Master Reference - Archive ouverte UNIGE

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Master Reference - Archive ouverte UNIGE
Master
Gli anglicismi nelle pubblicazioni ufficiali e sulla stampa : il caso del
lessico della crisi
CEOLINI, Anna
Abstract
Ce travail découle d'une volonté d'examiner la terminologie liée à la crise économique et
financière qui depuis 2007 frappe la plupart des Pays occidentaux. Sur le plan lexicologique
ce nouveau cadre économique, social et politique a débouché d'un coté sur la création de
nombreux néologismes et de l'autre sur le transfert de plusieurs termes techniques au
langage courant. Le prédominance des Etats-Unis dans les domaines économiques et
financiers a fait de l'anglais la langue de référence même pendant cette d'instabilité. Le but de
ce mémoire est d'analyser la façon dont la langue italienne a intégré les anglicismes liés à la
crise afin de comprendre dans quelle mesure ils ont été traduits et/ou conservés en anglais et
de voir s'il existe une approche différente selon qu'il s'agisse de publications officielles ou
d'articles de presse.
Reference
CEOLINI, Anna. Gli anglicismi nelle pubblicazioni ufficiali e sulla stampa : il caso del
lessico della crisi. Maîtrise : Univ. Genève, 2013
Available at:
http://archive-ouverte.unige.ch/unige:33449
Disclaimer: layout of this document may differ from the published version.
ANNA CEOLINI
GLI ANGLICISMI NELLE PUBBLICAZIONI UFFICIALI E
SULLA STAMPA: IL CASO DEL LESSICO DELLA CRISI
Mémoire présenté à la Faculté de traduction et d’interprétation (Département de
traduction, Unité d’italien) pour l’obtention de la Maîtrise universitaire en
traduction, mention Traduction spécialisée
Directeur:
Mme Silvia Avanzi
Juré:
M. Giancarlo Marchesini
Université de Genève
Août 2013
Indice
1. Introduzione ........................................................................................................................... 1
2. Il linguaggio economico e finanziario come linguaggio speciale .......................................... 2
2.1 Linguaggi speciali............................................................................................................. 2
2.2 Il linguaggio dell’economia e della finanza (LEF) ........................................................... 2
2.2.1 Testualità e morfosintassi .......................................................................................... 3
2.2.2 La terminologia .......................................................................................................... 3
2.2.3 Un linguaggio speciale sì, ma per tutti....................................................................... 5
2.2.4 Oscurità ...................................................................................................................... 6
3. Gli anglicismi nel LEF ........................................................................................................... 6
3.1 Prestiti, calchi, anglicismi: qualche definizione ............................................................... 6
3.2 Gli anglicismi nella storia del LEF ................................................................................... 7
3.3 Perché tanti anglicismi.................................................................................................... 10
3.3.1 I quotidiani: cassa di risonanza di questo fenomeno ............................................... 14
3.4 Regolamentazione .......................................................................................................... 15
4. Il caso del lessico della crisi ................................................................................................. 17
4.1 I canali di comunicazione presi in esame ....................................................................... 17
5. La crisi economica e finanziaria (2007-2012)...................................................................... 19
5.1 Le cause della crisi finanziaria statunitense ................................................................... 19
5.2 Il collasso del settore bancario mondiale ........................................................................ 23
5.3 Contagio dell’economia reale ......................................................................................... 24
5.4 La crisi del debito sovrano in Europa ............................................................................. 25
5.4.1 Le cause ................................................................................................................... 25
5.4.2 Dalla crisi finanziaria alla crisi del debito sovrano .................................................. 27
5.4.3 La crisi greca ............................................................................................................ 28
5.4.4 Il contagio ................................................................................................................ 29
5.4.5 Verso una nuova governance ................................................................................... 32
5.5 Stati Uniti........................................................................................................................ 33
5.6 Verso una maggiore regolamentazione .......................................................................... 33
6. Analisi linguistica ................................................................................................................. 34
6.1 Descrizione della metodica ............................................................................................. 34
6.2
Analisi e confronto .................................................................................................... 36
1.
AUSTERITY ......................................................................................................... 36
2.
BAILOUT .............................................................................................................. 41
3.
CREDIT CRUNCH ............................................................................................... 48
4.
DEFAULT ............................................................................................................. 56
5.
RATING ................................................................................................................ 69
6.
SPREAD ................................................................................................................ 74
7.
SUBPRIME............................................................................................................ 87
7. Conclusioni........................................................................................................................... 95
8. Bibliografia......................................................................................................................... 101
1. Introduzione
La presente tesi nasce dal desiderio di studiare più da vicino la terminologia legata alla crisi
economica e finanziaria che dal 2007 affligge gran parte del mondo occidentale. Viste le
grandi difficoltà a cui ha portato e le sue dimensioni ormai mondiali, essa costituisce il
principale problema cui sono confrontati non solo i governi degli stati coinvolti, ma anche
tutti i cittadini. A livello lessicologico, questo nuovo scenario economico, politico e sociale ha
implicato da un lato la creazione di neologismi e dall’altro il trasferimento di buona parte del
lessico tecnico all’uso quotidiano. Concetti nuovi e concetti già esistenti, ma finora limitati ai
settori specialistici, sono infatti entrati a far parte della quotidianità di parlanti di ogni livello,
in particolare attraverso i mass media.
Il primato anglosassone, e soprattutto degli Stati Uniti, nell’ambito economico e finanziario
ha fatto sì che, come spesso accade, l’inglese imponesse sulle altre lingue il proprio lessico.
L’obiettivo di questo lavoro è analizzare come negli ultimi sei anni (2007-2012) l’italiano
abbia recepito i termini legati alla crisi, cercando di capire in che misura essi vengano tradotti
e/o mantenuti in inglese come prestiti o calchi e di verificare se esiste un atteggiamento
diverso a seconda che si tratti di pubblicazioni ufficiali o di articoli di giornale. Di primo
acchito sembrerebbe che più la fonte è ufficiale, e quindi più il pubblico è competente, più si
preferiscono termini autoctoni; mentre a un minor livello di specializzazione e a un pubblico
meno esperto corrispondono un maggior numero di anglicismi e una minore trasparenza.
Paradossalmente, quindi, gli anglicismi si addentrerebbero soprattutto nei canali di
comunicazione più esposti dal punto di vista sociale e linguistico.
Il lavoro si articola in due parti: una teorica e una pratica. Partiremo da un’analisi del
linguaggio economico e finanziario e della misura in cui è influenzato dall’inglese con una
particolare attenzione per i generi testuali presi in esame. In seguito contestualizzeremo la
problematica ripercorrendo brevemente la crisi economica e finanziaria. A questo punto,
partendo da una lista di anglicismi relativi alla crisi, ne confronteremo la frequenza e l’uso in
due corpora: la banca dati del Sole 24 Ore e un corpus creato appositamente, comprensivo
delle pubblicazioni della Banca d’Italia e della BCE selezionate.
Crediamo che una ricerca di questo tipo sia importante per la traduzione di testi economici di
attualità dall’inglese, e non solo. Gli eventi si susseguono a una grande velocità, e altrettanto
velocemente cambia la terminologia. Quanto più un traduttore è consapevole di come si
evolve la lingua e conosce il ventaglio di opzioni che essa gli offre in un determinato
momento, tanto più potrà fare scelte traduttive con perfetta cognizione di causa.
1
2. Il linguaggio economico e finanziario come linguaggio speciale
2.1 Linguaggi speciali
Sotto il profilo diafasico il centro dell’universo linguistico è occupato dalla lingua naturale,
quella usata quotidianamente dal parlante comune, mentre mutando l’ambito di attività ci si
sposta verso altre varietà di lingua, usate nei settori specializzati: i linguaggi speciali1.
La seguente definizione data da Cortelazzo ne traccia le principali caratteristiche:
“Per lingua speciale si intende una varietà funzionale di lingua naturale, dipendente da un settore
di conoscenze o da una sfera di attività specialistici, utilizzata, nella sua interezza, da un gruppo di
parlanti più ristretto della totalità dei parlanti la lingua di cui quella speciale è una varietà, per
soddisfare i bisogni comunicativi (in primo luogo quelli referenziali) di quel settore specialistico;
la lingua speciale è costituita a livello lessicale da una serie di corrispondenze aggiuntive rispetto a
quelle generali e comuni della lingua e a quello morfosintattico da un insieme di selezioni,
ricorrenti con regolarità, all’interno dell’inventario di forme disponibili nella lingua.” (Cortelazzo
1994: 8)
Fermo restando che queste varietà di lingua sono sempre ricollegate a un settore specialistico,
è importante ricordare che esse non possono essere considerate “realtà statiche e immobili”,
così come non si possono tracciare confini netti tra il linguaggio altamente specializzato, il
linguaggio settoriale meno tecnico dei mezzi di comunicazione di massa e la lingua comune
(Gualdo 2011: 22). Esse variano su un asse verticale: secondo Sobrero (2011: 240) si
distribuiscono “su più livelli stilistici, disposti su una scala che va da un massimo a un
minimo di tecnicità, e che corrisponde a un massimo/minimo discostamento dalla lingua
comune. La scelta di un registro o di un altro […] risponde a esigenze del contesto
extralinguistico”. I linguaggi speciali si trasformano quindi al variare di determinati fattori,
quali l’autore, il destinatario, lo scopo e il canale di comunicazione.
2.2 Il linguaggio dell’economia e della finanza (LEF)
Il LEF è un linguaggio speciale di difficile inquadratura. Innanzitutto è molto esteso sul piano
orizzontale, poiché ingloba una quarantina di discipline: dall’economia politica, alla finanza,
al diritto economico, alla gestione aziendale, fino al marketing. In secondo luogo, la materia a
1
Gli studiosi non sembrano ancora concordare su un’etichetta comune. Gualdo (2011:17-21), Sosnowski
(2006:9-15) e Cortelazzo (1994:7-9) passano in disamina le diverse denominazioni e definizioni (linguaggio
tecnico, linguaggio settoriale, linguaggio specialistico, lingua per scopi speciali, lingua di specializzazione,
sottocodice, micro lingua, tecnoletto,…). Il termine più diffuso è lingua speciale. Abbiamo tuttavia preferito la
variante linguaggio speciale poiché linguaggio è più generico di lingua, dal momento che include sia i codici
comunicativi verbali che quelli non verbali (Gualdo 2011:11).
2
cui fa riferimento ha un “incerto statuto epistemico” (o una “split personality” secondo
Castorina 2011), a cavallo fra una scienza assiomatica e una scienza sociale
(De Mauro 1994: 413).
Ciò ha due implicazioni. Il linguaggio dell’economia e della finanza viene innanzitutto
utilizzato da attori tra loro molto diversi, dalla comunità scientifica internazionale, al mondo
professionale, anch’esso molto sfaccettato, al grande e piccolo investitore, fino al comune
risparmiatore. In secondo luogo il LEF risulta molto diversificato anche sul piano verticale. Si
va da testi molto tecnici (testi normativi, trattati scientifici, rapporti), passando per articoli di
giornale specializzati e manuali universitari, fino ad arrivare agli scritti divulgativi dei mezzi
di comunicazione di massa. Ciò premesso, è difficile indicare in modo assoluto quali siano i
tratti distintivi del LEF. Abbiamo cercato tuttavia di riassumerne quelli tendenziali.
2.2.1 Testualità e morfosintassi
Sul piano testuale e morfosintattico si riconoscono le seguenti peculiarità: la presenza di
schemi, tabelle, grafici e illustrazioni; il ricorso a una struttura testuale argomentativa; la
predilezione per paragrafi brevi e frasi concise; la tendenza alla nominalizzazione e
all’astrazione; la riduzione di tempi, modi e persone verbali, con la prevalenza del presente e
dell’uso del passivo e di forme impersonali; l’uso di verbi generici e infine la propensione alla
giustapposizione tra le frasi (Gualdo 2011, Zanola 2007, Serianni 2011, Arcangeli 2005).
Genere testuale e livello di specializzazione non modificano in maniera rilevante questi
aspetti.
2.2.2 La terminologia
Ciò che veramente contraddistingue un linguaggio speciale dall’altro è però il lessico. Anche
il LEF presenta quindi una propria terminologia, composta da numerosi tecnicismi collegati
agli ambiti economico e finanziario. Negli ultimi decenni essa è stata caratterizzata in misura
crescente da una tendenza alla brevità, nonché a fondere e sintetizzare in un unico elemento
lessicale espressioni e locuzioni più complesse mediante composti o polirematiche
(Gualdo 2011: 372). Questa inclinazione è riconducibile principalmente all’influsso
dell’inglese dal momento che l’italiano, una lingua originariamente letteraria, per natura
ampollosa e poco flessibile, sotto questo aspetto presenta di per sé diversi limiti. Per la
descrizione di fenomeni, strumenti o realtà economiche ci si ritrova infatti spesso confrontati
con lunghe perifrasi, e l’inglese, più breve e duttile, rappresenta un ottimo strumento per
raggiungere una certa semplificazione e condensazione linguistica (cfr. 3.3).
3
Il LEF fa inoltre largo uso di termini risemantizzati, vale a dire lessemi di uso comune che nel
contesto economico-finanziario acquistano un nuovo significato, pur mantenendo lo stesso
significante (Tammaro 2001: 133). Si pensi per esempio a bolla (bolla finanziaria o
speculativa e non bolla di sapone), a sofferenza (credito inesigibile e non dolore fisico o
morale) o ancora a portafoglio (insieme di titoli e non portamonete).
Un’altra importante peculiarità è l’uso frequente di eufemismi e metafore, che costituiscono la
principale fonte di tecnicismi collaterali del LEF. Tra i primi citiamo per esempio ritocco per
tagliare, correzione per ribasso o le frequenti litoti (un risultato non particolarmente
brillante). Esempi di metafore sono invece guadagnare / perdere terreno, trainare, rubinetti
del credito, erosione. Arcangeli (2005: 93) parla di “fughe metaforiche” dal rigore lessicale
che in sostanza hanno l’obiettivo di rendere più amichevoli realtà altrimenti fredde
(Gualdo 2011: 378). Inoltre, come già Dardano (1986), anche Gualdo (2011) vede in
quest’uso della lingua la partecipazione del sentimento di chi scrive, l’esternazione di giudizi
di soddisfazione o preoccupazione circa i fatti economici, ma soprattutto l’intento di attenuare
concetti “tabù” o di “tenere in ombra le persone e i gruppi di potere che agiscono sul mercato”
(Gualdo 2011: 378). Anche questo aspetto non è altro che il risultato di quel dualismo
dell’economia, uno scontro tra tecnicità, logica e sentimento.
Vista la natura delle discipline economico-finanziarie, consistente è anche l’apporto di cifre,
simboli, sigle e acronimi. Il LEF fa inoltre largo uso di anglicismi, dal momento che il lessico
dell’economia e della finanza attinge a una disciplina di respiro internazionale. Si noti che
risulta essere il linguaggio speciale in cui l’apporto inglese è più significativo2.
Infine, esso ha un ultimo tratto distintivo, insolito per i linguaggi specialistici di natura
monoreferenziali: la sovrabbondanza terminologica e la mancanza, spesso, di univocità
semantica
(Dardano
1986:
227).
Novelli
(online3)
definisce
il
linguaggio
economico-finanziario come “anfibio e galoppante”. Dardano (1985) e Sosnowski (2005)
riconducono questa caratteristica a diversi fattori. Innanzitutto il settore è appunto in continua
e rapida espansione e non lascia il tempo per la formazione di una terminologia precisa e
schematica. In secondo luogo vi è una grande densità di forestierismi che pone continuamente
chi scrive di fronte al problema di un’eventuale traduzione che rischia di non coincidere
sempre con quelle date da altri estensori. In ultimo si contano la massiccia presenza di
tecnicismi collaterali e la larga diffusione presso ambienti diversi fra loro.
2
3
Cfr. De Felice 1984: 121, Arcangeli 2005: 87, Gualdo 2011: 357.
http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/parole/delleconomia/Credit_crunch.html
4
2.2.3 Un linguaggio speciale sì, ma per tutti
Abbiamo più volte ripetuto quanto sia tentacolare il LEF. Ma perché? Come già menzionato,
le discipline economiche ricadono per certi aspetti nelle scienze umane e sociali. L’economia
ha infatti un risvolto pratico e un influsso nella vita quotidiana di ogni cittadino. La società vi
è diventata particolarmente sensibile soprattutto negli ultimi cinquant’anni. Negli anni
Settanta, l’aumento e la dilatazione del reddito e della ricchezza nel nostro Paese fanno sì che
l’economia passi da “scienza occulta”, “decisa e pilotata da pochi” ad ambito di interesse
generale: la massa di consumatori, produttori, risparmiatori e investitori ne diventa
protagonista (Pasquarelli 1985: III-VI). Negli anni Novanta questo interesse si accresce in
modo esponenziale con la new economy: ormai neanche il piccolo risparmiatore può rimanere
indifferente al successo degli investimenti finanziari (Gualdo 2011: 367).
Oggi l’economia è “una dimensione fortemente interconnessa con tutta la realtà: […] è uno
dei protagonisti della globalità” (Meucci 2004: 30). Secondo alcuni è la nuova religione, il
potere postmoderno più universale (Dardano 1998: 67).
A prescindere da come la si voglia qualificare, non c’è dubbio che coinvolga, per un motivo o
per un altro, l’intera società. Ne consegue la richiesta di una larga divulgazione: non c’è altro
settore scientifico che occupi ogni giorno almeno qualche pagina dei quotidiani, né che possa
vantare uno o più giornali ad esso interamente dedicati (De Mauro 1994: 416). L’economia è
quindi diventata res publica e mai come in concomitanza con eventi di dimensioni planetarie,
come l’esplosione dell’attuale crisi, essa riversa i suoi effetti e la sua tecnicità nella vita
dell’opinione pubblica.
Ma tecnicità e divulgazione faticano ad andare di pari passo: se i testi economici e finanziari
dovessero essere letti solo da specialisti del settore, non sussisterebbero problemi. La
necessità, spesso, di comunicare gli stessi contenuti anche ad appassionati o profani complica
le cose. Ecco quindi quella che De Mauro definisce la “complessità linguistica” della lingua
dell’economia, quel continuo scontro tra un linguaggio altamente tecnico e il linguaggio
comune (De Mauro 1994: 413). Come accennato poco fa, questa condizione fomenta
l’ambiguità del LEF. Il tentativo, come quello ad esempio dei mezzi di comunicazione di
massa, di spiegare dei concetti tecnici, può portare alla creazione di sinonimi o perifrasi, la
necessità di rendere più chiaro un anglicismo può spingere alla traduzione, magari imprecisa,
dello stesso. E chi ci assicura poi che tutte le perifrasi, i sinonimi e le traduzioni coincidano?
A questo si aggiunge la maggiore tendenza a fare uso di eufemismi e metafore, nonché a
creare neologismi, dei mezzi di divulgazione. Per finire, visto che i diversi livelli di
5
specializzazione non possono essere considerati comparti stagni, è inevitabile che essi si
influenzino a vicenda. Ciò comporta non pochi problemi di terminologia, di comprensione e
di traduzione a tutti i livelli, anche a quello specialistico.
2.2.4 Oscurità
Nonostante l’ampio contatto della società con testi economici, il LEF è spesso considerato
impenetrabile. Da una valutazione comparativa della leggibilità condotta agli inizi degli anni
Novanta, è risultato che il settore con l’indice di leggibilità più basso fosse proprio quello
dell’economia. De Mauro riconduce questa caratteristica alla sua complessità epistemica e
linguistica e sostiene che “in Italia gli economisti non riescono a scrivere con la chiarezza che
sanno riuscire ad avere […] i cultori di discipline di nota hardness, […] o di discipline
d’egualmente incerto statuto epistemico, […] o esposti […] ad una almeno pari divaricazione
tra le loro esigenze di rigore e cautela e l’appassionato bisogno informativo dei profani.”
(De Mauro 1995: 418). Gualdo (2011) e Arcangeli (2005) aggiungono a questa altre
motivazioni: la ricchezza di parole comuni usate con significati specifici e la densità
concettuale che si cela dietro a singole parole o a brevi polirematiche.
3. Gli anglicismi nel LEF
Come accennato nella sezione precedente, tra i linguaggi speciali il LEF è quello con il più
alto tasso di permeabilità all’influsso angloamericano. Ma cos’è un anglicismo? Perché questo
primato? E poi, è sempre stato così?
3.1 Prestiti, calchi, anglicismi: qualche definizione
Il prestito è il risultato di “qualsiasi fenomeno d’interferenza, connesso cioè col contatto e col
reciproco influsso di lingue diverse” (Gusmani 1993: 9). Spesso denominato anche
forestierismo o esotismo, viene indicato come anglicismo4 quando la matrice esogena è
l’inglese. Vediamone ora brevemente le principali tipologie5:
 prestiti adattati (o integrati) a livello morfologico, fonologico e/o lessicale (inflazione da
inflation);
4
Ad anglicismo si affiancano altri sinonimi quali anglismo, inglesismo e di recente si è sentita la necessità di
aggiungere anche angloamericanismo, per indicare nello specifico le interferenze con l’inglese d’America
(Fanfani 2010: internet).
5
Cfr. Gusmani (1993), Fanfani (2010), Coco (2008).
6
 prestiti non adattati (o non integrati o integrali) che mantengono la forma alloglotta
(default);
 composti ibridi in cui una componente è tradotta e l’altra è mantenuta nella lingua straniera
(agenzia di rating da rating agency);
 prestiti di necessità quando non esiste un equivalente autoctono (subprime);
 prestiti di lusso quando esiste un equivalente ma vengono preferiti per motivi stilistici o
espressivi (rating invece di valutazione). Questo porta a un (parziale) sincretismo
semantico e, spesso, a un restringimento di significato del prestito rispetto a quello
originale (spread);
 prestito ripetuto (o plurimo o multiplo): quando da un lessema esogeno vengono originati
due o più prestiti (si pensi ai diversi calchi creati a partire da fiscal cliff: burrone fiscale,
baratro fiscale, precipizio fiscale). Spesso, con il tempo, una delle riproduzioni finisce per
soppiantare le altre;
 prestiti apparenti: prestiti decurtati in cui si perde il secondo elemento (holding per
holding company) e falsi esotismi o pseudo-prestiti che hanno tutto l’aspetto di un termine
alloglotto ma che non trovano nella lingua in questione alcun corrispondente o comunque
non semantico (mobility manager, figura che in inglese non esiste, corrisponde a transport
planner);
 calchi: “il calco si differenzia dai più appariscenti fenomeni di prestito in quanto abbraccia
quei casi di interferenza in cui l’imitazione del modello alloglotto è limitata alla “innere
Sprachform” [forma linguistica interna] e non ha di mira la riproduzione dell’aspetto
esteriore” (Gusmani 1993: 219). Si distinguono i calchi strutturali in cui viene riprodotta la
struttura formale (sistema bancario ombra da shadow banking system) e i calchi semantici
in cui viene riprodotto solo il significato dando alla parola una nuova accezione (congelare
nel senso di sospendere un credito da to freeze a credit). A ciò si aggiunge
l’italianizzazione di parole straniere (performare ottenuto dall’aggiunta della desinenza
verbale italiana -are al verbo inglese to perform).
3.2 Gli anglicismi nella storia del LEF
L’apertura delle frontiere nazionali e commerciali comporta da sempre anche un’apertura
delle frontiere linguistiche. L’incontro tra le lingue non può, infatti, che essere facilitato e
promosso dal contatto tra i popoli stessi, ed è ben risaputo che il primo motivo che ha spinto
l’uomo a varcare i propri confini sono stati gli scambi commerciali. Nel XVI secolo
Baldassarre Castiglione scriveva: “Il commerzio tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di
7
trasportare dall’una all’altra, quasi come le mercanzie, cosí ancor novi vocabuli.” Se la storia
ci insegna che l’inglese negli ultimi secoli è penetrato nella nostra lingua nei settori più
svariati, su quello economico e finanziario ha influito sin dall’inizio, in misura maggiore o
minore secondo le epoche.
In Italia il linguaggio dell’economia si forma nell’alto Medioevo, nei secoli della grande
espansione mercantile che porta alla nascita di una società proto-capitalistica. Non è quindi
una casualità che in questo periodo la presenza di anglicismi si concentri nel lessico
commerciale e del diritto, a sua volta riservato alla classe dei mercanti-banchieri
(Giovanardi 2008: 96). I primi due anglicismi mai attestatisi in italiano sono proprio una
diretta conseguenza dell’espansione delle relazioni commerciali tra Italia medievale e
Inghilterra: si tratta di stanforte (termine inglese indicante un tessuto prodotto nella città di
Standford) e sterlini (da sterling, la valuta dell’Inghilterra), voci risalenti al XIII secolo
(Migliorini 1998: 164).
Anche in quello successivo gli anglismi si riscontrano principalmente nella sfera del lessico
mercantile6 per poi allargarsi all’ambito amministrativo, giuridico, politico e della vita sociale
(Cartago 1994). Bisogna tuttavia ricordare che tra il Duecento e il Rinascimento è l’Italia a
guidare la rivoluzione commerciale. Ne risulta che la creazione terminologica nei campi che
vanno via via sviluppandosi, da quello contabile a quello bancario e finanziario, avviene in
volgare per poi diffondersi nelle altre lingue europee (Sosnowski 2006). Nel mentre queste
ultime, inglese incluso, ricoprono un ruolo secondario nella progressiva formazione del
linguaggio economico e finanziario.
Tra il Cinquecento e il Seicento si sviluppano le teorie legate alla politica monetaria ed
economica degli stati, che avrebbero poi condotto alla nascita della moderna economia
politica. L’Italia perde il primato sia nella realtà economica, in quanto frammentata rispetto
alle grandi potenze nazionali europee, sia in quella scientifica. A imporsi sono i nuovi modelli
della scuola mercantilista francese e inglese che durante l’Illuminismo sfociano nel
consolidamento dell’economia come scienza pura e non più solo pratica, dotata di una propria
teoria e di un linguaggio specifico (Sosnowski 2006). La maturazione terminologica del LEF
è ora appannaggio del francese e dell’inglese. Nel Settecento in Italia si sviluppa anche una
vera e propria anglofilia: “l’ammirazione per quel paese [l’Inghilterra], le sue strutture sociali,
la conduzione politica, l’amministrazione della giustizia e la gestione dell’economia, circola
ovunque.” (Cartago 1994: 730). Questi due fattori fanno sì che l’inglese contribuisca per la
6
Cartago (1994: 721) riporta i seguenti anglicismi: feo “stipendio” (fee), cocchetto “documento di avvenuto
pagamento” (cocket), costuma e costumieri “dogana” e “doganieri” (customs), bigla “conto” (bill).
8
prima volta a un effettivo arricchimento del lessico economico-politico, rimanendo per il
momento comunque in ombra rispetto al francese. I termini entrano soprattutto come calchi,
prestiti adattati o traduzioni, per lo più mutuati dal francese o dal latino (anglolatinismi). In
generale, possiamo affermare che fino al Settecento l’apporto inglese è stato marginale e che
era il francese a detenere il primato come fonte di rinnovamento esogeno della lingua italiana.
Si dovrà aspettare gli inizi dell’Ottocento perché gli anglicismi facciano veramente il loro
ingresso, ovvero quando iniziano a farli propri, in particolare attraverso la traduzione, i generi
popolari di lettura: il romanzo storico e la stampa periodica (Cartago 1994: 735). Quest’ultima
arricchisce il lessico italiano con anglicismi soprattutto nelle aree dell’economia, della moda e
della tecnica dal momento che gli accadimenti internazionali acquisiscono un peso sempre
maggiore negli articoli di riviste e quotidiani. “Il fattore traduzione condiziona l’accesso degli
anglicismi nella stampa periodica, poiché essa vive in moltissimi settori dell’apporto di
materiale da testate straniere […] la prosa giornalistica, già nell’Ottocento incalzata da tempi
stretti per la compilazione dei pezzi, e da ciò naturalmente portata a quella fedeltà traduttoria
che nasce dalla scarsa possibilità e volontà di elaborazione, dinnanzi alle parole straniere
tende ad arrendersi con facilità; tanto più che la mimesi – al polo opposto della
naturalizzazione dà garanzie di veridicità, offrendo per giunta il soccorso del colore locale”
(Cartago 1994: 737). La guerra di secessione americana fa per esempio entrare il termine
inflazione nel lessico italiano (Migliorini 1998: 659).
Nel corso dell’Ottocento l’innovazione terminologica del linguaggio economico e finanziario,
sempre più specializzato, è quasi sempre di stampo inglese e gli studiosi italiani pubblicano
frequentemente le proprie ricerche in questa lingua, di cui apprezzano quello stile diretto che
mancava alla tradizione letteraria italiana (Proietti 2010: online7).
Nel complesso “gli anglicismi entrati nella seconda metà dell’Ottocento sono numericamente
superiori a quelli accolti nel corso di tutti i secoli precedenti” (Rando 1987: XVI) e penetrano
in moltissimi altri campi, tra cui quello del costume, della moda, delle attività ricreative, dei
mezzi di comunicazione e dello sport (Cartago 1994, Zolli 1991).
A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento il modello inglese in campo politico-economico si
rafforza con i movimenti politici, con l’affermarsi del capitalismo industriale e con
l’organizzazione e la legislazione operaia. Nuovi termini in questi ambiti vengono accolti in
italiano senza bisogno, questa volta, della mediazione dal francese8.
7
http://www.treccani.it/enciclopedia/lingua-dell-economia_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/
Tra i prestiti non adattati registrati da Zolli (1991) per la prima metà del Novecento, nel campo del commercio
e degli affari figurano boom, businessman, export, holding, marketing, slogan, stand, travellers’ cheque.
8
9
L’accelerazione di tendenza si registra nel secondo dopoguerra, dopo la parentesi fascista che
con la legge dell’11 febbraio 1923 aveva bandito ogni forestierismo. Gli eventi storici portano
gli Stati Uniti a conquistare il primato politico, economico, culturale, scientifico e tecnologico
del mondo occidentale. L’american way of life invade un po’ tutti i settori della vita
quotidiana e il numero di anglicismi cresce a vista d’occhio. Essi penetrano per la prima volta
senza alcun adattamento e, spesso, anche nella lingua parlata. “Ogni parola è portatrice di un
significato associativo oltre a quello denotativo […]. Il termine inglese ricreava un clima di
vittoria, di benessere, di spensieratezza, di positività che agli occhi degli italiani erano
l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America, un fatto che per motivi principalmente economici è
continuato fino ai nostri giorni” (Pinnavaia 2005: 47). Il prestigio mondiale del Regno Unito
prima e degli Stati Uniti d’America poi spiega quindi perché da una parte si sia avuto un
afflusso così massiccio di anglicismi, e dall’altra perché il loro uso sia diventato di moda.
Gli anglicismi dilagano anche nel linguaggio economico e finanziario: nella seconda metà del
Novecento l’organizzazione degli affari e della produzione negli Stati Uniti è infatti molto più
sviluppata rispetto a quella del Vecchio Continente e il LEF assume una gamma di voci
anglosassoni che vanno dai nuovi metodi di produzione e di vendita, al linguaggio della
pubblicità e all’organizzazione aziendale (Rando 1987: XXI) 9.
Gli Stati Uniti non hanno certo perso il loro primato in campo economico e finanziario:
ancora oggi il sistema americano, capace di rinnovarsi a grande velocità, continua a condurre
il gioco e gli angloamericanismi non cessano di affluire in massa nella lingua italiana.
3.3 Perché tanti anglicismi
Come si può evincere dall’excursus storico appena fatto, la terminologia economica e
finanziaria è sempre nata nel paese (o nei paesi) che, in un determinato momento storico,
deteneva il primato in questi campi. La valenza internazionale intrinseca alle discipline
economiche ha inoltre sempre portato la lingua dell’area geografica in questione a imporsi
sulle altre. Arcangeli (2005: 88), riprendendo una nota asserzione di Marx, afferma che “la
lingua delle nazioni dominanti tende inevitabilmente a diventare la lingua dominante”. A
Migliorini (1998) a ciò aggiunge la penetrazione di stock, check e trust. Nel 1927 viene pubblicato un primo
manuale settoriale bilingue Corrispondenza commerciale inglese: con documenti commerciali e dizionario
commerciale italiano-inglese ed inglese italiano di M. Hazon.
9
Per la seconda metà del Novecento Zolli (1991) riporta i seguenti anglicismi: account-executive, executive, fifty
fifty, leasing, lobby, austerity e fixing. Dal canto suo Ivan Klajn (1972), nell’inventario sugli anglicismi non
adattati degli anni Sessanta, registra i seguenti termini economici: boom, boss, budget, business, businessman,
import, manager, penny, performance, trade union. Proietti (online) riporta blue chip, cash flow, fringe benefit,
factoring, future e golden share.
10
fungere da guida sono stati l’Italia prima, Francia e Inghilterra poi, Stati Uniti oggi. Le
rispettive lingue sono state a loro volta trainanti, e oggi questa funzione tocca all’inglese.
La prima ragione è quindi l’espansione economica dei paesi anglosassoni in corso dalla
seconda metà dell’Ottocento, concentratasi poi soprattutto negli Stati Uniti. Le tecniche di
gestione aziendale e d’investimento sviluppate oltreoceano hanno influenzato e plasmato, e
continuano a farlo ancora oggi, quelle utilizzate in Italia, e insieme a esse anche il linguaggio.
Gualdo indica come momento di maggiore proliferazione degli anglicismi, o meglio degli
angloamericanismi, quello della new economy. La globalizzazione dell’economia grazie alla
rete, guidata dal Nuovo Continente, ha abbattuto le frontiere nazionali e reso l’economia più
internazionale che mai: dagli scambi commerciali agli investimenti finanziari. La velocità
siderale dello sviluppo e la globalizzazione in atto hanno portato una grande ondata di
anglicismi non adattati. Non di secondaria importanza sono le grandi imprese multinazionali,
quasi tutte angloamericane, che esercitano un enorme peso all’interno del settore
economico-finanziario (Gualdo 2011: 366-369). Si parla spesso, e non a torto, di secolo
americano riferendosi a quello appena conclusosi e ora di nuovo secolo americano.
Corollario immediato di questa posizione d’avamposto è il fatto che l’inglese funga da lingua
franca: oggi è la lingua veicolare internazionale nella comunicazione commerciale,
finanziaria
e
d’impresa.
Al
predominio
si
accompagna
quindi
la
comodità
(Dardano 1986: 225): l’uso di termini inglesi, quando non è direttamente l’inglese come
lingua, semplifica i contatti e la comunicazione in un settore economico e finanziario quanto
mai mondializzato.
L’onnipresenza della lingua inglese spinge alcuni persino a chiedersi se esista veramente un
lessico economico e finanziario nazionale o se prevalga piuttosto un lessico anglofono
internazionale (Zanola 2007: 117).
In secondo luogo vanno menzionate la brevità e l’efficacia che contraddistinguono i termini
inglesi (Coco 2008: 106). Come già detto, il lessico dell’economia e della finanza tende al
risparmio e alla condensazione semantica, vuole essere incisivo e immediato, e i termini
inglesi, spesso, riescono a rispondere a questa esigenza meglio dell’italiano. La lingua inglese
è infatti molto più duttile: i suoi processi di formazione lessicale sono infiniti10 e tendono a
non assoggettarsi ad alcuna restrizione grammaticale o collocazionale, permettono così la
creazione di termini diretti, concisi e molto espressivi (Castorina 2011: 18). E anche quando
10
Ercole cita come particolarmente interessanti in ambito economico e finanziario i processi di compounding,
conversion e blending (Rosati 2005: 43), nonché la condensazione semantica tipica dei phrasal verb
(Rosati 2005: 48).
11
esiste un equivalente, si tende a preferire l’inglese, proprio perché l’alternativa risulta spesso
essere una lunga perifrasi descrittiva che Ercole definisce “burdensome-sounding”
(Rosati 2005: 43): rating è molto più immediato di valutazione del merito di credito. A questo
si aggiunge il fatto che i tecnicismi coniati risultino spesso essere anche molto metaforici,
sono immagini che colpiscono e che spesso si tende o a mantenere o a non tradurre
(Rosati 2005: 43). Si pensi ad esempio al mercato toro e al mercato orso o ancora a credit
crunch.
Tuttavia l’influsso di altre lingue, come visto al punto precedente, è sempre stato presente.
Perché allora ci troviamo improvvisamente confrontati con una così grande mancanza di
assimilazione? La principale motivazione risiede nell’accelerazione del ricambio lessicale in
ambito economico e finanziario e nella velocità con cui ai nostri giorni, grazie alle nuove
tecnologie, la terminologia si diffonde: la lingua non ha il tempo di trovare un equivalente, e
ancor meno può riuscire ad assorbire il termine camuffandone lentamente l’origine, come
invece accadeva secoli fa (Taglialatela 2011: 69). Una volta che la parola inglese è messa in
circolazione diventa più difficile trovare e imporre un equivalente appropriato, permettendo
così al forestierismo di entrare nella lingua.
A questa ragione se ne aggiunge una seconda extralinguistica: il prestigio che gli anglicismi,
in particolare non adattati, conferiscono al discorso. C’è la tendenza, nella stampa come negli
ambiti professionali, a preferire il termine inglese perché dà l’illusione di nobilitare il testo.
Dietro si cela il gusto per l’esotico, il fenomeno “moda” e il fascino e il prestigio della
nazione donatrice (Zolli 1991: 3) che in Italia sono particolarmente forti. Le parole inglesi
sembrano infatti avere un loro particolare status: sono più tecniche, più autorevoli, sono
circondate da un’aura di “mistero da iniziati” (Coco 2008: 110). Al prestigio,
Gusmani (1994: 22) affianca anche la scarsa esperienza dell’altra lingua: se in Italia si
conoscesse meglio l’inglese, forse, si gestirebbe in modo più avveduto l’influsso esogeno.
Ma alla sopracitata espressività illusoria che tendiamo ad attribuire ai termini d’oltreoceano,
talvolta si aggiunge anche un’espressività sonora, tipica dell’inglese. La frequenza di
utilizzazione delle risorse imitative e fonosimboliche nella lingua anglosassone supera di gran
lunga quella dell’italiano e dà origine a parole quali boom, crack o credit crunch, molto più
espressive e quindi spesso predilette rispetto al termine italiano (Rosati 2005: 31).
Tuttavia, “il più delle volte a premere per l’anglicismo sono l’assenza di alternative valide e
l’urgenza di rispondere a necessità operative o traduttive” (Gualdo: online11). La lessicografia
11
http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/termini/Gualdo.html
12
italiana fatica infatti a seguire la rapida evoluzione delle conoscenze e delle terminologie
speciali, risultando permeabile all’influsso dell’inglese. Lo specialista, non disponendo di
soluzioni alternative, è spinto a preferire l’inglese. Anche Zanola (2007: 114) nella
terminologia finanziaria nota spesso una “mancanza di riferimenti concettuali e linguistici in
lingua italiana”.
E per chiudere il cerchio, quando i termini italiani esistono, il fatto che manchi una certa
regolamentazione e che il LEF soffra di una grande sovrabbondanza sinonimica porta molti
ad adottare un atteggiamento lassista e a preferire di non tradurre i forestierismi per tutti i
motivi sopramenzionati. Da qui la presenza, nel LEF, di numerosi prestiti di lusso
(Giovanardi 2008: 35).
Riassumendo:
“Ciascuna lingua nazionale, compreso l’italiano, è obbligata in qualche modo a rispondere per un
verso alla logica stessa dell’immagine estraniante del mercato, luogo anidentitario per definizione
chiamato a soddisfare, assai spesso, i bisogni indotti dalle mode, per un altro verso alle pressanti
richieste di una mondializzazione che mostra di legare sempre più le sue sorti all’anglo-americano
nelle vesti di lingua veicolare globale: e la lingua dell’alta finanza e della borsa, in quanto lingua
d’avamposto, piega certo più di ogni altro linguaggio settoriale a queste richieste.” (Arcangeli
2005: 87)
Per concludere, possiamo affermare che esistono tre livelli di correlazione tra il prestito
angloamericano e l’equivalente italiano (Zanola 2007: 117-122; Serianni 2011: 134-135). Nel
primo, prestito e equivalente italiano coesistono e sono ugualmente frequenti. In questo caso
spesso a un anglicismo non adattato corrisponde una forma ibrida. Nel secondo, l’equivalente
italiano esiste ma viene preferito il prestito inglese. Questo caso è di maggiore frequenza nella
stampa giornalistica. Infine, l’anglicismo è l’unica forma disponibile, non esistendo un
equivalente italiano.
A volte, però, che sia per chiarezza o per prestigio, l’uso di anglicismi può trasformarsi in
mancata comprensione. De Mauro (1994: 421) li ha definiti il nuovo latinorum degli scritti
economici, che dilaga in particolare nella stampa saggistica e giornalistica. Lo stesso
preoccupa Giovanardi secondo il quale la sovrabbondanza di anglicismi crea “forti difficoltà
anche a livello concettuale, impedendo spesso il corretto flusso del ragionamento.”
(Giovanardi 2008: 35).
13
3.3.1 I quotidiani: cassa di risonanza di questo fenomeno
Nella stampa economica tutti questi fenomeni sono portati all’estremo. Si noti innanzitutto
che il giornalismo è reputato uno degli ambiti in cui più pullulano gli anglicismi. All’origine
vi sono le due principali funzioni del quotidiano: informare e vendere. In primo luogo
l’abbondare di anglicismi è ascrivibile a un’urgenza lavorativa. I fenomeni economici hanno
spesso un’importanza internazionale, le informazioni si moltiplicano e passano in tempo reale
da un paese a un altro o da un ambiente economico-finanziario a un altro, grazie alla
tecnologia. È ovvio, quindi, che le espressioni che si riferiscono a essi non hanno neppure il
tempo di essere tradotte dal momento che i quotidiani fotografano la situazione immediata
che va trasmessa tempestivamente (Rosati 2005: 22).
In secondo luogo un articolo può assolvere la sua funzione comunicativa solo se viene letto:
deve destare l’interesse del lettore e risultare accattivante. Proprio in quest’ottica il
giornalismo italiano moderno tende al sensazionalismo, alla spettacolarizzazione delle notizie
(Boldrini 2006: 141). Esse sono trasformate in scoop, ne vengono esaltati gli aspetti
eccezionali ed eclatanti, anche quelle più tecniche si trasformano in un racconto perché ciò
permette di arrivare con più immediatezza ai lettori, ampliandone il numero e vendendo più
copie. Quasi trent’anni fa Pasquarelli e Palmieri (1985: VI) commentavano così il nascere di
questa tendenza anche nel giornalismo economico: “Così l’economia si è tinta di giallo, è
divenuta ghiotto racconto con tanto di personaggi da demonizzare o da esaltare, da
smascherare o da mettere sugli altari, da attaccare violentemente o da difendere
accanitamente.” Lo stile che ne risulta è uno stile brillante che si nutre di parole alla moda, in
prima linea neologismi e anglicismi. Lo snobismo che spesso spinge al loro uso trova tra i
giornalisti i suoi principali esponenti: il prestito inglese aggiunge una carica stilistica ed
emotiva non indifferente che esalta l’effetto che egli vuole produrre sul lettore, che sia
stupore, curiosità, scompiglio o avversione (Pinnavaia 2005: 48). Pensiamo per esempio alla
parola spread, ormai lo spauracchio dell’attuale crisi finanziaria, l’elemento che ci permette di
capire se le cose vanno bene o male ma che al contempo rimane misterioso, estraneo, ha un
effetto quasi esorcizzante. Se nei titoli di giornale si usasse il termine neutro differenziale di
rendimento si perderebbe tutto l’effetto connotativo che il lessema alloglotto reca con sé. Gli
anglismi hanno anche una particolare efficacia persuasiva in quanto “presentano l’enunciatore
come persona informata, competente, degna di fiducia” e “rievocano ambienti e situazioni di
prestigio” (Dardano 2005: 230). Riescono inoltre a colpire l’attenzione del lettore perché
conferiscono all’intera pubblicazione una certa attualità.
14
Infine, il giornale è sempre stato specchio dell’evolversi della lingua e come tale è una spugna
che assorbe le novità linguistiche, contribuendo a farle diventare di moda e talvolta persino a
fissarle nell’uso (Gualdo 2007: 85). Ecco quindi che la stampa oltre a crearne di nuovi, tende
a concentrare in sé tutti i prestiti e calchi inglesi di recente formazione.
Questo uso e abuso da parte dei quotidiani (e degli altri media), però, rischia di far stingere la
prosa brillante in una “prosa grigia, o peggio, opaca e confusa” (Gualdo 2007: 79). Come già
discusso al punto precedente, troppi forestierismi rischiano di erigere un muro tra chi scrive e
chi legge, a maggior ragione quando i lettori sono costituiti da un’ampia fascia della
popolazione. Il linguaggio colorato dei giornalisti moderni, che sia carico di forestierismi alla
moda, di neologismi o di metafore ed eufemismi particolarmente fantasiosi deve quindi saper
essere maneggiato in modo corretto e consapevole, pena l’incomprensione.
Per concludere è importante ricordare che tra l’informazione economica e i fatti economici
stessi esiste una correlazione molto stretta: “l’informazione è l’ossigeno del mercato”
(Meucci 2004: 28), genera e altera gli eventi. Ne consegue che, come i contenuti, anche la
lingua utilizzata dai giornali esercita un influsso sul linguaggio economico specialistico.
3.4 Regolamentazione
Se la lessicografia specialistica ha conosciuto uno sviluppo intenso ma disordinato è anche
perché non ha mai avuto alcun punto di riferimento (Gualdo 2011: 67). In Italia, infatti, non
esiste un osservatorio linguistico centrale e istituzionalizzato come accade per esempio in
Francia con l’Académie française o in Spagna con la Real Academia Española, né esistono
centri specializzati nel monitoraggio della neologia specialistica, come l’Observatoire de
néologie du Québec. Al fine di evitare l’imporsi di anglicismi e valorizzare le varianti
endogene, nonché di armonizzare la terminologia economico-finanziaria nel suo insieme,
restituendole, nella misura del possibile, la biunivocità e la monoreferenzialità che
contraddistinguono le lingue speciali, l’Italia avrebbe bisogno di intensificare la ricerca
terminologica. Il nostro paese, al contrario di altri dove la ricerca è attiva e proficua da tempo,
ha per decenni rifiutato ogni intervento sulla lingua, in parte per il rigetto verso la politica
linguistica attuata dalla dittatura fascista (Gualdo: online12). Solo negli ultimi vent’anni ha
iniziato a muoversi qualcosa.
Nel 1991 è stata fondata l’Associazione Italiana per la Terminologia (Ass. I. Term) che si
adopera per la normalizzazione della terminologia, soprattutto in quei settori come l’economia
12
http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/termini/Gualdo.html
15
in cui l’inglese sovrabbonda, cercando di valorizzare i lessemi endogeni. L’associazione,
inoltre, pubblica periodicamente liste di termini inglesi con i loro corrispondenti italiani,
selezionati da specialisti. Infine, ha costituito il Centro italiano di riferimento per la
terminologia tecnico-scientifica (Cirt)13.
A livello europeo nel 2005 la Direzione Generale della Traduzione della Commissione
europea ha avviato il progetto della Rete per l’eccellenza dell’italiano istituzionale (REI), il
cui obiettivo è “promuovere un italiano istituzionale chiaro, comprensibile e accessibile a
tutti, garantendo nel contempo un elevato livello qualitativo”14. Diversi sono i gruppi di
lavoro sulla terminologia economico-finanziaria e molto attivo è quello guidato da Maria
Teresa Zanola. È utile ricordare, infatti, che anche la traduzione in ambito comunitario
esercita una grande influenza sull’italiano. I testi, siano essi legislativi o divulgativi, trattano
sia tematiche discusse anche a livello nazionale che concetti nuovi. Le traduzioni concorrono
quindi da un lato ad affermare (o complicare) l’uso della termologia specialistica e dall’altro
ad arricchirla. L’introduzione di realtà nuove rende infatti spesso necessaria la creazione di
neologismi, che entrano nell’uso soprattutto attraverso l’integrazione delle leggi europee nella
legislazione nazionale. La produzione terminologica segue principalmente due meccanismi: la
risemantizzazione o la derivazione di parole già esistenti e il calco o prestito del termine del
testo originale che nella maggior parte dei casi è redatto in inglese. Tuttavia, il fatto che i
termini si sviluppino in una realtà esterna a quella nazionale e rappresentino “soluzioni
obbligate” e non un’elaborazione linguistica dei parlanti, rende la terminologia comunitaria
opaca e impenetrabile (Cosmai 2007: 34). La necessità di fornire una corrispondenza
speculare tra i testi nelle varie lingue, inoltre, porta spesso a traduzioni troppo letterali che
oltre a fomentare l’ambiguità dello scritto, sfociano in discordanze terminologiche e pertanto
nella creazione di sinonimi (Tosi 2007: 127). Anche il cosiddetto «eurocratese», quindi, non è
immune dalla proliferazione di anglicismi e sinonimi che vanno poi a loro volta ad alimentare
la lessicografia specialistica italiana.
Nel quadro dell’Accademia della Crusca è stato invece costituito il Centro di Consulenza
sulla Lingua Italiana Contemporanea (CLIC)15. Infine, tra le recenti ricerche dei linguisti,
spicca quella di Giovanardi che, basandosi sulle teorie di Migliorini, ha proposto dei
parametri per valutare se gli anglicismi che entrano in italiano sono sostituibili16.
13
Cfr. http://www.assiterm91.it/
Cfr. http://ec.europa.eu/dgs/translation/rei/
15
Cfr. http://www.accademiadellacrusca.it/it/laccademia/centri/centro-consulenza-lingua-italiana-contemporanea
16
Cfr. Giovanardi 2008: 38-49
14
16
Non è necessario quindi arrivare a costituire un Consiglio Superiore della Lingua Italiana
come era stato proposto nel 2001, né è questione di bandire qualsiasi anglicismo seguendo
ideali puristi. Si tratta solo di promuovere la ricerca terminologica specializzata per
riequilibrare il rapporto tra italiano e angloamericano da un lato, e evitare la dispersione di
sinonimi e varianti dall’altro, due problemi che riguardano da vicino il LEF.
Tuttavia, nonostante gli sforzi in atto nel quadro delle iniziative descritte sopra, questi gruppi
di lavoro non risultano essere particolarmente funzionali ed efficienti. Rimangono, infatti,
realtà in ombra che per il momento non sono riuscite né a imporsi, né a esercitare
un’influenza concreta sulla lingua.
4. Il caso del lessico della crisi
La crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2007 e protrattasi fino a oggi ha avuto diverse
ripercussioni a livello lessicologico, tra queste se ne possono identificare in particolare
quattro. Innanzitutto ha generato neologismi per esprimere concetti e situazioni mai esistiti
prima (attività tossiche, fiscal cliff, grexit, banche zombie). In secondo luogo ha spostato il
lessico di ambiti specialistici all’uso quotidiano (bailout, subprime, default). Come già
menzionato, gli eventi economici e finanziari hanno un grande impatto sulla persona comune,
a maggior ragione eventi di vasta portata, per di più negativa, che sortiscono effetti quali
disoccupazione, inflazione o aumento della pressione fiscale. Strettamente collegato a
quest’ultimo aspetto, è il fatto che molti termini fino a pochi anni fa con un basso grado di
utilizzo, hanno cominciato ad imperare in ogni ambito, più o meno specialistico. Rating,
bad bank, swap, subprime non sono, come molti potrebbero essere portati a pensare,
neologismi. Infine, alcune voci hanno assunto nel quadro della crisi un’accezione particolare
(spread). Tutto questo ha portato a una “corsa ai forestierismi”, come la definisce
Taglialatela (2011): un po' perché la crisi è mondiale, parte dagli Stati Uniti e poi si sposta in
Europa, un po' perché l’inglese conserva, nonostante il tracollo finanziario, la sua aura di
prestigio.
4.1 I canali di comunicazione presi in esame
Le pubblicazioni ufficiali della Banca d’Italia e della BCE nella loro versione italiana. Si
tratta di rapporti e analisi sulla situazione economica e finanziaria italiana e internazionale.
17
Sono testi “vincolanti”17 e molto autorevoli e come tali sono caratterizzati da un’alta
specializzazione e sono rivolti a esperti del settore (operatori e analisti economici). Le
pubblicazioni della Banca d’Italia, contraddistinte da un certo rigore stilistico e terminologico,
costituiscono da sempre un punto di riferimento per la scrittura economica del nostro paese e,
solo di recente, hanno iniziato a subire un processo di svecchiamento, sotto l’influsso dello
stile giornalistico e del modo di esprimersi anglosassone. Si noti che, a differenza del Sole 24
Ore, informare non è la funzione primaria della Banca d’Italia, nonostante rimanga tra le più
importanti fonti di informazione nel settore. Le pubblicazioni prese in esame sono le
seguenti18:
 la Relazione Annuale:
“ampia analisi dei principali sviluppi dell’economia italiana e internazionale nell’anno
precedente e nei primi mesi di quello in corso. Fornisce un dettagliato resoconto delle
decisioni di politica monetaria e delle altre attività istituzionali della banca.”

il Bollettino Economico:
“analisi della congiuntura e della politica economica della Banca. Fornisce informazioni
sull’andamento dell’economia italiana - inquadrandolo nel più generale contesto economico
internazionale e dell’area dell’euro - nei suoi aspetti più rilevanti.”

il Rapporto sulla stabilità finanziaria:
“analisi del settore finanziario italiano della Banca. Fornisce informazioni sulle condizioni
del sistema finanziario - inquadrandole nel contesto macroeconomico e finanziario
mondiale - e sui principali fattori di rischio di origine interna e internazionale.”

il Bollettino mensile della BCE (traduzione dall’inglese):
“it explains this decision [its monetary policy decision] and makes it more transparent by
providing a detailed analysis of the current economic situation and risks to price stability.”

il Rapporto Annuale della BCE (traduzione dall’inglese):
“it describes the activities of the European System of Central Banks (ESCB) and reports on
the Eurosystem’s monetary policy of the previous year.”
Il Sole 24 Ore. È l’unico quotidiano in Italia d’impronta economica e finanziaria e costituisce
per questo un punto di riferimento. È un giornale specializzato e può essere considerato
“mediamente vincolante”. Nonostante esso traduca in notizie i fatti economici, queste
mantengono comunque un certo grado di tecnicità. Il lessico settoriale è più specializzato
rispetto alle pagine economiche dei quotidiani generalisti. Anche se è nato per gli addetti ai
17
Sabatini suddivide i testi in tre categorie: testi vincolanti, testi mediamente vincolanti e testi poco vincolanti in
funzione dell’intenzione dell’emittente di “regolare in maniera più o meno rigida l’attività interpretativa del
destinatario”. Zanola ha applicato questa ripartizione ai testi di contenuto finanziario: la classe di appartenenza
ha, infatti, una ricaduta sulle scelte terminologiche (Zanola 2006: 111-112).
18
Cfr. http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni e http://www.ecb.int/pub/html/index.en.html.
18
lavori, negli ultimi trent’anni, di pari passo con la crescita del benessere complessivo e con
l’internazionalizzazione della gestione del risparmio, si è rivolto sempre più anche a un
pubblico sì colto, ma meno specializzato, desideroso di tenersi informato sulle vicende
politiche ed economiche (Meucci 2004: 31-32). All’informazione strettamente economica si
affiancano anche l’attualità politica, le trasformazioni sociali e i temi che riguardano le
famiglie e la gestione delle imprese. Oggi lo leggono tanto gli operatori finanziari, gli
economisti e gli imprenditori quanto gli artigiani, i commercianti, i pensionati o gli studenti.
Non per niente si tratta della terza testata del Paese per tiratura (Gualdo 2011: 367). Si notino
anche la frequente presenza di note linguistiche che accompagnano gli articoli e le numerose
pubblicazioni di libri, dizionari, manuali a fine divulgativo.
5. La crisi economica e finanziaria (2007-2012)
5.1 Le cause della crisi finanziaria statunitense
Quella che sarà considerata la crisi peggiore dopo la Grande Depressione del 1929 scoppia
ufficialmente il 15 settembre 2008. Bisogna tuttavia ripercorrere alcuni fatti e avvenimenti del
ventennio precedente per capire come si sia potuto giungere a tanto.
Per stimolare l’economia dopo lo scoppio della bolla delle dot.com e gli attacchi
dell’11 settembre 2001, negli Stati Uniti la Federal Reserve (FED) abbassa drasticamente il
tasso di riferimento che arriva a toccare l’1%. Bassi tassi d’interesse si osservano anche nelle
altre economie avanzate. Ne consegue l’inevitabile gonfiarsi di una bolla mondiale della
liquidità: in circolazione nel sistema finanziario vi è un’enorme quantità di denaro a basso
costo che si traduce in un accesso facilitato al credito (Keeley 2010: 19). Ciò incoraggia
famiglie e imprese a richiedere prestiti e lo stato a indebitarsi, fomentando così la spesa
pubblica e privata e di conseguenza anche l’attività economica. Il risultato è un boom trainato
dall’indebitamento.
La bolla della liquidità è gonfiata anche da ingenti flussi di capitale verso gli USA. Dalla fine
degli anni Novanta si rilevano infatti crescenti squilibri mondiali, legati principalmente al
disavanzo di conto corrente degli Stati Uniti con la Cina. I primi importano grandi quantità di
prodotti made in China a prezzi concorrenziali, mentre la seconda esporta più di quanto non
introduca. Per impedire l’inevitabile apprezzamento dello yuan e rimanere quindi competitivo
sul mercato, il gigante asiatico ricicla le riserve di dollari risultanti dall’interscambio
investendole in titoli di Stato USA. Dal canto loro, acquistando merci a basso costo, gli Stati
Uniti riescono a mantenere sotto controllo l’inflazione la cui manifestazione sarebbe stata
19
altrimenti ineludibile visto l’aumento della domanda aggregata. Grazie al collocamento dei
capitali cinesi, inoltre, essi possono finanziare il proprio debito pubblico a un prezzo inferiore
alla norma (Buckley 2011: 2). Questi due fattori permettono di mantenere bassi i tassi
d’interesse e di continuare ad alimentare il boom economico. Come la Cina, anche altri paesi
del Medio Oriente e dell’Est Asiatico iniziano a operare fondi sovrani oltreoceano.
I bassi tassi d’interesse e l’espansione economica che contraddistinguono non solo l’economia
statunitense ma anche quella europea, contribuiscono a creare una bolla immobiliare, negli
Stati Uniti come in paesi quali Regno Unito, Irlanda, Spagna e Paesi Bassi. Gli istituti di
credito sono disponibili a prestare, sempre più famiglie richiedono mutui attratte dal basso
costo del denaro, la domanda cresce, e così anche gli investimenti nel comparto edile: il
settore del mattone è in piena fioritura e i prezzi degli immobili residenziali aumentano
esponenzialmente.
Un’ulteriore importante causa della crisi è l’innovazione del sistema finanziario statunitense
e, sul suo esempio, anche di quello europeo. Negli anni Novanta si assiste a una forte crescita
dell’attività bancaria d’investimento, trainata dall’accelerazione dei mercati over the counter
(OTC) e in particolare dei derivati. All’interno del settore creditizio prende infatti piede un
nuovo approccio. Il modello conservatore di originate-to-hold che aveva finora
contraddistinto la gestione bancaria si trasforma progressivamente in originate-to-distribute.
In altre parole tradizionalmente gli intermediari si concentravano per lo più su profitti modesti
e distribuiti nel lungo periodo, ovvero sulla differenza tra interessi attivi e passivi, tenendo in
bilancio i crediti erogati (Keeley 2010: 23). A partire dalla metà degli anni Novanta le
istituzioni finanziarie iniziano a pretendere più profitto e, soprattutto, a breve termine. Ecco
quindi che il loro approccio muta: invece di tenere i prestiti concessi li vendono a banche
d’investimento che a loro volta li distribuiscono. Così facendo generano un profitto
immediato, possono continuare a prestare denaro senza contravvenire ai requisiti patrimoniali
e aumentare esponenzialmente i propri guadagni. Questa nuova gestione si riflette anche negli
stipendi degli operatori finanziari: alla retribuzione fissa vengono ad aggiungersi ingenti
bonus per tutti quei profitti generati nel breve periodo, a prescindere dalla possibilità che gli
affari in questione possano, a lungo andare, far registrare delle perdite.
Questa evoluzione è promossa anche da una regolamentazione lassista. Nel 1999 negli Stati
Uniti viene abrogato il Glass-Steagall Act, una legge introdotta dopo la Grande Depressione
che disponeva la separazione tra banche commerciali e d’investimento. In Europa questa
divisione già non era obbligatoria. A ciò viene ad aggiungersi la pressione esercitata sulle
istituzioni finanziarie statunitensi dal governo Clinton prima e da quello Bush poi, affinché
20
venissero concessi mutui anche a famiglie a basso reddito. Per incentivare questa pratica, dal
1992 il governo induce Freddie Mac e Fannie Mae19 ad acquisire un maggior numero di mutui
a basso merito di credito dagli intermediari.
La possibilità di rivendere i prestiti, l’azione dei governi a favore della proprietà immobiliare
e la bolla della liquidità in corso inducono le banche a prestare anche a soggetti a rischio. Da
qui la nascita dei cosiddetti mutui subprime, ovvero quelli concessi a debitori in passato già
insolventi o che non erano in grado di fornire garanzie circa il proprio reddito. La loro
capacità di rimborsare il prestito, di fatto molto bassa, interessava poco i creditori, visto che
avrebbero comunque ceduto il mutuo a un altro istituto, e con esso anche il relativo rischio.
Ma cosa fanno le banche d’investimento e le società quali Freddie Mac con i crediti
acquistati20? Li cartolarizzano in strumenti derivati: i CDO (collateralized debt obbligation) e
gli MBS (mortgage-backed securities). Come già accennato la banca d’affari acquista,
finanziandosi a breve termine, crediti in quantità, molti dei quali a lungo termine e non
affidabili (in prima linea mutui subprime ma anche debiti da carte di credito, finanziamenti
auto, ecc.). Attraverso una società veicolo (SPV) appositamente creata, li impacchetta quindi
in obbligazioni garantite dal flusso di cassa delle attività sottostanti. La SPV, spesso costituita
in paradisi fiscali, permette principalmente di rimuovere i mutui dal bilancio
dell’intermediario, rendendo così possibili nuove acquisizioni. Di fatto, però, in caso di
perdite queste sono assorbite dall’istituzione finanziaria che l’ha costituita. La differenza tra i
due tipi di derivati risiede semplicemente nella tipologia di attività sottostanti: i CDO sono
garantiti da un portafoglio di prestiti di diversa natura mentre gli MBS da soli mutui.
A questo punto dal pacchetto (pool) di attività rischiose è possibile crearne di sicure. Esso
viene infatti diviso in tre o più tranche a seconda della loro priorità di rimborso. Il flusso di
cassa generato dalle attività sottostanti, ovvero dal rimborso mensile delle rate dei mutui e
degli altri prestiti, viene utilizzato innanzitutto per il pagamento della prima tranche, poi per la
seconda e infine per la terza. Così facendo il rischio viene distribuito e, teoricamente, ridotto.
Le agenzie di rating attribuiscono quindi alla prima tranche un alto merito di credito (AAA,
tranche senior), alla seconda una sicurezza media (BBB, tranche mezzanine) mentre l’ultima
non viene valutata ed è la prima ad assorbire le perdite (equity, spesso tenuta in portafoglio
dall’emittente). Per rendere l’investimento ancora più sicuro e allettante, la prima tranche
viene
solitamente
assicurata
contro
un’eventuale
19
insolvenza
tramite
un
CDS
Si tratta rispettivamente della Federal Home Loan Mortgage Corporation e della Federal National Mortgage
Association, due società sponsorizzate dallo stato il cui ruolo è garantire la liquidità nel mercato immobiliare.
20
Con il venir meno della separazione tra banche commerciali e d’investimento, molti intermediari si occupano
sia della concessione dei mutui che della loro cartolarizzazione, moltiplicando così i rischi per i risparmiatori.
21
(credit default swap).
L’emittente
dell’obbligazione
paga
dei
premi
assicurativi
a
un’istituzione terza che è tenuta a risarcire la controparte in caso di fallimento del debitore che
garantisce il titolo. Questo processo di indebitamento volto a moltiplicare i profitti è detto
leva finanziaria.
Le tranche vengono quindi vendute agli investitori finali (altre banche, fondi di investimento,
fondi pensione, fondi assicurativi, fondi speculativi, ecc.) a un tasso di interesse proporzionato
al merito di credito. Si noti che questi titoli sono collocati nel mondo intero e che tra gli
investitori si contano anche i risparmiatori: i tentacoli del rischio che recano con sé
raggiungono così ogni angolo della finanza mondiale. Sono molti gli intermediari europei a
essere esposti al mercato secondario dei derivati sui subprime.
Ma non è tutto. Gli operatori finanziari, avidi di nuovi guadagni, spingono la macchina della
finanza derivata ancora oltre e trovano nei CDS un nuovo strumento redditizio: iniziano a
usarli anche a fini speculativi. A differenza di un vero e proprio contratto assicurativo, infatti,
l’emissione di un CDS non prevede né limiti ai premi, né l’obbligo di un interesse da
assicurare. In altri termini si inizia a scommettere sul fallimento di banche e società. Secondo
Buckley i CDS sono stati lo strumento derivato che ha causato più perdite al momento dello
scoppio della crisi finanziaria (2011: 86).
Le due principali cause appena descritte sono strettamente interconnesse. L’abbondante
liquidità nel sistema ha infatti accelerato e promosso la creatività finanziaria, mentre il fatto
che i derivati fossero più redditizi rispetto ai titoli di Stato all’1% ha attirato un numero
crescente di investitori. A ciò si affianca chi sostiene che questa evoluzione sarebbe piuttosto
da ricondurre all’elevatissima domanda di titoli di debito affidabili emersa negli USA con gli
squilibri commerciali (Caballero 2009: 72). Non riuscendo a soddisfarla con veri strumenti
sicuri sono stati creati titoli con un alto merito di credito solo apparente.
In conclusione, all’alba del 2007 l’intero sistema finanziario statunitense (e mondiale) poggia
su una montagna di debiti, ma soprattutto è esposto alla minaccia dell’insolvenza. Perché,
nonostante tutto, si è continuato a cavalcare l’onda del rischio, rendendolo più che mai
sistemico? I motivi chiave sono sicuramente la grande avidità degli operatori finanziari e il
cosiddetto moral hazard. Nel caso in questione esso è il rischio che lega ogni protagonista del
mercato dei derivati, dal cittadino irresponsabile alla banca d’investimento, che non dovendo
assumersi la responsabilità delle proprie azioni ha maggiore tendenza ad avviare procedure
pericolose. Il rischio, infatti, viene sempre trasmesso a qualcun’altro. E alla fine della catena
vi è lo stato che dovrà salvare gli intermediari qualora i debitori risultassero insolventi. In altri
termini “il profitto è privato ma il rischio è condiviso dall’intera società” (Buckley 2011: 58).
22
5.2 Il collasso del settore bancario mondiale
È evidente che la situazione appena descritta non poteva durare in eterno. Nel 2005 negli Stati
Uniti l’inflazione tenuta fino ad allora sotto controllo inizia a manifestarsi, i tassi d’interesse
aumentano e il mercato immobiliare si avvia verso la discesa. La bolla scoppia e i valori degli
immobili residenziali crollano. Ne risultano i primi inadempimenti sui subprime. Tra il 2005 e
il 2007 cominciano a farsi sentire i primi squilibri di mercato e nel mondo intero si inizia a
pensare che, forse, i rischi sistemici erano stati sottovalutati. Agli inizi del 2007 i default
accelerano, rendendo il sistema finanziario sempre più vulnerabile: i flussi di cassa rallentano,
rimborsare gli investitori è spesso difficile e con il valore degli immobili anche quello dei
titoli cartolarizzati e delle azioni bancarie precipita verso il basso. La leva finanziaria che
aveva moltiplicato i profitti durante il boom, è ora all’origine di ingenti perdite.
Le turbolenze finanziarie scoppiano il 9 agosto: BNP Paribas congela tre dei suoi fondi che
investono in strumenti derivati a causa di crescenti difficoltà nel riscattare le quote degli stessi
e nello stimare l’effettivo valore delle attività. Ciò sfocia in una grande sfiducia tra gli
operatori di mercato e in un senso di incertezza circa la solvibilità e la liquidità delle
controparti. Il mercato interbancario rallenta drasticamente e in tutto il mondo si inizia a
risentire di una carenza di liquidità: le banche rifiutano di prestarsi denaro a vicenda. Per
limitare le tensioni nel comparto del finanziamento a breve termine, la BCE e la FED
immettono sul mercato rispettivamente 95 miliardi di euro e 25 miliardi di dollari. Ma la crisi
è solo rimandata. Nei mesi successivi gli istituti centrali continuano a condurre misure di
politica monetaria non convenzionali per incoraggiare le banche a offrire credito
all’economia. La BCE, inoltre, sulla base di un accordo di swap con la FED, inizia anche a
fornire liquidità in dollari statunitensi. La situazione non sembra tuttavia dare segni di
miglioramento e rimane sottovalutata. Tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008 diversi grandi
istituti di credito si vedono confrontati con gravi problemi di liquidità: con ingenti quantità di
attività tossiche ormai illiquide (CDO, MBS e CDS) nei propri bilanci, cominciano a
registrare forti perdite. La difficoltà di provvista a breve termine rischia di portarli al collasso
e i governi sono obbligati a intervenire. A febbraio 2008 la banca britannica Northern Rock
viene nazionalizzata. Il mese successivo l’istituto americano Bear Stearns viene prima
ricapitalizzato, invano, dalla FED e poi venduto a J. P. Morgan Chase. Fannie Mae e Freddie
Mac sono salvate dal governo nel mese di settembre.
Il 15 settembre 2008 il colosso finanziario statunitense Lehman Brothers si vede costretto a
dichiarare bancarotta: con 1,2 milioni di contratti derivati e controparti nel mondo intero, il
23
suo debito ammonta a 613 miliardi di dollari (Buckley 2011: 180). È il più grande fallimento
della storia e con esso le turbolenze sfociano in una vera e propria crisi finanziaria mondiale.
Questo evento porta a una nuova ondata di sfiducia, al congelamento del mercato
interbancario e all’inasprimento delle condizioni di offerta dei prestiti all’economia: è la
cosiddetta stretta del credito. Le borse crollano e intermediari del mondo intero finiscono
nell’occhio del ciclone. AIG, la più grande società assicurativa statunitense controparte di
numerosissimi CDS, di fronte ai continui fallimenti non riesce più a far fronte ai propri
obblighi. A fine 2008 deve essere salvata dal governo. La stessa sorte tocca alle statunitensi
Citigroup e BAC, alle britanniche HBOS e RBS, a Fortis nel Benelux, alla svizzera UBS e
alle irlandesi BOI e AIB, solo per citarne alcune. Segue un panico diffuso e a evitare
l’implosione del sistema finanziario mondiale è proprio l’intervento dei governi e delle
banche centrali con giganteschi piani di salvataggio dei rispettivi sistemi creditizi. Procedono
a iniezioni di capitale e acquisizioni di titoli tossici. A ciò si aggiunge l’operazione concertata
tra i principali istituti centrali di ridurre notevolmente i tassi di riferimento per rilanciare
l’attività creditizia21. Per salvare le istituzioni finanziarie dal fallimento, inoltre, diversi stati
istituiscono una bad bank, una banca speciale preposta all’assunzione di tutte le attività in
sofferenza degli istituti di credito al fine di ripulirne i bilanci e favorire la ripresa del sistema.
5.3 Contagio dell’economia reale
Le ingenti perdite generate dal mercato dei derivati e il crollo del sistema finanziario
internazionale non tardano a contagiare l’economia reale che subisce un arresto improvviso.
Per la prima volta si ha una recessione mondiale dal momento che quasi tutte le economie
risentono, seppur in diversa misura, della crisi finanziaria. Anche quei paesi le cui banche
erano state meno esposte devono fare i conti con questo nuovo quadro congiunturale. Nel
2009 il PIL mondiale si contrae del 2,1%, una riduzione che non si registrava dal 1945
(Keeley 2010: 12). Il fatto che a una fase di espansione segua un periodo di contrazione non è
cosa nuova, ma un rallentamento che trae origine da una crisi bancaria tende a essere due o tre
volte maggiore rispetto agli scenari comuni e la ripresa può richiedere il doppio del tempo
(Keeley 2010: 34). Il settore creditizio è il cuore dell’economia e non meraviglia quindi che ci
siano state ripercussioni così gravi a livello internazionale.
21
Tra la fine del 2008 e la metà del 2009 la BCE taglia il tasso di riferimento dal 2,5% all’1%. La FED in pochi
mesi, tra ottobre e dicembre 2008, lo riduce dall’1% allo 0,25%. Analogamente nel Regno Unito esso passa dal
3% allo 0,5% . Si noti che i tassi sono rimasti estremamente bassi fino a oggi: a fine luglio 2013 erano
rispettivamente dello 0,5%, 0-0,25% e 0,5%. (Fonti: BCE, FED e BoE)
24
Nel corso del 2009 si registra una contrazione del mercato dei mutui con una conseguente
diminuzione degli investimenti nel settore edile. La stretta creditizia rende inoltre difficile
l’accesso al credito a imprese e famiglie e ne consegue un rallentamento dell’attività
economica e del prodotto. Con il progressivo deteriorarsi della congiuntura si osserva un calo
drastico della fiducia: i consumatori temono per le proprie finanze e spendono meno.
L’attività delle imprese frena: vengono cancellati gli investimenti, tagliate le spese, ridotti i
salari e rimandati i pagamenti. Ma ciò che ha portato la recessione nel mondo intero è stato il
conseguente rallentamento dell’interscambio che nel 2009 cala del 12% (Keeley 2010: 12). È
così che anche i paesi emergenti e in via di sviluppo cominciano a risentirne, sebbene saranno
poi i primi a registrare una ripresa. Anche l’Europa, che dipende molto dalle esportazioni, è
colpita pesantemente da questo fattore. La situazione venutasi a creare fa crescere
drasticamente la disoccupazione e quindi anche la povertà. Ciò si traduce nel crollo di
domanda e PIL. La recessione si ripercuote anche sullo stesso sistema bancario che l’ha
generata, dal momento che fa aumentare il numero di attività in sofferenza. È facile notare
come tutti questi fattori siano strettamente interconnessi e come il deterioramento dell’uno si
ripercuota immediatamente su tutti gli altri.
I governi devono far fronte a un gettito fiscale in caduta libera e a grandi spese sia per
rispondere alla disoccupazione in crescita che per rilanciare l’economia. Nel dicembre 2009 si
osserva un graduale rientro sia delle tensioni sui mercati finanziari che della recessione
(BCE 2010). I fari sono ora però puntati sui disavanzi e i debiti dei singoli stati, cresciuti in
modo preoccupante in seguito ai salvataggi delle banche e alla recessione. Particolarmente
allarmante è la situazione nell’area dell’euro.
5.4 La crisi del debito sovrano in Europa
5.4.1 Le cause
La crisi del debito sovrano dell’area dell’euro scoppia a fine 2009 dopo le elezioni in Grecia.
Per capire cosa sia successo è tuttavia necessario fare nuovamente un passo indietro.
Nel 1999 undici paesi europei adottano una moneta comune, l’euro, portando a compimento il
progetto di un’Unione economica e monetaria (UEM). Nel 2002 il nuovo conio viene messo
in circolazione e all’alba del 2011 i paesi aderenti sono 17. Dal punto di vista monetario ed
economico l’unione è forte, ma in termini di governance è molto debole; la politica fiscale e
di bilancio rimane infatti responsabilità dei singoli stati. In altri termini la moneta è condivisa
mentre i debiti pubblici non lo sono. Per ovviare al problema i paesi dell’UEM firmano il
25
Patto di stabilità e crescita, il quale impone loro una serie di limiti al debito pubblico e al
disavanzo, una misura che si rivelerà tuttavia insufficiente. L’UEM porta, come sperato, alla
nascita di una moneta forte e a una più grande integrazione commerciale e finanziaria tra i
paesi membri, ma crea e nasconde al contempo diversi squilibri (Mongelli 2013: 15).
Il tasso di cambio della nuova divisa era stato fissato sulla media dei valori delle monete
comunitarie ponderata al peso delle relative economie nazionali. I paesi come Germania e
Francia che prima avevano un tasso di cambio forte diventano così più competitivi, mentre
quelli un tempo più deboli, come l’Italia, si ritrovano a offrire prezzi meno vantaggiosi. La
Germania aumenta la propria competitività tenendo basso anche il costo del lavoro
(Lapavitsas 2012). Ne risultano forti squilibri commerciali: i paesi centrali22, Germania in
primis, riescono a trarre vantaggio dalla situazione, aumentando le esportazioni e generando
un avanzo di conto corrente, mentre quelli periferici, diventati meno competitivi, accumulano
disavanzi.
L’introduzione dell’euro ha però giovato anche a questi ultimi che hanno visto crollare i
propri tassi d’interesse. La politica monetaria unica ha infatti creato un contesto di stabilità
dei prezzi e fatto convergere i tassi d’interesse verso quelli più bassi delle economie dove
l’inflazione era stata più contenuta, come la Germania (Smaghi 2011). Quello che sta
accadendo negli Stati Uniti si osserva quindi anche in Europa: i paesi periferici approfittano
dei bassi tassi d’interesse per dare inizio a un boom economico trainato dal debito. In Irlanda
e Spagna a guidare l’espansione sono soprattutto gli investimenti nel mattone che sfociano in
una bolla immobiliare, mentre in Grecia e Portogallo a crescere è principalmente il consumo
di famiglie e imprese. La prosperità induce tutte queste economie ad attuare una politica di
bilancio pro-ciclica, con riduzione della pressione fiscale e aumento della spesa pubblica
(Smaghi 2011). Il loro deficit aumenta ma sia il debito pubblico che quello privato sono
finanziati dai flussi di capitale provenienti dalle banche di quei paesi con un forte avanzo,
ottimisti nei confronti della crescita dei loro vicini. Non prestano però l’attenzione necessaria
all’effimerità di questa fase espansiva e ai debiti sulla quale poggia.
In Italia l’indebitamento ha un ruolo marginale, con famiglie che tendono al risparmio e
intermediari che seguono politiche finanziarie conservatrici. Quello che si rivelerà invece
essere un problema sarà l’elevatissimo debito storico accumulato nei decenni precedenti:
anziché approfittare dei vantaggi della nuova moneta comune per favorire la dinamicità
22
Durante la crisi del debito sovrano si è creata una divisione tra il centro e la periferia dell’Europa, e con essa la
dicitura di “paesi centrali” (Francia e Germania in primis ma anche Paesi Bassi, Austria e Finlandia) e “paesi
periferici” (i cosiddetti PIGS, Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna ai quali si è progressivamente venuta ad
aggiungere anche l’Italia).
26
economica e risanare i bilanci, il paese non agisce, lasciando stagnare la crescita e
rimandando le riforme strutturali (Fortis 2011).
A questo punto risulta evidente il grande divario e la poca integrazione esistente tra queste
economie: il debito pubblico e le performance dei singoli paesi sono tra loro molto diversi,
così come le politiche fiscali e di bilancio. Il Patto di Stabilità e Crescita si era rivelato
inefficiente nel tenere sotto controllo le finanze pubbliche e gli squilibri sopra descritti
diventano sempre più sistemici, acuendo il rischio di credito di certi stati. La crisi finanziaria
farà crollare questo sistema instabile mettendo a nudo sia le differenze interne che alcune
lacune istituzionali dell’UEM, in particolare la mancanza di un’unione di bilancio, di
un’unione bancaria e di un meccanismo comune per la gestione delle crisi, nonché il limitato
margine di azione della BCE (Mongelli 2013: 12).
5.4.2 Dalla crisi finanziaria alla crisi del debito sovrano
Lo scoppio della crisi finanziaria negli Stati Uniti porta, come abbiamo già visto, molte
banche europee sull’orlo del collasso. A essere colpiti sono per lo più i colossi bancari, più
esposti al mercato dei derivati sui subprime. A questi si aggiungono gli istituti di credito di
quei paesi dove lo scoppio della bolla immobiliare e della bolla del credito causa un crollo dei
valori delle attività, facendo registrare loro ulteriori perdite. Seguono i salvataggi e una
recessione che si estende all’intero continente (cfr. 5.2 e 5.3). Nel complesso l’Europa riesce
tuttavia a recuperare, in particolare grazie al sostegno della BCE e alle politiche di bilancio
espansive dei governi. Fino alla fine del 2009 nessun paese membro sembra minacciato da un
aggravarsi della crisi e i differenziali di rendimento rimangono bassi. Gli squilibri all’interno
dell’area dell’euro e il deterioramento delle finanze pubbliche causato dalla crisi economica
sono infatti sottovalutati, sia dai mercati che dalle agenzie di rating, che guardano all’Europa
come un unico blocco privo di rischio (Mongelli 2013: 17). Dal momento che i titoli di Stato
sono per definizione i più sicuri, i paesi centrali continuano a finanziare quelli periferici. Ma
se nei primi il debito storico più contenuto e l’economia più performante permettono di
affrontare meglio il deterioramento dei conti pubblici, i secondi, già molto indebitati e poco
solidi prima della crisi, versano ora in una situazione critica. Non appena il loro debito
raggiungerà livelli insostenibili, la possibilità di insolvenza diventerà plausibile, esponendo
l’intero sistema finanziario europeo a enormi rischi, con non poche ripercussioni
sull’economia reale.
27
5.4.3 La crisi greca
A fine 2009, poco dopo le elezioni greche dalle quali esce vincitore il socialista George
Papandreu, una revisione delle finanze pubbliche rivela risultati scioccanti: il deficit pubblico
non è al 3,7% del PIL ma al 12,5%, e dall’entrata nell’euro il debito è raddoppiato, passando
da 150 a 300 miliardi. Nel 2001 per aderire all’euro la Grecia aveva infatti mascherato i dati
reali relativi al proprio disavanzo grazie a un’operazione di swap con la banca americana
Goldman Sachs. Queste correzioni al rialzo fanno sorgere una crescente preoccupazione circa
la solvibilità della Grecia e rendono plausibile ciò che finora era stato considerato
impossibile: un’insolvenza all’interno dell’Eurozona. Il paese viene declassato dalle agenzie
di rating, il differenziale di rendimento con i Bund tedeschi, considerati i più sicuri, si amplia
e i premi sui CDS aumentano.
Le misure di austerità attuate nell’immediato da Atene non sembrano bastare e al peggiorare
della situazione greca inizia a farsi largo la paura del contagio. Tra aprile e maggio 2010
l’ampliamento dei differenziali di rendimento subisce un’accelerazione in tutti i paesi
periferici, oltrepassando i 1000 punti base in Grecia (Mongelli 2013: 18). Quest’ultima sarà
presto confrontata con il cosiddetto arresto improvviso dei flussi di capitale dall’estero che le
renderà impossibile l’accesso al mercato del credito (Smaghi 2011). Con titoli per 9 miliardi
in scadenza a fine maggio e l’impossibilità di finanziarsi, il paese è a rischio insolvenza.
Nel frattempo l’Europa cerca una soluzione alla crisi greca ma il dibattito si trascina per tutta
la prima metà del 2010. I paesi, dopo una fase iniziale di sottovalutazione dei rischi, agiscono
in modo incerto e zoppicante, divisi dai rispettivi interessi. La Germania, con anni di rigore
alle spalle, si oppone categoricamente a un salvataggio di un paese irresponsabile come la
Grecia. Si profila inoltre il timore che un bailout possa acuire l’azzardo morale all’interno
dell’area dell’euro. Bisognerà aspettare maggio 2010 perché i leader europei si rendano
veramente conto della gravità della situazione e dell’enorme rischio sistemico venutosi a
creare, giungendo finalmente a un accordo. Non bisogna infatti dimenticare che sono proprio
le economie centrali a detenere gran parte di quel debito a rischio dei paesi periferici.
Contravvenendo al divieto del Trattato di Lisbona di salvare un paese dell’UEM dal
fallimento, il 2 maggio la Commissione europea, la BCE e l’FMI (la cosiddetta Troika) si
accordano su un pacchetto di salvataggio per la Grecia dal valore di 110 miliardi di euro. Il 10
maggio l’UE annuncia inoltre la creazione dell’European Financial Stability Facility (EFSF),
un fondo europeo temporaneo per la stabilità finanziaria con una dotazione di 440 miliardi,
preposto al sostegno dei paesi in difficoltà dell’area dell’euro. Esso è basato sul collocamento
28
di obbligazioni, garantite dai paesi dell’Eurozona in misura proporzionale alla propria quota
di partecipazione nel capitale della BCE. A dicembre 2010 i leader europei approveranno
invece la creazione del Meccanismo europeo di stabilità (MES), un fondo salva-Stati
permanente che entrerà in vigore nel 2012. Esso avrà una dotazione di 500 miliardi e il
capitale sarà sottoscritto dai paesi dell’area dell’euro sotto forma di capitale versato, capitale
richiamabile e garanzie. Secondo alcuni osservatori una risposta più decisa e tempestiva alla
crisi avrebbe potuto limitare gli attacchi speculativi sulla Grecia ed evitare il contagio
(Van Ackere 2012: 176).
La BCE, dal canto suo, il 10 maggio 2010 annuncia il lancio del Programma per il mercato
dei titoli finanziari (Securities Market Programme, SMP) che prevede l’acquisto di
obbligazioni sia private che pubbliche sul mercato secondario. È un passo importante, dal
momento che finora la BCE, a causa di quella contraddittoria assenza di un’unione di
bilancio, aveva potuto venire in aiuto solo delle banche e non dei singoli stati. La BCE
ripristina inoltre le linee di swap con la FED, la quale cerca a sua volta di proteggere i propri
istituti di credito, anch’essi esposti al debito europeo.
5.4.4 Il contagio
Grazie agli annunci di maggio le tensioni sui mercati finanziari si allentano. La tregua è però
breve e i premi al rischio di diversi paesi non tardano ad ampliarsi nuovamente (BCE 2010).
Sta infatti venendo meno anche la fiducia nelle altre economie periferiche, a causa dei timori
di mercato circa la sostenibilità delle loro finanze pubbliche, dilaniate da ingenti disavanzi e
debiti. Dilaga la paura dell’insolvenza e aumentano gli attacchi speculativi. Con i continui
tagli del merito di credito da parte delle agenzie di rating si assiste a una ricomposizione dei
portafogli in favore di attività più sicure e sia i premi sui CDS che i differenziali di
rendimento dei titoli di Stato aumentano di conseguenza. Ciò espone Irlanda e Portogallo
prima, Spagna e Italia poi, a una crescente illiquidità nel mercato del debito pubblico.
L’aumento dello spread acuisce inoltre anche le difficoltà relative ai conti pubblici poiché gli
emittenti sovrani si ritrovano a dover rimborsare tassi d’interesse sempre più elevati. La
divisione interna tra paesi centrali “virtuosi” e paesi periferici “lassisti” è sempre più marcata.
Il 21 novembre 2010 l’Irlanda, provata da un debito pubblico in ascesa e un sistema bancario
ancora in difficoltà, richiede aiuti finanziari all’UE, approvati due settimane dopo. Ad aprile
2011 toccherà al Portogallo a cui viene accordato un pacchetto di aiuti il 17 maggio.
Questi interventi sono indispensabili per mantenere la stabilità finanziaria in Europa ma
vengono concessi a un prezzo elevato: l’austerità. Tutti i paesi salvati, monitorati da vicino
29
dalla Troika, sono obbligati a seguire una politica di rigore per il risanamento delle proprie
finanze, basata su tagli alla spesa pubblica, aumento della pressione fiscale, riduzione dei
salari e privatizzazioni, nonché ad attuare riforme strutturali. In un contesto di crescente paura
di contagio, viene esercitata pressione affinché anche gli altri paesi altamente indebitati come
Italia e Spagna adottino provvedimenti in questa direzione. Quella del rigore risulta infatti
essere l’unica soluzione possibile vista l’impossibilità di svalutare la moneta come era invece
spesso stato fatto prima dell’euro (Smaghi 2011). Queste misure di aggiustamento non
sembrano tuttavia sortire il risultato desiderato. Hanno un costo sociale elevato e riportano i
paesi in recessione; particolarmente preoccupante è l’aumento della disoccupazione,
soprattutto tra i giovani. La disperazione dei cittadini si traduce in scioperi, proteste,
movimenti contro il sistema finanziario che scoppiano un po’ ovunque e a più riprese nei
paesi oppressi dal rigore.
A partire dall’estate 2011 le tensioni sui mercati del debito sovrano si acuiscono e la crisi
assume proporzioni sistemiche (REL 2011). In Grecia lo scenario si deteriora ulteriormente e
le agenzie di rating valutano il paese in default parziale. A ottobre l’Eurogruppo trova un
accordo per la ristrutturazione del debito ellenico: gli investitori privati saranno obbligati ad
accettare perdite del 50%. Un’insolvenza ufficiale avrebbe infatti inflitto perdite maggiori,
poiché avrebbe fatto scattare il pagamento dei CDS (Lapavitsas 2012).
Al contempo le turbolenze si estendono ad altri paesi dell’area dell’euro, in particolare a
quelli con un alto debito pubblico e privato quali Italia e Spagna. Per quanto riguarda l’Italia,
da una parte si accentuano i timori di mercato circa un possibile contagio sull’elevato debito
pubblico, dall’altra la classe politica subisce una progressiva perdita di credibilità perché
giudicata incapace di adottare le misure necessarie a risanare i bilanci e a contrastare
l’aggravarsi della crisi. Seguono tagli al merito di credito e aumenti del differenziale di
rendimento che arriva a toccare i massimi storici, mentre l’Europa preme perché vengano
attuate riforme. L’instabilità sfocia nelle dimissioni di Silvio Berlusconi a novembre e nella
formazione di un governo tecnico guidato da Mario Monti. I mercati riacquistano fiducia ma
l’Eurogruppo non allenta la pressione. A dicembre viene varato un pacchetto di misure di
austerità per 20 miliardi di euro. Le difficoltà economiche e finanziarie di fine 2011 portano a
una crisi politica anche in Spagna e Grecia, con le dimissioni dei rispettivi primi ministri.
Il peggioramento della crisi del debito si estende anche alle banche. L’intero settore creditizio
europeo è nuovamente in crisi: gli intermediari del Vecchio Continente sono infatti molto
esposti al debito degli emittenti sovrani, in particolare a quello dei paesi in difficoltà. Con
l’aumento del rischio di credito di questi ultimi e quindi dei tassi di rendimento dei loro titoli,
30
cresce il rischio di una perdita di valore delle attività. Il ripetuto declassamento di alcuni paesi
rende inoltre sempre più difficile l’accesso degli istituti di credito alla provvista all’ingrosso e
fa aumentare i tassi interbancari. Per le banche dei paesi periferici è ormai quasi impossibile
collocare obbligazioni e a determinare questa illiquidità non è tanto il merito di credito della
singola istituzione finanziaria quanto quello del paese di appartenenza. Ciò porta a una
sempre più netta segmentazione dei mercati di raccolta lungo i confini nazionali. Ma le
difficoltà e gli alti costi della provvista si trasmettono, seppur in misura minore, anche agli
intermediari degli altri paesi dell’area. Con una circolazione del credito all’ingrosso sempre
più limitata si profila il rischio di una crisi di finanziamento delle banche di portata sistemica
e di una conseguente restrizione del credito all’economia (Van Rixtel 2013). Per evitare
l’implosione del sistema creditizio dell’area dell’euro il Consiglio direttivo della BCE,
guidato dal nuovo Presidente Mario Draghi, lancia delle operazioni di rifinanziamento a tre
anni (ORLT). Condotte a dicembre 2011 e marzo 2012, esse permettono di immettere un
totale di 1000 miliardi nel sistema al fine di sostenere il mercato interbancario e il credito al
dettaglio. Questa operazione contribuisce ad allentare le tensioni e a ripristinare un minimo di
fiducia (REL 2011).
A febbraio 2012 l’Eurogruppo accorda un secondo pacchetto di aiuti alla Grecia evitandone il
default. Verso marzo la situazione segna un miglioramento, soprattutto dopo la conclusione
delle operazioni di swap con gli investitori privati per la ristrutturazione del debito. Nel
frattempo crescono le difficoltà nel settore bancario spagnolo, ormai sull’orlo del collasso. A
luglio l’Eurogruppo concede fondi pari a 100 miliardi di euro per il rifinanziamento del
comparto creditizio iberico, sbloccati poi a fine anno.
A cavallo tra la prima e la seconda metà del 2012 le tensioni si riacutizzano con il diffondersi
di timori circa una spirale negativa tra bassa crescita, deterioramento delle finanze pubbliche e
difficoltà dei sistemi bancari (REL 2011: 68). A settembre la BCE lancia il programma OMT
(Outright Monetary Transactions), noto anche come piano anti-spread. Esso consiste
nell’acquisto sul mercato secondario di titoli sovrani dei paesi in difficoltà, come Italia e
Spagna, a fronte del mantenimento degli impegni presi in termini di aggiustamento dei bilanci
e rilancio dell’economia. A fine novembre l’Eurogruppo sblocca aiuti destinati alla Grecia per
un valore di 43 miliardi di euro: l’obiettivo è evitare nuovamente l’insolvenza e ridurre il
debito a un livello sostenibile entro il 2020.
Il 2012 si conclude con un complessivo allentamento della crisi del debito e delle tensioni sui
mercati finanziari (Mongelli 2013: 35). L’Europa si appresta però ad affrontare un’altra
31
grande sfida: l’uscita dalla seconda recessione di cui risentono in misura crescente sia i paesi
centrali che quelli esterni all’UEM.
5.4.5 Verso una nuova governance
Tra il 2010 e il 2012 i leader europei si sono adoperati per cercare di correggere quei difetti
strutturali dell’UEM messi a nudo dalla crisi.
Alla mancanza di un meccanismo di gestione delle crisi viene data subito risposta, con la
creazione dei due fondi salva-Stati (EFSF e MES) descritti sopra.
Successivamente viene rafforzata anche l’integrazione sul piano economico, in particolare per
quanto riguarda il bilancio. Le principali riforme sono contenute nei cosiddetti six-pack e
two-pack, nonché nel Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’UEM.
Il primo, entrato in vigore il 13 dicembre 2011, è costituito da cinque regolamenti e una
direttiva che sanciscono il rafforzamento del Patto di Stabilità e Crescita e le relative sanzioni
(meccanismo automatico di correzione), nonché l’introduzione di una procedura volta a
prevenire gli squilibri macroeconomici. Il secondo è stato approvato a giugno 2012 e
conferisce alla Commissione il potere di valutare i bilanci nazionali e, laddove necessario, di
richiederne la correzione, nonché di assicurare l’aggiustamento di disavanzi eccessivi. Il
trattato è stato firmato a marzo 2012 ed è entrato in vigore il 1° gennaio 2013. La parte
principale è nota come fiscal compact e impone l’integrazione nei sistemi giuridici nazionali
della disciplina di bilancio e del meccanismo automatico di correzione stabiliti nel six-pack. Il
trattato mira inoltre a favorire una maggiore convergenza e competitività tra le economie
dell’UEM, aspetti peraltro tratti dal Patto per l’Euro che era stato adottato a marzo 2011.
Per quanto riguarda il sistema bancario, dopo i primi passi compiuti nel 2010 con il Sistema
europeo per la stabilità finanziaria (ESFS), il 13 dicembre 2012 i leader dell’area dell’euro
hanno dato il via libera a un’unione bancaria. Nel quadro di un meccanismo di supervisione
unico, dal 2014 la vigilanza bancaria sarà affidata alla BCE. Rimangono da definire i requisiti
patrimoniali da applicare agli intermediari.
Infine, a settembre 2011, per frenare la speculazione la Commissione ha proposto un’imposta
sulle transazioni finanziarie (ITF), la cosiddetta Tobin Tax. È stata approvata da 11 paesi, tra
cui l’Italia, a inizio 2013 e mira a promuovere negoziazioni più responsabili, orientate
all’economia reale. L’imposta si applicherà a tutte le transazioni finanziarie che coinvolgono
una parte stabilita in uno o più degli 11 paesi dalle quali saranno escluse le attività finanziarie
quotidiane di famiglie e imprese. È prevista un’aliquota minima dello 0,1% per i titoli
azionari e obbligazionari e una dello 0,01% per gli strumenti derivati. Al momento è in atto
32
una discussione sulle modalità di applicazione e l’attuazione è prevista per il 1° gennaio 2014
(Traynor 2013).
5.5 Stati Uniti
A sostenere la ripresa dopo la crisi finanziaria e la successiva recessione, negli Stati Uniti è
stata soprattutto la Federal Reserve, che dopo il suo primo intervento nel 2008 ha lanciato
altre due volte un programma per l’acquisizione di titoli di debito pubblico e privato dalle
banche. Questa pratica è chiamata quantitative easing (QE) e mira a immettere liquidità nel
sistema per indurre gli istituti di credito a prestare e rilanciare così l’economia. Il QE2 è stato
attuato nell’autunno 2011 in accordo con le altre grandi banche centrali che hanno agito
analogamente23, e il QE3 a fine 2012. Queste misure hanno tuttavia contribuito ad aumentare
vertiginosamente il debito pubblico che nel 2011 arriva quasi a toccare la soglia del 100% del
PIL, obbligando il governo ad alzare il tetto del debito per evitare l’insolvenza.
Nel frattempo anche negli Stati Uniti si fa strada la possibilità di una seconda recessione, un
grande rischio per l’economia mondiale. La causa è il cosiddetto fiscal cliff: il 1° gennaio
2013 avrebbero dovuto entrare in vigore tagli alla spesa pubblica e aumenti della pressione
fiscale. Con un accordo raggiunto il 31 dicembre 2012 il Congresso rimanda queste misure, e
con esse un ostacolo alla ripresa. Le ingenti riduzioni della spesa sono però rinviate solo fino
al 1° marzo 2013, data in cui, a causa del mancato raggiungimento di un accordo in merito da
parte del Congresso, scattano le drastiche misure. Si tratta del cosiddetto sequester o
sequestration, che prevede tagli pari a $85 miliardi per l’anno in corso e $1200 miliardi entro
il 2021. Ma un tale rigore rappresenta una grande minaccia per la crescita economica e
l’occupazione, motivo per cui sono in corso dibattiti per trovare misure alternative.
5.6 Verso una maggiore regolamentazione
A livello internazionale negli ultimi anni sono stati compiuti i primi passi verso una maggiore
regolamentazione dei mercati finanziari; nel mirino vi sono soprattutto i derivati. Le principali
misure adottate sono state la legge Dodd-Franck negli Stati Uniti (2010) e l’EMIR (European
Market Infrastructure Regulation, 2012) a livello europeo. Essi mirano a rafforzare la
sorveglianza, la trasparenza e la regolamentazione dei mercati dei derivati. Si sta inoltre
cercando di porre un limite alle remunerazioni di banchieri e operatori finanziari, al fine di
favorire una maggiore attenzione ai risultati a lungo termine. Infine, si è sentita la necessità di
23
Bank of England, Banca nazionale svizzera, Banca del Giappone; fa eccezione la BCE che non essendo
prestatore di ultima istanza ha ovviato al problema con le ORLT.
33
intervenire anche a livello bancario per rendere gli istituti di credito più resilienti agli shock
sistemici. Degno di nota sul piano internazionale è l’accordo di Basilea III che stabilisce un
rafforzamento dei requisiti patrimoniali degli intermediari, la costituzione di riserve e un
limite alla leva finanziaria, obiettivi da raggiungere nel periodo 2013-2019.
6. Analisi linguistica
6.1 Descrizione della metodologia
La lettura di libri, saggi e articoli mirata ad approfondire lo sviluppo della crisi economica e
finanziaria (punto 5) ci ha permesso di individuare meglio quali siano stati i termini che
hanno guadagnato una posizione di rilievo in questo contesto. Per l’analisi linguistica sono
stati selezionati i seguenti: austerity, bailout, credit crunch, default, rating, spread e
subprime.
La ricerca e il confronto sono stati effettuati con l’ausilio di tre corpora24. Due di essi
raccolgono le pubblicazioni ufficiali elencate al punto 4.1 per il periodo 2007-2012,
liberamente disponibili su internet in formato elettronico (PDF). Invece di un unico corpus, ne
sono stati creati due distinti, uno inclusivo delle pubblicazioni della Banca d’Italia e un
secondo contenente quelle della Banca centrale europea nella loro versione italiana. Questa
scelta è stata guidata dal fatto che, mentre le prime sono stilate da esperti direttamente in
italiano, le seconde sono traduzioni dall’inglese. Abbiamo voluto in tal modo fare una
distinzione tra questi due processi di stesura per vedere se la presenza di un testo di partenza
inglese influenzi le scelte terminologiche. Ad ogni modo questi due corpora sono stati
considerati insieme nel confronto con l’altro linguaggio considerato, ovvero quello
giornalistico. Essi sono stati creati con il software di concordanze tlCorpus che permette sia la
creazione di corpora a partire da file in formato PDF che la loro analisi. L’altro grande corpus
preso in considerazione è la banca dati del Sole 24 Ore.
Alla messa a punto degli strumenti appena descritti è seguita l’analisi vera e propria. Per ogni
termine abbiamo innanzitutto fornito una spiegazione teorica e una breve panoramica delle
sue origini e della sua evoluzione; questo sia per l’italiano che per l’inglese. In seguito
abbiamo svolto una ricerca quantitativa e qualitativa nei due corpus comprensivi delle
24
Per corpus si intende una raccolta di testi in formato elettronico. La creazione di un corpus è suddivisa in due
fasi: la raccolta dei dati e la loro computerizzazione, cui segue la fase di analisi. La modalità più comune di
elaborazione delle informazioni è quella mediata da un software di concordanze che permette di rilevare tutte le
frasi in cui un determinato lessema (o una stringa di parole) compare. I corpora hanno applicazioni molto varie:
sono utilizzati per studi in ambito grammaticale, lessicale, linguistico, contrastivo, diacronico, diastratico o
ancora diafasico, come nel presente caso (Meyer 2002).
34
pubblicazioni ufficiali e in quello del Sole 24 Ore: in primo luogo abbiamo effettuato
un’analisi della frequenza dei termini (prima annuale e successivamente complessiva), per poi
procedere a un’osservazione più approfondita del loro uso, delle collocazioni, del contesto,
ecc.
La presente analisi non ha la pretesa di essere esaustiva. Si tratta piuttosto di un’osservazione
delle tendenze linguistiche che contraddistinguono questo particolare ambito e periodo. È
inoltre importante tenere a mente che:

i testi, ufficiali o giornalistici che siano, non presentano un unico estensore. Dato che
ogni individuo dispone di un’enciclopedia personale, le scelte linguistiche, lessicali e
stilistiche che compie saranno sempre soggettive e differiranno pertanto da persona a
persona;

i tre corpora non sono delle stesse dimensioni;

la ricerca nella banca dati del Sole 24 Ore permette di rilevare solo il numero di
articoli in cui compare una parola o una stringa di parole e non le effettive occorrenze
totali, al contrario di quanto avvenga nell’analisi delle concordanze all’interno dei
corpora creati ad hoc. I dati raccolti vanno perciò considerati anche alla luce di questo
fattore.
Fig. 1. Il software tlCorpus: esempio d’uso. La ricerca del termine austerità nel corpus contente le pubblicazioni
della BCE.
35
6.2 Analisi e confronto
1. AUSTERITY
Definizioni in inglese e in italiano di austerity
Austerity. 4. Difficult economic conditions created by government measures to reduce a budget deficit,
especially by reducing public expenditure: a period of austerity, austerity measures. (NOAD 2010)
Austerity. s. ingl. (propr. «austerità»), usato in ital. al femm. – Nel linguaggio economico, termine
originariamente riferito al regime di rigida economia imposto dal governo laburista in Gran Bretagna, nel
secondo dopoguerra, ed esteso poi a indicare qualsiasi politica di restrizione dei consumi ed eliminazione degli
sprechi, attuata in periodi di crisi per ottenere il risanamento economico: misure di austerity. (Vocabolario
Treccani online)
Origine e sviluppo del termine
Il termine inglese austerity nasce nel XV secolo come calco dal francese austerité, a sua volta
di origine latina (da austeritas, derivato dall’aggettivo austerum) con il significato di durezza,
crudeltà. Nella sua accezione economica il termine è usato per la prima volta durante la
Seconda guerra mondiale, nel 1942, in riferimento alle politiche nazionali di limitazione degli
sprechi, per poi estendersi a indicare qualsiasi regime basato sulla riduzione dei consumi in
periodi di crisi (etymonline.com/austerity).
Nell’inventario lessicale italiano ritroviamo sia austerità che austerity. Il primo lessema, nel
suo significato di base, deriva anch’esso dal latino ed è stato mediato dal francese.
Nell’accezione economica, invece, è indotto dal modello inglese austerity. Il calco si fa
risalire al secondo dopoguerra, più precisamente al 1947, mentre il prestito integrale penetra
in italiano nel 1951 in riferimento ai “provvedimenti economici-finanziari restrittivi” attuati
nel Regno Unito. Austerità entra in italiano in una seconda occasione, ovvero nel 1973
quando “l’anglicismo camuffato viene ripreso per designare il contenimento dei consumi
imposto dalla crisi petrolifera” (DELI 1999).
Considerato l’ingresso non recente dei due anglicismi, entrambi hanno avuto modo di
attecchire in italiano e di diffondersi. Austerità e austerity coesistono e in ambito economico
sono perfetti sinonimi.
In ultimo è utile ricordare che non si tratta propriamente di termini del linguaggio
specialistico ma piuttosto del gergo giornalistico.
36
Frequenza
Periodo di
Pubblicazioni
Termine
riferimento
Banca d’Italia
Austerity
2007
Austerità
Pubblicazioni BCE
Il Sole 24 Ore
0
0
15
2008
0
0
33
2009
0
0
54
2010
0
0
207
2011
0
0
271
2012
0
0
428
Totale
0
0
1008
2007
0
0
33
2008
0
0
53
2009
0
2
56
2010
0
5
413
2011
0
5
417
2012
0
4
804
Totale
0
16
1776
Osservazioni ed esempi
I dati raccolti confermano quanto affermato in precedenza, ovvero che i due anglicismi non
sono termini altamente tecnici. Non compaiono, infatti, in alcun testo della Banca d’Italia,
mentre nelle traduzioni della BCE a essere impiegato è solamente il calco e a ogni modo con
una frequenza limitata. Essendo un termine di bassa specializzazione anche in inglese,
austerity è poco usato anche nei testi di partenza dove ricorre 15 sole volte, esattamente
laddove in italiano i traduttori hanno optato per austerità. In una sola occasione austerità
traduce un’espressione differente, ovvero retrenchment.
Al contempo le ulteriori misure di austerità annunciate da alcuni governi dell’area dell’euro
hanno contribuito ad attenuare le tensioni nei mercati 25. (Bollettino mensile della BCE, gennaio
2012)
Osservando le occorrenze dei due termini nella banca dati del Sole 24 Ore notiamo che
austerità è più usato rispetto al prestito integrale austerity, con un rapporto di quasi 2:1.
La frequenza di entrambi i termini è aumentata esponenzialmente tra il 2010 e il 2012, fatto
che rispecchia indubbiamente l’evolversi degli eventi, poiché l’austerità è diventata una delle
grandi protagoniste dello scenario economico e politico solo dopo il 2010 in risposta alla crisi
25
At the same time, the announcement of additional austerity measures by some euro area governments helped
to alleviate tensions in the markets.
37
del debito sovrano in Europa. Tuttavia, rispetto al passato l’uso di austerity è notevolmente
aumentato. Se prendiamo in considerazione il periodo 1997-1999, anch’esso contraddistinto
da un clima di rigore, risulta che il calco è stato usato 586 volte e il prestito integrale solo 64,
con un rapporto di quasi 10:1. Ciò dimostra come austerity fosse già entrato in italiano nei
decenni precedenti ma al contempo rimasto in secondo piano rispetto alla forma adattata
morfologicamente. Lo scoppio della crisi del debito europeo ha portato in voga il termine
inglese e ne ha ampiamente favorito l’uso.
Osservando i due termini risulta subito evidente quanto si somiglino. Sono pochi i casi in cui
il lessema italiano, o adattato in questo caso, e il corrispondente alloglotto siano così simili sul
piano fonomorfologico: a separarli è infatti la sola vocale finale. Non sussistono quindi
questioni legate alla brevità, all’efficacia o all’espressività e si potrebbe perciò essere portati a
credere che una tale vicinanza sia ideale per favorire di gran lunga l’impiego del termine
italiano. Eppure la differenza d’uso non è così abissale. La domanda che sorge spontanea a
questo punto è perché il prestito integrale abbia avuto un tale successo, ma anche
semplicemente perché si sia sentito il bisogno di usarlo se l’italiano vi somiglia tanto.
Possiamo ipotizzare che l’inglese sia penetrato e si imponga perché risulta, grazie all’estrema
somiglianza con l’italiano, facilmente comprensibile. La predilezione per il forestierismo si fa
quindi molto più marcata che in altri casi perché incitata e favorita da questa vicinanza. Inutile
dire quindi che la comprensione di austerity è data sempre per scontata dagli estensori e che il
termine viene utilizzato senza glosse esplicative. Di seguito alcuni esempi per austerità e
austerity. Le collocazioni più frequenti sono: piano di a., politica di a., misure di a., pacchetto
di a., programma di a., manovra di a., a. fiscale.
La strada è ora meno in salita dopo la lettera inviata giovedì scorso dal leader del principale partito
dell’opposizione, Antonis Samaras, ai vertici di Commissione Ue, Eurogroup e Fmi, assicurando
«pieno sostegno, con alcune modifiche» al piano di austerity del premier Papademos. (Il Sole 24
Ore, 28.11.2011)
Negli Usa si guarda con attenzione agli sviluppi europei perché come sottolineava ieri il
quotidiano economico Wall Street Journal le politiche di austerity dei governi del Vecchio
Continente stanno causando un crollo dei guadagni per le società statunitensi. (Il Sole 24 Ore,
27.07.2012)
Un secondo motivo che spiegherebbe il successo del termine alloglotto è la tendenza, già
osservata nei capitoli precedenti, del parlante italiano a prediligere termini inglesi solo perché,
appunto, inglesi. Nella percezione comune questa natura esotica, ma soprattutto anglosassone,
conferisce loro un’illusione di superiorità e di tecnicità e la somiglianza tra austerity e
austerità rende ancora più palese lo snobismo che spinge alla scelta del termine alloglotto. I
dati confermano questa sensazione di maggiore efficacia ed espressività: in 226 degli articoli
38
in cui compare austerity, esso è infatti usato nel titolo, mentre per austerità il dato si ferma a
161. Considerato che quest’ultimo termine ha una frequenza doppia rispetto al primo, lo
scarto è significativo.
Irlanda dal boom all’austerity (Il Sole 24 Ore, 19.07.2009)
Palazzo Chigi, Monti vara l’austerity (Il Sole 24 Ore, 09.02.2012)
Il concetto dell’austerità è stato centrale negli ultimi anni e sicuramente non è perché i termini
austerity e austerità non figurano, o raramente, nelle pubblicazioni ufficiali che la tematica
non è stata trattata. Gli autori dei testi in questione preferiscono infatti altre formulazioni,
indubbiamente più lunghe ma al contempo più endogene e più precise. Nello spoglio dei testi
non sono state riscontrate polirematiche fisse e ricorrenti, quanto piuttosto perifrasi descrittive
e spesso molto discorsive diverse fra loro. Le unità lessicali che ricorrono più frequentemente
sono: piano, programma, misure, politiche, risanamento, consolidamento, aggiustamento,
correzione dei conti pubblici, tagli alle spese, contenimento delle spese, inasprimento delle
entrate, incremento delle entrate, e simili. Di seguito alcuni esempi:
La credibilità dei piani di aggiustamento delle finanze pubbliche, in un orizzonte di medio
periodo, appare in questo momento una condizione indispensabile per consentire l’assorbimento
delle ingenti emissioni di titoli pubblici previste per i prossimi anni senza brusche impennate dei
rendimenti. (Bollettino economico della Banca d’Italia, aprile 2010)
La strategia di rientro annunciata dal governo si basa soprattutto su un inasprimento delle entrate
(con interventi sull’imposta personale sul reddito, tassazione immobiliare, accise, tasse sulla
telefonia mobile e con l’intensificazione della lotta all’evasione) cui si accompagnerebbe
un’azione di contenimento della spesa pubblica corrente (attraverso il congelamento dei
salari e delle assunzioni nel settore pubblico, nonché la riduzione delle spese sociali, di quelle
relative al funzionamento dell’amministrazione pubblica e di quelle militari). (Bollettino
economico della Banca d’Italia, aprile 2010)
Assieme a una politica monetaria orientata alla stabilità, politiche rigorose di bilancio e di
salvaguardia della stabilità finanziaria costituiscono un importante fondamento per la crescita
sostenibile e l’occupazione nell’area dell’euro26. (Bollettino mensile della BCE, luglio 2012)
Per quanto concerne le misure di bilancio, a novembre 2010 il Parlamento [portoghese] ha adottato
un piano di risanamento pluriennale che comprende azioni correttive riguardanti sia le
entrate sia le spese27. (Bollettino mensile della BCE, marzo 2011)
In conclusione nelle pubblicazioni ufficiali si ritrovano dalle perifrasi alle vere e proprie
descrizioni dettagliate28. La differenza tra queste e l’uso degli anglicismi risulta immediata. I
motivi per cui la stampa ricorre a questi ultimi con assiduità sono con molta probabilità
26
Together with a stability-oriented monetary policy, sound fiscal and financial stability policies are an
important foundation for sustainable growth and employment in the euro area.
27
As regards fiscal measures, a multi-annual consolidation package was approved by parliament in November
2010. The package includes corrective measures affecting both the revenue and the expenditure sides.
28
Ciò non toglie, ovviamente, che anche la stampa utilizzi delle perifrasi analoghe a quelle indicate. Tuttavia
l’attenzione è qui rivolta all’uso (o non uso) degli anglicismi austerity e austerità.
39
principalmente due. Innanzitutto sono particolarmente amati dai giornalisti perché molto brevi
ed efficaci, nonché generici dato che condensano in un unico termine tutte le diverse misure
che possono essere prese in caso di crisi al fine di ridurre le spese e puntare al risanamento
economico. Queste loro caratteristiche rispondono perfettamente alla necessità di
immediatezza che contraddistingue una notizia d’effetto. Ne consegue che sono ideali anche
per i titoli il cui principale obiettivo è quello, per l’appunto, di trasmettere un massimo di
contenuto con il minimo sforzo lessicale. Austerity e austerità permettono di condensare un
concetto, che come abbiamo potuto notare è ricco, in un’unica parola e, qualora necessario, di
sviluppare la tematica in modo più specifico nel sottotitolo e/o nel corpo del testo.
Così l’austerity entra in azienda
Dal taglio delle trasferte allo smaltimento delle scorte: più azioni per ridurre i costi - LA
STRATEGIA - Federico Bonanni (Kpmg): «Le società lavorano solo su ordinativi riducendo il
volume degli acquisti e massimizzando gli incassi» (Il Sole 24 Ore, 15.03.2009)
Ad Atene scontri e migliaia in piazza contro l’austerity
Bombe molotov e gas lacrimogeni con decine di arresti al termine della giornata di sciopero
generale proclamata ieri in Grecia, che ha portato in piazza decine di migliaia di persone. La
protesta era rivolta contro il pacchetto di tagli da 11,5 miliardi imposto ad Atene dai creditori
internazionali per ottenere gli aiuti promessi. (Il Sole 24 Ore, 27.09.2012)
Il secondo motivo che induce a optare per austerità e austerity è indubbiamente connesso
all’impatto che hanno su chi legge e al peso emozionale che conferiscono al testo. Le scelte
retoriche che contraddistinguono le pubblicazioni ufficiali portano a un risultato molto
diverso. Chi redige queste analisi presenta solamente le informazioni e lo fa in modo
oggettivo, schematico, quasi scientifico. Non ha alcuno secondo fine, se non quello di
informare in modo preciso e approfondito dal solo punto di vista economico. I giornalisti,
invece, non solo trasmettono l’informazione, ma da una parte fanno emergere anche l’aspetto
umano e sociale e dall’altra mirano a colpire il lettore e a suscitare in lui emozioni. I termini
austerità e austerity sono molto d’effetto e rispondono perfettamente a queste esigenze. Il
solo etimo dei due lessemi basta a spiegare quali pensieri e collegamenti oscuri possano
scatenare nella mente del lettore: essi rimandano allo sforzo e ai sacrifici che tali misure
richiedono, alle ripercussioni negative del rigore, alle difficoltà in cui versano i cittadini e le
imprese dei paesi interessati. La durezza e la severità di questi termini lasciano l’amaro in
bocca. La valenza connotativa di austerità e austerity è quindi notevolmente superiore a
quella di lunghe spiegazioni.
La Grecia sta combattendo «la madre di tutte le battaglie» questa settimana, ha affermato il
ministro delle Finanze ellenico, Evangelos Venizelos. Il riferimento è alle nuove drastiche misure
di austerità […]. (Il Sole 24 Ore, 20.10.2011)
40
Certo, la Grecia dovrà continuare a passo spedito sul doloroso cammino dell’austerity, così come
Mario Monti e Mariano Rajoy non potranno perdere tempo nel varare riforme in Italia e Spagna.
(Il Sole 24 Ore, 29.11.2011)
Il suicidio dell’austerità e la miopia della Germania (Il Sole 24 Ore, 21.01.2012)
«Come potremmo aspettarci un miglioramento della fiducia di fronte a un’Europa schiacciata
dall’austerity e dai timidi tentativi della Bce di sostenere la crescita?», si domanda Barry
Eichengreen […]. (Il Sole 24 Ore, 03.12.2012)
Infine va ricordato che, mentre quella finanziaria è una delle diverse accezioni di austerità,
nel caso di austerity non vi è alcuna molteplicità semantica. È possibile che questo fattore
concorra a rendere, agli occhi di alcuni, il prestito integrale più comunicativo.
Conclusioni
In conclusione i due anglicismi, l’uno adattato e l’altro no, coesistono, con una certa
preferenza per il primo. Ciononostante il prestito integrale, che possiamo pertanto definire di
lusso, è in progressiva diffusione nel gergo giornalistico. Le pubblicazioni della Banca d’Italia
sono prive di entrambi gli anglicismi, mentre nelle traduzioni della BCE ricorre, seppur molto
raramente, solo il prestito italianizzato il cui uso è ascrivibile all’influsso del testo di partenza.
La forte vicinanza tra le due forme rende l’anglicismo molto trasparente e comprensibile
sebbene si tratti di un termine generico e le descrizioni dettagliate e quasi scientifiche delle
pubblicazioni ufficiali siano più complete, più precise e più chiare alla lettura. Vi è inoltre una
differenza dal punto di vista tecnico, dal momento che il linguaggio usato dalla Banca d’Italia
e dalla BCE risulta più specializzato.
Infine, le diverse scelte sono perlopiù da ricondurre a funzioni e finalità comunicative
differenti. All’aridità dell’analisi economica si contrappone la spettacolarizzazione della
notizia che induce a scegliere termini con una forte carica emotiva, atti a impressionare il
lettore.
2. BAILOUT
Definizioni in inglese e in italiano di bailout
To bail out. To try to save something that is failing. Originally, this applied to bailing water out of a sinking
ship, but now it is used for governments efforts to save a failing enterprise. A bailout is a financial rescue, an
intervention to avoid potentially grave consequences of a commercial failure that has far-reaching
socio-economic and political repercussions. (English as a Legal Language 1998)
Bailout. Informal. An act of giving financial assistance to a failing business or economy to save it from
collapse. (NOAD 2010)
41
Bailout. Salvataggio di un’istituzione che si trovi in uno stato di insolvenza. Con riferimento al settore
privato, il b. viene tipicamente applicato alle istituzioni finanziarie, quali banche e assicurazioni. Il motivo
risiede nel ruolo speciale che queste istituzioni svolgono. Le banche gestiscono, infatti, il sistema dei pagamenti
e finanziano le imprese: un blocco di queste attività comporta, quindi, costi molto elevati per l’economia. […] Vi
sono diverse modalità di bailout. Nel caso di […] un’insolvenza, quando il valore complessivo delle attività sia
inferiore a quello delle passività, occorre un’assistenza finanziaria a carico del bilancio pubblico: un acquisto di
attività, una garanzia statale sulle passività della banca, una ricapitalizzazione con cui lo Stato diventa azionista.
[…] Il b. può avvenire anche per uno Stato sovrano. In questo caso sono altri Stati, insieme a istituzioni quali il
FMI, a prestare fondi a uno Stato che abbia difficoltà a finanziarsi sul mercato privato, al fine di evitare il suo
default. (Dizionario di Economia e Finanza, Treccani 2012)
Origine e sviluppo del termine
Il termime bailout (in origine anche bail out o bail-out) è la forma sostantivata del verbo
to bail out, nato a cavallo tra gli anni Venti e Trenta con il significato di “make an emergency
parachute descent from an aircraft” (NOAD 2010). L’etimo di questo verbo è il verbo to bail
che significa rimuovere l’acqua con un secchio da un’imbarcazione che sta affondando.
L’accezione finanziaria risale invece all’epoca del New Deal. Sembrerebbe infatti che il verbo
to bail out sia stato per la prima volta usato in quest’ambito nel 1932 in un verbale delle
udienze del Committee on Banking and Currency dove si legge: “They should purchase some
additional stock, if I may use the term, to bail out the Government’s investment in the home
loan banks.” La forma sostantivata data invece del 1939, quando un giornalista del Time
intitola con “$40,000,000 Bail-Out” un articolo su un piano di aiuti della Commodity Credit
Corporation destinato ai produttori di tabacco (Zimmer 2008).
Con lo scoppio della crisi finanziaria e numerosissimi istituti di credito sull’orlo del
fallimento, il bailout diventa una realtà pressoché quotidiana. L’uso del termine nel
linguaggio finanziario si diffonde a una tale rapidità che sia l’American Dialect Society29 che
il vocabolario della lingua inglese Merriam Webster’s eleggono bailout parola dell’anno per il
2008.
In italiano, secondo il DO, il termine viene usato per la prima volta nel 1998 anche se
nell’archivio del Sole 24 Ore si ritrovano alcune occorrenze già per il 1991. Ciò che in ogni
caso è certo è che l’uso di questo termine è rimasto molto limitato fino all’avvento della crisi,
lo dimostra il fatto che l’anglicismo sia stato introdotto solo di recente in alcuni vocabolari,
come ad esempio nel DO e nel Garzanti nel 2009, mentre in altri ancora non figuri.
29
Si noti che: “Word of the Year is interpreted in its broader sense as “vocabulary item” – not just words but
phrases. The words or phrases do not have to be brand-new, but they have to be newly prominent or notable in
the past year.” (http://www.americandialect.org/american_dialect_society_2008_word_of_the_year_is_bailout)
42
Il corrispettivo italiano di bailout è salvataggio, un’estensione semantica del lessema di base30
usato in senso metaforico. Sia salvataggio che bailout in inglese non sono termini altamente
tecnici e figurano raramente nei dizionari specialistici, appartengono infatti piuttosto al gergo
giornalistico.
Frequenza
Periodo di
Pubblicazioni
Termine
riferimento
Banca d’Italia
Bailout
2007
(bail-out e bail out)
Salvataggi/o
Pubblicazioni BCE
Il Sole 24 Ore
0
0
0
2008
0
0
13
2009
0
0
21
2010
0
0
49
2011
0
0
46
2012
0
0
85
Totale
0
0
214
2007
0
2
283
2008
5
19
1350
2009
2
50
1155
2010
2
20
1125
2011
1
5
1229
2012
0
12
1428
Totale
10
108
6570
Osservazioni ed esempi
Nelle pubblicazioni ufficiali il termine inglese non è mai utilizzato e viene preferito l’italiano
salvataggio. Al contrario, negli articoli del Sole 24 Ore ricorre con una certa frequenza,
seppur non così spesso come altri prestiti integrali analizzati (v. spread, credit crunch). Va
detto, tuttavia, che nonostante l’uso modesto, non viene assolutamente trattato come uno
forestierismo. La tendenza che si rileva è che i giornalisti ne diano per scontata la
comprensione.
Per il Portogallo la reazione a catena è stata più lenta: i rendimenti superarono il 7% già il 6
gennaio scorso ma il Governo gettò la spugna solo a metà maggio accettando il bailout da 78
miliardi di euro. (Il Sole 24 Ore, 10.11.2011)
30
Salvataggio, nel senso di “operazioni aventi lo scopo di salvare persone o cose in grave pericolo”, deriva dal
francese sauvetage e risale al 1847. A questo significato viene successivamente ad aggiungersi quello di “aiuto
dato a persone, società, e sim. per salvarle da una situazione particolarmente grave” (DELI 1999).
43
Solo in un’occorrenza è virgolettano e in un’altra è preceduto da cosiddetto. Anche i casi in
cui è accompagnato da una glossa esplicativa sono alquanto rari (complessivamente 18). È
interessante notare come ad articoli in cui viene data una spiegazione del termine inglese con
una traduzione in italiano se ne affianchino altri in cui viene spiegato l’italiano con l’inglese.
[Il voto sul Fiscal compact] sarà cruciale per il futuro del Paese, che oggi dipende largamente dal
bailout internazionale, il piano di salvataggio triennale da 67,5 miliardi concesso da Ue ed Fmi
nel 2010, dopo che lo scoppio della bolla immobiliare aveva fatto collassare il sistema bancario e
le finanze dello Stato, accorso in aiuto degli istituti. (Il Sole 24 Ore, 31.05.2012)
È ancora presto per dire se l’America sia alla vigilia di una vera svolta ma si sottolinea che i tetti
introdotti dall’attuale legge di salvataggio del settore finanziario – il cosiddetto bailout –
potrebbero rivelarsi effimeri. (Il Sole 24 Ore, 12.10.2008)
Nonostante l’ortografia inglese odierna preveda che la parola sia scritta unita e, stando ai
vocabolari, altrettanto abbia recepito la lingua italiana, sono frequenti anche le varianti
bail-out e bail out (v. esempio sopra).
I dati raccolti evidenziano un’accelerazione nell’uso del termine inglese nel periodo
considerato, che non trova però una giustificazione negli avvenimenti. Di bailout si è
continuato a parlare molto, sia immediatamente dopo lo scoppio della crisi finanziaria con i
salvataggi delle banche statunitensi ed europee, che negli anni successivi, in particolare in
riferimento agli aiuti concessi ai paesi dell’area dell’euro. Le occorrenze del lessema
salvataggio, per esempio, hanno continuato a oscillare sugli stessi valori per tutta la durata
della crisi, se si esclude il 2007 dato che l’ondata dei salvataggi ha avuto inizio nel 2008. Se
ne deduce che il termine sia penetrato in seguito al boom che ha registrato in inglese nel
periodo degli interventi attuati a favore del sistema bancario statunitense e sia poi stato usato
perlopiù per descrivere gli aiuti finanziari concessi agli stati europei. Paradossalmente, quindi,
si è parlato di salvataggio per i bailout anglosassoni, dal momento che l’anglicismo era
ancora poco frequente, e di bailout per i salvataggi dell’Eurozona.
Altresì degno di nota è il fatto che l’italiano, a differenza dell’inglese, più duttile sul piano
morfologico, non usi bailout come verbo e difficilmente lo adatterà in questo senso. A bailout
si associa quindi molto spesso il verbo salvare.
E un bailout di Atene avrebbe costi umani altissimi. Si obietterà: non salvare la Grecia sarebbe
una lezione per un governo troppo disinvolto. (Il Sole 24 Ore, 17.02.2010)
Tornando ai dati raccolti, risulta palese il fatto che bailout sia lontano dall’avere la stessa
frequenza d’uso di salvataggio. Questa timida penetrazione del termine nella lingua italiana è
probabilmente dovuta al fatto che, a differenza di altri termini come credit crunch o spread,
l’inglese non porti con sé un vero e proprio valore aggiunto rispetto all’italiano, né sul piano
44
fonomorfologico, né su quello della lunghezza e tantomeno su quello espressivo. L’italiano
ricorre in questo caso a un’unica parola e non a una perifrasi descrittiva, ma soprattutto usa
un’immagine metaforica alquanto suggestiva e con un forte bagaglio comunicativo. Si pensi
per esempio a questo titolo del 25 marzo 2008: “Fed, la nuova era dei salvataggi”, l’italiano
riesce a essere già di per sé molto espressivo. In genere, quindi, il giornalista sarà meno
tentato di ricorrere all’inglese. L’unico motivo che può indurlo verso questa scelta è quel
fenomeno di snobismo e moda di cui abbiamo ampiamente discusso nei primi capitoli. Il
passaggio riportato di seguito ne è una conferma. Si noti che data della fine del 2008, proprio
quando, stando ai dati raccolti, l’uso del termine stava fiorendo.
C’erano una volta gli Agnelli, poi venne l’era Berlusconi. Oggi è il portafoglio di Massimo
Moratti il più generoso nel continuo bailout, per usare una parola di moda in finanza, del bilancio
[…]. (Il Sole 24 Ore, 03.12.2008)
Come abbiamo visto ai punti 3.2 e 4, a rendere i termini inglesi spesso più tecnici, autorevoli
e di moda e anche e soprattutto il prestigio della nazione donatrice. La frequenza degli
anglicismi e l’esempio seguente confermano come gli Stati Uniti abbiano mantenuto,
nonostante il collasso finanziario, un’aura di superiorità agli occhi del parlante italiano.
Un salvataggio in piena regola, un vero e proprio bailout all’europea che ricorda quelli a
favore delle banche americane di tre anni fa, in occasione del quale «Dublino si è trovata
costretta a trasformare in corsa un fondo pensione in un fondo strategico», fa notare Bortolotti. (Il
Sole 24 Ore, 24.06.2012)
La metafora del salvataggio, inoltre, porta spesso il giornalista a sviluppare altre immagini
correlate come lanciare una ciambella di salvataggio o lanciare un salvagente.
Bastano poche e semplici parole a Silvio Peruzzo, economista di Rbs, per spiegare come mai i
mercati finanziari abbiano reagito con un semplice sussulto al salvataggio della Grecia: perché in
pochi credono che questo accordo raggiunto nella notte di lunedì a Bruxelles – l’ennesimo – sia
quello risolutivo. Per i mercati, insomma, il salvagente lanciato ad Atene serve solo per comprare
un po' di tempo […]. (Il Sole 24 Ore, 22.02.2012)
Si tratta di una creatività che è impossibile ritrovare nelle pubblicazioni ufficiali, per natura
oggettive ed esclusivamente fattuali. In esse non si fa quindi mai ricorso a bailout al quale
viene preferito salvataggio. Tuttavia, anche il lessema italiano è poco frequente. Si noti
inoltre che nei testi della BCE salvataggio non traduce solo bailout ma anche rescue. Da una
più attenta osservazione delle occorrenze, e i numeri lo confermano, si evince che salvataggio
viene adoperato quasi esclusivamente in relazione ai salvataggi bancari del 2008-2009.
Nel primo quadrimestre del 2008 i premi sui CDS sulle banche italiane, dopo essere rapidamente
aumentati fino alla metà di marzo come riflesso dell’acuirsi delle tensioni finanziarie
internazionali culminate con il salvataggio della banca d’investimento statunitense Bear
45
Stearns (cfr. il capitolo 2: I mercati finanziari e valutari), sono successivamente ridiscesi, […].
(Relazione annuale sul 2007, Banca d’Italia)
Il mese di settembre ha visto un susseguirsi di importanti eventi nei mercati finanziari, con la
nazionalizzazione delle suddette GSE, il salvataggio del gruppo assicurativo AIG da parte della
Federal Reserve e del Tesoro statunitense e la virtuale scomparsa del modello di banca
d’investimento indipendente dovuta al fallimento di Lehman Brothers […] 31. (Relazione annuale
sul 2008, BCE)
Per trattare altri eventi come gli aiuti concessi ai paesi periferici nel periodo 2010-2012,
invece, si fa piuttosto ricorso a perifrasi come assistenza finanziaria, sostegno finanziario o
interventi di sostegno.
Le tensioni si sono in parte attenuate soltanto in seguito alla decisione del Consiglio europeo,
annunciata il 10 maggio, di creare un meccanismo che prevede, in caso di necessità, ulteriori
interventi di sostegno a favore di paesi membri della UE […]. (Relazione annuale sul 2009,
Banca d’Italia)
[…] alla fine di novembre in sede europea è stato approvato un programma triennale congiunto
della Unione europea (UE) e dell’FMI di assistenza finanziaria all’Irlanda. (Rapporto sulla
stabilità finanziaria della Banca d’Italia, dicembre 2010)
[…] il 28 novembre i ministri dell’Eurogruppo e del Consiglio Ecofin hanno deciso all’unanimità
di concedere sostegno finanziario all’Irlanda, a seguito della richiesta presentata dalle autorità
irlandesi il 21 novembre32. (Bollettino mensile della BCE, dicembre 2010)
Al contrario, il Sole 24 Ore non presenta una così netta distinzione d’uso e nei relativi articoli
bailout e salvataggio vengono usati indistintamente, che si tratti di banche, stati o società.
Il salvataggio di Bear Stearns generosamente finanziato dalla Fed (quindi dal contribuente
americano) ha convinto anche i liberisti più accesi della necessità di ridisegnare la
regolamentazione finanziaria […]. (Il Sole 24 Ore, 30.03.2008)
Proprio ieri cinque giuristi ed economisti hanno presentato un ricorso, convinti che il salvataggio
della Grecia violi i trattati europei e la legge fondamentale. (Il Sole 24 Ore, 08.05.2010)
Per concludere citiamo le principali collocazioni di salvataggio e bailout. Per il primo sono
comuni ai tre corpus intervento di s., s. pubblico, s. finanziario, s. bancario, piano di s.,
pacchetto di s., operazioni di s., mentre ricorrono spesso, ma solo nel quotidiano, maxi-s. e s.
in extremis. L’anglicismo non presenta collocazioni particolari, a parte alcune occorrenze per
b. bancario e b. sovrano, ed è perlopiù utilizzato da solo. Infatti, esso condensa già in sé molti
dei concetti spesso abbinati a salvataggio, dal momento che essendo un termine esogeno non
presenta tutti i diversi significati che ha invece il lessema italiano corrispondente. La
monosemia e l’esoticità che contraddistinguono bailout concorrono sicuramente a renderlo
31
In September events in financial markets escalated further, when in the United States the aforementioned
GSEs were taken into public ownership, the Federal Reserve together with the US Treasury arranged the rescue
of the insurance group AIG, and the stand-alone investment bank business model ceased to exist after the
bankruptcy of Lehman Brothers […].
32
[…] Eurogroup and ECOFIN ministers unanimously decided on 28 November 2010 to grant financial
assistance to Ireland, following a request by the Irish authorities on 21 November.
46
più tecnico agli occhi sia di chi scrive che di chi legge. Non è da escludere che tale percezione
del termine abbia contribuito a fomentarne l’uso.
Infine è interessante soffermarsi su una particolare espressione contenente bailout. Nel corso
della crisi del debito sovrano in Europa si è spesso discusso della legalità degli aiuti forniti ai
paesi in difficoltà, a causa di quella che viene definita in inglese la no-bailout clause. Si tratta
di una regola sancita dal Trattato di Maastricht del 1992 e ripresa dal Trattato di Lisbona del
2007 che vieta agli stati della Comunità europea di farsi garanti del debito di un altro paese
membro. Dato il predominio dell’inglese in ambito comunitario e la forte permeabilità
dell’italiano, si parla spesso anche in Italia di no-bailout clause, di clausola di no-bailout o di
varianti analoghe. Gli articoli del Sole 24 Ore riportano sia la dicitura inglese (15 articoli) che
una traduzione in italiano (21 articoli) mentre nelle pubblicazioni ufficiali si ritrova solo in
italiano e con una maggiore presa di distanza da questa espressione più che altro giornalistica.
C’è anche la paura che la Corte costituzionale tedesca consideri il soccorso ai paesi in crisi una
violazione della clausola di non salvataggio prevista dai Trattati. (Il Sole 24 Ore, 25.11.2010)
Senza le sentenze sui Trattati di Maastricht e di Lisbona la crisi si sarebbe potuta risolvere nel
gennaio del 2010, ma per poter violare il divieto di salvataggio della Grecia (la famosa clausola di
no-bailout del Trattato Ue) senza l’opposizione della Corte, la cancelliera Merkel ha dovuto
motivare l’intervento con la necessità - anzi l’obbligo - di difesa della moneta dei tedeschi (l’euro)
che a sua volta era possibile giustificare solo aspettando il maggio 2010 quando, ritardo dopo
ritardo, l’euro stesso era finalmente giunto sull’orlo del precipizio. (Il sole 24 Ore, 11.07.2012)
Ai sensi dell’articolo 103 del Trattato, l’Unione europea non risponde né si fa carico degli impegni
assunti da amministrazioni e altri enti pubblici, così come uno Stato membro non risponde né si fa
carico degli impegni di un altro Stato membro. Questa clausola, del cosiddetto “divieto di
salvataggio finanziario”, è volta ad assicurare che i singoli Stati membri siano i soli responsabili
del proprio indebitamento 33. (Bollettino mensile della BCE, marzo 2009)
La prima occorrenza nell’archivio del quotidiano di bailout (26 marzo 1991) è proprio in
riferimento a questa clausola. Pertanto non è da escludere che anche la norma in questione,
conosciuta in ambito comunitario soprattutto come no-bailout clause, abbia favorito la
penetrazione dell’anglicismo in italiano.
33
According to Article 103 of the Treaty, neither should the European Union be liable for or assume the
commitments of governments or public entities, nor should a Member State be liable for or assume the
commitments of another Member State. This so-called “no bailout clause” is intended to ensure that Member
States remain ultimately liable for their own borrowing. Consequently, investors should take this into account in
their pricing of the debt instruments issued by different euro area countries.
47
Conclusioni
In conclusione possiamo affermare che siamo nuovamente confrontati con un prestito di
lusso: bailout non comunica niente più di quanto non faccia salvataggio. L’unico fattore di
differenziazione è la sua valenza connotativa, ovvero il prestigio di cui, secondo alcuni, gode
l’esotismo e il colore e la tecnicità che può pertanto apportare al testo.
La penetrazione del termine inglese è recente e si è concretata solo con lo scoppio della crisi,
se si considera che il suo uso era prima molto raro. Esso, inoltre, non ha attecchito come altri,
probabilmente perché in italiano esiste da tempo un equivalente, peraltro già sufficientemente
conciso ed espressivo. Salvataggio risulta pertanto molto più frequente del prestito inglese.
Infine, tutti questi fattori spiegano il motivo per cui bailout non si ritrovi in nessuna delle
pubblicazioni ufficiali.
Come abbiamo potuto osservare nella sezione precedente, sia bailout che salvataggio non
sono termini altamente tecnici e chi scrive per la Banca d’Italia o la BCE è talvolta portato a
cercare delle perifrasi che possano risultare più tecniche. Tuttavia non è da escludere che la
crisi stia per lasciare due nuovi termini in eredità al lessico specialistico. L’uso di salvataggio
anche nelle pubblicazioni ufficiali è indubbiamente il risultato di un processo di
svecchiamento che negli ultimi anni ha riguardato il linguaggio della Banca d’Italia, un
cambiamento dovuto in particolare all’influenza dell’inglese e del gergo giornalistico.
3. CREDIT CRUNCH
Definizioni in inglese e in italiano di credit crunch
Credit crunch. A reduction in the availability of loans accompanied by an increase in the severity of the
conditions required to be granted credit. There are several reasons why a credit crunch may occur. It may be due
to tighter monetary policy that reduces liquidity in the banking system or the direct imposition of credit control.
Alternatively, banks may expect future losses on existing loans so ration credit to avoid further exposure, or
suffer a loss of confidence in the solvency of the banking system. A credit crunch followed the 2008 financial
crisis. (Oxford dictionary of economics 2012)
Credit crunch. Termine inglese («stretta creditizia») che indica una restrizione dell’offerta di credito da
parte degli intermediari finanziari (in particolare le banche) nei confronti della clientela (soprattutto imprese), in
presenza di una potenziale domanda di finanziamenti insoddisfatta. […] Molteplici possono esserne le cause:
carenza di liquidità da parte dei potenziali concedenti, loro scelte strategiche, interventi delle autorità monetarie,
mancanza di fiducia diffusa e altre ancora. La conseguenza principale del c. c. (se attuato nei confronti delle
imprese) è essenzialmente la riduzione del flusso di finanziamento ai settori produttivi, che determina un calo
degli investimenti e quindi della crescita economica. (Dizionario di Economia e Finanza, Treccani 2012)
48
Come è possibile notare dalle definizioni riportate sopra, esistono due tipi di credit crunch:
uno indotto attraverso un intervento puntuale di politica monetaria solitamente basato su un
aumento dei tassi di riferimento e uno riconducibile al deterioramento dei crediti a cui si
assiste soprattutto in periodi di crisi. In inglese il primo tipo è detto anche credit squeeze e il
secondo credit crisis. In italiano, invece, quando all’origine vi è la manovra di una banca
centrale si parla di stretta monetaria, mentre i termini stretta del credito e stretta creditizia, in
origine sinonimi di stretta monetaria, vengono ormai utilizzati con entrambe le accezioni.
Origine e sviluppo del termine
Nella lingua inglese la polirematica credit crunch ha origini relativamente recenti. La forma
sostantivata del verbo to crunch, di origine imitativa, è stata impiegata per la prima volta nel
1939 in ambito economico-politico. Più precisamente, si è trattato di un discorso di Winston
Churchill in cui è stata usata in modo metaforico con il senso di “critical moment34”:
“Whether Spain will be allowed to find its way back to sanity and health [...] depends upon
the general adjustment or outcome of the European crunch”. Negli anni Sessanta crunch ha
assunto anche il significato di squeeze, cui ha fatto seguito la fusione con credit nel giugno
1967, quando un giornalista del New York Times, Tom Mullaney, scrisse: “[…] many
business economists are convinced that higher taxes […] are on their way to reduce the
Federal deficit and avoid a repetition of last year’s credit crunch” (Safire 2007, Williams
2008). Si faceva qui riferimento a un credit crunch indotto. Nel 1966, infatti, la Federal
Reserve aveva attuato una politica monetaria restrittiva per rallentare la domanda di beni e
servizi e in tal modo contrastare le spinte inflazionistiche. Tra il 1990 e il 1992 gli Stati Uniti
sono confrontati con un periodo di recessione e una conseguente rarefazione del credito.
All’interno di questo quadro congiunturale credit crunch si carica anche del secondo
significato.
Il termine è rimasto in ombra rispetto a credit squeeze e credit crisis e pertanto poco usato
fino allo scoppio della crisi finanziaria nel 2007, quando ha finalmente trovato un contesto
favorevole alla propria diffusione. Negli articoli di gennaio 2007 del quotidiano britannico
The Guardian, il termine era stato usato un’unica volta, a dicembre dello stesso anno 255
volte mentre a ottobre 2008 le occorrenze erano 686 (Pettiword 2009). Non che la lingua
inglese non disponesse delle risorse necessarie per descrivere il fenomeno, peraltro non
nuovo; al contrario si sarebbe potuto fare ricorso a credit crisis, del resto anche più
34
“Momento cruciale” come nell’espressione “coming to the crunch”, ovvero arrivare a un punto decisivo.
49
conosciuto. Tuttavia, come afferma anche William Safire (2007), questo termine avrebbe
avuto un impatto troppo duro; “crunch seems just right, combining the sound of an icebreaker
plowing through the Arctic wastes with the happy sound of breakfast cereal snapping,
crackling and popping in the mouth”. Il significante credit crunch, più recente e metaforico,
riesce a mitigare il significato altamente negativo cui è correlato, attenuando l’asprezza di
crisis. Pertanto, il successo del termine è da ricondurre essenzialmente alla sua grande
espressività, risultante dalla combinazione di un’allitterazione (cr- + cr-) e di un’onomatopea
(crunch).
A dimostrazione del fatto che l’abbinamento di credit e crunch si sia non solo imposto come
termine nel linguaggio economico e finanziario, ma anche nella lingua comune, è la sua
introduzione nelle versioni più recenti di diversi dizionari, come per esempio il NOAD (2010)
e il CD (2009). In quelle precedenti, rispettivamente del 2005 e del 2007, questo lemma non
figurava. Il suo uso è inoltre così frequente che l’inglese inizia a utilizzarlo anche come
iperonimo per tutti i generi di problemi economici (Pettiword 2009).
Per quanto riguarda l’italiano, credit crunch è penetrato solo con il secondo significato tra il
1990 e il 1992, nonostante fino al 2007 il suo uso sia rimasto molto sporadico 35. Con lo
scoppio della crisi l’utilizzo di questo termine, così breve, efficace ed espressivo, esplode.
Analogamente all’inglese, anche la lingua italiana disponeva già dei mezzi necessari per
esprimere questo concetto, come per esempio restrizione del credito, contrazione dell’offerta
di credito o ancora inasprimento dei criteri di offerta del credito, irrigidimento delle
condizioni di offerta del credito e così via, lunghi fraseologismi che mancavano
indubbiamente di originalità e colore rispetto a credit crunch. Parallelamente aumenta anche
la frequenza d’uso dei calchi strutturali stretta creditizia e stretta del credito36. Essi erano già
stati coniati in passato sulla base dell’inglese credit squeeze, di cui sono l’esatta traduzione.
Fino allo scoppio della crisi, infatti, sono stati utilizzati quasi esclusivamente come sinonimi
di stretta monetaria per indicare una politica monetaria restrittiva. Tuttavia, non appena l’uso
di credit crunch si è intensificato a seguito della crisi scoppiata nel sistema bancario mondiale
tra il 2007 e il 2008, essi hanno cominciato a essere utilizzati anche e soprattutto nella
seconda accezione. Non si assiste invece a un’estensione semantica per stretta monetaria che
35
Nonostante il DO (2013) indichi come data di penetrazione il 2003, nella banca dati del Sole 24 Ore la prima
occorrenza per credit crunch risale al 1990 in riferimento al generale inasprimento dell’offerta di credito a cui si
è assistito negli Stati Uniti in seguito alla recessione. L’anglicismo ritorna a essere utilizzato nella lingua italiana
con la stessa accezione nel 1998, nel quadro delle difficoltà economiche in Giappone. Vi sono diverse
occorrenze anche per il periodo 2000-2004 contraddistinto da rischi di un credit crunch legato all’aumento delle
sofferenze bancarie in Germania, Italia e Stati Uniti. Rimane tuttavia il fatto che il suo uso sia rimasto a lungo
limitato: per il periodo compreso tra il 1984 e il 2006 le occorrenze totali sono solo 254.
36
Seppur meno attestate, sono usate anche le varianti stretta sul credito e stretta al credito.
50
mantiene il suo unico significato originario, mentre in inglese credit crunch non mostra un
restringimento di significato e continua a essere utilizzato in entrambe le accezioni.
Nei dizionari della lingua italiana il prestito inglese sembra per ora aver fatto ingresso solo nel
DO (2013). L’introduzione del termine è tuttavia troppo recente per fare un bilancio
avvalendosi della sua frequenza nei dizionari.
Frequenza
Termine
Pubblicazioni BCE
Il Sole 24 Ore
0
0
100
2008
0
1
363
2009
0
0
346
2010
0
0
154
2011
0
0
210
2012
0
1
542
Totale
0
2
1715
Stretta creditizia /
2007
0
0
97
stretta del / al / sul
2008
0
1
254
credito
2009
0
5
229
2010
0
3
89
2011
0
5
120
2012
0
3
220
Totale
0
17
1009
2007 – 2012
148
15
19338
Contrazione…
2007 – 2012
34
80
16139
Irrigidimento…
2007 – 2012
184
693
4940
Inasprimento…
2007 – 2012
44
446
2941
Totale
410
1234
432
Credit crunch
Restrizione…
37
Periodo di
Pubblicazioni
riferimento
Banca d’Italia
2007
37
Per le perifrasi complete si veda la sezione Osservazioni. In tutti i corpora e per tutti i fraseologismi sono stati
conteggiati esclusivamente i risultati pertinenti al contesto, ovvero quelli riferiti al credit crunch. Si noti che le
espressioni prese in esame non sono esaurienti, si tratta semplicemente di quelle più frequenti.
38
Stringhe di parole cercate: “restrizione del credito”, “restrizione creditizia”, “restrizione dei criteri”,
“restrizione delle condizioni”, “restrizione dell’offerta”.
39
Stringhe di parole cercate: “contrazione del credito”, “contrazione dei prestiti”, “contrazione dell’offerta”.
40
Stringhe di parole cercate: “irrigidimento dei criteri”, “irrigidimento delle condizioni”, “irrigidimento
dell’offerta”, “irrigidimento delle politiche”.
41
Stringhe di parole cercate: “inasprimento dei criteri”, “inasprimento delle condizioni”.
51
Osservazioni ed esempi
Se l’uso di credit crunch e dei relativi calchi è molto frequente negli articoli del Sole 24 Ore,
lo stesso non si può dire delle pubblicazioni ufficiali: gli anglicismi in questione non
compaiono mai in quelle della Banca d’Italia e sono rare nelle traduzioni della BCE. Gli
autori e i traduttori di questi testi prediligono altre formulazioni, più lunghe ma al contempo
più endogene. Riportiamo di seguito quelle più frequenti:

RESTRIZIONE: restrizione creditizia, restrizione del credito, restrizione dei criteri (di
offerta dei prestiti, per l’erogazione dei prestiti, …), restrizione delle condizioni (di
accesso al credito, di offerta del credito, …), restrizione dell’offerta di credito
Nel quarto trimestre [gli investimenti produttivi] sono tuttavia caduti del 21,7 per cento in ragione d’anno a
seguito del netto deterioramento delle prospettive di crescita e della restrizione dell’offerta di credito.
(Relazione annuale sul 2008, Banca d’Italia)

CONTRAZIONE: contrazione dei prestiti, contrazione del credito, contrazione
dell’offerta di credito
Per prevenire una contrazione del credito all’economia reale che avrebbe minato la crescita e l’occupazione, e
quindi la stabilità dei prezzi, la BCE ha gradualmente accresciuto il suo ruolo di intermediazione fra le banche 42.
(Bollettino mensile della BCE, agosto 2012)

IRRIGIDIMENTO: irrigidimento dei termini e delle condizioni per l’approvazione dei
prestiti, irrigidimento delle condizioni (creditizie, di finanziamento, di offerta del
credito, …), irrigidimento dei criteri (per la concessione di finanziamenti, di
erogazione del credito, di offerta dei prestiti, …), irrigidimento delle politiche
(creditizie, di offerta di credito, …), irrigidimento dell’offerta di credito
In settembre la crisi di fiducia che ha investito i mercati internazionali ha reso difficile il finanziamento a breve
termine delle banche, contribuendo a delineare uno scenario di ulteriore protratto irrigidimento dell’offerta di
credito. (Bollettino economico della Banca d’Italia, ottobre 2008)

INASPRIMENTO: inasprimento dei criteri (di offerta del credito, di concessione dei
prestiti, per l’erogazione del credito), inasprimento delle condizioni (di finanziamento,
di accesso al credito, creditizie, …)
In prospettiva, è probabile che il credito continui a decelerare, coerentemente con il rallentamento dell’attività
economica e il graduale inasprimento delle condizioni di finanziamento segnalato nelle ultime indagini sul
credito bancario della BCE43. (Bollettino mensile della BCE, marzo 2009)
42
Forestalling a curtailment of financing to the real economy that would have hurt economic growth and
employment, and thereby price stability, the ECB gradually stepped up its intermediation role between banks.
52
Questi fraseologismi, di fatto perifrasi descrittive, ricorrono anche negli articoli del
quotidiano ma con una minor frequenza rispetto agli anglicismi.
Nell’osservare l’uso di credit crunch notiamo diversi aspetti interessanti. La prima cosa a
colpire è il fatto che in quasi tutti gli articoli esso sia trattato come un termine d’uso consueto.
Viene infatti usato senza alcuna spiegazione, sia negli articoli in cui la tematica è
approfondita, sia in quelli in cui vi si accenna solamente e dove la comprensione non può
quindi essere facilitata dal contesto. In altri termini lo scrivente dà pressoché sempre per
scontato che il lettore ne conosca il significato.
«Non c’è dubbio – ha commentato Benjamin Williamson economista del Cebr – che l’erario
beneficerà come non mai dai bonus di quest’anno grazie all’innalzamento delle imposte. E questo
avrà un effetto positivo sulla percezione dei banchieri nella società britannica post credit crunch.
Se la parte del leone la fa lo Stato, un bonus miliardario è più accettabile.» (Il Sole 24 Ore,
06.10.2010)
Sul settore pesano troppe cose: la crisi, il credit crunch, il rialzo del petrolio, le aspettative non
certo rosee per il futuro, l’aumento della pressione fiscale. Sono gli stessi, identici, fattori che
pesano sull’intera economia italiana. (Il Sole 24 Ore, 29.02.2012)
I casi in cui il termine è seguito da una glossa esplicativa, preceduto da cosiddetto o
virgolettato sono assai rari e sono andati via via scemando con il passare del tempo. Se nel
2007 su 100 articoli in 23 l’autore prendeva distanza dal termine, nel 2012 su 542 articoli solo
11 presentavano una spiegazione per credit crunch.
Se venerdì tutti in coro additavano i soliti problemi dei mutui subprime, la conseguente crisi di
liquidità, i timori di nuove insolvenze, insomma la soglia del credit crunch (contrazione del
credito) come le cause del minicrollo di Wall Street, ieri i pareri erano quantomeno contraddittori.
(Il Sole 24 Ore, 23.10.2007)
A ciò si aggiunge il fatto che per spiegare il termine vengano preferiti calchi o metafore
piuttosto che chiare perifrasi descrittive.
E lo spettro del “credit crunch”, di un generale terremoto del credito e dei suoi pericoli per
l’intera espansione americana e non solo, compare all’orizzonte nonostante gli sforzi per
esorcizzarlo. (Il Sole 24 Ore, 05.08.2007)
Quanto meno, l’abbondante liquidità dovrebbe servire a impedire un credit crunch, una brutale
stretta creditizia che si stava già profilando. (Il Sole 24 Ore, 22.12.2011)
La predilezione per il prestito inglese e la forza connotativa che lo contraddistingue risultano
evidenti anche dal frequente inserimento del lessema nei titoli: in 308 dei documenti in cui
compare, esso è usato con questa finalità. D’altronde la funzione di un titolo è proprio quella
di essere accattivante e condensare in poche parole un messaggio forte. Gli esempi riportati di
43
Looking forward, credit growth can be expected to continue to slow down further. This is consistent with the
slowdown in economic growth and the gradual tightening of financing conditions reported in the recent issues of
the ECB bank lending survey.
53
seguito mostrano chiaramente come credit crunch, grazie alla sua natura esogena, alla sua
brevità e alle sue peculiarità fonosimboliche, riesca in tutto ciò e si faccia altresì portatore di
una carica emotiva non indifferente che concorre a creare una notizia d’effetto.
Sugli hedge la scure del credit crunch (Il Sole 24 Ore, 18.06.2008)
Banca d’Italia: «Il credit crunch è al tramonto» (Il Sole 24 Ore, 17.06.2010)
Il credit crunch apre le porte ai capitali mafiosi (Il Sole 24 Ore, 07.05.2012)
L’altra faccia del credit crunch (Il Sole 24 Ore, 11.11.2012)
Questa funzione introduttiva ricorre spesso anche all’interno del testo. Laddove compaiono
delle perifrasi in italiano, infatti, esse sono quasi sempre usate anaforicamente per riprendere
il sostantivo credit crunch.
Il credit crunch colpisce sempre più duramente. I dati della Banca d’Italia dicono che fra
dicembre e gennaio il credito ai residenti si è contratto di 30 miliardi, per oltre la metà a carico di
famiglie e imprese. […] In realtà, la contrazione dei prestiti che caratterizza questa fase della
crisi finanziaria mette a nudo alcuni squilibri strutturali che il sistema bancario europeo, non solo
italiano, ha accumulato […]. (Il Sole 24 Ore, 03.04.2012)
Infine, in numerosi articoli si percepisce in modo evidente l’uso snobistico del termine inglese
che risulta ridondante, se non del tutto inutile, dal momento che l’espressione italiana
basterebbe a esprimere ciò che l’autore sta comunicando.
Il direttore generale dell’Abi, Giuseppe Zadra, assicura che nel nostro Paese non è in atto un
credit crunch, una restrizione del credito, ma si delinea semmai una spirale dalle dinamiche
invertite rispetto agli Stati Uniti. (Il Sole 24 Ore, 05.12.2008)
Nelle occorrenze rilevate nel corpus delle traduzioni della BCE notiamo che credit crunch è
usato due volte ma sempre tra parentesi e dopo una perifrasi in italiano.
Due sono le principali ipotesi avanzate nella letteratura per spiegare lo “sganciamento” fra la
moneta e il credito in Giappone durante il decennio perduto: la stretta del credito (credit crunch)
e la trappola della liquidità (liquidity trap)44. (Bollettino mensile della BCE, febbraio 2012)
La forte reazione del mercato alla crisi di insolvenza russa fa aumentare i timori di una riduzione
significativa dell’offerta di credito (credit crunch) su scala mondiale45. (Relazione annuale sul
2007, BCE)
Stretta creditizia, invece, in due occorrenze è virgolettato e seguito o preceduto da una glossa
esplicativa. Anche se quest’ultima osservazione trova riscontro in due soli casi su 17, è
interessante notare che vi è chi si rende conto che, in fondo, anche i calchi rappresentano degli
esotismi.
44
Two main arguments have been put forward in the literature to explain the decoupling of money and credit in
Japan during the lost decade: the “credit crunch” and “liquidity trap” hypotheses.
45
The strong market reaction to the Russian default led to mounting concerns about a global credit crunch.
54
Il caso estremo di tali restrizioni in termini diversi dai prezzi è una “stretta creditizia” in cui le
banche limitano l’offerta di prestiti46. (Bollettino mensile della BCE, gennaio 2011)
Minore volume di credito (“stretta creditizia”)47 (Bollettino mensile della BCE, agosto 2012)
Va detto comunque che anche nei testi di partenza credit crunch è usato poco. Vi sono infatti
solo 14 occorrenze per questo termine al quale vengono preferite espressioni più tecniche
costruite con tight o tightening (tight bank lending conditions, tight bank credit standards,
tight credit conditions, tightening in financing conditions, tightenig in loan supply, …).
Tuttavia è interessante notare come 13 delle 14 occorrenze per credit crunch siano state
tradotte con stretta creditizia, stretta del credito o credit crunch. Si può pertanto concludere
che dal momento che i tre anglicismi compaiono solo 19 volte, la maggior parte delle
occasioni in cui il traduttore ha optato per questo tipo di soluzione è stato condizionato dal
testo di partenza.
Conclusioni
Dall’analisi delle occorrenze e dell’uso possiamo concludere che credit crunch è un prestito di
lusso, usato dalla stampa per l’effetto che produce nel lettore e l’apparente prestigio che
conferisce all’articolo. Il termine inglese, infatti, così conciso ed espressivo sul piano
fonosimbolico, risulta più efficace dal punto di vista stilistico, conquista l’attenzione del
lettore e rende il testo apparentemente più tecnico e distinto, spettacolarizzando la notizia in
un modo a cui l’italiano potrebbe solo lontanamente avvicinarsi. Lo stesso vale per i calchi
stretta del credito e stretta creditizia. Tutto ciò, però, a scapito della comprensione. Sul Sole
24 Ore ritorna regolarmente la pubblicazione di una nota linguistica su credit crunch,
lasciando intendere che vi è la coscienza che il termine non sia di facile comprensione per
tutti, nonostante venga usato di continuo e senza alcuna spiegazione.
Se si considerano i numeri anno per anno, si nota che l’uso dei termini non è andato crescendo
in modo costante in quanto ha ovviamente variato di pari passo con gli avvenimenti. Rimane
tuttavia evidente il fatto che sia ampiamente aumentato, soprattutto se confrontato con la
frequenza d’uso relativa agli anni precedenti il periodo di riferimento.
Nelle pubblicazioni della Banca d’Italia i tre anglicismi non compaiono mai, mentre nelle
traduzioni della BCE solo sporadicamente, probabilmente a causa dell’influsso del testo di
partenza, redatto sempre in inglese. Dal momento che nei testi ufficiali vengono preferite
46
The extreme case of such restrictions in non-price terms is a “credit crunch” where banks restrict the supply of
loans.
47
Lower lending volume “(credit crunch)”
55
delle perifrasi, per quei lettori ignari del significato di credit crunch i loro contenuti molto più
tecnici risulterebbero paradossalmente più comprensibili. Va detto, infine, che le perifrasi
descrittive usate in alternativa agli anglicismi, dal punto di vista del significato non sono solo
più immediate del prestito integrale ma anche dei calchi stessi.
4. DEFAULT
Definizioni in italiano e in inglese di default
La definizione di default risulta più complessa di quella di altri termini. Sia in inglese che in
italiano, infatti, regna una certa confusione in materia, in particolare tra i concetti di
inadempienza, insolvenza e fallimento, spesso utilizzati indistintamente. Dalla consultazione
di alcuni dizionari economico-giuridici bilingui (Cesari 2003, Codeluppi 2005) risulta che:
-
default: inadempienza, inadempimento
-
insolvency: insolvenza
-
bankruptcy: fallimento
In ambito societario, default corrisponde a inadempienza o inadempimento48 che consiste
nell’inosservanza di un obbligo imposto da un contratto, in particolare nel “mancato
adempimento della prestazione da parte del debitore”49. Con questo termine si fa riferimento
quindi a una singola obbligazione. Ripetuti inadempimenti portano invece a uno stato di
insolvenza (insolvency50), ovvero all’“impossibilità, per l’impresa, di soddisfare regolarmente
le obbligazioni assunte; in altri termini, le passività superano irreparabilmente le attività, per
cui l’imprenditore non è in grado di assolvere a tutti gli impegni assunti”. Questo termine non
definisce più un evento puntuale ma la generalizzata situazione di incapacità patrimoniale del
debitore. In questi termini, con inadempienza e insolvenza si può far riferimento anche alla
condizione debitoria di singoli individui. Per le società, la maturazione di uno stato di
insolvenza può sfociare, in Italia, in diverse procedure legali concorsuali disciplinate dalla
cosiddetta legge fallimentare (R.D. 16/03/1942 n. 267): il fallimento, il concordato
preventivo, la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria. Il
fallimento è quella maggiormente applicata e consiste nella “liquidazione dell’attivo e la
ripartizione del ricavato fra i creditori”. Nonostante le procedure concorsuali differiscano
48
I due termini sono sinonimi. Inadempienza: lo stesso che inadempimento, ma riferito esclusivam. al soggetto
inadempiente (Vocabolario Treccani online).
49
La definizione inglese di default conferma questa equivalenza: “the omission or failure to perform a legal or
contractual duty, esp. the failure to pay a debt when due.” (Garner 2009)
50
La definizione inglese di insolvency conferma questa equivalenza: “the condition of being unable to pay debts
as they fall due or in the usual course of business.” (Garner 2009)
56
ovviamente da ordinamento a ordinamento, il fallimento corrisponde indicativamente alla
bankruptcy del sistema giuridico anglosassone51. Infine, bancarotta è un falso amico e indica
uno dei reati fallimentari che possono essere commessi dal fallito, insieme al ricorso abusivo
al credito e la denuncia di creditori inesistenti. Sono legati a una qualsiasi procedura
concorsuale e non solo al fallimento (Palmieri 2006, Bankpedia online).
Analogamente, anche uno stato può ritrovarsi in condizione di non riuscire più a onorare i
suoi debiti, ovvero a rimborsare il debito pubblico. In questo caso si parla in inglese di default
(sovereign default) e in italiano di insolvenza (insolvenza pubblica, insolvenza sovrana,
insolvenza dello stato). Il concetto di insolvenza pubblica differisce tuttavia da ciò che si
intende con lo stesso termine in riferimento a imprese e famiglie. La maggior parte degli
episodi di default sovrano non corrispondono infatti al mancato pagamento della totalità del
credito in essere e sono seguiti da negoziazioni tra creditori e governo che sfociano
generalmente in una ristrutturazione del debito. A livello internazionale non esiste alcuna
procedura fallimentare e nessun quadro normativo che regoli l’insolvenza di un paese. Anche
per questo, quindi, è errato parlare di fallimento in ambito statale. Infine, se per ottenere una
linea di credito un privato deve fornire delle garanzie, sono poche le attività su cui un
creditore può rivalersi in caso di insolvenza sovrana ma soprattutto non esiste alcuna autorità
sovranazionale che obblighi il governo a presentare garanzie (Hatchondo 2007, Giannini
2003). In sintesi, l’insolvenza pubblica è molto meno regolamentata e definita di quella
privata.
Origine e sviluppo del termine
Il significato di base di default è semplicemente “mancanza, mancata prestazione”. Risale al
XIII secolo e il suo etimo è l’antico francese defaute “fallo, mancanza”, che a sua volta deriva
dal latino volgare defallire, “mancare”. L’accezione finanziaria del termine risale al 1858
(etymonline.com/default). Con l’avvento della tecnologia, default sviluppa un ulteriore
significato in ambito informatico (1966) e va a indicare un’impostazione automatica da parte
di un programma o sistema. È con questa accezione che l’anglicismo entra in italiano. I
vocabolari della lingua italiana e quelli etimologici sembrano concordare sull’anno 1991 e
51
Bankruptcy: “a statutory procedure by which a (usu. insolvent) debtor obtains financial relief and undergoes a
judicially supervised reorganization or liquidation of the debtor’s assets for the benefit of creditors.” (Garner
2009). Negli Stati Uniti la procedura di fallimento è disciplinata dai capitoli 7, 11 e 13 del Bankruptcy Code
mentre in Gran Bretagna dall’Insolvency Act.
57
confermano inoltre che l’unica accezione veramente attestatasi nella lingua comune sia quella
informatica52.
Ciononostante, penetra quasi in concomitanza anche in ambito economico. Infatti, nella banca
dati del Sole 24 Ore la prima occorrenza per default in senso finanziario risale anch’essa al
1991. Rimane comunque per lungo tempo un anglicismo impiegato solo dagli addetti ai
lavori.
Default è recepito dal linguaggio finanziario italiano con il caso EFIM e più precisamente
mediato da quella che in inglese si chiama events of default clause53. L’EFIM (Ente
Partecipazioni e Finanziamento Industrie Manifatturiere) è stato un ente finanziario di diritto
pubblico attivo in Italia tra il 1962 e il 1992, anno in cui fu soppresso e messo in liquidazione
a fronte di un grave dissesto finanziario. Tra le banche esposte verso l’ente figuravano
numerosi istituti di credito esteri che nel 1992 impugnarono l’events of default clause al fine
di ottenere il pagamento immediato di capitale e interessi. L’EFIM fu quindi dichiarato
ufficialmente insolvente. Questo caso scosse duramente l’Italia con ripercussioni anche sul
suo merito di credito, e della clausola in questione fu discusso a lungo poiché contribuì a
peggiorare la già complessa situazione del paese. A dimostrare quanto affermato è il fatto che
nella banca dati del Sole 24 Ore tutte le occorrenze per default del periodo 1991-1993
facciano riferimento a quest’ultima. La stessa situazione si ritrova consultando l’archivio
storico della Repubblica e del Corriere della Sera. Considerato che i giornali sono lo specchio
immediato dei mutamenti della lingua, se non addirittura i precursori di questi ultimi, è
probabile che questo sia stato il canale di introduzione del termine default nella lingua
italiana. Infine, lo conferma anche il seguente passaggio di un articolo in cui l’autore spiega
cosa implichi l’impugnazione della events of default clause da parte delle banche estere:
Perché il default fa così paura ai protagonisti dell’euromercato
LONDRA _ Default è una parola entrata di prepotenza nel linguaggio della finanza italiana. Con
quel suo suono sinistro è sulla bocca di tutti in questi giorni. […] Nella City, invece, questo
termine rientra nella routine di tutti i giorni perché è menzionato in ogni contratto di
finanziamento. Ma gode anche di gran rispetto dal momento che i banchieri lo considerano
un’arma a doppio taglio che deve essere utilizzata soltanto in casi estremi. Viene da domandarsi,
allora, cosa sia esattamente il default che minaccia la credibilità dell’Italia sull’euromercato da
quando è stato soppresso l’ente pubblico Efim. (Il Sole 24 Ore, 26.08.1992)
52
Anche l’Etimologico Le Monnier del 2010 riporta ancora solo l’accezione informatica.
Per event of default l’ordinamento anglosassone intende: “A triggered condition specified in a loan agreement
requiring a pay-demand by a lender. Leads to default proceedings. Failure to pay on-time is a common
example.” (Garner 2009).
53
58
Negli anni successivi il termine ha continuato a essere utilizzato, in riferimento soprattutto a
situazioni di insolvenza societaria o statale. L’uso è rimasto limitato fino al 1998 quando ha
iniziato una progressiva crescita in termini di frequenza, ininterrotta fino a oggi.
Con lo scoppio della crisi finanziaria, ma soprattutto di quella del debito sovrano, default si
afferma ulteriormente nell’uso. La difficile situazione economica fa emergere infatti
numerose inadempienze e altrettanti casi di insolvenza e fallimento. Quando in Europa inizia
a farsi largo anche lo spettro dell’insolvenza sovrana, il termine si diffonde con una tale
rapidità da interessare in misura crescente anche gli ambiti non specialistici. D’altronde un
simile evento avrebbe avuto ripercussioni drammatiche sull’intera comunità. A dimostrazione
di ciò, l’introduzione del secondo significato di default nell’edizione del 2013 del DO: fino
all’edizione precedente (2012) figurava solo quella informatica.
Per quanto riguarda il significato, abbiamo già accennato al fatto che in italiano default entra
non tanto con l’accezione di inadempimento, quanto piuttosto con il senso di insolvenza. Va
detto comunque che lo spostamento di significato non sorprende. Vi ha indubbiamente
contribuito la confusione che regna sia in inglese che in italiano tra i diversi concetti, nonché
il fatto che anche in inglese default venga talvolta usato estensivamente nel senso di
insolvency e che in riferimento a un debitore sovrano equivalga effettivamente a insolvenza.
Inoltre, sempre più spesso e in particolare nei mass media, in italiano default assume il
significato estensivo di fallimento. D’altronde, insolvenza e fallimento vengono spesso usati
indistintamente già in italiano e risulta perciò facile capire il motivo alla base di un uso ancora
più erroneo dell’anglicismo.
59
Frequenza
Pubblicazioni BCE
Il Sole 24 Ore
0
0
334
2008
4
0
586
2009
3
0
669
2010
1
2
852
2011
2
0
1482
2012
5
0
942
Totale
15
2
4865
2007
7
13
367
2008
21
29
601
2009
16
26
502
2010
28
20
456
2011
22
46
570
2012
27
39
480
Totale
121
172
2976
Inadempimento/i
2007
0
7
453
Inadempienza/e
2008
0
15
440
2009
5
12
373
2010
6
24
373
2011
2
10
409
2012
3
5
461
Totale
16
73
2509
2007
0
3
1298
2008
8
21
1927
2009
9
72
1811
2010
4
25
1688
2011
6
53
1600
2012
4
48
1609
Totale
31
222
9933
Termine
Default
54
Insolvenza/e
Fallimento/i
Periodo di
Pubblicazioni
riferimento
Banca d’Italia
2007
Osservazioni ed esempi
I dati raccolti evidenziano una discrepanza nell’uso del termine inglese e del suo corrispettivo
italiano (insolvenza) nei diversi corpora. Innanzitutto per la prima volta si ha una maggiore
frequenza dell’anglicismo nei testi della Banca d’Italia rispetto alle traduzioni della BCE. Si
54
Dalle occorrenze indicate sono sempre state escluse quelle relative a credit default swap, expected default
frequencies, default fund, probabilty of default, loss given default.
60
tratta comunque di uno scarto irrisorio e nel complesso possiamo affermare che l’uso del
prestito nelle pubblicazioni ufficiali è molto limitato. Questo risulta ancora più lampante se si
osserva in funzione dei dati rilevati nella banca dati del Sole 24 Ore: default ricorre quasi il
doppio delle volte rispetto a insolvenza mentre nelle pubblicazioni ufficiali il rapporto medio
è di 1:15.
In aggiunta sono stati rilevati i dati relativi a inadempimento e fallimento, in quanto
dall’analisi è emerso che default viene usato anche con questi due significati. Come
insolvenza, anche inadempimento, di fatto l’esatto equivalente di default, ricorre molto meno
rispetto al prestito integrale. Il confronto tra la frequenza di quest’ultimo e fallimento ha
invece un interesse relativo, dal momento che non è l’esatta traduzione di default. Ciò che
risulta però interessante è come la frequenza d’uso dei tre termini italiani sia rimasta
pressoché costante nel tempo: emergono sì aumenti e diminuzioni legati ai principali
accadimenti, ma sono modesti. Diverso è invece il discorso per default, la cui frequenza è
aumentata significativamente. Gli eventi economici e politici hanno sicuramente contribuito a
questo incremento, ma non possono rappresentarne l’unica ragione considerata la crescita
limitata nell’uso dei tecnicismi endogeni. È invece più probabile che quanto avvenuto negli
ultimi anni abbia permesso all’anglicismo di imporsi ulteriormente nella lingua italiana e di
espandersi.
Quest’uso massiccio dell’esotismo sorprende, soprattutto a fronte di quanto osservato con un
termine come bailout, dove la situazione era analoga. Anche il termine default, infatti, non è
assolutamente di immediata comprensione e differisce totalmente dall’italiano. Perché in
questo caso quindi l’inglese si è imposto così pesantemente? Le risposte potrebbero essere
molteplici. In primo luogo default, nonostante sia entrato nel linguaggio finanziario italiano
nello stesso periodo di bailout, ha goduto di un successo nettamente superiore e prima
dell’avvento della crisi si era già diffuso. Inoltre default, a differenza di bailout, è un vero e
proprio tecnicismo. Non per niente prima si diffonde in ambito prettamente finanziario e poi
si riversa nella lingua comune. Al contrario, bailout è meno tecnico sia in inglese che in
italiano ed è entrato più che altro nel gergo giornalistico dove si è pian piano fatto strada.
Questi due motivi potrebbero in parte spiegare anche il fatto che alcune pubblicazioni ufficiali
siano state “contaminate” dall’uso di default. Infine, nel caso di bailout il corrispettivo
italiano salvataggio è di gran lunga più espressivo e colorito di insolvenza, molto più tecnico
e arido. Insolvenza non ha perciò lo stesso bagaglio connotativo di salvataggio, che può però
essere recuperato usando l’anglicismo corrispondente default.
61
Ciò premesso, osserviamo ora più da vicino l’uso di default. Il termine non presenta alcuna
somiglianza fonomorfologica con il corrispettivo italiano ed è entrato nell’uso comune solo di
recente, pertanto difficilmente può essere considerato di lata comprensione. Tuttavia, ancora
una volta è raro che chi scrive si preoccupi di chiarirne il significato al lettore, usandolo
invece come un lessema qualunque. Negli articoli del Sole 24 Ore esso figura quattro sole
volte virgolettato e in solamente 46 occorrenze preceduto o seguito da una glossa esplicativa.
Eppure anche per default ricorrono frequentemente note linguistiche55. Vi sono due aspetti
degni di nota: in primo luogo in 9 occorrenze invece di dare una spiegazione del termine
inglese, paradossalmente viene usato quest’ultimo per chiarire il concetto italiano. Ciò
dimostra il fatto che l’inglese venga percepito da alcuni come più tecnico e autorevole. In
secondo luogo all’anglicismo corrispondono delucidazioni piuttosto incoerenti, talvolta viene
indicato come fallimento o addirittura bancarotta, altre come insolvenza e altre ancora come
inadempienza.
Nei casi peggiori alcune aziende non hanno infatti rispettato le scadenze per il pagamento
degli interessi (il classico default), in altri si è trattato di un semplice sforamento di covenant,
cioè le condizioni definite in passato con le banche sui finanziamenti sulla base dei business plan.
(Il Sole 24 Ore, 03.05.2009)
Default, ovvero fallimento, una parola che a molti piccoli risparmiatori fa tremare i polsi. (Il Sole
24 Ore, 09.11.2009)
«I risparmiatori, vittime del crack Parmalat, hanno dieci anni di tempo dal giorno del default
(stato di insolvenza, ndr) per esercitare l’azione risarcitoria nei confronti degli istituti di credito
che hanno collocato il bond di Collecchio […]». (Il Sole 24 Ore, 19.04.2011)
Con l’allargarsi del suo ruolo, però, si sono moltiplicati anche i default sui mutui, le
inadempienze, che hanno imposto alla Fha di far ricorso alle proprie casse. (Il Sole 24 Ore,
05.09.2009)
Nelle pubblicazioni ufficiali si ha una precisazione un’unica volta, ma nuovamente
dell’italiano con l’inglese.
L’attività si è estesa alla convalida dei modelli di Incremental Risk Charge (IRC) e All Price Risk
(APR), volti a stimare la perdita potenziale massima che potrebbe derivare, tra l’altro, dal rischio
di inadempienza (default) o di downgrading dell’emittente. (Relazione annuale sul 2011, Banca
d’Italia)
55
Anche le note linguistiche confermano la poca chiarezza che circonda il termine default e le traduzioni in
italiano. Innanzitutto non è sempre la stessa a ricorrere e ad alcune corrette e chiare, se ne affiancano altre
farraginose come la seguente: Termine anglosassone ormai entrato nell’uso italiano: significa fallimento. Si
tratta dell’insolvenza da parte di Paesi o istituzioni. Scatta con il mancato rispetto di una delle clausole presenti
in un accordo di prestito, come il mancato rimborso di una rata o il mancato pagamento di una cedola. Ovvero
con l’incapacità di un’emittente di rispettare le clausole contrattuali previste dal regolamento del
finanziamento. (Il Sole 24 Ore, 14.09.2011).
62
La poca coerenza di significato negli articoli del quotidiano non si limita solo alle glosse
esplicative, ma è una tendenza generalizzata. Non sempre è possibile cogliere quale accezione
avesse in mente l’estensore nell’utilizzare il termine default. Tuttavia, abbastanza
frequentemente il contesto permette di capirlo e possiamo pertanto affermare che esso venga
tendenzialmente impiegato indistintamente con il significato di inadempienza, insolvenza e
fallimento e che a volte il termine inglese e quelli italiani vengano persino considerati perfetti
equivalenti. Ciò dimostra chiaramente da una parte la confusione concettuale che già regna in
italiano, e dell’altra la talvolta scarsa conoscenza dell’inglese. Si vedano a riguardo gli esempi
riportati di seguito. Nel primo l’anglicismo è chiaramente usato nel senso di inadempimento,
nei due successivi con l’accezione di fallimento e nel quarto per indicare l’insolvenza.
Goldman Sachs stima che le perdite sui mutui subprime possano essere tra i 200 e i 400 miliardi di
dollari. […] La stima più ottimistica è stata ottenuta calcolando la media dei default sulle varie
tranche di subprime (tra il 3% e 5% per i mutui emessi tra il 2003 e il 2005 e tra il 21% e il 23%
per le emissioni del 2006 e 2007). (Il Sole 24 Ore, 18.12.2007)
E se Fazio rischia oggi 3 anni di reclusione per non aver vigilato con attenzione sui ratio
patrimoniali della Banca Popolare Italiana, è pur vero che le agenzie di rating hanno fatto suonare i
primi campanelli d’allarme su Lehman Brothers solo pochi giorni prima del più grande default
della storia. (Il Sole 24 Ore, 26.02.2011)
In tre anni raddoppiati a Milano i reati tributari
ILLECITI FALLIMENTARI - I fascicoli aperti relativi a procedure di default che nel 2009 erano
350 sono oggi vicini a quota 800 (Il Sole 24 Ore, 26.01.2012)
Quando si verifica un «evento di default» – per esempio il mancato rimborso del capitale o degli
interessi – gli obbligazionisti hanno la facoltà di chiedere al cosiddetto Trustee l’insolvenza vera e
propria: basta che lo faccia il 25% dei possessori del bond. […] Quindi se nessuno si muove, il
bond può restare in una sorta di "limbo": non rimborsato, ma non in default. (il Sole 24 Ore,
11.07.2008)
Talvolta i tre termini default, fallimento e insolvenza sono trattati anche come perfetti
sinonimi, come nell’esempio seguente. Ciò si traduce in un una confusione concettuale che
rischia di essere trasmessa al lettore.
Il 2007, secondo le stime della Ehs, dovrebbe chiudersi con un calo del 50% delle insolvenze. Il
punto di partenza sono i dati Istat più recenti disponibili, riferiti al 2005, quando i fallimenti
furono 12.148. Nel 2006 dovrebbero essere scesi a poco meno di 11mila (-10%), mentre per lo
scorso anno si stimano circa 5.500 default d’imprese. (Il Sole 24 Ore, 11.02.2008)
L’ultimo esempio riportato sotto mostra invece come talvolta persino chi scrive non conosca
veramente il significato dell’anglicismo. Si passa qui da un uso improprio del termine a un
vero e proprio ampliamento della valenza semantica dello stesso che, generalizzato, va a
indicare qualsiasi fallimento.
63
A comprare, infatti, «sono stati cittadini italiani», spaventati dall’ipotesi di un’imposta
patrimoniale di cui si è a lungo parlato in autunno, soprattutto prima che si insediasse il Governo
Monti, ma soprattutto preoccupati dal rischio di default dell’euro. (Il Sole 24 Ore, 19.01.2012)
Nelle pubblicazioni ufficiali notiamo una maggiore precisione nell’uso sia di default che dei
tecnicismi italiani in questione. Il primo viene prevalentemente utilizzato nel senso di
inadempimento, indicando una maggiore coscienza del significato originario del termine56, e
un’unica volta in modo errato con l’accezione di fallimento. Altresì degno di nota è il fatto
che il termine fallimento venga usato nella quasi totalità dei casi in riferimento a Lehman
Brothers, il che suggerisce che ne venga fatto un uso molto più cauto e coscienzioso.
I default includono i prestiti a controparti che all’avvio delle moratorie erano classificati dalle
banche in past-due o in incaglio. (Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia, aprile
2012)
Nei casi più gravi, il deterioramento delle condizioni finanziarie ha dato luogo all’apertura di
procedure concorsuali che nel 2009, secondo i dati delle Camere di commercio, hanno riguardato
circa 10.000 imprese, il 26 per cento in più rispetto all’anno precedente […]. I default sono stati
maggiori tra le imprese del manifatturiero, in particolare nei comparti della moda e della
metalmeccanica […]. (Relazione annuale sul 2009, Banca d’Italia)
Per quanto riguarda l’uso di default nel senso di insolvenza sovrana non sussiste alcun
margine di errore dal momento che si tratta del termine corretto e che non vi è rischio di
confusione concettuale. Negli articoli del Sole 24 Ore l’anglicismo impera anche con questa
accezione.
A far impennare il differenziale è stata la notizia che la Bce ha oggi comprato titoli lusitani a
cinque anni, alimentando così i timori su un prossimo default del Portogallo. (Il Sole 24 Ore,
11.02.2011)
Per un Paese in recessione come il nostro, il default greco rappresenterebbe comunque un altro
duro colpo. (Il Sole 24 Ore, 09.05.2012)
Nelle pubblicazioni ufficiali, invece, default ricorre solo due volte in riferimento a uno stato
sovrano e all’anglicismo viene preferito l’italiano insolvenza.
I timori di un default incontrollato della Grecia si sono diradati in seguito all’accordo raggiunto
in marzo. (Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia, aprile 2012)
In terzo luogo, i mercati percepivano che, in caso di fallimento di un sistema bancario, l’intervento
pubblico avrebbe comportato costi di bilancio e un accresciuto rischio di insolvenza
dell’emittente sovrano57. (Rapporto annuale sul 2011, BCE)
Infine, nelle pubblicazioni ufficiali in questo contesto non è mai usato fallimento,
un’imprecisione invece molto ricorrente negli articoli del quotidiano.
56
A confermare una maggior precisione concettuale e d’uso è anche il manuale per la traduzione della BCE dove
defaulting institution è tradotto con istituzione inadempiente.
57
Third, the market perception that, in the event of a banking system failure, public intervention would entail
fiscal costs and heightened sovereign default risk.
64
Nel frattempo i capi di Stato tedeschi e francesi rinnovano la fiducia al governo Monti, ricordando
però che un fallimento dell’Italia coinciderebbe con la fine dell’unione monetaria. (Il Sole 24
Ore, 26.11.2011)
Ma il problema esiste e sui mercati s’è imposto ormai da 15 giorni: perché se l’eventuale
fallimento della Grecia è cosa contemplata dagli investitori, quello del Portogallo sarebbe invece
un trauma irreversibile per l’eurozona. (Il Sole 24 Ore, 31.01.2012)
Dallo spoglio degli articoli del Sole 24 Ore, dove l’uso di default è più frequente, emerge
inoltre che il significato dell’anglicismo non si è trasformato nel tempo. Ha continuato a
essere usato nel senso di insolvenza sovrana, inadempimento, insolvenza e fallimento, seppur
in alcuni casi si tratti di un uso impreciso o sbagliato. La predominanza dell’uno o dell’altro
significato è variata con il variare degli eventi. Nel 2007 e 2008 si è parlato principalmente di
inadempimenti su titoli (in particolare sui mutui subprime) e di insolvenze e fallimenti
societari, e in parte anche delle precedenti insolvenze di Argentina e Russia. Lo stesso nel
2009, con i primi accenni alle possibilità di insolvenze sovrane all’interno dell’area dell’euro,
nell’est europeo, in Medio Oriente e in Sud America. Tra il 2010 e il 2012 l’attenzione si è
spostata progressivamente sul rischio di insolvenza dei paesi dell’Eurozona, con un interesse
particolare per la Grecia e gli altri paesi periferici. Nel 2010-2011 metà delle occorrenze
faceva riferimento a un possibile default sovrano, nel 2012 sono 645 su 942. Rimane
comunque il fatto che questo cambiamento sia dovuto esclusivamente agli eventi
economico-politici e non a un restringimento di significato. Quest’ultimo può forse valere per
il lessico quotidiano: ciò di cui i mass media hanno parlato e parlano maggiormente è
l’insolvenza pubblica, in quanto ha un interesse maggiore per la persona comune. Ne
consegue che quest’ultima possa essere portata ad associare sempre più il significante default
con il significato insolvenza sovrana. I risultati della presente analisi dimostrano che al
contrario, a livello specialistico, il prestito continua a essere usato anche in ambito societario.
Le collocazioni più frequenti di default sono andare / finire / cadere in d., essere in d., d. su,
stato di d., fare d., dichiarare d., essere sull’orlo del d., d. sovrano, d. pubblico, anti-d. Si
tratta in parte di strutture che cercano di replicare l’inglese (to go into d., to be in d., to d. on)
e in parte di strutture calcate sull’italiano (stato di insolvenza, andare in fallimento,
dichiarare fallimento, fare fallimento, essere sull’orlo del fallimento).
Le strutture riprese dall’inglese talvolta subiscono una modifica come per esempio to go into
default. In inglese sono le posizioni creditizie ad andare in default, mentre in italiano vanno in
default anche persone, società e stati, probabilmente dal momento che chi scrive ha in mente
la collocazione italiana andare in fallimento. Questo ha probabilmente fomentato l’uso di
65
default inteso come fallimento, poiché molto spesso quando si parla di società che vanno /
fanno default si intende proprio quello58.
Visto da un’altra angolazione, il capitale delle banche europee sarebbe azzerato se il 6% dei crediti
finisse in default, quello delle banche Usa solo se si arrivasse al 10%. (Il Sole 24 Ore, 10.06.2009)
Si sta consumando l’ennesima beffa per i risparmiatori italiani. Questa volta riguarda coloro che,
possedendo un bond Lehman, gruppo finito in default nel 2008, si sono visti danneggiati anche
nell’insinuazione collettiva al passivo curata dagli istituti di credito. (Il Sole 24 Ore, 22.10.2011)
Un ulteriore esempio è legato al phrasal verb to default on. Esso ha dato luogo a: il/i default
su titoli, sul debito pubblico, ecc. Tendenzialmente quando si parla di default su
un’obbligazione è intenso nel senso di inadempimento. In inglese, l’abbinamento della
preposizione on con il sostantivo default non è usata.
Di recente il gruppo ha riportato un aumento nei default su debiti cartolarizzati, venduti agli
investitori, all’8,3% dal 7% in dicembre e dal 2% nell’ormai lontano 2006. (Il Sole 24 Ore,
03.03.2009)
In fondo, nei mesi trascorsi ne hanno viste di tutti i tipi: dall’altalena continua del mercato
azionario, al dimezzamento di valore di titoli tradizionalmente solidi, dall’aumento al crollo del
prezzo dell’oro fino all’emergere di un significativo rischio di default sul debito sovrano che
aveva costituito il punto di riferimento per l’investitore più cauto. (Il Sole 24 Ore, 06.02.2012)
L’influenza dell’inglese e della scrittura giornalistica si fa sentire anche nelle pubblicazioni
ufficiali, seppure in misura molto limitata.
In particolare, il costo più elevato e la ridotta disponibilità di credito al consumo e di mutui
ipotecari potrebbero influire negativamente sui consumi delle famiglie; potrebbero inoltre
contribuire a prolungare la flessione, in atto negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in alcuni paesi
dell’area dell’euro, dei prezzi degli immobili, accrescendo così il rischio di un aumento delle
inadempienze sui mutui in essere. (Bollettino economico della Banca d’Italia, ottobre 2008)
Una soluzione come la seguente sarebbe stata forse più corretta dal punto di vista della struttura
linguistica italiana.
Le difficoltà finanziarie delle imprese si sono riflesse nell’aumento delle inadempienze nel
rimborso dei debiti e nella crescita sostenuta del numero dei fallimenti. (Relazione annuale sul
2011, Banca d’Italia)
Vi sono infine alcune collocazioni che non ricalcano assolutamente l’inglese e che si discostano
dal significato originario del termine: d. economico, d. mondiale e relative varianti. Probabilmente
chi usa l’anglicismo in questo modo fa riferimento al concetto di collasso economico.
Ma che Confitarma, vuole evitare a tutti i costi, compiendo un’operazione di trasparenza, forte del
fatto che il sistema armatoriale italiano ha resistito bene all’urto del default economico mondiale,
anche in virtù di progetti imprenditoriali solidi. (Il Sole 24 Ore, 10.10.2009)
58
Lo stesso DO alla voce default, pur fornendo insolvenza come definizione, negli esempi indica: andare in d.:
fallire.
66
Bilanci non sempre facili per le compagnie dei portuali. Le società i cui lavoratori caricano e
scaricano le navi, hanno subito (in misura maggiore o minore) le conseguenze della crisi
economica scoppiata a fine 2008. A soffrire ancora i postumi del default mondiale c’è anche la
Culmv […]. (Il Sole 24 Ore, 21.06.2011)
In italiano è frequente l’uso dei composti ibridi tasso di default e rischio (di) default
corrispondenti alle polirematiche inglesi default rate e default risk. Si tratta di prestiti di lusso in
quanto esistono dei corrispettivi italiani. Il primo equivale a rischio di insolvenza, rischio di
credito, rischio di controparte, ai quali viene ad aggiungersi rischio paese per gli emittenti
sovrani; spesso viene usato e/o inteso erroneamente anche come rischio di fallimento. Default rate
corrisponde invece a tasso di insolvenza, che a seconda dei contesti può indicare la quota delle
sofferenze all’interno di un singolo istituto di credito o il numero di imprese insolventi in un
determinato periodo. Non si tratta di fallimenti, come viene invece di frequente inteso.
«Dal nostro punto di vista – scrive infatti l’agenzia di rating – il tasso di default per questo ciclo
economico ha toccato il massimo proprio nel terzo trimestre del 2009». […] «Per questo –
continua il comunicato – noi riteniamo altamente probabile che il tasso di insolvenza inizi a
ridursi nel quarto trimestre dell’anno e che il trend continui poi nel 2010». (Il Sole 24 Ore,
05.11.2009)
Ultima seduta della settimana fortemente negativa per le borse europee e Wall Street, che soffrono
per i dati Usa sull’occupazione più deboli delle attese e per i timori legati alla situazione delle
finanze dell’Ungheria, che improvvisamente presenta un rischio default simile alla Grecia:
l’indice Stoxx ha perso il 2,7%, quello bancario il 5,7%. A New York l’S&P 500 ha chiuso a 3,4%. (Il Sole 24 Ore, 05.06.2010)
Passiamo ora al piano espressivo, che interessa principalmente la scrittura giornalistica. La totale
differenza morfologica con l’italiano e la comprensione non sempre chiara del termine, lo
caricano di una grande forza connotativa. Il termine, “con quel suo suono sinistro” come fu scritto
vent’anni fa, si circonda infatti di un’aura di mistero e colpisce con forza l’attenzione del lettore.
Soprattutto per quanto riguarda i paesi, l’inglese permette di caricare emotivamente il concetto di
insolvenza, sottolineandone l’estrema gravità, e al contempo di tenere lontana questa evenienza
creando nel lettore un senso di estraniamento di fronte a un termine così esotico. È molto più
espressivo ed efficace di inadempimento o insolvenza, completamente neutri dal punto di vista
emotivo perché molto tecnici.
Ed è a Kuwait City che gli scricchiolii del sistema bancario si sono palesati per la prima volta nel
Golfo. La Banca centrale è stata costretta a intervenire per sostenere la Gulf Bank, il secondo
istituto di credito del Paese, colpita dal default di alcuni clienti sui contratti derivati: le perdite
ammonterebbero a 600 milioni di euro. (Il Sole 24 Ore, 28.10.2008)
Dai Tango bond, ai crack della Parmalat e della Cirio fino al default della banca americana
Lehman: i risparmiatori caduti in disgrazia sono stati più di mezzo milione molti dei quali ancora
in attesa di essere risarciti. (Il Sole 24 Ore, 16.10.2011)
«Guys, che si fa in caso di default?» Al desk emerging market stanno facendo la fila gli analisti
di aree più solide e sofisticate come Stati Uniti ed Europa. Mai avrebbero pensato di dover
affrontare problematiche come il rischio insolvenza per i Paesi industrializzati. Oggi invece si
trovano a bussare alla porta dei colleghi ben più esperti su queste tematiche, caduti nel
67
dimenticatoio dopo avere passato anni a risolvere le crisi di Paesi come il Brasile, l’Argentina e
l’Asia. (Il Sole 24 Ore, 04.08.2011)
È tempo di rompere gli indugi, di procedere «senza ulteriori esitazioni», va ripetendo il Capo dello
Stato. Soprattutto ora che lo spettro del default incombe nuovamente sulla Grecia. (Il Sole 24
Ore, 15.01.2012)
Si noti come ancora una volta il prestigio dell’inglese porti chi scrive a usarlo per ottenere
frasi più espressive: nel secondo esempio vengono usati tre anglicismi per formare un climax
che culmina in default, mentre nel terzo è possibile osservare l’abbinamento di guys e default
nell’incipit dell’articolo per creare una frase a effetto.
Fallimento risulta già meno tecnico di inadempimento o insolvenza perché oltre all’accezione
giuridica ne ha anche una figurata, di gran lunga più espressiva: fallire in un’impresa,
fallimento personale, ecc. Non è da escludere che l’uso confuso ed errato di fallimento in
italiano, e di conseguenza di default, possa essere anche ricondotto alla talvolta volontaria
preferenza di questo termine perché più immediato, più colorito, più drastico.
Questa caratteristica è nuovamente dimostrata anche dalla maggiore frequenza nei titoli
dell’anglicismo rispetto all’italiano. In 793 articoli default compare nel titolo, a fronte di soli 297
per insolvenza/e e 120 per inadempienza/e o inadempimento/i. Il dato sale invece
vertiginosamente per fallimento/i: 1067.
«Il default? Colpa dei manager» (Il Sole 24 Ore, 03.08.2010)
Dalla pampa con default (Il Sole 24 Ore, 29.08.2010)
Il lungo viaggio di Eurolandia verso il default (Il Sole 24 Ore, 11.05.2011)
A rafforzare l’ipotesi che l’inglese risulti più accattivante dell’italiano è il fatto che molto
spesso il primo venga usato solo nel titolo per poi passare al termine italiano nel corpo del
testo.
Microimprese più esposte al rischio default
Scatta il warning per quell’eterogeneo universo di circa sei milioni di microimprese attive in Italia:
a rischiare un potenziale stato d’insolvenza sono circa 140mila. Nel primo trimestre 2009 questo
mondo di piccoli imprenditori ha visto diminuire la propria classe di rating a C17, in altre parole
«rischio elevato, in condizioni di sostanziale insolvenza e/o con bassa probabilità di fare fronte
agli impegni assunti». (Il Sole 24 Ore, 11.05.2009)
Conclusioni
In conclusione il prestito integrale default è un prestito di lusso, che non ha ragion d’esistere
in italiano se non per l’effetto connotativo che conferisce al testo. L’attuale crisi economica è
stata motivo di una rapida espansione, nonostante il termine alloglotto presenti un uso confuso
68
e spesso poco corretto. Nelle pubblicazioni ufficiali l’uso di default è molto sporadico ma al
contempo più preciso.
5. RATING
Definizioni in inglese e in italiano
Credit rating. An assessment of the probability that an individual, firm, or country will be able and willing
to pay its debt. Such an assessment is based on all available information about the subject’s total assets and
liabilities, exposure to risk, and past record in making prompt payment of interest and principal when due. An
individual, firm, or government with a good credit rating can borrow or obtain goods on credit more easily and
cheaply than one whose credit rating is poor. (Oxford dictionary of economics 2012)
Credit-rating agency. A firm which collects information affecting the creditworthiness of individuals or
companies, and sells the resulting credit rating for a fee to interested parties. (Oxford dictionary of economics
2012)
Rating. Lett.: classificazione. Opinione espressa da un’organizzazione indipendente, detta correntemente
“agenzia di rating”, sulla capacità di un’emittente o di un’emissione di far fronte agli impegni finanziari
(pagamento di interessi o dividendi e rimborso del capitale) secondo certe scadenze. […] Il mercato mondiale del
rating è oligopolistico, dominato attualmente da agenzie che fanno capo a tre grandi gruppi internazionali: le due
più grandi e più antiche, Standard & Poor’s e Moody’s, e Fitch, di recente aggregazione. […] Il rating è dunque
un sistema di classificazione stabile fondato su criteri trasparenti, risultante da un processo analitico molto
approfondito e costantemente verificato, che attribuisce al singolo titolo o a un dato emittente una classe di
rischio, contrassegnata da una sigla, che esprime la sua probabilità di insolvenza. (Bankpedia online)
Origine e sviluppo del termine
Il termine inglese rating si fa risalire agli inizi del XVI secolo e viene dal sostantivo rate,
nella sua accezione “valore stimato”, che a sua volta deriva dal latino rata (pars) “quantità
stabilita” (etymonline.com/rating).
Nella
lingua
anglosassone
rating
è
un
iperonimo
con
il
significato
di
“valutazione, classificazione” che, in determinati contesti, può anche descrivere concetti ben
precisi: l’indice di gradimento di un programma radiofonico o televisivo, la classificazione
delle imbarcazioni in ambito nautico sportivo o ancora, nel linguaggio finanziario, la
valutazione del merito di credito. Quest’ultima accezione, tuttavia, non è sempre così scontata
poiché spesso si preferisce specificare e parlare di credit rating. A seconda dei vocabolari
l’accezione finanziaria può comparire alla voce rating o sotto un altro lemma. In alcuni, come
il CD, tra i significati di rating figura anche “the estimated financial or credit standing of a
business enterprise or individual” mentre in altri, come il NOAD, non vi si accenna.
69
Accompagnati al primo significato generico “a classification or ranking or something based
on a comparative assessment of their quality, standard, or performance”, vi sono altri
significati, ma non quello finanziario. Quest’ultimo si ritrova esclusivamente alla voce credit
rating. Analogamente, anche i dizionari di settore riportano il lemma credit rating anziché
rating.
L’italiano ha recepito questo prestito in tutte le sue accezioni, anche se per ovvi motivi è
quella economico-finanziaria ad essersi imposta in questi ultimi anni. L’unica differenza
risiede nel fatto che nel linguaggio finanziario si parla esclusivamente di rating: credit è
caduto facendo dell’anglicismo un prestito che possiamo definire decurtato.
Il termine inglese è penetrato nella lingua italiana alla fine degli anni Ottanta con il senso di
“stazza di regata”, per poi assumere le altre accezioni, tra cui quella finanziaria, nella prima
metà degli anni Novanta. Dato che l’ingresso dell’anglicismo non è recentissimo, esso ha
avuto modo di attecchire con una certa forza e di diffondersi. A dimostrazione di ciò nei
dizionari, sia generici che specialistici, è stato introdotto da diverso tempo59. Indubbiamente,
però, l’uso di rating è esploso nel 2007 con la crisi economico-finanziaria, quando ha anche, e
soprattutto, smesso di essere un termine relegato ai soli ambiti specializzati.
Come emerge dalle definizioni, il credit rating valuta la creditworthiness, di cui in italiano
esiste un corrispettivo, ovvero il calco strutturale merito di credito da cui a sua volta deriva la
perifrasi descrittiva spesso usata per tradurre rating: valutazione del merito di credito. In
pratica, però, merito di credito viene quasi sempre utilizzato nel senso di rating,
sottintendendo l’idea di valutazione.
59
Il DO (2013) lo fa risalire al 1992, mentre il DISC al 1989, dato confermato dall’archivio del Sole 24 Ore,
dove la prima occorrenza è del gennaio 1990. Nell’edizione del 1991 del Vocabolario Treccani figura solo
l’accezione nautica, in quella del 1997 viene invece ad aggiungersi quella finanziaria.
70
Frequenza
Termine
Pubblicazioni BCE
Il Sole 24 Ore
8
61
985
2008
26
164
1238
2009
23
230
1050
2010
14
166
991
2011
21
238
1468
2012
47
346
1521
Totale
139
1205
7253
Merito di credito
2007
4 (0)
49 (1)
127 (15)
(di cui valutazione
2008
27 (2)
57 (0)
173 (25)
del merito di
2009
34 (3)
74 (6)
175 (22)
credito)
2010
45 (2)
44 (2)
114 (5)
2011
37 (0)
46 (1)
211 (9)
2012
31 (7)
46 (0)
178 (7)
Totale
178 (14)
316 (10)
978 (83)
2007
2
1
318
2008
10
6
408
2009
9
116
326
2010
8
30
416
2011
9
29
776
2012
17
20
616
Totale
55
202
2860
Rating creditizi/o
2007-2012
0
11
36
Merito creditizio
2007-2012
14
17
194
Agenzia/e di
2007-2012
0
0
221
2007-2012
0
4
3
Rating
60
Agenzia/e di rating
Periodo di
Pubblicazioni
riferimento
Banca d’Italia
2007
valutazione
Società di rating
Osservazioni ed esempi
Osservando i dati raccolti, emerge che tra i tre corpora vi è una netta discrepanza nell’uso di
rating e merito di credito. Innanzitutto va affermato che il prestito inglese è usato con una
certa frequenza in tutti, a dimostrazione del fatto che l’anglicismo ha ormai largamente
attecchito nel lessico specialistico italiano. Si può tuttavia notare che nelle pubblicazioni della
60
Dalle occorrenze indicate sono sempre state escluse quelle per “agenzia/e di rating”.
71
Banca d’Italia l’uso delle due soluzioni è quasi equo, con una leggera predilezione per la
polirematica italiana.
La trasmissione degli shock dallo spread sovrano ai tassi passivi bancari avviene mediante
molteplici canali, quali l’esposizione diretta delle banche nei confronti del settore pubblico,
l’utilizzo dei titoli pubblici come collaterale nei mercati della provvista all’ingrosso, il legame fra
rating sovrano e rating bancari. (Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia,
novembre 2012)
Nelle traduzioni della BCE questa preferenza è invertita, dal momento che in quasi 3 casi su 4
viene impiegato il forestierismo.
Nei primi due mesi del 2011, i rendimenti dei titoli di Stato a lungo termine con rating AAA sono
saliti leggermente sopra i livelli della fine del 2010 nell’area dell’euro mentre sono rimasti
sostanzialmente stabili intorno a quei valori negli Stati Uniti61. (Rapporto annuale sul 2010, BCE)
Infine, negli articoli del quotidiano la differenza nell’uso dei due termini si fa molto più
marcata: rating è di gran lunga più usato di merito di credito, con un rapporto di circa 7:1.
L’Enel mantiene il rating “A-” a lungo termine di Standard&Poor’s, centrando un importante
obiettivo strategico - quello di non entrare nella categoria delle “BBB” - nel mezzo di una delle più
violente crisi finanziarie globali di questo secolo. (Il Sole 24 Ore, 12.04.2008)
Come negli esempi appena citati, rating non è mai usato con una spiegazione, né tra virgolette
o in corsivo. Il termine viene sempre dato per conosciuto e mai trattato come un forestierismo.
Ancora una volta il lessema inglese ha preso il sopravvento sull’italiano e in questo caso non
esclusivamente nel gergo giornalistico. D’altro canto il prestito è molto più breve e immediato
sia di valutazione del merito di credito, sia del più conciso merito di credito. La percezione, in
particolare della stampa, che l’inglese sia più efficiente, nonché più tecnico e autorevole si
ritrova non solo nella maggiore frequenza del termine alloglotto ma anche nel fatto che in
1027 degli articoli del Sole 24 Ore in cui compare è usato nel titolo, mentre merito di credito
appare in un titolo solo 58 volte.
Anche Fitch rivoluziona i rating sui Cdo (Il Sole 24 Ore, 06.02.2008)
Anche la Cina alla guerra del rating (Il Sole 24 Ore, 25.05.2011)
Fitch declassa la Spagna: rating a BBB (Il Sole 24 Ore, 08.06.2012)
Inoltre, l’analisi delle occorrenze per merito di credito conferma il fatto che esso venga usato
anche nel senso di rating, seppur non esclusivamente. Valutazione del merito di credito è
61
In the first two months of 2011 long-term AAA-rated government bond yields in the euro area increased
slightly, to above the levels prevailing at the end of 2010, while those in the United States remained broadly
stable around those values.
72
molto meno frequente di merito di credito. C’è tuttavia da dire che la differenza di significato
tra le due espressioni è minima e non sempre scindibile.
[…] per i titoli con merito di credito più elevato (AAA) e per quelli emessi dalle banche e dalle
altre società finanziarie, i premi per il rischio si collocano oramai sui valori massimi da quando
questi dati sono disponibili (gennaio 1997), sia negli Stati Uniti sia nell’area dell’euro. (Bollettino
economico della Banca d’Italia, aprile 2008)
Ad esempio, il 4 febbraio il differenziale relativo a titoli con merito di credito BBB era pari a
circa 425 punti base per le società non finanziarie, e a circa 1.740 punti base per quelle
finanziarie62. (Bollettino mensile della BCE, febbraio 2009)
E così mentre le previsioni della Sony peggiorano, le condizioni di mercato al contrario migliorano
al punto che lo spread con il titolo governativo non va oltre 55 punti base. Tutto questo nonostante
le agenzie di rating lo scorso mese abbiano abbassato il merito di credito al livello BBB+, una
mossa che segue quelle di Moody’s a Baa1, il gradino più basso dell’investment grade. Fitch
invece aveva abbassato il rating a dicembre a BBB-, un gradino sopra a junk. (Il Sole 24 Ore,
09.03.2012)
La collocazione più comune per questo termine è indubbiamente agenzia di rating che, con
molta probabilità, ha contribuito alla diffusione dell’anglicismo rating. Sembrerebbe infatti
essere ormai entrata largamente nell’uso: sia nelle pubblicazioni ufficiali che nel Sole 24 Ore
è il principale termine, se non quasi l’unico, utilizzato per indicare gli istituti che valutano il
merito di credito. Si noti che agenzia è un calco dall’inglese rating agency, dove agency è
usato nel senso di “istituto, ente, organismo” (Novelli) e non propriamente di agenzia nel
senso italiano del termine.
Ieri l’agenzia di rating Standard&Poor’s ha abbassato il voto sull’Irlanda, portandolo da AA ad
AA-. (Il Sole 24 Ore, 26.08.2010)
Il 13 gennaio l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato il debito sovrano di nove paesi
dell’area dell’euro, tra cui la Francia, l’Italia e la Spagna. (Bollettino economico della Banca
d’Italia, gennaio 2012)
Sono state rilevate alcune alternative, tuttavia poco usate. Si tratta di società di rating e
agenzia di valutazione. La prima opzione non compare mai nelle pubblicazioni della Banca
d’Italia ed è molto rara sia negli articoli del Sole 24 Ore che nelle traduzioni della Banca
centrale europea, nonostante sia il termine consigliato nel manuale per la traduzione delle
pubblicazioni della BCE per rendere rating agency. La seconda, invece, non è mai usata nei
documenti ufficiali mentre è abbastanza frequente negli articoli del Sole 24 Ore. Anche per
rating/merito di credito vi sono altre diciture, anch’esse poco frequenti. Si tratta di rating
creditizio e merito creditizio, con molta probabilità due tentativi di riprodurre la struttura
inglese credit rating.
62
For instance, on 4 February BBB-rated bond spreads for non-financial corporations stood at about 425 basis
points, while those for financial corporations stood at about 1,740 basis points.
73
Infine, dal punto di vista temporale, nell’uso dei termini non si osservano cambiamenti degni
di nota. Sia rating che merito di credito, così come agenzia di rating aumentano leggermente
nel tempo, presumibilmente a causa del crescente rilievo assunto dalle agenzie di rating e
dalle loro valutazioni. Rimane tuttavia una crescita limitata e costante per tutti i termini.
Conclusioni
In conclusione il prestito decurtato rating è molto usato, anche nelle pubblicazioni ufficiali.
La penetrazione del termine in italiano è infatti di più lunga data ed esso ha avuto modo di
attecchire nell’uso, come dimostra il fatto che ricorra nella maggior parte dei vocabolari della
lingua italiana e nei dizionari specialistici. Non è da escludere, inoltre, che il fatto che questo
termine venga usato in diversi ambiti ne abbia favorito la diffusione. Ciò non toglie, però, che
il suo uso sia esploso negli ultimi sei anni e che il suo significato abbia raggiunto anche i non
esperti di economia e finanza.
Ciononostante rimane un prestito di lusso, giacché coesiste con un corrispettivo italiano,
seppure molto più lungo dal momento che si tratta di una perifrasi descrittiva. Risulta perciò
evidente che la scelta dell’inglese possa essere ascrivibile non solo a eventuali motivi
snobistici, ma anche alla possibilità di esprimere lo stesso concetto con una maggiore brevità
e immediatezza. Ancora una volta, però, gli enti ufficiali confermano una predilezione per
l’italiano, in particolare la Banca d’Italia, una preferenza che non si ritrova per nulla nel Sole
24 Ore. Nelle traduzioni della BCE merito di credito è più frequente rispetto alla stampa,
nonostante rating rimanga il termine dominante. Le pubblicazioni della BCE presentano in
questo caso una maggior apertura verso l’inglese rispetto a quelle della Banca d’Italia, come
dimostrato anche dal manuale per la traduzione delle pubblicazioni della BCE nel quale viene
proposto rating come traduzione di rating e credit rating.
6. SPREAD
Definizioni in inglese e in italiano di spread
Il termine spread nella lingua inglese è un iperonimo con un ventaglio di significati molto
ampio, molteplici anche nel solo ambito finanziario dove indica qualsiasi “difference between
two rates or prices” (NOAD 2010). Di seguito sono riportati i principali significati del
termine.
Spread. (i) The difference between the bid price (dealer’s buying price) and the offer price (dealer’s selling
price) or yield in a dealer’s quote. (viii) Generic for option strategies which involve the simultaneous purchase
74
and sale of options. Sometimes also called a combination. (xiii) The difference between the cost of funds and the
return on the use of funds. Thus a bank’s net interest margin would be the difference between its borrowing
costs (e.g. London interbank bid rate) and its lending rate (e.g. London interbank offered rate, plus any additional
rate the bank demanded). (The handbook of international financial terms, 1997)
Credit spread. (i) The yield differential between different fixed interest Securities issued by borrowers with
different creditworthiness. Also known as credit risk premium. (ii) An option trading term for the sale and
purchase of two options where the premium received is greater than paid. A debit spread is the opposite. With a
credit spread the position taker is effectively borrowing; with a debit spread, lending. (The handbook of
international financial terms, 1997)
Spread. Differenza fra due quotazioni di un titolo o due tassi di interesse o, più in generale, fra due
grandezze economiche collegate a uno stesso problema. Lo s. denaro-lettera è la differenza fra i prezzi di vendita
(lettera) e acquisto (denaro) ai quali un intermediario si vincola a negoziare per un certo periodo di tempo un
dato titolo. Nelle opzioni, gli s. sono posizioni in due opzioni analoghe ma con differenze negli strike (bull s. e
bear s.) o nelle scadenze (calendar s.) o in ambedue (s. diagonali), e in 3 opzioni con strike differenti (s. a
farfalla). Opzione s. è invece quella il cui sottostante è la differenza fra le quotazioni di due titoli. Lo s. fra due
tassi di interesse è la differenza fra i tassi di rendimento a scadenza di obbligazioni di due diversi emittenti con la
stessa durata, misurata in punti base (100 pb=1%): alti tassi sono considerati sintomi di timori del mercato circa
la solvibilità dell’emittente sull’orizzonte temporale coincidente con la durata del buono. Lo s. o forbice dei tassi
è la differenza fra i tassi attivi (sui finanziamenti concessi) e i tassi passivi (sui depositi) applicati dalle banche ai
propri clienti. (Dizionario di Economia e Finanza Treccani 2012)
Origine e sviluppo del termine
Il termine inglese spread non è di nuovo conio. Si tratta della forma sostantivata del verbo to
spread che risale al XIII secolo e il cui etimo è il proto-germanico spraidijanan, “stendere”.
Essa si è attestata nella lingua inglese intorno al 1690. Il significato di “degree of variation”,
dal
quale
hanno
avuto
origine
le
diverse
accezioni
che
assume
in
ambito
economico-finanziario, nonché diverse polirematiche come credit spread, è uno degli ultimi
che il lessema abbia acquisito e data del 1929 (etymonline.com/spread). Non va pertanto
dimenticato che in inglese spread, prima di essere un tecnicismo, è anche un sostantivo molto
comune il cui significato, di lata comprensione, spazia da diffusione a estensione fino ad
alimento spalmabile.
In italiano spread è entrato solo con le accezioni finanziare ed è pertanto un termine altamente
tecnico. Gli altri significati del lessema inglese, infatti, non hanno avuto alcuna incidenza
sulla lingua italiana. L’Etimologico Garzanti e il DO concordano nel far risalire la
penetrazione dell’anglicismo al 1990, dato peraltro confermato dalla banca dati del Sole 24
Ore dove le prime occorrenze per il termine spread datano proprio di quell’anno.
75
Tra i tecnicismi di cui il linguaggio comune si è arricchito con la crisi, quello più rilevante e
invasivo è stato sicuramente questo. Negli anni 2010, infatti, a seguito della crisi del debito
sovrano in Europa, ha assunto un notevole rilievo lo spread fra i titoli decennali emessi da
alcuni stati europei rispetto ai Bund tedeschi, considerati i più sicuri, dal momento che è
diventato un importante indicatore non solo del rischio di credito dei singoli paesi, ma anche
dei loro andamenti economici, finanziari e politici. Nel corso degli ultimi anni è quindi
passato da termine per i soli addetti ai lavori, sconosciuto ai più, a parola di uso comune e
nota, almeno per sentito dire, da tutti, seppur probabilmente il grado di conoscenza del
significato del termine rimanga basso. Di spread si parla in Borsa, in politica, ma anche a casa
e al bar. Tutti, dall’operatore finanziario al Signor Rossi, sono stati costretti, volenti o nolenti,
a fare i conti con il famoso spread. A popolarizzarlo sono stati indubbiamente i media che
hanno farcito di questo termine notizie su notizie. Ma spread non è diventato solo di uso
comune come altri termini nel quadro della crisi finanziaria, ha invaso anche infiniti ambiti
della quotidianità, persino quelli solitamente poco o per niente esposti a temi economici,
come la satira o il mondo dei botti illegali63.
L’uso (e abuso) del prestito inglese ha inoltre contribuito a restringerne la valenza semantica
italiana in modo non indifferente. Se spread in inglese è un iperonimo che indica qualsiasi
differenziale, in italiano è progressivamente andato assumendo il significato di differenziale
di rendimento tra Btp italiani (o decennale del paese europeo in questione) e Bund tedeschi,
facendo dimenticare a molti che abbia anche ulteriori accezioni. I vocabolari della lingua
italiana più recenti non riportano ancora questa accezione, ma non è da escludere che non
tarderà a essere aggiunta.
63
Per il Capodanno 2011 a Napoli un fuoco d’artificio è stato battezzato ‘o sprèd.
(http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2011/12-dicembre-2011/botti-capodanno-arrivao-spread-1902502359421.shtml)
76
Frequenza
Pubblicazioni BCE
Il Sole 24 Ore
3 (0)
4 (0)
376 (20)
2008
26 (5)
18 (5)
585 (93)
2009
27 (5)
33 (11)
582 (125)
2010
30 (9)
11 (3)
752 (415)
2011
38 (17)
9 (1)
1947 (1508)
2012
86 (71)
14 (0)
3179 (2794)
Totale
210 (107)
89 (20)
7421 (4955)
2007
23 (5)
297 (13)
524 (12)
2008
116 (15)
519 (46)
577 (80)
2009
118 (28)
513 (124)
430 (77)
2010
137 (32)
436 (89)
535 (221)
2011
114 (39)
396 (106)
829 (496)
2012
181 (64)
501 (97)
909 (548)
Totale
689 (183)
2662 (475)
3804 (1434)
di cui Differenziale/i
2007
9
27
50
di rendimento
2008
28
92
54
2009
29
61
46
2010
33
55
85
2011
30
78
134
2012
38
83
89
Totale
167
396
458
Premi/o per il / a / al
2007
15
97
97
/ di rischio
2008
34
181
83
2009
41
78
52
2010
56
49
86
2011
52
79
124
2012
57
75
89
Totale
255
559
531
Termine
64
Spread
Differenziale/i
Periodo di
Pubblicazioni
riferimento
Banca d’Italia
2007
64
Tra parentesi le occorrenze che fanno riferimento al differenziale di rendimento tra paesi. Per ovvi motivi, la
maggior parte si riferisce all’Italia.
77
Osservazioni ed esempi65
La disamina degli articoli del Sole 24 Ore contenenti il termine spread ha innanzitutto
permesso di seguire da vicino l’evoluzione che ne ha contraddistinto l’uso negli ultimi anni.
Tra il 2007 e il 2008, così come anche negli anni precedenti, l’uso di spread è limitato agli
articoli più specializzati. Esso viene utilizzato in egual misura nelle sue diverse accezioni, in
particolare per indicare le maggiorazioni applicate dagli intermediari sui tassi di interesse di
riferimento per i finanziamenti, il differenziale tra i tassi bancari attivi e passivi, il
differenziale denaro/lettera, i premi dei credit default swap e il differenziale di rendimento tra
titoli di diversa qualità. Quando è utilizzato con quest’ultimo significato vengono sempre
specificati i due termini di paragone, a meno che non si tratti del confronto più frequente tra
obbligazioni societarie ed emissioni sovrane, nel qual caso viene talvolta omesso il secondo.
Nel corso di questi due anni si parla poco di spread tra titoli di Stato e quando avviene è
sempre specificato tra quali di questi ultimi venga effettuato il raffronto. Si noti che questo
dato era già usato allora, così come anche negli anni precedenti ma era semplicemente ignoto
ai più perché meno rilevante in termini economici, politici e sociali.
Secondo i calcoli di Goldman Sachs, lo spread tra i BTp decennali italiani e i Bund tedeschi ha
raggiunto i 43 centesimi dai 27 di fine 2007: […]. (Il Sole 24 Ore, 12.02.2008)
Nel corso del 2009 aumenta la frequenza d’uso del termine per indicare titoli di diversa
qualità, in particolare in riferimento allo scarto tra decennale italiano (o di altri paesi
periferici) e decennale tedesco. Spread è comunque sempre accompagnato dalle dovute
specificazioni. A cavallo tra il 2010 e il 2011 esso registra un improvviso aumento e viene
progressivamente sottinteso il secondo termine di paragone: è ormai cosa nota che il titolo di
riferimento sia il Bund tedesco.
Lo spread dei Btp è aumentato di 7 centesimi a 84 e quello del Portogallo di ben 18 centesimi a
121. (Il Sole 24 Ore, 20.03.2010)
Ma al vero e proprio boom si assiste a partire dalla seconda metà del 2011, con le difficoltà
economico-politiche e gli attacchi speculativi che cominciano a interessare molto da vicino
anche l’Italia. A seguito di questa improvvisa impennata nell’uso del termine, che si protrae
per tutto l’anno successivo, a essere dato per scontato è spesso anche il primo termine di
paragone. In questo periodo, infatti, si parla così spesso di spread che risulta superfluo e
ridondante specificare a cosa si faccia riferimento. Non solo; il termine si carica in modo
65
Le osservazioni sono state limitate all’ambito di interesse, ovvero all’accezione che ha preso rilievo nel corso
della crisi economico-finanziaria.
78
talmente forte di questo significato da farne dimenticare tutte le altre accezioni. Ciò non
significa che non venga più utilizzato in altri contesti, ma semplicemente che gli avvenimenti
e l’invasione di lo spread li facciano passare in secondo piano e che il termine, usato
singolarmente, richiami direttamente il differenziale di rendimento Btp/Bund, cosa che anche
solo nel 2008 sarebbe stata impensabile.
Dunque, è l’agenda del premier e [del] ministro dell’Economia a suggerire che in questi giorni
verranno definite le strategie italiane per tentare di gestire la pesante crisi economica (ieri lo
spread era a quota 474). (Il Sole 24 Ore, 22.11.2011)
Il ritorno dello spread attorno a quota 300 ha segnato una bella tappa nella lenta riconquista di
fiducia dei mercati nell’aggiustamento della finanza pubblica dell’Italia. (Il Sole 24 Ore,
06.12.2012)
La dicitura plurale, in un primo momento più frequente, viene gradualmente sostituita da
quella singolare, lo spread.
«Quello che serve adesso per far restringere in maniera decisiva gli spread dei BTp è innanzitutto
l’adozione di azioni addizionali da parte del Governo italiano, […]». (Il Sole 24 Ore, 05.08.2011)
E con lo spread dei BTp che per un anno ha oscillato tra i 350 e i 500 punti base, né per le banche
né per le imprese è stato possibile raccogliere capitali a costi sostenibili e competitivi. (Il Sole 24
Ore, 30.11.2012)
L’uso progressivamente più disinvolto di spread si nota anche nell’abbandono della sua
funzione anaforica: se inizialmente veniva impiegato per evitare una ripetizione, negli ultimi
due anni si assiste a un’inversione di tendenza e viene sempre più spesso usato in prima
battuta.
«I BTp – dice ancora Luca Cazzulani – hanno ridotto il differenziale di rendimento rispetto alla
Germania fino a 57 punti base ma hanno allargato lo spread nei confronti dei titoli greci proprio
sulle scadenze a 5 e 15 anni, in vista dell’asta di lunedì». (Il Sole 24 Ore, 13.07.2008)
Dopo una mattinata nervosa, segnata dal mancato accordo su Atene, gli spread dei Paesi periferici
sono tornati a scendere, come già avevano fatto martedì. Il differenziale di rendimento tra i
Bund e BTp decennali è passato così da 346 a 341 punti. (Il Sole 24 Ore, 22.11.2012)
Il boom osservato a partire dalla seconda metà del 2011 non è solo confermato dai numeri ma
anche dalla percezione comune.
La reazione è stata immediata, ma a finire ancora una volta nell’occhio del ciclone sono stati i
titoli del Tesoro: l’ormai famigerato spread che segna la distanza fra il rendimento dei decennali
di casa nostra e quelli tedeschi si è allargato fino a 370 punti base, […]. (Il Sole 24 Ore,
10.09.2011)
Anche lo spread, il differenziale tra Btp e Bund che da mesi fa da colonna sonora della crisi
che attraversa la Repubblica italiana, si è mosso attorno ai 370 punti […]. (Il Sole 24 Ore,
30.09.2011)
I market mover? Certamente sempre il solito spread e lo «stress» sul sistema bancario di
Eurolandia. (il Sole 24 Ore, 21.04.2012)
79
Le borse storcono il naso paventando questa volontà di cambiare che arriva dalla Francia e gli
indici sono immediatamente andati in fibrillazione insieme al famoso spread. (Il Sole 24 Ore,
25.04.2012)
Infine, osservando l’evoluzione nell’uso di spread e dei corrispettivi italiani, risulta evidente
come anche questi ultimi siano sì aumentati in risposta agli eventi economici internazionali
ma a un ritmo molto meno marcato rispetto all’anglicismo. Se differenziale (di rendimento) e
premio al rischio (e varianti) tra il 2007 e il 2009 ricorrevano all’incirca con la stessa
frequenza di spread, dal 2010 il sorpasso di quest’ultimo è sorprendente. Il rapporto
complessivo è di 1:3 per il primo e di 1:10 per il secondo.
Allarmati da quello che sta succedendo ad Atene, gli investitori [...] sono tentati di liberarsi dei
bond di uno stato piccolo e povero come il Portogallo. Così però sale il premio al rischio che
Lisbona deve pagare per rifinanziarsi [...]. (Il Sole 24 Ore, 28.04.2010)
Quanto la crisi dei debiti sovrani morde ai fianchi le banche del Vecchio Continente? Tanto, come
testimoniano gli spread in allargamento degli istituti che in fondo non fanno che seguire il
differenziale di rendimento tra i Bund tedeschi e i titoli governativi della zona fragile
dell’euro. (Il Sole 24 Ore, 23.11.2011)
Altresì degno di nota è il fatto che differenziale (di rendimento) e premio al rischio non
abbiano subito un restringimento di significato come spread: viene infatti sempre specificato
a cosa si faccia riferimento.
Come abbiamo già potuto osservare, in inglese spread è una parola comune mentre in italiano
lo è molto meno. Si tratta di un termine esclusivamente tecnico, privo di somiglianze
fonomorfologiche con l’italiano e pertanto oscuro ai non addetti ai lavori. Lo dimostra la fitta
presenza di note linguistiche pubblicate regolarmente sul Sole 24 Ore, nonché il relativamente
frequente uso di glosse esplicative da parte dei giornalisti. Si denota infatti una maggiore
tendenza alla loro aggiunta rispetto agli altri anglicismi analizzati. Su tutte le occorrenze di
spread sono stati rilevati 33 casi nel 2007, 48 nel 2008, 42 nel 2009, 60 nel 2010, 72 nel 2011
e 27 nel 2012 per un totale di 282. Maggiore è anche l’anteposizione di cosiddetto (32 casi).
Nonostante un uso più assiduo di chiarimenti rispetto a quanto osservato per gli altri termini,
la presenza di glosse esplicative rimane comunque limitata se ponderata all’elevata frequenza
del termine. Nella quasi totalità dei casi, infatti, esso viene dato come conosciuto. Infine,
molte delle spiegazioni non sono altro che la traduzione indicata tra parentesi o in un inciso.
La domanda che sorge spontanea è quindi perché non venga utilizzata direttamente quella.
Lo spread (differenziale di rendimento) tra titoli di Stato tedeschi e italiani ondeggia sulla soglia
psicologica di 370 punti base. (Il Sole 24 Ore, 15.10.2011)
Eppure lo spread, il differenziale del rendimento tra i titoli di Stato italiani e tedeschi, si è
molto ridimensionato da quando Mario Draghi ha predisposto il nuovo programma OMTs […]. (Il
Sole 24 Ore, 29.12.2012)
80
Spread è infatti in tutte le sue accezioni un prestito di lusso e coesiste con locuzioni italiane
che esprimono esattamente lo stesso concetto in termini ugualmente tecnici. Il suo uso talvolta
ridondante ne conferma la superficialità e la non essenzialità.
[Il cds] ha oramai un forte ma forse immeritato valore segnaletico: i costi di questi swap negli
ultimi anni si sono conquistati la stessa attendibilità dello spread, del differenziale tra il
rendimento dei titoli di Stato. (Il Sole 24 Ore, 10.06.2010)
Osserviamo ora più da vicino i principali termini e/o le polirematiche corrispondenti in
italiano:
-
Credit spread: differenziale di rendimento, premio al rischio
-
(Bid-ask) spread: differenziale denaro/lettera
-
Spread (tra tassi attivi e passivi): forbice dei tassi bancari, differenziale tra tassi attivi
e passivi
-
Spread (sui finanziamenti bancari): maggiorazione, margine di guadagno
Colpisce immediatamente la maggiore lunghezza delle espressioni italiane rispetto all’inglese.
Il fatto che spread sia un’unità lessicale unica, nonché più breve, è sicuramente uno dei
motivi che induce chi scrive a preferire l’inglese.
Tuttavia, spread ha diverse accezioni e i giornalisti sono pertanto spesso tentati di usare sì il
prestito, ma specificandone il significato nel contesto. Ciò porta alla creazione di traduzioni, o
più precisamente prestiti ibridi, molteplici e ogni volta differenti che potrebbero essere evitati
se si usassero i termini italiani. Citiamo come esempio quelli riferiti a credit spread: spread
creditizio, spread di credito, spread del credito, spread di rendimento, spread di rendimento
dei crediti, spread di mercato, spread sul mercato del credito, spread che remunera il rischio,
spread che compensa il rischio, spread sul credito, spread per il rischio, spread di rischio,
spread sul merito creditizio. In riferimento specificatamente ai titoli di stato vengono ad
aggiungersene altri: spread paese, spread sul rischio paese, spread governativi, spread
sovrani, mentre per esprimere il differenziale di rendimento tra obbligazioni societarie e titoli
di Stato ricorre spesso anche spread obbligazionario. L’uso del termine inglese è pertanto
fonte di un’abbondante proliferazione sinonimica che va ad aggiungere ulteriori varianti ai già
diversi termini esistenti in italiano.
Lo stesso vale per la traduzione di spread nelle glosse. Se ne ritrovano molteplici e ogni volta
diverse66: differenziale, differenza, forbice, divario, maggiorazione, aggiunta, guadagno,
margine di guadagno, rendimento, extra-rendimento, premio di rendimento aggiuntivo,
sovrapprezzo, ricarico, margine, costo extra, differenziale di rendimento, differenza di
66
Si noti che le seguenti fanno riferimento a tutte le accezioni di spread.
81
rendimento, scarto di rendimento, premio al rischio. In conclusione, se la monoreferenzialità
del LEF è compromessa dalla presenza di più sinonimi già solo in italiano, l’uso dell’inglese
concorre a rendere il concetto ancora più indistinto.
Un altro motivo alla base dell’alta frequenza di spread è indubbiamente il fatto che l’inglese
venga percepito come più tecnico. Nell’analizzare l’uso delle glosse esplicative emerge per
esempio che a essere più frequente rispetto a quanto rilevato finora è anche l’uso del termine
alloglotto per puntualizzare l’italiano: 6 casi nel 2007, 15 nel 2008, 12 nel 2009, 21 nel 2010,
18 nel 2011, 8 nel 2012 per un totale di 80. Si osservino ora i seguenti esempi.
Il differenziale di rendimento (chiamato in termini tecnici spread) è un indicatore molto
guardato da economisti e analisti. Funziona infatti un po’ come il termometro della febbre: più
sale, più aumenta la tensione. (Il Sole 24 Ore, 04.03.2008)
L’allargamento della forbice tra i rendimenti di Italia e Germania, che i tecnici chiamano spread,
ha due ordini di ragioni. (Il Sole 24 Ore, 29.10.2008)
Chi scrive sente la necessità di aggiungere l’inglese, senza rendersi conto che la polirematica
italiana è già di per sé un termine specializzato. Questa sensazione soggettiva di maggiore
tecnicità è l’espressione dello snobismo di cui si è già discusso molteplici volte e del prestigio
sociolinguistico che contraddistingue i tecnicismi anglosassoni. L’anglicismo viene quindi a
imporsi sull’italiano per motivi extralinguistici, sostituendo o affiancandosi a termini già
esistenti che presumibilmente non soddisfano più sotto il profilo espressivo. Interessante da
questo punto di vista è l’esempio seguente.
Inoltre, anche lo spread rispetto ai tassi attivi è aumentato significativamente (la famigerata
“forbice” di una volta) e dunque è cresciuto il costo per famiglie e imprese debitrici. (Il Sole 24
Ore, 29.12.2009)
La forbice dei tassi bancari, passa per così dire di moda, diventa il tecnicismo di ieri, e viene
soppiantata da spread, il tecnicismo moderno di oggi.
Spread è inoltre molto più espressivo di differenziale di rendimento. Finché si è trattato di
esprimere concetti limitati al campo della finanza il suo uso e rimasto ristretto ma non appena
è stata questione di occuparsi di eventi di maggiori dimensioni, nonché di portata negativa e
di interesse per l’intera opinione pubblica, questo prestito integrale ha cominciato ad affiorare
ovunque. Spread è breve, immediato, ha un suono accattivante ed è diventato tanto familiare
quanto oscuro. La sua minor trasparenza rispetto ai corrispettivi italiani ne aumenta l’impatto
connotativo; è una minaccia e al contempo un elemento esorcizzante. Dietro a questo
anglicismo si celano i timori dei mercati, le incertezze dei governi e le paure dei cittadini.
Esso è diventato quasi un’entità a sé, viene personificato, è la causa di tutti i mali e il capro
espiatorio per ogni problema e difficoltà. Trovare un responsabile non risolve certo i
82
problemi, ma solleva sicuramente gli animi, e spread è senza dubbio un colpevole più
convincente di differenziale di rendimento.
Un Paese che pur tra contraddizioni e ritardi […] sta facendo i suoi “compiti”. A dispetto, verrebbe
da dire, di uno spread che non molla la presa, incurante dei progressi e del fatto che sotto il
profilo del saldo primario (al netto degli interessi) l’Italia è un Paese ultra-virtuoso. (Il Sole 24
Ore, 29.06.2012)
Perché, nonostante tutto questo, l’Europa è oggi considerata il malato dell’economia mondiale?
Perché non siamo uniti. La nostra sovranità è limitata dal fatto che le nostre politiche sono
dominate dalla paura della speculazione internazionale. […] Paradossalmente, potremmo
concludere che in tutti gli altri Paesi il vero primo ministro, il vero presidente, è Mister
Spread. (Il Sole 24 Ore, 28.09.2012)
L’Italia ieri ha chiuso con discreto successo il collocamento del secondo BTp Italia: il tasso
cedolare reale annuo definitivo è stato fissato al livello minimo garantito, il 3,55%: peccato che
soltanto tre mesi fa, il primo BTp Italia è stato venduto alla pari al 2,45% e il primo giugno, per
colpa dello spread in tensione, il suo prezzo era sceso fino a quota 96,44, per poi iniziare la
risalita. (Il Sole 24 Ore, 08.06.2012)
Di chi è la colpa? La colpa è dello spread. Per gli italiani che vogliono trovare un capro
espiatorio all’austerità che li piega, la spiegazione ha un sapore quasi beffardo. Lo spread non si
vede, non ha un’effigie da bruciare o un’ambasciata sotto cui dimostrare. (Il Sole 24 Ore,
03.09.2012)
I termini differenziale di rendimento e premio al rischio rimangono infatti normali tecnicismi
che, vuoti di qualsiasi impatto soggettivo, non alludono alle immagini, ai pensieri e alle
emozioni che ormai evoca l’anglicismo. Essendo così espressivo, spread si presta bene anche
alla creazione di metafore che con gli equivalenti italiani colpirebbero sicuramente meno il
lettore. Se ne riportano di seguito alcune: febbre degli spread, incubo degli spread, isteria
degli spread, morsa / giogo dello spread, tirannia / dittatura dello spread, spread impazzito,
epoca / era dello spread, umori dello spread, flagellazione dello spread, crisi dello spread,
altalena dello spread, e così via.
Ieri la lancetta dello spread segnava 20 punti base, 3,14% lordo annuo contro 3,34%.
(12.10.2011)
L’Europa dispiega la Bce, che somministra medicinali per curare il mal di spread, e il fondo
salva-Stati fresco di una potenza di fuoco di mille miliardi di euro che dovrà raccogliere l’eredità
dell’Eurotower nell’acquisto di titoli di Stato. (Il Sole 24 Ore, 07.11.2011)
A tutto spread. (Il Sole 24 Ore, 19.11.2011)
A quel punto, anche nel caso in cui il barometro dello spread dovesse continuare a segnare
tempesta, Mario Monti potrebbe ribadire con ancora più forza quanto già detto nelle ultime ore: il
Governo ha fatto tutto quello che doveva. (22.07.2012)
Le caratteristiche del termine spread descritte finora lo rendono ideale anche per i titoli, dal
momento che permette di condensare in un’unica breve parola un concetto complesso e lungo
da descrivere, nonché ad attirare l’attenzione del lettore grazie al peso connotativo che lo
83
contraddistingue. Si pensi per esempio che nel 2012, in 755 degli articoli in cui compare
spread, ovvero in un quarto, esso è usato nel titolo.
Lo strano caso degli spread che lievitano nel weekend (13.10.2011)
Effetto-Spagna, lo spread risale a 450 (29.08.2012)
L’anno di Monti, dallo spread alle dimissioni (30.12.2012)
Spread è penetrato così violentemente nella lingua che ha cominciato a essere preso in
prestito anche per descrivere questioni legate ad altri contesti.
Quanto vale lo spread della clandestinità? Quant’è grande la differenza tra lo straniero che ha già
il permesso di soggiorno e chi vive e lavora in Italia ancora da irregolare? Non ci sono numeri per
calcolarlo. (Il Sole 24 Ore, 19.09.2012)
Sale lo spread educativo tra Italia e Germania. Lo rileva un confronto tra i sistemi di istruzione
dei due Paesi condotto da Fondazione Rocca e Associazione Treellle. (Il Sole 24 Ore, 22.09.2012)
Dalla sentenza non passa la condanna dell’amministratore pasticcione e avventato, ma quella dello
scienziato che ha sottovalutato il pericolo. Il rischio di esporci al ridicolo di fronte alla comunità
scientifica internazionale è molto alto. Un altro spread, un’altra stravaganza italiana di cui non
si sentiva il bisogno. (Il Sole 24 Ore, 23.10.2012)
Tuttavia, la larghissima circolazione del prestito non ha certo diminuito la complessità che vi
si cela dietro. Siamo certi che un’ampia diffusione sia sinonimo di maggiore comprensione?
Probabilmente no. Non è rara la mancata o imprecisa comprensione da parte dei giornalisti
del vero significato della parola. Come emerge dagli esempi seguenti, se tra gli autori degli
articoli vi è chi è cosciente del fatto che spread significhi solo differenziale, altri vi
ricollegano l’intero concetto di differenziale di rendimento.
Anche il costo dei credit default swap sul debito sovrano dei paesi europei a maggior rischio s’è
ampliato, come pure gli spread (differenziale) tra i rendimenti dei loro titoli del tesoro rispetto al
bund tedesco. (il Sole 24 Ore, 09.02.2010)
La minaccia di una ristrutturazione del debito greco ha fatto salire il tasso dei titoli decennali sopra
il 14% e lo spread (differenziale di rendimento) con il bund tedesco si è allargato a 1.061 punti
base, ai massimi. (Il Sole 24 Ore, 19.04.2011)
Ma non mancano neanche i casi in cui chi scrive ignori completamente il significato del
termine e usi espressioni prive di senso come differenziale dello spread, dove i due elementi
lessicali sono di fatto equivalenti, o consideri spread e premio a rischio come due concetti
distinti, quando si tratta invece di sinonimi.
[La manovra “salva Italia”] Vale circa 20 miliardi, l’obiettivo è il pareggio di bilancio alla fine del
2013. Il 5 dicembre i mercati promuovono la manovra e il differenziale dello spread crolla a 373
punti base, dopo il picco a 575. (Il Sole 24 Ore, 15.07.2012)
Secondo il Crédit agricole, il rating medio dei PIGS è peggiorato rapidamente da “AA” alla
“BBB”: con un impatto non trascurabile sugli spread e sul premio a rischio di questi paesi. (Il
Sole 24 Ore, 19.06.2011)
84
Lo stesso vale per l’opinione pubblica. Gran parte delle persone non conosce il vero e proprio
senso di spread, nonostante sia cosciente del fatto che il suo aumento rappresenti un segnale
negativo, mentre il suo abbassamento indichi un miglioramento della situazione. Non è da
escludere che a favorire questa percezione del termine siano stati i mass media, tra cui i
giornali, che invece di optare per la scolarizzazione del lettore e spiegare in modo oggettivo il
concetto hanno preferito romanzarci sopra.
Insomma lo spread tra Bund tedeschi e BTP (il termometro del rischio Paese) non lascia molti
margini di manovra al Governo seppure non si possa lasciare tutto ai soli stabilizzatori automatici.
(Il Sole 24 Ore, 26.11.2008)
L’allargamento degli spread – sinonimo di tensione – ha poi coinvolto tutti gli altri paesi
cosiddetti “periferici”: Spagna, Portogallo, Italia e Grecia. (Il Sole 24 Ore, 13.08.2010)
Incredibile a dirsi, mentre il robot Curiosity sgambetta su Marte, occorre ribadire l’importanza del
termometro (lo spread) come strumento che misura la febbre finanziaria di una nazione. (Il
Sole 24 Ore, 12.12.2012)
Indubbiamente il restringimento di significato non ha aiutato da questo punto di vista, giacché
proprio nel momento in cui il termine invadeva il linguaggio comune, si è smesso di
specificare a cosa facesse riferimento.
Oltre a quelle più scontate quali spread tra Btp e Bund, e relative varianti, o ancora aumento e
abbassamento dello spread, e sinonimi, alcune collocazioni ricorrenti per spread sono: effetto
spread, caro spread e scudo anti-spread.
L’esplosione dell’uso di spread non ha risparmiato nemmeno gli economisti della Banca
d’Italia. Tra il 2007 e il 2012, infatti, si osserva un chiaro aumento nell’uso dell’anglicismo
anche nelle pubblicazioni ufficiali dell’istituto centrale italiano, seppur non paragonabile a
quello emerso dallo spoglio degli articoli del Sole 24 Ore. L’analisi delle traduzioni della
BCE, invece, evidenzia una permeazione del prestito inglese limitatissima e nessun aumento
degno di nota nel corso del periodo di riferimento.
Nel complesso il termine alloglotto rimane comunque in ombra rispetto ai corrispettivi
italiani, di gran lunga più frequenti, sia nell’ambito del debito sovrano che per le altre
accezioni. La predilezione per il termine endogeno risulta più marcata nelle traduzioni della
BCE. Nel manuale per la traduzione non vi è alcuna indicazione per credit spread, seppur
venga fornita una resa ben precisa per credit risk spreads, ovvero differenziali di rischio di
credito. Nonostante credit risk spread non ricorra mai nei testi di partenza, è possibile che
questa indicazione induca i traduttori e i revisori a evitare di lasciare il termine esogeno
spread.
85
L’anglicismo è inoltre impiegato con maggior discernimento e criterio rispetto a quanto
osservato negli articoli del quotidiano economico. Infatti, osservandone più da vicino le
occorrenze con il significato di differenziale di rendimento tra titoli governativi, emerge che
nella maggior parte dei casi e per tutto il periodo in rassegna esso è usato in senso anaforico
per evitare una ripetizione con il termine italiano.
Dalla prima metà del 2008 il differenziale di rendimento fra i titoli di Stato italiani decennali e
i corrispondenti titoli tedeschi si era ampliato fino a superare i 150 punti base alla fine di gennaio
del 2009; alla metà del successivo mese di maggio era pari a circa 90 punti. L’aumento degli
spread nei confronti dei titoli di Stato tedeschi ha interessato anche gli altri paesi dell’area
dell’euro. Il differenziale sui titoli greci e irlandesi a metà maggio era ancora dell’ordine di 170
punti base. (Relazione annuale sul 2008, Banca d’Italia)
Il deterioramento dei conti pubblici alimenta i timori sulla sostenibilità del debito e amplia i premi
per il rischio di credito sovrano. Nell’area dell’euro, lo spread rispetto ai titoli pubblici
tedeschi è molto elevato in Grecia, Irlanda e Portogallo, dove i tassi a lungo termine sono saliti in
misura significativa. (Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia, dicembre 2010)
Nell’area dell’euro i differenziali delle obbligazioni pubbliche (rispetto alla Germania) si sono
considerevolmente ampliati il 6 maggio, soprattutto nel caso della Grecia (cfr. figura A). Le
potenziali ricadute su altri emittenti sovrani dell’area dell’euro – […] – hanno richiamato crescente
attenzione tra gli osservatori. Il 7 maggio gli spread dei titoli di Stato a 10 anni si collocavano ai
massimi storici […]67. (Bollettino mensile della BCE, giugno 2010)
Quando invece è utilizzato in prima battuta è sempre seguito da una specificazione. Non si
ritrova quasi mai privo di termini di paragone e in quei rari casi in cui ciò accade, è perché la
frase che precede o segue il termine permette di collocarlo chiaramente nel contesto.
Gli spread sovrani particolarmente elevati che si registrano in più paesi a causa dei timori di
reversibilità dell’euro, se persistenti, deprimerebbero la crescita: nostre stime indicano che un
aumento degli spread sovrani tra Italia e Germania di 100 punti base per la scadenza decennale
e di 50 punti base per quella annuale abbasserebbe la crescita del PIL dell’Italia di quasi tre decimi
di punto percentuale in ciascuno dei prossimi due anni. (Rapporto sulla stabilità finanziaria della
Banca d’Italia, novembre 2012)
A tale riguardo, il rapporto contiene un semplice esercizio econometrico per quantificare gli effetti
dei rischi di credito e quelli di liquidità sugli spread dei titoli di Stato prima e dopo l’inizio delle
turbolenze.68 (Bollettino mensile della BCE, aprile 2009)
Come è possibile osservare nell’esempio riportato sopra, nelle traduzioni della BCE viene
spesso presa ancor più distanza dal termine inglese, che in diversi casi è scritto in corsivo.
Quanto osservato permette di concludere che in questi ambiti altamente specializzati spread
non solo non si è imposto così pesantemente come nei mass media, né ha soppiantato i
termini corrispondenti italiani, ma non ha neanche subito quel netto restringimento di
67
In the euro area, sovereign bond spreads (vis-à-vis Germany) widened considerably on 6 May, especially in
the case of Greece (see Chart A). Potential spillovers to other euro area sovereign issuers, […], gained increasing
attention among market commentators. On 7 May ten-year sovereign bond spreads were at record highs […].
68
In this respect, the report contains a simple econometric exercise to quantify the effects of credit and liquidity
risk on government spreads before and after the beginning of the turmoil.
86
significato osservato nel Sole 24 Ore e nel linguaggio comune. Ciò è riconducibile con molta
probabilità al fatto che ci sia maggior coscienza del significato del termine nonché delle
molteplici accezioni che lo contraddistinguono.
Infine, nelle pubblicazioni ufficiali non si ritrovano tutte le varianti di credit spread rilevate
nel Sole 24 Ore, ad eccezione di spread sovrano/i e di poche occorrenze per spread creditizi/o
(4 nelle pubblicazioni della Banca d’Italia e 2 in quelle della BCE). Ciò implica una maggiore
univocità terminologica, che a sua volta risulta in una più elevata trasparenza e chiarezza del
concetto.
Conclusioni
Come già osservato, a seguito della crisi finanziaria l’uso del termine spread è esploso,
permeando il linguaggio comune. L’uso così assiduo del lessema ne ha ristretto
considerevolmente il significato, portandolo a coincidere con differenziale di rendimento tra
Btp italiani e Bund tedeschi. In ambito altamente specializzato questo mutamento di
significato non ha avuto luogo, perlomeno a livello scritto. Essendo gli esperti coscienti delle
diverse accezioni di spread, essi hanno continuato a usarlo come termine generico che
necessita di essere contestualizzato. Analogamente, non hanno cessato di prediligere i
corrispettivi italiani, trascurati invece in misura crescente dai giornalisti. Spread è infatti
molto più breve, più espressivo, più atto a fare notizia e a suscitare emozioni nel lettore
rispetto ai corrispettivi endogeni.
Infine, l’analisi di questo termine mostra chiaramente come il linguaggio economico e
finanziario italiano sovrabbondi di sinonimi. Già differenziale di rendimento e premio al
rischio sono due lessemi distinti ma con significati equivalenti e spread ha concorso ad
aumentare la schiera di sinonimi. Ciononostante, nelle pubblicazioni della Banca d’Italia e
della BCE emerge una maggiore omogeneità terminologica rispetto agli articoli del Sole 24
Ore.
7. SUBPRIME
Definizioni in inglese e in italiano di subprime
Sub-prime mortgages. A mortgage typically granted to an individual with a low credit rating and a high risk
of default. The interest rate on the mortgage will be higher than on a mortgage granted to an individual with a
higher credit rating in order to compensate the lender for a higher risk of default. (Oxford Dictionary of
Economics 2012)
87
Subprime. Sono prestiti immobiliari concessi a soggetti a rischio ovvero a debitori che sono stati già
insolventi o che non danno garanzie circa i propri redditi o le proprie attività. (Il nuovo ABC dell’economia, Il
Sole 24 Ore)
Origine e sviluppo del termine
Come è possibile evincere dalla descrizione dell’evolversi della crisi, a differenza degli altri
termini analizzati subprime rimanda a una realtà prettamente statunitense.
Subprime (o sub-prime) è un aggettivo inglese composto da prime e dal prefisso sub-. Prime
deriva dal latino primus, “primo”, e significa “di prima qualità”, “di primaria importanza”.
Letteralmente subprime vuol dire “sotto il primo” e a differenza di prime, che presenta diverse
accezioni, è usato solo nel mondo del credito. I subprime mortgages si contrappongono ai
prime mortgages, ovvero i mutui di qualità primaria, concessi a debitori con un merito di
credito più solido.
L’aggettivo subprime, altamente eufemistico, ha origini recenti. È in uso nella lingua inglese
solo dal 1978 anche se si è imposto soprattutto a partire dal 1996 quando ha sostituito
l’espressione, fino ad allora preferita, below-prime (etymonline.com/subprime, Safari 2007).
Nel 1977, infatti, negli Stati Uniti è stato varato il Community Reinvestment Act (CRA),
mirato a incoraggiare la concessione di mutui anche a persone a basso reddito. Nella seconda
metà degli anni Novanta il CRA sortisce i suoi effetti e si assiste a una progressiva crescita
nella concessione di prestiti subprime, continuata ininterrottamente fino al collasso finanziario
del 2007.
Fino al 2005 l’aggettivo subprime è rimasto un termine relegato al settore bancario. A partire
da quell’anno, però, con i primi segnali di instabilità sui mercati finanziari il termine inizia
un’altra scalata: quella dei media. Agli inizi del 2007 la parola è ovunque: sono proprio questi
mutui a innescare una crisi finanziaria senza precedenti. Il termine diventa così frequente
nella lingua inglese che l’American Dialect Society lo vota parola dell’anno per il 2007. Dopo
lo scoppio della crisi non tarda a essere introdotto anche nella maggior parte dei dizionari: se
nell’edizione del 2005 del NOAD e in quella del 2007 del CD il lemma non figurava, nelle
edizioni successive, rispettivamente del 2010 e 2009 esso è stato aggiunto.
Come abbiamo potuto osservare nel capitolo 5, i mutui subprime cartolarizzati hanno
interconnesso la finanza mondiale, esponendo banche di tutto il mondo al rischio insolvenza.
Quando quest’ultimo si è concretizzato, i problemi non hanno riguardato solo gli Stati Uniti,
dove questi mutui erano stati concessi e utilizzati per creare strumenti derivati, ma anche gli
altri Paesi con un effetto domino senza eguali. Seppur l’Italia fosse meno esposta a questi
88
rischi, l’entità della crisi è stata tale da non lasciare neanche il nostro paese all’oscuro di
questo termine che non ha tardato a diffondersi.
Esso è entrato nella lingua italiana proprio con lo scoppio della crisi. Nella banca dati del Sole
24 Ore vi sono alcune occorrenze per subprime negli anni precedenti ma sono rarissime: 13
tra il 2002 e il 2006. Il termine è stato assorbito senza alcun adattamento anche se è entrato
non solo come aggettivo, ma anche come sostantivo. Esso è stato usato con elevata frequenza
anche nella nostra lingua e nel 2009, per esempio, viene introdotto nei vocabolari DO e
Garzanti.
Frequenza
Periodo di
Pubblicazioni
Termine
Pubblicazioni BCE
Il Sole 24 Ore
riferimento
Banca d’Italia
Subprime / sub-
2007
28
15
1482
prime
2008
56
35
1823
2009
14
25
396
2010
1
5
249
2011
0
2
268
2012
0
4
174
Totale
99
86
4392
(Mutui) di qualità
2007
0
37
3
non primaria
2008
0
5
1
2009
0
1
0
2010
0
0
0
2011
0
0
0
2012
0
0
0
0
43
4
6
1
30569
Totale
Altre perifrasi
2007-2012
Osservazioni ed esempi
Come accennato nella sezione precedente, subprime è un termine legato al contesto
economico statunitense (un realia per dirlo come Vlahov e Florin), privo di equivalenti in
italiano. In presenza di un termine problematico come questo anche gli autori e i traduttori
69
Stringhe di parole cercate: “mutui usa/americani/statunitensi”, “mutui ad alto rischio”, “mutui a rischio”,
“prestiti usa/americani/statunitensi”, “mutui spazzatura”, “mutui immobiliari + a rischio”, “mutui immobiliari +
ad alto rischio”, “mutui ipotecari usa/americani/statunitensi”, “mutui residenziali usa/americani/statunitensi”,
“mutui tossici”. Sono state computate solo le occorrenze in cui si fa effettivamente riferimento ai mutui subprime
ed escluse quelle in cui l’espressione è corredata dall’aggettivo subprime.
89
delle pubblicazioni ufficiali hanno un minor margine di manovra. Non è un caso, infatti, che
per la prima volta nel quadro della presente analisi, essi ricorrano più frequentemente al
termine inglese che a perifrasi descrittive endogene.
La turbolenza si è diffusa rapidamente ad altri paesi, in particolare a quelli europei, dove numerosi
intermediari detenevano in portafoglio prodotti finanziari strutturati basati su mutui sub-prime
statunitensi. (Bollettino della Banca d’Italia, dicembre 2007)
All’origine di queste tensioni vi era l’accresciuta incertezza sulla natura e sull’entità
dell’esposizione degli intermediari finanziari ai rischi di credito e di liquidità, generati in
particolare dal mercato statunitense dei mutui subprime e da connessi strumenti derivati70.
(Bollettino economico della BCE, gennaio 2008)
Tuttavia, come negli esempi riportati sopra, il termine è sempre scritto in corsivo.
Questo espediente tipografico denota una presa di distanza dall’anglicismo e segnala al
lettore l’uso di un tecnicismo nuovo e alloglotto.
I dati raccolti evidenziano però una differenza degna di nota tra i testi della Banca d’Italia e
quelli della BCE. Nei secondi, infatti, sono piuttosto numerosi anche i casi in cui l’estensore
ha tentato di fornire una versione italiana del termine, mentre nelle analisi della Banca d’Italia
è usato quasi esclusivamente l’aggettivo inglese subprime. Il corrispettivo italiano che si
ritrova nelle traduzioni della BCE è quasi sempre lo stesso, ovvero di qualità non primaria.
Dietro a questa uniformità terminologica si nascondono linee guida ben definite. Nel manuale
per la traduzione delle pubblicazioni della BCE, infatti, viene indicata una resa precisa per
subprime mortgage market, ovvero mercato dei mutui di qualità non primaria. Ciò non ha
certo frenato l’impiego dell’anglicismo ma ha favorito da una parte un uso abbastanza
frequente anche di un equivalente italiano e dall’altra una pressoché perfetta univocità nelle
soluzioni traduttive. Solo una volta si trova un’alternativa, che si discosta comunque poco da
quanto consigliato: di bassa qualità.
Nel corso del 2007 i mercati finanziari sono stati scossi dalle notizie che erano rapidamente
aumentate le inadempienze per i mutui ipotecari di qualità non primaria concessi nel 2005 e nel
200671. (Bollettino mensile della BCE, agosto 2007)
Nei mesi successivi il cambio con lo yen ha mostrato ampie variazioni che hanno in generale
riflesso il rapido mutare delle aspettative circa la volatilità dei prezzi delle attività, riconducibile
soprattutto alle tensioni sul mercato dei mutui statunitensi di qualità non primaria e agli effetti
indiretti delle stesse su altri segmenti di mercato72. (Bollettino mensile della BCE, marzo 2008)
70
These tensions have emerged as a consequence of heightened uncertainty regarding the nature and extent of
financial intermediaries’ exposure to credit and liquidity risks, notably stemming from the US sub-prime
mortgage market and associated derivative instruments.
71
In the course of 2007, financial markets were shaken by the news that delinquencies in subprime mortgages
extended in 2005 and 2006 had increased rapidly.
72
In subsequent months, the euro-yen exchange rate fluctuated widely, broadly reflecting swift changes in
market expectations about asset price volatility, originating mainly from strains in the US sub-prime mortgage
market and their spillover effects to other market segments.
90
Si noti tuttavia che l’uso del fraseologismo italiano è concentrato principalmente nel 2007 a
fronte di un uso limitato di subprime. Dal 2008 si osserva un’inversione di tendenza: il primo
diminuisce notevolmente per non essere poi più usato a partire dal 2010, mentre il secondo
prende il sopravvento già a partire dal 2008. L’uso di subprime cala con l’avvento del 2010,
ma ciò è dovuto semplicemente al fatto che la questione dei mutui subprime da quell’anno sia
diventata meno rilevante. Questa osservazione permette di concludere che se inizialmente,
quando il fenomeno era nuovo, si è tentato di dare una traduzione in italiano, la graduale
conoscenza della questione nel mondo economico e finanziario ha fatto abbandonare questo
atteggiamento addomesticante lasciando che prendesse piede l’inglese.
Nelle pubblicazioni della Banca d’Italia i casi in cui viene usata una locuzione endogena
anziché subprime sono solo 6 e le soluzioni sono diverse tra loro: (mutui ipotecari)
statunitensi, ad alto rischio, (mutui ipotecari) esposti al rischio di insolvenza.
Dallo spoglio degli articoli del Sole 24 Ore è emerso che anche in questi ultimi vengono
talvolta usate locuzioni italiane al posto di subprime, sebbene il loro uso sia estremamente
limitato rispetto alla frequenza dell’anglicismo. Non vi è un corrispettivo unico dal momento
che probabilmente ogni giornalista dà la propria traduzione. Ricorre tuttavia abbastanza
frequentemente l’uso di a rischio o ad alto rischio.
«Non abbiamo nessun fondo che investa nel settore dei mutui americani a rischio» hanno
sottolineato dagli uffici di via Minghetti a Roma. (Il Sole 24 Ore, 10.08.2007)
A livello mondiale, svalutazioni e perdite sui crediti causate dalla crisi dei mutui statunitensi ad
alto rischio hanno raggiunto 245 miliardi di dollari […]. (Il Sole 24 Ore, 11.04.2008)
È interessante notare come la scelta traduttiva effettuata per le pubblicazioni della BCE guardi
alla qualità, mentre quella prediletta dai giornalisti ponga l’accento sul rischio. Come in molti
altri casi, è possibile riconoscere in questa scelta la maggior oggettività e precisione dal punto
di vista economico delle pubblicazioni ufficiali, e la preferenza per soluzioni a effetto del
gergo giornalistico. L’espressione a rischio ha infatti un peso connotativo più forte rispetto a
di qualità non primaria. Altre due locuzioni utilizzate più volte sono mutui tossici e mutui
spazzatura.
A contribuire a questo nuovo primato britannico in Europa ci sono i maxi-salvataggi delle banche
della City trascinate dal crollo dell’immobiliare e dai mutui spazzatura, mentre il Belpaese può
vantare, nel suo attivo, banche più solide e prudenti e un’economia più articolata nel
manifatturiero. (Il Sole 24 Ore, 25.06.2009)
L’istituto [Anglo Irish Bank] alle prese con il conferimento di asset tossici al National Asset
Management, […], deve gestire 35 miliardi di euro di mutui tossici. (Il Sole 24 Ore, 19.06.2010)
91
Inoltre,
di
frequente
gli
autori
degli
articoli
generalizzano
e
usano
mutui
usa/americani/statunitensi per indicare il comparto subprime, una scelta imprecisa che rischia
di essere fuorviante. Nel passaggio seguente sembra per esempio che la crisi sia stata
scatenata dall’intero mercato del credito ipotecario.
La fuoriuscita da un lato dai titoli azionari, dall’altro dalle obbligazioni societarie che hanno perso
molto terreno per la crisi scatenata dai mutui americani, ha fatto dirottare la liquidità sui titoli di
Stato, tornati a rappresentare un “bene rifugio”. (Il Sole 24 Ore, 16.09.2007)
La stessa imprecisione si riscontra anche nelle pubblicazioni della Banca d’Italia, ma un’unica
volta. Le restanti perifrasi descrittive utilizzate negli articoli del quotidiano non si ripetono. Di
seguito alcuni esempi: mutui usa non solvibili, mutui usa di minor qualità, mutui americani
concessi a persone poco abbienti, mutui americani ad alto rischio di insolvenza, mutui
americani poco affidabili, rischiosissimi mutui usa, ecc.
Questa strategia traduttiva rimane tuttavia limitata e a imperare è l’uso dell’anglicismo. Dal
momento che subprime non solo è un termine esogeno, ma descrive anche un concetto
inesistente in Italia e fino a non molti anni fa poco conosciuto, ci si aspetterebbe di ritrovare
negli articoli del Sole 24 Ore abbondanti spiegazioni del termine volte a guidare il lettore.
Eppure se ciò è vero fino all’estate del 2007, tra i giornalisti subprime non tarda ad essere
dato per conosciuto. Prendiamo in considerazione a titolo esemplare il 2007: prima del 9
agosto, quando ancora la crisi dei mutui subprime non era scoppiata e il fenomeno era
conosciuto solo dagli esperti del settore, delle 260 occorrenze per subprime, 110 presentavano
una glossa esplicativa (più o meno precisa), ovvero quasi la metà.
Wall Street, a marzo, ha dovuto fare i conti con i tracolli, in appena due mesi, di una ventina di
istituti di credito specializzati nell’erogazione di mutui sub-prime, ovvero a clienti con
caratteristiche di solvibilità finanziaria individuale inferiori agli standard migliori. (Il Sole 24
Ore, 24.03.2007)
«Il problema dei subprime, i mutui più fragili, schiaccia il dollaro», ha commentato Jens
Nordvig, di Goldman Sachs. (Il Sole 24 Ore, 13.07.2007)
Dopo il 9 agosto, con lo scandalo BNP Paribas e il concretarsi della crisi, l’uso del termine
aumenta significativamente, incluso nei mass media, mentre in una logica inversamente
proporzionale le spiegazioni si fanno improvvisamente più rare: sui 1222 articoli che trattano
di subprime apparsi tra il 9 agosto e il 31 dicembre 2007, solo in 42 viene spiegato di cosa si
tratta. Vi è tuttavia da chiedersi se il fatto che un argomento sia di grande attualità vada
sempre di pari passi con un’effettiva conoscenza dello stesso.
92
Negli Stati Uniti lo stock dei subprime rappresenta poco più del 10% del mercato totale: solo nel
2005 e nel 2006, secondo Lehman brothers, sono stati stipulati mutui subprime per un totale di
800 miliardi. (Il Sole 24 Ore, 19.08.2007)
I subprime hanno prodotto un effetto a cascata: anche per le operazione in precedenza finanziate
normalmente ora è scattata la diffidenza. (Il Sole 24 Ore, 04.02.2008)
Nelle traduzioni della BCE vi sono solo 7 casi in cui viene data una spiegazione per subprime,
mentre nelle pubblicazioni della Banca d’Italia 5.
Sia nelle pubblicazioni della Banca d’Italia che nelle traduzioni della BCE subprime è
impiegato pressoché sempre in funzione di aggettivo, come in inglese, per qualificare
innanzitutto i mutui, ma anche i mutuatari e il comparto in questione. Solo in 3 casi è usato
come sostantivo. A utilizzarlo abbondantemente in questo modo, in quello che possiamo
definire un prestito decurtato per subprime mortgages, è invece la stampa dove in circa la
metà delle occorrenze è impiegato in funzione di sostantivo.
In un’intervista al Sole 24 Ore, l’amministratore delegato di Bnp Paribas, Baudouin Prot, difende
le scelte della banca francese che il mese scorso ha temporaneamente congelato tre fondi esposti
verso i subprime: «Abbiamo tutelato i risparmiatori». (Il Sole 24 Ore, 08.09.2007)
In ottobre la Federazione degli istituti di credito nigeriani ha comunicato che le banche del Paese
non sono al momento influenzate dalla crisi dei mercati finanziari statunitensi e europei, non
avendo partecipato al mercato dei subprime. (Il Sole 24 Ore, 28.10.2008)
Seppure nella maggior parte dei casi il sostantivo subprime indichi i mutui, è altresì comune
che si riferisca ai mutuatari o all’intero settore del mercato del credito ipotecario in questione.
In quest’ultimo caso si ritrova pertanto al singolare. Come per le pubblicazioni ufficiali, gli
stessi usi si ritrovano anche quando è usato in funzione di aggettivo.
E soprattutto per le insolvenze tra i subprime (mutuatari meno affidabili) e il rischio di fallimento
di chi ha investito nei derivati costruiti sui mutui più scalcinati. (Il Sole 24 Ore, 23.06.2007)
Fece una premessa di carattere macroeconomico: che il mercato immobiliare americano era in
bolla speculativa, che i prezzi delle case sarebbero caduti nei mesi successivi e che tantissimi
mutuatari subprime non sarebbero stati più in grado di pagare le rate. (Il Sole 24 Ore,
20.04.2010)
In alcuni casi le società potrebbero, tra i crediti, possedere diverse tranche di notes, con diversi
livelli di seniority e con differenti livelli di esposizione al sub-prime. (Il Sole 24 Ore, 04.03.2009)
Contrariamente a quanto molti credono, l’esposizione di Northern Rock al settore subprime era e
resta estremamente limitata. (Il Sole 24 Ore, 25.03.2008)
Nelle pubblicazioni ufficiali si osserva una maggiore tendenza a contestualizzare il concetto
di subprime, in altri termini viene quasi sempre specificato che questa categorica di mutui
appartiene alla realtà statunitense. Al contrario, negli articoli sul Sole 24 Ore accade spesso
93
che ciò venga tralasciato e dato per scontato anche quando, come nel caso del primo esempio,
nell’articolo non si accenna in alcun modo al paese oltreoceano.
Certo la vicenda dei mutui subprime non è servita a niente se il Presidente dell’Antitrust pensa,
proponendo strane autentiche bancarie, di istituzionalizzare una situazione di grave conflitto di
interessi in cui il consumatore sarebbe abbandonato a se stesso. (Il Sole 24 Ore, 21.02.2008)
I mercati finanziari italiani, caratterizzati fino allo scorso luglio da condizioni distese, hanno
risentito nella restante parte del 2007 delle tensioni mondiali innescate dal mercato dei mutui
ipotecari subprime statunitensi. (Relazione annuale sul 2007, Banca d’Italia)
Le collocazioni più frequenti sono principalmente tre: mutui ipotecari s. (e varianti: mutui s.,
mutui residenziali s., mutui immobiliari s., prestiti s., crediti ipotecari s.), crisi dei mutui s. (e
varianti: crisi dei s., crisi s.) e comparto/settore/mercato dei mutui s. (e varianti:
comparto/settore/mercato dei s., comparto/settore/mercato s.).
Con la crisi dei subprime il giochino di indebitarsi a breve (con tassi più bassi) per finanziare a
lungo (a tassi più alti) è finito. (Il Sole 24 Ore, 11.10.2011)
Le turbolenze finanziarie iniziate ai primi di agosto del 2007 a seguito della crisi dei mutui
subprime statunitensi hanno creato una situazione di incertezza nei mercati finanziari […] 73.
(Bollettino economico della BCE, novembre 2008)
La politica le [Freddie Mac e Fannie Mae] ha sempre spinte ad abbassare i criteri di acquisto, fino
ad entrare anche nel mercato dei subprime, e di altri mutui a rischio. (Il Sole 24 Ore, 29.04.2009)
L’incidenza degli avvii di procedure esecutive sui mutui residenziali in essere è ancora aumentata
nel secondo trimestre, soprattutto per quelli a tasso variabile e non solo nel comparto subprime.
(Bollettino economico della Banca d’Italia, ottobre 2008)
Conclusioni
Il confronto tra i tre corpus ha fatto emergere diverse strategie per la resa di subprime, un
termine privo di equivalenti in italiano. La prima è quella osservata nelle traduzioni della
BCE dove all’uso di subprime si accompagna quello di un’unica equivalenza descrittiva
stabilita a monte. La seconda consiste nella non traduzione dell’anglicismo che viene
mantenuto nella lingua di partenza; contraddistingue le pubblicazioni della Banca d’Italia, gli
articoli del Sole 24 Ore e, in un secondo momento, anche le traduzioni della BCE. Infine, sul
quotidiano e, in misura minore, nelle analisi della Banca d’Italia, si nota un uso non
regolamentato di svariate traduzioni del termine. Questa pluralità terminologica crea tuttavia
un effetto confuso e rende la comprensione più nebulosa. A questo punto, se non è possibile
garantire una certa uniformità traduttiva come nel primo caso, è forse meglio lasciare il
termine nella lingua di partenza.
73
The financial turmoil which started in early August 2007 as a result of the US sub-prime mortgage crisis has
led to uncertainty in financial markets, […].
94
Il tentativo di normazione promosso dai traduttori delle pubblicazioni della BCE non ha avuto
il successo probabilmente sperato in un primo momento, poiché è stato presto sostituito dal
termine d’origine. Possiamo supporre che la lunghezza della perifrasi ne abbia pregiudicato la
funzionalità.
Dato il pubblico di esperti, nelle pubblicazioni ufficiali il termine raramente è spiegato ma è
generalmente accompagnato da specificazioni che possono guidare il lettore nella
comprensione (specificazione che si tratta di un fenomeno statunitense, esplicitazione del
termine a cui fa riferimento). Diversamente, negli articoli del Sole 24 Ore, dove sarebbero
auspicabili maggiori chiarimento e aiuti al lettore, le glosse esplicative sono poche, spesso
subprime è utilizzato come sostantivo sottintendendo a cosa faccia riferimento e non sempre è
specificato che si tratta di un fenomeno prettamente americano. In altri termini vengono
forniti meno aiuti alla comprensione.
7. Conclusioni
L’analisi dei singoli termini ha dimostrato la tesi sostenuta inizialmente secondo la quale gli
articoli del Sole 24 Ore sarebbero più infarciti di anglicismi e talvolta di più difficile
comprensione rispetto alle pubblicazioni ufficiali della Banca d’Italia e a quelle della Banca
centrale europea nella loro versione italiana. Di seguito sono riassunte le tendenze generali
emerse.
Tutti gli anglicismi analizzati, eccezion fatta per subprime, sono prestiti di lusso dal momento
che coesistono con uno o più termini endogeni dal significato corrispondente. La ricerca ha
confermato, per ogni termine passato in disamina, l’abbondante uso dei prestiti inglesi nel
Sole 24 Ore e la predilezione per i corrispettivi italiani nelle pubblicazioni della Banca d’Italia
e nelle traduzioni della BCE. Più precisamente, nel quotidiano tutti i prestiti non adattati,
esclusi bailout e austerity, presentano un grado d’uso nettamente superiore a quello dei
termini endogeni mentre nelle pubblicazioni ufficiali il primato spetta pressoché sempre
all’italiano, con l’eccezione di rating per le traduzioni della BCE e di subprime per la totalità
delle pubblicazioni ufficiali.
Le osservazioni e gli esempi fatti nel quadro della presente analisi linguistica corroborano
quanto sostenuto nella sezione teorica riguardo ai motivi alla base dell’abuso di anglicismi
nella stampa. Innanzitutto esso è riconducibile al prestigio della nazione nella quale questi
termini nascono. Si tratta nel presente caso degli Stati Uniti che mantengono il loro primato in
ambito economico-finanziario, e quindi a livello terminologico, anche in periodi di dissesto.
Lo conferma il fatto che pure la crisi economica e finanziaria sia stata un focolaio di
95
diffusione per numerosi termini anglosassoni il cui uso, prima molto limitato, è andato
aumentando con il peggiorare della situazione (v. spread, credit crunch, bailout, default).
L’aura di prestigio che circonda i prestiti concorre a nobilitarli e a posizionarli un gradino
sopra i loro corrispettivi italiani. Questa superiorità percepita da chi legge e da chi scrive si
traduce anche in una maggiore tecnicità, di fatto, però, solo apparente giacché gli equivalenti
autoctoni non sono meno specialistici. A rendere i prestiti non adattati più tecnici sono
principalmente due fattori. Da una parte vi è la sensazione che un termine settoriale per essere
tale debba essere per forza ermetico, ostico e differire totalmente dalla lingua comune.
Dall’altra il fatto che spesso i tecnicismi endogeni, o in caso di polirematiche o perifrasi una
delle unità lessicali, siano polisemici fa sembrare il termine meno tecnico agli occhi del
parlante medio. Infatti, la presenza di significati più comuni accanto a quello specialistico li
rende apparentemente più trasparenti e immediati anche per il semplice amatore. Non va
tuttavia dimenticato che un tecnicismo non è per definizione difficile da comprendere e nulla
esclude che anche un termine il cui senso è in parte deducibile dal suo significato di base sia
settoriale. Parallelamente la monosemia dei prestiti inglesi conferisce loro una maggiore
esclusività settoriale.
L’esoticità dei termini, infine, permette di sollevare anche il testo dal punto di vista
espressivo, discostandolo dalla “banalità” di lessemi sentiti e risentiti. Lo stesso fascino del
nuovo che si attribuisce alle cose materiali sembrerebbe valere anche per l’uso delle parole.
Ciò a cui si è assistito è esattamente quanto viene riassunto nel passaggio seguente:
“Nel
passaggio
da
un
contesto
scientifico
a
un
contesto
divulgativo
[…]
la
riconoscibilità/percettibilità del termine come tecnicismo scientifico, garantita dalla “cornice”
strutturante, aumenta in funzione inversa alla sua trasparenza semantica. Il termine perde carica
informativa e acquista carica connotativa e prestigio; contemporaneamente, la carica informativa si
sposta dal termine alla glossa. (Gualdo 2007b: 49)
Come abbiamo potuto osservare per tutti i termini, la glossa esplicativa è però rara negli
articoli del Sole 24 Ore nei quali si tende a dare per scontato il significato degli anglicismi in
questione. È vero che il quotidiano si rivolge principalmente a un pubblico di esperti ma,
come premesso, il lettore del Sole 24 Ore è anche la persona comune, priva di solide nozioni
economico-finanziarie. Mancanza di spiegazioni e abuso di anglicismi costituiscono un mix
che rischia spesso di sfociare in una comprensione nebulosa o persino assente. A ciò si
affianca la tendenza a dare per scontato il significato di un termine non appena questo subisce
un’inflazione nell’uso. Averne sentito parlare e comprenderlo sono però due cose diverse e a
96
dimostrarlo è anche il fatto che, per diversi lessemi, a presentare delle incertezze sul
significato preciso siano persino gli estensori (v. spread, default, subprime). Tale ignoranza
porta a un annebbiamento dei confini concettuali del termine e di conseguenza alla
generalizzazione o a un uso improprio dello stesso, rendendo l’informazione confusa.
Prestigio e tecnicità concorrono a caricare il termine sotto il profilo connotativo e a farsi
portatori di significati e messaggi impliciti mirati a colpire il lettore. Non è un caso, infatti,
che si ricorra meno all’inglese laddove l’italiano è di per sé già abbastanza espressivo
(v. salvataggio, austerità).
Il quarto fattore a favore della scelta di termini d’oltreoceano riguarda il loro piano
morfologico. Tutti i termini analizzati, ad accezione di austerity, sono più brevi e concisi
rispetto ai corrispettivi italiani. Il loro impiego permette spesso di evitare un giro di parole
complesso e di ottenere al contempo un effetto stilistico molto più marcato. Talvolta a questa
caratteristica se ne aggiunge un’altra: l’iconocità fonologica del termine alloglotto
(v. credit crunch, spread). Gli equivalenti italiani sono perlopiù neutri da questo punto di
vista e un suono accattivante rende il lessema più immediato e facilmente impregnabile nella
mente del lettore.
Infine, la maggiore estraneità e lontananza dalle convenzioni linguistiche della lingua italiana
dei prestiti li rendono da una parte più atti ad adattarsi alla creatività linguistica e dall’altra più
duttili dal punto di vista del significato (v. spread).
Il comune denominatore dei motivi appena elencati è quella funzione comunicativa tipica
della stampa che coesiste con quella informativa: attirare l’attenzione del lettore per essere
letto, essere letto per vendere.
A differenza del quotidiano, nelle pubblicazioni ufficiali gli anglicismi sono in palese
minoranza. Si osserva infatti una maggiore regolamentazione e attenzione nell’uso della
lingua e una netta propensione all’uso di termini endogeni; ciò in parte anche grazie alla
presenza di un manuale redazionale che guida nella scelta dei termini. Gli unici anglicismi
molto usati sono rating e subprime. Non si tratta di un dato casuale: il primo è infatti un
termine penetrato da tempo nella lingua e che si è ormai affermato nell’uso specialistico,
mentre il secondo è privo di un corrispettivo italiano. Se i quotidiani rappresentano la porta
d’accesso per qualsiasi anglicismo, le pubblicazioni e traduzioni della Banca d’Italia
potrebbero essere viste come il punto d’arrivo di quelli che, dopo un percorso di affermazione
nella lingua più o meno lungo, riescono a entrare stabilmente nell’uso.
Dall’analisi non è emersa alcuna differenza degna di nota tra le scelte terminologiche degli
estensori delle pubblicazioni della Banca d’Italia e quelle dei traduttori delle pubblicazioni
97
della BCE. Tale omogeneità è principalmente ascrivibile al fatto che al processo traduttivo
segua un’importante fase di revisione, effettuata da esperti economisti della Banca d’Italia,
ognuno responsabile per le sezioni relative al proprio ambito di specializzazione, e una fase di
correzione da parte dei responsabili delle pubblicazioni (Calabrese 2013). Qualora le
traduzioni presentassero degli influssi del testo di partenza redatto in inglese, questi
verrebbero eliminati durante le fasi di revisione e correzione. Alcuni influssi sono comunque
stati rilevati come nel caso di stretta creditizia e austerità.
Questo atteggiamento completamente opposto a quanto osservato nella stampa è
principalmente riconducibile a due fattori. In primo luogo si conta la natura di questi testi: si
tratta di analisi e rapporti sugli andamenti economico-finanziari e sulle decisioni di politica
monetaria della banca centrale, per natura oggettivi e obiettivi. D’interesse è quindi solo il
piano denotativo delle parole. A ciò si ricollegano i motivi per cui le due banche centrali in
questione comunicano: da una parte vi è l’obbligo di rendiconto circa il proprio operato e
dall’altra la trasmissione dell’impulso monetario. Le banche centrali devono pertanto da un
lato risultare credibili e quindi essere trasparenti e dall’altro trasmettere i propri messaggi nel
modo più preciso e chiaro possibile (Calabrese 2013b). Ogni parola, infatti, pesa nell’influsso
che le comunicazioni hanno sugli andamenti economici e finanziari. Ciò è diventato molto più
marcato dopo lo scoppio della crisi finanziaria e del debito sovrano dal momento che
l’operato delle banche centrali dell’area dell’euro è tornato in primo piano e che la BCE ha
dovuto crearsi un proprio ruolo al di là di quello istituzionale, diventato importantissimo e
soprattutto altamente determinante. Ecco perché il loro modo di esprimersi è oggi talmente
importante e perché è necessario soppesare gli effetti di ogni frase e parola. Un esempio
recente ed eclatante è indubbiamente la frase pronunciata da Mario Draghi il 26 luglio 2012:
“The ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro”. Questa breve affermazione è
bastata a riversare grande speranza e ottimismo nei mercati, che hanno subito registrato forti
rialzi mentre i differenziali di rendimento dei paesi periferici europei si sono improvvisamente
abbassati74. In altri termini se un singolo articolo di giornale è una goccia nel mare del
giornalismo in cui le modalità di espressione che lo contraddistinguono si perdono, i messaggi
veicolati dalle pubblicazioni ufficiali rimangono ben ancorati nei mercati e non vengono
facilmente dimenticati.
Talvolta l’influenza dell’inglese e del gergo giornalistico riesce comunque a farsi sentire
come dimostra l’uso di austerità, salvataggio e rating. Ciononostante il tradizionale rigore
74
Per un approfondimento e ulteriori esempi si veda Peca 2013.
98
linguistico e redazionale della Banca d’Italia rimane nel complesso inalterato, seppur sembri
occasionalmente cedere all’influsso d’oltremanica.
Quanto riassunto finora ci permette di giungere alla seconda conclusione del presente lavoro,
ovvero che le pubblicazioni ufficiali, di per sé altamente tecniche e rivolte a un pubblico di
specialisti, risultano spesso paradossalmente più comprensibili di numerosi articoli di giornale
il cui bacino d’utenza è molto più ampio. Concorre a ciò il fatto che gli autori delle prime,
così cauti e precisi, forniscano indirettamente molti più aiuti al lettore di quanto non facciano
i giornalisti. Vengono infatti usati principalmente termini italiani, i quali in alcuni casi
possono già dare un indizio per la comprensione anche a un non specialista, specificano
sempre in modo preciso a cosa si faccia riferimento quando questo è ambiguo e preferiscono
perifrasi descrittive a termini brevi e riassuntivi, inglesi o italiani che siano. La principale
preoccupazione degli estensori delle pubblicazioni ufficiali è la chiarezza e la precisione del
messaggio, anche a costo di formulazioni lunghe, macchinose o ridondanti. Il Sole 24 Ore,
invece, come la gran parte dei quotidiani, privilegia una prosa brillante e accattivante, anche
al prezzo di infarcire le notizie di termini alloglotti privi di spiegazioni e inseriti talvolta con
pressapochismo, nonché immagini e metafore d’effetto al posto di precisazioni più
scientifiche. Tutto ciò rappresenta a volte un ostacolo alla trasmissione del messaggio, che
fatica a passare arrivando in modo più confuso.
Ciononostante anche l’utilizzo di soli termini italiani non rappresenta sempre la soluzione
ideale. Infatti il linguaggio delle pubblicazioni ufficiali, così rigido e refrattario ai
cambiamenti, è considerato spesso eccessivamente protettivo dagli esperti, i quali, immersi in
una realtà economico-finanziaria ormai fortemente anglosassone, trovano certi lessemi italiani
estranianti e preferirebbero l’uso di determinati anglicismi. Stabilire cosa sia giusto o
sbagliato è tuttavia pressoché impossibile. A nostro avviso la penetrazione di termini inglesi
non è pericolosa per la lingua italiana, al contrario è un arricchimento, peraltro inevitabile, a
cui si assiste da secoli. Ciononostante, come ogni cosa benefica, il loro utilizzo portato
all’eccesso può rivelarsi dannoso e, nel presente caso, pregiudicare la qualità dei testi.
Ugualmente complesso, se non impossibile, è anche determinare quale sia il giusto equilibrio.
Sulla base dell’analisi effettuata e delle riflessioni che ne sono emerse riteniamo che un buon
punto di partenza per effettuare una scelta terminologica sia chiedersi puntualmente se esiste
un corrispettivo italiano e, in caso affermativo, se questo è ancora nell’uso o se è stato ormai
soppiantato dall’inglese. Quindi, la seconda domanda da porsi è se l’uso di un prestito non
adattato apporti veramente un valore aggiunto alla comunicazione, che vada oltre il mero
piano snobistico. È bene poi decidere valutando prima con criterio anche il pubblico, la
99
funzione comunicativa del testo e il potenziale grado di chiarezza del messaggio che ne
risulta. L’inglese può infatti rappresentare un modo per ovviare alla presenza di sinonimi in
italiano (v. credit crunch) ma anche produrne di nuovi (v. spread). È pertanto importante
soppesare anche se la scelta del forestierismo contribuisca a una maggiore trasparenza o se
renda invece la definizione del concetto più nebulosa. È utile infine non dare per scontata la
comprensione di un termine solo perché “di moda” e, in base al grado di attestazione dello
stesso, riflettere sulla possibilità di accompagnarlo con una glossa esplicativa la prima volta
che compare nel testo.
Le stesse riflessioni vanno fatte anche da un traduttore economico e/o finanziario che non può
permettersi di lasciare i termini più tecnici nella lingua d’origine solo partendo dal
presupposto che il LEF sia ormai estremamente esposto alla lingua inglese. Inoltre, data la
rapidità e la frequenza con cui muta il linguaggio economico e finanziario, a un buon
traduttore sarà utile essere sempre informato sugli eventi in corso nel settore dal momento che
la lettura gli permetterà di mantenersi aggiornato anche sui mutamenti altrettanto celeri del
linguaggio. La presente analisi dimostra che per fare ciò, così come per cercare riscontri
linguistici in sede di traduzione, è importante basarsi su più tipologie testuali. Non limitarsi a
un’unica fonte permette infatti di avere una visione più ampia del ventaglio di possibilità che
la lingua offre in quel determinato momento e di scegliere le proprie soluzioni traduttive con
maggior cognizione di causa.
Infine, come dimostra l’esempio della resa di subprime nella versione italiana delle
pubblicazioni della BCE , la traduzione non è solo fonte di proliferazione sinonimica ma
altresì di uniformazione. Affinché si possa arrivare a un risultato analogo anche a livello di
lingua, però, deve esserci un minimo di inquadramento. Da qui l’utilità di continuare a
promuovere una maggior regolamentazione nell’ambito della terminologia e della traduzione
settoriale.
100
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