alle pergamene, venivano chiamati mordenti all’acqua, ovvero sostanze solubili in acqua che “mordenzavano” cioè mordevano (fissavano) l’oro. Poiché l’umidità stacca i mordenti al’acqua occorreva fissare con una vernice, in alternativa si usavano i mordenti all’olio. La superficie veniva poi lisciata con un oggetto duro, per riacquistare lo splendore del metallo. Madonna con Bambino, Simone Martini, 1310-45, tempera su tavola, cm. 67,5 x 48,3, Metropolitan Museum, New York. Questo dipinto propone alcune caratteristiche comuni del periodo: fondo d'oro, Bambinello drappeggiato di rosso e la Vergine in blu L´oro deve essere cioè steso prima dei colori sulla tavola già preparata. Per preparare il supporto a riceverlo si incide il contorno della parte da dorare, quindi, secondo la procedura, si stendono su di essa quattro mani di un composto costituito da acqua, chiara d´uovo montata a neve e cosiddetto (un´argilla untuosa e rossiccia finissima). E´ quest´ultima che riaffiora comunemente in seguito alla caduta dello strato d´oro, rimanendo in vista in molti dipinti del XIII, XIV e XV secolo. Dopo aver fatto asciugare la tavola protetta dalla polvere con un panno, si procede con la brunitura (una sorta di lucidatura) del bolo mediante pietre dure levigate (pietra d´agata) oppure con strumenti ricavati da denti di animali. Le sottili foglie d´oro zecchino, ricavate da una lamina battuta con un martello tra due strati di pelle ad opera dei , sono poste ad una ad una su un pezzo di carta e lasciate scivolare con il pennello sul bolo precedentemente inumidito. A questo punto sull´oro brunito si possono apporre decorazioni incise o impresse con dei timbri detti "punzoni", l´uso e la diffusione dei quali contribuisce non poco al risultato finale del dipinto. Esempio di provino di ricostruzione sulla tecnica della tempera ad uovo su tavola, tipica del ‘300, con particolari riferimenti alle fasi della doratura. 1 - Preparazione della tavola 2 - Doratura a “guazzo” con foglia d’oro 3 - Colorazione di rifinitura delle ombreggiature 4 - Preparazione del fondo con bolo per la doratura 5 - Preparazione del supporto ligneo (vari strati: gesso, colla, imprimiture colorate) 6 - Preparazione del disegno a spolvero. 7 - Esempio di stesura tratteggiata tipica della tempera ad uovo 8 - Colorazione base “incarnato” (ocre, biacca, cinabro, nero) 9 - Punzonatura sulla doratura 10 - Lumeggiatura 11 - Colorazione di rifinitura a base rosso cinabro 12 - Colorazioni di preparazione per decorazione del tessuto “Santo Stefano”, Giotto, tempera su tavola, Firenze, Fondazione H. P. Horne. Oltre alla stesura dell´oro a bolo, la doratura di alcune parti dei dipinti medievali si ottiene anche con le tecniche a missione ed a conchiglia, generalmente riservate a zone più minute. La prima era ottenuta stendendo con un pennellino sulle parti da dorare , cioè una colla fatta di olio di lino, una resina e, talvolta, un pigmento essiccante. Quando la colla cominciava a far presa vi si metteva sopra la foglia d´oro, premendola con la bambagia affinché aderisse, e quindi la si spolverava con un pennello morbido per togliere l´oro in esubero. era invece ottenuta mescolando la polvere d´oro con un legante come la gomma arabica e stendendola a pennello. Nei dipinti medievali si fa spesso ricorso anche a decorazioni a pastiglia: si tratta di decorazioni in rilievo fatte con gesso e colla proteica, oppure gesso e colla di farina, spesso estese a parti di carpenteria anche prive di figurazione, come pilastrini laterali di polittici o aureole di santi stese sulla preparazione del dipinto. L'affresco della Deposizione di Giotto nella cappella degli Scrovegni, con dettagli in oro Un dipinto su tavola se visto in sezione si compone schematicamente di un supporto, di una preparazione, della stesura pittorica vera e propria e di uno strato di vernice. Tali strati corrispondono in realtà ad altrettante fasi di realizzazione dell’opera. La prima di queste è la realizzazione della tavola e quindi la sagomatura il consolidamento ed il trattamento del supporto ligneo. Seguono le fasi di preparazione dello strato pittorico ossia la copertura del legno con una tela su cui viene poi applicata un "imprimitura" di gesso su cui tratteggiare il disegno e stendere i colori. Questi vengono realizzati con minuziosi trattamenti dei pigmenti (terre minerali e materiali di altra origine) resi fluidi ed aderenti a mezzo di opportuni leganti ("tempere") e infine stesi con vari tipi di pennelli. Parallelamente ove necessario si procede all’applicazione della foglia d’oro nei fondi e nei piccoli dettagli che talvolta vengono decorati ad incisione o a mezzo di punzoni. Il dipinto a tempera così terminato viene infine di norma trattato con varie vernici che hanno la funzione di lucidarlo e proteggerlo Scenes from the Life of Saint John the Baptist (Francesco Granacci; ca. 1506–1507), egg tempera, oil, and gold on wood; 77.6×151.1 cm. Bottom: Cross Section of paint layers from Scenes from the Life of Saint John the Baptist, 20x objective, DIC light Si nota la presenza di quattro strati: 1° strato: base preparatoria bianca (gesso e colla) 2° strato: colla animale 3° strato: biacca 4° strato: pigmento verde rame (acetato di rame) Analisi condotta con il microscopio ottico a luce riflessa (30x). Giorgio Vasari, Cristo in casa di Marta e Maria, olio su tavola,1539-1540 La tavola deve essere di legno ben stagionato; le specie da privilegiare sono il pioppo (che viene addirittura chiamato "albero" essendo di gran lunga il più impiegato in Italia centrale) il tiglio, il salice. – Assemblaggio delle tavole a coda di rondine (1) per evitare le spaccature dovute alla normale trazione del legno "vivo" – Impannaggio (2) la superficie viene ricoperta di una tela intrisa di colla – Stesura di una miscela di gesso e colla (3) – Imprimitura (4) manto di gesso fine e colla – Su questa superficie si riportava il disegno preparatorio con carboncino o inchiostro – Sulle zone da dorare venivano stese e fatte aderire le foglie d’oro (5) – Successivamente si dipingeva il resto della scena Sezione stratigrafica di una policromia dorata su tavola Analisi al SEM di una policromia dorata Secondo periodo → compreso fra il Trecento ed il primo Quattrocento, in cui l'uso del colore avveniva per graduato accostamento, e non per aggiunzione; Giotto, Cacciata di Gioacchino dal tempio, Cappella degli Scrovegni, Padova Terzo periodo → corrisponde alla seconda metà del Quattrocento, che vede le figure e gli oggetti rappresentati nei dipinti indagati con molta minuzia. La tempera ebbe il suo periodo di massimo splendore nel Rinascimento, anche se la pittura a tempera dei pittori del „400 non è generalmente ad uovo puro. Infatti era già in uso un sistema di pittura, definito ad emulsione, dove all'uovo venivano aggiunti olii, essenze e vernici. In questo senso si potrebbe affermare che non fu Van Eych a introdurre in senso assoluto la pittura ad olio in Europa. SPOSALIZIO DI MARIA VERGINE Maestro di Santa Verdiana 1390 - 1399 La Pala di Annalena è una tempera su tavola (108×202 cm) di Beato Angelico, databile al 1430 circa L‟impiego della tela come supporto di manufatti artistici è antichissimo, basti pensare che i primi esemplari di tele raffigurate risalgono al I secolo d.C. Nel Medioevo fu ampiamente utilizzata nella preparazione delle tavole per la pittura a tempera e a partire dalla seconda metà del „500 divenne il supporto principe della pittura ad olio, in quanto la tela come supporto elastico dotato di una superficie scabrosa si adattava ad un tipo di pittura rapida e non eccessivamente accurata. Amico Aspertini. Pietà e Santi. 1519 ca., tempera su tela, Bologna, San Petronio Il misantropo, tempera su tela di Pieter Bruegel il Vecchio Si dice che la pittura a tempera su tela sia nata nel XV secolo nei Paesi Bassi quando si iniziò a dipingere su tela, un supporto che aveva l'innegabile pregio della maggior trasportabilità, la relativa economicità e l'ottima resa. Gradualmente la tela si diffuse in tutta Europa e in Italia si affermò nel XVI secolo. Tradizionalmente la tela è formata dall'intreccio di fibre di lino, di canapa o juta ma, con l'età moderna è largamente invalso anche l'uso del cotone e delle fibre sintetiche. Le diverse trame dei tessuti hanno una notevole influenza sulla resa pittorica: trame fini come quella del lino consentono finiture più minuziose (come quelle a velatura della pittura fiorentina del Rinascimento), la canapa o la juta sono invece adatte ad esecuzioni pittoriche più libere o a opere di grandi dimensioni (come nella pittura di scuola veneta). Originariamente la tela veniva applicata mediante colle sulle tavole di legno (se di grandi dimensioni costituite da più tavole opportunamente saldate tra loro con incastri) ed aveva la funzione di uniformare la superficie nonché di ovviare ai problemi legati alle escursioni cui è soggetto il legno per il calore o l'umidità. Solo a partire dal Rinascimento la tela comincia ad essere inchiodata e tesa su telai mobili, dotati di chiavi per garantirne la tensione, creando il tipo di supporto che ancora oggi è il più largamente diffuso tra gli artisti. Questo sistema garantisce una tensione costante della tela, consente di sostituire il telaio nel caso di deformazioni col passare del tempo e facilita il trasporto delle opere, in quanto la tela può essere agevolmente rimossa dal telaio e arrotolata riducendone notevolmente l'ingombro. La tela è un tessuto ottenuto tramite la tessitura o intreccio su un telaio di filati provenienti da fibre in massima parte vegetali (lino, canapa, cotone), in alcuni casi animali (lana, seta) ed eccezionalmente minerali (argento, oro). In una tela sono caratteristiche la grana ( più o meno pronunciata in funzione della maggiore o minore sezione del filo ) e la densità ( più o meno fitta a seconda del numero di fili per cm2 ). Individuando la fibra impiegata, le caratteristiche dei filati sia nella trama che nell‟ordito e del tessuto ( tipo di armatura, densità, regolarità, ecc. ) è possibile ottenere informazioni sull‟epoca e zona di realizzazione dell‟opera. E‟ importante conoscere le modalità di preparazione della tela e di tensionamento sul telaio perché influiscono sulle caratteristiche fisicomeccaniche del supporto, quindi sul suo comportamento nel tempo e di conseguenza sullo stato di conservazione del dipinto. I due sistemi di fili costituenti il tessuto sono l’ordito e la trama; l’ordito è costituito da un filo longitudinale parallelo attraverso cui si introduce ad angolo retto il filo lungo e continuo della trama, procedendo da sinistra verso destra. Il modo con il quale sono intrecciati i due sistemi di fili si dice armatura, questa può essere: : è la più semplice e la più usata da sempre in cui ciascun filo di trama passa alternativamente sopra e sotto i successivi fili di ordito; : la trama passa sopra due o più fili di ordito e uno sotto; : deriva dalla diagonale e presenta un caratteristico disegno a zig-zag. Da questa è stata La classificazione dell’intreccio avviene attraverso l’utilizzo dello stereomicroscopio che permette di identificare la categoria di appartenenza dei vari tessuti in base alla loro armatura (intreccio tra ordito e trama). L’analisi della fibra viene effettuata tramite il microscopio ottico, con l’utilizzo di coloranti e reattivi chimici specifici, identificandone le caratteristiche morfologiche. Fibre di lino. Osservate al microscopio ottico appaiono cilindriche, uniformi e con striature che si estendono trasversalmente, sovente in forma di X, e che sono una peculiarità delle fibre di lino. Fibre di canapa. Fibre di cotone. Si presentano appiattite, a nastro e con convoluzioni nel senso della lunghezza La fibra più comune nelle prime tele è quella di lino e la più pregiata è la tela rensa, cioè un sottile tessuto di lino, prodotto a Reims, sottoposto a processi di imbianchimento per eliminare il colore naturale della fibra. E’ nella Venezia della seconda metà del ‘400 che la diffusione del supporto in tela diventa assoluta e rapidissima, favorita soprattutto dalla fiorente produzione tessile. Il grande sviluppo della pittura su tela a Venezia è motivato dalla constatazione dell’inadeguatezza del clima lagunare, umido e salmastro, per la conservazione di affreschi. Al contrario le tele montate su un telaio costituivano una superficie separata dalla parete e quindi meno soggette ai danni indotti dall’assorbimento dell’umidità per risalita capillare delle murature. LA TEMPESTA (1504 circa) Giorgione (1477-1510) - Galleria dell’Accademia - Venezia - XVI secolo Tela cm. 82 x 73 Il lino rimase la fibra più comune anche nei supporti tessili della Venezia del ‟400-500 per le buone proprietà meccaniche (deboli variazioni di lunghezza ed i graduali movimenti delle sue fibre in relazione alle variazioni termoigrometriche ) basti pensare alle condizioni ambientali della laguna. A differenza della tela rensa, il lino era lasciato allo stato grezzo per consentire una migliore adesione degli strati sovrastanti e per conservarne la robustezza altrimenti indebolita dalle operazioni di sbiancamento; occasionale fu la produzione di supporti di canapa mista a cotone. Ciò che varia nel tempo nei supporti di lino è la struttura e tessitura. Infatti i primi supporti erano tessuti in maniera serrata, ordinata e regolare, con un filato leggero e sottile. La semplicità dell‟intreccio e la sottigliezza di queste tele rispondevano alle esigenze di una tecnica pittorica caratterizzata da una stesura dettagliata del colore e da uno strato pittorico sottile. Verso la metà del ‟500 le innovazioni tecniche e nuove forme espressive da parte dei pittori portarono all‟uso delle nuove , che avendo una superficie più robusta e scabrosa ma anche elastica meglio si prestavano ad un tipo di pittura a pennellate dense ed irregolari. Il diffondersi della pittura su tela aprì il campo a nuove sperimentazioni riguardanti la scelta dei possibili tessuti utilizzabili come supporti pittorici, vennero così usati damascati di seta, tovagliati a losanghe o a righe e tele d’argento. Nel ‘600 l’esigenza di avere una superficie scabra e più adatta ad una pittura veloce e corposa, ma soprattutto la necessità di far fronte ad una maggiore richiesta di tele quali supporto pittorico determinò la realizzazione di tele più economiche e meno accurate nella lavorazione caratterizzate da una grana grossa e da una trama larga; il principale centro di produzione fu Napoli. Il lino venne sostituito dalla canapa e questa rimase la fibra più usata nel tempo in quanto, il cotone era troppo sensibile all’umidità, la lana fortemente igroscopica e la seta troppo fragile polverizzava a contatto con gli oli siccativi. Nella seconda metà del ‘700 ricompaiono tele di qualità più fine, con tessitura più fitta e realizzate in lino e canapa. Armatura: definisce il tipo di intreccio tra i fili della trama e dell’ordito; Peso o grammatura: indica la pesantezza del tessuto e viene riferito al m2; Riduzione: indica la fittezza del tessuto ed è data dal numero di fili al cm nei sensi della trama e dell’ordito; Densità: rappresenta la fittezza globale del tessuto ed è data dal prodotto del numero di fili/cm nelle due direzioni; Titolo filato: indica le dimensioni del filato ed è dato dal suo rapporto lunghezza/peso; Torsione: è l’indice di coesione fra le fibre che costituiscono il filato ed è responsabile della sua resistenza a trazione. La torsione può essere singola (se ad un solo capo) o ritorta (se a più capi) e si riferisce al m; Carico di rottura: è il carico massimo a cui si rompe una striscia di tela sottoposta a trazione; Tenacità: è il rapporto tra il carico di rottura ed il peso della tela (g/den) e consente il confronto delle caratteristiche di tele con peso diverso; Allungamento a rottura: indice della rigidità della tela viene utilizzato per valutare l’efficienza dei trattamenti di tensionamento ed incollaggio. Espresso in % è dato dal rapporto tra l’allungamento subito dalla tela al momento della rottura e la sua lunghezza iniziale; Modulo di elasticità o di Young: indica la deformabilità elastica della tela sottoposta a sollecitazioni minori del punto di snervamento. E’ definito dalla pendenza della curva sforzo/deformazione nella parte lineare e consente il confronto di tele differenti per struttura, materiali o tensionamento; Curva carico/allungamento o diagramma sforzo/deformazione: descrive graficamente il comportamento della tela durante la prova a trazione e consente di dedurre tutti i parametri meccanici sopra indicati. Da queste caratteristiche dipende il comportamento del supporto quando è sottoposto a sollecitazioni di trazione dovute all’uso. Sono per la maggior parte macromolecole organiche che tendono a legarsi fra loro con legami trasversali, generalmente deboli legami intermolecolari come i legami di Van der Waals, i legami dipolari ed a ponte idrogeno. Questo allineamento porta ad un ordinamento tridimensionale delle catene polimeriche con formazione di cristalliti. Il sistema polimerico di una fibra tessile prevede: - peso molecolare elevato, - linearità delle macromolecole, - orientamento delle macromolecole, - punto di fusione alto, - presenza di zone cristalline e zone amorfe. Per esempio nella cellulosa le catene sono disposte parallelamente le une alle altre e si legano fra loro per mezzo di legami ad idrogeno molto forti, formando fibrille, catene molto lunghe, difficili da dissolvere. La diffrazione a raggi X ( XRD) di questi polimeri ha evidenziato elementi di simmetria relativi ad un certo grado di cristallinità, con zone cristalline inglobate in zone amorfe. La distinzione tradizionale: fibre naturali (animali, vegetali e minerali) artificiali (da polimeri di origine biologica) sintetiche (da polimeri di sintesi). Oggi si preferisce parlare di fibre naturali e di fibre chimiche o manmade. Fibre Naturali Sostanze filabili esistenti in natura Animali Da secrezione coagulata di lepidotteri baco da seta: SETA Dal vello della pecora: LANA Vegetali Da produzione epidermica dei mammiferi Minerali Da seme: COTONE Da fusto: LINO, CANAPA, JUTA, RAMIE’, IBISCO Dal vello di altri mammiferi: ANGORA (coniglio), MOHAIR (capra d‘angora), CASHMERE (capra del Tibet), CAMMELLO, VIGOGNA, LAMA, ALPACA Amianto Da foglie: SISAL, ABACA, ALFA Da frutto: COCCO, KAPOK Il lino è una fibra proveniente dal fusto della pianta Linum usitatissimum di natura cellulosica multicellulare dall’aspetto cilindrico. E’ costituita per il 60% di cellulosa, 15% di emicellulose, 4% di sostanze pectiche, 3% di lignina, 10% di acqua, 2% di cere e grassi, 6% di altre sostanze solubili in acqua. Il sistema polimerico è più cristallino del cotone e dopo la lavorazione è composto al 78-80% da cellulosa. Il cosiddetto “Parnaso” Andrea Mantegna (tempera su tela, 150 x 192 cm., 1497) Girolamo di Giovanni (su cartone di Giovanni Angelo d'Antonio?), Madonna della misericordia, 1463, tempera su tela, 206 x 125 cm, Camerino, Pinacoteca e Museo Civici La cellulosa è simile all’amido - entrambi sono polimeri di unità di glucosio. Tuttavia, le molecole di amido possono avere catene ramificate, mentre la cellulosa è un polimero di unità di glucosio. Al fine di formare una fibra, un polimero deve essere in grado di formare lunghe catene ordinate e le catene devono essere in grado di allinearsi in questo modo: Se le catene non si possono allineare, non possono formare una fibra. Quando le molecole della fibra sono molto ordinate si dice che la sostanza è cristallina. Il grado di polimerizzazione della cellulosa nelle pareti cellulari primarie è ~2,000-6,000 unità di glucosio, mentre è di ~10,000 residui in quelle secondarie. In generale I polimeri di cellulosa sono impaccati parallelamente tra loro in strutture dette microfibrille composte da ~36 catene polimeriche di cellulosa. Nelle pareti secondarie le microfibrille si associano tra loro ultriormente formando macrofibrille. A triple strand of cellulose showing the (cyan lines) between glucose strands Lungo la fibra di cellulosa ci sono diversi gruppi OH. Questi gruppi hanno due funzioni importanti nella fibra polimerica: si legano debolmente tra loro, mantenendo legate insieme le molecole di polimero, e trattengono le molecole d'acqua. Le fibre di cotone e di lino contengono una quantità piuttosto grande di acqua. L'acqua agisce un po‘ come plastificante – lubrifica le catene polimeriche in modo che possano muoversi l’una accanto all'altra più facilmente, mantenendo la struttura flessibile. Se una parte dell'acqua si perde,si formano più legami tra le catene del polimero rendendo la struttura più simile a una rete. Photomicrograph of linen fibers. Proprietà fisiche: è una fibra igroscopica, più del cotone ma meno di lana e seta (12% di contenuto di acqua a 21°C e 65% di umidità relativa ). Resiste bene al calore, cambia colore a 280°C e comincia a decomporsi a 310°C; ha un’ottima conducibilità termica e come il cotone è una fibra antistatica, cioè non trattiene le cariche elettriche accumulatesi sulla superficie. E’ una fibra non elastica e molto rigida; è insensibile all’invecchiamento e molto resistente anche grazie ad una tenacità che varia tra i 5 e i 6.1 g/den ed aumenta del 40% se la fibra viene bagnata; questa proprietà è dovuta alla struttura della fibra di lino che è un polimero cristallino lungo e con un numero elevato di legami idrogeno tra polimeri adiacenti. Comportamento chimico: a differenza del cotone, il lino è più resistente all’azione degli acidi mentre è più sensibile verso gli alcali ed agenti ossidanti ; si scioglie con difficoltà nel reattivo di Schwaitzer. Il lino grezzo, diversamente da quello trattato, non dà luogo a colorazioni ma tende ad ingiallire con il tempo. Il reattivo di Schweitzer è formato da solfato di rame CuSO4 al 10% e NaOH al 10% con ammoniaca concentrata ( NH3). Quando si immerge nel reattivo la lana non si scioglie e si colora, la seta e le fibre vegetali invece si sciolgono rapidamente. Tutti i materiali organici si deteriorano. Ciò vale anche per i supporti tessili che durante il processo di invecchiamento perdono robustezza ed elasticità. I danni sono principalmente dovuti ad alcune caratteristiche negative della cellulosa: 1) si ossida a contatto con l'aria, assorbe energia luminosa che innesca reazioni fotochimiche frammentando le fibre, 2) viene aggredita dagli acidi presenti nell'atmosfera, 3) può essere terreno di coltura per microrganismi, 4) reagisce in maniera sensibile alle sollecitazioni meccaniche, 5) è fortemente igroscopica. In particolare quest'ultima proprietà è il fattore più evidente delle deformazioni di un supporto tessile. Infatti le fibre assorbono umidità dall'aria, così si gonfiano, si inspessiscono e si accorciano. Ciò causa l'ingenerarsi di tensioni spesso molto forti che, unendosi a tutti gli altri fattori, può rompere i fili intrecciati. Invece quando il tessuto cede umidità si dilata rilassandosi modificando la planarità della tela (la cosiddetta deformazione sotto carico – l’effetto CREEP che si ha a causa della forza di gravità esercitata dai materiali sulla tela, evidenziando l’impronta dei lati interni del telaio sulla superficie dipinta e crettature in particolare in alto ed al centro) e producendo una perdita di tensione che può manifestarsi con il distacco degli strati pittorici. Come operazioni di prevenzione si dovranno adottare precauzioni soprattutto riguardo le condizioni climatiche. Quelle ottimali ottimali sono per una tela 18°c con un umidità relativa del 45-65%. Prima di essere dipinta la tela necessita di due operazioni: l' , con cui viene stabilizzata la trama della tela ed eliminati eventuali peli presenti sulla superficie utilizzando una miscela di colla e gesso l' che costituisce il primo fondo di materia atto a ricevere la pittura, generalmente uno strato ad olio di colore omogeneo, nei primi tempi era costituito da biacca e olio di lino al fine di impermeabilizzare la preparazione a gesso e colla sottostante. In alternati casi potevano applicare più mani di colla animale (collatura) Le tele fatte con questo materiale erano utilizzate nel medioevo per fare l’incamottatura delle tavole, cioè creare uno strato di tela tra la tavola e la preparazione a gesso e colla (ammannitura) per formare uno strato correttivo dei difetti del legno come i nodi e le giunture, ed inoltre per formare un ulteriore strato elastico capace di ammortizzare i movimenti del legno proteggendo così il film pittorico. Tale pratica già nel trecento risultò andare in disuso passando a pratiche più economiche quali l’“impannatura” e poi all’uso di stoppa. Si dice che alla fine del Cinquecento si sia diffusa in Italia una nuova tecnica pittorica, attribuita generalmente ad artisti fiamminghi. Questa tecnica è detta ad olio perché il mezzo legante è costituito da oli siccativi, come l'olio di lino, di noce e di papavero. Tuttavia le origini della pittura a olio affondano le radici nell'antichità; ne davano notizia già Galeno, Vitruvio e Plinio il Vecchio. Teofilo monaco la riporta nel “De diversis artibus”, un celebre ricettario della prima metà del XII secolo e, alla fine del Trecento, la cita Cennino Cennini nel Libro dell'Arte. Non è pertanto da prendere alla lettera la leggenda, riportata anche dal Vasari nelle sue Vite, secondo cui Jan Van Eyck fu l'inventore dei colori ad olio; è certo, invece, che i pittori fiamminghi del XV secolo perfezionarono questa «nuova e prodigiosa maniera di colorire», ovviando ad alcuni inconvenienti Si dice che il primo veneziano a far uso della pittura ad olio fu Antonello da Messina (1430-79), che portò la conoscenza della tecnica direttamente dalle Fiandre, dove aveva conosciuto i fratelli Van Eyck. La preparazione da lui usata consisteva nello stendere una prima patina sulla tavola preparata a gesso duro, poi su una mano di olio cotto stendeva i colori, e usava ancora dell’olio per ottenere una leggera fusione; lasciava seccare e compieva in forma definitiva, usando per diluente l’essenza di trementina. L’Annunciata di Antonello da Messina Ecce Homo di Antonello da Messina Gli oli siccativi sono dei grassi vegetali in cui i pigmenti si stemperano facilmente dando per essiccamento all’aria un film sottile elastico resistente all’acqua. La pittura può così essere stesa a pennello su una preparazione secca su muro, su tavola, su tela, su stucco, ecc. L'olio è un ottimo legante, fluido e resistente; la possibilità di creare finissime velature, trasparenti e lente ad asciugare, permetteva di creare effetti di luce e di consistenza impossibili con le altre tecniche pittoriche. Consentiva inoltre di ampliare la gamma cromatica, ammorbidire le sfumature e potenziare il modellato. I colori impastati con l'olio, una volta asciutti, garantivano una lunga durata, soprattutto rispetto alla tempera, e mantenevano pressoché inalterati i valori cromatici. Grazie a queste caratteristiche, la pittura ad olio si diffuse velocemente, favorita anche dai commerci dei mercanti che ne apprezzarono i vantaggi pratici e la diffusero in tutta Europa; infatti, le tele arrotolate erano molto più facili da trasportare delle rigide tavole di legno. Antonello da Messina, Ritratto virile, National Gallery, Londra L’olio deve essere raffinato con cura perché asciughi in modo soddisfacente , a volte vengono usati agenti essiccanti come sali di metalli, in ogni caso l’asciugatura è più lenta di quella della tempera d’uovo: richiede ore o giorni invece di minuti. Il processo di essiccamento consiste in un meccanismo di polimerizzazione con formazione di una rete tridimensionale. Questi oli erano usati già dai romani, la trasparenza della pittura ad olio era usata per ricoprire di un sottile strato di rosso (velatura) l’oro per farlo sembrare più brillante. Allora quale fu la “grande scoperta” di Van Eyck ? In pratica si rese conto che il procedimento di velatura poteva avere un enorme valore per l‟artista, si potevano ottenere colori profondi, ricchi e stabili, mai eguagliati dalla sola tempera all‟uovo. Egli stese i colori ad olio su un fondo a tempera abbinando la l’asciugatura rapida di quest’ultima alla possibilità di mescolanze offerte dagli oli. Il processo di polimerizzazione è determinato dalla reazione dell’ossigeno atmosferico con le catene di acidi grassi presenti negli oli formando specie radicaliche molto reattive (RO• e ROO•) con una serie di reazioni a catena: Nell’olio ogni particella di pigmento è isolata da uno strato di fluido, per cui pigmenti che nella tempera possono reagire tra di loro, sono combinati stabilmente nell’olio. Il fatto che asciughi lentamente permette di sfumare i toni e i contorni, cosa che si addice particolarmente alla rappresentazione delle tonalità della pelle. L’indice di rifrazione dell’olio è diverso da quello del tuorlo d’uovo: i pigmenti non mantengono necessariamente lo stesso colore. Moretto, San Francesco di Paola (1550 circa, collezione privata, Brescia), dipinto a olio su rame La pittura a olio può essere eseguita su supporti vari: sin dal Trecento, come riferisce il Cennini, si usano tavole di legno, fino alla comparsa, nel secolo successivo, delle tele. La tela, come è noto, aveva il pregio della leggerezza e della relativa semplicità di preparazione, affermandosi nel corso del XVI secolo come supporto privilegiato per la pittura. Altri supporti, più rari, sono il cuoio, diffuso nella Venezia del XVI secolo, il rame, o la carta, di solito adeguatamente preparati per permettere ai colori di fissarsi saldamente alla superficie; oggi si trovano in commercio cartoni telati o carte speciali, a grana grossa e con scarsa permeabilità. Infine, sono usati anche altri materiali, soprattutto per fini decorativi: metalli (oro, argento, platino), dipinti in modo tale da non coprire del tutto lo sfondo, per sfruttarne la brillantezza in giochi di trasparenza o alternanza luminosa; pietra (marmi, ardesia etc.); seta; vetro; legni, preziosi per l'effetto decorativo delle loro venature. Solitamente, si preferisce dipingere su uno strato di imprimitura che renda uniforme il supporto e che limiti l'assorbimento dell'olio, per lavorare con facilità il colore. L'imprimitura più usata, fin dai secoli passati, è il gesso, mescolato con colla, di caseina o di coniglio, e una piccola parte di olio di lino cotto: la miscela deve essere densa per formare spessore, ma allo stesso tempo abbastanza fluida da poter essere stesa. Questa imprimitura può essere utilizzata sia sulle tele che sulle tavole. Spesso, soprattutto in epoca antica, l'imprimitura era distribuita su più strati, applicati in maniera ortogonale tra l'uno e l'altro (ad esempio uno dall'alto al basso e uno da destra a sinistra, ecc.)[1]. Talvolta, su questa preparazione bianca o chiara si stendeva un ultimo strato colorato, o un velo d'olio[1]. Questo accorgimento facilitava la realizzazione successiva di un disegno preparatore a chiaroscuro, in cui alla tonalità media di base occorreva aggiungere i chiari e gli scuri che creavano effetti di plasticità e volume, o particolari effetti di luce. La carta o il cartone possono essere preparati con una stesura di olio di lino cotto, colla, vernice, oppure con i residui di colori a olio presenti sulla tavolozza, ben impastati. Oggi si trovano in commercio imprimiture acriliche, chiamate impropriamente "gesso", poiché sono composte da medium acrilico e bianco di titanio. Anonimo Le storie di Giona, VI secolo Basilica di Aquileia Il mosaico è una decorazione parietale o pavimentale ottenuta accostando e variamente componendo cubetti, o frammenti colorati di pietra, vetro e simili. I primi mosaici dai requisiti formali degni di un'opera d'arte risalgono all'antica cultura egea, che impiegava questa tecnica essenzialmente per le pavimentazioni: tradizione questa, che si protrasse sino all'epoca romana. Nel periodo bizantino il mosaico raggiunse, utilizzando al massimo le possibilità cromatiche delle tessere in vetro fuso, quella raffinatezza tecnica e formale che magistralmente interpretò lo stile dell'epoca. I colori, quasi sempre di tonalità calde (rossi, ocra bruni, oltre a nero) erano pigmenti ricavati da minerali e vegetali presenti nell'ambiente: ossidi di ferro e manganese per la gamma dall'ocra scuro al giallo. Il nero si otteneva con il carbone e fuliggine, il bianco con terre argillose. I pigmenti si ottenevano da tali sostanze minerali e vegetali, e dopo essere state macinate e ridotte in polvere (mediante lo sfregamento di pietre levigate) venivano conservati in conchiglie o ossa cave. Potevano essere usati a secco, fregati direttamente sulle rocce, similmente agli odierni disegni a carboncino o gessetto, o liquidi, mescolati con acqua, applicati con le dita o con pennelli fatti con piume, fibre vegetali, bastoncini appuntiti (pittura vera e propria). Altre tecniche già usate erano quella della tamponatura, dello spruzzo mediante cannucce, e dello stampo (una specie di timbratura). A queste si aggiunge la tecnica dell'incisione, un procedimento a metà tra il disegno e la scultura, che consisteva nell'incidere in profondità le pareti rocciose mediante pietre scheggiate e appositamente appuntite. I contorni delle figure potevano essere incisi o colorati e sono presenti anche vari esempi di tecniche miste. La conservazione di questi dipinti antichissimi è dovuta all'umidità delle rocce: l'evaporazione permette la cristallizzazione dei carbonati in un naturale processo di fissaggio dei colori. I colori utilizzati erano pigmenti naturali : minerali terrosi come le ocre per i colori dal giallo chiaro ( limonite ) al rosso chiaro ( ocra rossa , ematite )al bruno scuro ( ocra rossa mescolata al biossido di manganese ) , il nero venita fatto con carbone di legna o il biossido di manganese. Il blu e il verde non sono documentati nell' arte paleolitica , il giallo e il bruno sono più rari rispetto al nero e al rosso. Ai colori si univa un legante : acqua , grasso animale , uova. Il colore veniva steso con un pennello ( il suo uso ha lasciato tracce ben visibili ) , con le dita ( su alcuni dipinti si notano le impronte digitali ) e con la tecnica dello "spruzzo" : l' ocra rossa o gialla veniva masticata e poi soffiata o sputata sulla parete , in modo da ottenere un riempimento della figura a tinta piena , oppure poteva essere eseguita riempiendo un tubicino di osso riempito di colore. Nello strato pittorico sono i materiali che contribuiscono maggiormente al “colore” Il potere coprente o opacità di un pigmento dipende da diversi fattori: -Granulazione del pigmento (minore la dimensione delle particelle del pigmento, maggiore è il fenomeno di diffusione della luce → opacità) - Indice di rifrazione del pigmento rispetto all‟indice di rifrazione del medium - Tonalità del colore del pigmento - Concentrazione del pigmento nel medium : prevale l’indice di rifrazione nel determinare il potere coprente : prevale l’assorbimento selettivo : tutti i fenomeni avvengono contemporaneamente